Ministra Cartabia, usiamo il Recovery Fund per “liberare” il carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 aprile 2021 Appello alla ministra Cartabia per l’emergenza Covid che ha aggravato l’effetto desocializzante, con grandi difficoltà anche tra i detenuti e i loro bambini. Ministra Cartabia, con lei abbiamo una occasione per riformare radicalmente il nostro sistema penitenziario. Un evento del genere potrebbe riproporsi, per essere ottimisti, tra cinquant’anni. L’ideologia carcerocentrica, alimentata dal populismo penale, si è consolidata sempre di più. L’attuale classe politica, invece di innalzare la società, l’ha sprofondata. D’altronde non ci sono nemmeno più le élite culturali di una volta. Un tempo la classe intellettuale dava la precedenza al diritto e all’ideale di giustizia rispetto alla loro persona, al loro egoismo di gruppo, ma soprattutto agli istinti naturali del popolo. Ora l’élite culturale si preoccupa di sedurre, quindi viene meno alla sua funzione. L’effetto ottenuto è quello di dare sponda alla politica attuale che offre soluzioni semplici a problemi complessi. C’è sovraffollamento? Costruiamo nuove carceri. Alcuni giornali hanno montato polemiche sul falso scandalo “scarcerazioni”? Facciamo un decreto per far ritornare tutti dentro. C’è la corruzione? Introduciamo il 4 bis, articolo nato durante l’emergenza stragista, come se si trattasse di mafia o terrorismo. Lei, ministra ha sottolineato che il carcere deve essere l’extrema ratio - Lei, ministra della Giustizia Marta Cartabia, ha rotto con questa narrazione. Non ha assecondato i luoghi comuni come la “certezza della pena” svuotata del suo vero significato, ha chiarito una volta per tutte che il carcere non è l’unica effettiva risposta del reato. Non solo. Ha anche sottolineato che l’istituto penitenziario ha effetti desocializzanti, per questo deve essere l’extrema ratio. Parole importantissime, di alto spessore, mai sentite dalle persone che ricoprono vertici istituzionali. Oggi queste parole, perfettamente in linea con il dettato costituzionale, appaiono rivoluzionarie. Le parole sono importanti. Che la vita in carcere è di fatto alienante e quindi disumana, oramai è certificato. Non diventa più una questione di denuncia, ma un modo per riflettere su come uscirne. Per attuare la riforma dell’ordinamento penitenziario ci vuole un percorso lungo (augurandoci che non rimanga nuovamente nel limbo), però è possibile offrire soluzioni anche nell’immediato. Vanessa ha pochi anni e non vede in padre detenuto da più di un anno - Ma questo è un giornale, quindi ripartiamo inevitabilmente dai fatti. Attualmente i contagi nel carcere sono ritornanti a crescere. I focolai si sono riattivati in istituti penitenziari già attraversati dal Covid 19. Tutto questo quando oramai le carceri sono blindate, chiuse ad ogni attività esterna. Se già il carcere è desocializzante, ora lo è ancor di più. I bambini non vedono dal vivo i propri padri reclusi in carcere da oramai un anno. Ci sono casi che creano problemi enormi alla psiche dei bimbi. C’è Vanessa, madre di una bimba di pochi anni che non vede il padre detenuto nel carcere di Monza da quando è scoppiata la pandemia. “Come si può paragonare una videochiamata con un contatto fisico?”, racconta a Il Dubbio. “Mia figlia sta crescendo con un trauma psicologico, mi ha contatta il suo maestro perché è scoppiata in un pianto. Ha avuto una crisi e fortunatamente l’insegnante l’ha calmata facendole fare un disegno per il papà”. Non è l’unico caso, in tante altre carceri la situazione è identica. “Ma è normale che un bambino debba soffrire così tanto? O sarà che anche i figli dei detenuti sono il rifiuto della società?”, si chiede amaramente Vanessa. I “memento” a via Arenula di Rita Bernardini - Eppure delle soluzioni ci sarebbero, come hanno provveduto le Rsa con le stanze per gli abbracci, in tutta protezione. Gli anziani hanno bisogno di affetto, calore umano. Così come i bambini. Con la differenza che quest’ultimi rischiano di subire traumi destinati ad avere conseguenze sulla loro crescita. Il sovraffollamento persiste, le misure introdotte dall’allora guardasigilli Bonafede sono risultate del tutto insufficienti, e con tanti, troppi paletti dettati dalla paura di scontentare l’opinione pubblica disinformata dai mass media. Senza dimenticare la pressione che hanno subito i magistrati di sorveglianza. C’è Rita Bernardini del Partito Radicale che oramai da più di un mese fa la sua giornaliera “ora d’aria” davanti al ministero di Via Arenula. Servono misure alternative più incisive - Le proposte sono sempre quelle, ovvero l’applicazione di misure alternative più incisive. Basterebbe prendere in esame quegli emendamenti già proposti da Roberto Giachetti di Italia Viva e da Franco Mirabelli del Pd. Misure sostenute anche dai garanti territoriali dei detenuti, in primis da quello Nazionale. Parliamo della liberazione anticipata speciale, magari nei confronti anche dei condannati per i delitti che rientrano nel 4 bis, quelli ostativi. Parliamo di una misura praticabile: 75 giorni di sconto di pena anziché 45 ogni sei mesi, com’è già avvenuto sei anni fa. Ci rivolgiamo ai profani: parliamo di un beneficio previsto dalla legge penitenziaria per cui chi si comporta bene, quindi non ha rapporti negativi o sanzioni disciplinari, e partecipa all’offerta di attività proposte dall’amministrazione, può vedersi riconosciuto dal giudice di sorveglianza uno sconto di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata correttamente. Quella speciale aumenta di 20 giorni lo sconto di pena. Ovviamente non basta. Bisognerebbe applicare in modo estensivo e razionale le misure alternative anche nei confronti di soggetti più deboli. Ovvero gli psichicamente fragili, tossicodipendenti, alcoldipendenti e i senza fissa dimora. Secondo il rapporto Antigone sono 19.040 i detenuti con un residuo pena inferiore ai tre anni - L’ultima relazione al Parlamento del Garante nazionale delle persone private della libertà rende bene l’idea. Ad esempio c’è una difficoltà estrema di applicazione della misura alternativa alle persone senza una stabile dimora e impossibilitate a usufruire per tale motivo di quanto normativamente previsto. Il permanere in carcere di 962 persone (dato di qualche mese fa) che sono state condannate a una pena inferiore a un anno è indicatore eloquente di tale criticità. Senza contare dell’ultimo dato emerso dal rapporto di Antigone “Oltre il virus”: ben 19.040 sono i detenuti con un residuo pena inferiore ai tre anni, dunque potenzialmente ammissibili a una misura alternativa alla detenzione. Se solo metà di loro ne fruisse avremmo risolto parte del problema dell’affollamento carcerario italiano. Ecco perché non basta una norma scritta, ma servono anche i soldi per implementare le strutture o comunità in grado di offrire ospitalità a chi non ha alcuna garanzia per poter usufruire di misure alternative al carcere. L’opportunità del Recovery Fund - Il Recovery Fund è una opportunità unica per destinare fondi in tal senso. In carcere le persone costano molto di più, mentre all’esterno non solo costano di meno, ma farebbe muovere addirittura l’economia dando lavoro, ad esempio, agli operatori di comunità. Stesso discorso per i detenuti tossicodipendenti. Al di là delle eventuali responsabilità penali tuttora da accertare, i 13 detenuti morti per overdose durante le rivolte carcerarie hanno messo a nudo il problema della droga che pervade il carcere. L’esplosione di una situazione di tensione si è concentrata poi nel procurarsi sostanze: forse è arrivata l’ora di pensare ad altri percorsi anche per questi detenuti. Chiaro che delinquono per un discorso legato alla loro tossicodipendenza. Risolte queste problematiche, concentrando le risorse e nuovi percorsi penali verso i sistemi comunitari, accadrà proprio questo: non solo saremo costretti a chiudere tantissime carceri, ma si risparmierebbero tanti soldi che possono essere destinati per risolvere il progressivo smantellamento delle reti protettive territoriali che dovrebbero dare supporto alle persone socialmente più deboli. Significa rendere il nostro Pese più sicuro, più equo e rispettoso dei diritti umani. Questa è una occasione unica. Perfino la pandemia, il male del nostro tempo, può essere una occasione per cambiare in meglio. D’altronde la nostra cara Costituzione, come disse Calamandrei, è nata nelle carceri dove vennero imprigionati i partigiani. Ed è sempre la stessa che ci indica quale direzione intraprendere. Ora serve che lei, ministra Cartabia, accompagni il nostro Paese in quella che rimane l’unica via possibile. Prima che sia troppo tardi. Mauro Palma: “Nelle carceri vaccinazioni a rilento, bisogna fare molto di più” di Ruggiero Montenegro Il Foglio, 2 aprile 2021 I detenuti vaccinati sono solo l’8,6 per cento, troppo poco: “Le regioni procedono in ordine sparso, occorre maggior coordinamento centrale”, spiega il garante. Va meglio tra gli agenti, secondo i sindacati “la campagna ora procede a buon ritmo”. “La situazione è preoccupante, ma nessun allarme”. Ci si muove a rilento e con sensibili differenze a livello territoriale, ma la campagna di vaccinazione nelle carceri prosegue e accelera: nell’ultima settimana le dosi somministrate tra i detenuti sono state oltre 2.000, mentre in tutto il periodo precedente, quindi a partire all’incirca dalla metà di febbraio, i vaccini inoculati erano stati soltanto 2.500. Un cambio di passo incoraggiante, ma di certo non sufficiente: “Bisogna fare molto di più, perché si procede ancora lentamente”, ci dice Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale che, intervistato dal Foglio, fa il punto della situazione, dopo la pubblicazione del report settimanale del ministero della Giustizia: al 29 marzo, la quota di detenuti vaccinati si attesta all’8,6 per cento. Una quota ancora troppo bassa, dovuta alla diversa capacità dei territori di reagire all’emergenza e di mettere in campo una risposta non sempre adeguata. “Quello che a me colpisce della situazione nelle carceri è il doppio passo che si registra tra diverse regioni, come peraltro avviene anche all’esterno”, spiega il garante, che descrive dinamiche per certi versi sorprendenti: “La regione che si sta muovendo meglio è la Lombardia, mentre sappiamo bene che al di fuori delle carceri è una di quelle che ha riscontrato le maggiori difficoltà. Come pure va bene in Sicilia”, che negli ultimi giorni è finita al centro delle cronache per i presunti dati truccati dei contagi. In generale, secondo Palma è possibile riscontrare tre diversi movimenti: “Ci sono regioni che stanno andando bene, come Lombardia e Sicilia, appunto, ma anche l’Abruzzo e negli ultimi giorni la Puglia. Ed è discretamente posizionato il Veneto”. È all’operato di queste regioni che si deve principalmente l’aumento dell’ultima settimana. “Poi ci sono le regioni come Toscana, Lazio e Molise, dove si attende il siero Johnson & Johnson - che dovrebbe essere disponibile in Italia da metà aprile - perché si è ritenuto più funzionale e veloce ricorrere a un tipo di vaccino che non ha bisogno della dose di richiamo, come nel caso di AstraZeneca”. Queste regioni sono ancora a zero, “ma vedo un forte impegno dei provveditorati ad allestire la campagna di vaccinazione”. C’è infine, una terza categoria in cui la situazione è più critica e dove occorre al più presto organizzarsi. “In particolare, ho avuto dubbi su come si è mosso il Piemonte, da dove sono arrivate dichiarazioni piuttosto incaute da parte del commissario regionale - la gestione delle Carceri risulta attualmente commissariata - secondo cui la regione sarebbe intervenuta rapidamente laddove si fosse verificato un cluster. Ma bisogna vaccinare preventivamente, non dopo. E su quest’aspetto attendo dal presidente Alberto Cirio un chiarimento”. “Maggiore coordinamento centrale” - Si va dunque in ordine sparso, riproponendo anche nella campagna vaccinale nelle carceri quelle disfunzioni che hanno caratterizzato anche il rapporto tra stato e regioni durante tutta la gestione della pandemia. E che forse suggeriscono la necessità di un approccio diverso: “Non vorrei essere accusato di centralismo, ma sulle forme di decentramento della sanità, quando questa esperienza sarà finita, dovremo riflettere. Perché non tutto ha funzionato. E dovremo riflettere non per andare verso un centralismo forzato, ma verso un coordinamento maggiore. Un conto è la prossimità nella fornitura dei servizi, e quindi lo loro organizzazione locale. Un altro conto è la centralità degli elementi decisionali”, aggiunge ancora Mauro Palma. Un ulteriore aspetto potenzialmente critico per la campagna di vaccinazione negli istituti riguarda poi gli stessi detenuti, la volontà effettiva di sottoporsi alla somministrazione: “Si conta all’incirca un 10-12 per cento tra le persone recluse che ha rifiutato. Un dato identico a quello che registrato al di fuori dei penitenziari”, dovuto all’influenza dei media e al caso AstraZeneca, spiega ancora il garante. Quanto ai contagi, “ieri sera i detenuti positivi erano 681, di questi riscontravano sintomi in 12 mentre 18 risultano ricoverati. Ci sono delle situazioni con dei numeri abbastanza significativi, come a Reggio Emilia, Catanzaro, nel settore femminile di Rebibbia e ad Asti”. Si tratta però di bolle che “se affrontate con i giusti metodi, se si è in grado di isolare, possono essere agevolmente sgonfiate. La situazione è preoccupante ma non condivido i toni allarmanti”, ha concluso Palma. La campagna di vaccinazione tra gli agenti penitenziari - Il report del ministero di Giustizia offre anche un’istantanea della situazione tra gli agenti di polizia penitenziaria: lunedì scorso risultava vaccinato il 36,8 per cento del personale. Un numero ben diverso rispetto a quello dei detenuti e dovuto al fatto che già dal primo piano vaccinale, la polizia era stata inserita tra le categorie a rischio. Tuttavia, anche in questo caso “le vaccinazioni procedono su base territoriale, quindi con alcune differenze”, spiega al Foglio Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziari. “La campagna ora procede a buon ritmo - continua Capece - con oltre 13 mila agenti vaccinati. C’è stato soltanto un po’ di sbandamento in concomitanza della sospensione temporanea del vaccino AstraZeneca: una parte di agenti si è detta preoccupata e non sicura di volersi vaccinare. Ma dopo l’approvazione di Aifa, il caso è rientrato”, conclude. La stessa impressione trova conferma anche a livello locale, nelle parole di Gennaro Ricci, segretario regionale Cgil Puglia per la funzione pubblica - polizia penitenziaria: “C’è stata un po’ di diffidenza, ma come in tutta Italia. I dubbi riguardano gli agenti quanto le persone al di fuori delle carceri. Ha giocato un ruolo l’influenza dei media, è successo quello che è successo a chiunque”. Stefano Anastasìa: “Covid e carceri, rischio dal sovraffollamento, serve campagna vaccinale” di Alessio Ramaccioni meteoweek.com, 2 aprile 2021 La pandemia di Covid colpisce duramente anche e soprattutto nelle carceri: secondo Stefano Anastasia, Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, servirebbe subito una vaccinazione di massa per detenuti