La Società della Ragione lancia la sfida sul carcere di Franco Corleone Il Manifesto, 28 aprile 2021 Giovedì 29 alle ore 17 si terrà l’assemblea annuale della Società della Ragione e sarà una occasione per mettere al centro le ferite aperte del carcere. L’anno della pandemia ha determinato nel carcere una chiusura assoluta con il fuori. L’interruzione dei colloqui con i familiari, la sospensione delle attività, l’assenza dei volontari hanno fatto tornare il carcere alla condizione di un’isola autosufficiente, impermeabile alle sollecitazioni esterne mettendo a rischio il principio costituzionale del reinserimento sociale. L’arco di questo periodo è iniziato con la morte di13 detenuti durante le rivolte e si chiude con la proclamazione da parte della Corte Costituzionale della incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. È tempo di proporre una agenda di riforme radicali e possibili. È l’ora di mettere in campo dei semi per ricostruire un’ipotesi culturale che potrà essere sviluppata domani. Anche il riferimento alla giustizia nel piano del recovery fund appare senz’anima, con un riferimento riduttivo ai tempi processuali. La giustizia deve invece riconquistare il significato profondo ed essenziale di un patto per la convivenza sociale, il codice penale deve rappresentare il senso dei legami sociali individuando le condotte lesive dei diritti rifiutando le pulsioni dello stato etico e la confusione tra diritto e morale. Molti commentatori hanno lamentato la decisione della Corte Costituzionale di dichiarare l’ergastolo ostativo incostituzionale e nel contempo di affidare al Parlamento il dovere di un intervento. Io voglio dare una lettura diversa e pensare che la Consulta abbia ragionevolmente inteso rifiutare un ruolo di supplenza. Se è così, appena saranno note le motivazioni e le indicazioni della Corte sarebbe auspicabile una mobilitazione militante per una decisione saggia e autonoma. Io penso infatti che possa tornare in campo l’ipotesi, nel novantesimo anno di vigenza del Codice Rocco, di sbarazzarsi dell’architrave del regime fascista, di eliminare il bastione della dittatura. Per una giurista e costituzionalista come Marta Cartabia non sarebbe difficile, prendendo come base i lavori delle tante commissioni ministeriali di riforma del codice (Pagliaro, Riz, Grosso, Pisapia, Nordio), elaborare un testo degno dei valori della Costituzione. Un codice della Repubblica. Torniamo con i piedi per terra. Questo anno oltre alla questione dell’ergastolo ostativo vi sono altri temi che cambierebbero il carcere, la vita quotidiana e offrirebbero dignità alle detenute e ai detenuti. In primo luogo la proposta per garantire il diritto alla affettività e alla sessualità per le persone prigioniere e le loro compagne e compagni. La legge inviata al Senato dal Consiglio regionale della Toscana è all’esame della commissione giustizia del Senato e la relatrice è Monica Cirinnà. L’inizio della discussione è stato sconfortante e ricco di elementi volgari e morbosi, ma forse il repertorio pornografico si è esaurito e si potrà affrontare l’esame con serietà. Alla Camera dei deputati è in discussione presso la commissione giustizia una proposta per una modifica dell’art. 73 della legge antidroga per rendere autonoma la fattispecie della lieve entità con una riduzione di pena e una differenziazione tra sostanze. Il 12 maggio è prevista una conferenza stampa a Montecitorio per illustrare la proposta di legge n.2939 contro le insidie neo-manicomiali e per l’abolizione del doppio binario e il proscioglimento per i soggetti con disturbo psichiatrico autori di reato, restituendo responsabilità senza discriminazioni. Infine non può rimanere nel cassetto la proposta di stabilire un rinnovato statuto di amnistia e indulto, ridando, in determinati e motivati casi, al Parlamento il potere di ricorrere allo strumento della clemenza. L’assemblea avrà il difficile compito di immaginare campagne di sensibilizzazione della società civile. Info e link di collegamento: www.societadellaragione.it/2021 Siamo ancora lontani dalla rieducazione del condannato di Michael Nova e Giulia Specchio parmateneo.it, 28 aprile 2021 L’inefficienza del sistema carcerario italiano deve spingerci a formulare una riflessione critica sugli attuali metodi di detenzione. Abbattere gli stereotipi è un buon primo passo per poter trovare soluzioni che migliorino le condizioni del detenuto. Il 24 marzo si è tenuto il primo incontro del webinar “Tra diritto e società” a proposito della questione penitenziaria. Il tema di apertura del ciclo di seminari online, introdotto dai coordinatori scientifici Fabio Cassibba e Chiara Scivoletto, riguarda la tutela dei diritti fondamentali del detenuto oltre i luoghi comuni e gli stereotipi. Ospiti della riunione sono stati il Dott. Marcello Bortolato (Presidente Trib. Sorveglianza, Firenze) e l’Avv. Monica Moschioni (Osservatorio carcere della Camera penale, Foro di Parma) che grazie alla loro esperienza dell’ambito penitenziario hanno saputo aggiungere interessanti approfondimenti, ricchi di esempi specifici e appassionanti. Volendo fare un quadro generale della situazione carceraria nazionale, oggi sono circa 53.000 i detenuti sul suolo italiano. Inoltre, parlando di carcere, non si possono certo escludere le decine di migliaia di lavoratori, tra cui operatori sanitari, agenti di polizia, psicologhi o addetti alle pulizie. Un grande ecosistema di persone, mezzi e strutture che ogni anno arriva a costare quasi 3 miliardi al contribuente. Ma gli ingenti costi economici rabbrividiscono di fronte al grave problema dei costi sociali che derivano da un carcere che non assicura la pena rieducativa. La mancata rieducazione del condannato, infatti, fa sì che i tassi di recidiva degli ex detenuti sfiorino il 68%, così come evidenziato da uno studio effettuato nel 2007, dal Direttore dell’Osservatorio delle misure alternative del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (DAP). Tale dato sottolinea la grave inefficienza del sistema penitenziario che, invece di recuperare il condannato, lo isola dalla società senza offrirgli una valida alternativa alla delinquenza, cosa che solo nel 30% dei casi riuscirà a metterlo nelle condizioni di ricostruirsi una vita dentro la legalità. A cosa serve il carcere? Il nostro stato, come molti del nostro continente, viene soprannominato “di diritto”, ossia una democrazia occidentale che, a fronte di una storia ricca di guerre, dittature e ingiustizie, si è impegnata formalmente a evitare che fatti orribili avvenuti in passato possano ripetersi. Esistono infatti documenti, come la Costituzione Italiana o la Dichiarazione Fondamentale dei Diritti dell’Uomo, che raccolgono nero su bianco una serie di articoli e postulati volti alla difesa della dignità umana, dei suoi diritti e delle sue libertà come cittadino e in quanto persona. “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.” (Dichiarazione Fondamentale dei Diritti dell’Uomo, art. 1) “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.” (Costituzione Italiana, art. 2) “Chi va in carcere non è un soggetto estraneo alla società, i detenuti non sono i diversi o i lontani, per questo bisogna fare attenzione alle tutele: chi entra in carcere non smette di essere una persona portatore di diritti. Infatti, le modalità di esecuzione delle pene devono sempre rispettare questi diritti e mirare al reingresso nella società”, afferma l’avvocata Monica Moschioni. Se la permanenza è irrispettosa degli spazi, del movimento, dell’umanità, la rieducazione è più difficile. Se la pena viene eseguita con modalità intelligenti e con il superamento di deficit culturali, il reinserimento diventa più facile. Spesso i detenuti hanno la licenza elementare e non hanno mai avuto contatti con il mondo del lavoro perché cresciuti in ambienti degradanti, dove la legge dello stato viene oscurata da quella della strada e vivere nella legalità diventa una scelta sempre più difficile da intraprendere. Il carcere, secondo la società, consta di quattro funzioni principali: quella punitiva tramite il sistema retributivo del dolore; la difesa della collettività che impedisce alle persone che rappresentano un pericolo per l’ordine pubblico di circolare libere; la funzione di avvertire la popolazione che i reati vengono puniti, così da disincentivare i potenziali criminali che verranno intimoriti dalle punizioni esemplari. Infine, l’aspetto più innovativo introdotto in Italia dalla Costituzione del ‘48, è senza dubbio la funzione rieducativa della pena (art. 27) che deve mirare al recupero dei condannati che, grazie all’apprendimento di nuove mansioni e alla consapevolezza dei propri sbagli, potranno così rientrare nella società senza aver bisogno di tornare a delinquere per sopravvivere. Come sottolinea, infatti, il magistrato Bortolato “I nostri Costituenti erano quasi tutti avanzi di galera delle carceri fasciste, per questo hanno avuto lungimiranza nello scrivere la costituzione. Essi affermano che la pena deve prevedere, in ogni caso, la rieducazione, perché è interesse della collettività stessa che la persona sia cambiata, non in senso morale o religioso, ma espiando la pena utilmente. Attraverso la privazione di alcune libertà e l’utilizzo di alcuni strumenti di rieducazione posso modificare gli atteggiamenti e i comportamenti esteriori del detenuto affinché non ricada nel reato. Questo è l’interesse collettivo”. Inoltre, il carcere permette corsi di formazione nell’ambito elettrico, della meccanica, del giardinaggio, ecc.; i detenuti possono acquisire competenze da sfruttare una volta finita la pena. Allo stesso tempo, alcuni detenuti possono anche accedere a dei percorsi di formazione scolastica, portando avanti un percorso di studio dal carcere. Così il tempo speso in carcere diventa utile per il reinserimento nel contesto sociale. In tal senso il carcere è un interesse di tutti, perché se non si rieducano i carcerati ci sono probabilità maggiori che tornino a delinquere, se riescono a reinserirsi nel contesto sociale avranno un costo inferiore per la società stessa, anche per questo non ci si può disinteressare a loro. Il reinserimento del detenuto - Alcune istituzioni carcerarie permettono a determinati detenuti di potersi reinserire nel contesto sociale, offrendo la possibilità di studiare. Di questo lavoro è stato fatto presente anche da una tutor accademica, Caterina, che lavora presso il carcere di Opera. In quanto tutor, Caterina affianca studenti detenuti presso il carcere di Opera, iscritti all’Università, aiutandoli nello studio delle materie. Non conosceva nulla dell’istituzione carceraria, se non quei preconcetti e stereotipi costruitasi per via di ciò che ci viene propinato dalla televisione. Una volta iniziato il suo percorso come tutor, ha iniziato a vedere realmente l’istituzione carceraria per quello che è, ossia un’istituzione che tiene, sì, rinchiuse delle persone, ma le quali vengono trattate come esseri umani e sono civili. “Sicuramente sentivo la necessità di mettermi alla prova e fare qualcosa che potesse, nel mio piccolo, fare la differenza, ma la scelta di per sé devo dire che è stata molto istintiva e per certi versi anche poco ragionata. Ho pensato: ma si, buttiamoci, e così ho fatto”, afferma la tutor Caterina. A causa della pandemia ha portato a dover rivalutare i propri mezzi a disposizione per poter consentire agli studenti di Opera di proseguire gli studi. Cosa si sono “inventati” i tutor? Principalmente, finché la situazione non è ritornata alla normalità (cioè far tornare i tutor fisicamente), mandavano il materiale didattico ai propri studenti lasciandoli al portinaio del carcere, in modo tale che non rimanessero indietro con il programma. Successivamente, nel luglio del 2020, i tutor sono tornati ad insegnare e seguire i propri allievi all’interno del carcere, sottoponendosi ad un tampone mensile. Poi, per evitare che la situazione emergenziale si ripresentasse e causasse gli stessi problemi, sono riusciti a prendere possesso di aule fisiche della propria università, in modo tale da proiettare in collegamento con il teatro del carcere le lezioni, così gli studenti sono stati più agevolati. Il rapporto che si instaura tra il tutor e il detenuto, in realtà, è molto spontaneo, in quanto sono già persone propense a imparare. “L’attività di tutorato procede sempre su un doppio binario: da una parte il mondo esterno che tu porti in carcere e dall’altra il mondo del carcere che entra a far parte di te; quando un qualcosa di così potente entra a far parte del tuo bagaglio di esperienza non può che cambiarti per sempre”. La doppia pena dei disabili in carcere di Lucia Aversano retisolidali.it, 28 aprile 2021 Ci sono più di 600 disabili in carcere, che non ricevono le cure e gli ausili necessari. Le proposte dell’Associazione Conosci. Sandro Libianchi, presidente del Coordinamento Nazionale per la Salute nelle Carceri Italiane (Conosci), già dirigente medico nel complesso polipenitenziario di Rebibbia: “La normativa vigente prevede che la disabilità, come ogni grave motivo di salute, può essere motivo di scarcerazione oppure di misura alternativa, ed è su quest’aspetto che noi vogliamo porre l’attenzione”. Nell’agosto 2015, l’ufficio IV “Servizi sanitari” della Direzione generale dei detenuti e del trattamento, ha rilevato la presenza di 628 persone detenute in condizioni di disabilità, sull’intero territorio nazionale. Qual è la situazione del Lazio? “Mediamente, in una regione come il Lazio, i detenuti disabili sono circa settanta (secondo i dati del DAP al 2015, erano 65, di cui 51 italiani e 14 stranieri), ma suppongo che la situazione attuale sia molto simile. Un numero del genere potrebbe sembrare irrisorio, ma non lo è, perché le esigenze di assistenza di questi detenuti creano molti problemi di gestione agli operatori”. Il problema dell’assistenza si aggiunge alla carcerazione, e i disabili in carcere scontano una doppia pena… “Il detenuto disabile è del tutto invisibile, e la sua condizione non gli permette di avere le stesse opportunità del detenuto non disabile: non può fare quasi niente, tra le altre cose non può nemmeno lavorare all’interno né tantomeno avere una retribuzione, e questo è un grosso problema che si traduce con una sofferenza indicibile”. Come funziona l’assistenza in carcere? Chi sono oggi i caregiver, quelli che un tempo venivano chiamati detenuti “piantone”? “Quando i detenuti disabili hanno la fortuna che qualcuno li assista, e cioè quando la Direzione decide di mettere a disposizione una persona, questa persona è un altro detenuto, che però viene scelto con criteri non sanitari, e di rado è formata per fare assistenza. La persona incaricata assiste solo per qualche ora al giorno e provvede ai fabbisogni basilari, e raramente offre assistenza per tutto il giorno. L’incarico inoltre è periodico e non dura per lungo tempo, ed infatti questi caregivers vengono cambiati spesso”. La normativa vigente (Legge 26 luglio 1975 n. 354 - Ordinamento Penitenziario) prevede, all’articolo 65, che “i soggetti affetti da infermità o minorazioni fisiche o psichiche devono essere assegnati ad istituti o sezioni speciali per idoneo trattamento”, ma sono solo 7, su 193, i penitenziari che dispongono di reparti dedicati. Cosa succede negli altri 186 istituti? “La maggior parte dei detenuti disabili hanno difetti di deambulazione e si muovono con difficoltà nell’ambito della sezione. Le sezioni, poi, sono abbastanza lontane dalle aree verdi, e questo significa che fanno poca “aria” perché le distanze non riescono a essere superate. Questo è un problema interno importante, ma c’è un altro problema altrettanto rilevante e che riguarda i pochi permessi premio. Le misure alternative per loro sono poche rispetto a quanto ne avrebbero bisogno. In genere questi detenuti sono molto poveri e non hanno un alloggio fisso di riferimento, o una residenza anagrafica, o una persona di riferimento che se ne prende cura, e ciò preclude la possibilità di ottenere i permessi”. