Il ruolo del Terzo Settore in carcere e nell’esecuzione penale esterna di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 aprile 2021 Il Terzo Settore che rientra nel piano di inclusione e coesione del Recovery Plan è inserito anche nel discorso penitenziario. Ma perché è così fondamentale? La presenza del Terzo Settore nelle carceri è sempre più segnata dalla cultura del progetto, sia individuale che collettivo, finalizzato all’inclusione sociale e alla rieducazione attiva. Le attività svolte dagli operatori del Terzo Settore (ma anche dei volontari, figura indispensabile) sono molteplici e diversamente diffuse Quelle maggiormente praticate sono quelle culturali o di animazione socio-culturale che coinvolgono molti detenuti. Anche il prestito di libri e riviste e la gestione della biblioteca dell’istituto e la redazione di un giornale interno sono compiti praticati dai volontari e operatori della comunità - e talvolta gestiti insieme ai detenuti - e vanno nella direzione di favorire l’interiorizzazione di valori e di conoscenze e l’espressione di una partecipazione agli eventi in grado di promuovere sensibilizzazione e spirito critico nelle persone coinvolte. Sono le attività che, insieme a quelle ricreative e sportive elevano il clima relazionale del carcere rendendolo vivibile. Seguono, ma più praticate dagli assistenti volontari, le attività che si basano su di un rapporto personalizzato in funzione dell’ascolto attivo, del sostegno morale e psicologico a beneficio di soggetti deprivati di una normale vita relazionale. Al terzo posto in ordine di diffusione vengono le attività religiose, sia quelle a spiritualità cristiana che di altre confessioni per la elevata presenza nelle carceri italiane di immigrati che chiedono di poter professare la propria fede religiosa da cui ricavare presumibilmente anche un conforto morale e un contatto culturale in un momento di difficoltà. Sono attività importanti non solo in termini identitari ma anche perché costituiscono una occasione di interiorizzazione o consolidamento di valori di senso per la propria vita. Importanti sono al riguardo le diverse attività formative e scolastiche, le prime svolte quasi esclusivamente dagli operatori ammessi con l’art. 17 e che si basano su veri e propri corsi. Molto meno praticate sono le attività collegate con il lavoro, sia in carcere che all’esterno per dare alternative concrete alle scelte di vita delle persone ristrette. Piuttosto diffusa è invece il sostegno materiale vero e proprio, soprattutto con l’assegnazione di indumenti ai soggetti privi di qualunque possibilità di rifornirsene o impossibilitati ad ottenerli attraverso l’assistenza pubblica. Sì, perché c’è un numero cospicuo di detenuti che presentano delle marginalità sociali. Ma il Terzo Settore è importante soprattutto per l’accoglienza esterna dei detenuti, utile per le misure alternative al carcere. Parliamo delle misure di comunità. Attualmente il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria spende il 97% dei fondi assegnatili per mantenere gli oltre 200 istituti di pena del territorio, quasi 3 miliardi ogni anno. Un investimento a perdere se si calcola l’altissimo tasso di recidiva, che porta gli stessi soggetti ad affollare nuovamente le stesse strutture dalle quali dovevano uscire invece rieducati e reinseriti nel contesto sociale. L’esecuzione penale esterna è quella che riceve meno soldi di tutti. Investire in esecuzione esterna significa anche non lasciare soli gli autori e le vittime, mentre nel sistema attuale i primi spesso sviluppano sentimenti di vittimizzazione e i secondi si sentono abbandonati dalle istituzioni preposte a difenderli. Va dato atto che c’è una crescita esponenziale delle misure di comunità grazie al Terzo Settore. Incrementarle sia completando la riforma dell’ordinamento penitenziaria, sia con i fondi, vuol dire che potremmo fare a meno di costruire nuove carceri. Inclusione e coesione: ecco gli obiettivi del Recovery Plan per il carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 aprile 2021 Nel Pnrr, oltre all’edilizia penitenziaria, previsti fondi per infrastrutture sociali e terzo settore per la inclusione e la riabilitazione dei detenuti. Non solo edilizia carceraria, ma inclusione e coesione. Novità sul fronte carcere, rispetto al programma del governo precedente, per quanto riguarda i fondi del piano Recovery Plan approvato dal governo Draghi che salgono a 222 miliardi. Lo si evince dalla proposta per finanziamento a valere su programmazione complementare al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Nello specifico dobbiamo andare al punto 23, il capitolo dedicato alla “costruzione e miglioramento padiglioni e spazi strutture penitenziarie per adulti e minori”. Si parla di investimenti complementari alla strategia della missione 5, quella dell’inclusione e coesione: nello specifico parliamo della componente 2 relative alle infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore. Non è di poco conto questo investimento. Collegare il discorso penitenziario con la missione 5 è significativo. Quest’ultima ha un ruolo chiave nel perseguimento degli obiettivi, trasversali a tutto il Piano, di sostegno all’empowerment femminile e al contrasto alle discriminazioni di genere, di incremento delle competenze e delle prospettive occupazionali dei giovani, di riequilibrio territoriale e di sviluppo del Mezzogiorno e delle aree interne. Le risorse stanziate ammontano a 27,6 miliardi, divise in tre componenti: politiche per il lavoro (12,6 miliardi), infrastrutture sociali, famiglie e terzo settore (10,8 miliardi), interventi speciali di coesione territoriale (4,2 miliardi). Riabilitazione dei detenuti e misure alternative - Ed è quello delle infrastrutture sociali e Terzo Settore che servono per la riabilitazione dei detenuti, ma soprattutto per dare loro la possibilità di accedere alle misure alternative. Sì, perché se ad esempio non si investe nelle misure di comunità, il sovraffollamento è destinato a rimanere, così come la recidiva si conferma il male assoluto del sistema penitenziario: se una persona che esce dal carcere ritorna a delinquere a causa della mancanza di dimora o mancato sostegno lavorativo, è un fallimento dell’intera società. Non a caso, sul versante “infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore”, gli obiettivi generali sono quello di rafforzare il ruolo dei servizi sociali locali come strumento di resilienza mirando alla definizione di modelli personalizzati per la cura delle famiglie, dei minori e degli adolescenti; di migliorare il sistema di protezione e le azioni di inclusione a favore di persone in condizioni di estrema emarginazione (es. persone senza dimora) e di deprivazione abitativa attraverso una più ampia offerta di strutture e servizi anche temporanei; di Integrare politiche e investimenti nazionali per garantire un approccio multiplo che riguardi sia la disponibilità di case pubbliche e private più accessibili, sia la rigenerazione urbana e territoriale. Vale la pena ricordare le parole del garante nazionale Mauro Palma durante la presentazione del rapporto di Antigone. Riferendosi alle misure alternative ha detto chiaro e tondo che, quando si propone di ampliarle, bisogna soprattutto elencare soldi e strutture, “altrimenti è meglio tacere, perché ci vuole un discorso - ha chiosato il Garante - di materialità e risorse”. Forse, con il nuovo piano, almeno sul fronte investimenti per l’esecuzione penale, la ministra Marta Cartabia propone una discontinuità con il governo passato. Non solo edilizia, ma investimenti sulla riabilitazione del detenuto. La mafia non è il passato. L’ergastolo ostativo e la gestione dei pentiti di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 29 aprile 2021 Nei giorni scorsi la Corte costituzionale ha anticipato con un comunicato stampa i termini essenziali della decisione sulle norme che vietano la concessione della liberazione condizionata ai condannati all’ergastolo per reati di mafia che non abbiano collaborato con la giustizia. La Corte ha ritenuto questo regime normativo in contrasto sia con la Costituzione (articoli 3 e 27) sia con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (articolo 3), ma ha rinviato la declaratoria di illegittimità costituzionale al maggio 2022 perché, come spiega il comunicato, “l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. La sentenza della Corte pone molte e delicate questioni tecniche già oggetto dei primi commenti, ma che potranno essere approfondite solo quando saranno depositate le motivazioni. Intanto, però, mi sembra importante rilevare come la decisione della Consulta costituisca un segnale forte di contrasto a quella corrente di opinione - molto presente nel dibattito pubblico - secondo cui le norme adottate nel tempo per contrastare le mafie e prima ancora il terrorismo, anche quando non addirittura incostituzionali, sarebbero comunque ormai inaccettabili. Perché, secondo questo filone di pensiero, andrebbe finalmente chiuso il periodo iniziato quasi mezzo secolo fa, caratterizzato da provvedimenti emergenziali adottati, si sostiene, per placare una opinione pubblica impaurita ed esasperata dall’incalzare di attentati, omicidi, stragi. Sembra quasi che la mafia non sia più un problema reale del nostro Paese, ma che resti soltanto una sorta di “fissazione”, invocata da chi vuole senza motivo mantenere e rafforzare una legislazione e una giurisprudenza giustizialiste e forcaiole. Purtroppo non è così. Le cronache di ogni giorno confermano che le mafie sono più che mai presenti e attive sia nel Sud (dove di fatto solo la Sicilia registra un relativo indebolimento di Cosa nostra) sia nel Centro e nel Nord del Paese. Indagini, processi e molte sentenze ormai definitive dimostrano che in zone più o meno ampie di ogni regione si sono insediate le mafie tradizionali, la ‘ndrangheta in primo luogo. Con ogni probabilità nuove (e amare) novità verranno dalla collaborazione, di cui si è appreso in questi giorni, di Nicolino Grande Aracri, capo di alcune delle più potenti cosche del Crotonese, da decenni protagonista dell’espansione ‘ndranghetista in Emilia e nelle zone confinanti della Lombardia e del Veneto. È vero - e non è poco - che le mafie hanno da tempo rinunciato a macchiarsi di delitti eclatanti per evitare una reazione dello Stato forte e prolungata, come quella che dopo le stragi ha sconfitto Cosa nostra corleonese. Ma è altrettanto vero che esse sono sempre più ricche e potenti, impegnate - proprio in questo periodo - a cogliere le occasioni di espansione che la pandemia offre e a sfruttare la disponibilità di appartenenti a ogni categoria sociale a entrare con loro in relazioni d’affari e di scambio di favori. Al Sud come al Nord. È persino superfluo ripetere che il contrasto alla mafia va condotto nel rispetto rigoroso delle regole e dei principi costituzionali, anche nella diversa interpretazione che ne dà la giurisprudenza nella sua continua evoluzione: non dimentichiamo, per esempio, che in un passato non lontano la stessa Corte aveva ritenuto conformi alla Costituzione proprio quelle leggi che oggi ritiene illegittime, anche in relazione a un mutato quadro della normativa europea. Ma anche in quest’ultima decisione, la Corte Costituzionale conferma che la mafia non è un fenomeno criminale come gli altri. Proprio per questo concede al legislatore un anno di tempo per porre in essere “gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. A questo punto si ripropone il solito interrogativo: riuscirà il legislatore a raggiungere questo obiettivo nel modo più equilibrato ed efficace per il Paese? Saprà per esempio, evitare di estendere ad altri fenomeni criminali meno gravi le norme più severe messe in campo contro la mafia? La materia è delicata perché stiamo parlando di leggi che trovano giustificazione nella eccezionale pericolosità delle associazioni mafiose e che proprio per questo possono essere accettate, nel nostro sistema democratico, da un’opinione pubblica consapevole, che le riterrebbe tuttavia esagerate se applicate in altri campi. Con il rischio, di cui da qualche tempo si avvertono i primi segnali, che alla fine quelle norme siano completamente travolte. Né “liberi tutti”, né manettari di Claudio Cerasa Il Foglio, 29 aprile 2021 Il giusto equilibrio che servirà in Parlamento per superare l’ergastolo ostativo. Giuseppe Pignatone, già procuratore della Repubblica di Roma e ora, su nomina del Pontefice, presidente del Tribunale di prima istanza della Città del Vaticano, commenta su Repubblica la recente sentenza della Corte costituzionale che chiede al Parlamento di modificare entro un anno le norme sull’ergastolo ostativo per i mafiosi, altrimenti le dichiarerà illegittime. Pignatone ricorda come in passato la stessa Consulta avesse invece riconosciuto la legittimità di quelle stesse norme e mette in guardia contro il rischio che venga a mancare uno strumento giuridico specifico per contrastare il fenomeno mafioso che reputa in espansione. Riconosce però che per la cultura giuridica attuale, nazionale e soprattutto europea, quelle specifiche formulazioni sono superate. Per essere l’opinione dell’inventore del teorema di Mafia Capitale, poi smentito clamorosamente dalla Cassazione, è abbastanza equilibrata. Quello che manca è un indirizzo, un orientamento per quanto generale su come la questione può essere affrontata con giudizio in Parlamento. Pignatone scrive che bisogna “evitare di estendere ad altri fenomeni criminali meno gravi le norme più severe messe in campo contro le mafie” e su questo ha ragione da vendere. Oltre che spiegare che cosa non si deve fare, però, sarebbe utile che si cominciasse a ragionare su quel che si può fare, per esempio aiutando i giudici di sorveglianza a decidere sulla concessione dei benefici previsti con l’apporto di chi ha esperienza nel campo, in modo da superare il divieto assoluto di concessione senza cadere nella logica altrettanto pericolosa del “liberi tutti”. È proprio da chi ha maturato esperienze nel contrasto alla criminalità mafiosa che ci si può attendere questo contributo, ferma restando naturalmente l’autonomia del Parlamento cui spetta la funzione legislativa. Droga e carcere, il tunnel degli invisibili. Intervista a Sandro Libianchi lavocedeimedici.it, 29 aprile 2021 Dal percorso terapeutico negli istituti penitenziari al trattamento del tossicodipendente come “malato” fino alle possibili soluzioni per arginare un fenomeno, quello della droga, che negli ultimi anni è aumentato in modo allarmante nel nostro Paese. Intervistiamo Sandro Libianchi, Presidente dell’Associazione “Co.N.O.S.C.I.” (Coordinamento Nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane - www.conosci.org), già dirigente medico nel complesso polipenitenziario di Rebibbia, Roma, specialista in Medicina Interna, Endocrinologia e Patologie da Dipendenza (S.P.A.). La presenza di persone tossicodipendenti in quanto “malati” pone l’interrogativo della motivazione della loro presenza in carcere. Non dovrebbe essere automatica la loro uscita e l’affidamento a strutture terapeutiche? Non tutti i consumatori di droga, che commettono un reato, entrano direttamente in carcere. Per alcuni di loro scattano infatti le cosiddette “misure alternative” come l’arresto domiciliare; altri vanno in comunità terapeutica; una parte di loro entra invece in carcere. Le cose cambiano da un punto di vista sia organizzativo che strutturale: in carcere l’individuo è sotto la tutela dello Stato e perde quindi molti dei suoi diritti ordinari, dovendo sottostare ad un regime “particolare”. Il primo passaggio dopo l’ingresso in carcere è legato ad una diagnosi precisa, che porta ad un programma terapeutico, il quale segue un iter farraginoso e lungo. Poi dobbiamo tenere presente che l’iter prevede anche l’approvazione da parte della Asl, che deve riconoscere l’idoneità del programma terapeutico e sostenerlo economicamente. L’equipe multidisciplinare del carcere valuta questa documentazione e studia il percorso del detenuto durante la carcerazione e programma il dopo; dà quindi il suo parere che va direttamente al magistrato di sorveglianza che decide in Camera di Consiglio, coadiuvato da esperti di settore ed un secondo magistrato, se ricorrono gli estremi per approvare o meno il programma. Questo percorso richiede tempo, include tanti passaggi, e questo purtroppo si traduce in tempo di detenzione per la persona. Il “malato”, che così viene definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dalla medicina attuale, deve dunque aspettare, permanendo in una situazione anomala. Ma di che numeri stiamo parlando? Nel panorama italiano il totale degli ingressi in carcere come tossicodipendenti, dal 2014 al 2019, è passato dal 27,5% al 36,5% sul totale: il trend è quindi in aumento. I fattori che concorrono ad aumentare le cifre sono molti: il più importante è la severità della normativa repressiva del fenomeno della droga. La media europea dei detenuti tossicodipendenti in carcere è attorno al 20%, dunque ci riferiamo a cifre inferiori delle nostre, ma anche qui c’è una grande difficoltà a livello europeo nel distinguere tra una violazione di legge per spaccio e il possesso di droga perché c’è una diagnosi di malattia da dipendenza (artt. 73 e 74 del DPR 3039/90 e s.m.i.). L’uno spaccia, l’altro consuma: chi è il malato e chi lo spacciatore? Per questo le differenze tra un paese e l’altro sono anche rilevanti. Se non si arriva ad un accordo su come distinguere le due categorie, sarà sempre difficile quantizzare con precisione il fenomeno e se andiamo a leggere l’annuale “Relazione nazionale al Parlamento sulle tossicodipendenze in Italia” è possibile vedere come negli anni la definizione di tossicodipendente sia mutata nel tempo. Oggi la dizione che si usa sul Rapporto è “Detenuti con problemi droga-correlati, che comprendono anche detenuti con una diagnosi di dipendenza”. Ciò dimostra ancora una volta la difficoltà e l’incertezza nel distinguere un malato da uno spacciatore. E questo potrebbe fare la differenza e ciò testimonia che il sistema di ‘captazione’ del malato e quello diagnostico delle persone detenute, sono gestite ancora in maniera molto artigianale, tanto è vero che il sistema distingue con difficoltà chi ha un problema vero da una malattia vera. Non esiste un sistema standardizzato nazionale di rilevazione sistematica di questo fenomeno. Anche noi dell’Associazione Co.N.O.S.C.I. per molti anni abbiamo contribuito alla stesura di diversi capitoli della Relazione. Tornando alle presenze in carcere, i detenuti con una reale diagnosi di tossicodipendenza (2019) erano circa 17.000 (96% uomini), ma solo 4.200 hanno potuto essere affidati a misure alternative come la comunità terapeutica o i lavori di pubblica utilità (LPU). Come percentuali di presenze in carcere da Nord a Sud è interessante notare come ci siano alcune regioni come la Liguria, anche in modo inaspettato, che fa da “capofila” con percentuali fino al 50% assieme al Molise, a fronte di altre regioni come la Val d’Aosta e la Calabria in cui le percentuali sono le più basse di tutti (4-10%). Spiegare il perché è molto complesso: un fattore che condiziona l’entrata è la disponibilità locale di sostanze stupefacenti, l’efficienza delle forze di polizia, dei tribunali, dei servizi di cura: tutti questi fattori determinano il numero delle persone che entra in carcere. Sono percentuali che dipendono anche dall’incidenza degli altri reati. Inoltre dobbiamo tenere conto, a livello di fasce d’età, che i minorenni risentono molto di comportamenti di violenza espressa che inducono reati, qualora ci sia un consumo di alcol o sostanze stupefacenti. Con l’alcol prevale il problema della violenza indotta e questo lo vediamo ad esempio nei telegiornali, quando assistiamo a frequenti risse tra giovani e volano decine di bottiglie. Dal punto di vista legale infatti, alcol e droghe sono due categorie totalmente diverse, anche se analoghe dal punto di vista clinico e comportamentale. Il dipendente/consumatore di alcol ed il dipendente/consumatore di sostanze stupefacenti agli occhi del curante hanno entrambi comunque un comportamento da eliminare. Nell’ambito del circuito minorile, anche se le cifre sono grandemente più basse, non sono noti i criteri diagnostici del soggetto ‘tossicodipendente’. In carcere si riesce a realizzare qualche forma di trattamento? È un aspetto molto interessante: in carcere persone con problematiche droghe-correlate hanno cominciato ad essere presenti dai lontani anni settanta dunque la storia è molto antica. Nei decenni c’è stata una enorme variazione di trattamento ed è sempre stata secondaria a variazioni di normative (sia quella penitenziaria, sia quella nazionale, sia lo stesso piano di trattamento interno). Infatti, se negli anni 70-80 il metadone era bandito dalle carceri e nessuno ne autorizzava l’impiego, negli anni successivi si è assistito ad una graduale legittimazione di questo farmaco con un profondo cambiamento: le terapie anti astinenza sono divenute adeguate, passando da quelle a base di aspirina ed antidolorifici, cocktail micidiali per queste persone, alle attuali terapie sostitutive con metadone. Adesso le terapie sono molto più mirate e precise; lo stesso metadone viene dato quando necessario, sotto prescrizione medica e questi piani terapeutici oggi sono rispettati. Le carceri si sono dotate di scarsi, ma presenti, servizi di assistenza psicologica e di trattamento sociale finalizzando la loro azione verso un progetto all’esterno. Queste sono figure professionali presenti ed attive nelle strutture penitenziarie, ma sovraccaricate di lavoro per la generalizzata mancanza di personale. In più va ricordato che manca un accettabile turnover degli operatori che oggi sono ormai con età avanzate e i giovani spesso hanno contratti temporanei e precari. Queste carenze si riflettono direttamente sulla quantità e qualità dei progetti terapeutici che possono essere approntati da questo personale prevedono il saper creare un percorso che inizi dentro al carcere e porti fuori dalla struttura, con l’obiettivo che induca un miglioramento tale da abbattere il grave fenomeno della recidiva. Quest’ultima infatti incide fortemente sulla reincarcerazione ed è paragonabile ad una malattia neoplastica che si ripresenta: è una sorta di “sliding doors”, dove le persone entrano ed escono dal carcere continuamente poiché le ricadute sono frequentissime. Ci vuole quindi un progetto terapeutico e di vita che non porti queste persone a commettere altri reati, che sia in grado di riabilitarle. Da questo punto di vista il lavoro gioca un ruolo determinante: in Italia i lavori di pubblica utilità possono rappresentare proprio una forma di riscatto sociale e