ed operatori. Ma non solo. In carcere si vive in tanti in poco spazio. Si utilizzano bagni e docce in comune. Gran parte di chi è detenuto non è in buone condizioni di salute. Gli ambienti carcerari non sono “impermeabili”, anzi: ci vuole poco a portare il virus dentro, ed è quasi automatico poi che esploda un focolaio. Condizioni che, sulla carta, imporrebbero un intervento immediato delle autorità sanitarie, e non solo: vaccini rapidi e di massa, magari un alleggerimento del numero dei detenuti per limitare il sovraffollamento. Ma questo finora non è avvenuto, complice anche un atteggiamento della politica più rivolto agli umori della popolazione - che “non capirebbe” un intervento prioritario nelle carceri - che alla realtà dei fatti. Ne abbiamo parlato con Stefano Anastasìa, Garante dei diritti dei detenuti del Lazio: l’intervista - che potete guardare integralmente nel video - è a cura di Valentino De Luca. Anastasìa, cosa significa avere il Covid o comunque interagire e difendersi dalla pandemia all’interno di una detenzione carceraria? “All’interno degli istituti di pena riuscire a rispettare le norme di igiene e prevenzione è molto difficile. Non tanto per l’uso dei DPI, ormai distribuiti ovunque, e a disposizione. La difficoltà è legata alle condizioni di sovraffollamento delle strutture, alla loro fatiscenza: fattori che determinano una situazione di igiene molto precaria. Nella maggior parte degli istituti di pena del Lazio, ad esempio, ci sono le docce in comune. La presenza di un solo asintomatico, che però convive con decine di altre persone quotidianamente, rende molto facile l’esplosione di un focolaio. Si tratta di strutture dove si vive in maniera comunitaria, sovraffollate e con un livello igienico decisamente bass0”. Eppure l’ipotesi della vaccinazione di massa all’interno delle carceri non sembra essere molto popolare, a livello politico. “La natura stessa delle carceri rende la diffusione del virus particolarmente facile, anche in maniera aggressiva. Non dobbiamo dimenticare che spesso le persone detenute hanno storie di cura e di assistenza sanitaria molto precarie. Si tratta di persone che hanno vulnerabilità rilevanti. Come le RSA, d’altronde: strutture comunitarie che ospitano persone fragili. Stesso ragionamento va fatto per le carceri. Ed è curioso che questa priorità non sia stata individuata subito. Scelta riferibile, ahinoi, ad una diffidenza nei confronti delle carceri e dei detenuti: si ritiene che l’opinione pubblica possa non comprendere e non essere favorevole ad un intervento di vaccinazione di massa negli istituti di pena. Ma la tutela della salute ovviamente vale per tutti, non può lasciare fuori nessuno, è universale. E nelle condizioni in cui si vive in carcere il vaccino va fatto subito: ai detenuti ed agli operatori. Anche perché, oltre alla salute, c’è altro: le attività sono quasi tutte interrotte, e molti detenuti non vedono i loro familiari da un anno”. Quali altre soluzioni, oltre ai vaccini, ci sarebbero per rendere più gestibile la situazione? “Sono le questioni per le quali ci siamo battuti, senza grande ascolto da parte del governo e anche della magistratura: a partire dalla riduzione delle presenze di detenuti in carcere”. Giovanni Fiandaca: “È da lombrosiani pensare che se non ti penti sei mafioso per sempre” di Angela Stella Il Riformista, 2 aprile 2021 Davigo, Caselli, Di Matteo, la schiera dei difensori dell’ergastolo ostativo è più agguerrita che mai. A pochi giorni dalla decisione della Consulta ne abbiamo parlato col famoso giurista, che dice: “Assurdo piegare la Costituzione alla logica dell’antimafia”. A pochi giorni dalla decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo, in particolare sulla norma che preclude la liberazione condizionale per i detenuti non collaboranti, riflettiamo insieme a Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale presso l’Università di Palermo e garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia, sulle polemiche scaturite recentemente soprattutto da parte della magistratura antimafia. In particolare, in merito alle dichiarazioni di Nino di Matteo, Fiandaca ci dice: “Egli assolutizza in maniera incondizionata la lotta alle mafie, finendo implicitamente anche col leggere tutta la Costituzione sub specie mafiae o meglio sub specie anti-mafiae: il che non sembra costituzionalmente plausibile e ragionevole”. Professore innanzitutto come giudica la posizione assunta dall’Avvocatura dello Stato la scorsa settimana davanti ai giudici costituzionali chiamati a decidere nuovamente sull’ergastolo ostativo? È verosimile che l’Avvocatura dello Stato abbia preso atto della fondatezza difficilmente contestabile delle argomentazioni poste alla base della eccezione di costituzionalità sollevata dalla Corte di Cassazione. Del resto, queste argomentazioni derivano da un coerente sviluppo dei principi affermati dalla stessa Corte Costituzionale nella ormai celebre sentenza 253/2019 in tema di ergastolo ostativo e permessi premio. Qualcuno sospetta anche che l’Avvocatura dello Stato abbia potuto ricevere un input da parte della Ministra Cartabia, una costituzionalista notoriamente sensibile ai diritti fondamentali dei detenuti e quindi anche ad un eguale riconoscimento del diritto alla rieducazione a prescindere dal fatto che si tratti di detenuti comuni o detenuti mafiosi. Ritiene che il tempo che si sono presi i giudici per decidere dopo Pasqua possa anche derivare dalla pressione mediatica che si è scatenata al termine dell’udienza? Non ho elementi per affermarlo né per escluderlo. In realtà la questione oggetto di decisione è molto impegnativa e come sappiamo all’interno della stessa Consulta non c’è piena concordanza di vedute sull’ergastolo ostativo, come è anche emerso in occasione della precedente sentenza costituzionale; per cui è possibile che i tempi lunghi di elaborazione della decisione non siano dovuti soltanto al peso esercitato da pressioni e preoccupazioni esterne. In un articolo di due giorni fa sul Fatto Quotidiano Piercamillo Davigo ha scritto: “Quando si considera che cosa è accaduto a magistrati italiani nonostante le protezioni, sarà possibile far comprendere perché, qui e ora, sia preferibile che in questa materia la discrezionalità del giudice sia sostituita dal divieto di legge, per evitare minacce e pressioni irresistibili su coloro che devono decidere o sui loro familiari. Almeno finché ci saremo liberati dalle mafie”. Che ne pensa di questa affermazione? Ho letto l’articolo di Piercamillo Davigo, il quale peraltro muove un’obiezione tipica e ricorrente della magistratura antimafia maggioritaria. Ma si tratta di una obiezione che se fosse valida dovrebbe valere non solo per i magistrati di sorveglianza ma per tutti i magistrati - sia pubblici ministeri, sia giudici che trattano delitti di mafia. Su ogni magistrato incombe infatti il rischio di essere ucciso a causa di indagini, provvedimenti o decisioni sgradite al potere mafioso. E poi paventare i rischi di condizionamento o di minacce e pressioni irresistibili soprattutto in relazione alla discrezionalità valutativa dei magistrati di sorveglianza fa trasparire una sfiducia o diffidenza preconcetta verso questa categoria di magistrati, come se fossero di serie b ma si tratta di una discriminazione negativa ingiustificata ed ingiusta. Sempre dal Fatto Quotidiano si é espresso Gian Carlo Caselli: “La realtà esclude in modo assoluto che lo status di uomo d’onore possa mai cessare, salvo che nell’ipotesi (unica!) di collaborazione processuale. In assenza del pentimento le decisioni del magistrato di sorveglianza (oltre a comportare una forte sovraesposizione personale) rischiano di essere una sorta di azzardo surreale. Come si concilia questo con il diritto alla speranza? Con tutto il rispetto per Gian Carlo Caselli, anche lui ribadisce una convinzione consolidata dell’antimafia giudiziaria, cioè che non possa esservi credibile rieducazione del mafioso senza collaborazione giudiziaria. Ma non è così per diverse ragioni che sarebbe lungo esplicitare in questa intervista. E la stessa realtà vissuta e giudiziaria a dimostrare che in più di un caso il rifiuto di collaborare con la giustizia è dovuto a motivazioni psicologiche, come ad esempio la paura di ritorsioni, o a ragioni di coscienza, come ad esempio l’indisponibilità a denunciare persone care, ben compatibili con un maturato ravvedimento. Ritenere invece che il mafioso resti interiormente mafioso per sempre, a meno che non si penta e diventi collaboratore, equivale a riproporre vecchi schemi da criminologia positivista ottocentesca se non addirittura lombrosiana. E significa oltretutto contraddire la visione antropologica a sfondo più ottimistico che pessimistico sottostante al principio costituzionale di rieducazione: secondo la Costituzione, infatti, nessun uomo è perduto per sempre e ogni delinquente è potenzialmente capace di cambiamento e miglioramento. Una reazione dura è stata anche quella del consigliere del Csm Nino Di Matteo: “Poco alla volta, nel silenzio generale, si stanno realizzando alcuni degli obiettivi principali della campagna stragista del 1992-1994 con lo smantellamento del sistema complessivo di contrasto alle organizzazioni mafiose ideato e voluto da Giovanni Falcone. Un’eventuale sentenza di accoglimento della Consulta, infatti, aprirebbe la strada di fatto alla possibile abolizione dell’ergastolo, cioè uno dei punti inseriti nel papello di Totò Riina, la lista di richieste allo Stato per fermare le stragi del 1992 e 1994”. Non le sembra esagerato ipotizzare un simile scenario? La posizione di Di Matteo è ben nota. A parte il radicato pregiudizio anti-trattivistico, egli assolutizza in maniera incondizionata la lotta alle mafie, finendo implicitamente anche col leggere tutta la Costituzione sub specie mafiae meglio sub specie anti-mafiae il che non sembra costituzionalmente plausibile e ragionevole. Perché a certi magistrati sfugge la cornice complessiva di un diritto penale costituzionalmente orientato? La loro è pure demagogia o mancanza di cultura garantista? Tra i nodi problematici della giustizia penale italiana vi è la mancanza di una concezione sufficientemente condivisa dei principi e valori del costituzionalismo penale: a seconda che si rivesta il ruolo di magistrato giudicante, magistrato d’accusa, magistrato antimafia, o magistrato che si occupa di criminalità comune, il bilanciamento tra le esigenze della tutela della sicurezza e della difesa sociale dalla criminalità da un lato, e le garanzie e diritti individuali dall’altro viene compiuto in modo differenziato. Ho più volte rilevato in riviste specialistiche che, se può risultare proficua una articolazione di orientamenti che si mantenga nei limiti di un pluralismo moderato e ragionevole, è invece dannoso e non poco disorientante agli occhi dei cittadini un pluralismo sfociante in contrapposizione tra culture giudiziarie così agli antipodi da risultare inconciliabili. Su questo eccesso di pluralismo dovrebbe intervenire e lavorare la Scuola della Magistratura sul piano della formazione culturale e tecnica dei magistrati. Le associazioni delle vittime di mafia, opponendosi ad una possibile decisione di incostituzionalità, hanno voluto sottolineare che stanno ancora piangendo le morti definitive dei loro familiari. Come si può replicare? Ho molta comprensione e rispetto per il dolore e le ferite delle vittime. Ma purtroppo anche per esperienza personale ho sperimentato che la punizione severa del colpevole non è una medicina risolutiva, perché reca un sollievo superficiale e poco duraturo. In realtà nel cuore delle vittime si agitano sentimenti complessi e contraddittori. Per questo tra noi studiosi è affiorata anche l’idea che occorrerebbe creare un nuovo binario per la rieducazione delle vittime, ma da affidare alla competenza di esperti psicologi in grado di aiutare ad elaborare il dolore con strumenti psicologicamente adeguati. In ogni caso, un approccio accentuatamente vittimo-centrico comporta il rischio di una privatizzazione della risposta penale, mentre lo Stato che punisce è costituzionalmente tenuto a mediare tra valori ed esigenze concorrenti a favore, piaccia o non piaccia, anche dei colpevoli. Quattro carcerati su dieci soffrono di disturbi mentali di Giulia Sorrentino Libero, 2 aprile 2021 Le condizioni delle prigioni aggravano ulteriormente i sintomi: il 27% è in terapia. Un appello al governo sulla questione è stato firmato tra gli altri da Feltri e Costanzo. Il caso di Fabrizio Corona continua a tenere banco, sia per le novità legate alla presunta sospensione del suo sciopero della fame (su supplica delle persone a lui più vicine) sia per quanto riguarda il suo disturbo psichiatrico severo. Ma quanti sono i detenuti con questi disagi? Secondo i dati forniti da Irene Testa, tesoriere del Partito Radicale e conduttrice radiofonica della rubrica “Lo stato del diritto”, i detenuti affetti da disturbi psichici si aggirano attorno al 41,3% di cui il 27% è in terapia psichiatrica ed il 14% è in trattamento per dipendenze, su un totale di 53.697 carcerati (febbraio 2021). Ma in quali condizioni versano? E quali sono i pericoli maggiori? Secondo i dati dell’associazione Antigone, sui 98 istituti visitati, solo in 59 penitenziari c’è la presenza medica della durata di 24 ore, e solo 57 istituti contemplano almeno 8 ore d’aria; 29 non garantiscono sempre adeguata areazione e accesso alla luce del giorno nelle celle, in 45 non è costantemente presente acqua calda nella stanza di pernottamento, 25 non garantiscono almeno 3 metri quadrati a detenuto. Condizioni precarie per chiunque, figuriamoci per chi ha dei disturbi così importanti. In questo senso, è lo stesso Istituto Superiore di Sanità a stabilire quanto sia importante la condizione ambientale nello sviluppo della malattia mentale: “Sulla salute mentale agiscono sia fattori genetici che esposizioni ambientali concomitanti i cui effetti possono modificarsi reciprocamente in modo complesso”, scrive l’Iss. “L’ambiente può infatti influenzare attraverso modifiche chimiche il modo in cui il Dna viene letto e trascritto. Quando gli effetti genetici sono modulati da fattori esogeni, ad esempio stili di vita, esistono opportunità di prevenzione e di promozione della salute mentale”. “Sotto questo punto di vista, c’è una scarsissima tutela della malattia mentale e non si tiene conto di in un ambiente ostile come il carcere nel progredire della malattia”, spiega Irene Testa. Ne è convinto anche il Professor Paolo Capri, presidente dell’Associazione Italiana di Psicologia Giuridica: “Siamo di fronte a pazienti con una sofferenza importantissima che vanno inevitabilmente curati. È chiaro che l’aspetto detentivo non può che peggiorare una situazione del genere. Non rimane neutrale il paziente, ma sta peggio”. Il diritto alla salute e alla vita sono principi cardine della nostra Costituzione. Non esiste nella giustizia una centralità delle neuroscienze, della neurologia e della psichiatria. E manca spesso un riesame della detenzione alla luce del peggioramento della condizione psicofisica. I disturbi di personalità di varia natura e tipologia, il disturbo bipolare ole psicosi alterano molto