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è più volte pronunciata contro l’Italia, per aver violato il diritto del condannato a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Dunque la condizione dei detenuti riguarda tutti noi… “A noi questa storia interessa, e molto, come Stato, perché abbiamo avuto diverse condanne dalla Cedu per i trattamenti considerati inumani verso i detenuti disabili. L’Italia ha perso già diverse cause con le relative condanne che hanno comportato, giustamente, il rifondere i danni provocati alle persone. Ciò significa che è stato riconosciuto l’esistenza di un grosso deficit in questo settore e che bisogna provvedere, ma ad oggi non c’è nessun segnale che ci porti a pensare che le cose stiano migliorando oppure che le difficoltà stiano diminuendo”. Dal 2008 le competenze in materia di sanità penitenziaria sono attribuite al Sistema Sanitario Nazionale. Gli accordi specifici tra giustizia e sanità auspicati, a che punto sono? “Giustizia e Sanità sono due settori che ancora hanno una scarsa capacità di dialogo interistituzionale e si rimpallano costantemente le responsabilità dell’assistenza. Nel caso dei detenuti disabili, quando c’è un problema di salute il ministero che deve provvedere è quello della Sanità (attraverso le regioni e le Asl), ma sul problema dell’alloggio in carcere la competenza è della Giustizia. Se si pensa all’inidoneità degli ambienti carcerari rispetto alle limitazioni funzionali di queste persone, è l’Asl che dovrebbe attivarsi e dichiarare l’inidoneità dei locali con la conseguenza che non sarebbe possibile trattenere la persona detenuta e disabile in quelle condizioni, ma questo non avviene. La stessa situazione si verifica per la fornitura dei presidi sanitari: in carcere anche avere un paio di stampelle diventa difficile, perché le persone per avere i presidi ortopedici devono essere riconosciute come invalidi civili; gli invalidi civili però, diventano tali solo dopo aver avuto una valutazione da una Commissione che, in questo caso, dovrebbe andare in carcere ed effettuare una visita, e ciò avviene con estrema difficoltà. Inoltre i modelli d’intervento variano moltissimo da una regione all’altra, con il risultato di avere regioni poco problematiche e altre totalmente sprovviste di sistemi di supporto per i detenuti disabili”. Cosa succede nel Lazio? “Il Lazio dovrebbe lavorare sul miglioramento dei modelli operativi”. Quali sono le proposte fatte da Conosci durante l’audizione alla Commissione Settima? “Come prima cosa abbiamo fatto presente la necessità di un accordo di programma tra Giustizia e Sanità, che comportino dei protocolli d’intesa chiari: una valutazione, un intervento e una proposta al magistrato. Poi, abbiamo ribadito che le Asl si devono attrezzare per fare una presa in carico precoce, con un progetto speciale. Abbiamo inoltre indicato che deve essere fatta un’azione di informazione sulle risorse del territorio in tema di disabilità; e infine abbiamo segnalato la necessità di formare i detenuti che fanno i “piantoni”, perché quello dell’assistenza alla persona è un lavoro difficile e particolare che non può essere fatto da chiunque”. Carceri, ancora in calo i contagi, vaccini in sensibile aumento di Antonella Barone gnewsonline.it, 28 aprile 2021 Sfiora il 30% la percentuale dei detenuti che hanno ricevuto la prima dose di vaccino. L’Anagrafe nazionale del Ministero della Salute ha registrato ieri, lunedì 26 aprile, un totale di 15.684 somministrazioni su una popolazione di 52.591 detenuti presenti. Dati che confermano l’accelerazione del trend di crescita delle vaccinazioni pari a 5.630 in più di lunedì 19 aprile, data del precedente monitoraggio. In calo anche gli altri dati relativi ai detenuti: 492 i positivi (erano 655) di cui 2 sintomatici e 23 ricoverati. Contagi in discesa anche tra il personale della Polizia Penitenziaria. Dei 424 positivi (474 la settimana scorsa) solo 10 sono dovuti ricorrere alle cure ospedaliere. Fra il personale appartenente alle Funzioni Centrali risultano invece 47 positivi, tutti in isolamento domiciliare. In crescita anche gli avviati alla vaccinazione nella Polizia Penitenziaria pari a 19.451 (erano 16.869) poco più del 52% del personale. L’aumento meno significativo si registra solo tra gli amministrativi che risultano 1990 (20 in più della settimana scorsa) raggiungendo, tuttavia, quasi il 50% dei dipendenti. Decreto Covid. Misure per i colloqui con i detenuti Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2021 Gli spostamenti per lo svolgimento dei colloqui con i congiunti o con altre persone ai quali hanno diritto i detenuti, gli internati e gli imputati, sono consentiti anche in deroga alla normativa adottata ai fini del contenimento dell’emergenza epidemiologica da Covid-1919, quando i medesimi colloqui siano necessari per salvaguardare la salute fisica o psichica delle stesse persone detenute od internate. Giustizia, prime tensioni sulla riforma di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2021 Riforma della giustizia ad alta tensione. Sia sul fronte civile sia su quello penale. Nelle medesime ore che hanno visto l’approvazione del Recovery plan, che tra l’altro nell’ultima versione estende un po’ i tempi di approvazione delle misure (entro fine 2021 le leggi delega ed entro il 2022 i decreti delegati), si profilano le prime prese di distanza rispetto al merito degli interventi. Sul civile, le prime indiscrezioni sul contenuto dei lavori, appena terminati, della commissione Luiso, istituita dalla ministra Marta Cartabia, non convincono l’avvocatura. Il Cnf contesta le ipotesi di filtro alle impugnazioni e all’appello in particolare e l’assenza di riferimenti alle specializzazioni, mentre le Camere civili mettono nel mirino “il semplice rispolvero di vecchie proposte quali la riduzione dei termini di difesa, le preclusioni e i filtri, osteggiati da tutti gli operatori della giustizia”. Da via Arenula però rassicurano: nessuna compressione dei diritti dei cittadini. In realtà la commissione presieduta da Paolo Luiso, docente di Procedura civile a Pisa, ha presentato, sul rito, 2 ipotesi alternative a Cartabia, una più conservatrice e una più spregiudicata (con la riduzione dei tempi per le memorie, la concentrazione della fase istruttoria). Ma dalla commissione arrivano anche un pacchetto di proposte organiche sul diritto di famiglia, con l’estensione della negoziazione assistita al contesto delle coppie non sposate; negoziazione che si propone di allargare alle cause di lavoro; la conciliazione poi dovrà comprendere anche i rapporti di durata. Sul penale, ieri sono stati presentati gli emendamenti che il Pd presenterà al testo del disegno di legge Bonafede in discussione alla Camera. A illustrare le 20 proposte la responsabile Giustizia e i capigruppo in commissione a Camera e Senato, Alfredo Bazoli e Franco Mirabelli. Sulla prescrizione, il ddl Bonafede prevede sanzioni ai giudici, “che sono poco efficaci” - ha detto Bazoli - mentre gli emendamenti prevedono “conseguenze sul processo”. In particolare se in appello c’è lo sforamento per un imputato assolto in primo grado, scatta l’improcedibilità; se invece l’imputato era stato condannato in primo grado, scatta uno sconto di pena di un terzo; infine scatta sempre l’improcedibilità se si supera un certo limite temporale, che per gli emendamenti del Pd dovrà indicare il Governo. Giustizia, per mediare i tecnici seguiranno i politici di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 28 aprile 2021 Riforma del processo penale. La commissione di saggi insediata dalla ministra Cartabia aspetterà gli emendamenti al disegno di legge Bonafede prima di proporre le sue soluzioni. E sul nodo più difficile da sciogliere il Pd indica la via della prescrizione processuale. Altro che “ammainare le bandierine”, come ha invitato a fare la ministra Marta Cartabia nella sua intervista del 25 aprile alla Stampa, dove in puro stile Draghi “last call” ha avvertito i partiti della maggioranza che se salta la riforma della giustizia “molto semplicemente non avremo i fondi europei”. Quando mancano solo 48 ore al tornante decisivo nella riforma del processo penale, il deposito degli emendamenti al testo base che è ancora quello del ministro grillino Bonafede, i gruppi parlamentari alzano e sventolano tutti i vessilli che hanno a disposizione. Prescrizione, durata dei processi, riti alternativi: le previsioni danno una pioggia di proposte di modifica di segno opposto in arrivo sullo schema di legge delega, quello che pareva urgentissimo quando fu depositato dal governo Conte 2 e che invece è rimasto fermo oltre un anno in commissione alla camera. Piove dunque sugli auspici alla concordia di Cartabia, ma al ministero della giustizia non per questo ridimensionano le ambizioni. Che sono molto alte: secondo il calendario inserito nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, il disegno di legge delega che riforma il processo penale sarà approvato definitivamente dalle camere entro fine anno. Chi ha seguito la successione delle bozze del Pnrr nell’ultima settimana ha notato una correzione in corsa: la prima versione approdata dal Consiglio dei ministri prevedeva l’approvazione della riforma del processo penale per settembre 2021. La differenza di tre mesi può sembrare poca cosa, in realtà tenendo conto di tutti gli atti successivi che dovranno essere adottati, innanzitutto i decreti delegati e poi i decreti ministeriali e i regolamenti, sposta l’orizzonte della riforma oltre la fine della legislatura. E ne affida dunque la conclusione a un altro governo. Ma è significativa anche un’altra variazione di date che si coglie tra le bozze e il testo definitivo. In precedenza si parlava del termine del 23 aprile come data di conclusione dei lavori della commissione ministeriale insediata da Cartabia - nel caso del processo penale si tratta della commissione presieduta dall’ex presidente della Corte costituzionale Lattanzi. Era quella anche la scadenza entro la quale i partiti dovevano far arrivare i loro emendamenti. Poi il termine per gli emendamenti parlamentari è stato spostato a venerdì prossimo, 30 aprile, e anche il termine dei lavori della Commissione è stato aggiornato nel Pnrr, spostandolo però all’8 maggio. Accadrà così che i tecnici della ministra avranno otto giorni di tempo per conoscere le carte dei gruppi di maggioranza prima di calare le loro proposte con le quali provare a raggiungere la concordia invocata dalla ministra. Uno stratagemma che, dicono i parlamentari che seguono il dossier, potrebbe essere l’unica maniera per evitare uno scontro frontale tra i lavori della commissione tecnica e quelli della commissione (giustizia della camera) politica. L’obiettivo resta quello della sintesi. Qualche contatto informale tra i saggi della ministra e i capigruppo in commissione non è mancato, nell’ultima settimana ci sarà anche un incontro formale. Per questo il Pd ieri ha anticipato tutti con una ventina di emendamenti che intervengono anche sul nodo più intricato che resta quello della prescrizione. Dopo la sostanziale abolizione dell’istituto a opera del governo M5S-Lega (la prescrizione non decorreva più dopo la sentenza di primo grado), il governo giallo-rosso aveva corretto un po’ il tiro, limitando lo stop solo ai condannati in primo grado. Soluzione che non soddisfaceva però i renziani e che non piace ai nuovi arrivati in maggioranza, il centrodestra, compresa la Lega in versione “garantista”. Il Pd adesso propone un cambio di prospettiva, sposando la via della prescrizione processuale. Vale a dire che se non saranno rispettati i tempi dei processi richiamati nel ddl Bonafede, che sono quelli della legge Pinto, cioè due anni per l’appello, scatterà uno sconto di un terzo della pena per chi è stato condannato in primo grado. O l’improcedibilità nel caso di assoluzione in primo grado o di sforamento di oltre 4 anni. Lo schema non è troppo distante da quello che annuncia il rappresentante di +Europa-Cambiamo Costa. E potrebbe così orientare i tecnici della ministra in una direzione lontana dai 5 stelle e da Bonafede che fu. I tempi del processo, l’attesa come pena e il ruolo della prescrizione di Natalino Irti Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2021 Il processo, qualsiasi processo (giudiziario, scientifico, tecnologico), ha in sé, nel suo “procedere”, la dimensione del tempo. Esso “avanza” di atto in atto, dal principio alla fine, dalla domanda alla risposta. E risposta è, nel campo giuridico, la decisione del giudice, che distingue fra ragione e torto, fra innocenza e colpevolezza. Entro questa comune identità, si coglie tuttavia la distinzione suprema, che sta prima di ogni altra: nel giudizio civile si agitano, in linea di massima, conflitti di interessi economici; nel giudizio penale, è in giuoco la libertà individuale. E perciò la misura del tempo acquista un diverso rilievo e riceve una particolare attenzione. Questa prospettiva consente di avvertire che il processo giudiziario costituisce di per sé una pena. Già si è detto, e si vuol ribadire, che il processo, come giudizio di uomini su altri uomini, si svolge nel tempo, si scompone in indefinita pluralità di atti, passa di grado in grado, e infine trova conclusione nella sentenza, che non è la “verità”, ma viene considerata come “verità” (pro-veritate accipitur, nell’incisivo latino degli antichi giureconsulti). Nel tempo necessario per raggiungere questa “finzione” di verità - una finzione indispensabile per la convivenza e per riporre il caso in archivio - un uomo è sottoposto a giudizio, si sente oggetto di ricerca e materia di studio. Il suo passato è ricostruito, osservato, scrutato. Propriamente giudicata non è una singola azione, un frammento, ma l’intera vita, spogliata, denudata, ridotta a schema, tipizzata in base alla “figura” di ciascun reato. Non basta “sentirsi innocenti”, poiché il giudizio solleva la domanda sull’innocenza: e già questo