personale. Queste persone che vanno in affidamento in genere sono giovani ed in età produttiva ed il fatto di perdere questa massa di potenziali lavoratori è un danno di cui si parla poco e il lavoro interno alle carceri avrebbe bisogno di un chiaro programma di incremento, anche con la creazione di commesse dall’esterno per le attività più diverse (assemblaggio, creazione di pannelli termici, laboratori di falegnameria e di ferramenta, ecc.). Abbiamo 50-60mila persone l’anno che entrano in carcere per non restare inattivi anche per anni e, a parte l’alienazione da inattività, la conversione di questi tempi in attività lavorative potrebbe essere realmente ‘rieducativa’, costituire un’occasione di formazione e salvifica anche per evitare ricadute. Negli Usa, ad esempio, il lavoro, seppur con regole ferree, è molto frequente nelle carceri proprio perché rappresenta la chiave di volta per un percorso di recupero ottimale. Si calcoli che almeno il 60% di queste persone, in Italia, ha tra i 30 ed i 50 anni e vorrebbe lavorare ricevendo una equa paga, ma il lavoro retribuito presuppone l’esistenza di fondi dedicati che, attualmente sono scarsissimi. Se non c’è un fondo sufficiente, viene meno questa possibilità, ed è un peccato perché queste persone restano in stanza di detenzione anche 20 ore al giorno con evidenti ricadute psichiche e la riabilitazione ne risente molto. Quali potrebbero essere le strade per ridurre, se non eliminare, il problema? La strada purtroppo è quasi solo politica perché abbiamo delle leggi, alcune delle quali buone, ma non applicate, se non sporadicamente: ad esempio la Legge 45 del ‘99 prevedeva tante risorse ai servizi per le tossicodipendenze, ma è stata adottata in maniera difforme da una regione all’altra e addirittura da una ASL all’altra della stessa regione. La legge sui LEA del 2017, riconosceva la “riduzione del danno” da droga, dunque un pilastro delle strategie mondiali della lotta alle droghe, non è stata ancora finanziata e quindi non si applica. Sempre nel mancato rispetto delle leggi, abbiamo il DPR 309 del 1990, che prevede la costituzione ad ogni legislatura dell’Osservatorio nazionale per le tossicodipendenze e che ogni 3 anni lo Stato indica una conferenza nazionale sulla droga. Lo Stato dal marzo 2009 non fa più conferenze! Come si evince il problema è complesso perché le carenze sono trasversali a molte competenze e sistemi assistenziali e se fosse data più attenzione a tutti questi punti e se queste leggi fossero realmente attuate, avremmo già una risposta forte da dare anche a livello pratico. Manca un confronto. Ma una nota positiva, che ci tengo a sottolineare, sono state le dichiarazioni di pochi giorni fa della neo ministra per le Politiche Giovanili, Fabiana Dadone, che si è rivolta così ai suoi colleghi onorevoli: “Riprendiamo i l tema delle droghe. Cominciamo noi a dare il buon esempio, facendo il test antidroga”. Questo è l’atteggiamento che potrebbe rappresentare il vero punto di svolta per innescare processi virtuosi e risolutivi nel tempo. Purtroppo nessun parlamentare ha risposto all’invito. Spinte “garantiste” pure da FI, Azione e Leu: inizia la vera salita per Cartabia di Errico Novi Il Dubbio, 29 aprile 2021 Costa contro gli abusi dei pm, l’altolà di Sisto ai video-processi, Conte mira alla legge sull’ergastolo: 5S pericolosamente isolati. Cosa succede adesso? Succede che inizia una fase complicata. Indecifrabile. Nella quale una parte decisiva toccherà certamente alla guardasigilli Marta Cartabia. Ma da cui la maggioranza uscirà indenne soprattutto se i partiti sapranno fare grande esercizio di pazienza. Perché ieri, pur nel frastuono delle polemiche sul Recovery alla Camera e al Senato, il Pd ha segnato un punto di non ritorno per il proprio modello di giustizia e anche per l’alleanza coi 5 Stelle. Ha annunciato un rimedio serio al “fine processo mai” istituito dalla prescrizione di Bonafede. Nella conferenza stampa di ieri mattina (di cui diamo ampiamente conto in altro servizio, ndr) i dem si sono mostrati coerenti con affermazioni più volte ripetute sia all’epoca della maggioranza gialloverde sia durante il governo Conte due: pur senza sopprimere lo stop alla prescrizione del reato, prevista appunto dalla norma cara ai pentastellati, hanno proposto la “prescrizione del processo” in appello (o anche in cassazione) se quella fase del giudizio supera un limite irragionevole di durata (da stabilirsi più precisamente nell’attuazione della legge delega). Non esiste più il “fine processo mai”: se si esagera (e spesso i tempi della giustizia sono esagerati) la fine, invece, arriva. Al Movimento 5 Stelle non piacerà. Il Pd lo sa bene. Ma ieri i dirigenti dem hanno ricordato di aver sempre espresso le loro perplessità sulla prescrizione di Bonafede, votata dal Movimento insieme con la Lega. E il capogruppo in commissione Giustizia Franco Mirabelli ha detto, non casualmente: “Li convinceremo a modificare quella norma”. Al momento, i pentastellati non sembrano volerne sapere. D’altra parte, con l’intervento ipotizzato dal Pd (il termine per gli emendamenti al ddl penale scade dopodomani alle 12), alcuni processi rischierebbero comunque di prolungarsi assai più di quanto sarebbe avvenuto con la riforma Orlando. Anche da Leu, e in particolare dal deputato Federico Conte, arriva un pacchetto di proposte. Che sulla prescrizione sono più caute (prevedono la decadenza processuale solo per chi in primo grado è stato assolto) ma superano quelle del Pd sui riti alternativi. I dem annunciano di voler innalzare da un terzo alla metà lo sconto di pena per chi patteggia a indagini ancora aperte, Conte va oltre e spazza via tutte le preclusioni previste, per l’accesso a quel rito, nel testo base del ddl penale, sempre a firma Bonafede. Non solo, perché il deputato di Leu ripristina anche il giudizio abbreviato per i reati da ergastolo, eliminato da una legge voluta dalle Lega e “concessa” dai 5 stelle all’epoca dell’alleanza gialloverde. E ancora: un parlamentare noto per essere la spina del fianco dei “giustizialisti”, Enrico Costa di Azione, ha in tasca un decalogo di emendamenti, molti dei quali a tutela della presunzione d’innocenza. Si va dal trasferimento del fascicolo se gli eccessi mediatici dei pm alterano la sensibilità del giudice, fino a pesantissime sanzioni pecuniarie per il giornalista che pubblica indebitamente atti giudiziari. Oggi quel reato esiste ma è ridicolo: con 129 euro può essere “oblato”, cioè cancellato. E infatti non c’è Procura che perda tempo a perseguirlo. Ma nel pacchetto Costa, quei 129 euro diventano 50mila, addirittura 100mila nei casi più gravi. È una resa dei conti definitiva fra le due anime che, in materia penale, convivono nella maggioranza. Non si sottrae al gioco l’azzurro Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia ma pure paladino dell’avvocatura: “Tutto ciò che è scambio documentale, come il deposito degli atti o l’accesso ai documenti, può e deve essere oggetto di semplificazione informatica”, dice, ma “la digitalizzazione non può mai estendersi fino all’annullamento della componente umana. Non è pensabile che gli strumenti telematici si spingano fino a creare la figura dell’avvocato digitale, intento a discutere le cause a mezzo schermo, e a trasformare il processo in una sorta di law game”. In tempo di inni alla digitalizzazione non è una didascalia di contorno. E in un quadro simile, non si può ridurre tutto al niet scontato del Movimento 5 Stelle: sul tavolo ci sono tali e tante spinte garantiste (ne arriveranno pure dai renziani) che la rinuncia alla bandierina della prescrizione sarà solo uno dei sacrifici necessari. I rapporti di forza non devono però far pensare a una pratica destinata a risolversi in poco tempo. Servirà tutta la capacità di mediazione della guardasigilli per evitare che la riscoperta dell’imputato come figura centrale nel processo scateni un’isteria permanente fra i partiti di governo. Riforma della Giustizia, Cnf e Camere civili: la deflazione non può comprimere i diritti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2021 L’Ocf segnala la necessità di aprire un dialogo con l’Avvocatura. Dopo il via libera di ieri al Recovery Plan, gli avvocati pur “consapevoli” della necessità di accorciare i tempi del processo, pongono l’accento sulle garanzie incomprimibili della difesa. Anche il Senato, dopo la Camera, ha approvato ieri sera la risoluzione di maggioranza sulle comunicazioni del premier Draghi sul Recovery Plan. Il piano italiano sarà presentato oggi in Commissione Europea, insieme con quello della Spagna. Il piano, come è noto, prevede anche corposi interventi sulla Giustizia. In particolare l’accento è puntato sulle riforme volte a ridurre i tempi del processo. Un refrein quello della deflazione che ha però incontrato le critiche del Consiglio nazionale forense - “non prevalga su riforme di sistema” e delle Camere civili - “si rischia di ledere i diritti di cittadini e imprese”. “Pur condividendo la scelta del governo di investire nell’ampliamento delle piante organiche, nell’organizzazione degli uffici e nelle competenze degli operatori della giustizia, limitando all’indispensabile gli interventi sulle norme processuali - ha affermato la presidente del Cnf Maria Masi -, appare però riduttivo e inibitorio il leitmotiv della deflazione e riduzione dei tempi del processo che prevale su tutto e lascia ai margini riforme di sistema che sarebbero, al contrario, prioritarie a fronte del cospicuo investimento di risorse interne ed europee”. “Ben vengano - ha proseguito - l’attenzione alla digitalizzazione e il rafforzamento dell’ufficio del processo ma sugli interventi ‘endoprocessuali’, con riferimento al settore civile, se sono condivisibili gli interventi sul processo esecutivo e la volontà di rendere più scorrevole e concentrata la cognizione ordinaria, non può non rilevarsi come manchino proposte di ampio respiro volte a migliorare la qualità complessiva della decisione giudiziaria: mai compare, per esempio, il riferimento alla specializzazione del giudice mentre in più punti si riferisce l’inaccettabile invocato ampliamento delle ipotesi dei filtri in appello e dei meccanismi di inammissibilità delle impugnazioni, arando, ancora, il tema della deflazione dei ruoli”. Preoccupazioni simili sono state espresse anche dall’Unione nazionale delle Camere civili (UNCC). Dalla Commissione per la modifica del processo civile, scrivono gli avvocati civilisti in una nota, rischia di uscire una riforma “in cui, in nome di un malinteso principio d’efficienza, si comprimono i diritti del cittadino nel processo”. Si perché secondo l’Uncc gli interventi consisterebbero in un “semplice rispolvero di vecchie proposte”, quali la riduzione dei termini di difesa, le preclusioni e i filtri. “In una fase storica di profonda crisi sociale ed economica - proseguono le Camere civili - la riforma non può comprimere la legittima domanda di giustizia, ma deve anzi puntare a garantire una migliore risposta. Tagliare le difese non risolve i problemi del processo civile, ma lede i diritti di cittadini e imprese”. Perché la riforma della giustizia “non può essere calata dall’alto”, neppure per intercettare i fondi UE. Per questo motivo, l’UNCC chiede che venga resa pubblica la bozza di riforma del processo civile prima del suo voto parlamentare, “affinché sulla stessa possa essere avviato un dibattito ampio, franco e costruttivo, allargato ai cittadini e a tutti i professionisti della Giustizia”. Per l’Organismo Congressuale Forense: “Una riforma del processo civile equilibrata, ragionevole e che accorci i tempi dei processi per una giustizia più rapida e di qualità, fondamentale anche per lo sviluppo economico, non può prescindere dal dialogo e dall’apporto che può dare l’Avvocatura”. “Sono state approvate - prosegue l’Ocf - mozioni congressuali di fondamentale importanza e che hanno portato all’elaborazione di un documento contenente concrete proposte emendative al progetto di riforma esistente in Parlamento e già portato a conoscenza”. Sul fronte penale il Consiglio nazionale forense “condivide” le indicazioni di riforma volte alla semplificazione mediante il deposito telematico degli atti, un maggiore accesso ai riti alternativi e il rafforzamento della udienza preliminare. Così come l’idea di delimitare i tempi delle indagini preliminari e la durata delle fasi e gradi del processo. “Purché però - afferma la Presidente Masi - la violazione sia presidiata da sanzioni di natura processuale. Al contrario, si respinge fermamente ogni proposta di correttivi che abbia ricadute sulla effettività del diritto di difesa costituzionalmente garantito, e che si traduca in un ostacolo all’accesso alla giustizia, come l’ipotesi normativa di riforma delle impugnazioni”. Per quanto concerne le misure ‘extraprocessuali, il Cnf è “consapevole” del ruolo che potrebbero avere le ADR nel recupero dell’efficienza, tuttavia ritiene che la loro valorizzazione debba essere “parametrata all’effettivo bisogno di tutela del cittadino e delle imprese”. “Infine - conclude Masi - pur nella convinzione della indilazionabile necessità di una riforma profonda della giustizia familiare e minorile, il Cnf approva l’annunciato intervento sul rito e sulle garanzie di un giusto processo di famiglia con la prospettiva, a medio tempore, di un intervento più profondo, che interessi pure gli aspetti ordinamentali”. Per combattere la giustizia lumaca bisogna depenalizzare di Riccardo Polidoro Il Riformista, 29 aprile 2021 Il dato pubblicato ieri su queste pagine, in merito all’avocazione delle indagini da parte delle Procure generali, ai sensi della cosiddetta riforma Orlando, è molto significativo per comprendere lo stato della nostra Giustizia e l’incapacità del legislatore a trovare soluzioni efficaci per eliminare l’intollerabile lentezza dei procedimenti penali. Cosa prevede la norma, ormai in vigore da tempo? Il sostituto procuratore della Repubblica, allo scadere del termine di durata massima delle indagini preliminari, deve decidere entro tre mesi se chiedere l’archiviazione o esercitare l’azione penale. In caso contrario, l’indagine sarà avocata dal procuratore generale presso la Corte d’appello. Nel leggere il numero delle avocazioni dell’anno 2020 - 65 in Italia, di cui 7 in Campania - si potrebbe pensare che gli uffici di Procura siano efficienti e produttivi, in quanto capaci di chiudere la loro attività nei tempi stabiliti. Ma un altro dato, quello sui reati prescritti mentre il relativo fascicolo giace negli armadi delle Procure (ben 43.375), ci riporta immediatamente alla realtà. Il sistema non funziona e la riforma Orlando non ha tenuto conto della realtà degli uffici giudiziari. Se la norma fosse stata applicata correttamente, al cattivo funzionamento della macchina investigativa si sarebbe aggiunta la totale paralisi dei procedimenti. Una valanga di fascicoli avrebbe seppellito le Procure generali, incapaci d’iniziare o proseguire le indagini, per mancanza di uomini e mezzi. Solo l’intervento del Consiglio superiore della magistratura, che con non pochi equilibrismi ha interpretato in concreto i concetti di “inerzia effettiva e apparente”, ha evitato il pur prevedibile disastro. Siamo alla vigilia di nuove riforme. Il Recovery Plan dovrà essere utilizzato anche per la Giustizia e sono stati annunciati investimenti per avere procedimenti giusti e di ragionevole durata, come previsto dall’articolo 111 della Costituzione. Occorrono certamente nuove risorse umane ed economiche, ma soprattutto interventi efficaci che diano all’opinione pubblica fiducia nel funzionamento della Giustizia e rilancino il significato di quella frase che compare in bella mostra nelle aule dibattimentali: “La legge è uguale per tutti”. Oggi certamente non è così. Il numero di procedimenti pendenti è enorme e l’obbligatorietà dell’azione penale è solo una chimera. Le Procure della Repubblica indicano i reati da perseguire con priorità, mentre molti fascicoli attendono invano di essere, come si dice in gergo, “lavorati”, ma spesso sono del tutto ignorati, cioè vivono una breve illusione di vita per finire in prescrizione. È tempo di colori, eppure la Giustizia non è da meno. Se è giusto assegnare il “codice rosso” ad alcuni delitti, cioè una corsia preferenziale nelle indagini, per i pericoli che tali azioni comportano, sarebbe altrettanto giusto garantire a tutti i cittadini - indagati e persone offese - una Giustizia conforme ai principi costituzionali. La rilevanza penale dei fatti lo impone! Ed è qui la soluzione. Differenziare ciò che è penalmente rilevante da ciò che potrebbe non esserlo più. Trovare altre strade praticabili di accertamento della verità, in sede civile e/o amministrativa e lasciare alle indagini penali le fattispecie pericolose per la società. Un’effettiva depenalizzazione consentirebbe di avere una Giustizia efficiente e uguale per tutti ed eliminerebbe l’attuale ambiguità dell’azione penale, per legge obbligatoria, ma esercitata sul territorio nazionale in modo non uniforme, quasi a macchia di leopardo. No alla commissione d’inchiesta, resa dei conti con la magistratura di Mauro Volpi Il Manifesto, 29 aprile 2021 Spingerebbe in secondo piano i problemi reali che affliggono la giustizia: la durata dei processi, l’uso troppo discrezionale dei poteri di indagine, il carrierismo individualista. La proposta di legge per l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta “sull’uso politico della giustizia” che ha come prima firmataria l’onorevole Gelmini va rigettata sia per una ragione di principio sia per i suoi intenti politici di parte. In primo luogo essa rappresenta una palese violazione del principio della separazione dei poteri in quanto un potere politico, nei confronti del quale la Costituzione sancisce espressamente l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, non può mettere sotto indagine l’attività giudiziaria svolta dai magistrati che hanno inquisito o condannato personalità politiche nonché l’associazionismo interno alla magistratura. Non è affatto un buon argomento a difesa della iniziativa il paragone fatto da Sabino Cassese sul Corriere della Sera con la commissione istituita dal Presidente Biden relativa alla Corte suprema. Infatti si tratta di una commissione di studio formata interamente da giuristi, e non da parlamentari, che ha il compito di avanzare proposte sulla composizione e sulle modalità di esercizio delle funzioni della Corte. Si può stare certi che nessuno negli Stati uniti oserebbe proporre l’avvio di una indagine parlamentare sulla giurisprudenza della Corte suprema che ha riguardato uomini politici o ha avuto un’incidenza politica (basti ricordare la sentenza del 2000 che ha sancito definitivamente la vittoria di Bush alle elezioni presidenziali). È priva di pregio anche l’obiezione per cui, se si nega l’inchiesta parlamentare sulla giustizia, allora anche i magistrati non potrebbero indagare né parlamentari, né amministratori pubblici che appartengono ad altri poteri. Si finge di dimenticare che la funzione attribuita all’autorità giudiziaria è proprio quella di indagare ed eventualmente sottoporre a giudizio chi sia sospettato di avere commesso un reato indipendentemente dalla sua qualifica soggettiva e che la magistratura non ha (così come il Csm) il potere di indagare gli organi politici per le modalità e le finalità con le quali sono intervenuti in materia di giustizia. Inoltre la commissione proposta costituirebbe un pericoloso precedente che in futuro non potrebbe escludere altre indebite invasioni sulle funzioni svolte da altri poteri, come ad esempio l’istituzione di una commissione di inchiesta sull’uso politico della giustizia costituzionale, più volte messa sotto accusa per la presunta natura politica di alcune sentenze. Quanto agli intenti politici di parte che animano la proposta, basta leggere la relazione che l’accompagna. Si tratta infatti di un atto di accusa contro l’esercizio della funzione giudiziaria e contro l’associazionismo nella magistratura che pretende di ricostruire in modo unilaterale trenta anni di storia della giustizia nel nostro paese. Infatti la magistratura è accusata di avere organizzato un complotto contro partiti politici e uomini politici, di avere esercitato un indirizzo politico in materia di giustizia, di avere dato vita a organizzazioni politiche in stretto rapporto con i partiti politici, di avere esercitato una supplenza nei confronti della politica determinando le dimissioni di governi. Tutte accuse contestabili: il complottismo è indimostrato e non fa i conti con l’elevato livello di corruzione e di malaffare manifestatisi nella politica; la magistratura tramite i pareri e le proposte del Csm può avere influenzato, peraltro in misura limitata, ma certo non ha determinato l’indirizzo politico sulla giustizia; le associazioni della magistratura non sono partiti politici e non hanno avuto rapporti organici con i partiti; la supplenza è stata facilitata da una politica incapace di adottare sanzioni contro comportamenti disonorevoli per i quali invocava una sentenza definitiva di condanna; nessun governo si è dimesso a causa di iniziative giudiziarie, ma per il distacco di partiti che facevano parte della maggioranza (governo Berlusconi primo e governo Prodi bis). Infine i principali riscontri a supporto delle accuse sono le “rivelazioni” farlocche e interessate di Palamara, estromesso dalla magistratura per gravissimi illeciti disciplinari, e quelle del giudice Franco sulla sentenza di condanna di Berlusconi, un magistrato imbarazzante che, dopo aver condiviso e sottoscritto pagina per pagina la sentenza della Cassazione, è andato a baciare la pantofola del condannato, raccomandandosi che le sue dichiarazioni non fossero rese note fino al pensionamento dalla magistratura. Ovviamente nella relazione non c’è traccia dell’uso che la politica ha fatto di singoli magistrati, come in passato del giudice Squillante corrotto per la sentenza sul lodo Mondadori e da ultimo dello stesso Palamara, attivo, insieme ad altri magistrati, per la nomina del dirigente di una procura che indaga su un influente uomo politico. Un’ulteriore effetto negativo della proposta se attuata sarebbe quello di mettere in secondo piano i problemi reali che affliggono la giustizia e la magistratura, come la durata dei processi, l’uso eccessivamente discrezionale dei poteri di indagine, la degenerazione correntizia, il carrierismo individualista il funzionamento del Csm, tutti problemi rispetto ai quali il parlamento deve fare il suo mestiere che è quello di approvare leggi di riforma, seguendo l’esortazione del presidente della Repubblica e la metodologia adottata dalla ministra della giustizia, anziché pretendere di arrivare ad una resa dei conti con la