spesso le scelte che l’individuo compie e il suo senso della realtà. “Apparentemente i soggetti in questione possono sembrare solo instabili o affetti da problematiche affettive”, dice il professore Capri. “Ma non è un problema solo di affettività perché queste persone hanno proprio un problema di gravi scompensi che si avvicinano al quadro psicotico, ovvero una situazione in cui si possono presentare gravi dissociazioni. È per questo che l’aspetto psichiatrico e psicologico andrebbe seguito con estrema cautela ed attenzione. Non può mai essere tralasciato”. La punizione secondo gli psichiatri dovrebbe essere modulata sulla base della malattia, non solo della legge che non può più camminare da sola. Ci dovrebbe essere un lavoro di equipe che prevenga i suicidi, la cui stima è di 11.4 ogni 10.000 detenuti (Antigone), o i casi di autolesionismo che solo nel 2018 hanno riguardato 10.368. È in virtù dell’amore per la scienza, della protezione dell’intera popolazione penitenziaria e del profondo senso di umanità che dovrebbe accompagnare le vicende giuridiche che Irene Testa sta promuovendo un appello del partito radicale (sottoscritto da personaggi di spicco come Vittorio Feltri, Maurizio Costanzo, Annamaria Bernardini De Pace, l’ex Guardasigilli Claudio Martelli e molti altri, oltre che da chi scrive) sul tema del disagio mentale in carcere, rivolto alla ministra della Giustizia Marta Cartabia e al Ministro della Salute Roberto Speranza: “Il problema della salute mentale in carcere”, recita l’incipit dell’appello “oggi rilanciato dalla vicenda che riguarda Fabrizio Corona, e che coinvolge da ben prima di lui migliaia di altri cittadini, esige una vostra urgente e concreta risposta”. Innocenti in carcere: una ferita profonda di Alessandro Cucciolla L’Opinione, 2 aprile 2021 Non è più rinviabile la riforma del sistema giudiziario italiano come una trasversale - non estemporanea - mobilitazione del Parlamento sul tema drammatico del non funzionamento di un settore, fondamentale, come la giustizia. Tema ben chiaro al ministro Marta Cartabia, che necessita di un lavoro comune, il quale dia agli italiani le garanzie che oggi mancano. Viene in mente il tema degli innocenti condannati, ad esempio. Italiani che sono stati mandati in carcere pur non avendo commesso i reati a loro contestati. Ed alcune vicende sono non solo clamorose ma drammatiche. Non possiamo non ricordare l’ultimo pronunciamento della Cassazione, del 9 marzo scorso, che ha confermato 6 anni di reclusione per il regista Ambrogio Crespi, accusato di “associazione esterna di stampo mafioso” (il suo principale accusatore ha chiesto scusa, sottoposto a perizia psichiatrica, è stato dichiarato “non attendibile”, ndr). La condanna di Ambrogio Crespi, autore di alcuni straordinari docu-film di lotta alla mafia, ha mobilitato migliaia di persone (su Facebook è stata creata la pagina “Giustizia per Ambrogio Crespi” e qualche giorno fa è nato il comitato “Nessuno tocchi Caino per Ambrogio Crespi”, ndr). Fu l’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, a definire il docu-film di Crespi “Spes contra Spem” un “manifesto contro la mafia”, accompagnando il regista al Festival del cinema di Venezia. Se un innocente, emblema della lotta alla mafia, finisce in carcere in questo Paese, il dramma non può riguardare solo i parenti ed amici (per permettere a chiunque di conoscere la vicenda è scaricabile dal sito il libro “Il caso Crespi” di Marco Del Freo, ndr) ma tutti gli italiani onesti e che credono ancora nella giustizia come garanzia dei diritti e della civiltà, valori ultimamente stracciati ed umiliati dall’oblio della memoria. Senza memoria non c’è futuro, la memoria della “ingiustizia nel nome della Giustizia” caratterizza la cultura italiana, basti ricordare “Il caso Tortora” ed il finale della vicenda, che resta ancora una delle pagine più terribili della storia giudiziaria di questo Paese. Sarebbe anche necessario ripristinare la definizione “grazia” accanto a “giustizia” nella denominazione del ministero. Può un Paese civile vivere di giustizia senza grazia? Si può omettere la possibilità di utilizzare la grazia per i danni arrecati agli innocenti nel sistema della giustizia? Può l’Italia continuare a mettere “la testa sotto la sabbia”, come gli struzzi, e non vedere quanti errori, drammi, ingiustizie e sofferenze continuano ad accadere “in nome della giustizia”? Infine, può quel popolo che viene citato dai giudici prima di ogni pronunciamento di sentenza (“in nome del popolo italiano”) disinteressarsi di questa realtà? La ferita degli innocenti in carcere brucia, è profonda. E la portiamo tutti, ogni giorno, sulla nostra pelle. Presunzione d’innocenza, non basta la direttiva europea di Riccardo Polidoro Il Riformista, 2 aprile 2021 La nostra Costituzione, all’articolo 27, prevede che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Sappiamo, purtroppo, che non è così e la “presunzione d’innocenza”, dopo oltre 70 anni, è continuamente violata, in nome di un’informazione sempre più veloce e di un’esigenza di visibilità di cui molti non riescono a fare a meno. Quanto accade è da addebitare a un sistema Giustizia che non funziona e a un sistema mediatico sempre più aggressivo. “Sbattere il mostro in prima pagina”, citando l’indimenticabile film di Marco Bellocchio con Gian Maria Volontè, fa parte del lavoro del giornalista che, avuta la notizia, deve pubblicarla, ma dovrebbe comunque farlo nei limiti di una prudente valutazione dei fatti, delle fonti e del contesto. Senza alcuna giustificazione, invece, le conferenze stampa di coloro che hanno svolto le indagini e ancora più gravi i casi di singoli soggetti, autori di attività investigative o venuti a conoscenza dei fatti per ragioni del proprio lavoro, che affidano all’amico giornalista la diffusione della notizia, magari in cambio di una bella fotografia. A volte accade - invero non raramente - che il “mostro” sia invece un galantuomo al quale sono stati tolti dignità, affetti e lavoro. Della sua innocenza si saprà dopo anni di calvario giudiziario, ma egli sarà stato dimenticato dagli accusatori e dai voraci media che lo ignoreranno o lo relegheranno in un trafiletto a fondo pagina. Giova ricordare, pur calcolando solo quelle per le quali vi è stato il risarcimento del danno, che le ingiuste detenzioni in Italia sono più di mille ogni anno, cioè tre al giorno. Nel 2019 la città di Napoli è stata quella con il maggior numero di casi indennizzati, ben 129, seguita da Reggio Calabria con 120 e da Roma con 105. Nell’ottobre del 2019, la Procura di Napoli emanò un apposito ordine di servizio per l’accesso dei giornalisti agli uffici e per i criteri e le modalità di rilascio di copia dei provvedimenti giudiziari agli organi di stampa, nel tentativo di contemperare il diritto di cronaca, previsto dall’articolo 21 della Costituzione, con le garanzie dell’indagato. Invero, alcun radicale mutamento sembrerebbe esserci stato sulla pubblicazione delle indagini. In tutta Italia, i media continuano a “bruciare” vite prima che arrivi la sentenza definitiva: nella maggior parte dei casi, prima ancora che l’indagato abbia piena conoscenza delle accuse. Intanto la Camera, quasi all’unanimità, ha approvato l’ingresso nella legislazione italiana della direttiva europea 343 del 2016 che richiama il principio di non colpevolezza, già chiaramente espresso dalla nostra Costituzione: una buona notizia che lascia sperare in tempi migliori dopo quelli recentissimi, davvero bui. Il “cambio di passo” è tanto importante quanto evidente e si avverte la presenza di un ministro della Giustizia finalmente autorevole e che vive per e di Costituzione. Ma dalla forma scritta alla pratica c’è di mezzo il mare e, nel nostro caso, l’oceano, popolato da pesci rampanti che vogliono venire a galla per mostrare quanto sono belli e bravi e magari aspirare a tane migliori. Tutta la nostra legislazione penale viene (r)aggirata ove non sono previste sanzioni. I termini, per esempio, se non sono perentori, sono pressoché inutili. E ancora, quanti sono i provvedimenti di rigetto di richieste di proroga del termine delle indagini fatte dalle Procure? Si contano sule dita di una mano, tant’è che ormai gli avvocati non si oppongono più. Se davvero non vogliamo più vedere immagini di arresti, ascoltare le intercettazioni spesso interpretate anche da voci incattivite, ascoltare nomi d’indagati già descritti come colpevoli con “presunte sentenze” in cui sono indicate solo verità - queste davvero presunte, ma spacciate per indiscutibili e ormai definitivamente accertate - occorre prevedere delle sanzioni, per una vera tutela dell’indagato. Tutela che deve innanzitutto stabilire effettivamente la segretezza delle indagini e rivolgersi a chi ha il dovere e l’obbligo di farla rispettare. In prima linea vi sono le Procure e la polizia giudiziaria, custodi degli atti d’indagine svolti e da svolgersi. Subito dopo i Giudici per le indagini preliminari destinatari delle richieste delle Procure, di autorizzazioni o di misure cautelari. Solo successivamente gli avvocati e va precisato che la loro conoscenza è del tutto parziale, riduttiva e comunque giunge in grande ritardo rispetto ad altri. Le notizie ufficialmente giungono dalle conferenze stampa delle Procure, di giorno in giorno più sofisticate e ricche di particolari. Ufficiosamente giungono da singoli “addetti ai lavori” per svariati interessi. Dunque, come intervenire? Qual è il deterrente capace anche di rispettare il diritto di cronaca e quello di essere informati? Basterebbe prevedere che le Procure possano tenere conferenze stampa solo dopo l’esercizio dell’azione penale, cioè quando i capi d’imputazione si sono cristallizzati e vi è già stato il contraddittorio con la difesa. Inoltre andrebbe chiarito - anche al fine di una corretta diffusione della notizia e una esatta educazione dell’opinione pubblica - che quella diffusa è l’ipotesi accusatoria che dovrà essere verificata in giudizio. Si sposterebbe così - com’è giusto che sia - l’attenzione mediatica sul processo, unico strumento per accertare la verità. Gli altri canali d’informazione dovranno trovare immediate sanzioni disciplinari. Il tema della “presunzione d’innocenza” non è terreno di battaglia tra garantisti e colpevolisti: è un principio costituzionale e pertanto va rispettato sempre, senza indugi, ancor prima di guardare all’Europa. I giudici amministrativi con doppi e tripli lavori e migliaia di sentenze pendenti di Milena Gabanelli e Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 2 aprile 2021 Cade la norma per la “moralizzazione” dell’accesso al Tar e al Consiglio di Stato. Per i magistrati delle procure e tribunali c’è da anni il divieto assoluto di insegnare nei corsi privati di preparazione ai concorsi. Non solo per diventare pm o giudice ordinario, ma anche consigliere della Corte dei Conti, giudice del Tar e consigliere di Stato. Divieto che non vale per i giudici amministrativi. Sull’onda dello scandalo Bellomo, e dei dubbi sulla reale proprietà della Scuola Diritto e Scienza per la quale il consigliere di Stato teneva i corsi promettendo alle borsiste il segreto per superare il concorso, nel 2018 era stato messo un paletto: almeno per il concorso al Tar mai più lezioni di preparazione in scuole private. Tre le ragioni di fondo: 1) la discriminazione: nei candidati si è ingenerata la convinzione che ha più chance di passare il concorso chi paga il corso, in media 2000-2500, rispetto a chi non può permetterselo; 2) l’impropria “vicinanza” fra candidati e i magistrati-docenti (colleghi di chi li giudicherà); 3) il giudice imprenditore: deplorevole da un punto vista etico. Ebbene, il 25 marzo la retromarcia. Ma il divieto era stato già violato apertamente dal consigliere di Stato Stefano Toschei, salito in cattedra giovedì 18 marzo di fronte agli aspiranti giudici Tar alla Scuola Direkta. Forse facendo affidamento sulla sua abolizione, e così è stato. Con una coincidenza: è stato appena bandito un maxi concorso da 40 posti, ampliati a 60. Migliaia i potenziali corsisti. Incarichi e compensi - Nel corso del 2020, al netto dei conferimenti necessari, sono state ben 170 le autorizzazioni a svolgere incarichi esterni, 87 delle quali per insegnamento. Nel primo semestre 14 per docenze nelle scuole private e 28 nelle università, di cui 17 statali e 11 private. Nel secondo 25 per scuole private e 20 per università, di cui 14 statali e 6 private. Il volume d’affari più corposo per i consiglieri è proprio quello delle scuole: 488.500 euro. A cui si aggiungono i circa 100 mila euro delle università (inclusi i due incarichi universitari del consigliere Franco Frattini: 15 mila euro dalla Link University per un anno da Programme Leader a Giurisprudenza e 5 mila euro per 16 ore di lezione alla Luiss Business School). A scorrere i compensi si nota la differenza tra l’attività svolta nelle l’università, un servizio offerto come contributo alla formazione che andrebbe rafforzato, e quella svolta nelle scuole, vera fonte di ricchezza. Così il compenso del giudice Tar Paolo Nasini è di 80 euro lordi l’ora alla Scuola di Specializzazione delle professioni legali dell’Università di Genova. Quello del presidente di sezione del Consiglio di Stato, Roberto Giovagnoli alla scuola Ita è di 1500 euro lordi a lezione per complessivi 60mila. Francesco Gambato Spisani: 1350 euro per 30 ore alla scuola di specializzazione della facoltà di giurisprudenza a Brescia. Giovanni Grasso: 1500 euro a lezione per 48mila totali. Alfredo Allegretta 700 euro per 14 ore all’Università Aldo Moro di Bari, mentre Vincenzo Neri ne incassa 2000 a incontro per 60mila totali. I legami con le società private - Resta il divieto di trasformare l’attività accademica in business. C’è chi aveva proposto di abolirlo in plenum, sostenendo che tanto le varie regole sulle società sono fittizie, perché spesso aggirate. Un sospetto che aveva lambito anche Bellomo. Lui lo aveva respinto. Ma dopo essere stato estromesso dal Consiglio di Stato per vicende giudiziarie, sono iniziati i trasferimenti di quote della Diritto e Scienza srl, che a lui forniva lauti stipendi e l’uso di una Ferrari. Da gennaio 2021 è totalmente sua. Con una liquidità di cassa pesante: 540.272 euro di ricavi nel 2019 e una disponibilità di 1.904.598 euro. Insomma non si può essere proprietari, né congiunti o parenti fino al sesto grado delle società che organizzano i corsi o le gestiscono. Ma le visure dicono altro. La moglie del consigliere di Stato Francesco Caringella, Sandra Della Valle, fino al 2019, deteneva il 94% della Dike, che fatturava 1.511.957 e pagava le lezioni del marito e del collega Grasso. In un vorticoso intreccio di società e attività che condividono la stessa sede legale a Molfetta e gli stessi soci, la sua storia si incontra con quella di Maria Elena Mancini, moglie di un altro giudice del Consiglio di Stato Roberto Garofoli, ora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Lei attualmente è proprietaria di NLD concorsi, società amministrata da suo padre Domenico, e Nel diritto srl, quest’ultima ha un fatturato di 2.522.785 euro e una disponibilità liquida di altri 2.577.641. Tre le loro società che si sono succedute in via