interrogarsi scuote l’animo e reca dolore. Per tutti - innocenti o colpevoli (come li sapremo nell’ora della decisione) - il processo è pena. La grande letteratura ha avvertito, e tradotto in angosciose narrazioni, la sofferenza del processo, questo soggiacere a un potere senza volto e senza nome, a una violenza impersonale, che sovrasta tutti, e di volta in volta sceglie e colpisce singoli “imputati”. Questo è, per usare l’immagine acutissima di Albert Camus, l’“universo del processo”, l’universo delle società contemporanee, sempre più sospettose e inquisitorie. La letteratura, si diceva poco sopra, ha colto la ineluttabile tragicità dell’attesa, il peso di una domanda, che talvolta non si conosce o non si comprende. Il celebre libro di Franz Kafka, “Der Prozess”, risale al 1925, ed è romanzo di una sofferenza che non si scioglie e di una misteriosa domanda che invano attende risposta. È appena del 2017 il racconto suggestivo di Andrea Salonia, dove già il titolo esprime l’angoscia dell’attesa, “Domani, chiameranno domani”. La sofferenza del giudizio è anche tema di un grande studioso di diritto, fra i più eminenti del secolo ventesimo, Francesco Carnelutti. Concludendo il lungo itinerario accademico, che lo vide sulla cattedra di tutte, o quasi tutte, le discipline giuridiche, Carnelutti tenne da ultimo l’insegnamento romano del diritto processuale penale. Il fascinoso corso di lezioni ha per motivo dominante l’identità tra processo e pena, o, se si preferisce in più semplici parole, il carattere punitivo dello stesso processo. Sapersi giudicati è, già in sé, una pena, una sofferenza che dura nel tempo, e rimane incancellabile nella vita. Anche la sentenza di assoluzione “scioglie” dal reato e dalla sanzione prevista nella legge, ma non cancella, né potrebbe, la sofferenza del giudizio e l’ansia dell’attesa. La pena del processo è stata già “scontata”. Sempre ammoniva Carnelutti che nel processo penale la “res iudicanda è un uomo”, che tutti gli atti - del suo iniziare e svolgersi e concludersi - riguardano un uomo, il quale patisce, dal principio alla fine, la sofferenza del giudizio. Si suole replicare, da cupi e zelanti accusatori, che hanno in sé, e quindi vedono intorno a sé, un’umanità peccatrice e colpevole; si suole obiettare che tale sofferenza è un costo necessario, e che qualsiasi comunità ha bisogno di conoscere e colpire i fatti criminali: un costo pagato da innocenti e colpevoli, ossia da tutti coloro che un giorno conosceremo autori o non autori di reati. Ma proprio la sofferenza del processo, di questa pena legata a un’incognita, che incombe a tutela di un certo ordine giuridico, vuole di per sé la brevità della durata. Soltanto così la “presunzione di innocenza”, enunciata dal secondo comma dell’art. 27 Cost., e la “ragionevole durata del processo” (art. m, 2° comma), acquistano un senso profondo: l’indagine giudiziaria e la “imputazione” segnano già l’inizio di quella “pena”, di quel soffrire d’attesa, che si scioglierà soltanto con la sentenza “della fine”. Tra l’inizio e la fine si svolge l’angoscia del processo, che è già pena irrogata dal diritto, pena nell’attesa che l’incognita si dischiuda e dia risposta alla domanda. La “prescrizione” cancella l’incognita dal destino di un uomo, e serve a “estinguere”, non solo il reato, ma la paura e la pena del processo. C’è una giustizia del tempo, che domina la esistenza dei singoli individui e la storia degli Stati: ed essa comprende in sé, accanto alla memoria, anche la dimenticanza. Il passato - come avvertiva Nietzsche - non può soffocarci e distruggere le energie della vita, che si esprimono e costituiscono con lo sguardo al presente e al domani. E così si spiegano quelle “amnistie”, concesse allo spegnersi di guerre crudeli, da avveduti uomini di Stato, che conoscono la necessità dell’oblio. Di quell’oblio che restituisce la pace dell’animo e dei popoli. Questa è la prospettiva integrale in cui il problema della prescrizione va discusso e deciso. Riti alternativi e prescrizione. Pd e Leu rilanciano sul penale di Giulia Merlo Il Domani, 28 aprile 2021 Il termine per gli emendamenti al disegno di legge penale, che è contenuto anche nel Pnrr presentato dal presidente del Consiglio Mario Draghi alla Camera, sta per scadere. Dopo tre slittamenti la data è stata fissata per il 30 aprile ma il Partito democratico e Leu hanno già pronti i testi degli emendamenti, autonomi ma che vanno nella stessa direzione. Potrebbe ancora esserci qualche limatura, ma l’impianto è chiaro e incide su due punti nevralgici del ddl: la prescrizione e i riti alternativi. Entrambi i partiti considerano il ddl - redatto durante il governo Conte 2 - un buon punto di partenza, ma che su alcuni punti va reso “più incisivo”, ha detto la responsabile giustizia del Pd, Anna Rossomando. Riti alternativi - Gli emendamenti del Pd puntano a incentivare la definizione anticipata dei procedimenti, con l’obiettivo di decongestionare i tribunali limitando il numero di processi che vanno a dibattimento. Oggi il 13 per cento dei processi in primo grado si conclude con patteggiamento o rito abbreviato, “una percentuale che dovrebbe aumentare di tre volte per deflazionare gli uffici giudiziari”, ha detto Alfredo Bazoli, capogruppo dem in commissione Giustizia. Il Pd punta ad aumentare la premialità che deriva dalla scelta di questi riti: per i reati con pene massime fino ai cinque anni di reclusione, la proposta è di ridurre la pena fino al 50 per cento (ora è fino a un terzo) in caso di patteggiamento chiesto nella fase delle indagini preliminari e in caso di rito abbreviato. Un altro emendamento propone l’introduzione dello strumento dell’archiviazione condizionata, ovvero che, con l’accordo di pm e giudice nella fase antecedente al rinvio a giudizio, il procedimento venga archiviato se l’indagato adempie ad alcuni obblighi riparatori e risarcitori. “L’orientamento culturale è quello di potenziare il modello di giustizia riparatoria rispetto a quella sanzionatoria”, ha detto Bazoli. Un’impostazione, questa, che incontra certamente l’orientamento fin qui prospettato dalla guardasigilli Marta Cartabia, ma che potrebbe creare qualche frizione rispetto al modello di giustizia dei Cinque stelle. Anche Leu con Federico Conte interviene in particolare in materia di rito abbreviato (in cui il giudice decide allo stato degli atti raccolti nelle indagini preliminari, senza il dibattimento). La previsione è di renderlo sempre accessibile (ora è possibile solo per alcuni reati) e di prevedere scaglioni rigidi di riduzione della pena: della metà per i reati puniti fino a sei anni; di un terzo per i reati con pena superiore a sei anni; a trent’anni in caso di ergastolo. Prescrizione - La prescrizione è politicamente il tema più spinoso, su cui Cartabia si è impegnata a intervenire per modificare la previsione della legge Spazza-corrotti voluta dal Movimento 5 stelle. Il Pd propone di sopprimere il cosiddetto lodo Conte bis, frutto di un accordo della precedente maggioranza e che prevede che, in caso di appello, la prescrizione venga sospesa solo per i condannati e non anche per gli assolti. A questo dovrebbe sostituirsi un meccanismo di prescrizione per fasi, visto che il ddl penale prevede tempi certi per ogni fase processuale. Nel caso in cui l’appello o il processo in Cassazione durino più dei due anni previsti, scatta l’improcedibilità per chi era stato assolto in primo grado, mentre per il condannato in primo grado si matura uno sconto di pena di un terzo. Leu, invece, tiene ferma la prescrizione sostanziale del lodo Conte bis. Aggiunge però la prescrizione per fasi, con l’improcedibilità per l’assolto in primo grado nel caso di appello con durata superiore ai due anni e lo sconto di 45 giorni di pena ogni sei mesi in più rispetto ai due anni di durata per il condannato in primo grado. Quanto questa linea venga condivisa dai Cinque stelle è incerto. Ma Rossomando sottolinea come le proposte del Pd vadano nella direzione indicata da Cartabia: “Scommettiamo sul fatto che la giustizia equa sia aspirazione di tutti i partiti, come i tempi congrui di durata del processo”. La svolta del Pd sulla prescrizione. “Così velocizzeremo la giustizia” di Simona Musco Il Dubbio, 28 aprile 2021 Più spazio ai riti alternativi e all’approccio riparativo negli emendamenti proposti dai dem sul penale. Norma Bonafede limitata con l’estinzione del giudizio se l’appello dura troppo. Ventisei proposte e un obiettivo: rendere la giustizia penale più veloce, trasparente e giusta. Una giustizia al servizio del cittadino, potenziando i riti alternativi e l’approccio riparativo, chiudendo la stagione del giustizialismo e lo scricchiolio delle garanzie. Si potrebbero riassumere così gli emendamenti (ancora passibili di limature) al ddl penale presentati ieri al Nazareno dal Partito democratico e che verranno depositati venerdì. Si parte, dunque, dal disegno di legge dell’ex ministro Alfonso Bonafede, ma con dei correttivi che, di fatto, combinino “il modello di prescrizione sostanziale che si interrompe col processo di primo grado” previsto dalla riforma, con “un modello di conseguenze processuali sui tempi di fase che si aggancia ai tempi già previsti dal ddl”, hanno sottolineato ieri Anna Rossomando, vicepresidente del Senato e responsabile giustizia del Pd, Alfredo Bazoli e Franco Mirabelli, capigruppo della Commissione giustizia rispettivamente alla Camera e al Senato. Di fatto, dunque, gli emendamenti mirano a depotenziare la norma Bonafede, per riportarla nell’alveo delle garanzie, nella convinzione che il problema dell’irragionevole durata del processo non possa essere risolto con la prescrizione. In primo luogo il Pd chiede di sopprimere il lodo Conte- bis, che prevede la “riattivazione” del corso della prescrizione in caso di assoluzione in appello. I dem partono eliminando la distinzione tra assolti e condannati e prevedendo che nel caso di superamento dei termini di fase, sia in appello, sia in Cassazione, si dichiari l’improcedibilità in favore dell’imputato che viene assolto, la riduzione di pena di un terzo in favore dell’imputato la cui condanna sia confermata o passi in giudicato, un equo indennizzo in favore dell’imputato che all’esito del giudizio di impugnazione contro una sentenza di condanna sia assolto, prevedendo un termine più lungo oltre il quale l’improcedibilità operi anche negli ultimi due casi. Per quanto riguarda le indagini preliminari, la proposta prevede che la richiesta d’archiviazione, una volta valutata la completezza, la congruità e la serietà del compendio probatorio acquisito, avvenga in presenza di prove insufficienti o contraddittorie, laddove si ritenga inutile un nuovo supplemento istruttorio. Punto che prevede anche un’altra proposta, ovvero quella di escludere l’azione penale qualora l’accusa ritenga di non avere elementi sufficienti a giungere ad una condanna all’esito del processo. L’emendamento prevede anche criteri di priorità organizzativa - già previsti dal ddl Bonafede - per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, attraverso una selezione delle notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre. Criteri che tengano conto della gravità concreta e dell’offensività del fatto, della qualità personale dell’autore del reato, del pregiudizio derivante dal ritardo per la formazione della prova per l’accertamento dei fatti, della probabilità di estinzione del reato per prescrizione prima dell’accertamento giudiziale. Nella prospettazione dell’ex ministro toccherebbe al procuratore stilare tali criteri, dopo un’interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d’appello e con il presidente del tribunale, mentre per il Pd le priorità andrebbero valutate anche tenendo conto delle indicazioni generali del Csm e del Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza. Lo scopo è quello di ottenere un maggiore grado di trasparenza e responsabilità per gli uffici di procura, consentendo ai pm di “rendicontare” le proprie attività. Nel caso in cui, entro tre mesi dalla scadenza del termine di durata massima delle indagini preliminari (sei per indagini particolarmente complesse e 12 mesi per reati come l’associazione mafiosa), il pm non abbia notificato l’avviso della conclusione delle indagini o richiesto l’archiviazione, lo stesso dovrà notificare all’indagato e alla persona offesa l’avviso del deposito della documentazione d’indagine e della facoltà di prenderne visione ed estrarne copia, avviso la cui notifica potrà essere ritardata per un periodo non superiore a sei mesi. Dopo tale atto, nel caso in cui il pm non proceda a chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio entro 30 giorni dalla presentazione della richiesta del difensore o della parte offesa scatta l’illecito disciplinare. Nel ddl Bonafede ciò sarebbe circoscritto ai casi di negligenza inescusabile, mentre per il Pd - che chiama in causa il Procuratore, che dovrà provvedere al posto del pm, sotto pena di responsabilità disciplinare - basta che si tratti di negligenza grave. Per quanto riguarda il giudizio abbreviato, oltre alla modifica delle condizioni per l’accoglimento della richiesta subordinata a un’integrazione probatoria, il Pd chiede di prevedere uno sconto di pena della metà nel caso in cui si proceda per un delitto punibile fino a un massimo di cinque anni o la multa, mentre lo sconto rimane di un terzo in tutti gli altri casi. Uno sconto della metà, secondo i dem, andrebbe previsto anche nel caso in cui la richiesta di patteggiamento arrivi nel corso delle indagini preliminari. Ciò per deflazionare il carico dei processi e, dunque, alleggerire il lavoro degli uffici, con la conseguente velocizzazione della macchina giudiziaria. Altra richiesta è la videoregistrazione integrale dell’attività dell’istruttoria dibattimentale, così come di ogni interrogatorio di persone detenute, anche al di fuori delle udienze, pena l’inutilizzabilità. I dem chiedono anche l’introduzione del diritto, per il difensore, di ottenere, con richiesta motivata, la rinnovazione davanti al collegio diversamente composto di prove dichiarative decisive per la decisione. Ma non solo: tra gli emendamenti proposti c’è anche la soppressione dell’udienza filtro prevista dal ddl Bonafede all’articolo 6 - che complicherebbe la procedura rischiando anche di allungare i tempi del processo -, nonché la composizione monocratica per la Corte d’Appello nei casi di citazione diretta, se non per fatti di particolare semplicità o su richiesta di parte. In materia di giustizia riparativa, la novità, mutuata dal sistema tedesco, sarebbe l’introduzione dell’archiviazione condizionata, che consente, al termine delle indagini preliminari, di attivare, in alternativa all’azione penale, una serie di misure “compensative”, che vanno dal pagamento di una somma di denaro a lavori di pubblica utilità, corsi di formazione o di istruzione e il risarcimento del danno o l’attività di mediazione. Attività sulle quali dovrà vigilare il pm e che se concluse