magistratura che esaspererebbe la conflittualità e non contribuirebbe in nulla a migliorare il rendimento della giustizia a vantaggio dei suoi utenti. Macron cancella la dottrina Mitterand: arrestati sette ex brigatisti italiani di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 29 aprile 2021 Maxi operazione a Parigi. La svolta nel vertice tra i ministri Cartabia e Dupond-Moretti, entro 48 ore dovranno comparire davanti un tribunale. Il funerale della “dottrina Mitterrand” si è consumato ufficialmente questa mattina a Parigi con l’arresto dei sette italiani un tempo membri di gruppi armati della sinistra extraparlamentare. Vivevano in Francia da oltre quarant’anni, e beneficiavano della protezione che gli concesse il presidente socialista, una specie di asilo politico per sottrarli alle leggi d’emergenza che all’epoca imperversavano nel nostro paese. Si tratta di Marina Petrella, Giorgio Pietrostefani, Narciso Manenti, Roberta Capelli, Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti e Sergio Tornaghi. Mancano all’appello Maurizio Di Marzio, Luigi Bergamin e Raffaele Ventura, attualmente irreperibili. Inizialmente le autorità italiane avevano presentato una pletorica lista di circa duecento nomi, poi sfrondati dalle autorità giudiziarie d’oltralpe: “Un importante lavoro bilaterale ci a portato a individuare i casi più gravi, dieci persone che si sono macchiate di fatti di sangue” spiega una nota dell’Eliseo. Per alcuni di loro (Di Marzio e Bergamin) il mese prossimo sarebbe scattata la prescrizione e sarebbero diventati uomini liberi a tutti gli effetti, una circostanza che ha spinto Roma e Parigi a pigiare sull’acceleratore. Si era capito già nell’incontro dello scorso 8 aprile tra i ministri della giustizia Marta Cartabia ed Eric Dupond-Moretti in cui Parigi aveva promesso di muoversi in fretta per consegnare gli esuli alla giustizia italiana. Negli ultimi due anni l’ex ministro 5s Alfonso Buonafede si era speso a fondo per ottenere l’estradizione degli esuli con l’omologa Nicole Belloubet, ma la procedura sembrava si fosse arenata. Da qualche mese invece le cose hanno preso una piega diversa, la pressione dei media italiani e la volontà del governo francese di compiere un gesto capace di ottenere consenso unanime anche tra l’elettorato di destra hanno contribuito a questa svolta improvvisa. Lo stesso presidente Emmanuel Macron, in una conversazione telefonica con il premier Mario Draghi avvenuta il mese scorso si era impegnato in prima persona per garantire un’azione rapida della giustizia francese per venire a capo di una vicenda che da tempo ormai immemorabile inquina le relazioni bilaterali. Ora le posizioni dei sette arrestati verranno esaminate singolarmente per valutare la rispettiva gravità dei dossier. Entro 48 ore dovranno poi comparire davanti a un giudice che stabilirà se rimetterli a piede libero, tenerli dietro le sbarre o concedere la libertà vigilata. Il tempo di esaminare le domande di estradizione. Se il mondo politico francese plaude all’iniziativa dei giudici, furiosa è stata la reazione degli avvocati dei sette arrestati. Irène Terrel, storica legale dei fuoriusciti italiani, nella fattispecie di Marina Petrella, si dice “scandalizzata”, dalla decisione dei giudici e grida al “tradimento” da parte della Francia che, con gli arresti di eri, “è venuta meno alla parola data”. Stessa musica da parte di Jean-Louis Chalanset, difensore di Enzo Calvitti, per il quale lo Stato francese si è rimangiato le sue promesse prendendo un’iniziativa “incomprensibile quarant’anni dopo i fatti”. Sulla vicenda è intervenuto anche Éric Turcon, avvocato di Cesare Battisti che sottolinea come molti rifugiati avevano subito condanne illegali, cioè emesse “da una giustizia che utilizzò le leggi d’emergenza con diversi accusati che non hanno avuto neanche modo di difendersi di persona”. Il tacito accordo tra la Francia e i rifugiati degli anni di piombo ha iniziato a sgretolarsi negli anni 2000, con l’esame “caso per caso” delle domande di estradizione provenienti dall’Italia, specialmente per le persone accusate di fatti di sangue. Il caso più celebre, quello di Cesare Battisti che dalla Francia fuggì in Brasile, è stato il primo colpo ricevuto dai sostenitori della dottrina Mitterrand che in quel momento capirono come Parigi non fosse più una terra d’asilo. Ma mai fino ad ora la magistratura transalpina aveva compiuto operazioni di questa ampiezza. L’Italia festeggia le manette francesi, Cartabia dice no a vendette di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 29 aprile 2021 Il ministero di via Arenula invita ad aspettare le decisioni della magistratura francese sulle estradizioni ma avverte: in ogni caso non vedrete mai scene come quelle del video di Bonafede su Battisti. L’unico rifugiato in Francia per il quale effettivamente stava per scattare la prescrizione della pena, che per il codice penale italiano arriva quando è decorso un tempo pari al doppio della condanna, non l’hanno preso. Per l’ex brigatista, ora in fuga, Maurizio Di Marzio, la data limite sarebbe quella del 10 maggio. Prescritta sarebbe anche la pena alla quale è stato condannato Luigi Bergamin, ex Pac, se non fosse stato dichiarato il mese scorso “delinquente abituale” (malgrado il suo ultimo delitto risalga a 40 anni fa) dalla giudice di sorveglianza. Anche lui è adesso in fuga, il suo difensore a Milano ha presentato istanza di prescrizione. Per tutti gli altri rifugiati in Francia obiettivo del blitz di ieri, il terzo che si è reso latitante Raffaele Ventura e i sette arrestati (Marina Petrella, Giovanni Alimonti, Enzo Calvitti, Roberta Cappelli, Sergio Tornaghi, Narciso Manenti e Giorgio Pietrostefani), la prescrizione non è proprio dietro l’angolo. Ma quando tre settimane fa la ministra della giustizia italiana Marta Cartabia ha avuto il primo incontro (online) con l’omologo francese, l’avvocato penalista Dupond Moretti, lo ha trovato preparato sul calendario delle prescrizioni delle pene degli ex terroristi: aveva uno schema con sé. Anche se si congratula per il risultato “di portata storica”, la ministra della giustizia italiana non partecipa al coro della politica italiana, di governo o di opposizione di destra, che dagli arresti francesi trae motivo di orgoglio nazionale. Al contrario in via Arenula si sottolinea come la svolta sia stata soprattutto francese, a fronte di richieste dall’Italia che erano tutte già pendenti. Ha pesato, si riconosce, la convenzione di Dublino sull’estradizione ratificata dal nostro paese nel maggio 2019 (e i 5 Stelle ne rivendicano il merito all’ex ministro Bonafede) perché adesso è previsto esplicitamente che il paese che riceve la richiesta (la Francia in questo caso) debba rispettare i tempi di prescrizione del paese richiedente (l’Italia). Ma più di tutto ha pesato “il superamento del nodo politico, la decisione di far arrivare alle autorità giudiziarie quei fascicoli mai trasmessi”. Il cambio di fase voluto da Macron per evidenti ragioni interne, comunicato a Draghi nella telefonata che c’è stata una decina di giorni fa di cui ha dato notizia non a caso l’Eliseo, sottolineando che “la Francia, anch’essa colpita dal terrorismo, ha voluto risolvere questo problema come l’Italia chiedeva da anni”. “La memoria di quegli atti barbarici è viva nella coscienza degli italiani”, ha voluto ricordare il presidente del Consiglio italiano, anche lui molto “soddisfatto” per questi arresti arrivati dopo quarant’anni. La ridda di dichiarazioni festanti che vanno dal Pd a Fratelli d’Italia, comprese esplicite rivendicazioni di una giustizia amministrata per compensare le vittime, finisce per travolgere quella che era parsa l’impostazione della nuova ministra, che nelle sue prime uscite aveva insistito sul valore rieducativo della pena che non dev’essere vendetta, sulla giustizia riparativa e sulle alternative al carcere. “Mi tocca fare una profonda autocritica per aver salutato come un’iniezione di speranza per l’umanizzazione delle condizioni di detenzione e per i diritti dei detenuti la nomina di Marta Cartabia”, dice Sergio Segio, ex di Prima Linea che ha scontato 22 anni e da tempo è impegnato con il gruppo Abele. In via Arenula insistono sul fatto che l’azione dell’Italia non è ispirata da “sete di vendetta”. Assicurano che non viene meno l’impostazione favorevole alla giustizia riparativa e al valore costituzionale della funzione rieducativa del carcere, “ma non ci può essere senza prima un passaggio di verità”. E scomodano un paragone ingombrante, la commissione per la verità e la riconciliazione del Sudafrica post apartheid. Che però è stata più una storia di giudizi politici e amnistie che non di sentenze e di tribunali penali. Sul fatto che questo blitz francese, che l’Italia ha richiesto e spinto, avrà però come risultato quello di riportare in carcere persone anziane, lontane dal passato violento e soprattutto da tempo inserite nella vita sociale francese, dal ministero della giustizia invitano ad attendere gli esiti delle valutazioni delle autorità giudiziarie francesi. Saranno loro a decidere se ci sono le condizioni “per età, storia personale e condizioni di salute, per andare in carcere e per essere estradate. Valutazioni che potrebbero anche essere diverse caso per caso”. Non è detto che l’estradizione sia concessa per tutti, sono possibili provvedimenti diversi come la revoca del passaporto. E soprattutto, assicurano in via Arenula quasi a coprire le grida di giubilo di Salvini, non rivedremo mai un video come quello che esibì le manette di Battisti e il volto soddisfatto dell’ex ministro Bonafede. La lotta al terrorismo e il “sacrificio” dello Stato di diritto di Davide Varì Il Dubbio, 29 aprile 2021 Sono passati decenni dagli anni di Piombo ma il paese è ancora convinto che per fare i conti con quegli anni siano sufficienti retate e arresti. È un eterno ritorno, un passato che non riusciamo a superare perché non abbiamo ancora trovato la forza di elaborarlo e analizzarlo al riparo dagli strascichi ideologici e, naturalmente, dai grandi dolori pubblici e privati che abbiamo vissuto. L’arresto degli ex brigatisti in Francia è un salto nel tempo e per capire le ragioni delle fughe di allora e delle retate di oggi è lì, nell’Italia degli anni 70, che dobbiamo tornare. Era l’Italia del sangue, delle esecuzioni, degli agguati contro gente inerme, contro intellettuali, servitori dello Stato, addirittura sindacalisti. I nomi delle vittime risuonano ancora nella nostra coscienza collettiva: Vittorio Bachelet, Guido Rossa, Aldo Moro e tanti, tanti altri. In questa lunga e dolorosa lista c’è anche Fulvio Croce - l’avvocato che rifiutò l’ordine brigatista di non difendere gli imputati - del quale, ieri, fatalità, cadeva l’anniversario dell’agguato e della morte. Ma per capire fino in fondo quella stagione, e le ragioni per cui la Francia decise di accogliere gli “esuli italiani”, dobbiamo anche capire quale fosse lo stato della giustizia italiana. Era il periodo delle leggi speciali e dei processi sommari. L’Italia si sentiva in guerra e, come in ogni guerra, lo Stato di diritto era saltato. E ora, a distanza di più di 40 anni, pensiamo di lenire quella ferita così profonda solo affidandoci a nuovi arresti, nuove retate. Noi, seguendo indegnamente l’esempio dell’avvocato Fulvio Croce, che difese i suoi stessi aguzzini in nome della Costituzione e del diritto alla difesa, ecco, con la stessa lucidità dobbiamo cercare di capire se fosse stato possibile liberarci dal giogo della violenza terrorista senza comprimere e indebolire lo Stato di diritto. Lo dobbiamo fare per capire il passato e per evitare derive simili in futuro. Per questo siamo qui ad augurarci che questi arresti possano aiutare a capire quegli anni, pur temendo che possano diventare l’ennesima forma di rimozione collettiva. L’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, uno di quelli che visse sulla propria pelle la tragedia dolorosissima del caso Moro, entrò nelle carceri a incontrare quella generazione di terroristi e impegnò gli ultimi anni della sua vita a provare a traghettare l’Italia dalla spirale d’odio e di vendetta verso una visione storica più distaccata e lucida di quel fenomeno. Chiese la clemenza per i terroristi e la fine delle leggi di emergenza che pure aveva contribuito a creare. Era un modo per dire che avremmo dovuto guardarci allo specchio e capire come mai l’Italia, unica tra i paesi occidentali, si trovò immersa in quella tragedia collettiva per decenni. Ecco, forse è da lì che dovremmo riprendere i fili del discorso. P.s. - Tra le cose più preziose del giorno segnaliamo il tweet di Mario Calabresi: “Oggi è stato ristabilito un principio fondamentale: non devono esistere zone franche per chi ha ucciso. La giustizia è stata finalmente rispettata. Ma non riesco a provare soddisfazione nel vedere una persona vecchia e malata in carcere dopo così tanto tempo”. Mario Calabresi è il figlio del commissario Calabresi, del cui omicidio è stato accusato e condannato Giorgio Pietrostefani, uno degli arrestati di ieri. E allora, a tanti anni di distanza da quei fatti, ci chiediamo: davvero sono le stesse persone che decenni fa decisero di impugnare le armi? Giustizia, non vendetta di Benedetta Tobagi La Repubblica, 29 aprile 2021 Questo percorso, lento ma fermo, che culmina con gli arresti in Francia, non è solo per le vittime. È per tutti coloro che all’epoca non deragliarono, sopportando la fatica e le frustrazioni della pratica democratica. Sette ex terroristi rossi arrestati, finalmente, decenni dopo i gravi delitti per cui sono stati condannati in via definitiva, e altri tre sono in fuga. Le foto segnaletiche vintage che riempiono i principali siti d’informazione sembrano davvero fantasmi del passato e suscitano domande scomode: che significato hanno questi arresti tardivi, dopo così tanto tempo, dopo che gli interessati hanno smesso da lungo tempo di delinquere? È davvero giustizia o una tardiva vendetta contro gente che si è rifatta una vita? Siamo uno strano Paese, indubbiamente, in cui la storia del terrorismo resta perennemente impigliata nella cronaca anche perché i tempi della giustizia sono spesso abnormi. In questi giorni è cominciato davanti alla Corte d’Assise di Bologna un nuovo processo per la strage di Bologna del 1980, lo stesso anno dell’omicidio del dirigente Renato Briano e del generale Enrico Galvaligi, per cui sono condannati all’ergastolo alcuni dei Br arrestati. Chi ricorda le macchie di sangue sui marciapiedi e il bollettino quasi quotidiano di ferimenti e omicidi della fine degli anni Settanta, come pure chi è stato colpito direttamente dal terrorismo, nella carne o negli affetti, ha provato sollievo e anche soddisfazione. Ma questo pezzetto di giustizia, pur tardiva, che finalmente si compie è per tutti i cittadini, non solo per le vittime e i sopravvissuti. Medica infatti una ferita che puzzava di arbitrio, discrezionalità, favoritismi, compromessi politici, ipocrisia. L’anomalia non sono gli arresti, ma la persistenza irragionevole della dottrina Mitterrand, il fatto che ci siano voluti tanti anni, e tanti sforzi, per sbloccare la situazione (risale al 2002 l’intesa con la Francia di arrestare i terroristi condannati per fatti di sangue). L’anomalia è il drappello di intellettuali francesi, che - portandosi dietro fette insospettabilmente ampie di opinione pubblica d’Oltralpe - trattano gli ex terroristi di casa nostra come poveri perseguitati politici, travisando in modo vergognoso la nostra storia e il contenuto dei processi, e ostentando di ignorare le ormai abbondanti ricostruzioni storiche. Nonostante il loro beniamino, l’ex terrorista dei Pac, poi scrittore, Cesare Battisti, dopo essere stato arrestato, li avesse già sbugiardati tutti, clamorosamente. Sono stati, e sono ancora tanti, coloro che cercano di travisare la realtà dei fatti, di negare, o sminuire, la realtà storica del terrorismo brigatista; coloro che non vogliono una piena chiarificazione su queste pagine di storia. Non a caso, a vagheggiare amnistie e “pacificazioni” (per chi? tra chi?) a partire dalla fine degli anni Ottanta furono, accanto ai leader dell’eversione di sinistra, esponenti di spicco del potere democristiano, che si mostravano fin troppo ansiosi di lasciarsi alle spalle quegli anni e di non andare troppo a fondo nelle pagine più torbide di quella stagione, dal caso Moro al sequestro Cirillo. Gli arresti di mercoledì 28 aprile puntellano gli sforzi di chi, al contrario, cerca chiarezza. Una giustizia che compie il proprio corso è un tassello indispensabile per mantenere, o ricostruire, un rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni. La certezza della pena tiene fermo il principio che la legge è uguale per tutti, e laddove c’è stato uno strappo violento ci devono essere riconoscimento, sanzione e riparazione. La verità deve essere riconosciuta, insieme alle responsabilità e deve avere le conseguenze previste per legge. L’eventuale misericordia - in forma di attenuanti, arresti domiciliari, benefici di legge e quant’altro - può esercitarsi solo dopo. La storia e il profilo della ministra Cartabia sono un’ulteriore garanzia che questa vicenda così delicata sarà gestita con misura ed equilibrio, senza tracimare (era giusto e sacrosanto l’arresto di Battisti, ma fu vergognosa la passerella mediatica che accompagnò il suo sbarco in Italia). Nel tumulto degli anni Settanta, milioni di italiani fecero politica in modo non violento, con le manifestazioni, la disobbedienza civile, le battaglie processuali, le inchieste e la controinformazione. Usando il corpo, la voce e l’intelligenza, anziché le P38. Perché mai, dunque, dovrebbero uscire indenni e veder cancellate le proprie condanne gli ultimi di quei pochi (nell’ordine di alcune migliaia, tra terroristi e fiancheggiatori, anche se i morti furono tantissimi, e i danni collaterali enormi), proprio perché erano pochi, che scelsero la più antidemocratica delle strade, la clandestinità, le armi e il terrorismo, l’intimidazione del “colpirne uno per educarne cento”? Questa giustizia, lenta ma ferma nel chiedere di compiersi, non è solo per le vittime, è per tutti coloro che all’epoca non deragliarono, sopportando la fatica e le frustrazioni della pratica democratica. Giustizia, non vendetta. Rifugiati politici in Francia, che senso ha arrestare ed estradare degli ottantenni? di Frank Cimini Il Riformista, 29 aprile 2021 “C’è anche in programma una visita di Stato in Francia del presidente Sergio Mattarella e dovrebbe essere firmato il Trattato Quirinale per rafforzare i rapporti bilaterali. In questo contesto Macron potrebbe dare il via libera alle estradizioni chieste alla Francia dalla ministra Marta Cartabia nell’ultima riunione con il suo omologo francese”. Intervistato da Repubblica lo scrittore francese Marc Lazar risponde alla domanda su un possibile cambiamento di linea del governo d’Oltralpe sulla presenza a Parigi di persone condannate in Italia per fatti di lotta armata. Lazar polemizza con gli intellettuali francesi che avevano nei giorni scorsi firmato un appello a favore della dottrina Mitterand “perché sul tema c’è ancora troppa ignoranza”. Eppure a proposito di cambiamenti di linea va registrato che Lazar dieci anni fa intervistato da Paolo Persichetti sul quotidiano Liberazione aveva detto: “Dopo la dietrologia e le commissioni parlamentari di inchiesta ora è il tempo degli storici”. Quindi ora non sarebbe più il caso di storicizzare ma di consegnare all’Italia una dozzina di protagonisti di una stagione politica lontanissima e di portarli in carcere adesso che hanno tutti un’età più vicina agli 80 che ai 70. Lazar aggiunge che dietro la scelta di Macron che lui ipotizza ci potrebbero essere anche ragioni di politica interna. “Forse lui pensa di lanciare un messaggio agli elettori di destra come sta facendo su altri temi come sicurezza e laicità. Macron è già in campagna per la sua rielezione e concentra la sua strategia su questo elettorato”. Lazar afferma che i suoi connazionali difensori dei rifugiati politici italiani “non prendono quasi mai in considerazione il punto di vista delle vittime del terrorismo”. Dieci anni fa Lazar voleva affidare la questione agli storici mentre adesso invita a tener conto della posizione dei parenti delle vittime mostrando almeno un po’ di invidiare le repubbliche islamiche dove i familiari decidono anche le pene dei colpevoli. Lazar accusa gli intellettuali suoi connazionali di essere ideologici, ma anche lui non scherza. Anzi. Il riferimento alla visita prossima di Mattarella a Parigi non è casuale. Il giorno del rientro in Italia di Cesare Battisti, aveva detto: “E adesso gli altri”, parlando di altri condannati e rifugiati all’estero. Il presidente della Repubblica è un politico di grandissima esperienza. Non è un caso che insieme a Giorgio Napolitano suo predecessore al Quirinale abbia fatto prevalere le ragioni della politica firmando la grazia a cinque agenti della Cia condannati per il sequestro e le torture all’imam Abu Omar. In quel caso Mattarella mise in secondo piano gli anni di carcere da scontare. C’era di mezzo la ragion di Stato o meglio degli Stati perché dall’altra parte c’era il governo degli Stati Uniti d’America. Per le vicende dei cosiddetti “anni di piombo” invece non sarebbe possibile una deroga, una soluzione politica, un provvedimento di amnistia che chiuda un periodo storico, come era scritto nell’appello degli intellettuali francesi che avevano sposato la proposta dell’avvocata Irene Terrel. Terrel aveva spiegato di trovare assurdo l’accanirsi e la vendetta a decenni di distanza. È pura ideologia in fondo anche il non voler prendere atto dell’impossibilità di una memoria condivisa. A Milano in piazza Fontana ci sono due lapidi. In una si legge che l’anarchico Pinelli morì innocente, nell’altra che venne ucciso. Una al fianco dell’altra. La storia la scrivono i vincitori ma gli sconfitti non sono obbligati a condividere. Pietrostefani, Petrella e gli altri. La “pena certa” quarant’anni dopo di Andrea Colombo Il Manifesto, 29 aprile 2021 Solo l’ex di Lc si proclama innocente. Gli altri ammettono pesanti responsabilità. Quando, nel 1993, dopo la sentenza d’appello che la aveva condannata all’ergastolo per vari reati commessi dalla colonna romana delle Br incluso un omicidio, si apprestava a riparare in Francia, Marina Petrella già rifiutava di parlare di politica. Era già una donna molto diversa da quella che era stata arrestata nel 1982 con il marito Gigi Novelli, scomparso l’anno scorso. Erano passati 10 anni. Ora ne sono passati altri 30. La donna di 66 anni che con gran soddisfazione di media, governanti e appassionati della “pena certa” tornerà presto nelle patrie galere non ha più nulla della ragazza che negli anni del