San Francesco d’Assisi a Molfetta, una, la Omniaforma sas, risulta chiusa. Avevano la stessa sede legale anche la Lexfor sas (chiusa) e la Corsolexfor srl (in liquidazione) i cui direttori scientifici erano i consiglieri Francesco Caringella (marito della Della Valle) e Roberto Garofoli (marito della Mancini). Nel frattempo, però, a Roma nasce la Lexfor srl: al 31 dicembre 2019 aveva 847.387 di fatturato. Tra gli incarichi di Garofoli autorizzati, nel 2019 anche la docenza alla Paragrafodue, una srl costituita il 19 settembre 2019. A fine novembre 2020 autorizzate 25 lezioni per complessivi 25.000 euro alla Direkta, dove nel comitato scientifico siedono il presidente di sezione Fabio Taormina e i consiglieri Vincenzo Neri e Toschei. Per anni, fino al 2019 ci ha insegnato Gianpiero Paolo Cirillo, oggi presidente di Sezione al Consiglio di Stato e componente del Cpga (organo si autogoverno della giustizia amministrativa). Nel comitato scientifico di Scuola di Alta Formazione Atena, secondo gli ultimi dati pubblicati sul sito nel 2018 c’erano 3 componenti del Cpga: Salvatore Mezzacapo, Francesco Elefante e Giovanni Ricchiuto. Ora non è disponibile e trasparente questa informazione. Vi insegna Michele Corradino, 20 lezioni autorizzate per 24mila euro, e Brunella Bruno, 20 lezioni, 500 euro ciascuna. Poi c’è l’associazione culturale Calamus Iuris, assegna incarichi a magistrati del Tar Napoli, 6500 euro a Luca Cestaro, presidente del comitato scientifico, in cui siede e tiene lezioni anche il collega Gianluca Di Vita. Infine c’è chi insegna in casa propria. Sono stati autorizzati fino a 40 giorni di lezione. E qui quanto si fanno pagare, e come, lo sanno solo loro. In sostanza, a fronte di una forte domanda, l’offerta pubblica inspiegabilmente non è mai decollata, lasciando campo libero alla libera iniziativa. Nulla però giustifica la presenza dei magistrati nelle scuole private, poiché non mancano certo fior di avvocati e professori universitari. C’è poi il tema del reclutamento: l’alto rischio di selezionare coloro che si sono allenati sulle tracce d’esame e non necessariamente i migliori, con ricadute su tutto il sistema giudiziario. Intanto i procedimenti pendenti sono migliaia - Resta un problema, e che dovrebbe essere il primo per l’organo di autogoverno della magistratura amministrativa. Il mestiere per cui sono stati assunti i magistrati è quello di occuparsi dei ricorsi. Nel 2020 erano 22.600 i procedimenti pendenti al Consiglio di Stato, e 135.400 al Tar. L’arretrato è un mostro che divora le legittime aspettative di giustizia dei cittadini. Al Tar di Catania pendono 2.453 procedimenti ultradecennali (più altri 851 da fissare). A quello di Roma 1818. A quello di Venezia 1075. I ricorsi ultra-quinquennali in attesa di giudizio sono 14.689 a Roma (più 9.944), 3.257 (più 1287) a Catania, 2.543 a Palermo (più 1752), 2094 a Napoli (più 763). Ma i magistrati non possono fare di più, perché si sono dati un tetto massimo di sentenze al mese, anche a tutela della qualità. Ma poi hanno fatto una norma sullo smaltimento dell’arretrato. Chi si offre volontario viene pagato in più a sentenza. Uno schema perfetto per proteggere chi fa altro. Milano è il nuovo fronte del caso Palamara: assedio al procuratore capo Greco di Giulia Merlo Il Domani, 2 aprile 2021 L’ex magistrato ha detto al Csm che a fargli i nomi di chi nominare a Milano erano stati i capi delle rispettive correnti. Eppure, potrebbe profilarsi un procedimento disciplinare per Greco. C’è un riflettore puntato sulla procura di Milano e sul procuratore capo Francesco Greco. Ad accenderlo è stata l’audizione del 24 marzo di Luca Palamara, convocato su richiesta della prima commissione del Consiglio superiore della magistratura. I contenuti sono stati secretati e l’ascolto di Palamara in veste di testimone, organizzato in tutta fretta, non ha potuto essere trasmesso in diretta da Radio Radicale. Ma ogni parola è stata messa a verbale. “È stato il procuratore Greco a indicarle i nomi degli aggiunti da nominare a Milano?”, sarebbe stato questo il tono della domanda con cui la presidente della commissione e togata di Area, Elisabetta Chinaglia, ha accolto Palamara. Sono seguite altre domande in cui si è chiesto conto dei suoi rapporti con Greco, che è stato esponente di Magistratura democratica, una componente delle toghe progressiste che oggi fa parte proprio di Area. Un focus troppo specifico su cui c’è stata una decisa insistenza di alcuni togati: più fonti suggeriscono che nei confronti di Greco si starebbe valutando un procedimento disciplinare e il trasferimento per incompatibilità. Le scelte del 2017 - All’epoca delle nomine del 2017, la situazione a Milano era da anno zero: dopo lo scontro negli anni precedenti tra il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati e il suo aggiunto, Alfredo Robledo, la procura andava ricostruita intorno al successore di Bruti Liberati, Francesco Greco, nominato nel 2016. I posti scoperti da oltre un anno di procuratore aggiunto sono cinque (più un altro da nominare un mese dopo) e i rapporti tra correnti avrebbero determinato che tre nominati andassero al gruppo di Area, uno a Unicost e una invece fosse trasversale, anche se considerata vicina a Piercamillo Davigo. Palamara - all’epoca capocorrente di Unicost e gestore della negoziazione - avrebbe spiegato alla prima commissione che erano stati gli altri capicorrente a fargli i nomi e non Greco, il quale non gli avrebbe mai indicato alcun collega da nominare. Tuttavia con lui Palamara intratteneva rapporti saltuari, lo incontrava e si scambiava messaggi: in nessuno di questi si parla di nomine (sono stati captati dal trojan e oggi sono sia agli atti dell’inchiesta di Perugia a suo carico sia strumenti a sostegno dei procedimenti disciplinari in corso davanti al Csm). Durante l’audizione, però, si sarebbero scontrate due posizioni. Da un lato chi ha ottenuto di circoscrivere le domande alla sola procura di Milano e dunque a Greco. Dall’altro chi, come il consigliere indipendente eletto con Autonomia e indipendenza Nino Di Matteo, invece ha provato ad allargare l’audizione al sistema nel suo insieme, individuando tutti i livelli di potere e dunque ritornando anche sulla dinamica delle nomine alla procura di Roma, vicenda che lambisce anche il Quirinale e in particolare il consigliere per gli Affari della giustizia di Sergio Mattarella, Stefano Erbani, che figura nelle chat di Palamara. La successione - I meccanismi che hanno governato il sistema prima dello scandalo non sono più sotto controllo. E i segnali che Milano possa essere il nuovo epicentro di un terremoto sono arrivati la settimana scorsa, dopo la sentenza Eni e l’assoluzione degli imputati. Quel che si è visto è stato uno scontro a colpi di lettere tra il procuratore Greco e il presidente del tribunale, Roberto Bichi, fino a una riunione chiarificatrice e infine un comunicato congiunto. È in questo clima che si è incardinata l’audizione di Palamara voluta dal Csm, che a giugno aprirà alle candidature per il successore di Greco, in pensione da novembre. I candidati sarebbero il procuratore aggiunto di Milano, Maurizio Romanelli, collaboratore di Greco che rappresenterebbe la continuità; il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, che invece sarebbe la rottura; l’aggiunto di Roma, Paolo Ielo e il procuratore capo di Bologna, Giuseppe Amato. Sotto la superficie della ritrovata pace ambrosiana, però, la divisione interna riguarda la procura. L’ufficio è diviso tra chi in questi anni ha lavorato a più stretto contatto con Greco, e chi invece si è sentito messo ai margini e - anche in seguito all’inchiesta Eni - coltiva dubbi sul metodo di indagine imposto dal vertice. I primi preferirebbero che il successore venisse scelto in continuità con l’operato di Greco, mantenendo così i metodi di indagine che fino a ora hanno caratterizzato la procura e hanno portato a risultati positivi soprattutto sul fronte delle indagini di natura finanziaria. I secondi, invece, auspicherebbero una rottura netta col passato e dunque un nuovo procuratore esterno alle dinamiche ormai cristallizzate dell’ufficio. Eppure, Milano ha sempre puntato a distanziarsi rispetto alle dinamiche della Capitale e, anche ora, guarda con diffidenza alle manovre nei palazzi romani del potere togato. L’interrogativo ora, però, è se l’audizione al Csm condizionerà gli ultimi mesi della gestione di Greco e in che modo questo influirà sulla nomina del successore. Se partisse il procedimento nei confronti di Greco, questo rafforzerebbe - almeno mediaticamente - l’esigenza di marcare una rottura col passato. Sarebbe però l’ennesima conseguenza del caso Palamara, che rischia di mettere in secondo piano il criterio del merito nella scelta del capo della seconda procura più importante d’Italia. “Noi, avvocate, insultate per aver fatto assolvere un uomo accusato di violenza sessuale” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 aprile 2021 Ancora una volta attaccano gli avvocati mentre esercitano il diritto di difesa. Stavolta è toccato a due donne accusato di aver difeso un uomo ingiustamente accusato di violenza sessuale. “Non una, ma due donne che lo hanno difeso. Vergognoso”, “mi chiedo come possono due donne difendere una persona del genere” e ancora “ma questi avvocati non si vergognano a difendere un delinquente simile. Lo schifo assurdo che per i soldi non si guarda in faccia nessuno, eppure sono donne ma nessuna solidarietà. Il denaro e la carriera sono superiori al dramma di questa ragazza”. E poi il climax ascendente: “Che non debbano mai provare nessun tipo di violenza queste sottospecie di avvocati”. Questi sono solo alcuni dei commenti rivolti sui social a due avvocate bresciane (di cui indicheremo solo le iniziali - S.L. e M.M. - perché, dato il clima, non vogliono esporsi ulteriormente), attaccate dalla folla forcaiola e sessista solo per aver difeso e fatto assolvere “perché il fatto non sussiste” un 27enne di origini pachistane accusato di violenza sessuale nei confronti della sorella all’epoca dei fatti minorenne. Il pubblico ministero aveva invece chiesto la condanna a 7 anni e mezzo di carcere. L’imputato si era sempre dichiarato innocente sostenendo che la sorella si era inventata tutto. La giovane donna aveva raccontato di essere stata obbligata dal fratello maggiore a vedere cartoni animati e film pornografici e poi a consumare rapporti sessuali completi. Aveva anche accusato il padre, già assolto con la stessa formula al termine di un processo celebrato con il rito abbreviato davanti al gup. La denuncia nei confronti dei familiari era partita nel 2018, subito dopo che la ragazza avrebbe scoperto che la famiglia le aveva organizzato un matrimonio combinato in Pakistan. “Non essendo più vergine ha avuto paura”, aveva sostenuto in aula il pm chiedendo la condanna per il fratello. “Tutto falso” aveva replicato la difesa, a cui i giudici del Tribunale di Brescia in composizione collegiale hanno dato ragione. Su quanto accaduto la Camera Penale di Brescia, presieduta dall’avvocato Veronica Zanotti, ha diffuso un duro comunicato in cui si chiarisce che negli attacchi alle due avvocate “si sottolineava per di più che esse fossero donne, incapaci di immedesimazione con la parte civile e seguiva una sequela di contumelie al comportamento “tipico” dell’avvocato, correo dell’assistito e mercenario”. Una delle solite distorsioni che accompagna la figura dell’avvocato, questa volta aggravata dal fatto che nella mente di questi odiatori privi di minima cultura giuridica le donne non possano difendere gli uomini, soprattutto se accusati di reati sessuali. “Sono rimasta colpita da tutto questo livore e da questo spirito forcaiolo - dice al Dubbio l’avvocato M.M. - Ma quello che mi ha sorpresa di più è che l’acredine è stata manifestata soprattutto da altre donne. Trovo paradossale ed assurdo, oltre che contrario ai doveri dell’avvocato, ritenere poco etico che una donna non possa difendere un uomo accusato di particolari reati, come la violenza nei confronti di un’altra donna”. Proprio come ci conferma S.L.: “quelle donne che hanno inveito contro di noi, e che si definiscono vicine alle donne vittime di violenza, non si rendono conto che il loro di agire sia stato esso stesso sessista e violento”. L’avvocato si riferisce anche ai sit in che alcune signore hanno organizzato dinanzi al Tribunale. “Perché queste persone che erano a manifestare davanti al Tribunale - si domanda l’avvocato M.M. - per chiedere la condanna del nostro assistito non sono entrate in aula per cercare di capire come si stava svolgendo il processo? Forse non sarebbero rimaste sorprese di questa assoluzione se avessero seguito il dibattimento che ha dimostrato che l’accusatrice aveva mentito, come ha ben inteso la Corte”. L’avvocato fa emergere un altro grande pregiudizio che mina il sereno esercizio della giurisdizione; per molti, soprattutto tra i movimenti femministi, le donne che denunciano violenza hanno sempre ragione: “è un concetto sbagliato. I processi in aula - ci dice S.L. - servono proprio a questo, a stabilire chi ha ragione e chi ha torto. Un uomo accusato di violenza non può essere condannato a prescindere. Occorrerebbe una seria riflessione culturale su questo”. A questo ragionamento si lega quello più grande dell’attacco al diritto di difesa, costituzionalmente garantito: “Noi abbiamo il dovere di tutelare i diritti di tutti - concludono le legali - siano esso colpevoli o innocenti. Il diritto di difesa è un baluardo della società civile”. Il vilipendio dell’articolo 24 della Costituzione ha ormai raggiunto livelli preoccupanti, ribadisce il direttivo della Camera Penale di Brescia: “Come già avvenuto in un precedente caso (l’imputato omicida assolto per incapacità di intendere e di volere), gli attacchi ai difensori vengono motivati in modo del tutto ipocrita in ragione di una presunta denegata giustizia e di una insopportabile identificazione tra il difensore, l’assistito e il reato oggetto dell’imputazione. Simili aggressioni non sono giustificabili poiché investono il significato più profondo della giurisdizione e il ruolo essenziale del difensore”. Niente carcere per gli ultrasettantenni recidivi. La Consulta fa cadere un altro tabù di Clemente Pistilli La Notizia, 2 aprile 2021 Arresti domiciliari anche ai criminali incalliti se sono anziani. L’importante è che non siano mafiosi o terroristi. A stabilirlo, allargando le maglie dei benefici ai condannati, è stata la Corte Costituzionale. Con la sentenza n. 56, depositata ieri dal giudice costituzionale Francesco Viganò, giurista e professore universitario, scelto dal Presidente Sergio Mattarella nel 2018 per sostituire alla Consulta l’ex presidente Paolo Grossi, è stato dichiarato incostituzionale il divieto assoluto di accedere alla detenzione domiciliare stabilito per gli ultrasettantenni condannati con l’aggravante della recidiva. Eliminata dunque la preclusione assoluta stabilita dall’ordinamento penitenziario nei confronti degli over 70 recidivi appunto. La magistratura di sorveglianza dovrà a questo punto valutare caso per caso se il condannato sia in concreto meritevole di accedere alla misura alternativa alla detenzione