positivamente porterebbero all’estinzione del reato, nei casi di reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o per pene non superiori ai quattro anni. Presunzione d’innocenza e privacy, i bersagli del processo mediatico che dobbiamo tutelare di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 28 aprile 2021 L’Italia sembra ancora recalcitrante nel recepire la Direttiva Ue intervenuta con lo scopo specifico di garantire maggiori tutele per i soggetti indagati o imputati. Perché? Con la locuzione “processo mediatico”, secondo una puntuale definizione di Glauco Giostra, si intende designare, convenzionalmente, la raccolta e la valutazione di dichiarazioni, di informazioni, di atti di un procedimento penale da parte di un operatore dell’informazione, quasi sempre televisivo, per ricostruire la dinamica di fatti criminali con l’intento espresso o implicito di pervenire all’accertamento delle responsabilità penali coram populum. La mediatizzazione ad opera di Autorità Giudiziarie espone i processi e i loro protagonisti al pubblico, comportando inevitabilmente la violazione non solo del diritto alla privacy dei soggetti coinvolti, ma anche il calpestamento del diritto alla presunzione di innocenza. Privacy e presunzione di innocenza sono due diversi elementi processuali che finisco, tuttavia, per essere intrinsecamente legati l’uno all’altro. In particolare, il primo è strumentale alla tutela del secondo. Eppure, quello italiano è un ordinamento che gode delle più alte garanzie in favore di chi è sottoposto ad indagini, a partire dallo stesso dettato costituzionale, come l’articolo 27. Garanzie più specifiche sono previste anche dallo stesso Codice di Rito per il tramite di tutta una serie di divieti in ordine alla pubblicazione di atti e immagini del procedimento penale. Verosimilmente, per quanto sopra esposto, l’Italia pare recalcitrante nel recepire la Direttiva UE del 9 marzo 2016 n. 343, intervenuta con lo scopo specifico di garantire maggiori tutele per i soggetti indagati/imputati, intervenendo sotto due profili: il rafforzamento del principio della presunzione di innocenza; il diritto a presenziare in processo. L’obiettivo, insomma, come espresso dall’articolo 1 della stessa, è quello di garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata definitivamente provata, le dichiarazioni pubbliche delle Autorità procedenti (Pubblico Ministero, Polizia Giudiziaria), non devono presentare il soggetto indagato/imputato come colpevole. Un evidente limite alla mediatizzazione del processo o, quanto meno, alla sua esaltazione avanti la gogna pubblica, tramite la sovraesposizione dei protagonisti della vicenda. Ai sensi dell’articolo 5 si prevede altresì che gli indagati e imputati non vengano tradotti “come colpevoli” all’interno delle aule giudiziarie tramite l’utilizzo di coercizione fisica, ad esempio, conducendo l’imputato con l’utilizzo di manette. I 3 articoli ut supra sono sintomo dell’estrema ampiezza contenutistica della Direttiva, la quale ha sì l’obiettivo di rafforzare i principi costituzionalmente garantiti, ma lo fa non con norme procedurali e dal contenuto specifico, ma tramite fonti che a loro volta presentano l’ampiezza dei principi che intendono tutelare. E allora quali sono i motivi che ostano alla sua assimilazione nell’ordinamento italiano? Le ragioni sono probabilmente due e solo la prima la si può considerare pacificamente provata dai fatti: l’Italia già per 19 volte è stata sanzionata dall’UE per il mancato recepimento delle Direttive. Il nostro sistema Parlamentare risulta piuttosto pigro e lento in tal senso, e non sorprende eccessivamente che una Direttiva UE del 2016 sia stata accantonata per essere ridiscussa solamente lo scorso mese in seno alla Commissione Giustizia alla Camera. Il secondo motivo, secondo taluni, può invece essere causa di discussione, incidendo la Direttiva sulla capacità di espressione delle Procure dinanzi agli enti televisivi. In particolare, tale ultimo motivo veniva ipotizzato su queste stesse pagine dal professore emerito di Diritto Processuale Penale presso l’Università La Sapienza, Giorgio Spangher. Quest’ultimo, nel ripercorrere i contenuti della Direttiva ivi in esame, evidenziava anch’egli il noto problema della mediatizzazione dei processi ad opera dei Procuratori, problema che non si può non condividere. Allo stesso modo, il collega e On. Enrico Costa del partito “Azione” sottolineava quanto si rendano necessari degli interventi per impedire o, quanto meno limitare, la mediatizzazione dei processi con conseguente calpestamento del diritto alla privacy e presunzione di innocenza per i soggetti coinvolti. Potendo ricollegarsi al discorso dell’Onorevole e ad un articolo pubblicato dallo scrivente pochi giorni addietro su queste pagine, la soluzione, secondo Costa, poteva ricercarsi in un istituto di sua coniatura noto come “rimessione” del Procuratore, il quale prevede lo spoglio del Procuratore sulla causa, qualora il Magistrato si macchi di atti di divulgazione mediatica lesivi del diritto alla presunzione di innocenza. Le soluzioni potrebbero essere prevalentemente di natura risarcitoria, in favore di quei soggetti che si sono visti danneggiati dalla mediatizzazione del processo, legando la legittimità dell’azione risarcitoria ai noti principi costituzionali, nazionali ed europei. Taluna dottrina ha, invece, voluto ancorare la possibilità di ottenere tale tutela alla ratio secondo cui sussisterebbe una lesione del principio del ne bis in idem. In un interessante lavoro sul tema, infatti, il Professore ordinario di Diritto penale presso l’Università di Bologna, Vittorio Manes, vede nel processo mediatico che si instaura a seguito della fuga di notizie, una sorta di procedimento parallelo a carico dell’imputato/indagato, il quale, pertanto si ritroverà nella gravosa condizione di subire un doppio processo, quello televisivo e quello dinanzi la Corte procedente, con violazione del principio del ne bis in idem. Forse singolare ma calzante! Un dato è chiaro: è pacificamente riconosciuta la necessità di un intervento sul tema della tutela del diritto alla presunzione di innocenza e, quest’ultimo intervento di Bruxelles, è un ulteriore tassello ad un percorso non ancora concluso di garanzie processuali e si fatica a comprendere come una Direttiva sì ampia nei contenuti, possa trovare tanta difficoltà ad essere recepita. Ciò accade forse in assenza di una globale riforma, tanto lontana quanto ambita dagli addetti ai lavori: incasellare la Direttiva in un assetto normativo attuale porterebbe con se la revisione di taluni aspetti dell’Ordinamento, quali divisioni delle carriere, responsabilità dei Magistrati e sim., notoriamente l’”Innominato” di un romanzo di manzoniana memoria. Da due anni la magistratura incassa, ma se messa alle strette metterebbe il Parlamento in difficoltà di Alberto Cisterna Il Riformista, 28 aprile 2021 Probabilmente una Commissione d’inchiesta parlamentare sull’uso politico della giustizia avrà luce, ma appare francamente destinata a vita breve e travagliata. Perché possa esercitare con efficacia il proprio compito la Commissione avrebbe la necessità di aver ben chiari i propri obiettivi. Ma individuarli non è cosa semplice. Mettere mano alla macchina giudiziaria, dopo l’affaire Palamara, è diventato politicamente più agibile di un tempo, ma tecnicamente l’opera appare molto più complessa. Alle storiche abrasioni e incrostazioni che hanno reso da sempre scosceso il piano delle riforme si aggiunge il fatto che, per la prima volta, si coglie con nitidezza che la crisi del sistema affonda le proprie radici non solo in un panpenalismo esasperato del legislatore o in sistemi processuali farraginosi o in strutture organizzative collassate, ma si nutre e si alimenta per effetto di una sorta di cedimento morale della corporazione, di una stagnazione etica da cui le viene difficile risollevarsi in modo credibile. Se riformare i codici, rafforzare gli apparati, ritoccare le strutture era già un compito arduo da portare a compimento in tempi normali, mettere mano contestualmente alla riforma del Csm, alla destrutturazione correntizia della magistratura, alle carriere, alle nomine e a quant’altro appare - come avrebbe detto De Gaulle - un programma di vasto respiro ossia destinato a rimanere un libro dei sogni. Per evitare che ogni iniziativa riformatrice inciampi nell’ennesimo, periodico “sfogo” della politica verso la magistratura italiana, occorrerebbe avere un preciso ordine di priorità e disporre di un tempo sufficiente per realizzarlo. Nel Parlamento, al momento, mancano sia l’uno che l’altro. Si odono possenti i rigurgiti di un risentimento, tuttavia tanto sterile quanto dannoso per ogni iniziativa realmente riformatrice e di cui è ultimo segno tangibile lo sfogo mediatico di un padre affranto per le sorti processuali del proprio figlio. Un mare ribollente che sembra alla ricerca di un’improbabile resa dei conti. Com’è già successo, d’altra parte, con il referendum voluto da Craxi sulla responsabilità civile dei magistrati. La politica trascura di considerare che lo scontro all’arma bianca, il corpo a corpo, è il terreno prediletto da settori cospicui e non marginali della magistratura italiana. Se proprio dobbiamo adoperare un’immagine, è come se si affrontassero sul ring di Kinshasa Muhammad Ali e George Foreman con il primo che incassava una raffica di pugni rabbiosi del secondo, ma che, dopo essersi sfiancato, venne giù in pochi minuti (“…quando lo picchiavo con tutto quello che avevo l’ho sentito sfottermi: “Tutto qui, George?”. Era la settima ripresa”). Ecco, a occhio e croce, è questo lo scenario prevedibile dei prossimi tempi. Le toghe incassano da circa due anni (lo scandalo è esploso nel maggio 2019) colpi su colpi, le tifoserie avversarie urlano e strepitano convinte di aver sfibrato il contendente, ma non hanno a disposizione alcun pugno decisivo, né molte altre riprese da disputare e la corporazione ha un’enorme capacità di incassare. Senza contare il malaugurio che evoca la triste sorte toccata a Craxi, morto in esilio da latitante, o a Berlusconi, finito ai servizi sociali o ad altri sfidanti e proprio per mano di quelle toghe che si volevano punire o riformare duramente. E dunque. Dunque pochissimi propositi di riforma sarebbero una benedizione. Proposte da elaborare con calma - anche in una apposita sessione parlamentare - dopo aver riposto l’ascia di guerra, e sforzandosi per avere un colloquio ravvicinato con quegli ampi settori della magistratura che, come ha scritto Sabino Cassese sul Corriere, sono sempre più insofferenti verso il duopolio mediatico-processuale di alcuni pubblici ministeri e di opachi settori del giornalismo giudiziario. Servirebbero costruttori di ponti (come esortava il presidente Mattarella a inizio d’anno) da una parte come dall’altra per concordare un percorso di riforme di medio termine e per mettere mano alla modifica delle regole sulla giustizia a partire dalla Costituzione e dall’ordinamento giudiziario, ossia dalle norme che regolano la carriera delle toghe. Dovrebbe essere ormai chiaro che mettere mano al processo civile o penale, alle intercettazioni o alle cause condominiali, senza ripensare alla collocazione costituzionale della magistratura inquirente, senza riconsiderare il modello di gestione della polizia giudiziaria, senza deflazionare la selva dei reati, senza uscire dal monolite sanzionatorio del carcere servirà a ben poco. Si tratta di rimodulare dalle fondamenta un sistema che, in molte sue componenti, è del tutto consapevole che la conservazione dello status quo produrrebbe solo ulteriori danni e ulteriori distorsioni, ma che se malamente aggredito è pronto a indossare i guantoni e ad aspettare la fatidica settima ripresa. Commissione d’inchiesta su Magistratopoli, le toghe provano ad affossarla di Tiziana Maiolo Il Riformista, 28 aprile 2021 Il Parlamento può istituire commissioni di inchiesta che indaghino su tutto, persino sulla mafia o sulle stragi, purché non si tocchino i rapporti tra politica e magistratura. O meglio, per chiamare le cose con il proprio nome, l’uso politico della giustizia. Su questo, la commissione non s’ha da fare, i magistrati lo dicono a gran voce. Perché, come diceva un vecchio avvocato veneto, le toghe sono come i “porsei”, ne tocchi uno e strillano tutti. Sicuramente quel legale non voleva offendere la categoria, anche perché il maiale è un animale intelligentissimo, ma solo sottolineare il fatto che ci sono punti di ipersensibilità nel corpo dei magistrati, per cui se dai un pizzicottino a “uno”, cioè per esempio al concetto di uso politico della giustizia, scatta immediata la reazione del corpo intero. E vengono immediatamente sventolate le bandierine di corporazione, le parole magiche: autonomia e indipendenza. Nel senso che quel tipo di commissione incarnerebbe in sé un attentato alle due bandierine. Peggio che una stonatura al coro di Bella ciao il 25 aprile. Il presidente del sindacato della magistratura Giuseppe Santalucia non fa eccezione, dice proprio quel che ci si aspetta da chi dirige, come un giorno capitò anche a Luca Palamara, l’Anm. E pensare che ci eravamo illusi. Mai che uno, anche uno solo dica che la massima virtù di un magistrato debba essere l’imparzialità. Imparzialità dei giudici, ovviamente, ma anche e persino dei pubblici ministeri, visto che non devono rispondere a nessun organo di controllo (il Csm? Che ridere...) e che sono obbligati anche alla ricerca di elementi favorevoli all’indagato. Invece no. La preoccupazione del dottor Santalucia pare essere prima di tutto che non si rimetta in discussione la storia delle inchieste e delle sentenze. Non si devono dare giudizi, cioè. E pensare che ai tempi in cui all’interno della corrente di Magistratura democratica esisteva una forte componente garantistica, il diritto all’interferenza, cioè a mettere il naso nell’attività giurisdizionale, era rivendicato a gran voce. Persino per le toghe e quindi per tutti. O dobbiamo pensare che l’unico che non può “interferire”, cioè dare un giudizio, ma anche esaminare è il Parlamento? Lo spiega molto bene, il dottor Santalucia, perché non si può. E usa un termine, per dire che nella testa di chi propone la commissione c’è già una ricostruzione precostituita dei fatti, che da lui non ci saremmo aspettati: farlocca. Ricostruzione farlocca, è scritto proprio così nel suo comunicato. Ora, poiché la fonte è piuttosto autorevole, crediamo di fare cosa utile non solo ai parlamentari che hanno preso l’iniziativa di questa inchiesta, ma anche ai tanti giudici e pm che si sono dichiarati d’accordo, di spiegare, con l’uso di un vocabolario, che cosa pensa di loro il presidente dell’Anm. Farlocco: “Si tratta di una voce di origine gergale, non dialettale, in quanto usata in ambito carcerario e dagli scippatori per riferirsi alle potenziali vittime…”. Cioè ai polli da spennare. Senza scomodare Benedetto Croce per sapere che la forma è sostanza, e che la scelta di una parola non è casuale, se questo è il rispetto che il sindacato delle toghe ha per il Parlamento, altro che di commissione d’inchiesta c’è urgenza. Anche la corrente di Area, quella della sinistra più conservatrice e corporativa, non si tira indietro, e dopo aver qualificato Il libro Il Sistema di Sallusti e Palamara come un instant book pieno di mistificazioni, se la prende persino con “opinion leader di peso (che) ne legittimano l’opera e le finalità”. Se non sono fischiate le orecchie al giudice emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese. Nessuno di loro però entra mai in argomento e spiega il paradosso italiano che oggi vede un processo debolissimo contrapposto al grande potere della magistratura. Ed è proprio di questa discrasia che potrebbe-dovrebbe occuparsi una commissione d’inchiesta. Invece succede che il settimanale L’Espresso esca con un’inchiesta sui “Magistrati sfiduciati”, quasi come se fosse responsabilità della politica, e non del loro modo di condurre inchieste e processi, se la fiducia dei cittadini nei loro confronti è oggi sotto zero. E il direttore della Stampa Massimo Giannini, che ha la ghiotta occasione di intervistare la ministra Marta Cartabia e di trascorrere, come lui stesso scrive, oltre due ore con lei, spreca l’occasione come se si fosse trovato seduto su un divano di casa Bonafede. Non solo non tocca le corde di colei che fin da quando era alla Corte costituzionale aveva espresso la propria sensibilità nei confronti dei principi fondamentali sulla presunzione di innocenza e il reinserimento dei carcerati, e sull’ergastolo fino a quello ostativo, ma mostra di essere rimasto fermo alla Repubblica delle dieci domande. Quindi il suo principale quesito è: “Cartabia ci crede davvero? È davvero convinta che si possa riformare la giustizia e raggiungere una tregua alla “guerra dei trent’anni” in un governo votato da Berlusconi e Salvini?”