grande conflitto sociale aveva militato nel gruppo romano di Viva il comunismo, era entrata nelle Br con il marito e il fratello Stefano, era stata arrestata, scarcerata per decorrenza termini, entrata in clandestinità, arrestata di nuovo dopo uno scontro a fuoco su un autobus. Marina aveva partorito in carcere. La figlia, Elisa, aveva passato i primi anni in cella, come usava allora, salvo poi ritrovarsi sbattuta fuori e sola perché anche questo usava allora. Dopo 8 anni di carcere la ex dirigente delle Br voleva un’altra vita. Se la è costruita a Parigi, con un marito immigrato dall’Algeria, una seconda figlia nata nel 1998, pochi soldi, sempre assediata dalla paura di quel ripensamento della Francia che adesso è arrivato. Chi pensa che non abbia pagato niente non sa di cosa parla. Nel 2008 quello spettro dell’estradizione per Marina Petrella si era già materializzato una volta. Arrestata in un controllo stradale nell’agosto 2007, pronta per l’estradizione in dicembre. Si mise in mezzo la moglie dell’allora presidente Sarkozy, Carla Bruni, probabilmente su spinta della sorella Valeria Bruni Tedeschi. Sarko scrisse una lettera a Napolitano chiedendogli di concedere la grazia. Il Colle rispose picche, neppure tanto diplomaticamente. Sarkozy si appellò all’intesa umanitaria tra Italia e Francia firmata nel 1957 e bloccò l’estradizione. Anche il figlio di Roberta Cappelli è nato in carcere, ma nel suo caso, tanto per far sentire il peso dello Stato, con gli agenti armati in sala parto. Non ci fece caso nessuno. Era una terrorista, no? La storia di Roberta non è molto diversa da quella di Marina. È una storia di quegli anni, non la si può capire astraendo dal contesto in nome di una giustizia alla Javert. Militava in un gruppo famoso a Roma, attivo nel quartiere popolare del Tiburtino, “i Tiburtaros”. Da lì entrò nelle Br, partecipò a numerose azioni, passò i suoi in carcere, provò a espatriare una prima volta, fu ripresa, fuggì di nuovo. Si ricostruì una vita a Parigi con il marito, uomo di sinistra ma lontanissimo da tentazioni armate, e con un figlio che ha dovuto combattere sempre con il trauma di quei primi anni passati in galera. Marina Petrella, come Giovanni Alimonti, centralinista della Camera e brigatista, come Enzo Calvitti e Sergio Tornaghi, anche loro ex Br, come il bergamasco Narciso Manenti, che invece faceva parte di uno dei tanti gruppi minori che presero le armi in quel decennio, hanno cercato di lasciarsi alle spalle una scelta per cui avevano (alcuni) sacrificato vite altrui e messo in gioco la propria. Quella scelta Giorgio Pietrostefani, il più noto tra gli arrestati di ieri, non la ha mai fatta. Era uno dei principali dirigenti di Lotta continua, il duro, il paladino della “centralità operaia”, opposta alle insorgenze innovative dei giovani e delle donne, che alla fine, nel 1976, decretarono lo scioglimento del gruppo. Pietrostefani abbandonò la politica allora. Finì dall’altra parte della barricata non per modo di dire: dirigente delle Officine Meccaniche Reggiane. Con Sofri e Ovidio Bompressi fu accusato nel 1988 di aver ucciso il commissario Calabresi 16 anni prima. A differenza di Sofri fuggì in Francia, tornò per il processo nel 1997, dopo due anni di carcere e la nuova condanna passò di nuovo il confine clandestinamente. Pietrostefani avrebbe dovuto essere graziato. L’allora presidente Ciampi era deciso a firmare la grazia. Il guardasigilli leghista Castelli si oppose e ne nacque un conflitto di giurisdizione risolto a favore del Colle dalla Consulta. Ma quando arrivò la sentenza Ciampi non era più presidente da tre giorni e il successore, Napolitano, graziò Bompressi ma non Pietrostefani. Che oggi è un uomo vicino agli 80, col fegato trapiantato da 5 anni, parecchio malato. Tra gli arrestati di ieri solo l’ex di Lc si proclama innocente. Tutti gli altri ammettono responsabilità pesanti. Ma i politici e i giornalisti che tripudiano dovrebbero almeno chiedersi se mettere in galera dopo 40 anni persone che hanno commesso delitti politici in una fase storica superata e che da allora sono cambiati tanto da diventare persone diverse sia nobile giustizia o meschina vendetta. Pietrostefani e la stagione dell’ergastolo ottativo di Adriano Sofri Il Foglio, 29 aprile 2021 La dottrina Mitterrand ha realizzato un fine solenne: il ripudio della violenza da parte dei suoi autori. Avrei voglia di essere cinico, per adeguarmi. C’è quell’aneddoto famoso sul novembre del 1947, la destituzione del prefetto di Milano Troilo, che era stato un comandante partigiano, e la ribellione della città. Manifestanti e partigiani occuparono la Prefettura, e da lì Giancarlo Pajetta telefonò a Roma. “Compagno Togliatti - disse fieramente - abbiamo occupato la Prefettura!” “Bravo, e adesso che ve ne fate?” Mercoledì mattina un’operazione congiunta di polizie e intelligence francesi e italiane - una retata, in ora antelucana, come da regolamento - ha portato all’arresto di “7 ex terroristi” a Parigi. Bravi! E adesso che ve ne fate? Vediamo. Si trattava di riacciuffare finalmente persone dichiarate colpevoli da tribunali italiani di reati commessi fra i 50 e i 40 anni fa. Naturalmente, la justice est lente, elle est lente mais elle viene, è lenta ma arriva, come dice la canzone della Comune di Parigi, che aspetta ancora. Accantonando per qualche riga il mio intimo legame con uno dei catturati, ho un paio di osservazioni generali, suscitate dal battage dei giorni precedenti il “blitz”. La prima, sul numero dei ricercati: 11 (undici), ridotti nel giro di pochi giorni a 10 (dieci) forse perché per uno di loro era intervenuta la prescrizione, imminente anche per altri. Ora, gli italiani riparati in Francia durante o dopo gli anni cosiddetti di piombo erano stati alcune centinaia. Dove sono andati a finire? Non sono abbastanza al corrente della questione. A occhio direi che uno (1), Paolo Persichetti, fu estradato con un vero colpo di mano delle polizie francese e italiana: è oggi libero, trovate in rete adeguate ricostruzioni della sua vicenda. Alcuni, pochi, vennero spontaneamente a consegnarsi in Italia, come Toni Negri. E la moltitudine restante? Molti sono stati prescritti, alcuni sono morti di vecchiaia o di malattia, uno si è ucciso poco fa buttandosi giù da una finestra. La sporca decina che oggi fa i titoli di testa è il fondo del barile. A questa constatazione si lega la prossima, la più clamorosa. Nei decenni trascorsi dopo il rifugio in Francia, non uno - se non sbaglio - non uno dei condannati ha commesso un solo reato. Questa era del resto una condizione alla loro accoglienza, ma non è la spiegazione. La spiegazione sta in un radicale passaggio di pensieri, linguaggi, sentimenti e stati d’animo, come avviene dopo ogni guerra, anche le guerre più immaginate. Come avviene “la mattina dopo”. Che nessuna e nessuno di quelle centinaia abbia più aperto conti con la giustizia penale è l’inesorabile dimostrazione che le loro azioni appartenevano a una temperie politica, comunque distorta, e non le sarebbero sopravvissute. Di recente un commentatore, uno dei migliori, aveva scritto sul suo quotidiano, col benigno proposito di negare ogni legame fra il “Sessantotto” e gli adepti della “lotta armata”: “Io non credo che appartengano, neri e rossi, alla storia della politica, se non come sfondo scenografico e come alibi, ma alla storia della criminologia...”. Non è vero: una vocazione al crimine per il crimine si sarebbe trovata un’intera gamma di alibi per continuare. Al contrario, la cosiddetta “dottrina Mitterrand”, che è stata in realtà la pratica di Mitterrand, di Chirac, di Sarkozy, di Hollande e, fino a ieri, di Macron, ha realizzato il fine più ambizioso e solenne che la giustizia persegua: il ripudio sincero della violenza da parte dei suoi autori, e così, con la loro restituzione civile, la sicurezza della comunità. La Francia repubblicana è riuscita dove il carcere fallisce metodicamente. Del resto, ricordate che cosa era successo fra le persone che, con una esperienza affine a quella dei rifugiati in Francia, erano state incarcerate in Italia. Una loro gran parte aveva dato vita al patto che andò sotto il nome di “dissociazione”, e permise un ripudio della lotta armata e della violenza che non dovesse sottoporsi alla denuncia di altri, non motivata dalla necessità di sventare minacce attuali. L’obbligo della delazione è infatti il più infernale ostacolo al pentimento. Quel processo ebbe una importante incubazione nell’interlocuzione di detenuti “politici” con il cardinale arcivescovo milanese Martini, e il simbolico (manzoniano) compimento con la consegna delle armi nel suo vescovado. È curioso, diciamo così, che la spettacolosa svolta della retata di pensionati d’oltralpe abbia seguito da vicino il pronunciamento della Corte Costituzionale sull’incostituzionalità dell’ergastolo cosiddetto ostativo. Suggerisco al ministero una variazione lessicale, per i nuovi arrivi eventuali: l’ergastolo ottativo. Il treno dei desideri. Li avete presi: e ora che ve ne fate? E veniamo al mio interesse personale. A Giorgio Pietrostefani, “Pietro”, già condannato a 22 anni come mandante dell’omicidio Calabresi. Non farò torto alle altre e gli altri della retata osservando che è lui il piatto forte. I titoli ne sono così inebriati da dimenticare ancora una volta che i giudici del nostro processo, pur temerari, rinunciarono a invocare nei nostri confronti l’aggravante del terrorismo. Nell’intervallo fra la loro tentazione di farlo e la precipitosa rinuncia fu assassinato Mauro Rostagno. Ciò non ha impedito, ancora ieri, che giornali e telegiornali fregiassero Pietrostefani del titolo di “ex-terrorista”, e non di rado di quello cumulativo di “brigatista”. Sono distratti. Non hanno artigli, ma unghie lunghissime sì, da esibire brindando. Non mi preme distinguere fra le persone della retata, come sono oggi; al contrario, sono solidale. (Con le loro vittime, da sempre). Però non conosco le altre, e conosco Pietro. Lavorava in Francia prima d’esser condannato, venne spontaneamente in galera quando fu il momento, decise molto a malincuore di non tornarci dopo la revisione mancata della nostra condanna: aveva ragioni famigliari stringenti che prevalsero sul suo orgoglio. In Francia ha sempre lavorato, avuto residenza regolare, pagato le tasse, condotto vita discreta di vecchio uomo e di nonno. Il suo indirizzo era noto a chiunque volesse trovarlo. La Francia che gli ha dato ospitalità gli ha dato anche un fegato di ricambio, salvandogli la vita con un trapianto in un’età che in Italia non lo avrebbe consentito. La sua condizione sanitaria è cronicamente arrischiata, e il suo avvocato provvederà, o avrà già provveduto, a documentarla al giudice. Pietro vive di lunghi ricoveri regolari e di improvvisi ricoveri d’urgenza, oltre che di quotidiani farmaci vitali. Ha in programma di qui a poco un ennesimo intervento di riparazione nel suo ospedale parigino. Tutto ciò non deve intenerire nessuno, né i privati né, tantomeno, il cuore dello Stato. Da quando ho ricevuto la notizia del suo arresto sono combattuto fra due sentimenti opposti, quasi cinici: la paura che muoia nelle unghie distratte di questa fiera autorità bicipite transalpina e cisalpina, e un agitato desiderio che torni in Italia. Un desiderio da vecchio amico, e anche lui è vecchio, forse ce l’ha anche lui un desiderio simile. Ho una postilla. Poiché ho sempre saputo che la dedizione, l’esaltazione, il fanatismo, che segnano certe stagioni di passione politica, e hanno e si trovano radici forti e profonde, sono pronte a cadere la mattina dopo, mi posi presto e fervidamente il problema di un’uscita dagli anni dei terrori. Mi stava a cuore la socievolezza, Lotta Continua si era sciolta nel 1976, vivevo altrove e senza alcun interesse personale. Il 9 ottobre del 1979 pubblicai su LC, sopravvissuto come giornale quotidiano, tre fitte pagine sul problema, dopo averne discusso accanitamente con Sandro Pertini presidente, col quale avevo rapporti molto amichevoli. Si intitolavano “Amnistia generale. Firmato: Togliatti”. Sapete, l’amnistia del ‘46, delle “sevizie particolarmente efferate”. Scrivevo che “nell’atteggiamento attuale del Pci sul terrorismo, qualche discorso di maniera sulla natura sociale del problema, sul mancato rinnovamento dello stato e così via, si riduce alla fine a un’analisi che privilegia il complotto, e a una prognosi che prescrive solo sopraddosi di polizia... Tuttavia il buonsenso induce a ritenere che passerà più o meno tempo, ma delle galere piene di terroristi veri o presunti, e di una condizione carceraria ricacciata nell’isolamento e nella violenza, lo stato e i suoi uomini saranno costretti a occuparsi”. Pertini era stato un avversario strenuo dell’amnistia di Togliatti guardasigilli. Aveva denunciato in Parlamento che erano stati scarcerati “i più sporchi propagandisti fascisti insieme a molte canaglie repubblichine”. Le mie pagine del 1979 finivano così: “Dei protagonisti di quella discussione del 1946, uno, Pertini, conserva un’intransigenza dalla quale si può anche radicalmente dissentire (com’è successo per noi rispetto alla sorte di Moro) ma che non si può sospettare d’incoerenza né di insincerità. Altri, i continuatori di Togliatti, sembrano tenerne ferma la lezione di spregiudicatezza strumentale... Ieri ne è venuta fuori un’amnistia indiscriminata, oggi si esclude perfino la possibilità di discutere apertamente il problema di una nuova misura politica. Fino a quando?” Ecco, fino a quando. Mai. Francia e Italia si puliscono la coscienza sugli ex terroristi di Giulia Merlo Il Domani, 29 aprile 2021 L’operazione “Ombre rosse”, condotta in collaborazione dalla polizia francese e quella italiana, ha portato all’arresto di 7 ex militanti di formazioni di estrema sinistra, condannati per fatti di sangue e fuggiti a Parigi. Il nome scelto dalla polizia francese e quella italiana per l’operazione è “Ombre rosse”. E ieri mattina ha portato all’arresto di sette ex terroristi degli anni di piombo, rifugiati da anni in Francia grazie alla protezione garantita dalla cosiddetta “dottrina Mitterrand”. “Rosse” come il colore politico delle sigle terroristiche di cui i fermati facevano parte negli anni Settanta e Ottanta, le più note delle quali sono le Brigate rosse e Lotta continua. “Ombre”, come se fino a oggi e negli ultimi quarant’anni la loro presenza in Francia non fosse alla luce del sole. Chi sono - L’operazione ha portato in carcere a Parigi sette ex terroristi, mentre altri tre risultano ricercati. Dei fermati, quattro sono stati condannati all’ergastolo dalla giustizia italiana: gli ex Br Roberta Cappelli (66 anni) responsabile degli omicidi, tra il 1979 e il 1981, del generale Enrico Riziero Galvaligi, dell’agente di polizia Michele Granato e del vicequestore Sebastiano Vinci; Marina Petrella (67 anni) condannata per vari sequestri e per l’omicidio del generale Galvaligi; Sergio Tornaghi (63 anni) condannato per l’omicidio dell’industriale Renato Briano e l’ex membro dei Nuclei armati contropotere territoriale, Narciso Manenti (65 anni) condannato per l’omicidio dell’appuntato Giuseppe Guerrieri nel 1979. Gli altri tre fermati sono gli ex Br Giovanni Alimonti (66 anni), condannato a 11 anni e 6 mesi per il tentato omicidio del dirigente della Digos Nicola Simone nel 1982; Enzo Calvitti (66 anni), condannato a 18 anni e 7 mesi per gli omicidi dell’agente Raffaele Cinotti e del vicequestore Sebastiano Vinci nel 1981 oltre che per l’attentato contro Simone e, infine, Giorgio Pietrostefani, ex militante di Lotta continua. Il suo è forse il nome più conosciuto: 78 anni, è stato condannato a 22 anni come mandante, insieme ad Adriano Sofri, per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, nel 1972. Nel blitz dovevano essere arrestati anche gli ex brigatisti Raffaele Ventura, Maurizio Di Marzio e Luigi Bergamin, che però si sono dati alla fuga e sono attualmente ricercati. L’operazione è il frutto di un’azione politica. L’8 aprile la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha incontrato in videoconferenza il suo omologo francese Eric Dupond-Moretti e ha chiesto formalmente l’intervento urgente dell’Eliseo per arrestare gli ex terroristi prima che scattasse la prescrizione della pena. Rispetto ad altri tentativi passati il ministro francese ha espresso “grande volontà di collaborazione”. Il cambio di linea ha portato alla soluzione del nodo che bloccava le pratiche: secondo la legge francese, infatti, è l’autorità politica a trasmettere alla procura i fascicoli con le richieste di estradizione e proprio questo atto formale ha permesso alla procura di Parigi di far scattare l’operazione. Quanto ai nomi degli arrestati, i dieci sono stati individuati all’interno di una lista presentata dall’Italia con le generalità di 200 persone condannate e fuggite in Francia a partire dagli anni Settanta. Cosa succede ora - Con i mandati di arresto di ieri la Francia considererebbe definitivamente chiuso il dossier legato alla dottrina Mitterrand, perché gli altri ex terroristi presenti nella lista sarebbero morti oppure sarebbe intervenuta la prescrizione della pena. Gli arresti parigini, tuttavia, non fanno scattare automaticamente l’estradizione in Italia. Entro 48 ore, gli ex terroristi verranno presentati alla procura generale della corte d’Appello di Parigi e il giudice deciderà sulla richiesta. Nel frattempo lo stesso giudice valuterà se trattenerli in carcere oppure se disporre la libertà vigilata. L’iter giudiziario potrebbe richiedere fino a due o tre anni: dopo il giudizio della corte d’Appello, infatti, i sette potranno fare ricorso in Cassazione. Se l’estradizione verrà confermata per eseguirla servirà un decreto del primo ministro contro il quale potrà essere proposto ricorso davanti al Consiglio di stato. Ora, quindi, le sorti degli ex terroristi sono nelle mani della magistratura francese che “si occuperà del dossier” e prenderà “una decisione indipendente sui casi individuali”, ha riferito l’Eliseo. Dunque, non c’è matematica certezza che l’esito sia quello dell’estradizione. Sul fronte politico, tuttavia, la vicenda ha raggiunto il risultato sperato. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha espresso soddisfazione, parlando di “memoria di quegli atti barbarici viva nella coscienza degli italiani” e rinnovando la “partecipazione al dolore dei familiari”. La ministra Cartabia, che in prima persona ha sollecitato l’operazione, ha definito “storica” la decisione della Francia di “rimuovere ogni ostacolo al giusto corso della giustizia per una vicenda che è stata una ferita profonda nella storia italiana”. La dottrina Mitterrand - Sul versante francese, il presidente Emmanuel Macron si è assunto personalmente la paternità dell’iniziativa, ma l’Eliseo ha precisato che la decisione non sconfessa affatto la dottrina Mitterrand, perché i terroristi arrestati ieri “hanno commesso reati di sangue”. La dottrina Mitterrand non è una legge ma una decisione politica presa nel 1985 dall’allora presidente. Erano gli anni delle inchieste per terrorismo, la Francia era il luogo dove molti avevano trovato rifugio e Mitterrand aveva deciso che i terroristi italiani, che avevano rotto in modo evidente con il terrorismo e si erano rifatti una vita in Francia non sarebbero stati estradati, a meno che non venissero fornite prove di una loro “partecipazione diretta a crimini di sangue”. Come sia possibile che in Francia abbiano vissuto e vivano ex terroristi condannati per omicidio lo spiegano i fatti successivi. In Italia vengono celebrati i processi per terrorismo, molti si fondano sulle dichiarazioni di pentiti (è il caso di Pietrostefani) e gli imputati vengono condannati in contumacia perché già espatriati. L’ordinamento francese, però, non riconosce l’istituto della contumacia e il fatto che militanti di movimenti politici che si definiscono di opposizione vengano condannati senza essere presenti alimenta la sfiducia francese nei confronti degli esiti dei processi italiani ai terroristi. A questo si sommano le complicazioni burocratiche e politiche, anche perché in Francia si sviluppa un movimento di intellettuali, dalla scrittrice Fred Vargas fino al filosofo Bernard-Henry Lévi, contrari alle estradizioni. Anche oggi, a spingere l’iniziativa di Macron, sembrano essere ragioni politiche: è in corso di approvazione una nuova legge antiterrorismo, il conflitto con la destra di Marine Le Pen è sempre più aspro e un atto simbolico come questo aiuta a rafforzare la nuova dinamica di cooperazione giudiziaria europea, che è uno dei punti su cui spinge anche Cartabia. La scelta ricuce i rapporti con l’Italia, dove la ferita del terrorismo non è ancora chiusa e le famiglie delle vittime reclamano giustizia. La decisione ora spetta ai giudici francesi. All’opinione pubblica, invece, la valutazione se il tempo trascorso possa o meno influire sulla pretesa punitiva di uno stato. E su chi siano gli uomini e le donne che potrebbero tornare in Italia, a più di quarant’anni dai fatti per cui sono stati condannati. Contro il giubilo per gli arresti in Francia di Giuliano Ferrara Il Foglio, 29 aprile 2021 Certe pene sono imprescrittibili, ma l’ansia di vendetta è un sentimento avvilente che sa di sconfitta. Non partecipo al clima di giubilo per gli arresti in Francia. Negli anni del terrorismo, che erano i miei vent’anni passati a Torino, ero un controterrorista (così mi definiva mio padre con molta inquietudine), ero collaboratore di questurini e carabinieri e magistrati, organizzatore di delazioni di massa, di scioperi, di documenti e ricerche per dire la verità su un fenomeno, la violenza in fabbrica e fuori, che inquinava severamente la storia del movimento operaio e minacciava la democrazia e lo stato, con i quali noi comunisti togliattiani e amendoliani ci identificavamo senza riserve, fino a assumerci rischi seri, girare armati con l’autorizzazione del ministero dell’Interno, cambiare abitazione e guardarci le spalle. Avevo una smania di giustizia efferata, emozionato dal delitto e dalla sorte delle vittime; sapevo che era lotta armata, non omicidi seriali, sapevo che i caduti erano simboli politici, non-persone trattate con odio giacobino da marxisti imbizzarriti e stolti; la mia furia di ritorsione e repressione era identica con l’idea di stroncare un movimento o partito armato che mirava al cuore dello stato nel quale il Pci era insediato nel segno dell’antifascismo e della costituzione repubblicana e di un’alleanza riformatrice tra le grandi forze popolari (retrospettivamente, un generoso inganno ideologico). Ho partecipato a un numero impressionante di funerali, di comizi, di avventurose imprese politiche fluttuanti fra morti e feriti per mano terrorista, questurini, giornalisti, capi di fabbrica, passanti, amministratori, politici, fino