tenendo conto anche della eventuale residua pericolosità sociale. Per la Corte Costituzionale, la detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni è ispirata al principio di umanità della pena, sancito dall’articolo 27 della Costituzione e si fonda su una duplice presunzione: il legislatore presume una generale diminuzione della pericolosità sociale del condannato anziano, che quindi può di regola essere contenuta adeguatamente imponendogli la permanenza nel domicilio, secondo le prescrizioni del giudice e con i dovuti controlli, e appare verosimile che “il carico di sofferenza associato alla permanenza in carcere cresca con l’avanzare dell’età, e con il conseguente sempre maggiore bisogno, da parte del condannato, di cura e assistenza personalizzate, che difficilmente gli possono essere assicurate in un contesto intramurario, caratterizzato dalla forzata convivenza con un gran numero di altri detenuti di ogni età”. La Consulta ha inoltre battuto sull’anomalia della disposizione esaminata, l’unica in materia che fa discendere conseguenze radicalmente preclusive di una misura alternativa a carico di chi sia stato condannato con l’aggravante della recidiva. Per la Corte infatti il giudizio sulla recidiva è formulato unicamente ai fini della quantificazione della pena da infliggere e dunque non è né attuale né specifico rispetto alle ragioni che potrebbero giustificare l’esecuzione della pena in detenzione domiciliare. Tra queste vengono sottolineati in particolare “i cambiamenti avvenuti nella persona del reo e l’eventuale percorso rieducativo in ipotesi già intrapreso” dal condannato dopo la sentenza, compreso il tempo già trascorso in carcere, nonché la maggiore sofferenza determinata dalla detenzione su una persona di età avanzata. La preclusione assoluta stabilita dalla norma è stata così ritenuta irragionevole pure in rapporto ai principi di rieducazione e umanità della pena. La stessa Corte Costituzionale ha comunque precisato che la possibilità dei domiciliari per gli over 70 non riguarda quanti hanno riportato una condanna per reati di particolare gravità, come quelli per mafia o terrorismo, elencati nell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Per loro nessuno sconto. A plaudire alla decisione della Corte Costituzionale è l’associazione Antigone, da sempre impegnata sul fronte dei diritti dei detenuti. “La valutazione del percorso detentivo deve essere sempre individuale, lasciando libero il magistrato di sorveglianza di decidere caso per caso, valutando la concreta pericolosità sociale della persona”, ha dichiarato il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. Liberazione anticipata, l’ordinanza va notificata al difensore d’ufficio ai fini del reclamo di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2021 Le sezioni Unite aderiscono all’orientamento che ritiene necessaria la difesa tecnica di un avvocato in materia di libertà personale. La Cassazione risolve in senso affermativo il dubbio sulla necessità che il magistrato di sorveglianza, chiamato a decidere su un’istanza di liberazione anticipata, nomini un difensore d’ufficio in assenza di quello di fiducia, al fine di potergli notificare l’ordinanza con cui decide, che è soggetta a reclamo davanti al Tribunale di sorveglianza. Tale presa di posizione delle sezioni Unite penali, che compone il contrasto tra due orientamenti, mira a garantire un pieno contraddittorio in un procedimento incidente su diritti costituzionali del condannato quali l’esercizio di una piena difesa e la tutela della libertà personale. La sentenza n. 12581/2021 ha fornito così l’interpretazione corretta dell’articolo 69 bis dell’Ordinamento penitenziario, dove è espressamente richiamato l’articolo 127 del Codice di procedura penale che prevede la notifica delle decisioni in camera di consiglio al difensore di fiducia e, in sua assenza, a quello d’ufficio che lo stesso giudice è tenuto a nominare. Al di là di un contraddittorio eventuale e differito che viene a instaurarsi quando l’istante contesta la decisione reiettiva del giudice di sorveglianza, il reclamo davanti al Tribunale di sorveglianza ha pacificamente la natura di impugnazione. Ciò è confermato dalla legge del 2002 che ha previsto l’incompatibilità del magistrato di sorveglianza a sedere nel collegio che decide sul reclamo. Quindi se per “errore” il magistrato adotta una decisione senza notificarla al difensore non decorrono i termini per la proposizione del gravame da parte dell’avvocato nominato in prossimità dell’udienza di reclamo e che può utilmente depositare memorie difensive. Perciò se, come nel caso giunto fino alle sezioni Unite, l’istante nomina un difensore di fiducia, solo successivamente all’emissione dell’ordinanza reiettiva a lui stesso comunicata o notificata e in prossimità dell’udienza davanti al Tribunale, tale nomina oltre che valida sana il vizio di annullabilità dell’ordinanza originaria, ossia l’errore del giudice che non aveva nominato il difensore d’ufficio al quale notificarla. L’effetto sanante deriva dall’effettiva proposizione del reclamo che, grazie alla nomina di un avvocato, è pienamente frutto di una completa assistenza tecnica costituzionalmente dovuta a chi sopporta restrizioni della libertà personale. Ciò determina il rinvio dalle sezioni Unite al Tribunale, a seguito dell’annullamento in sede di legittimità dell’ordinanza che aveva giudicato tardivo il reclamo del difensore. Infatti, in assenza di tale effetto sanante, il difetto di notificazione al difensore dell’ordinanza originaria da parte del magistrato di sorveglianza avrebbe determinato il rinvio nelle sue mani affinché procedesse correttamente alla notificazione riaprendo la via al reclamo di parte. Palermo. Detenuto di 37 anni muore al Pagliarelli, eseguita l’autopsia blogsicilia.it, 2 aprile 2021 Francesco Paolo Chiofalo, 37 anni, è morto dentro il Pagliarelli-Lo Russo per causa ancora da accertare. Sarà l’autopsia, effettuata ieri nel primo pomeriggio, ma i cui risultati non sono stati resi ancora noti, a stabilire le cause della morte del giovane detenuto. Lo riporta il Giornale di Sicilia. La notizia è stata comunicata ai familiari del detenuto al telefono ma senza versione ufficiale sulla morte, come sostiene l’avvocato Massimiliano Russo. Dopo il decesso è stata disposta l’autopsia dalla Procura di Palermo che ha aperto un fascicolo. La famiglia chiede che sia fatta luce. L’uomo al Pagliarelli stava scontando una condanna definitiva per furto ed evasione. Doveva uscire il prossimo ottobre. Ora la famiglia chiede che sia fatta luce sulle cause della morte - fa sapere il legale - e vogliono sapere se il loro congiunto sia stato curato adeguatamente. Il carcere avrebbe, infatti, comunicato alla famiglia soltanto il decesso, senza dare dettagli su cause e circostanze. Neppure l’avvocato è stato informato. Certo è che, da tossicodipendente, Chiofalo aveva diritto a un’assistenza particolare e a essere seguito in maniera adeguata nel carcere. I casi di morte al Pagliarelli - Lo scorso gennaio morì Massimo Bottino, 52 anni, al Pagliarelli mentre scontava una condanna a 12 anni. L’uomo, detenuto nella struttura penitenziaria, morì all’ospedale Buccheri La Ferla, dove era arrivato dal Civico in coma. In carcere era stato isolato e curato pensando che avesse il Covid salvo poi scoprire che si trattava di una leucemia fulminante. A ottobre 2020 due decessi a distanza di 24 ore. Erano due palermitani di 38 e 48 anni, il primo deceduto nonostante le manovre di rianimazione eseguite dal personale in servizio nell’istituto penitenziario. Il secondo si sarebbe sentito male mentre era nella sua cella, ma la corsa in ospedale fu inutile. Si ipotizzarono due infarti Torino. Cronaca di un suicidio annunciato di Federica Cravero e Ottavia Giustetti La Repubblica, 2 aprile 2021 Roberto Del Gaudio, detenuto da controllare a vista, si è impiccato con i suoi pantaloni del pigiama: 12 minuti di buio durante Juve-Milan. Dodici minuti per morire indisturbato, impiccato ai pantaloni del pigiama, in una cella del Sestante della Vallette, braccio dei detenuti a rischio di atti di autolesionismo dove l’immagine di un girone dantesco non appare poi metafora troppo azzardata. Non per il fratello dell’uomo ripreso, fermo immobile, con il cappio intorno al collo e appeso sull’angolo di una finestra aperta per quei dodici interminabili minuti, prima che nella cella entri un primo agente della polizia penitenziaria e si renda conto di che cosa è accaduto mentre chi doveva sorvegliare era distratto altrove. “Sei colpevole e lo Stato ti manda lì, ma è solo una finta pena di morte”: dice con amarezza Giuseppe Del Gaudio, come rassegnato a questo tragico epilogo. Che Roberto, suo fratello, aveva ucciso la moglie, e la sua fine non solleva pena né indignazione. Quei pantaloni glieli aveva portati lui senza poter immaginare che uso ne avrebbe fatto il 10 novembre 2019. E adesso vuole poter vedere le immagini crude di quella sera, quando mezza Italia era davanti alla partita tra Juventus e Milan, e Roberto Del Gaudio rinchiuso nella cella meditava come farla finita rannicchiato su una squallida brandina. Quelle immagini hanno incastrato i tre agenti della polizia penitenziaria che non avrebbero dovuto perderlo di vista nemmeno per un secondo. E che si sospetta, a quella partita non abbiano voluto rinunciare. Sono le 21.05 quando Del Gaudio si raggomitola sotto la coperta scura che gli hanno lasciato e toglie i pantaloni del pigiama. Sono pantaloni lunghi, del tipo che un detenuto come lui non dovrebbe avere perché è considerato ad alto rischio di suicidio. Ha ammazzato la moglie tre mesi prima, è in cura per problemi psichici, e il giorno successivo deve incontrare lo psichiatra per la perizia che dovrà stabilire la sua capacità di intendere e volere, dunque anche il suo destino processuale. In quello stesso momento, 21.05, Juventus-Milan è al quindicesimo del primo tempo, occasione per Higuain dopo un passaggio di Ronaldo. Sono le 21.37 quando le telecamere inquadrano le gambe di Del Gaudio senza pantaloni. Qualcuno dei tre agenti dovrebbe accorgersene. Ma l’arbitro ha fischiato l’intervallo e nelle interviste tra primo e secondo tempo il dirigente bianconero Fabio Paratici sta annunciando il rinnovo di Cuadrado fino al 2022. Alle 22.28 Del Gaudio si siede sul bordo del letto e ha già il cappio attorcigliato al collo, fatto con il pigiama, lo aggancia all’angolo battente della finestra. Stesso minuto, un’altra stanza: Calhanoglu tenta di recuperare al gol di Dybala di quattro minuti prima. In campo sono fasi concitate mentre nella cella si sta per consumare il dramma di Roberto Del Gaudio. Alle 22.29 si lascia cadere dal letto e resta appeso alla finestra. Nessuno se ne accorge fino alle 22.41 quando le telecamere registrano l’ingresso del primo agente nella cella. Bisogna tornare indietro, ma solo di 60 secondi per assistere al fischio finale. Appena il tempo utile a estrarre la scheda di Sky dal monitor e riattivare le immagini in diretta. Non dal campo ma questa volta dalla cella del detenuto. Il suo corpo penzola a pochi centimetri da terra. “Dodici minuti di buco sono un’eternità - commenterà il direttore del carcere parlando con Pietro Buffa il giorno dopo - hanno fatto una minchiata grossa”. Non c’è più nulla da fare. La procura di Torino ha chiesto il rinvio a giudizio dei tre agenti che erano in servizio quella sera nella settima sezione del reparto psichiatrico Sestante, Giuseppe Picone, Vittorio Cataldo e Marco Spinella. Il 5 maggio inizierà il processo nel quale i pm Francesco Pelosi e Giulia Marchetti hanno contestato loro l’omicidio colposo e la negligenza per non aver tenuto sotto costante osservazione Del Gaudio. A uno di loro hanno contestato anche il falso, per aver dichiarato che il monitor si è staccato da solo dalla staffa nel muro, versione palesemente contraddetta da una perizia tecnica. E le intercettazioni del nucleo di polizia penitenziaria sono una rassegna di tentativi di depistaggi e distruzione di prove. “Se devono fare la cosa se la devono sudare… (risata) Vaffanculo se ci dovete inc... almeno dovete sudarla” - e si affannano a crearsi degli alibi cercando di anticipare, nella ricostruzione dei tempi, il guasto del monitor. Che fossero davanti alla partita quando Roberto Del Gaudio si impiccava è rimasto un sospetto senza prova tanto che gli inquirenti non ne hanno fatto parola nel capo di imputazione. Ma è nella coincidenza chirurgica dei tempi che gli indizi si rafforzano. C’è un’intercettazione dell’11 novembre in cui due colleghi parlano tra di loro della tragedia. “Ma come hanno fatto in tre”, “Eh, indovina”, “Cosa c’era ieri sera?”, “Juve-Milan”, “E lì dentro si vede?”, “Lo vedono sì, si portano le schede e si vedono la partita. E vabbè, non lo diciamo questo”. “Aspettiamo che si faccia giustizia - commenta l’avvocato Riccardo Magarelli, che assisteva Del Gaudio per l’omicidio e ora assiste il fratello come parte civile in questo nuovo processo - Ma restiamo basiti dal clima di totale omertà che emerge dagli atti e dal tentativo di autoassolversi. Ci sono dati e orari oggettivi e solo con una forzatura si può pensare che siano coincidenze”. Torino. Il fratello del detenuto suicida: “Stare in carcere è una finta pena di morte” di Federica Cravero La Repubblica, 2 aprile 2021 “All’inizio fai fatica a pensare che stia accadendo proprio a te quello che solitamente vedi in tv. Invece tutto d’un colpo diventa vero. E inizi a chiederti come sia potuto accadere e pensi che forse anche tu hai delle responsabilità perché non hai capito, non hai aiutato abbastanza tuo fratello…”. Parte da lontano il racconto di Giuseppe Del Gaudio, che si prepara ad affrontare il processo per gli agenti della polizia penitenziaria che non hanno vigilato sul fratello Roberto, morto suicida a 65 anni la sera del 10 novembre 2019 nella cella in cui era detenuto per aver ucciso la moglie Brigida De Maio. “Gli avevo portato io il pigiama lungo con cui si è impiccato - racconta Giuseppe, più piccolo di cinque anni - Nessuno mi ha detto che non andava bene, hanno solo controllato che non ci fossero dei lacci in vita e basta”. La malattia mentale, la crisi di coppia, un tumore allo stomaco, il mobbing sul lavoro che lo aveva portato al licenziamento, tutti problemi che si sono andati a sommare a un carattere difficile. “Mio fratello ha fatto una cosa tremenda, faccio fatica a parlarne. Però quando sono andato a trovarlo mi ha raccontato cose tremende e ho proprio avuto l’impressione che se sei colpevole lo Stato ti abbandona, è una finta pena di morte: se una persona normale entra lì dentro non c’è recupero”. Cosa le aveva raccontato Roberto? “Mi aveva detto che la gente nelle altre celle urlava tutta la notte, che lo minacciavano. E anche le guardie non lo trattavano bene. Non c’era la porta ma solo le sbarre e tutti vedevano quello che facevi. Per questo mi ha detto che cercava di andare in bagno la sera tardi, quando non c’era più passaggio di persone”. E sul delitto che aveva commesso? “Ho avuto una sola occasione di parlare con lui per un’ora e, in cuor mio, ho avuto la sensazione che sarebbe stata l’ultima. Per quello ho cercato di parlare