. Massimo Giannini almeno è sincero. Lo dicano chiaramente allora anche i sindacalisti della sinistra conservatrice e reazionaria delle toghe, che il problema è quello. E che una commissione d’inchiesta che abbia la curiosità di trovare anche le prove di quel che ormai sappiamo, e che qualche partito politico che non è loro gradito ha da tempo denunciato sull’uso politico della giustizia, qualche tremore lo produce. Perché, quando hai ricevuto il primo pizzicottino non sai mai che cosa ti succederà dopo. Dacia Maraini: “Riaprite l’inchiesta sulla morte di Pasolini” di Stefania Parmeggiani La Repubblica, 28 aprile 2021 “A qualcuno fa comodo che resti un enigma”. La scrittrice, ospite del festival “La via dei librai” di Palermo, torna sull’omicidio dell’intellettuale per chiedere che si faccia chiarezza con gli strumenti oggi a disposizione. “L’inchiesta sulla morte di Pier Paolo Pasolini va riaperta. Adesso ci sono strumenti tecnologici avanzati, rispetto a 50 anni fa. Si potrebbero ingrandire segni anche molto piccoli, o macchie di sangue non viste. Perché certamente non è stato Pelosi a uccidere Pier Paolo ma un gruppo di persone, questo sembra certo. Ma chi erano non lo sappiamo. Evidentemente fa comodo che la morte di Pasolini rimanga un enigma, un enigma storico...”. La scrittrice Dacia Maraini chiede la riapertura delle indagini sull’omicidio dell’intellettuale, massacrato di botte e travolto più volte dalla sua stessa auto in una squallida piazzetta dell’Idroscalo di Ostia nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975. Maraini, che era amica di Pasolini e ha sempre sollevato dubbi sull’inchiesta, lo ha detto durante il festival “La Via dei Librai” di Palermo, intervistata dalla giornalista dell’Adnkronos Elvira Terranova. “Si potrebbero ingrandire, ad esempio, le tracce ematiche - spiega Dacia Maraini - e ricavarne il Dna, tanto è vero che la macchia è sempre lì”. E ricorda: “Non sono state distrutte le prove, ma evidentemente fa comodo che questa morte rimanga un mistero...”. “Mancano alcune prove - spiega ancora - Se si fosse fatta all’epoca una vera indagine approfondita probabilmente sarebbe venuto fuori dell’altro. Ma visto che all’epoca Pino Pelosi si addossò tutta la colpa si sono fermati là”. Pelosi, morto nel 2017 a 59 anni per un tumore, uno dei tanti “ragazzi di vita” consumati dalla strada, divisi tra microcriminalità e prostituzione maschile, era stato fermato la notte dell’omicidio sul lungomare mentre guidava contromano l’Alfa Giulia di Pasolini e accusato inizialmente solo di furto. Quando accanto al corpo della vittima fu ritrovato un grosso anello di Pelosi, dono di Johnny lo Zingaro, il quadro rapidamente cambiò. Pelosi parlò di un incontro a sfondo sessuale degenerato in una lite. Per difendersi avrebbe colpito l’intellettuale con l’insegna di via dell’Idroscalo e sarebbe fuggito a bordo della sua auto. Pasolini sarebbe stato quindi travolto per un incidente, la sua morte come conseguenza tragica di una nottata sordida. Sul luogo del delitto non ci sarebbe stato nessun altro. Una versione che non convinse mai del tutto: possibile che Pelosi non fosse solo? Che le ragioni fossero ben più complesse? Anni Settanta, Pasolini intellettuale scomodo. I suoi attacchi alla Dc, accusata di contiguità con il fascismo, il caso Enrico Mattei, la sua ostinazione nel credere che dietro quella morte vi fossero i servizi segreti italiani e americani, l’ombra delle “sette sorelle”, le sue critiche anche alla sinistra, ai “figli di papà” del ‘68, la diffidenza del Partito comunista, che lo aveva anche espulso perché omosessuale, la pila di denunce per i suoi libri e i suoi articoli. Tutto questo, da subito, spinse parte dell’opinione pubblica a parlare di omicidio politico. Lo dissero ad alta voce gli amici, come Laura Betti, giornalisti e intellettuali. Pier Paolo Pasolini e Dacia Maraini - La Maraini andò in carcere a trovare Pelosi e incontrò un uomo travolto dalle circostanze, dall’epoca, da chi lo ricattava. Non gli credette: troppe contraddizioni nei suoi interrogatori. E poi c’erano le testimonianze di chi viveva nelle baracche di Ostia, quel corpo massacrato che sembrava gridare un’altra storia. Erano in molti a pensarla come lei, ma la verità processuale fu quella del tragico epilogo di una questione tra omosessuali, Pasolini che cercava la morte ogni sua notte di “vita”, infine trovandola per mano di un diciassettenne che sembrava uscito direttamente dai suoi romanzi. Quando Pelosi tornò in libertà iniziò a parlare. Nel 2005 andò in tv e rilasciò interviste in cui si dichiarava innocente, accusò una banda dall’accento siciliano che aveva malmentato anche lui paralizzandolo di terrore. Si sollevarono nuovi interrogativi, si ritornò alla vecchia ipotesi investigativa che coinvolgeva i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, siciliani noti nel mondo della malavita con i nomignoli di “Braciola” e “Bracioletta”, dediti al traffico di stupefacenti e militanti nell’Msi, poi morti negli anni Novanta. Di nuovo l’ombra degli Anni Settanta. Di nuovo Pasolini come intellettuale scomodo. Il caso fu riaperto, ma per poco. E anche quando Pelosi scrisse la sua biografia, nel 2011, in cui sosteneva di essersi fatto il carcere per timore di venire ucciso, lui o i suoi genitori, nessuno gli credette veramente. Era stato pagato per andare in televisione, accusava persone nel frattempo morte, diceva e non diceva. Per tutti ormai era solo un bugiardo. Quando morì sembrò che con lui venisse sepolta per sempre anche la speranza di sapere la verità. Ora Maraini chiede di non arrendersi, forse c’è qualcosa ancora da fare per sapere cosa sia accaduto veramente quella notte all’Idroscalo di Ostia. “Quando in un processo si dice che c’è un colpevole che si autoaccusa non si va oltre - ha detto la scrittrice - ma se fossero andati avanti qualcosa sarebbe venuto fuori. E anche adesso, se solo si approfondisse, emergerebbero altri particolari. Ne sono certa, anche se è difficile”. Il processo a Mimmo Lucano è sempre più politico di Enrico Fierro Il Domani, 28 aprile 2021 Nel processo che vede l’ex sindaco imputato di una serie di reati che vanno dal favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a eventuali illeciti nella costruzione di cooperative solidali e nell’uso dei fondi pubblici, il pm gli contesta un’intervista nella quale avrebbe sfruttato il “modello Riace” per mero interesse politico e di immagine. Indagate Mimmo Lucano. Chiedetegli perché si è candidato alle prossime elezioni regionali in Calabria, quali interessi si nascondono dietro la sua scelta. Tribunale di Locri, Calabria, udienza del 26 aprile del processo a carico dell’ex sindaco di Riace. Il pubblico ministero, Michele Permunian, si avvicina al Presidente del collegio e chiede l’acquisizione agli atti di un documento. Un foglietto. Poche righe. È il “lancio” di una agenzia, l’Agi del 18 aprile, con una intervista nella quale Lucano spiega i motivi che lo hanno spinto a candidarsi alle regionali calabresi nello schieramento alternativo guidato dal sindaco di Napoli Luigi de Magistris. “Riace - dice Lucano all’Agi - è per me una ferita ancora aperta, ma ora c’è questa nuova sfida, il mio obiettivo è realizzare a livello regionale le idee che ho concretizzato a Riace”. Nell’intervista l’ex sindaco mantiene la linea che ha sempre seguito riguardo al processo che lo vede imputato di una serie di reati che vanno dal favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a eventuali illeciti nella costruzione di cooperative solidali e nell’uso dei fondi pubblici, nessuna polemica. Dice di aver fatto presente la sua condizione di imputato a chi gli proponeva la candidatura, afferma di essere tranquillo. “Non ho rubato, non ho ammazzato nessuno”. Dichiarazioni politiche, come si vede, che poco o nulla hanno a che fare col processo. Ma che per il pm diventano la “pistola fumante” di uno dei fragili pilastri dell’accusa: Lucano ha usato il suo essere diventato il sindaco di un modello, per mero interesse politico e di immagine. Dall’inizio dell’inchiesta scaturita nel processo, l’ex sindaco ha ricevuto varie proposte di candidatura, sia dal Pd che dalle formazioni di sinistra. Collegi sicuri, come si dice, sia per le elezioni politiche del 2018 che per le europee del 2019. Gli stessi avvocati difensori, Giuliano Pisapia e Andrea Daqua, recentemente hanno chiesto di sentire come testimoni alcuni leader nazionali per confermare l’esistenza di contatti e proposte. La richiesta è stata respinta dal collegio, che, fin dall’inizio del dibattimento, ha scelto di tener fuori la politica dal processo. Ma per il pm quei no di Lucano vanno interpretati diversamente. “Fin dall’attività intercettiva - ha affermato - emerge che a Lucano viene proposto di candidarsi, ma non come capolista, e solo questo la fa desistere”. Per il dottor Permunian, Lucano dice no al Parlamento italiano e a quello europeo, perché nessun partito gli offre un posto da primo fra i candidati, ora, invece, “si candida perché gli hanno offerto il posto di capolista, una cosa che conferma la bontà delle intercettazioni”. E qui la “pistola fumante” si rivela subito per quello che è: una innocua pistola ad acqua. Perché il pubblico ministero fa finta di non conoscere i vari meccanismi elettorali, e soprattutto la differenza che passa tra una candidatura nazionale o europea in un collegio “blindato”, con le elezioni regionali calabresi che prevedono sbarramenti altissimi (dall’8 al 4 per cento) per l’accesso in consiglio. La richiesta dell’accusa è giudicata “irrilevante e tendenziosa”, dai difensori di Lucano. Per l’avvocato Daqua, la procura “è tornata più volte sul tema politico, ora basta”. Il riferimento del legale è alle varie interviste, rilasciate a conclusione dell’inchiesta, dallo stesso procuratore di Locri Luigi Dalessio. “L’interesse può essere anche politico, d’immagine”, diceva il magistrato ai giornalisti. Ora, a processo che si avvia a conclusione (la requisitoria è prevista per il 17 maggio), torna il tema dell’interesse “politico”. I soldi, che secondo l’accusa Lucano avrebbe lucrato sfruttando l’accoglienza dei migranti, non sono stati trovati, si punta su qualcosa di meno palpabile, volatile. Ed è questo un altro lato oscuro di una inchiesta con molte anomalie. La più clamorosa è stata denunciata da Domani nelle settimane scorse, e riguarda le intercettazioni a strascico di una trentina di giornalisti e tre magistrati. Chiacchierate ininfluenti ai fini processuali, ma regolarmente trascritte e rese pubbliche, anche quando nelle telefonate si parlava della vita e dei problemi dei figli di Lucano. “È un reato occuparsi di politica? - si chiede polemicamente l’ex sindaco di Riace - Faccio parte di una sinistra antagonista, anticapitalista e antigiustizialista. Considero preoccupante il tentativo della procura di inserire nel processo una mia intervista in cui annuncio la mia candidatura. In questo modo non si riconoscono e non si rispettano i diritti costituzionalmente garantiti. Mi riferisco al mio diritto di fare politica, di seguire i miei ideali che sono quelli di una giustizia sociale e di sperare in una Calabria libera dalle mafie e da ogni forma di oppressione. I nostri paesi sono paesi fantasma che stanno morendo. Quali sono le soluzioni?”