ai casi di un operaio di Genova Guido Rossa, che aveva denunciato un terrorista, e di Aldo Moro, il capo della Dc e della maggioranza di unità nazionale processato e giustiziato senza pietà. Ruppi le relazioni con un mondo che mi sembrava fatuo, composto di facili giustificatori e giustificazionismi. Decrittare i comunicati delle bierre era il mio mestiere, spiegare che molti movimenti estremisti erano contigui all’area o partito armato era la mia missione intellettuale in una città, Torino, dove lo pseudo-dogma dei “compagni che sbagliano” era spesso di rigore, in particolare nella cultura cosiddetta azionista oggi imprudentemente celebrata come integra e pura. Non ritrovo nulla di quella smania di giustizia, bene o male indirizzata, ma decisiva per la sconfitta del terrorismo italiano, nell’ansia di vendetta che nell’Italia di oggi, quando non costa più nulla e rende troppo solidarizzare con il dolore delle vittime e dei loro parenti, raggiunge anche delitti di cinquant’anni fa e persone che c’entrano ormai nulla con quello che furono. Tutto viene deciso da un’interpretazione abbastanza miserabile della politica. Mitterrand custodiva a suo modo un fuoco machiavellico incomprensibile a noi di qui e perseguiva l’obiettivo di una soluzione politica forte a un problema storico, quello di una parte di una generazione che aveva ceduto al fantasma doloroso (per gli altri e per loro stessi) della lotta armata. Noi qui, adesso, dopo il tradimento macroniano di quella “dottrina”, paghiamo con un fuocherello demagogico da quattro soldi, e con l’illusione della giustizia distributiva, la nostra incapacità di elaborare un luttuoso periodo della nostra storia, fatto anche ma non soltanto di dolori privati, un’epoca in cui si doveva saper scegliere da che parte stare. E all’avanguardia della demagogia si trovano quelli che forse in quegli anni avrebbero speso poco, pochissimo, in difesa dello stato e della democrazia, di quelle energie repubblicane che non posseggono se non nella chiacchiera. Quindi la legge è legge, certe pene sono imprescrittibili, ma il giubilo oggi è per me un sentimento avvilente e sa di sconfitta. Cartabia: “Così sono cadute tante ambiguità. Pagina da chiudere, ma non è vendetta” di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 29 aprile 2021 La ministra della Giustizia: “Decisivo è stato anche il fatto che, mai come ora, tutte le nostre istituzioni si sono mosse in modo compatto e tempestivo. Una modalità d’azione, a cui ispirarsi sempre”. Ministra Cartabia, dopo decenni le autorità francesi accolgono le nostre richieste e arrestano i terroristi italiani che si sono rifatti una vita in Francia. Lei come titolare della giustizia ha gestito questa ultima fase. Cosa è cambiato rispetto al passato? “Questa vicenda si protrae da oltre quattro decenni. Dietro questa svolta c’è un lavoro che ha coinvolto negli anni vari soggetti a più livelli. Sin dal mio primo colloquio col ministro della Giustizia francese ho percepito una chiara sensibilità alla portata storica e politica del problema, un’umana partecipazione al dolore delle vittime e una netta determinazione ad impegnarsi per porvi rimedio. Non so se le origini italiane del ministro Dupond-Moretti, di cui va molto fiero, possano aver giocato un ruolo. Decisivo è stato anche il fatto che, mai come ora, tutte le nostre istituzioni si sono mosse in modo compatto e tempestivo. Una modalità d’azione, a cui ispirarsi sempre”. L’Eliseo ha confermato la dottrina Mitterand, ma ha concesso quello che prima negava. Perché? “Nel colloquio con Dupond-Moretti ho ribadito con fermezza l’importanza del fattore tempo, avendo ben presente il calendario delle imminenti prescrizioni. La prossima sarebbe stata il 10 maggio. E ho voluto anche fare chiarezza una volta per tutte sul duplice equivoco, che per anni ha ostacolato la concessione delle estradizioni: anzitutto stiamo parlando di persone condannate in via definitiva per reati di sangue e non processate per le loro idee politiche; in secondo luogo le condanne sono state pronunciate all’esito di processi celebrati nel pieno rispetto delle garanzie difensive del nostro ordinamento. Come in questi anni più volte è stato ricordato, con le parole di Sandro Pertini, “l’Italia ha sconfitto gli anni di piombo nelle aule di giustizia e non negli stadi”. L’amicizia fra Draghi e Macron ha avuto un ruolo? “So per certo che c’è stata una telefonata, ai miei occhi decisiva, tra il presidente Draghi e il presidente Macron”. Quanto ci vorrà per l’effettiva estradizione in Italia? “Difficile fare previsioni precise, anche perché si tratta di fascicoli complessi. Di certo, io direi non dobbiamo aspettarci un rientro a breve, nei prossimi giorni. Gli arresti di ieri servivano a scongiurare il pericolo di fuga. Ora i giudici valuteranno se convalidarli e se applicare misure cautelari. Poi inizieranno i procedimenti, per valutare caso per caso la sussistenza dei presupposti per la concessione dell’estradizione. E poi ancora, come sempre avviene in queste procedure, l’ultima parola è dell’autorità politica”. Cosa garantisce che queste persone arrivino in Italia? Negli anni ‘80 a diversi arresti in Francia non è seguita poi l’estradizione. “Come accennato poco fa, la procedura è ancora molto lunga e articolata e soggetta a specifiche valutazioni che terranno conto dei singoli casi. Per questo, gli esiti sono ora tutti nelle mani dell’autorità giudiziaria francese. Certamente, il clima in cui questa svolta è avvenuta mi pare molto diverso rispetto ad allora”. Che giustizia è quella attuata con tanto ritardo sui fatti contestati? “Nessun ordinamento giuridico può permettersi che una pagina così lacerante della storia nazionale resti nell’ambiguità, e resti irrisolta. La storia offre numerosi esempi di giudizi celebrati e di vicende giudiziarie portati a compimento a molti anni di distanza. La nostra volontà di riproporre la richiesta delle estradizioni non risponde nel modo più assoluto ad una sete di vendetta, che mi è estranea, ma ad un imperioso bisogno di chiarezza, fondamento di ogni reale possibilità di rieducazione, riconciliazione e riparazione, fini ultimi e imprescindibili della pena”. Si può ancora parlare di rieducazione della pena a distanza di 40 anni? “Qualunque processo di rieducazione e anche di riconciliazione personale e sociale, specie dopo ferite particolarmente profonde, non può non partire dal riconoscimento di ciò che è accaduto e da un’assunzione chiara di responsabilità. Non a caso, in Sud Africa, dopo l’Apartheid, è stata costituita una commissione denominata “verità e riconciliazione”. Questo è forse il primo rilevante esempio di giustizia riparativa, che tra l’altro ha ispirato un analogo percorso qui in Italia tra protagonisti della lotta armata e i familiari delle vittime”. La vicenda di Battisti e la confessione finale di diversi delitti, negati quando stava in Francia e in Brasile, può aver avuto un ruolo? “Sicuramente questa vicenda ha contribuito a dare una visione più corrispondente alla realtà degli anni di piombo e quindi a creare anche in Francia un clima più favorevole all’accoglimento delle richieste italiane”. Cartabia: “Ha vinto la sete di verità e di riconciliazione, non la vendetta” di Liana Milella La Repubblica, 29 aprile 2021 La ministra della Giustizia: “Un atto di fiducia importante per le istituzioni italiane. La svolta? L’incontro con Dupont-Moretti e il dialogo tra Draghi e Macron”. Secondo la Guardasigilli “Parigi ha riparato a una ferita aperta da 40 anni. Il perdono? Nel mio piano di riforme ci sarà spazio per la giustizia riparativa”. “Non sete di vendetta, che non mi anima e spero non animi nessuno in questo Paese, ma sete di chiarezza e di reale possibilità di riconciliazione”. Ma a partire da un punto fermo: “Non ci può essere riconciliazione senza verità”. La Guardasigilli Marta Cartabia, in una giornata storica per lei in via Arenula, spiega a Repubblica come si è giunti alla cattura dei brigatisti e qual è il senso politico e giuridico degli arresti che rispondono a un fondamentale principio: “Dopo ferite particolarmente dolorose è necessario riconoscere ciò che è accaduto, come direbbe Paul Ricoeur, attraverso una parola di giustizia”. Lei ha definito subito come una “pagina storica” l’arresto dei terroristi in Francia. Perché? “Per la prima volta, la richiesta italiana di estradizione è stata riportata nell’alveo corretto dell’amministrazione della giustizia. Ossia, dopo quasi 40 anni, la Francia ha compreso appieno quale ferita abbia subito l’Italia negli anni di piombo e per la prima volta ha rimosso gli ostacoli politici, legati alla dottrina Mitterand, trasmettendo le domande di estradizione alle autorità giudiziarie, affinché la giustizia segua il proprio corso”. E ora che succede? “Gli arresti sono funzionali a evitare il pericolo di fuga. Ora i giudici valuteranno la convalida e l’opportunità di misure cautelari. Poi inizieranno i procedimenti per valutare caso per caso la sussistenza dei presupposti per la concessione dell’estradizione. Come sempre in queste procedure, l’ultima parola è dell’autorità politica”. È il segno di un nuovo ruolo dell’Italia in Europa e nei rapporti con gli altri Paesi? “Di sicuro è un momento di forte collaborazione bilaterale tra due Paesi da sempre amici. La Francia, con questo passo storico, conferma la sua fiducia verso le istituzioni italiane e prende atto della correttezza delle procedure giudiziarie seguite, fino alle condanne definitive per i reati, commessi negli anni di piombo”. Il suo predecessore Bonafede, che fa i complimenti a lei e a ministero su Fb, parla di un “lavoro lunghissimo” condotto anche da lui nel massimo riserbo. Ma com’è maturata, solo ora, la svolta? “Oggi si è scritto il capitolo conclusivo di una lunga storia, che affonda le sue radici negli anni ‘80-’90, ripresa in quelli successivi con differenti livelli di attenzione e a fasi alterne, dal nostro Paese. Le prime richieste di estradizione risalgono alla fine della stagione degli anni di piombo; poi, dopo una lunga quiescenza, il tema si è riproposto nel 2002 e più recentemente, a partire dal gennaio 2020 con il ministro Bonafede, subito dopo la vicenda di Cesare Battisti”. E quale è stato il suo ruolo? “Per quanto mi riguarda, ho avuto la chiara percezione che fossimo a una svolta l’8 aprile scorso, durante il colloquio con il ministro Dupond-Moretti, che ha mostrato molta sensibilità per le ferite ancora aperte nella storia italiana di quegli anni. Ha espresso una chiara determinazione a volersi impegnare in prima persona per chiudere questo capitolo”. Quali argomenti ha usato per convincerlo a sbloccare la situazione? “Abbiamo premuto sul fattore tempo, a fronte del rischio di ulteriori imminenti prescrizioni. Abbiamo ricordato la legittima richiesta di giustizia dei familiari delle vittime, ma abbiamo anche voluto, una volta per tutte, chiarire il doppio equivoco che negli anni aveva ostacolato la decisione politica di Parigi: stiamo parlando di persone, che non sono state processate per le loro idee politiche, ma per le violenze commesse. E l’Italia li ha processati nel pieno rispetto delle garanzie difensive previste dalla Costituzione e dal nostro ordinamento. Dopo il mio colloquio col ministro, l’interlocuzione tra Italia e Francia è proseguita tra Draghi e Macron”. E i francesi hanno capito che la dottrina Mitterrand andava archiviata definitivamente? “Dupond-Moretti ha tenuto a sottolineare che la dottrina Mitterand “non doveva coprire chi avesse le mani sporche di sangue”, per citare proprio una sua dichiarazione di ieri, a margine del consiglio dei ministri”. Ha influito l’avvicinarsi della prescrizione per alcuni arrestati? “Come ho già accennato, il ministro francese era ben consapevole dei termini di prescrizione per ogni posizione, il primo dei quali sarebbe scattato il 10 maggio”. Molte voci, tra cui Erri De Luca, Sergio Segio, l’avvocato di Battisti e alcuni intellettuali francesi hanno manifestato perplessità, se non delusione. Questi arresti non contraddicono le posizioni a favore della giustizia riparativa? “Al contrario. È fondamentale non permettere che una pagina così lacerante della storia italiana resti irrisolta, non chiarita. Qualunque processo di riconciliazione personale e sociale, individuale e storica, dopo ferite particolarmente dolorose, non può non partire dal riconoscimento di ciò che è accaduto, in forma pubblica e - come direbbe Ricoeur - attraverso “una parola di giustizia”. Non a caso, il primo e più clamoroso esempio di riconciliazione è quello del Sud Africa: dopo l’Apartheid è stata costituita una commissione denominata “verità e riconciliazione”. La seconda non può realizzarsi a prescindere dalla prima”. In questi casi perché non può prevalere il perdono? Quello di cui hanno parlato, in lunghi colloqui, i familiari delle vittime e i brigatisti? È un filo rosso che si dipana in molte reazioni agli arresti di oggi. “La sua domanda mi sembra far riferimento agli importantissimi percorsi di giustizia riparativa, che in Italia hanno coinvolto tra l’altro proprio alcuni protagonisti della lotta armata e i familiari delle vittime. Questo cammino ha preso avvio dal desiderio di tutti i soggetti coinvolti di non permettere che le loro vite “cadessero per sempre nella rimozione, nella negazione o nel rancore, ma si aprissero a una presa di coscienza, a una ricerca della verità e di responsabilità costruttivamente intese, per uscire dalle memorie congelate e fissate sul dolore inferto e subito”. Sto citando parole tratte da “Il Libro dell’incontro”, una lettura per me illuminante, che raccoglie le testimonianze di un percorso di giustizia riparativa, che considero la forma più alta di giustizia, a cui può tendere un ordinamento”. Lei è una costituzionalista illuminata, che ha pronunciato sempre parole importanti sul carcere. Ma crimini così gravi, come gli omicidi, comportano che la pena debba essere scontata dentro le mura per tanti anni? “Le risponderei con l’altra parte della frase di Ricoeur, che ho già citato e che mi è molto cara: “Occorre una parola di giustizia”. E poi prosegue: “Un’altra storia inizia qui”. Per me significa che occorre sempre partire da un accertamento chiaro dei fatti e delle responsabilità, “Una parola di giustizia” appunto; poi, nella fase dell’esecuzione, “inizia un’altra storia”: spetta alle autorità giudiziarie valutare le modalità con cui la pena dovrà essere espiata. In sintesi, per essere chiara: la nostra volontà di riproporre la richiesta delle estradizioni non risponde nel modo più assoluto a una sete di vendetta, che non mi anima e spero non animi nessuno in questo Paese, ma ad una sete di chiarezza e di reale possibilità di riconciliazione”. Come è cambiato il mio dolore di Olga D’Antona La Stampa, 29 aprile 2021 La giustizia. Che cosa è la giustizia per noi vittime? Che cosa è oggi per chi ha perso i suoi cari 40-50 anni fa? Non mi sfugge l’importanza degli arresti di ieri. Un gesto politico rilevante perché segna un passo avanti nel reciproco riconoscimento tra i Paesi europei, il rispetto per il nostro sistema giudiziario che in questi anni la dottrina Mitterrand aveva negato. Ci ha fatto molto male l’impunità garantita dalla Francia ai terroristi. È sembrata una forma di appoggio a chi aveva inferto gravissimi lutti alle nostre famiglie. A quei parenti che hanno vissuto per quarant’anni tenendosi il dolore addosso mentre in Francia i radical chic, è proprio il caso di chiamarli così, trattavano i carnefici come dei romantici combattenti. Fanny Ardant li chiamò eroi. Forse pensava alla Rivoluzione francese. Ma questi terroristi erano quelli che avevano ucciso vittime innocenti, gente che prometteva una rivoluzione di sinistra ammazzando gli operai, come Guido Rossa a Genova. L’impunità garantita da Mitterrand piaceva a certi ambienti culturali della sinistra francese. I parenti delle vittime di quei terroristi hanno dovuto subire la pena accessoria di uno Stato che negava l’arresto dei colpevoli riconosciuti di quei delitti. E lo dico a prescindere dal mio caso personale. In fondo l’assassinio di mio marito è più recente di quelli commessi dai terroristi arrestati ieri. E nel mio caso la giustizia è arrivata in tempi piuttosto rapidi. Ma penso a chi ha dovuto aspettare tutti questi anni, penso ai parenti di quelle vittime presto dimenticate, quelle poco note, che spesso non hanno avuto nemmeno la solidarietà che sarebbe spettata loro. Ma ritorna la domanda di partenza: si può chiamare giustizia quella che fa giustizia dopo mezzo secolo? In cinquant’anni capitano molte cose. Di quei carnefici, delle persone che sono diventate dopo tanti anni vissuti da liberi cittadini, sappiamo poco. Avranno formato famiglie, cresciuto figli, si saranno costruiti una vita nuova. C’è sì soddisfazione per la fine di un’ingiustizia ma allo stesso tempo mi domando: è ancora giustizia? Si può ancora pensare alla finalità rieducativa della detenzione sancita dalla nostra Costituzione? Mario Calabresi sull’arresto di Pietrostefani: “Vederlo in cella non è un risarcimento” di Marco Imarisio Corriere della Sera, 29 aprile 2021 Il figlio del commissario Luigi Calabresi, ucciso nel 1972: “Queste persone ci devono pezzi di verità sulla nostra storia. Se raccontassero sarei il primo a chiedere un gesto di clemenza” Mario Calabresi, cosa ha pensato quando è arrivata la notizia? “Confesso di essere rimasto sorpreso. Se n’era parlato molto negli ultimi due anni, ma non pensavo che sarebbe mai accaduto”. È corretto dire che ci sperava? “Più come italiano che come privato cittadino. Ho sempre pensato che il rispetto delle sentenze che condannavano queste persone sarebbe stato un gesto molto importante per tutti noi”. Per chiudere davvero con gli anni di piombo? “Non solo. Ho sempre trovato odioso e grave che la Francia non rispettasse le sentenze italiane. La dottrina Mitterrand prevedeva di dare asilo a chi non aveva le mani sporche di sangue. Poi, negli anni, è accaduto qualcosa”. La famosa interpretazione estensiva? “Era piuttosto un lassismo che fu applicato per compiacere un mondo intellettuale francese che si divertiva a dipingere l’Italia degli anni Settanta come il Cile di Pinochet. E questo ha di fatto sempre protetto e tutelato chi aveva ucciso altri esseri umani”. Ieri la dottrina Mitterrand è stata sconfessata per sempre? “Tutt’altro. Per una volta è stata invece applicata alla lettera, ristabilendo così un principio fondamentale ignorato per quasi quarant’anni. Ieri tra Italia e Francia è stata scritta una pagina importantissima per il rispetto delle verità storica e giudiziaria del nostro Paese”. Invece qual è il suo sentimento privato e personale? “Come mia madre e i miei fratelli, non riesco a provare alcuna soddisfazione. L’idea che un uomo anziano e molto malato vada in galera non è di alcun risarcimento per noi”. La fuga in Francia non è stata una scelta ben precisa? “Come no. Durante il processo di revisione a Mestre, un giorno mio fratello Paolo si rivolse a mia madre. Guardalo bene, le disse, che secondo me non lo rivedi più. Sapevamo che sarebbe successo”. Perché due anni fa decise di incontrarlo? “Era giunto il tempo di guardarlo in faccia. Di fare una cosa per me stesso. Fu la prima cosa che gli dissi quando ci vedemmo in un hotel a Parigi. Sono qui non come giornalista, non come scrittore, ma come figlio del commissario Calabresi”. Ha trovato le risposte che cercava? “Il nostro colloquio di quel giorno rimarrà sempre una questione privata, tra me e lui. Per me è stato un momento di pacificazione definitiva, che mi è servito molto. Credo che a livello emotivo non sia stato facile neppure per lui”. Che impressione le fece? “Un uomo stanco e malato. Molto diverso dalla persona spavalda vista durante i processi. Oggi non provo livore o rancore nei suoi confronti”. Proprio Pietrostefani ha detto una volta che la verità storica sull’omicidio del commissario Calabresi non esiste. “Penso che tutte le persone munite di onestà intellettuale debbano riconoscere che sulla morte di mio padre verità storica e verità giudiziaria coincidono”. Firmerebbe una eventuale domanda di grazia? “Non siamo nel Medioevo. Non sono le famiglie delle vittime a dover decidere, ma le istituzioni. Si tratta di un percorso e di decisioni da prendere nell’interesse generale. Al netto delle condizioni di salute di Pietrostefani, penso piuttosto a un provvedimento generale, che arrivi alla fine di un percorso collettivo. Qualcosa di simile alla Commissione per la verità e la riconciliazione presieduta da Desmond Tutu in Sudafrica. Clemenza, in cambio della verità su quegli anni”. O dell’ammissione delle proprie colpe? “Non mi aspetto alcun autodafé. Ma credo che queste persone ci debbano qualcosa. Ci devono pezzi di verità. Sono uomini e donne che hanno partecipato a delitti che hanno segnato la storia di questo Paese. Ci mancano ancora dettagli, e soprattutto le loro voci per ricostruire quei fatti così tragici. Penso che dovrebbero assumersi le loro responsabilità”. E se lo facessero? “Sarei il primo a chiedere un gesto di clemenza nei loro confronti. Credo che oggi raggiungere una verità definitiva abbia molto più valore che tenere quelle persone in galera per il resto della loro vita. All’improvviso abbiamo una occasione inattesa e irripetibile per fare un bilancio compiuto, con il contributo degli ultimi latitanti arrestati in Francia. Se si riuscisse a coglierla, sarebbe quasi doveroso un provvedimento che sancisca la fine di quella stagione”. La sua testimonianza ha contribuito a cambiare quel bilancio? “Se fosse così, ne sarei fiero. Quando nel 2007 scrissi il libro che parlava di mio padre e della mia famiglia, per me era cambiare la narrazione su quegli anni, dove mancava del tutto il punto di vista delle vittime. Mai avrei immaginato di avere così tanto riscontro”. Quante volte le hanno chiesto se era convinto della colpevolezza delle persone condannate per l’omicidio di suo padre? “Meno di quanto si possa credere. Al termine di un iter giudiziario lunghissimo, senza precedenti nella storia repubblicana in quanto a garanzie per gli imputati, non penso che qualcuno possa più avere dubbi”. A guardare indietro, c’è qualche dettaglio che più di altri le fa ancora male? “Il giorno dopo l’omicidio di mio padre, sul Corriere della Sera apparve un solo necrologio firmato da un privato cittadino. Fatico a pensare alla solitudine che lo circondò anche da morto. Era tanto tempo fa, erano tempi feroci”. Passa spesso da via Cherubini? “Ogni tanto ci vado. Mi fermo davanti alla lapide in pietra di montagna che ricorda mio padre. Ci sono sempre dei fiori e dei bigliettini portati dai milanesi. La gente capisce, e non dimentica. E questa per me è la cosa più importante”. Gemma