d’altro. Non volevo fargli domande, ma è stato lui che a un certo punto mi ha parlato di ‘quei maledetti tre minuti in cui è successo tutto. Non ho capito perché l’ho fatto’. Queste sono state le sue parole. Io pensavo che era giusto che pagasse per quello che aveva fatto e provo molta pena per mia cognata, ma pensavo che magari avrebbe scontato la pena in una comunità, anche a vita ma in un luogo più adatto a chi ha problemi psichici”. Soffriva da tempo di questi disturbi? “Veramente io non ero consapevole di quanto grave fosse la situazione, loro erano un po’ chiusi su queste questioni e abitando lontani ci si vedeva poco e ci si sentiva solo al telefono. Certe cose le ho lette sui giornali. Non sapevo per esempio che un mese prima del delitto lui fosse stato visto vagare in stato di semi incoscienza per la città e mia cognata avesse pensato di farlo ricoverare in una comunità. Lui aveva avuto una brutta depressione dopo una vicenda di mobbing sul lavoro. Lavorava al Comune di Leinì quando era scoppiata l’inchiesta sulla ‘ndrangheta che aveva travolto il sindaco. Lui era al protocollo e diceva di aver ricevuto pressioni per certe carte che non avrebbe dovuto vedere. Alla fine si era licenziato. Poi gli avevano diagnosticato un cancro allo stomaco e aveva cambiato anche la terapia con gli psicofarmaci. Lui non aveva mai fatto pace con se stesso ma gli sono capitate anche molte sventure”. Sebbene non vi sia la prova certa, il sospetto è che quella sera le guardie stessero guardano la partita nei monitor di sorveglianza. “Questo è incommentabile, è così assurdo che si fa fatica a concepirlo. Però non ho niente contro quelle persone, ho provato a mettermi nei loro panni, anche le loro famiglie adesso staranno vivendo un brutto momento. Devono essere stressati, dalla carenza di personale, da turni massacranti. Non li giustifico e devono pagare per le loro responsabilità, ma quello è un inferno, un ambiente tremendo per chi ci vive e per chi ci lavora. E ci sono delle responsabilità anche in capo allo Stato, che non investe risorse e non tutela le persone”. Quando ha saputo del suicidio? “Quella notte stessa, verso l’una mi ha chiamato al cellulare il direttore del carcere in persona. È stato delicato, ma è andato dritto al punto: ‘Suo fratello è morto’. Gli ho chiesto come era accaduto e mi ha detto che si era impiccato con il pigiama. Quello che gli avevo comprato io”. Che ricordo le resta di suo fratello? “Era un uomo per certi versi problematico ma con grandi passioni, come la pittura e l’atletica. Al suo funerale è venuta tantissima gente ed è stata una sorpresa per me che credevo che mio fratello fosse una persona molto chiusa. Questo ricordo porterò di lui, che nonostante tutto quello che è accaduto, abbia lasciato un segno in tanta gente”. Lauro (Av). “Le carceri attenuate o meno non sono luoghi per bambini” di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 2 aprile 2021 Visita all’Icam del Garante dei detenuti Samuele Ciambriello. Il Garante comunica che la recidiva in generale per le donne è all’8% mentre, purtroppo, per gli uomini si aggira intorno all’80%. “Occorre che in tempi brevi sulle case famiglie protette, strutture previste dalla legge del 2011 istitutiva degli Icam come quello di Lauro, anche nella nostra comunità regionale si aprano un paio di queste esperienze e opportunità di luoghi alternativi al carcere per garantire principalmente l’interesse preminente del minore”. Così il Garante Campano delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello all’uscita oggi dell’Istituto attenuato per detenute madri a Lauro, nell’avellinese. Il Garante a tal proposito, dice “mi ha fatto piacere che il parlamento abbia approvato un provvedimento in bilancio che consente di finanziare per l’importo di 1,5 milioni su tutto il territorio nazionale la creazione di case famiglie protette per madri detenute con figli che debbano scontare 3 anni”. Nella visita odierna presso Icam di Lauro dove attualmente sono ristrette 9 detenute e 11 bambini, il Garante Ciambriello, accompagnato dal suo staff, dallo scrittore Lorenzo Marone, dal cappellano Don Enzo Miranda e dal direttore dell’Istituto Paolo Pastena, ha fatto gli auguri di Pasqua consegnando uova, dolci e mascherine. Il Garante comunica che la recidiva in generale per le donne è all’8% mentre, purtroppo, per gli uomini si aggira intorno all’80%. Ciambriello così conclude “la presenza di figli in carcere costituisce un importante elemento “riabilitativo” incidendo significativamente sulla recidiva. Certo parlare di maternità e carcere è un ossimoro perché la tutela degli affetti, l’educazione dei figli è incompatibile con il carcere”. Reggio Emilia. Covid, focolaio in carcere: 74 positivi di Stefano Chiossi Il Resto del Carlino, 2 aprile 2021 Due parenti: “Non abbiamo più loro notizie, non chiamano neppure”. Il focolaio Covid tra i detenuti alla Pulce si allarga a macchia d’olio. Sono infatti 74 i carcerati attualmente positivi al Coronavirus (su oltre 350 reclusi), di cui due ricoverati in gravi condizioni al Santa Maria Nuova. E come se non bastasse, arrivano anche pesanti critiche dai parenti sulla gestione dei famigliari, a denunciare la “totale mancanza di igiene e di cura all’interno del carcere di via Settembrini”. A ribadirlo sono due donne, rispettivamente moglie e figlia proprio dei due detenuti attualmente ricoverati in ospedale. Entrambe hanno preferito rimanere anonime. Ma non hanno certo lesinato critiche. Si parte dalla prima, 52 anni, con il marito alla Pulce dal 2016. “L’ho sentito per l’ultima volta il 24 marzo. Dall’avvento della zona rossa, non è più permesso fare videochiamate, ma almeno telefonicamente tre volte alla settimana rimanevamo in contatto. Mi aveva segnalato alcuni sintomi, denunciando come si trovasse in isolamento assieme ad altri potenziali positivi al Covid, quasi ammassati. Poi da lì più niente. Ho scoperto solo mercoledì pomeriggio, dalla chiamata di un detenuto, che era stato trasportato in ospedale”. Il focolaio alla Pulce era già stato denunciato dalle sigle sindacali (Fp Cgil e Fns Cisl) a metà marzo. In quel caso si parlava di “dieci casi di positività tra il personale della penitenziaria (di cui due ricoverati agli infettivi) e ventiquattro casi di quarantena fiduciaria, mentre sono duecento i detenuti, in ben quattro sezioni, chiusi nelle celle in quarantena per la presenza accertata di alcuni casi positivi tra loro. Chiediamo si proceda speditamente allo screening di tutta la popolazione detenuta ma anche di tutto il personale e alla vaccinazione di entrambi”. Come era facilmente prevedibile, i casi si sono moltiplicati senza sosta tra i reclusi, arrivando agli attuali 74. E ad ascoltare i parenti, ad avere la peggio sono stati proprio i detenuti: “Mio papà, alla Pulce da 3 mesi, è stato portato in ospedale mercoledì alle 14, ma dal carcere mi hanno avvisato solo alle 19 - attacca la figlia dell’altro ricoverato. Purtroppo lo sospettavo, dato che da 10 giorni a questa parte non avevo più sue notizie, vivendo nell’angoscia. Ho chiamato più volte il carcere, con la solita risposta: ‘Non possiamo divulgare informazioni’. Vorrei ricordagli che al netto del motivo per cui sono reclusi, rimangono sempre esseri umani. Ma tra una struttura fatiscente, topi ovunque, infiltrazioni e cure inesistenti sembra se lo siano scordati”. Pesaro. Il Garante regionale Giulianelli in colloquio da remoto con i detenuti Il Resto del Carlino, 2 aprile 2021 Clima ancora teso dietro le mura del carcere di Villa Fastiggi. Parenti e avvocati protestano perché da settimane non possono incontrare i detenuti. Colpa del focolaio di Covid, la giustificazione dell’istituto. E intanto il garante regionale dei diritti della persona, Giancarlo Giulianelli, costretto a casa perché malato di Covid, annuncia che farà colloqui via remoto con i carcerati che lo chiederanno. “Villa Fastiggi era il primo carcere da cui volevo cominciare il mio giro - spiega Giulianelli - ma ho preso il coronavirus e, dopo più di un mese, sono ancora positivo. Così ho deciso di incontrare i detenuti da remoto. Molti si sono già prenotati e tra qualche giorno partiremo. Potrò sentirò direttamente dalle loro voci, le eventuali criticità e le loro esigenze”. Esigenze che al momento sarebbero trascurate. A denunciarlo sono alcuni famigliari dei carcerati. Come Sabrina Z. che lancia un appello tramite il giornale affinché i vertici di Villa Fastiggi permettano a lei, come ad altri, di poter fare visita ai propri parenti. “Non mi fanno vedere mio fratello da un mese - spiega Sabrina - devo portargli vestiti, cibo, soldi, ma quando sono arrivata in carcere non mi hanno permesso di lasciare nulla e tantomeno di vederlo. Ci dicono per il Covid, ma dove è il pericolo se parliamo separati dal vetro? E poi, se è vero che temono i contagi, come fanno a mettere 5 persone nella stessa cella come nel caso di mio fratello? Ci diano una risposta”. Protesta anche Claudia, di origini moldave, che da mesi non riesce più a vedere il marito. Pozzuoli (Na). La “scuola del fare” nella realtà del carcere di Vittoria Serino informareonline.com, 2 aprile 2021 Intervista alla prof.ssa Caccavale della Casa circondariale femminile di Pozzuoli. Lo scorso 11 marzo Antigone, associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, ha pubblicato il suo XVII rapporto sulle condizioni di detenzione intitolato “Oltre il virus”. Lo scopo dell’intervento è quello di “guardare oltre e provare a ragionare con sguardo critico su cosa abbia insegnato la pandemia al sistema penitenziario”. In particolare Antigone ha indagato sulle conseguenze che ci sono state sul sistema scolastico delle carceri e i dati che ne sono emersi sono ben lungi dall’essere confortanti: tasso di abbandono scolastico alto, interruzione totale delle lezioni in seguito alla prima ondata, generale difficoltà nel reperire gli strumenti tecnologici adatti. Tuttavia in Campania esiste una realtà che sembra essersi sottratta a questo generale clima di rassegnazione: la scuola carceraria di Pozzuoli. Questa è una sede associata del centro provinciale per l’Istruzione degli adulti (Cipia) di Napoli provincia 1, diretto dalla professoressa Francesca Napolitano e si compone di un corpo docenti che opera da diversi anni in modo sinergico con la direzione e l’area educativa della struttura carceraria ospitante. Ma come opera nel concreto la scuola? Per capirlo abbiamo intervistato la prof.ssa. Olimpia Caccavale che, ormai da 16 anni, insegna italiano alle detenute della Casa circondariale femminile di Pozzuoli. Come ha reagito la scuola all’emergenza Covid-19? “In realtà, ben prima che la DAD diventasse obbligatoria, la scuola si è attrezzata con un megaschermo interattivo e numerosi tablet (rigorosamente senza accesso a internet). Il corpo docenti ha quindi continuato a garantire un’istruzione giornaliera alle detenute secondo percorsi di istruzione di primo livello (licenza media), alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana per le adulte straniere e secondo livello (diploma superiore)”. L’approccio educativo verso le detenute è diverso da quello del sistema scolastico classico? “Sì, tendiamo a fornire una didattica soprattutto di tipo laboratoriale. Questo perché la nostra è una “scuola del fare” ed i progetti che proponiamo (dalle attività teatrali a quelle di scrittura creativa) sono funzionali a garantire il recupero delle relazioni interpersonali piuttosto che impartire una formazione meramente nozionistica. In un contesto del genere infatti, oltre allo studio delle materie curriculari, diventa di fondamentale importanza imparare a stare insieme, gestire i conflitti ed affrontare lavori di gruppo”. Qual è il feedback delle alunne? “Il numero delle iscrizioni è fortunatamente abbastanza alto. Le alunne sono molto motivate e, anche se le ragioni che le spingono a iscriversi possono sembrare banali, in realtà sono questioni indispensabili per la vita fuori dal carcere. Ad esempio per molte detenute straniere conoscere l’italiano è sinonimo di sopravvivenza: serve per saper interagire con avvocati e guardie. Altre invece sono analfabete e frequentano le lezioni per imparare a firmare le carte per l’uscita. Durante l’intervista la professoressa ha sottolineato, inoltre, come la scuola non debba essere una coercizione bensì un diritto per chi, avendo percorso strade ai limiti della legalità, si è visto sottrarre la propria libertà. L’articolo 27 della Costituzione Italiana afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Rieducare dunque, non punire: questo deve essere il senso della realtà detentiva. E, se da un lato la scuola mira a cambiare il futuro dei detenuti senza infierire sul loro passato, dall’altro aiuta tutti noi a capire il valore dell’educazione intesa come riscatto e ci avvicina a un mondo troppo spesso relegato ai margini. Roma. Realizzati 500 crocifissi da donare ai detenuti di Rebibbia Avvenire, 2 aprile 2021 I crocifissi realizzati con materiali poveri nei laboratori di Isola Solidale. A Rebibbia vengono consegnate nel Venerdì Santo anche 1.200 colombe pasquali. Hanno lavorato a pieno ritmo gli ospiti dell’Isola Solidale, nel laboratorio dell’associazione, per realizzare delle collanine con 500 crocifissi artigianali (da collo) da donare per Pasqua ai detenuti del carcere di Rebibbia. Una corsa contro il tempo per confezionare a regola d’arte dei doni molto richiesti dai detenuti, soprattutto in occasione della Settimana Santa. L’Isola Solidale è una struttura che - grazie alle leggi 266/91, 460/97 e 328/2000 - ospita persone che hanno commesso reati per i quali sono state condannate, che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunte a fine pena, si ritrovano prive di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica. La consegna è prevista per oggi, Venerdì Santo. Presenti Andrea Valeriani, presidente dell’Isola Solidale, Gabriella Stramaccioni, Garante dei detenuti di Roma Capitale, e padre Moreno Versolato, cappellano a Rebibbia. Insieme ai crocifissi, vengono consegnate anche oltre 1.200 colombe di Pasqua, di cui 350 al Femminile, 350 al penale, 50 alla Terza Casa, 500 al Nuovo Complesso. Le colombe sono state donate in parte dall’azienda “Bauli” e in parte raccolte dai gruppi scout Agesci della zona “La Fenice”. “Un segno importante - ha spiegato il presidente dell’Isola Solidale - di vicinanza e di speranza da parte dei detenuti accolti nella nostra associazione nei confronti di quanti passeranno la Pasqua in carcere”. “I crocifissi realizzati - ha aggiunto Valeriani - nel nostro laboratorio sono semplici, di materiale povero, ma portano con sé una grande ricchezza spirituale nata da un profondo percorso formativo vissuto dai nostri ragazzi grazie alla presenza e alla cura di don Antonio Pesciarelli che ultimamente sta accompagnando spiritualmente l’Isola Solidale”. I medici sul dl Covid: sanzioni confuse e nessuna tutela per chi combatte la pandemia di Adriana Pollice Il Manifesto, 2 aprile 2021 Le reazioni alla norma varata in Consiglio dei ministri. Il decreto introduce l’obbligo vaccinale per i sanitari e lo scudo penale per chi somministra i sieri. “Le procedure previste dalla norma per l’obbligo vaccinale degli