. “Non ho altri interessi - conclude Lucano - e mi chiedo se avere questi ideali sia un reato. Ringrazio il presidente Accurso che ha evitato tutto questo ma non posso non chiedermi se l’atteggiamento della Procura nei miei confronti sarebbe stato lo stesso se fossi stato candidato con la Lega o con il centrodestra”. A mettere fine alle polemiche, il presidente del collegio Fulvio Accurso, che ha respinto la richiesta del pm: “Sono fatti estranei al processo che non ci riguardano”. Non fu eletta grazie al clan. Otto anni per scagionare l’ex sindaca antimafia di Simona Musco Il Dubbio, 28 aprile 2021 La cassazione assolve definitivamente Carolina Girasole: agli arresti per 168 giorni, ma era innocente. “Ci sono voluti sette anni e mezzo per stabilire qualcosa che era chiaro sin dall’inizio. Un errore? Non credo”. La voce di Carolina Girasole è carica di emozione, pochi minuti dopo la sentenza di Cassazione che, dopo quasi otto anni, ha sancito quanto lei stessa ha sostenuto per anni: la sua innocenza. L’ex sindaca di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, oggi tira un sospiro di sollievo, dopo essere stata liberata dalla più infamante delle accuse: essere stata eletta con i voti del clan. Lo stesso che, per anni, la voleva morta, proprio per il suo impegno antimafia. Ma da icona per la Calabria e per l’Italia intera, in una notte sola, è diventata il simbolo di quanto per anni, da prima cittadina, ha tentato di combattere. Tutto per un’accusa mossa dalla Dda di Catanzaro nel 2013, quando venne arrestata assieme al marito e sbattuta come un mostro in prima pagina. Girasole è rimasta agli arresti in carcere e poi ai domiciliari per un totale di 168 giorni e solo oggi può amaramente gridare vittoria. L’ex sindaca è stata assolta nel merito sia in primo grado sia in appello. Sentenze di fronte alle quali la Procura antimafia non si è arresa, ribadendo la convinzione di avere a che fare con una finta paladina della giustizia. Ma entrambe le decisioni hanno sancito un fatto chiaro: la mancanza di elementi a conferma di quel patto scellerato. “Provo tanta amarezza, tanto sconforto, perché sono stati anni durissimi - racconta oggi al Dubbio. Non si trattava solo di un errore giudiziario, la mia storia amministrativa era chiara. C’erano tanti atti che dimostravano quale fosse stato il mio percorso, per cui sentirmi addebitare quelle accuse è stato difficile da sopportare. Il mio pensiero, in questi anni, è sempre andato a quello che stava accadendo, alle accuse, agli atti prodotti dalla procura e alla realtà che era assolutamente diversa da quella che veniva descritta in aula”. Girasole, oggi, parla dei grandi sacrifici sopportati dalla sua famiglia, “che ha sofferto tantissimo”. E di quel percorso politico “distrutto”, in un paese che tentava di resistere alla brutalità dei clan di ‘ndrangheta. “Hanno distrutto gli ideali e i valori in cui credevamo - continua -. Poteva essere qualcosa di importante per la comunità, per la Calabria, e invece è stato tutto cancellato. In questo momento cerco solo di riprendere la mia vita in mano, dopo anni in cui la mia mente è stata impegnata, giorno e notte, a ripercorrere le accuse, su come potevo smontarle, come potevo dimostrare la verità. Devo solo cercare di rimettere in ordine le cose e poi vedremo il da farsi. Sicuramente racconterò tutto quello che accaduto. È una storia che appartiene a me e a tutta la comunità. È giusto che sappia la verità”. La certezza, dunque, è che quella donna che si era messa in testa di combattere contro la potente cosca del suo paese era stata lasciata sola dallo Stato, che ha affidato a lei il compito di prendere decisioni rimaste colpevolmente in sospeso, anche col rischio di fare un favore ai mafiosi. Conclusioni pesanti, contenute nella sentenza pronunciata dai giudici d’appello di Catanzaro. Secondo l’accusa, per farsi eleggere, Girasole avrebbe stretto un accordo con i figli del capo storico della cosca, Nicola Arena, chiedendo voti in cambio di agevolazioni al clan. Favori che si sarebbero concretizzati soltanto due anni dopo quel voto, attraverso un’attività amministrativa “apparentemente lecita e sapientemente guidata, diretta in realtà ad assicurare alla cosca Arena non solo il mantenimento di fatto del possesso dei terreni confiscati a Nicola Arena, quanto la loro coltivazione a finocchio e la relativa raccolta dei prodotti inerenti all’annata agraria 2010, consentendo, attraverso l’omessa frangizollatura del prodotto e la predisposizione di un bando per la raccolta e quindi di commercializzare il prodotto stesso, ricavandone un significativo profitto”. Ma tutto ciò, per i giudici, non è vero. L’accordo, infatti, non è mai stato provato, così come le presunte pressioni sugli elettori. Emerge, invece, l’odio del clan Arena nei confronti della sindaca, che in ogni modo tentava di destituire, ammettendo anche, in un’intercettazione, di non aver raccolto voti per quella donna. Un’accusa infondata, dunque, in un processo dal quale, semmai, emerge “l’immobilismo colpevole degli organi periferici dello Stato”. Ovvero, su tutti, della Prefettura, che di quegli atti che avrebbero spodestato i clan dai terreni confiscati se ne sarebbe lavata le mani. Nella sentenza d’appello del 2018 i giudici mettono nero su bianco un vero e proprio atto d’accusa nei confronti della Procura, che “non è riuscita a provare in che termini e quanto sia stato rilevante il riferito appoggio elettorale” e a portare in aula “proprio la prova dell’accordo collusivo”. “Una mera ipotesi” senza riscontro, in quanto “nessun elemento diretto a carico o dotato di adeguata concludenza è stato fornito al riguardo”. Insomma: non ci sono mai state prove. Otto anni dopo è un dato di fatto. Per la Consulta la vigente disciplina dell’ergastolo ostativo è illegittima di Fabrizio Ventimiglia e Maria Elena Orlandini Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2021 Lo scorso 15 aprile la Corte Costituzionale si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Suprema Corte di Cassazione “sul regime applicabile ai condannati alla pena dell’ergastolo per i reati di mafia e di contesto mafioso che non abbiamo collaborato con la giustizia e che chiedono l’accesso alla liberazione condizionale” (Comunicato della Corte Costituzionale, 15 aprile 2021). Sul punto, i giudici della Consulta, attraverso il comunicato stampa pubblicato sul sito della Corte costituzionale, hanno rilevato come la disciplina vigente del c.d. “ergastolo ostativo preclude in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro”. Per tali ragioni, continua la Corte, la disciplina in esame è in aperto contrasto con il dettato normativo degli artt. 3 e 27 Cost. nonché con l’art. 3 della Convenzione Europea Dei diritti dell’Uomo. La Corte ha, tuttavia, stabilito di rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022, “per consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. L’ergastolo “ostativo”, fu introdotto nell’ordinamento italiano dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992, nel clima di allarme sociale creato dall’uccisione del magistrato antimafia Giovanni Falcone. Tale regime penitenziario, disciplinato ai sensi dell’art. 4 ord. pen., osta alla concessione di qualsivoglia beneficio penitenziario - come, ad esempio, la libertà condizionale della pena, lavoro all’esterno, permessi premio - a quei detenuti, condannati per delitti di criminalità organizzata, terrorismo e eversione, che hanno deciso di non collaborare con la giustizia. Escludendo la possibilità di poter usufruire dei benefici previsti dall’Ordinamento Penitenziario, la pena detentiva viene scontata integralmente in carcere addivenendo così perpetua, trasformando l’ergastolo in un concreto “fine pena mai” (in contrasto, invero, con la funzione rieducativa della pena deducibile ai sensi dell’art. 27 co. 3 Cost.). Come anticipato, la Corte Costituzionale, all’esito della camera di consiglio del 15 aprile 2021, ha dichiarato l’ergastolo ostativo in contrasto con i principi sanciti negli artt. 3 e 27 della Costituzione italiana. Si tratta di una decisione molto significativa per il nostro Ordinamento, il cui esito era tuttavia preventivabile. La Consulta già con la sentenza n. 253 del 23 ottobre 2019, aveva, infatti, dichiarato, anche seppur solo con riferimento al beneficio penitenziario del permesso premio, come la presunzione assoluta di pericolosità sociale del condannato, sulla base dell’assunto che il rifiuto di collaborazione equivalga a perdurante pericolosità, fosse illegittima, in quanto non solo irragionevole, ma in violazione dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione, che sancisce la funzione rieducativa della pena ed implica, quindi, la progressività trattamentale e la flessibilità della pena, contro rigidi automatismi. Ancor prima, la Corte europea dei diritti dell’uomo, con sentenza del 13 giugno 2019 nel caso Marcello Viola c. Italia, aveva giudicato il regime dell’ergastolo “ostativo”, implicante l’equazione teorica tra rifiuto di collaborare e presunzione assoluta di pericolosità sociale del condannato, incompatibile con l’articolo 3 della Convenzione europea e con il principio della dignità umana. La strada per l’atteso verdetto della Consulta era quindi già stata in un certo senso tracciata. Appariva, infatti, evidente la necessità di rivedere la vigente disciplina dell’ergastolo “ostativo” riportandola sui binari dettati dalla nostra Carta Costituzionale. Sarà, tuttavia, importante attendere il deposito dell’ordinanza, che avverrà nelle prossime settimane. Ad oggi, infatti, il comunicato della Corte non fornisce una chiave di lettura che possa aiutare il Parlamento a riscrivere la disciplina giuridica prevista dall’art. 4 ord. pen., limitandosi ad un mero auspicio secondo cui il Legislatore possa concretamente apportare delle migliorie in tema di ergastolo ostativo, fornendo una lettura costituzionalmente orientata e in linea con i principi della Cedu. Il Legislatore si trova di fronte ad una grande occasione per riportare al centro dell’ordinamento penitenziario l’uomo, o meglio, il condannato e la sua dignità. Insomma, bisognerebbe - citando un grande esponente della dottrina penalistica partenopea, il Prof. Sergio Moccia, dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” - eliminare il “fine pena mai” dal nostro ordinamento giuridico e trasformarlo in un “fine pena sempre”, coerentemente a quei principi statuiti nella nostra Costituzione, per garantire ad ogni detenuto la risocializzazione e la sua reintegrazione all’interno della società civile. Cassazione: verificare se gli omosessuali siano perseguitati in Nigeria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 aprile 2021 Accolto in parte il ricorso di un cittadino, costretto a lasciare la Nigeria dopo la scoperta di una relazione omosessuale. La Corte di Appello di Genova aveva negato la protezione internazionale a un cittadino nigeriano costretto a lasciare il proprio Paese dopo che fu scoperta la relazione omosessuale con il compagno dell’epoca. Il nigeriano ha fatto ricorso e la Cassazione l’ha accolto in parte, annullando la sentenza impugnata e rinviandola alla Corte d’appello al fine di “verificare - si legge nella sentenza -, anche attraverso le opportune indagini officiose proprie della materia, se il trattamento degli omossessuali in Nigeria, giustifichi il riconoscimento di una delle tutele gradatamente rivendicate dal ricorrente”. I quattro motivi del ricorso in Cassazione - Il nigeriano ha fatto il ricorso in Cassazione motivandolo con quattro motivi. Con il primo, il ricorrente ha denunciato l’omesso esame su di un fatto decisivo (art. 360 n. 5 c.p.c.), sostenendo che la Corte territoriale avrebbe mal interpretato le vicende riguardanti la sua fuga dalla città di Epkonna, in Nigeria. La Corte avrebbe fatto riferimento al solo fatto che il padre dell’amico avrebbe inveito con urla contro il ricorrente, mentre era stato precisato che ciò fosse stato accompagnato da minaccia di denuncia alla polizia, aggiungendosi poi - nel medesimo motivo - ulteriori precisazioni rispetto all’episodio della seconda e definitiva fuga da Benin City e dal Paese. Con il secondo motivo ha denunciato la violazione e falsa applicazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) degli artt. 7 e 8 d. Lgs. 251/2007, in combinato disposto con l’art. 8 d. Lgs. 25/2008, per avere la Corte territoriale omesso di considerare le notorie persecuzioni cui sono sottoposte in Nigeria le persone omosessuali e comunque omettendo di svolgere gli opportuni approfondimenti istruttori anche officiosi sul punto. Al terzo motivo, invece, il ricorrente ha affermato la violazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) dell’art. 14 lettera b) e c) d. Lgs. 251/2007, in combinato disposto con l’art. 8 d. Lgs. 25/2008 per non avere la Corte territoriale correttamente indagato sulla sussistenza di una situazione di violenza indiscriminata nel Paese di origine. Con il quarto motivo ha invece affermato la violazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) dell’art. 32, co. 3 d. Lgs. 25/2008, in combinato disposto con l’art. 5, co. 6, d. Lgs. 286/1998, sostenendo che la Corte avrebbe sottovalutato la condizione di omosessuale del ricorrente anche da questo punto di vista, non considerando le difficoltà sociali e di reinserimento che essa comunque avrebbe comportato rispetto al proprio Paese natale. Per la Cassazione il ricorso è fondato in parte - Per la Cassazione il ricorso è fondato in parte. E la cosa non è di poco conto. In sostanza, la Corte sottolinea che i giudici d’appello hanno omesso di accertare, come denunciato dal ricorrente, se in Nigeria sussista un regime persecutorio riguardo alla condizione di omosessualità, come anche, eventualmente, se, rispetto ad essa, “sussistano forme dannose di persecuzione privata non contrastate efficacemente dallo Stato o infine se tale condizione sia anche solo oggetto di disvalore solo sul piano sociale, ma tale da giustificare, nel dovuto giudizio comparativo rispetto alla situazione italiana, la tutela residuale umanitaria”. Ed ecco perché la Cassazione ha rimesso il giudizio alla Corte territoriale, in diversa composizione, al fine di verificare, anche attraverso le opportune indagini officiose proprie della materia, se il trattamento degli omossessuali in Nigeria, giustifichi il riconoscimento di una delle tutele gradatamente rivendicate dal cittadino nigeriano. Quest’ultimo rischia di essere rispedito nel Paese dove potrebbe subire atti persecutori a causa del suo orientamento sessuale Campania. “Il piano vaccinale nelle carceri funziona, adesso immunizzare tutti i detenuti” di Viviana Lanza Il Riformista, 28 aprile 2021 Parla il garante Ciambriello. Dopo i focolai e le vittime, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sono arrivati i vaccini. Da ieri si è dato il via alla somministrazione del farmaco che garantirà una copertura contro il Covid partendo dai detenuti più anziani e più fragili, una cinquantina di persone in tutto. Il carcere sammaritano, che nei mesi scorsi è salito alle cronache per fatti drammatici e per le criticità legate alla pandemia, prova ora ad attestarsi come struttura penitenziaria più attiva nel piano vaccinale. Il piano, infatti, non dovrebbe fermarsi: esaurite le categorie dei più anziani e fragili si prevede di estenderlo agli altri detenuti mentre è già a quota 342 (pari al 74%) il numero dei vaccinati tra agenti della polizia penitenziaria, personale amministrativo, educatori, volontari. A Poggioreale il numero dei vaccinati è per ora pari a 240 fra personale e volontari su 794 che risultano in piattaforma. In tutta la Campania sono invece 2.049 le persone vaccinate fra coloro che lavorano all’interno delle strutture penitenziarie su un totale di 3.962 iscritti in piattaforma. Dunque, circa la metà dei lavoratori del mondo penitenziario ha ricevuto il vaccino. “Deve essere ormai chiaro che vaccinarsi non è soltanto un diritto ma anche un obbligo morale”, spiega il garante dei detenuti campani Samuele Ciambriello. La sua proposta di somministrare un vaccino a dose unica all’interno delle carceri per evitare complicazioni burocratiche e svantaggi organizzativi sembra essere stata accolta. Se le autorità sanitarie autorizzeranno il vaccino Johnson & Johnson anche per i meno anziani, infatti, è possibile che la vaccinazione con una dose unica venga utilizzata per tutta la popolazione carceraria. Questo garantirebbe una copertura in tempi più rapidi con tutte le conseguenze che un piano vaccinale quasi a tappeto può portare all’interno delle celle dove le distanze e gli spazi sono ridotti al minimo. “Non possiamo non ricordare - aggiunge Ciambriello - che in Campania ci sono stati migliaia di detenuti positivi e cinque morti e 58 operatori sanitari contagiati fra cui una vittima”. Oggi si contano cinque detenuti positivi al Covid in Campania e 51 tra il personale. L’effetto della pandemia nelle carceri è stato devastante su più livelli: “Il Covid ha fatto venire fuori le criticità del carcere, i problemi cronici del sistema penitenziario - sottolinea il garante - Pensiamo a quanti limiti ci sono stati, a quanti permessi ridotti, a quante attività interrotte. Pensiamo alle restrizioni poste per chi doveva uscire per andare a lavoro e chi nel carcere doveva entrare per fare cultura, formazione, volontariato. A fine aprile scade il permesso per i detenuti in semilibertà, se nulla cambia dovranno tornare nelle celle: chi si occuperà di loro? Come sarà gestita questa situazione?”