Calabresi: “Caro figlio, sono in pace: ho scelto il perdono ma ora spero nella verità” di Mario Calabresi La Repubblica, 29 aprile 2021 Dialogo tra Gemma e Mario Calabresi dopo gli arresti in Francia. “Un segnale di giustizia che ha sanato una ferita aperta da troppo tempo”. Mario Calabresi: Sono passati 49 anni. Io avevo due anni e mezzo e tu ne avevi 25, se uno pensa a 50 anni, mezzo secolo, dovrebbero essere cose molto lontane nella memoria, quasi dimenticate. E invece... Gemma Capra Calabresi: A me viene da dire che sono 50 anni che lui non c’è più. Cinquant’anni che comunque manca, che mi manca. Mario: Lui era tuo marito, Luigi Calabresi, commissario di polizia, che venne ucciso il 17 maggio del 1972 sotto casa. Non ti richiedo di raccontare quel tempo, tutto quello che ci fu prima, la campagna di stampa, come vivevate voi, braccati, nascondendovi. Però ti chiedo che cosa ti è rimasto 49 anni dopo? Gemma: Ogni 17 maggio alle nove e un quarto, io guardo l’ora e dico “ecco, adesso”. Mario: Adesso esce di casa Gemma: Adesso esce di casa, adesso lo uccidono. Credo di non aver saltato mai neanche un anno, di stare lì ad aspettare quell’attimo. E per il resto, sì, ho preso le distanze perché io sono convinta che la memoria sia molto importante, ma la memoria non è statica. La memoria ha le gambe, deve camminare e quindi dobbiamo farlo vivere nel presente ricordando il suo humor, i suoi scherzi. Perché era proprio un romano pieno di vita. E i suoi esempi, le sue testimonianze, le sue passioni. Ecco, questa è la memoria portata nella vita di ogni giorno. Ma senza stare fermi a quel giorno o a quello che ci hanno fatto, perché altrimenti non ne esci più. Mario: Ti avevo chiesto di fare questa intervista per l’anniversario del 17 maggio, volevo ragionare con te su questo mezzo secolo, su tutto ciò che ci hai insegnato e sul percorso di pacificazione che ti sta a cuore. Adesso però la cronaca è tornata prepotentemente nelle nostre vite. A Parigi è stato arrestato Giorgio Pietrostefani, insieme ad altri condannati per terrorismo. E allora non posso che partire da lì e chiederti qual è la prima sensazione che hai avuto quando hai sentito la notizia? Gemma: Un fulmine a ciel sereno, una cosa che non mi aspettavo più. Mario: Ma che sentimento prevale in te in questo momento? Gemma: Molteplici sono i sentimenti. Prima di tutto un chiaro e forte segno di giustizia e anche di democrazia. Certo, avrebbe avuto un altro senso per la nostra famiglia se fosse accaduto una ventina di anni fa. Tuttavia, penso che, da un punto di vista storico, quello che è successo sia veramente fondamentale. Mario: Credo anche io che con questo gesto sia stata finalmente sanata una ferita tra l’Italia e la Francia, una ferita che era aperta da troppo tempo. Anche perché la dottrina Mitterrand non è stata sconfessata da Macron con questi arresti, ma finalmente interpretata correttamente. Perché il presidente francese aveva previsto l’accoglienza e l’asilo in Francia per chi lasciava l’Italia, ma non per chi si era macchiato le mani di sangue. E quindi oggi questo è stato ribadito. Gemma: È per questo che dico che è un segno di democrazia, perché la Francia, che ha ospitato e tutelato degli assassini per troppi anni, oggi finalmente riconosce e accetta le sentenze dei tribunali italiani. Ricordo che durante il processo di revisione a Mestre tuo fratello Paolo mi disse: “Guarda bene Pietrostefani perché da domani non lo vedrai più”. Era chiaro a tutti che sarebbe scappato in Francia. Mario: Però hai detto che dentro di te ci sono molteplici sentimenti. Il primo è un senso di giustizia. Cos’altro senti, cos’altro provi? Gemma: Oggi io sono diversa, ho fatto un mio cammino, ma credo che anche loro non siano più gli stessi. E tra l’altro sono anziani e malati. Mario: Cosa significa per te questo? Gemma: Che oggi non mi sento né di gioire né di inveire contro di loro, assolutamente. Mario: Ti aspetti qualcosa adesso? Gemma: Non voglio illudermi ma penso che sarebbe il momento giusto per restituire un po’ di verità. Sarebbe importante che a questo punto delle loro vite trovassero finalmente un po’ di coraggio per darci quei tasselli mancanti al puzzle. Io ho fatto il mio cammino e li ho perdonati e sono in pace. Adesso sarebbe il loro turno. Mario: Come hai fatto a fare questo cammino? Gemma: Io ho scelto da subito di farvi vivere non nel rancore e nell’odio, ma ho fatto il possibile per darvi la gioia di vivere e di credere ancora nell’umanità, nell’uomo e nelle persone, nonostante tutto. Mario: Avevi 25 anni e vedevi l’uomo che amavi e che consideravi una persona per bene, che non c’entrava nulla con le accuse che gli venivano mosse, che subisce questa campagna di linciaggio, le minacce, le scritte sui muri, le lettere minatorie. Poi viene ammazzato sotto casa. Come facevi ad avere ancora fiducia negli esseri umani? Gemma: Io non l’ho mai persa, devo dire la verità. Perché quelle persone lì non rappresentavano l’umanità, non rappresentavano l’Italia. Io ho ricevuto centinaia e centinaia di lettere di solidarietà, lettere di affetto, io non mi sentivo sola. Per me la minoranza erano quelli che avevano deciso di ucciderlo, erano quelli che per un’ideologia sbagliata hanno costruito a tavolino un mostro al quale non corrispondeva assolutamente Gigi. Mario: Incredibile la solidarietà che ho visto. Quasi cinquant’anni dopo la gente ti ferma ancora al mercato. Gemma: Sì, è bello. Mi ha aiutato a vivere questo. Io dico sempre “Non ce l’ho fatta, ce l’abbiamo fatta”. Perché io ce l’ho fatta grazie a tutte le persone che mi vogliono bene, ancora oggi. Mario: Dove comincia invece la tua strada del perdono? Dico la tua perché, bisogna essere onesti, è un percorso soprattutto tuo. Tu hai cercato di insegnarlo a me, a Paolo e a Luigi. Diciamo che per noi però è stato più importante prendere da te l’idea che non si dovesse crescere nell’odio e nel rancore più che fare il cammino del perdono. Gemma: Il mio è un cammino di fede e poi ti voglio raccontare una cosa: un giorno un mio alunno mi ha detto “Maestra, ma perché quando le persone muoiono diventano tutte brave?” Mario: Cioè son considerati tutti buoni. Gemma: Esatto. Ho risposto: “è giusto così”, perché una persona ha fatto cose negative ma anche tante cose positive, ricordiamolo per le cose positive, per il buon esempio, per il suo affetto, per la capacità di amare gli altri, ognuno ha un suo cammino. E così ho pensato anche di queste persone responsabili della morte di Gigi. Posso io relegarle tutta la vita all’atto più brutto che probabilmente hanno compiuto? Forse sono stati dei bravi padri. Forse hanno aiutato gli altri. Forse hanno fatto... Questo non sta a me. Però loro non sono solo quella cosa lì, assassini, sono anche tante altre cose. Ecco, questo mi ha aiutato nel mio percorso di perdono. Mario: Pensi di essere arrivata dove volevi arrivare? Gemma: Penso di sì. Ho dei momenti ancora magari difficili. Però io volevo arrivare a pregare per loro e riesco a farlo. Ogni giorno nelle mie preghiere, io prego perché loro abbiano la pace nel cuore. Lo prego tanto anche per voi, prima di tutto per i miei figli, che l’abbiano. Però questa cosa mi dà pace, mi dà serenità, mi dà anche gioia e io ci tengo a dire che il perdono non è una debolezza. Voglio dirti che il perdono è una forza, ti fa volare alto. Mario: Ma torniamo a te, quante volte ti viene in mente quel giorno di 49 anni fa? Gemma: Ci sono dei periodi che mi viene in mente spessissimo. Ho dei sogni ricorrenti. Sogno che lui viene ucciso. Per esempio, l’ultimo: siamo al ristorante e si sente tipo un boato in lontananza e io dico “è una bomba, scappiamo” e lui dice “ma no, ma stai tranquilla, aspetta”. Poi, a un certo punto, io so che sono fuori, all’aperto, come se fossi scappata e c’è un altro boato forte, una bomba che distrugge tutto e lui muore. Oppure noi scappiamo, siamo rincorsi, però già sappiamo che lui non ce la farà. Non so, c’è questa sensazione nel sogno. Ecco, questo non mi ha mai abbandonato, poi magari per dei mesi non lo sogno e poi ritorna. Mario: E c’è lui? Te lo ricordi bene? Gemma: Sì sì sì, c’è lui. Lo rivedo. Lui è giovane, è questo il guaio. Però nel sogno sono giovane anch’io. Mario: cosa ti sta più a cuore oggi? Gemma: Voglio lasciare a voi una testimonianza positiva della vita. Io vi dico una cosa: senz’altro è stata una vita pesante, ma sapete che non la cambierei? Perché è stata una vita intensa, ricca e piena di affetti, di amore, di gente che mi vuole bene. Eh, se io guardo gli altri, no, non mi cambierei. Qualche volta mi viene un po’ di rabbia quando vedo le persone anziane ancora insieme per mano, allora lì ho un attimo di debolezza, ma è bene così, è bella così. “Nulla potrà restituirmi papà, ma è accaduto qualcosa di giusto” di Giampiero Rossi Corriere della Sera, 29 aprile 2021 Francesca Marangoni aveva 17 anni quando suo padre Luigi, direttore sanitario del Policlinico, fu ucciso. La madre Vanna: “Abbiamo una verità processuale a cui dobbiamo attenerci e queste sentenze vanno rispettate e eseguite”. “Penso che oggi sia accaduto qualcosa di giusto, che doveva accadere. Semmai era strana la situazione di prima”. Quando riceve la notizia degli arresti parigini, Francesca Marangoni è insieme a sua madre Vanna. A metà mattina i cellulari di entrambe iniziano a squillare con frequenza anomala. Perché tra le persone fermate in Francia c’è anche Sergio Tornaghi, che negli anni di piombo faceva parte della “Colonna Walter Alasia” delle Brigate rosse e a lui viene contestata una responsabilità anche per l’agguato mortale a Luigi Marangoni, direttore sanitario del Policlinico ucciso nel 1981. “Passati 40 anni saranno anche cambiati, avranno capito molte cose, però se si sono macchiati di sangue devono scontare la condanna. Abbiamo una verità processuale a cui dobbiamo attenerci e queste sentenze vanno rispettate e eseguite. È giusto così”, dice la signora Vanna Bertelè, 82 anni, che conosce a memoria ogni dettaglio di quegli atti processuali e tiene a sottolineare che - comunque - per l’omicidio del marito finora “sono state condannate otto persone e una infermiera, ma non Tornaghi”. La figlia Francesca ha fatto qualche ricerca su Internet per collegare nomi e vicende e ha cercato di rinviare il momento in cui la madre avrebbe avuto la notizia, perché - ogni volta che si ripresenta - quel passato provoca dolore ed emozioni forti. Lei aveva 17 anni e suo fratello 15 quando, il 17 febbraio 1981, quattro terroristi armati di mitra e bastoni bloccarono il padre sotto casa, in via Don Gnocchi, e spararono per ucciderlo. Quali emozioni provoca il ritorno improvviso di un passato così doloroso? “È difficile persino dare un nome alle sensazioni di questi momenti. Io ho avuto un pensiero istintivo per le altre famiglie che hanno perso qualcuno per quei fatti, a Gemma e Mario Calabresi che sono sempre stati più direttamente coinvolti, mentre io a un certo punto ho voluto vivere nella convinzione che fosse un capitolo chiuso, anche se magari quelli che sono stati condannati per la morte di mio padre sono già usciti dal carcere. Ma io non lo voglio nemmeno sapere”. E tutti quelli che avevano trovato rifugio in Francia? “Quella era davvero l’anomalia, la stranezza che adesso è stata cancellata, evidentemente doveva andare così, doveva accadere adesso. Ma di certo oggi avverto la sensazione che qualcosa si sia compiuto ed è inevitabile che ritornino i ricordi di papà, che comunque mi hanno sempre accompagnata”. Quali sono stati i pensieri più ricorrenti in questi quarant’anni? “Ogni tanto affiora il rimpianto per tutte le occasioni in cui avrei voluto che lui fosse lì con me, per tutti i momenti che avrei voluto condividere e allora ritorna il grandissimo senso di ingiustizia per lui, il grande spreco della sua vita che nessun processo e nessuna condanna e nessun arresto potrà mai restituire: un padre che è stato seguito, spiato e ucciso da persone che si sono appostate ad aspettarlo sotto casa”. E cosa ha provato quando ha visto nell’aula del processo le persone accusate e poi condannate per quel delitto? “Ricordo con affetto e gratitudine la famiglia De Cataldo. Ci sedevano vicino, noi familiari delle vittime, praticamente attorniati da decine di imputati e dai loro avvocati, li vedevamo conversare, a volte anche ridere. E io pensavo che, dopo tanti anni, quel processo potesse essere l’occasione per spiegare, almeno per dirci come sono arrivati a compiere una scelta così decisiva per le loro vite, oltre che per le nostre e per quella di mio padre. Non mi avrebbero comunque convinta, ma almeno avrei provato a capire... E invece niente”. E adesso arriva questa svolta inattesa. “Sì, anche se in effetti era una situazione anomala, sbagliata. Era come se queste persone considerassero la giustizia italiana poco importante, di serie B. Ma si vede che il momento era adesso. Nulla potrà restituirci papà, però questo momento fa parte di come devono andare le cose. È passato tanto tempo, ma è giusto che sia accaduto”. Strage di Bologna. Il giudice Tamburino: “Così avvisai i Servizi” di Andreina Baccaro Corriere della Sera, 29 aprile 2021 “Un detenuto mi parlò di una imminente strage nera, lo dissi al Sisde”. Insabbiate le rilevazioni di Tamburino. “Ribadisco di non avere mai incontrato il dottor Tamburino”. È il 14 maggio di due anni fa, davanti ai magistrati della Procura generale che indagavano sui mandanti della strage di Bologna erano seduti, messi a confronto, l’ex generale del Sisde di Padova Quintino Spella e il giudice Giovanni Tamburino. Per più di un’ora l’ex capo dei servizi segreti della città veneta negò di aver mai ricevuto informazioni su un imminente attentato in preparazione da parte dell’estrema destra nell’estate del 1980, persino quando i magistrati gli fecero notare che il suo interlocutore aveva annotato degli appunti tenuti insieme da una graffetta oggi arrugginita che ne testimonia l’autenticità.” Quest’atteggiamento mi sembrò incomprensibile, quasi sciocco da parte sua negare di avermi mai incontrato. Mi dispiace che si parli di una persona defunta”, ha testimoniato ieri davanti alla Corte d’Assise il giudice Tamburino. Quintino Spella è morto a gennaio, portandosi nella tomba i suoi perché, ma se fosse ancora vivo sarebbe sul banco degli imputati con l’accusa di depistaggio per la quale era stato già rinviato a giudizio. Ora restano imputati l’ex carabiniere Piergiorgio Segatel (depistaggio), l’immobiliarista romano Domenico Catracchia (false informazioni ai pm) e l’ex di Avanguardia nazionale Paolo Bellini per concorso in strage. Il giudice Tamburino, 77 anni, visibilmente affaticato, non ha rinunciato a portare in aula la sua ferma versione su quel terribile messaggio premonitore che ricevette in qualità di magistrato di sorveglianza dall’estremista di destra Luigi Vettore Presilio il 10 luglio: un imminente attentato “che avrebbe fatto parlare tutti i giornali” al quale sarebbe seguito l’omicidio di un giudice. Messaggio subito girato ai servizi segreti ai quali lo indirizzarono i carabinieri. Alla Corte il giudice ha consegnato i suoi appunti e l’agenda nella quale annotò quattro incontri con Spella tra il 15 luglio e il 6 agosto. “Familiarità con Scibilia da 15 anni”, “perso di vista da due mesi”, “su Freda conferma” annotò mentre parlava con lo 007 il quale gli confermò che Vettore Presilio era una fonte del suo uomo Giacomo Scibilia, incaricato di scoprire qualcosa sull’ordinovista Franco Freda. Quando il 2 agosto 1980 scoppia la bomba in stazione, Tamburino ripensa subito a quelle rivelazioni e alle 8 di mattina del 6 agosto invia una relazione ai pm bolognesi, che il pomeriggio si precipitano in carcere a Padova per sentire il detenuto. “Mi informarono che aveva confermato tutto”, ha detto ieri Tamburino, che all’epoca si sentì con l’anima in pace sapendo di aver fatto il possibile per informare i servizi. Invece inspiegabilmente nessuno pensò allora di interrogare anche il giudice. Sempre il 6 agosto Spella torna da Tamburino, che annota ancora quanto gli riferisce sulla fonte Vettore Presilio: “abbiamo sempre collaborato, soggetto conosciuto”. “La cosa mi sconcertò - ha detto ieri -, perché me lo venne a dire dopo la strage, ma io le informazioni gliele avevo passate prima”. Sconcerto che l’ex giudice dovette provare anche quando seppe che Vettore Presilio, dopo agosto, era stato accoltellato in carcere da quattro uomini incappucciati. “Mi convinsi che volevano ucciderlo”. Eppure lo stesso Spella il 17 luglio, due giorni dopo l’incontro con Tamburino che ha negato, inviò a Roma il colonnello Amos Spiazzi, informatore dei servizi all’epoca condannato in primo grado per il golpe Borghese, per reperire informazioni. Ne venne fuori una relazione riservata datata 28 luglio 1980 che arriva a Roma 24 ore prima della strage al capo del Sisde Giulio Grassini, iscritto alla loggia massonica P2. In quel documento, ieri depositato dall’accusa, si dice che i Nar stavano preparando qualcosa di micidiale e rastrellando, insieme ad altri gruppi dell’estrema destra, armi ed esplosivo. Ma non una parola sulle rivelazioni di Vettore Presilio, insabbiate. Nessuno consegnò mai ai magistrati quel rapporto, che spunterà anni dopo durante una perquisizione a casa di Spiazzi. Il problema tecnico della videoconferenza non consente la sostituzione del legale di fiducia di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2021 La Cassazione chiarisce, con la sentenza n. 16120/2021, la piena applicabilità ai procedimenti camerali di sorveglianza ed esecuzione della causa di nullità per violazioni del diritto di difesa dovuti all’assenza della parte o del difensore. Sbaglia il tribunale che ritiene “non indispensabile” la presenza del difensore di fiducia nell’ambito di un procedimento camerale. Se vi è stata la nomina da parte dell’imputato e l’assenza dell’avvocato non è una sua colpa il giudice non può sostituirlo con un difensore d’ufficio. La Cassazione di fatto chiarisce, con la sentenza n. 16120/2021, la piena applicabilità ai procedimenti camerali di sorveglianza ed esecuzione della causa di nullità per violazioni del diritto di difesa dovuti all’assenza della parte o del difensore. Quindi scatta nullità della decisione e di tutti gli atti conseguenti se il giudice nomina difensore d’ufficio dell’imputato quando questi ne abbia nominato uno di fiducia, il quale risulti impossibilitato a partecipare all’udienza per legittimo impedimento ovviamente tempestivamente comunicato. E ciò vale, a maggior ragione, se l’“impedimento” è dovuto a un disguido tecnico delle strutture del tribunale che avrebbero dovuto garantire la partecipazione del legale di parte tramite videoconferenza, a cui aveva acconsentito, ma che non è stato possibile attivare. A fronte di tale impossibilità il giudice non poteva procedere, ovviando al problema, attraverso la nomina d’ufficio del difensore. E non poteva giustificare come legittimo il “rimedio “della difesa d’ufficio poiché si trattava di procedimento camerale. Il diritto di difesa nella sua piena espressione non è infatti comprimibile in procedimenti de libertate come quelli del caso concreto. Il ricorrente aveva fatto istanza per ottenere i domiciliari e il suo avvocato di fiducia aveva acconsentito - data l’emergenza attuale - a prestare la propria assistenza da remoto tramite collegamento di videoconferenza. Ma rilevato il problema tecnico non dovuto al legale di parte bensì agli uffici del giudice questi non poteva superare l’assenza sostituendolo d’ufficio fuori dalle ipotesi previste dalla legge. Cuneo. Morto in cella, la mamma e la sorella: “Diteci cosa è successo lì dentro” fanpage.it, 29 aprile 2021 Pasquale trovato morto in cella: picchiato ogni notte. Stando ai fatti, a quello che la polizia e la Procura hanno dichiarato ufficialmente, Lucia Amato sa soltanto che la mattina del 20 marzo suo fratello Pasquale è stato trovato morto in cella, nient’altro. Soltanto una settimana dopo, quando è andata di fronte al carcere di Cuneo per una manifestazione, ha ricevuto una lettera anonima da parte di un detenuto che le ha rivelato che suo fratello sarebbe stato trovato impiccato in cella, dopo giornate e nottate di continui pestaggi. La versione dell’impiccagione trova per ora conferme nella dichiarazione del garante dei detenuti della Regione Piemonte, Bruno Mellano, che ha dichiarato di aver ricevuto la notizia del suicidio di Pasquale Amato nella mattina del 20 marzo. “Ho raccolto le notizie e sto cercando di farmene un’idea - spiega Bruno Mellano - una ricostruzione che abbia il senso sicuramente di un percorso che ha visto il fallimento del carcere, della presa in carico del soggetto e di noi. Varie istituzioni che non siamo riusciti a proteggere Pasquale Amato forse da sé stesso”. Pasquale era al carcere di Cuneo da appena venti giorni, però, ed era un paziente affetto da una malattia psichiatrica cronica. “Era affetto da schizofrenia - racconta Lucia Amato - e aveva bisogno di cure continue, di parlare con uno psicologo. Noi nemmeno sapevamo che era lì, pensavamo fosse a Biella, non ci hanno detto nulla. Io non riesco più a dormire, mi immedesimo nei suoi ultimi giorni e vado fuori di testa a pensare a cosa possa essergli successo”. Più di un dubbio infatti affligge la famiglia Amato, che ha chiesto che un consulente di parte fosse presente all’autopsia, effettuata il 24 marzo. La procura di Cuneo infatti, come atto dovuto per permettere le indagini, ha aperto un’inchiesta contro ignoti per omicidio colposo. “L’autopsia, quando usciranno i risultati tra 60 giorni - spiega l’avvocato degli Amato Andrea Lichinchi - sarà in grado di darci ulteriori elementi”. “Vogliamo sapere - insiste Lucia Amato - se mio fratello riceveva le cure che doveva ricevere per la sua malattia, se ha subito delle percosse, se gli è successo qualcosa prima. Non crediamo che si possa essere suicidato”. Sassari. Detenuto ucciso in carcere, la Cassazione conferma i 3 ergastoli La Nuova Sardegna, 29 aprile 2021 Due reclusi e un agente penitenziario sono ritenuti responsabili della morte di Marco Erittu avvenuta nel 2007 a San Sebastiano. Ergastoli confermati dalla Cassazione per tre sardi accusati dell’omicidio nel carcere di San Sebastiano, a Sassari, del detenuto Marco Erittu, trovato senza vita in cella il 18 novembre del 2007, morte archiviata inizialmente come suicidio. Il carcere a vita resterà tale per Pino Vandi e Nicolino Pinna, all’epoca reclusi nel penitenziario sassarese, e per l’agente penitenziario Mario Sanna. Tutti e tre erano stati assolti in primo grado, sentenza poi ribaltata in appello. Ora la Suprema corte ha respinto la richiesta del collegio difensivo - Agostinangelo Marras, Franco Luigi Satta, Gabriele Satta, Patrizio Rovelli, Fabrizio Rubiu e Luca Sciaccaluga - e ha confermato per tutti l’ergastolo. Gli inquirenti avevano riaperto le indagini dopo quattro anni, sulla base delle dichiarazioni del super-pentito Giuseppe Bigella. L’uomo, reo confesso e già in carcere per un altro omicidio, si era autoaccusato del delitto e aveva chiamato in correità altre tre persone: i detenuti Pino Vandi e Nicolino Pinna e l’agente Mario Sanna. Gli imputati erano stati assolti in primo grado perché i giudici della Corte d’assise non avevano ritenuto attendibile il pentito, considerato un millantatore che avrebbe avuto come obiettivo uno sconto di pena. Di diverso avviso i giudici di appello: per loro il racconto di Bigella era di una “logica ferrea”. Santa Maria Capua Vetere. “In sei in una cella per quattro”, ex detenuto ottiene risarcimento di Massimiliano Cassano Il Riformista, 29 aprile 2021 In cella con meno di tre metri quadri a disposizione, così come indicato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La Cassazione ha confermato il risarcimento del danno per un ex recluso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che per poco più di un anno, tra il 2010 e il 2011, era rimasto con altri cinque detenuti nei reparti Tevere e Volturno dell’istituto Francesco Uccella, in celle però omologate per quattro. Il Ministero della Giustizia era stato condannato nel 2018 dal Tribunale di Isernia al pagamento di un risarcimento per l’uomo quantificato in quasi 3mila euro. L’ex detenuto aveva deciso di rivolgersi ai giudici dopo aver finito di espiare la pena ai domiciliari. Il dicastero aveva impugnato il ricorso presupponendo che l’azione risarcitoria fosse decaduta: la norma prevede infatti che questa venga esercitata entro sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione. Il collegio giudicante della Suprema corte ha sancito un principio destinato a rappresentare un importante precedente in materia. Devono infatti ritenersi equivalenti le espressioni che si riferiscono da un lato alla “cessazione dello stato di detenzione” e dall’altro alla “cessazione della espiazione della pena detentiva”, in quanto entrambe coincidono con il fine pena, “ossia con l’esaurimento della esecuzione della pena detentiva, indipendentemente dalle modalità di esecuzione della stessa”. L’uomo aveva finito di espiare la pena agli arresti domiciliari il 20 ottobre 2015, e ha presentato il ricorso il 19 aprile 2016, quindi entro i sei mesi dal termine dell’esecuzione della pena detentiva. Non c’è stata quindi decadenza, considerando il periodo di detenzione domiciliare. Foggia. Focolaio Covid nel carcere: positivi 45 detenuti e 11 agenti della Polizia penitenziaria immediato.net, 29 aprile 2021 Sale a 45 il numero di detenuti contagiati dal Covid nel carcere di Foggia. È quanto emerge dal report nazionale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, aggiornato al 26 aprile. Rispetto a quattro giorni prima, quando nel penitenziario foggiano i detenuti positivi erano 30, adesso ne sono stati registrati 45, 5 dei quali ricoverati in ospedale. Nello stesso carcere ci sono anche 11 agenti, per complessivi 56 casi Covid. In totale, nelle carceri pugliesi, il numero dei positivi è di 120 tra detenuti, agenti di Polizia penitenziaria e personale amministrativo. In particolare risultano positivi 80 detenuti, ai quali si aggiungono 32 poliziotti e 8 amministrativi. Oltre Foggia, le carceri pugliesi con più casi sono quelle di Bari con 24 contagi (18 detenuti, 4 agenti e 2 amministrativi), Lecce con 18 contagi (3 detenuti, 12 poliziotti e 3 amministrativi), San Severo con 11 casi (tutti detenuti, due dei quali ricoverati in ospedale). Una sentenza storica, sulla cannabis è ora di cambiare di Concita De Gregorio La Repubblica, 29 aprile 2021 Ci sono i vicini che denunciano, infastiditi da quell’uomo non ancora cinquantenne, in sedia a rotelle, afflitto da quando aveva 16 anni da un’artrite reumatoide gravissima che oggi gli impedisce di camminare e di usare le mani. Bisogna immaginarseli, questi vicini. Perché l’Italia è così: pullula di condomini pronti a portarti la spesa se hai bisogno, ma almeno altrettanti sono quelli che sbirciano dallo spioncino e chiamano il 113 se annaffi piante sospette in giardino. Che la cannabis, per Walter De Benedetto, non fosse un vizio attempato ma una necessità di cura alleviare il dolore, riuscire a dormire - era evidente, ma attenzione: la legge tutela l’anonimo che denuncia chi commette un reato. Ed è giusto, per carità. I pentiti, gli informatori, ogni altra risorsa umana utile a sgominare il crimine: benvenuti. Dunque, quello che è sbagliato, qui, è che coltivare cannabis sia un reato. Se sei malato, ne hai bisogno per curarti, se la sanità pubblica - come ha testimoniato parlando anche di sé Emma Bonino - non è in condizione di fornirti la quantità di farmaci che ti è necessaria: fai da te. De Benedetto è stato assolto: una sentenza storica, si è scritto. Perfetto. Ma la marijuana, come ognun sa, è in uso anche fra chi non soffre di patologie degenerative. Chiedete in giro, se avete ragazzi sottomano, da chi se la procurano. Date un’occhiata ai report su chi gestisce il commercio. Poi, se il tema sono le destre e la chiesa, affacciatevi in Spagna, per esempio: dove la destra di Franco ha lasciato un’eredità lunga fin qui e l’Opus Dei è più potente del primo ministro. Non è questo, il punto. È un alibi. Si può fare, volendo. Se non si fa è perché non si vuole. Tutti. Omofobia, il ddl Zan fa un passo avanti. Ma la strada è in salita di Luca Kocci Il Manifesto, 29 aprile 2021 Si sblocca l’iter del disegno di legge: sarà calendarizzato al senato. Tutto il centrodestra contrario, la Cei vede rischi di “intolleranza”. Si sblocca al Senato il disegno di legge contro l’omotransfobia. Ma il cammino si preannuncia accidentato: il relatore del provvedimento sarà infatti il leghista Andrea Ostellari, che più di tutti in queste settimane si è impegnato per far arenare la norma contro le discriminazioni e le violenze per orientamento sessuale, genere e identità di genere, abilismo. Ieri mattina, dopo settimane che hanno visto contrapposti da un lato i sostenitori della legge, che hanno promosso flash-mob e campagne social per l’avvio dell’iter del testo già approvato alla Camera nello scorso novembre, e dall’altro l’opposizione e l’ostruzionismo di Fratelli d’Italia e soprattutto della Lega, la Commissione giustizia di Palazzo Madama ha dato il via libera al ddl Zan (dal nome del deputato del Pd, Alessandro Zan, che lo ha presentato a Montecitorio). Ogni gruppo parlamentare ha indicato tre provvedimenti considerati prioritari. Fra questi c’era anche il ddl Zan, che è passato con 13 voti favorevoli di Pd, M5s, Leu e Italia Viva e 11 contrari, di tutto il centrodestra, compreso quello di governo (con poche eccezioni in Forza Italia), che ora accusa la sinistra di aver spaccato la “santa alleanza” costruita attorno a Mario Draghi (“per una questione ideologica si va a infrangere l’unità a sostegno del governo, così si avvelena il clima”, ha attaccato il senatore leghista Simone Pillon). Entro il mese di maggio il ddl sarà incardinato in Commissione giustizia. Successivamente la stessa Commissione definirà un calendario dettagliato, stabilendo l’inizio dell’esame del provvedimento e le eventuali audizioni. Il cammino è quindi cominciato. Ma i tempi non saranno brevissimi, e soprattutto c’è il nodo del relatore. Ostellari, senatore della Lega - la forza politica maggiormente ostile alla legge contro l’omotransofobia, insieme a Fratelli d’Italia e a una parte consistente di Forza Italia -, è il presidente della Commissione giustizia di Palazzo Madama, che si è tolto i panni di arbitro super partes per assumere quelli di giocatore. “Il regolamento prevede che il relatore di ciascun disegno di legge sia il presidente della commissione, che ha la facoltà di delegare questa funzione ad altri commissari - ha dichiarato Ostellari. Poiché sono stato confermato presidente, grazie al voto della maggioranza dei componenti della Commissione, per garantire chi è favorevole al ddl e chi non lo è, tratterrò questa delega”. “Dispiace che il presidente Ostellari abbia ritenuto di assumere il ruolo di relatore - ha replicato la senatrice dem, Monica Cirinnà -. In queste settimane ha dimostrato, purtroppo, di non avere a cuore l’imparzialità del suo ruolo: sono curiosa di capire come eserciterà, a questo punto, quello di relatore”. E Laura Boldrini, che alla Camera aveva presentato un analogo provvedimento, poi confluito nel ddl Zan: “Il fatto che il leghista Ostellari nomini se stesso come relatore è un atto di prepotenza per perdere altro tempo. L’omotransfobia e la misoginia feriscono le vite delle persone. Per questo va approvata subito la legge”. Uno degli attori extraparlamentari che potrebbe giocare un ruolo fondamentale nell’approvazione o meno della legge è il mondo cattolico, se avviasse una vera e propria “crociata” contro il ddl Zan, come peraltro fatto in passato verso altri provvedimenti. Quello conservatore, come le associazioni del Family Day, che già annunciano manifestazioni di piazza: “Una parte di maggioranza vuole tenere il Parlamento occupato a parlare di un testo divisivo, che introduce nell’ordinamento un vago e pericoloso concetto di identità di genere, che apre a derive liberticide e all’indottrinamento nelle scuole tramite corsi affidati alle sigle lgbt, rallentando così la discussione e l’approvazione delle riforme necessarie per implementare il Recovery plan”. Ma anche quello istituzionale, con una nota della Presidenza della Cei, che continua a considerare il provvedimento un rischio per la libertà di opinione e a vedere quello che nella norma proprio non c’è: “Una legge che intende combattere la discriminazione non può e non deve perseguire l’obiettivo con l’intolleranza, mettendo in questione la realtà della differenza tra uomo e donna”. Il nuovo regolamento europeo contro il terrorismo online sa di censura di Stefano Bocconetti Il Manifesto, 29 aprile 2021 Contro questo testo tante associazioni per le libertà digitali hanno provato ad opporsi negli anni e nei mesi scorsi. Perché è intitolato alla lotta al terrorismo ma col terrorismo ha poco a che fare. E si avvicina tanto alla censura. “Via libera ad Orban”. O a quelli come lui. Via libera, senza neanche un voto. Ed è quest’ultima, forse, la cosa che allarma di più: la sottovalutazione. Accade in Europa, a Strasburgo. E che sia un “via libera” a chi viola sistematicamente i diritti, lo dice - fra i tanti - anche “Liberties.Eu”, la più che moderata organizzazione europea, che segue da vicino tutto ciò che riguarda le legislazioni digitali. Organizzazione che fa solo comunicati sobri, senza tante definizioni. Stavolta non si attiene al suo stile. Segno che qualcosa di grave è accaduto. E’ successo infatti che - dopo anni di discussioni serrate, di scontri, di mobilitazioni - è stato approvato il nuovo regolamento contro il terrorismo on line. Senza un dibattito, né un voto in aula. Lo consente lo Statuto generale, negli articoli 67 e 68: prevedono che se non ci sono “proposte alternative, né emendamenti, né richieste di abrogazione”, l’atto si considera approvato così com’è formulato. Ed è esattamente quel che è avvenuto, quand’è passato per “mancanza di opposizione” - diciamo così - il testo nella formulazione varata a gennaio dalla “commissione libertà civili”, nome che oggi suona ancora più sarcastico. Regolamento che, a sua volta, era frutto di una trattativa fra governi e l’esecutivo europeo. Un testo al quale tante associazioni per le libertà digitali hanno provato ad opporsi negli anni e nei mesi scorsi. Un regolamento, insomma, intitolato alla lotta al terrorismo ma che col terrorismo ha poco a che fare. E si avvicina tanto alla censura. In tutte le sue parti. A cominciare dall’obbligo - imposto ai provider - di cancellare i messaggi sui social entro un arco di tempo brevissimo. Un’ora, appena un’ora (norma dalla quale sono esclusi solo i piccolissimi provider). Imperativo che riguarda da vicino i diritti civili: perché per poter dare forma a quest’obbligo, chi gestisce i social ha un solo strumento a disposizione, i filtri. I filtri automatici. Gli unici strumenti in grado di poter intervenire in sessanta minuti. Filtri automatici, dunque, quelli che bloccano senza l’intervento dell’uomo un tweet, un messaggio, un post, se rilevano la parola “jiahd”, la parola attentato. O come è stato denunciato recentemente quando leggono la parola palestinesi. Cancelleranno tutto, entro un’ora. Anche i commenti di denuncia. Come se i terroristi usassero i social mainstream per scambiarsi opinioni, come se usassero un linguaggio ufficiale. Come se non fosse stato semplice, per l’assassino della moschea neozelandese due anni fa, superare i blocchi di FaceBook e mandare in diretta il filmato della sua strage. Chi ci rimetterà, invece, saranno le libertà di parola, le libertà di dissenso, saranno gli utenti. Saranno gli attivisti per i diritti umani (pochi mesi fa, la denuncia delle ong sulla censura automatica esercitata su alcuni filmati provenienti dalla Siria, nel cui titolo c’era una parola bloccata), le associazioni per le libertà digitali, saranno i giornalisti che appena poche settimane fa avevano rivolto un disperato appello ai parlamentari europei perché respingessero quel regolamento. Non ce n’è stata l’occasione - per incuria o per scelta - perché nessuno ha chiesto di bocciarlo, né di emendarlo. Accontentandosi, forse di quel po’ che si era riuscito a conquistare nei mesi scorsi. Sì, perché di questo regolamento se ne parla da un bel po’, dopo gli attentati che sconvolsero la Germania e la Francia. E qualcosa i movimenti erano riusciti ad attenuare, rispetto al primissimo impianto. Ma la sostanza, il “grosso” è rimasto lo stesso. Drammaticamente uguale. Consentendo appunto il “via libera ad Orban”, per usare l’espressione di Liberties.Eu. Perché Orban (o quelli come lui)? Perché fra le tante norme liberticide c’è anche quella che assegna ad un paese l’autorità per intervenire su un altro stato membro dell’Europa. Appunto: se il premier ungherese definisse un post - magari solo critico nei suoi confronti - come terrorista, avrà la facoltà di farlo cancellare. Anche se quel messaggio è ospitato su un provider italiano e non viola alcuna legge. Assegna ad un paese il potere di cancellare, censurare testi ed immagini. Già ma cosa si intende per “paese”. E qui c’è un altro obbrobrio: ogni singolo Stato membro potrà decidere, a sua discrezione, le “autorità nazionali competenti” in materia. Quelle che avranno il potere di attuare le misure, compreso l’ordine di cancellazione. Come saranno composte queste “autorità” lo deciderà ogni Stato per proprio conto, a suo piacimento: ci potranno essere commissioni, organismi ad hoc, con rappresentanti istituzionali. O soltanto burocrati nominati dai governi. Magari anche agenti di polizia. Come tutto fa presagire ci sarà in Ungheria. O in Polonia. E ancora: sarà un altro passo versa la privatizzazione della giustizia perché il tutto avverrà senza un controllo giudiziario, una sentenza. Ai giudici ci si potrà rivolgere solo in caso di ricorso. La censura di un messaggio, insomma, non sarà decisa in prima istanza da un’aula di tribunale. Lo potrà fare l’esecutivo di Budapest, però. Questo è il regolamento, varato senza un voto. AccessNow, una delle più grandi ed autorevoli organizzazioni mondiali a difesa dei diritti digitali - da sempre in prima fila nella battaglia contro questo mostro legislativo - non vuole darsi per vinta. E anche se si mostra sorpresa per le modalità del varo (senza un voto a Strasburgo), in un tweet dice che continuerà a battersi per migliorare le norme. Sperando che governi e forze politiche ci ripensino, almeno nelle “traduzioni” nazionali del regolamento. Ma ormai ci credono in pochi e, soprattutto, non sembrano esserci più tanti margini. E si entrerà così nell’era dell’#Orbandeletes, nell’epoca del “decide Orban”. In tutta Europa. Giulio Regeni, un “documentario” in rete getta altro fango sullo studente ucciso in Egitto di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 29 aprile 2021 Nel film un attore per impersonare il ricercatore e interviste agli ex ministri Gasparri e Trenta. Sensi: “l’ennesima pena dei genitori” del giovane. La telecamera segue un ragazzo con la barba e il trolley che esce dall’aeroporto del Cairo per infilarsi in un taxi. L’incipit è convenzionale, lo svolgimento meno: il preteso documentario “The story of Regeni” del giornalista Fulvio Grimaldi (nel suo curriculum anche articoli negazionisti del Covid-19) approda in rete alla vigilia della decisione del giudice per le udienze preliminari di Roma sul rinvio a giudizio dei quattro militari dei servizi segreti egiziani accusati del rapimento e delle torture di Giulio Regeni. E tenta di accreditare - utilizzando perfino testimonianze “eccellenti” fra le quali gli ex ministri Maurizio Gasparri ed Elisabetta Trenta - l’ipotesi di un Regeni pedina dei Fratelli musulmani, agente straniero atterrato in Egitto con scopi eversivi. Nè più nè meno che la versione offerta dalle stesse autorità egiziane in questi lunghi cinque anni di indagini. Gli argomenti, qui e là, coincidono con quelli prospettati dal governo del Cairo, primo fra tutti quello secondo il quale il ricercatore friulano avrebbe percepito sovvenzioni opache per effettuare il suo lavoro in Egitto. Un argomento già affrontato e risolto da Ros e Sco coordinati dal pubblico ministero della Procura di Roma Sergio Colaiocco, Nulla di opaco. Dopo una analisi sui movimenti bancari di Regeni, gli investigatori hanno trovato che il ragazzo percepiva solo i finanziamenti delle borse di studio universitarie ottenute per la sua attività di ricercatore. E ancora, altro elemento mutuato dalle autorità egiziane, il fatto che gli investigatori del Cairo non abbiano avuto accesso - così si sostiene nel filmato di Grimaldi- al pc di Regeni, mentre dal 2016 gli investigatori italiani hanno messo a disposizione copia forense del pc in questione. Restano le domande, una fra tutte: come mai questo video proprio alla vigilia del processo a Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Usham Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, i funzionari dell’intelligence egiziana sotto accusa per la morte di Giulio Regeni? Vorrebbe una risposta il parlamentare Pd Filippo Sensi che, nell’immaginare “l’ennesima pena di Paola e Claudio Regeni alla vista di questo documentario, comparso dal nulla a screditare l’immagine di Giulio” si augura che sia fatta luce “sulla genesi del filmato attraverso un’inchiesta ad hoc”. E di “depistaggi sistematici” parla la Procura di Roma negli atti depositati in vista dell’udienza preliminare prevista per stamani alle dieci: “Fin dall’inizio sono stati posti in essere da molteplici attori plurimi tentativi di sviamento dell’indagine finalizzati a distogliere l’attenzione degli investigatori dagli appartenenti agli apparati pubblici egiziani” è scritto. Perfino l’autopsia è stata rielaborata ad uso e consumo di una versione di comodo, scrivono i pm romani. La relazione del medico legale del Cairo tentò di accreditare l’idea di una morte per incidente stradale di Giulio, scaturita da ferite alla testa tipiche del caso. Fino alla messinscena attraverso la quale si è tentato di riversare la responsabilità della fine del ragazzo su una banda di criminali comuni, a casa dei quali sono stati fatti rinvenire documenti e oggetti del ricercatore. Ora, grazie alle indagini svolte con il supporto dell’avvocato della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, sappiamo che la verità è altrove. Gran Bretagna. Boris Johnson amplia le prigioni femminili di Maicol Mercuriali Italia Oggi, 29 aprile 2021 Piano da 150 milioni di sterline per migliorare le condizioni delle carceri femminili. Detenute: 80% per reati non violenti. Autolesionismo record. In Gran Bretagna sono molte le donne in carcere che finiscono per soffrire di problemi di salute mentale. Nelle carceri femminili inglesi aumentano i casi di autolesionismo tra le detenute: con la pandemia, ha spiegato l’associazione Prison Reform Trust in uno studio pubblicato dall’Independent, alcuni servizi terapeutici e di assistenza sono stati cancellati e il risultato è stata una crescita verso livelli record di questo fenomeno. Secondo le statistiche del ministero della giustizia gli episodi di autolesionismo tra le detenute di Inghilterra e Galles sono aumentati dell’8% in un anno, passando da 11.482 a 12.443, mentre nelle carceri maschili i casi sono diminuiti di circa il 7%. A lanciare l’allarme è lo studio condotto dal Prison Reform Trust: l’80% delle donne in carcere sta scontando condanne per reati non violenti. E invece di lavorare a misure alternative, come promesso dal governo, si investono 150 milioni di sterline per creare nuove celle. Il rapporto del Prison Reform Trust vaglia i risultati del Female Offender Strategy, il programma che il governo si era dato nel 2018 per affrontare alla radice i reati commessi dalle donne e che vedeva la custodia in carcere come l’ultima risorsa, riservata ai delitti più gravi. Ma, ha rilevato l’organizzazione nel suo studio, il governo non è riuscito a mantenere nemmeno la metà degli impegni, implementando negli ultimi tre anni solo 31 delle 65 azioni previste. Però, ha evidenziato l’associazione che si batte per la riforma carceraria, è stato recentemente annunciato dal governo un piano per realizzare 500 nuove celle nelle prigioni femminili, una misura in contrasto agli obiettivi della strategia come ha rimarcato il direttore Peter Dawson. “Non ha senso avere un buon piano se non lo si realizza”, ha detto al giornale inglese, “si richiede un calendario, risorse e misure di successo. Il governo sembra aver abbandonato la sua idea iniziale e il premier Boris Johnson è pronto a trovare 150 milioni di sterline (172,3 milioni di euro) per migliorare le carceri femminili, potenziando strutture e personale, e far fronte, così, al fallimento della politica sulla riforma carceraria, in stallo: questi soldi non sarebbero stati necessari se si fosse implementato il piano d’azione. La maggioranza delle donne viene mandata in prigione per reati non violenti e per scontare pene inferiori a un anno. È tempo di investire in pene alternative”. I curatori dello studio hanno poi sottolineato la necessità di adottare misure per creare “un ambiente sicuro e informato sui traumi”, in modo da assistere le donne dietro le sbarre e prevenire i casi di autolesionismo. The Independent ha ricordato che molte detenute soffrono di problemi di salute mentale e in carcere sono spesso vittime di reati più gravi di quelli per cui sono state condannate. Un portavoce del ministero della giustizia ha