operatori sanitari non ne garantiscono l’applicabilità. Serve semplificare il sistema sanzionatorio per renderla efficace”: è la posizione del presidente della Federazione degli Ordini dei medici e degli odontoiatri, Filippo Anelli, rispetto alle misure inserite nel decreto Covid varato mercoledì dal governo. Il lavoratore sociosanitario che rifiuterà di vaccinarsi - prevede il testo - potrà essere adibito (ove possibile) ad altre mansioni che non comportino rischi di diffusione del contagio (in caso contrario la retribuzione non sarà dovuta). “Necessario essere molto più chiari anche se più duri, con provvedimenti più forti - prosegue Anelli -. Non escluderei il licenziamento. Così com’è, prima che si possano concludere tutte le procedure sarà finita la pandemia. Nel futuro ci potrebbero esse altre emergenze, meglio provare ad articolare una norma chiara in cui si dice che per fare assistenza bisogna essere vaccinati”. E sulle sanzioni: “O si sceglie la strada della pena pecuniaria o si sceglie la sospensione. Ma bisogna conciliare gli aspetti ordinistici e quelli legati all’organizzazione del lavoro. Sulla parte applicativa c’è ancora molto da lavorare. Perché, ad ora, non si capisce bene cosa devono fare gli Ordini, cosa devono fare i datori di lavoro. Non escludo che ci possano essere ricorsi sulle procedure attuative”. Il dl esclude la punibilità dei vaccinatori quando hanno agito seguendo le procedure previste per la somministrazione dei sieri anti Covid. Il sindacato dei medici Anaao - Assomed: “Abbiamo lavorato per mesi in prima linea in totale emergenza, senza reti. Senza avere linee guida, con opzioni terapeutiche sconosciute pur di trovare una possibile cura. In questo contesto la possibilità di denunce è elevatissima. Serve uno scudo complessivo per gli operatori sanitari. Siamo delusi del decreto: viene offerta una tutela giudiziaria per eventi improbabili e non per eventi probabilissimi”. La Fp Cgil, invece, sottolinea: “Importante l’introduzione dello scudo penale per i professionisti che eseguono i vaccini, spesso in modo volontario. Bisogna affrontare il tema di uno scudo penale per tutti gli operatori sanitari in prima linea per arginare la pandemia ma che non diventi uno scudo dalla responsabilità civile per le strutture sanitarie. Sarebbe come eliminare il diritto al risarcimento dei cittadini e degli operatori stessi, vittime dell’assenza dei presidi di protezione, soprattutto nella prima fase pandemica”. Ddl Zan, anatomia “laica” della legge contro l’omotransfobia di Paolo Delgado Il Dubbio, 2 aprile 2021 L’arrivo al Senato della legge Zan non è passato indenne. Ma in questo caso il quadro è più frastagliato perché sono contraria alla norma, per motivi diversi da quelli leghisti o cattolici, anche gran parte del femminismo e della sinistra libertaria e la stessa commissione Affari costituzionali è intervenuta con indicazioni non del tutto rispettate dal legislatore. Come prevedibile, l’arrivo al Senato della legge Zan contro la transomofobia non è passato indenne. La Lega ha chiesto di soprassedere in nome di un vincolo di maggioranza che è in realtà inesistente, dal momento che quella che sostiene Draghi non è una maggioranza politica, la legge è di iniziativa parlamentare ed era chiaro sin dalla partenza del governo Draghi che i provvedimenti non strettamente inerenti alla Mission illustrata dal premier al momento dell’insediamento sarebbero stati di assoluta competenza parlamentare. Cioè che i parlamentari si sarebbero potuti muovere senza alcun vincolo di maggioranza. A quel punto il presidente leghista della commissione Giustizia è passato al filibustering, di fatto rifiutandosi di convocare l’Ufficio di presidenza per calendarizzare la legge e avviare così il percorso di approvazione definitiva. Come finirà è incerto. Alla fine la legge dovrà approdare in aula ma è probabile che qualche cambiamento la riporti poi alla Camera e nel complesso i tempi di approvazione non sembra possano essere celeri. Non è la prima volta che sul nodo delle aggravanti, come quelle per razzismo o antisemitismo, si assiste al medesimo fronteggiamento tra gli schieramenti parlamentari. In questo caso però il quadro è più frastagliato del solito perché è contraria alla legge, per motivi diversi da quelli leghisti o cattolici, anche gran parte del femminismo e della sinistra libertaria e la stessa commissione Affari costituzionali è intervenuta con indicazioni non del tutto rispettate dal legislatore. In parte la polemica è quella che spunta perennemente in questi casi: essendo i casi violenza, calunnia e incitazione a delinquere l’inserimento di aggravanti specifiche finisce inevitabilmente per ledere la libertà di espressione. In questo caso, però, il confine è più labile del solito, perché, come si evince dall’esempio dei Paesi anglo-sassoni e in particolare del Regno Unito, anche il solo dire che una trans è comunque diversa da una donna può essere visto come lesivo della dignità delle trans, dunque meritevole di licenziamento, come nel noto caso di Maya Forstater, suffragato dal tribunale in quanto una simile opinione, espressa con un tweet, “non è degna di rispetto in una società democratica”. Diverse le critiche di una parte del femminismo, secondo cui il vessillo dell’identità di genere è “un’arma brandita contro le donne, il luogo in cui la realtà dei corpi, in particolare dei corpi femminili, viene fatta sparire”, quello in cui anche “le quote destinate alle donne vengono occupate da uomini che si identificano come donne”. La risposta di chi è favorevole alla legge è che si tratta invece solo di garantire una maggiore difesa a persone discriminate e a volte perseguitate per la loro identità di genere o per le loro scelte sessuali. Un’estensione delle leggi contro la discriminazione o persecuzione su base razziale, etnica o di appartenenza religiosa. C’è in questa replica, probabilmente, una certa dose di dissimulazione. I comportamenti violenti o lesivi o discriminatori possono infatti essere già sanzionati sulla base delle leggi esistenti, senza bisogno di ricorrere alle aggravanti. È probabile che l’inserimento di aggravanti elevi effettivamente il tasso di vigilanza ma sembra difficile giustificare solo così leggi come quella Zan, anche perché gli esempi dei Paesi dove il problema è all’odg già da anni indicano l’esistenza reale di una possibile minaccia alla libertà d’opinione. Il testo, del resto, modifica l’art. 604-bis del codice penale sostituendo alla formulazione “propaganda di idee e istigazione a delinquere” con la sola “propaganda di idee”. Nel complesso la ratio inconfessata di questa legge, come di tutte quelle precedenti e affini sembra essere un tentativo intervenire non solo e non tanto sui comportamenti ma anche e soprattutto sulle mentalità. Una sorta di “pedagogia di massa” esercitata con gli strumenti della proibizione, della censura e della sanzione. L’obiettivo, insomma, è cambiare le idee e la mentalità delle persone, ed è un obiettivo al quale non ci si può neppure avvicinare colpendo i casi di violenza e discriminazione sulla base “indistinta” del un codice penale. È una posizione che potrebbe addurre argomentazioni a proprio favore ed essere criticata con motivazioni affilate. Ma sarebbe opportuno e utile evitare le semplificazioni che ne fanno una questione di destra e sinistra o, peggio, di omofobia e antirazzismo. Il caso Coyaud e quei rischi (giudiziari) se critichi i ciarlatani di Carlo Rovelli Corriere della Sera, 2 aprile 2021 La giornalista francese è da poco finita a processo perché smascherava la pseudoscienza. Non possiamo permettere che chi fa soldi vendendo acqua fresca si appelli alla libertà di parola e poi usi la giustizia per far tacere chi contesta. In uno Stato di diritto, le sentenze si rispettano e si applicano. Anche se non ne condividiamo le motivazioni. Ci sono però situazioni in cui i giudici, in buona fede, commettono errori, e questi errori, accumulati, diventano nocivi per la società. In questo caso, penso sia bene parlarne. Sono seriamente preoccupato per un trend in questa direzione. Pseudo-scienza, pseudo-medicina, e ciarlatani di vari tipi, si stanno diffondendo in Italia, perfino all’interno delle nostre università, usando una strategia aggressiva: denunciare chiunque li critichi alla magistratura per diffamazione o calunnia. La strategia è efficace. La paura di restare invischiati in lunghi processi e l’incertezza del giudizio dissuadono persone competenti dal criticare i ciarlatani. Per paura di essere denunciati, i più tacciono. Molti hanno paura perfino di testimoniare in un processo, per timore di essere denunciati a loro volta. I ciarlatani crescono e si rafforzano. Ogni condanna o anche solo rinvio a giudizio per diffamazione di un giornalista, scienziato, o blogger, che ha criticato, magari in maniera mordente, pseudo-scienza o pseudo-medicina viene utilizzata dai ciarlatani come approvazione istituzionale di una ciarlataneria. La gente è confusa. Finisce per fare cose come spendere cifre ingenti per cure inefficaci e sciocche, invece di curarsi veramente. Per fare un esempio nel campo di mia competenza più specifica, la fisica quantistica, i miei colleghi ed io siamo tutti disgustati dalla crescente diffusione dell’uso ciarlatanesco di tante cure mediche “quantistiche”. Ma molti preferiscono tacere. Non parlo in astratto. L’occasione di questo pezzo è il recente rinvio a giudizio di una ottima giornalista che da tempo si occupa di criticare ovvia pseudo-scienza con grande competenza e in maniera ampiamente documentata: Sylvie Coyaud. Prima di scrivere questo articolo ho esitato, per timore di finire anch’io citato per diffamazione. Voglio essere chiaro. Voglio vivere in una società in cui chiunque possa curarsi come vuole. Voglio anche vivere in una società in cui chi inventa cure miracolose sia libero di sbandierarle e venderle agli allocchi. Ma voglio anche vivere in una società in cui se qualcuno vende ciarlatanerie miracolose, altri possano criticarlo, con le parole forti necessarie, senza dover temere la magistratura. Non possiamo permettere che i ciarlatani si appellino alla libertà di parola per fare soldi vendendo acqua fresca, e poi però usino il sistema giudiziario per mettere a tacere chi li critica. Purtroppo questo sta avvenendo in Italia. Ci sono alcuni giornalisti coraggiosi, alcune persone di cultura, alcuni blogger, che hanno il coraggio di denunciare questi fenomeni deleteri. Ci sono voci nell’università, anche fra gli studenti, che si sono alzate in questo senso. Vanno difese, non messe in difficoltà. Ci sono giudici che si rendono conto della situazione, e non cadono nella trappola di punire chi fa un servizio civile essenziale. Ma troppo spesso avviene il contrario. Mi rivolgo per questo a tutti i giudici, di cui ovviamente non metto neppure per un attimo in dubbio la buona fede. È per loro che scrivo questo articolo. Rinviare a giudizio o condannare per diffamazione un giornalista, uno scienziato, o un cittadino che ha il coraggio di denunciare pubblicamente una delle tante pseudo-medicine o pseudo-scienze che dilagano ha effetti devastanti per la società. È diventare inconsapevolmente complici di un sistematico raggiro, difeso con metodi mafiosi: spaventando le voci critiche. Mi rendo conto della posizione difficile di un giudice, che per la sua formazione culturale è spesso nella posizione di non sapere giudicare il merito di una accusa di inconsistenza scientifica. La soluzione, credo, non è giudicare il merito scientifico. Il dibattito sulla consistenza o menodi un’idea medica o scientifica non deve essere risolto in un’aula di tribunale. Deve essere pubblico, e libero. Io non posso denunciare un ciarlatano perché dice ciarlatanerie (ahimè, quanto lo vorrei!); ma lui non deve pensare di poter denunciare me se io dico pubblicamente che lui è un ciarlatano per la palese inconsistenza delle frottole che racconta. Altrimenti come fa la società a difendersi dai ciarlatani? Cari giudici, per favore fate attenzione: ogni rinvio a giudizio o condanna per diffamazione da parte di un tribunale italiano contro chi denuncia la pseudo-scienza è una coltellata contro la verità, un’arma data in mano a quelle che sono di fatto associazioni a delinquere. Non sta al giudice giudicare se una cura è efficace o meno, e proprio per questo non dobbiamo lasciare che i ciarlatani usino la magistratura per difendersi dalle critiche, anche se queste critiche sono, come devono essere, mordenti. Ma mi rivolgo anche all’intero corpo docente universitario italiano, ai rettori, ai presidi, ai direttori di dipartimenti. L’università italiana si sta facendo contaminare dalla pseudo-scienza. Basta andare online e cercare pseudo-scienza nelle università italiane, per avere elenchi dettagliati, impressionanti per la dimensione e la diffusione del fenomeno che denunciano. Cartomanti, indovini, rimedi stregoneschi, misteri misteriosi, fenomeni paranormali e altra monnezza. Che orrore. Liberiamoci da questo contagio. Non facciamoci prendere dalla paura. Se per quieto vivere, per evitare di incappare in percorsi giudiziari o polemiche, restiamo in un complice silenzio, stiamo facendo seriamente del male alla salute dei nostri concittadini, alla nostra cultura, alla educazione delle generazioni future. Stiamo mettendo in pericolo la credibilità dell’istituzione che ha il compito morale e civile di essere depositaria dell’affidabilità del sapere della nostra civiltà. Stati Uniti. Vaccini, il treno si ferma nelle carceri di Marina Catucci Il Manifesto, 2 aprile 2021 Entro le prossime 3 settimane il 90% degli adulti americani avrà la sua dose, annuncia Biden. Ma nelle prigioni la situazione è ben diversa tanto che una giudice della Corte Suprema statale di New York ha imposto di vaccinare tutti i detenuti dello Stato, cominciando subito. Durante una conferenza stampa sulla risposta del governo al Covid-19 e sugli sforzi per vaccinare tutto il Paese nel più breve tempo possibile, il presidente Biden ha annunciato che entro le prossime 3 settimane il 90% degli adulti americani avrà accesso al vaccino contro il coronavirus, senza limitazioni sanitarie o anagrafiche e con punti vaccinali raggiungibili nel raggio di cinque miglia (8km) dai luoghi di residenza, in quanto le farmacie che distribuiranno il vaccino balzano da 27.000 a 40.000, e sono in allestimento una dozzina di nuovi siti di vaccinazione di massa entro il 19 aprile. Questo annuncio di Biden ha anticipato di poco quello dello Stato di New York dove, da martedì, l’accesso al vaccino è stato esteso a chiunque abbia più di 30 anni e dal 6 aprile lo sarà a chiunque ne ha più di 16, mentre già da ieri gli ultra 75enni e i loro accompagnatori non hanno più bisogno di appuntamento per vaccinarsi, ma possono semplicemente presentarsi ai centri di distribuzione di massa e “arrotolare la manica”, come è stato trionfalmente sintetizzato nell’annuncio. Questa ondata di buone notizie, però, riguarda tutta la popolazione Usa tranne quella carceraria in quanto nelle prigioni la situazione è ben diversa tanto che una giudice della Corte Suprema statale di New York, Alison Tuitt, ha imposto di vaccinare tutti i detenuti dello Stato, cominciando