. Il garante punta l’indice su uno dei tanti aspetti relativi alla gestione del popolo delle carceri. L’emergenza sanitaria di questi mesi aveva determinato una proroga, fino a fine aprile, dei permessi per i detenuti in semilibertà (in Campania sono circa cento), quelli cioè che di norma escono dal carcere al mattino per recarsi al lavoro e vi fanno rientro la sera per dormire ma che a causa della pandemia, in via eccezionale, avevano ottenuto la possibilità di trattenersi a dormire nelle loro case per contenere il rischio di contagio in cella. Ma fino al 30 aprile. “Poi come si procederà?”, si chiede il garante. Resta l’interrogativo. Piemonte. Covid, il Garante: “Nelle carceri piemontesi 490 positivi da inizio pandemia” di Daniele Angi torinoggi.it, 28 aprile 2021 Mellano ha presentato il report annuale in Consiglio regionale: “In generale ci sono meno detenuti, ma il sovraffollamento è strutturale e gli edifici sono vetusti”. In Piemonte i detenuti sono in calo a causa della pandemia, ma resta “un sovraffollamento strutturale che incide su strutture vetuste, pensate con altri criteri rispetto al reinserimento, in tempi in cui i detenuti stranieri erano pochissimi”. Lo ha sottolineato il garante regionale delle persone private della libertà personale, Bruno Mellano, nella relazione annuale tenuta questo pomeriggio nell’Aula del Consiglio regionale. “In Piemonte - ha sottolineato Mellano - i detenuti sono 4113, ma in esecuzione penale esterna (arresti domiciliari e simili, ndr) ci sono altre 17 mila persone. Tutto questo a fronte di 3700 posti effettivi regolamentari presenti nelle carceri piemontesi. Abbiamo una discesa significativa ma non decisiva nel numero dei detenuti - ha osservato - dovuta a minori ingressi causati dalla pandemia, poiché la magistratura ha saputo identificare percorsi alternativi al carcere. Ma il sovraffollamento purtroppo continua”. Intanto, ha aggiunto il garante, “anche in Piemonte sono partite le vaccinazioni anti-Covid”. I dati aggiornati, ha spiegato, segnalano: “490 detenuti positivi da inizio pandemia, oggi 8; 420 agenti colpiti dal virus, oggi 24; e 31 operatori infettati, oggi 2”. Inoltre “i detenuti vaccinati sono finora 539 con la prima dose e 4 con la seconda, mentre l’83% degli operatori ha dato l’adesione alla vaccinazione e il 74% è già stato vaccinato con la prima dose”. Padova. Mettersi nei panni dell’altro, il modo migliore per risolvere i conflitti di Maria Desiderio italiachecambia.org, 28 aprile 2021 In un’epoca in cui la deriva culturale e una pandemia foriera di tante insicurezze hanno alimentato la diffidenza per il prossimo, empatia e dialogo sono degli strumenti di risoluzione del conflitto formidabili. Su di essi si basa il lavoro del Centro per la mediazione dei conflitti di Padova, che nel difficile quartiere Stazione prova a pacificare i residenti e i senza dimora, accusati di essere fonte di degrado e insicurezza. Che la pandemia di coronavirus abbia fatto emergere le enormi disuguaglianze e le contraddizioni della società contemporanea lo abbiamo sentito dire in tutte le salse e con diverse intenzioni. A forza di ripetercelo, questo assunto - che è per evidenza veritiero - sta perdendo colore e intensità, così come sentiamo sfilacciarsi sempre più velocemente quelle che fino a qualche mese fa consideravamo prospettive certe di risoluzione. La solidarietà fatica a tenere ben salda la sua posizione nel lessico comune e lo spazio urbano ha assunto connotazioni nuove e a tratti spaventose. Le città possono essere attraversate, di tanto in tanto consumate, ma per questioni di sicurezza, vissute il meno possibile. Vediamo ridursi sempre più la possibilità di essere abitanti di un territorio, progressivamente perdiamo il contatto con l’ambiente che ci circonda e l’altro, di default, viene sempre più facilmente percepito come una minaccia alla nostra stabilità. In questo scenario si collocano anche pratiche volte, al contrario, alla mediazione e risoluzione dei conflitti sociali e penali. Esse assumono un valore aggiunto, perché un tessuto sociale tagliuzzato e costellato di piccoli e grandi strappi ha bisogno di trovare le proprie modalità per riuscire a superare le conflittualità e a vivere le città come possibili luoghi di cura collettiva e non certo di guerra, soprattutto in tempi di pandemie. Il Centro per la mediazione dei conflitti è una iniziativa dell’associazione Granello di Senape - costituitasi come soggetto autonomo nel 2004 rifacendosi all’esperienza dell’Associazione-madre, “Il granello di senape”, che ha sede a Venezia -, un progetto di giustizia riparativa in ambito sociale e penale. “La visione della giustizia riparativa - spiega Lorenzo, che fa parte del Centro - ci porta a posare lo sguardo sul territorio, porsi in una dimensione di ascolto e mai di giudizio nel raccogliere tutte l esperienze e i punti di vista. Quello che fa un mediatore di fatto è ricucire uno strappo e per farlo nel migliore dei modi è importante mantenere la centratura necessaria”. Piazza Mazzini è ai limiti del quartiere Stazione, poco prima del centro. È un punto di ritrovo per molti “senza dimora”, per persone con problemi di dipendenze. Per evitare che le panchine di questa piazza venissero utilizzate per dormire, la precedente amministrazione le ha tolte; ovviamente questo non ha risolto i conflitti e le criticità tra i due schieramenti di abitanti. Da un lato ci sono quelli per così dire autoctoni, che vivono nei palazzi intorno alla piazza, che hanno paura di attraversarla con il buio e che si lamentano - a ragione - del mancato rispetto dello spazio pubblico. Dall’altro lato c’è il gruppo delle persone che non hanno altri posti dove trascorrere le proprie giornate e che sono ben consapevoli di essere percepiti come causa di degrado, se non di vero e proprio pericolo. “Il percorso che stiamo costruendo a piazza Mazzini non è certo semplice - prosegue Lorenzo -, ma ogni situazione è difficile a modo suo. Stiamo lavorando con entrambi i gruppi per spingerli a usare l’empatia per una maggiore introspezione, singola e collettiva. Mettersi nei panni dell’altro infatti è uno sforzo a cui si è sempre meno abituati, ma è necessario riconoscersi a vicenda se si vuole uscire da una dimensione conflittuale che spesso è il risultato di paure diverse ma speculari. La paura del diverso può essere una minaccia alla propria intimità quotidiana ed è legata a quella di essere continuamente respinti dalla società, buttati fuori da un cerchio nel quale poi è complesso reinserirsi”. Portare avanti questo genere di pratiche nelle zone urbane in cui le criticità sono più evidenti e le convivenze a volte impraticabili è fondamentale in un’ottica trasformativa del presente e soprattutto del futuro. Lo è in particolar modo in un periodo storico tanto fragile come quello che stiamo vivendo, in cui troppo spesso le situazioni di conflitto vengono “risolte” con soluzioni securitarie e repressive che nel concreto non sciolgono i nodi, ma spostano semplicemente i problemi e i conflitti di qualche metro. Al contrario, la mediazione del conflitto si pone come una pratica di prossimità che, se ben gestita, può generare nuovi equilibri di comunità. Ferrara. Carcere, da oggi la vaccinazione ai detenuti di Stefano Lolli Il Resto del Carlino, 28 aprile 2021 Partono oggi le vaccinazioni in carcere. Serviranno cinque giorni per completare il primo giro di somministrazioni ai circa 400 detenuti, per le quali sarà utilizzato il siero della Pfizer. Inizialmente si pensava di impiegare quello, monodose, della Johnson & Johnson, “ma la fornitura limitata e il fatto di uniformarci alle scelte delle altre aziende sanitarie - spiega la direttrice generale dell’Ausl Monica Calamai - ci hanno spinto a privilegiare quello di cui oggi disponiamo in quantità maggiore”. Non è mancata neppure una valutazione di carattere quasi psicologico, aggiunge la direttrice della casa circondariale Maria Nicoletta Toscani: “C’è stato un certo allarmismo, senz’altro ingiustificato, su AstraZeneca e Johnson & Johnson, abbiamo preferito in ogni caso adottare una linea prudenziale per rasserenare gli animi”. Il clima è comunque tutt’altro che agitato: “La situazione delle carceri cittadine è assolutamente virtuosa - afferma il prefetto Michele Campanaro -, le misure di controllo e contenimento del virus sono state puntuali e centrate”. Parlano i numeri: “Dall’inizio della pandemia si sono registrati 13 casi di positività tra gli agenti, tutti asintomatici e per contatti nell’ambito familiare. Per quanto riguarda invece i detenuti, i casi sono stati in tutto 7, dei quali 6 nuovi arrivati in via Trenti, e un lavorante che ha probabilmente subìto la contaminazione attraverso derrate alimentari”. La virtuosità non è comunque una virtuosità immutabile, va aiutata con azioni di controllo sistematici. Dal triage esterno allo screening sia con test sierologici (2517 da maggio 2020) ai tamponi molecolari, che ora vengono svolti mensilmente: “Siamo probabilmente l’unico carcere che svolge un’attività di controllo così intensa - prosegue la Toscani -, e i risultati parlano da soli”. Da oggi dunque scatta l’altra fase importante, quella della vaccinazione: sollecitata, nelle carceri, dal commissario straordinario Francesco Figliuolo. “In occasione della sua visita a Bologna e Ferrara, è stato esplicito con i Prefetti - ricorda Campanaro - e lo scorso 20 aprile ci è stata indirizzata una ulteriore sollecitazione”. Per questo, a scaglioni di 100 detenuti al giorno (per evitare anche commistioni tra i vari nuclei della casa circondariale), la sala teatro dell’Arginone verrà adibita a punto vaccinale, con i medici referenti del carcere coadiuvati dai team dell’Usca. Il primo round di somministrazioni verrà completato il 3 maggio, quindi alla fine del prossimo mese saranno effettuati i richiami. Passando alla campagna vaccinale più in generale, la Calamai ha fatto il punto su un andamento “ottimale, in considerazione delle dosi disponibili. Abbiamo ultimato la vaccinazione degli over 80 e delle persone in assistenza domiciliare, siamo già oltre il 50% delle seconde dosi per gli estremamente vulnerabili, e per quanto riguarda ora la scia d’età 65-69 anni, nel primo giorno di prenotazione sono stati fissati 10mila appuntamenti”. Guardando all’obiettivo della cosiddetta “immunità di gregge” (che su scala nazionale viene indicata nel 75%), Ferrara veleggia ben oltre la soglia prefissata: “Tendenzialmente siamo oltre l’85% - conclude la direttrice dell’Azienda Usl - e tra gli anziani e i fragili siamo sopra il 90%”. Milano. Riselda, il cassonetto intelligente di Enrica Riera L’Osservatore Romano, 28 aprile 2021 L’invenzione è di Fernando Gomes da Silva, detenuto che “pur non trovandosi nel mondo, per il mondo ha voluto creare qualcosa”. Dopo settant’anni dall’uscita di Miracolo a Milano per la regia di Vittorio De Sica, il suo finale è indimenticato. Un gruppo di uomini s’eleva da terra, vola sulle scope di saggina degli spazzini comunali recuperate in piazza Duomo e s’allontana dall’immondizia in mezzo alla quale era costretto a vivere. Una fiaba. Ma una fiaba, senza la sua replicabilità e dinnanzi a una (attuale) massiccia produzione di rifiuti urbani, suggerisce di giocare d’ingegno. Senza scope volanti, per vivere in luoghi salubri e rispettosi della natura, occorre mettere in atto buone pratiche. Una di queste prende piede non a caso a Milano. Si chiama Riselda ed è un cassonetto intelligente, pensato per essere installato all’interno dei condomini e per pesare, tracciare ed etichettare i rifiuti prodotti da ogni singola famiglia. In pratica, chi differenzia meglio, viene premiato (ad esempio con sconti e buoni spesa da utilizzare negli esercizi che aderiscono al progetto, “e pure tenendo conto di quelle esigenze originatesi dalla pandemia da covid-19”). Tuttavia non finisce qui. Perché, grazie all’evoluzione di Riselda in Riselda partecipa, diventa anche possibile avviare un percorso di coinvolgimento dell’intera comunità: l’app collegata al cassonetto permette la reale condivisione di messaggi e informazioni tra gli abitanti del quartiere, i quali possono proporre e stimolare nuove idee e servizi (“i rifiuti smaltiti generano valore economico, da reinvestire in progetti decisi dai cittadini”). Il quartiere selezionato per avviare tutto questo è il Giambellino-Lorenteggio, fucina, pertanto, di un progetto nel progetto, nato, supportato e sostenuto da una vera e propria coralità di attori. C’è, infatti, BiPart, l’impresa sociale che coordina la campagna di crowdfunding civico del comune meneghino per attivare la citata partecipazione di cittadini, attività commerciali e istituzioni e che, come spiega il suo fondatore Stefano Stortone, “punta sull’iniziativa perché s’intende trasformare un rifiuto in una risorsa non solo economica, ma da cui derivino soprattutto relazioni”. C’è inoltre Sarah D’Errico, l’educatrice del team Riselda che, tra gli altri, è stata di supporto per la presentazione del progetto al bando della “Scuola dei quartieri” (sempre promosso dal Comune di Milano), in base al quale il cassonetto intelligente s’è aggiudicato il primo posto nella graduatoria, per “entrare”, appunto, nel condominio. E ancora, attorno a tantissime altre professionalità che fanno parte della nascente realtà di sperimentazione, c’è Fernando Gomes da Silva, colui al quale si deve l’invenzione stessa di Riselda: idea prima e macchinario poi, che gli originari passi li ha mossi nel carcere di Sollicciano, a Firenze, e dopo in quello di Bollate. “È a Firenze, dov’era dapprima ristretto, che Fernando - racconta Sarah D’Errico - ha iniziato ad assemblare la sua invenzione, che successivamente ha suscitato interesse anche negli esperti dell’Università Federico ii di Napoli e in chi, fattivamente, ha studiato il macchinario divenuto persino oggetto di diverse tesi di laurea. Quando nel 2016 Fernando - prosegue D’Errico - è stato trasferito a Bollate, è entrato a far parte di un’associazione ambientalista, costituita da detenuti ed esterni, Keep the Planet Clean, e s’è iniziata a sperimentare la teoria che sta dietro a Riselda: chi, in quanto a raccolta differenziata, teneva un comportamento virtuoso, vedeva