detto al quotidiano britannico: “Vogliamo vedere meno donne andare in prigione e stiamo investendo milioni nella nostra strategia. La custodia sarà sempre l’ultima risorsa: i nuovi posti carcerari miglioreranno le condizioni con più celle singole e un maggiore accesso all’istruzione e al lavoro, aiutando quindi le donne a rimettere in sesto le loro vite”. “Vi racconto i lager cinesi. Io ci sono stata” di Maximilian Kalkhof* La Repubblica, 29 aprile 2021 In Cina è in atto una delle più gravi violazioni dei diritti umani del nostro tempo: l’oppressione degli uiguri. Gli appartenenti a questa minoranza etnica vengono internati in campi di detenzione, rieducati, le donne sottoposte a sterilizzazione forzata. La testimonianza di una vittima rivela particolari di un genocidio nascosto agli occhi del mondo. Qelbinur Sidik aveva cinquant’anni quando lo Stato cinese l’ha privata della dignità. Ricorda perfettamente il giorno del maggio 2019 quando è stata prelevata dalle forze di sicurezza e condotta in un ospedale di Ürümqui, il capoluogo della provincia cinese dello Xinjiang. “Non giocarti la vita - le dissero - pensa ai tuoi familiari”. Qelbinur Sidik ha avuto paura, come non mai, racconta. Non ha opposto alcuna resistenza. In ospedale fu sottoposta alla sterilizzazione forzata. Qelbinur Sidik non aveva in programma altri figli. Ne ha una, Difulza, già adulta, e una gravidanza non rientrava nei suoi progetti né era probabile. Ma alle forze di sicurezza importava ben poco, anzi, tanto meglio: se non voleva più figli non aveva motivo di rifiutare la sterilizzazione. Le forze di sicurezza portarono Qelbinur Sidik nel reparto di ginecologia al piano seminterrato dell’ospedale. Vide uscire dalla sala operatoria donne uigure, giovani e vecchie, per lo più in lacrime. A un certo punto è toccato a lei. Non ricorda quanto tempo è durato l’intervento. Dopo era sterilizzata - a un’età in cui le donne normalmente entrano in menopausa. Per quale motivo non sapeva. Le altre donne nemmeno. Qelbinur Sidik è stata vittima e testimone della più grave violazione dei diritti umani del nostro tempo: l’oppressione degli uiguri. Nel nord ovest della Cina, nella provincia dello Xinjiang, le autorità della Repubblica popolare hanno creato un sistema di più di 1000 campi di detenzione in cui vengono rinchiusi gli appartenenti alla minoranza musulmana - ufficialmente come misura di lotta al terrorismo. Dal 2018 sono stati internati un milione di uiguri. Lo dicono gli esperti, come l’antropologo tedesco Adrian Zenz, che lo definisce un “genocidio culturale”. “Genocidio” perché si tratta di oppressione premeditata e portata avanti secondo una logica industriale. “Culturale” perché non mira ad annientare fisicamente gli uiguri, bensì a distruggerne la cultura. La minoranza di etnia turca deve essere assimilata, privata della propria religione, lingua e identità e inglobata nella società cinese. Nello Xinjiang risiedono circa nove milioni di uiguri. Sono anni che le autorità cinesi perseguitano la minoranza musulmana. Dalla fondazione della Repubblica popolare nel 1949 Pechino ha provveduto a incrementare la quota di popolazione di etnia Han nello Xinjiang tramite una politica di insediamento. Dal 2010 però il governo punta all’assimilazione forzata - imposta tramite una serie di misure, che arrivano alla sterilizzazione e alla “rieducazione” nei campi di internamento. Tra il 2011 e il 2014 nello Xinijang hanno avuto luogo tre attentati terroristici compiuti da uiguri in cui hanno perso la vita 20 civili. Nel 2014 nella Cina meridionale, a circa 2000 chilometri di distanza dallo Xinjiang i terroristi hanno assalito pugnalandole 31 persone. L’azione non è stata rivendicata da nessun gruppo, gli indizi riconducono a una cellula isolata, ma le autorità cinesi hanno attribuito l’attentato ai separatisti uiguri. Da allora Pechino diffonde sulla base di scarse prove questa narrazione: nello Xinjiang il terrorismo è un problema. L’estremismo nella provincia del nord est mette a rischio la sicurezza nazionale. È praticamente impossibile fornire dati precisi sui lager cinesi. La provincia dello Xinjiang è in pratica chiusa ai giornalisti. Le uniche notizie vengono dalle immagini dei satelliti e dai documenti governativi consultabili, ossia gare di appalto edilizio e bandi di concorso per il personale della sicurezza, e poi dalle testimonianze dei sopravvissuti. Persino il numero dei campi e degli internati è solo stimato. Qelbinur Sidik ha visto i lager dall’interno. Ma in un ruolo particolare. Non vi è stata detenuta. È stata costretta dalle autorità a insegnare in due strutture. Ma non è finita. In seguito è stata a sua volta oggetto di misure repressive da parte delle autorità. È fuggita all’estero. Non è affatto scontato che oggi renda pubblica la sua storia, né privo di rischi. Chi è scampato ai lager ed è riuscito a fuggire all’estero, in Europa, ha familiari e amici nello Xinjiang di cui preoccuparsi. “Ho deciso di parlare della mia vicenda perché spero di cambiare qualcosa” dice Qelbinur Sidik. È un giorno di primavera, sulla passeggiata a mare de L’Aja stridono i gabbiani. Dopo la fuga dalla Cina Qelbinur Sidik vive da circa due anni nella città olandese. Ha alloggiato a lungo in un centro profughi. Solo da poco le è stato assegnato un bilocale proprio sul mare. Dalla finestra del soggiorno vede le onde infrangersi imperturbabili sulla riva. Qelbinur Sidik è un po’ in ritardo, prima ha fatto la spesa. La cinquantunenne indossa una giacca a vento violetta per proteggersi dalla brezza del mare del Nord. Apre la porta del suo appartamento, in corridoio sguscia oltre un frigorifero ancora imballato. Sistema due sgabelli di plastica in soggiorno. Non ha ancora finito i lavori, certe pareti sono rivestite di tappezzeria, altre nude. “Prima mangiamo qualcosa per pranzo”, dice e dalle buste della spesa tira fuori pollo arrosto, verdure e tè. Qelbinur Sidik è di origine Uzbeka. I suoi genitori sono immigrati negli anni Cinquanta dalla Repubblica socialista sovietica nello Xinjiang. La provincia nel nord est della Cina è abitata in maggioranza da etnie turche, delle quali la più numerosa è quella degli uiguri musulmani, che lì costituiscono la comunità più grande ma nel resto del paese sono una minoranza. Nello Stato multietnico cinese è l’etnia Han, con 1,2 miliardi di appartenenti, la più numerosa in assoluto. Qelbinur Sidik è cresciuta a Ürümqi, il capoluogo dello Xinjiang, tra gli uiguri. Parla correntemente la lingua uigura e ha sposato un uiguro, Ismayil. La coppia ha una figlia, Dilfuza, che si considera uigura. Sulla carta Qelbinur Sidik è cinese di origine uzbeka, ma si sente uigura. In qualità di cinese di origine uzbeka però ha goduto nello Xinjiang di una posizione particolare. Era considerata una migrante modello. Fin da piccola ha frequentato le scuole cinesi e, a differenza di molti uiguri, parla correntemente mandarino. Tutto questo le ha consentito una carriera nella scuola. Per quasi trent’anni ha insegnato in una scuola elementare statale di Ürümqui. Ha ottenuto persino una posizione di rilievo nelle risorse umane del suo istituto. Le foto dell’epoca ritraggono una donna fiera, con i capelli messi in piega e la camicetta ben stirata. Racconta di aver sentito spesso cinesi han parlare in modo sprezzante degli uiguri. Nei suoi confronti non mostravano tanta superiorità, almeno non apertamente. Lei teneva nascosto il suo senso di appartenenza alla comunità uigura. A partire più o meno dal 2016 gli amici iniziarono a raccontarle storie che le parevano incredibili. Dicevano che gli uiguri sparivano, che gli uomini uiguri non portavano più la barba e che non era più permesso dare ai figli nomi musulmani. E che lontano dalle città sarebbero sorti dei capannoni, non si sapeva a che scopo. Nel 2017 i superiori di Qelbinur Sidik le comunicarono che doveva andare a insegnare in un’altra scuola, a degli analfabeti. Nulla di strano. Ma i superiori le fecero pressioni esagerate. Le imposero di non dire niente a nessuno del nuovo lavoro, neppure a suo marito. Dovette firmare un accordo di riservatezza. Capì che qualcosa non andava, ma non sapeva cosa. Già nel 2016 la leadership politica cinese compì nello Xinjiang una svolta che l’opinione pubblica non tenne in dovuta considerazione. Pose alla guida del partito Chen Quanguo. Chen è un falco che si è fatto una reputazione come segretario del partito in Tibet dove ha arruolato migliaia di nuovi poliziotti e creato una stretta rete di sorveglianza basata sulla tecnologia. Col senno del poi si può dire che per il burocrate il Tibet è stato un laboratorio in cui testare ciò che avrebbe messo in campo su più vasta scala nello Xinjiang, a servizio di una “assimilazione” che ha molto a che spartire con la sorveglianza della popolazione, in cui rientrano, tra l’altro, l’incremento del personale incaricato della sicurezza, controlli digitali nella quotidianità, telecamere a riconoscimento facciale, app obbligatorie sui cellulari. La popolazione ne ebbe presto sentore. La prima volta che Qulbinur Sidik vide la nuova scuola da lontano le vennero i brividi. Sembrava un carcere di massima sicurezza, circondata da muraglioni e filo spinato. Mentre raggiungeva l’aula vide uomini uiguri legati e ammanettati trascinati per il corridoio. Poi si ritrovò davanti quegli stessi uomini, seduti in classe davanti a lei con l’aria distrutta. “Salam aleikum’ disse, la pace sia con voi. Ma nessuno di loro reagì. qelbinur Sidik aveva timore di fare qualcosa di sbagliato. Lentamente si rese conto che le autorità cinesi l’avevano trasformata in una aguzzina. Non doveva insegnare agli analfabeti, bensì agli uiguri. Qelbinur Sidik parla per ore in questo pomeriggio di primavera sulla costa olandese. Seduta su uno sgabello di plastica, guarda per lo più fuori dalla finestra. Non è semplice per lei raccontare. Prende un fazzoletto di carta, se lo rigira tra le mani. Poco dopo aver ricordato il suo arrivo in uno dei campi scoppia in lacrime. Mentre l’interprete traduce dall’uiguro in inglese tiene la testa tra le mani e singhiozza piano. Nel 2017 Qelbinur Sidik dovette insegnare agli uomini uiguri del campo di detenzione la lingua cinese e le cosiddette “canzoni rosse”: inni al partito comunista e alla Repubblica popolare. Dopo circa sei mesi la portarono in un altro campo, questa volta per insegnare alle donne. Durante le lezioni forzate, racconta, spesso udiva grida provenienti da altre stanze che sembravano frutto di torture e violenze sessuali. Quando nel primo campo un uomo la pregò di contattare i suoi familiari per informarli di dove era detenuto, per timore fece finta di non averlo sentito. Nel secondo campo ebbe l’impressione di vedere gli agenti della sicurezza portare fuori dall’edificio una donna morta. Chiese a una agente di custodia che la redarguì. Controllati, le sibilò, pensa a far lezione. Molto di quello che oggi sappiamo dei campi di detenzione è frutto delle ricerche dell’antropologo Adrian Zenz che ha reperito in rete le gare di appalto per i campi di rieducazione e identificato notevoli aumenti di bilancio per le strutture detentive. Sulla base di documenti amministrativi ha ricostruito le dimensioni dell’oppressione. Quasi tutte le stime rilevanti sulla situazione nello Xinjiang - persino il numero dei campi e degli internati - derivano dalla sua indagine. Ora vive negli Usa e lavora per la Communism Memorial Foundation di Washington. I campi rientrano nella strategia politica dello Stato cinese che da un lato punta all’assimilazione culturale della provincia dello Xinjiang per risolvere il problema del terrorismo in loco ricorrendo ai campi di internamento, ma anche alla prevenzione delle nascite tramite aborti e sterilizzazioni forzate. Dall’altro intende procurarsi manodopera a basso costo. Molti uiguri vengono costretti a lavorare in fabbrica nelle regioni a forte sviluppo economico del Paese. In terzo luogo attraverso i campi Pechino intende combattere la povertà. Il cinico paradosso è che lo Stato cinese libera dalla povertà costringendo ai lavori forzati. Non più tardi dell’inizio di quest’anno il presidente Xi Jinping ha dichiarato debellata la povertà assoluta. Zenz è stato molto osteggiato a motivo delle sue ricerche. La stampa statale cinese lo ha diffamato definendolo uno pseudo-scienziato e recentemente lo ha sanzionato vietandogli l’ingresso in Cina. Anche Qelbinur Sidik ha dovuto ben presto affrontare il pugno di ferro del potere. È stata licenziata, senza un motivo concreto e anche la sua vita privata è entrata nel mirino delle autorità. Nel suo appartamento si è insediato un cinese han. All’inizio viveva con Qelbinur Sidik e il marito per una settimana ogni tre mesi. Poi una settimana al mese. A detta delle autorità era un modo di promuovere la solidarietà tra etnie. Qelbinur Sidik e il marito non avevano voce in capitolo. Erano in balia dell’uomo. Il provvedimento rientrava in un programma del governo in base al quale le autorità cinesi insediano nelle famiglie delle minoranze dei funzionari per promuovere “l’unità etnica” del paese. Secondo i dati dei media statali nel 2018 nello Xinjiang un milione di questi funzionari sono stati inviati in più di 1,6 milioni di famiglie. L’organizzazione di tutela dei diritti umani Human Rights Watch le definisce “prassi profondamente invasive di assimilazione forzata”. Il cinese han era irrispettoso, racconta Qelbinur Sidik. Sedeva a tavola a torso nudo e si ubriacava. Continuava a molestare la donna tentando di baciarla, senza nascondere l’intenzione di fare sesso con lei. “Se mi tocca lo ammazzo e poi mi uccido” bisbigliava Qelbinur al marito Ismayil. Il cinese han aveva potere. Ogni volta che la coppia protestava, minacciava di denunciarli alle autorità. Così Qelbinur Sidik e il marito obbedivano. In fondo alla donna è andata bene: il cinese han le mancava di rispetto ma non l’ha violentata. Nel 2019 era ormai prassi normale che le autorità impedissero le nascite nello Xinjiang. Le donne tra i 18 e i 50 anni dovevano obbligatoriamente mettere la spirale o farsi sterilizzare. Anche a Qelbinur Sidik dal 2017 è stata inserita la spirale per due volte non senza complicazioni. In segreto aveva fatto rimuovere il dispositivo anticoncezionale da un medico. Nel maggio 2019 ha compiuto 50 anni. Pensava che la tortura fosse finita. Invece no. Le misure sono state estese alle donne di età compresa tra i 18 e i 59 anni. Qelbinur Sidik era terrorizzata. Temeva di essere rinchiusa in un lager se rifiutava di sottoporsi ai trattamenti coatti. Per questo non ha opposto resistenza quando l’hanno portata in clinica. “Ma non dimenticherò mai l’umiliazione”. Qelbinur Sidik non ne poteva più, voleva andarsene dalla Cina. Le origini uzbeke le sono state d’aiuto. Negli anni scorsi lo stato cinese ha ritirato il passaporto a molti uiguri, imprigionando di fatto la minoranza etnica. Ma Qelbinur Sidik aveva un passaporto. E una figlia, Difulza, residente all’estero. Già nel 2011 si è trasferita per motivi di studio in Olanda ed è rimasta. Inoltre Qelbinur Sidik non aveva più nulla che la trattenesse nello Xinjiang. Il matrimonio con Ismayl era finito nel frattempo. Nell’ottobre 2019 ha incaricato un’agenzia di procurarle un visto e un volo. Il viaggio è stato orribile, racconta. Inizialmente aveva paura di non riuscire a lasciare la Cina. Poi di non riuscire ad entrare in Olanda. Quando ha visto sua figlia che la salutava con la mano all’aeroporto di Schipol, Qelbinur ha perso i sensi. Adesso Qelbinur Sidik è sana e salva in Olanda. Ha ottenuto asilo. Impara la lingua e cerca di rifarsi una vita. In futuro le piacerebbe più di ogni altra cosa insegnare ai bimbi uiguri. In Olanda risiede la più grande comunità di esuli uiguri d’Europa. Trascorre molto tempo da sola, racconta. A volte dimentica di trovarsi in Olanda. Allora è assalita dai ricordi che non la abbandonano per molte ore. Poi si riscuote e ritorna alla realtà. È all’Aja. Dice di non capire il motivo per cui in Occidente molti governi non si sbilanciano a criticare la Cina. Lo Stato cinese compie azioni orribili e deve renderne conto. L’antropologo Adrian Zenz è convinto che la pressione internazionale costringe lo Stato cinese a variare continuamente la propria linea di difesa. All’inizio Pechino negava l’esistenza dei campi. Solo di fronte a prove incontestabili l’ha ammessa. All’improvviso ha definito misure antiterrorismo le azioni in atto nello Xinjiang, i campi “centri di formazione professionale” e la permanenza nelle strutture volontaria. “La considero una prova che il mio lavoro è servito a qualcosa” dice Zenz. Ma il tedesco che con le sue rivelazioni ha contribuito più di ogni altro a far conoscere la situazione nello Xinjiang avverte: “Credo che la fase delle rivelazioni sia terminata. Ora tocca alla comunità internazionale trarre le debite conclusioni da ciò è emerso.” Ma non è sicuro che avvenga. L’Unione europea per la prima volta da più di trent’anni ha imposto sanzioni contro quattro ufficiali cinesi per l’oppressione degli uiguri, ma le sanzioni non colpiscono il segretario del partito dello Xinjiang, Chen Quanguo. Qelbinur Sidik dice che ora che vive in Olanda non teme per la propria sicurezza. Non ha neppure cambiato la serratura della sgangherata porta di legno del suo bilocale. C’è solo una cosa che continua a spaventarla: sentir parlare cinese. Cerca sempre di tenersi alla larga dai turisti cinesi nei luoghi pubblici, ma a volte non è possibile evitarli, allora il passato ritorna. “Quando sento parlare cinese entro nel panico” racconta. “È come se fossi di nuovo nel campo”. *Traduzione di Emilia Benghi Morire nel triangolo africano del jihadismo di Alberto Negri Il Manifesto, 29 aprile 2021 Burkina-Mali-Niger. Sotto il Sahel è in corso una sorta di guerra mondiale africana, con gruppi jihadisti, contingenti militari internazionali e relativi interessi geopolitici, economici e securitari. Anche l’Italia è coinvolta visto che ha deciso di inviare 200 soldati e stabilire una base militare in Niger nell’ambito della missione Takuba, sulla scia dei francesi e di qualche appetitosa commessa militare. Lontano, lontano nel mondo, i giornalisti muoiono e saranno rapidamente dimenticati, come facilmente si dimenticano i morti e i posti lontani. Sta a noi decidere se anche questa volta sarà così. Ma il “triangolo del jihadismo”, tra Burkina Faso, Mali e Niger, non è una faccenda che si liquida con un pezzo di cronaca. In Burkina Faso sono stati assassinati due spagnoli, il documentarista David Beriain e il cameraman Roberto Fraile, insieme all’attivista irlandese Rory Young della ong Wildlife. Stavano realizzando un reportage sulla caccia di frodo nell’est del Paese. L’agguato è stato rivendicato da un gruppo vicino ad Al Qaeda: forse non è ancora ben chiaro ma sotto il Sahel è in corso una sorta di guerra mondiale africana, con gruppi jihadisti, contingenti militari internazionali e relativi interessi geopolitici, economici e securitari. Anche l’Italia è coinvolta visto che ha deciso di inviare 200 soldati e stabilire una base militare in Niger nell’ambito della missione Takuba, sulla scia dei francesi e di qualche appetitosa commessa militare. Naturalmente all’opinione pubblica italiana il tutto viene occultato in qualche riunione della presidenza del consiglio dove far passare questa missione come una sorta di atto dovuto all’impegno nell’Unione europea e alla necessità di controllare i flussi migratori che dall’Africa occidentale percorrono le rotte del Sahel per risalire la Libia e arrivare alle coste mediterranee. Ma questa non è un’operazione di “polizia”, è una vera e propria guerra che da anni tiene impegnati 5mila soldati francesi e altre migliaia di soldati africani nel triangolo del jihadismo tra Mali, Niger e Burkina Faso. I francesi, che hanno subito molte perdite, avevano trovato una soluzione per ridurre il loro contingente ricorrendo agli europei e soprattutto a 1.200 militari ciadiani inviati dal presidente Idriss Déby, ucciso una decina di giorni fa per le ferite riportate - secondo la versione ufficiale - negli scontri con il Fronte dei ribelli che hanno le retrovie tra l’etnia gorane, i Tebu della Libia. In realtà emergono informazioni sempre più preoccupanti sul sistema di sicurezza occidentale nel Sahel gestito dai francesi. Idriss Déby, autocrate implacabile, era uno degli attori principali della vasta scacchiera geopolitica dell’Africa sub-saheliana. Negli anni Ottanta si era distinto per avere respinto nel Nord del Ciad le truppe di Gheddafi appoggiate dai sovietici. La retrovia del deserto libico del Fezzan e quella sudanese erano stati poi decisivi per la sua ascesa e la cacciata da N’Djamena nel ‘90 del suo antico mentore, il presidente Hissene Habré. Fino al 2011 quando si era schierato con la Francia contro Gheddafi per poi oscillare in alleanze prima con le brigate filo-Misurata e poi con quelle che appoggiano il generale della Cirenaica Khalifa Haftar sostenuto anche dalla Francia, oltre che da Russia, Egitto ed Emirati. Déby seguiva il ruolino di marcia dei francesi che lo tenevano in piedi. E Parigi si preparava probabilmente a manovrarlo anche sul fronte della nuova guerra fredda libica tra Erdogan, padrone della Tripolitania, e la Cirenaica dove i mercenari russi sostengono Haftar. La sua scomparsa ha aperto il vaso di Pandora del Sahel. Macron è volato in Ciad per i suoi funerali al fianco del successore di Déby, il figlio Mahamat sostenuto da una giunta militare. Ma dopo aver dichiarato che Parigi “non permetterà a nessuno di minacciare il Ciad”, presa di posizione interpretata come un appoggio alle nuove autorità, Macron ha cambiato radicalmente tono. Parlando sulla scalinata dell’Eliseo al fianco del presidente della Repubblica democratica del Congo Félix Tshisekedi, ha condannato “con la più grande fermezza la repressione” dei manifestanti a N’Djamena e dichiarato di non essere favorevole al “piano di successione”, prendendo le distanze in questo modo dal figlio di Déby. Perché questa ambiguità francese? Il Ciad è precipitato in una sorta di guerra civile non troppo strisciante e non ha nessuna intenzione in questo momento di mandare altri militari a combattere i jihadisti. Dai qaedisti ai Boko Haram nigeriani, se ne sono accorti e approfittano della situazione per imbastire nuove azioni militari. Ecco perché sono usciti dalla “brousse” per attaccare i giornalisti spagnoli: nel Burkina Faso il governo è con le spalle al muro e si moltiplicano le voci di patti di non aggressione, anche su base locale, con i jihadisti. La Francia ondeggia e gli Stati uniti di Biden intuiscono che “FranceAfrique” barcolla: quale migliore opportunità per “aiutare” Macron? È in posti come questi, lontano dal mondo e vicini alle superpotenze, che si muore.