subito. Solo nell’ultimo mese a New York almeno 1.100 detenuti sono risultati positivi al coronavirus e 5 sono morti, citando questi dati la giudice ha scritto nella sentenza che escludere arbitrariamente i detenuti dalla distribuzione dei vaccini è “ingiusto e un abuso di potere”. I funzionari “hanno distinto in modo irrazionale tra le persone incarcerate e le persone che vivono in ogni altro tipo di struttura di congregazione per adulti - ha continuato Tuitt - ponendo a grande rischio la vita delle persone incarcerate durante questa pandemia. Non ci sono scuse accettabili per questa deliberata esclusione. Sotto tutti gli aspetti materiali, gli adulti incarcerati affrontano lo stesso accresciuto rischio di infezione, malattia grave e morte, come le persone che vivono in altri contesti congregati, e ancora di più dei minori nei centri di detenzione, dove le persone hanno avuto la priorità per il vaccino”. L’ordine imposto da Tuitt fa di New York uno dei pochi Stati che vaccinano la popolazione carceraria, insieme a New Jersey, Massachusetts ed Oregon, pochi, nonostante gli epidemiologi e gli specialisti in malattie infettive abbiano ampiamente concordato, anche durante le prime fasi della campagna vaccinale, quando l’offerta era più limitata, che le persone nelle strutture correzionali dovrebbero rientrare nelle categorie di chi ha diritto al vaccino, a causa dell’alto rischio di contrarre e diffondere il virus. Oltre a ciò un numero sproporzionato di detenuti è afroamericano e ispanico, gruppi che più di altri sono stati duramente colpiti dalla pandemia. La vaccinazione di persone incarcerate si è subito dimostrata come una decisione politicamente impegnativa in tutto il Paese, e Stati alle prese con le stesse questioni etiche, logistiche e legali hanno stabilito linee temporali drasticamente diverse per l’offerta di dosi ai detenuti. Francia. Unità speciali per le detenute per reati di terrorismo di Ettore Bianchi Italia Oggi, 2 aprile 2021 Nelle carceri francesi sono detenute 66 terroriste. Per la prima volta, in Francia, ma anche in Europa, l’amministrazione penitenziaria francese si appresta ad aprire due strutture speciali di detenzione per donne incarcerate per atti di terrorismo e considerate pericolose e in grado di fare proselitismo. Ad oggi queste detenute particolari sono mescolate alle altre carcerate, a differenza degli uomini che si sono macchiati di reati di terrorismo che scontano la propria pena in prigioni dedicate. Le nuove unità dedicate alle terroriste nelle prigioni non ha precedenti simili nel Vecchio Continente. Oggi, nelle prigioni francesi si contano 66 donne detenute per atti di terrorismo e un migliaio di detenuti radicalizzati. In estate verrà aperto nel centro penitenziario femminile di Rennes un’area che si occuperà della radicalizzazione. Inizialmente saranno ospitate sei donne che aumenteranno progressivamente fino alla fine del 2022: dovrebbero arrivare a una trentina, ma la cifra non è confermata. Inoltre, l’amministrazione carceraria non esclude che vi possano essere incarcerate le donne di ritorno dalla Siria attualmente detenute nei campi di detenzione curdi. Sarebbero in totale un centinaio di francesi delle quali avvocati e parlamentari hanno chiesto il rimpatrio. La scelta di Rennes risponde alla necessità di stabilire un confine tra la detenzione classica e delle aree specializzare che accolgono prigioniere giudicate pericolose e in grado di fare proseliti. La sorveglianza sarebbe affidata a una trentina di persone, delle quali 17 in servizio giorno e notte, ma anche consiglieri per l’inserimento e la libertà vigilata e un sostegno psicologico. Turchia. Il 52% dei cittadini contro l’uscita dalla Convenzione di Istanbul di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 2 aprile 2021 Non è detto che le mosse del presidente turco Recep Tayyip Erdogan siano così popolari in patria. Secondo un sondaggio dell’Istituto di ricerca MetroPoll, tra i più accreditati in Turchia, la maggioranza dei cittadini, il 52,3%, non ha approvato il ritiro del Paese dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, che Ankara aveva ratificato per prima nel 2012. Solo il 26,7% appoggia l’iniziativa del capo dello stato, giunta per decreto il 20 marzo scorso Il resto del campione sostiene invece di non avere un’opinione chiara in merito o di non essere informato sulla vicenda. Dalla ricerca emerge inoltre che non c’è una maggioranza assoluta a sostegno del ritiro neppure tra chi si dichiara elettore dell’Akp di Erodgan o dei suoi alleati nazionalisti del Mhp - i favorevoli sono rispettivamente il 47,4% e il 44,4% degli intervistati -, mentre a sorpresa bocciano la decisione 8 elettori su 10 del partito conservatore islamico Saadet, in passato all’opposizione ma recentemente corteggiato da Erdogan, che si è anche recato in visita a casa di un suo alto dirigente. Myanmar. Più fronti aperti, la tregua è solo un’illusione di Emanuele Giordana Il Manifesto, 2 aprile 2021 Pechino avrebbe sigillato i confini. La giunta militare birmana alle prese con le autonomie armate regionali e un movimento di protesta sempre più reattivo alle violenze dell’esercito. Nuove accuse alla Lady. L’inviata speciale dell’Onu paventa la “possibilità di una guerra civile senza precedenti”. È durata poche ore l’illusione di una tregua annunciata dalla giunta. Poi l’esercito birmano ha ricominciato la sua battaglia su due fronti: col movimento pacifico che sta ormai diventando sempre più reattivo alla violenza di Tatmadaw (i militari di cui ieri ha bruciato due esercizi commerciali a Yangon) e le autonomie regionali armate, ormai apertamente schierate dalla parte della rivolta. Mentre continua a salire il bilancio delle vittime - oltre 540 tra cui, secondo Save the Children, più di 40 bambini - l’avvocato di Aung San Suu Kyi, la leader birmana deposta dal golpe del 1 febbraio, ha reso noto che, dopo le accuse “minori” (corruzione, possesso illegale, violazione di norme anti Covid) la giunta si appresta a giudicarla per violazione del segreto di Stato, legge dell’epoca della colonia britannica che prevede sino a 14 anni di reclusione. Il suo legale, Khin Maung Zaw ha detto alla Reuters che la Lady, tre suoi ministri e il consigliere economico australiano Sean Turnell sono stati accusati una settimana fa da un tribunale di Yangon. Quanto alla proposta della giunta alle autonomie regionali per una tregua, non è chiara la portata dell’annuncio di mercoledì sera: “Abbiamo visto la notizia sui social - dice il generale Naw Bu del Kachin Independence Army (Kia) a Myanmar Now - ma non ci sono conferme sul campo”. Ci sono invece conferme del contrario perché ieri 20 soldati sono stati uccisi e quattro camion militari distrutti negli scontri tra Tatmadaw e Kia. Combattimenti nel Nord che arrivano dopo i raid aerei contro postazioni della Karen National Union (Knu) nell’Est: almeno 7.000 sfollati - scrive Mizzima - di cui 2500 fuggiti in Tailandia che però li ha rispediti indietro. I militari hanno annunciato un cessate il fuoco unilaterale dal 1 al 30 aprile, per negoziare con le autonomie e celebrare la festa nazionale Thingyan, ma precisando che continua la “difesa da azioni che minano la sicurezza e l’amministrazione”. Tregua o non tregua, ormai il fronte militare con le autonomie è aperto: coi Karen, i Kachin, gli Shan e con gruppi minori come Arakan Army (AA), Ta’ang National Liberation Army (Tnla) Myanmar National Democratic Alliance Army (Mndaa). L’inviata speciale dell’Onu Christine Schraner Burgener, che ha già messo in guardia su un imminente “bagno di sangue”, paventa la “possibilità di una guerra civile senza precedenti”. Ma le sue parole non hanno fatto breccia all’ennesima sessione del Consiglio di sicurezza dove non si va oltre la “preoccupazione” e la condanna della violenza ma senza parlare di golpe e senza prevedere azioni esemplari per il freno tirato da Russia, Cina, India e Vietnam. Ma è anche vero che la preoccupazione sale soprattutto ai confini che la Cina avrebbe sigillato, forse paventando esodi di massa se la guerra civile cominciasse ad espandersi. Secondo fonti citate ieri da Irrawaddy, truppe cinesi si starebbero ammassando a Jiegao, di fronte alla città di Muse, sul confine dello Stato Shan. Secondo il canale di Taiwan TvbsNews, i cinesi vogliono difendere le strutture del progetto del doppio oleodotto (gas e petrolio) lungo 800 km da Kyaukphyu, nel Rakhine (Golfo del Bengala), alla Cina attraverso le regioni di Magwe, Mandalay e dello Stato Shan. Pechino continua intanto a guardare all’Asean, l’associazione regionale del Sudest per una possibile mediazione e questa settimana i ministri degli esteri di Malaysia, Indonesia e Filippine dovrebbero incontrarsi col capo della diplomazia cinese Wang Yi in Cina. Prosegue intanto l’attività di diversi membri del parlamento deposti, per lo più della Lega di Suu Kyi, che hanno proposto una democrazia federale, rispondendo così alla richiesta di autonomia che da tempo viene dalla periferia. Mercoledì, il Comitato per la rappresentanza del Parlamento (Pyidaungsu Hluttaw-Crph) ha annunciato di aver fatto carta straccia della Costituzione del 2008 voluta da Tatmadaw. Infine restano senza risposta le interrogazioni parlamentari sui bossoli dell’italiana Cheddite trovati in Myanmar. Visto che l’azienda tace, Amnesty Italia, Rete Italiana Pace e Disarmo, Opal e Atlante delle Guerre spingono perché il ministro Di Maio risponda in Parlamento. Colombia. Oltre 6 mila persone uccise dai militari durante la presidenza di Uribe Vélez redattoresociale.it, 2 aprile 2021 Mentre la giustizia ordinaria conta appena 2.248 morti tra il 1988 e il 2014, il tribunale speciale creato con gli Accordi di pace del 2016 indica 6.402 omicidi tra il 2002 e il 2008. La cifra, che pare destinata ad aumentare parecchio, sarebbe tra le più terribili per tutta l’America Latina. Più di 6 mila persone sono state ammazzate con esecuzioni extragiudiziali dall’esercito della Colombia durante la presidenza di Álvaro Uribe Vélez. Le vittime sono cittadini qualunque, anche se ufficialmente si è cercato di farle passare come guerriglieri. La notizia è stata diffusa dalla Jep, il tribunale speciale creato con gli Accordi di pace del 2016 proprio per arrivare a punire i crimini di guerra commessi nel corso del conflitto. I dati diffusi alzano di molto l’asticella delle vittime di cui si è parlato finora. Mentre la giustizia ordinaria conta appena 2.248 morti tra il 1988 e il 2014, infatti, la Jep indica 6.402 omicidi tra il 2002 e il 2008. La cifra, che pare destinata ad aumentare parecchio, sarebbe tra le più terribili per tutta l’America Latina: basti pensare che ufficialmente i morti della dittatura cilena di Pinochet sono 3.508 e quelli della dittatura argentina di Videla circa 13 mila. Falsi positivi. In questo ambito, si parla di un “positivo” ogni volta che lo Stato colombiano uccideva un suo nemico, come un guerrigliero delle ex Farc-Ep. Nel documento della Jep si analizzano i “falsi positivi”, ossia le persone uccise dai militari e dichiarate poi come facenti parte di un gruppo della guerriglia, sebbene questo non fosse vero. Le modalità. Le uccisioni avvenivano spesso secondo lo stesso copione: nei quartieri di Bogotà e Medellin passava un camion che annunciava, mentendo, la possibilità di un lavoro in campo agricolo ben pagato, i giovani accettavano la proposta, salivano a bordo e di loro non se ne sapeva più nulla fino alla comunicazione della loro morte. I ragazzi venivano quindi spacciati per guerriglieri delle Farc-Ep. Le ragioni. Per quanto è stato ricostruito sinora, pare che i motivi che spinsero i militari fossero legati soprattutto al “Plan Colombia”, un accordo del 1999 tra Usa e Colombia che prevedeva sostegno economico al paese latinoamericano nella lotta a terrorismo e narcotraffico. Ebbene, questo piano chiedeva all’esercito di Bogotà di produrre chiare prove dei successi raggiunti grazie ai soldi elargiti. I “falsi positivi”, dunque, potevano contribuire a rimpolpare la lista dei risultati che gli Usa richiedeva, oltre a dimostrare la volontà e la capacità di contrastare la guerriglia all’interno del paese. L’articolo integrale di Samuel Bregolin (da Bogotà, Colombia), “Colombia: presidenza Uribe, uccise oltre mille persone l’anno dai militari”, può essere letto su Osservatorio Diritti. Afghanistan. Kabul come Saigon? La trappola di Trump scatta su Biden di Franco Venturini Corriere della Sera, 2 aprile 2021 Il presidente ha ereditato l’accordo con i talebani, i quali premono per il ritiro degli ultimi 2.500 soldati Usa entro il primo maggio. Ma il governo locale e gli alleati frenano. Dramma in tre atti, all’interno di una tragica guerra che in Afghanistan dura da vent’anni ed è costata la vita anche a 55 militari italiani. Atto primo: Trump ancora presidente vuole portare a casa i suoi boys e firma con i talebani un patto che prevede il ritiro delle forze Usa entro il primo maggio 2021. L’alleato governo di Kabul viene consultato soltanto in apparenza. Atto secondo: Biden sloggia Trump dalla Casa Bianca ma eredita l’accordo con i talebani, i quali avvertono che se l’America non ritirerà i suoi ultimi 2.500 uomini entro il primo maggio sarà guerra totale. Il governo di Kabul si sente spinto a raggiungere un accordo con i talebani che permetterebbe l’uscita delle forze straniere. Ma i negoziati in Qatar segnano il passo, e Biden dà l’impressione di non saper bene cosa fare: mantenere l’impegno del primo maggio gli sembra difficile, ma i militari Usa, ripete, saranno fuori dall’Afghanistan all’alba del 2022. Atto terzo, quello di questi giorni. Mancano meno di cinque settimane al fatidico primo maggio. A Washington nascono diversi “partiti” pro o contro il ritiro. Un rapporto dell’intelligence fa presente che con un ritiro immediato i talebani vincerebbero e Al Qaeda potrebbe tornare a installarsi in Afghanistan come prima dell’attacco alle Torri Gemelle nel 2001. Ma d’altra parte rimanere potrebbe voler dire combattere, con le poche forze rimaste, una battaglia che è già persa e che somiglia a un nuovo, più piccolo e collettivo Vietnam. Kabul come Saigon, allora? Il governo “alleato” di Ashraf Ghani la vede proprio così. Non è forse per forzare la mano agli “amici” di Kabul che Antony Blinken ha annunciato un pacificatore incontro tra governo e talebani in Turchia a metà aprile? E poi una conferenza con le due parti, gli Usa, l’Onu, la Russia, la Cina e i Paesi confinanti tra cui l’Iran e il Pakistan per celebrare l’accordo raggiunto e far scattare il ritiro con le spalle diplomaticamente coperte? Ghani non ci sta, ma è seduto sulle baionette americane. Propone di tenere elezioni, il che a conti fatti vorrebbe dire rinviare tutto di un anno. Difficile per gli Usa dire di no, ma Biden ha anche un altro problema. I contingenti alleati presenti in Afghanistan, tedeschi in testa, hanno fatto presente nell’ultimo consiglio Nato che la decisione americana è urgente, che forse gli Usa potrebbero ritirarsi a tempo di record ma gli altri avrebbero bisogno di più tempo e rischierebbero di trovarsi scoperti, senza copertura aerea. Una conclusione s’impone: la trappola preparata da Donald Trump sta funzionando.