riconoscersi, in accordo con la struttura carceraria, un’ora di colloquio in più o una telefonata ulteriore con i familiari. C’è da sottolineare, però, che le buone pratiche sono continuate anche a prescindere da questo sistema di riconoscimenti, tanto che la raccolta differenziata a Bollate è arrivata a toccare picchi dell’ottanta per cento e ha coinvolto tutti”. Così, con Riselda che si prepara a fare ingresso all’interno del condominio milanese e a coinvolgere un’intera comunità, Fernando Gomes da Silva - quarant’anni, d’origine brasiliana (ciò spiega perché il cassonetto si chiami Riselda, che è il nome di sua madre) e con un passato da elettricista - è entusiasta. È assai soddisfatto, cioè, dell’evoluzione di quello che circa dieci anni fa era solo un pensiero, che man mano s’è fatto concreto (“i primi modellini della macchina funzionante sono stati costruiti a partire da scatole di merendine”) e ha intercettato la curiosità e la progettualità di molti, andando oltre la sola dimensione carceraria e aprendosi a nuove narrazioni. “Fernando - riferisce D’Errico - ha sempre detto che non trovandosi nel mondo, vista la pena da scontare, per il mondo avrebbe tanto voluto creare qualcosa”. E adesso il desiderio si è tramutato in realtà. “Una realtà - ripete Stortone di BiPart - caratterizzata da principi e valori di ecosostenibilità, salvaguardia della socialità. Motivo per cui - continua - chissà, Riselda potrebbe diventare un’autentica impresa di quartiere o popolare con utenti in grado di decidere cosa realizzare per il proprio territorio”. Partire dalla separazione dei rifiuti, dunque, per unire le persone, per generare cambiamento e creare nuovi cammini di economia circolare, oltre a una comunità che pensando ai suoi bisogni pensi anche a quelli degli altri. Per dirla come in Miracolo a Milano: “Un regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno”. Il difficile rapporto tra il populismo penale e la democrazia liberale di Francesco D’Errico* Il Dubbio, 28 aprile 2021 Luigi Manconi e Federica Graziani nel loro “Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale” (Einaudi), scrivono che il populismo penale è “un camaleontico dio minore tracima nella realtà, in una lotta ostinata per l’egemonia nello spazio pubblico, un fenomeno che straripa da ogni delimitazione scientifica e da ogni analisi analitica”. E come si presenta, d’altronde, il populismo penale, se non con l’immagine di una vorace bestia multiforme in grado di sopravvivere e di riprodursi nelle più disparate realtà sociali, culturali e politiche pur andando sempre a caccia di libertà e garanzie individuali? Ne “L’enigma penale. L’affermazione politica dei populismi nelle democrazie liberali” (Giappichelli), il penalista Enrico Amati, ci offre una panoramica completa e approfondita della proliferazione giustizialista contemporanea, muovendosi nella sua ricerca con un dinamico approccio interdisciplinare che, pur rimanendo nel solco di una rigorosa impostazione tecnico- scientifica, ha il pregio di non prescindere mai dal “momento e dal milieu politico in cui la legislazione viene alla luce ed opera”, visto che diversamente non si potrebbe affatto “intendere l’intimo valore di essa” (Bettiol docet). Più in particolare il professore analizza il rapporto tra la belva populistica e l’habitat della democrazia liberale contemporanea, indagando, anche al di là dei confini italiani, sulle ragioni storiche e politiche all’origine della sua nascita e della sua affermazione, ed evidenziando le principali prede della sua inarrestabile voracità, la presunzione d’innocenza, l’extrema ratio, e soprattutto la razionalità delle produzione delle leggi penali, che ha ormai lasciato il posto all’oclocrazia punitiva. D’altronde il populismo penale miete vittime nel nostro Paese da almeno ventinove anni, da quando è, per così dire, passato dall’infanzia alla giovinezza grazie all’inchiesta di Mani Pulite, occasione nella quale la magistratura ha assunto “impropriamente il ruolo di interprete autentico di aspettative popolari di giustizia in una logica di supplenza”, una funzione paradossalmente legittimata dallo stesso legislatore, che da allora ha iniziato a scaricare sul potere giudiziario problemi che il potere politico non sa o non vuole risolvere, contribuendo attivamente alla propria delegittimazione. Così “l’oppio giudiziario ha ormai contaminato gran parte della cultura (anche politica) italiana, incentivando una produzione penale compulsiva di scarsa qualità, che ha notevolmente ampliato la discrezionalità giudiziale e prodotto un generale abbassamento del livello di garanzie giuridiche”. Se il panorama effettivamente appare desolante, nella cupa fase in cui domina “l’insipienza di tutto governare col mezzo di criminali processi” e in cui (ri) emerge “la vecchia modernità delle ideologie penalistiche autoritarie”, Amati non si limita all’analisi dell’esistente ed elabora una serie di proposte per resistere all’incessante attacco corrosivo dell’orribile creatura figlia dell’incrocio pericoloso di antipolitica, giornalismo manettaro e protagonismo mediatico della pubblica accusa. Il recupero della riserva di legge rafforzata in materia penale, una nuova deontologia giudiziaria ed ermeneutica volta alla valorizzazione dei principi di tassatività, determinatezza ed offensività ed il “recupero della vocazione all’apertura culturale e alla permeabilità politica che ha caratterizzato la penalistica civile italiana”, sono i sentieri da percorrere. Se è vero, infatti, che “la macchina giustizia è indispensabile” - e in ogni società civile lo è sebbene sia “affetta da congeniti, tremendi pericoli e da immoralità intrinseche” -, è altrettanto vero che “ciò non esime la penalistica dal pretendere, quantomeno, un modello di giustizia penale decente”. Bando alla disillusione e al cinico pessimismo, largo alla ragionevole utopia della decenza. Il cammino è lungo e tortuoso, meglio non perdere tempo. *Presidente Associazione Extrema Ratio Lo Stato e lo spirito di parte di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 28 aprile 2021 In una democrazia come la nostra l’interesse pubblico è quello che ogni maggioranza e ogni ministro reputa che sia. Nei regimi democratici è compito della stampa illustrare con obiettività i punti di vista dell’opposizione, anche quando non li si condivide e ancora di più, quando è necessario, difenderne i diritti. È il caso mi sembra di due questioni importanti venute alla luce di recente e riguardanti rispettivamente Fratelli d’Italia e la Lega. La prima riguarda i servizi segreti, o per dir meglio le agenzie di intelligence che all’interno e all’esterno del Paese hanno il compito di difendere gli interessi vitali della Repubblica. Servizi segreti che - dopo le ambiguità, le “deviazioni” e i veri e propri tradimenti ormai risalenti all’altro secolo addebitabili ad essi pur se sempre avvolti nelle nebbie dello scarico di responsabilità - dal 2007 obbediscono a una nuova normativa. Stando alla quale essi operano alle dipendenze del presidente del Consiglio (espressione, lo ricordo, di una maggioranza parlamentare), il quale ne nomina i vertici, sovrintende al loro operato e ne porta ovviamente la piena responsabilità politica. Tuttavia, data la delicatezza dei poteri così attribuiti al presidente del Consiglio, la legge ha previsto come una sorta di contrappeso l’esistenza di un Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) con compiti di verifica e di controllo sistematico sull’operato dei servizi stessi. Non solo, ma al fine di sottolineare il carattere di organo di garanzia del Comitato ha stabilito che presidente del Copasir debba essere sempre un parlamentare dell’opposizione, cioè della minoranza parlamentare. E infatti è sempre stato così fino ad ora. Fino a quando cioè le vicende politiche italiane hanno portato alla costituzione di un governo - quello di Mario Draghi - sorretto da uno schieramento che comprende tutti i partiti salvo uno, Fratelli d’Italia. Al quale quindi, come prescrive la legge e come si è sempre fatto, spetta oggi la presidenza del Copasir. Ecco però che a questo punto il presidente in carica del Copasir, il senatore Raffaele Volpi della Lega, si rifiuta di lasciare la sua poltrona. Senza alcuna motivazione: si rifiuta e basta. Poco male, si dirà: i presidenti delle Camere - ai quali spetta tra l’altro la nomina del Comitato - esistono proprio per questo: per far rispettare le norme secondo le quali deve funzionare il Parlamento. Soprattutto, ci piace immaginare, al fine di garantire i diritti della minoranza. Un Parlamento in cui tale diritto è violato, infatti - e tanto più se ciò avviene con il consenso di chi lo presiede - non ha più nulla di un Parlamento. È qualcosa di mezzo tra un Bar dello sport e la Camera dei fasci e delle corporazioni, vale a dire un luogo di discussioni inutili dove può aver ragione sempre uno solo. È a questo punto che avviene qualcosa davvero singolare. I due presidenti delle Camere Maria Elisabetta Alberti Casellati e Roberto Fico, investiti della questione, decidono infatti di spogliarsi dei propri poteri. Invece di invitare il senatore Volpi a lasciare il suo posto a un presidente designato da Fratelli d’Italia decidono di non decidere e rimandano la palla ai partiti: se la vedano tra loro e cerchino loro un accordo. Che però, data la natura della disputa dove un compromesso è palesemente impossibile, naturalmente non si trova. E così, nonostante la lettera della legge, nonostante pareri di una schiera di costituzionalisti dei più vari orientamenti ma dal primo all’ultimo favorevoli all’avvicendamento, nonostante la moral suasion esercitata, pare, dalle sedi più autorevoli, nonostante tutto, da settimane la questione è ferma lì e il Copasir è di fatto paralizzato. Ancora una volta sul senso dello Stato e delle istituzioni ha prevalso insomma lo spirito fazioso dell’appartenenza. Oltretutto da parte di chi era meno ragionevole aspettarselo. Vengo al secondo caso, che riguarda la Lega. Il cui segretario, come si sa, è stato rinviato a giudizio davanti al tribunale di Palermo a causa del divieto di sbarco da lui ordinato come ministro degli Interni, nel 2019, nei confronti di un gruppo di naufraghi raccolti dalla nave di una ong, la “Open arms”. Uno dei pilastri argomentativi dell’accusa, ampiamente riportato dai giornali, è che Matteo Salvini nel prendere la decisione di cui sopra sarebbe stato mosso da ragioni politiche e non già per difendere un interesse dello Stato: parole più o meno riprese letteralmente da moltissimi giornali e notiziari radiotelevisivi. A me pare un argomento che suscita molte perplessità. Infatti, se da parte del Salvini ministro c’è stata una violazione comunque dimostrabile e palese di qualche disposizione di legge, è fin troppo ovvio che egli vada portato in giudizio e condannato. Ma se in un qualunque modo viene in ballo invece una questione di discrezionalità (la legge gli dava il potere di decidere in un modo o in un altro) e/o di motivazioni (che cosa è che lo ha spinto a decidere come ha deciso?), allora la distinzione fatta dai magistrati tra ragioni politiche e interesse dello Stato è difficilmente sostenibile. Per il semplice fatto che in un regime democratico parlamentare “l’interesse dello Stato” - a meno che qualche legge o la Costituzione non indichino chiaramente quale esso sia, che cosa debba intendersi con tale espressione - di per sé non esiste. In una democrazia come la nostra l’interesse dello Stato è quello che ogni maggioranza parlamentare e ogni ministro che ne fa parte reputa che esso sia. Coloro che governano, infatti, vengono eletti da una parte, sono esponenti di un partito, ma se possono contare su una maggioranza parlamentare il loro punto di vista - ripeto: politico di parte - per ciò stesso diviene legittimamente il punto di vista generale, diviene, se proprio vogliamo usare questa espressione, l’interesse dello Stato. Era un “interesse dello Stato” usare l’aviazione italiana per azioni di bombardamento in Kossovo come fece a suo tempo il governo D’Alema? È un “interesse dello Stato” che si costruisca una linea di alta velocità tra Torino e Lione? Se ne può discutere all’infinito, ma quel che conta è che chi ha preso quelle decisioni aveva il diritto di farlo dal momento che non c’era alcuna legge che lo vietava esplicitamente. Se nel caso di Salvini invece c’è, allora basta e avanza; sennò no. E tirare in mezzo l’interesse dello Stato serve solo a confondere le idee. La cybersecurity dimenticata di Riccardo Luna La Repubblica, 28 aprile 2021 E quindi? Com’è questo Recovery Plan sul digitale? Arriveremo finalmente nel futuro di cui parliamo da venti anni? Dopo le vaghissime bozze dei mesi scorsi, il documento varato dal governo e approvato dalle Camere a larghissima maggioranza, e solo 19 voti contrari, per quel che riguarda il digitale è ben fatto, organizzato con logica e scandito con una tempistica sensata. Ma non equivochiamo: non è geniale o visionario. È decoroso. Dice il Pnrr che dovremo portare la banda ultra larga ovunque entro cinque anni, scuole comprese; digitalizzare tutti i servizi della pubblica amministrazione e realizzare finalmente due riforme avviate nello scorso millennio: il fascicolo sanitario elettronico e il processo civile telematico. Parla anche di cose più recenti, promesse a vario titolo da un decennio: la razionalizzazione dei data center e l’utilizzo diffuso del cloud. Insomma, non rocket science, non c’è la promessa di mandare l’uomo sulla luna ma quella non meno ardita per noi, di far sparire le file agli sportelli. Si tratta insomma di realizzare finalmente il gigantesco libro delle nostre incompiute. La differenza con il passato è che stavolta ci sono i soldi, tantissimi soldi, per realizzare questi progetti (oltre 50 miliardi di euro, molti di più se consideriamo la quota digitale di istruzione e giustizia). Ma i soldi non bastano: non è per mancanza di investimenti che siamo agli ultimi posti in Europa per la trasformazione digitale, ma per aver fatto progetti pessimi o per averli abbandonati strada facendo. In questo contesto colpisce la considerazione che nel Piano c’è per il tema della cybersecurity, citata di passaggio e destinataria di appena 620 milioni di euro. Spiccioli. Dicono che dietro ci sia una guerra di palazzo, sussurrano che con Mario Draghi l’impostazione del predecessore verrà ribaltata. Può darsi: ma i soldi per proteggere l’Italia, le sue aziende e i cittadini da attacchi hacker ormai quotidiani sembrano davvero pochi. Eppure ancora ieri il ministro Lamorgese, inaugurando un centro di sicurezza digitale della polizia di Stato, ha detto che la cybersecurity è un presidio di democrazia. La nostra libertà passa da lì. Sacrosanto. Ma promettere che in cinque anni l’Italia diventerà un paese totalmente digitale e trascurare la sicurezza informatica è come fare una casa e non metterci le porte. Omofobia, legge Zan ancora in stallo al Senato di Giovanna Casadio La Repubblica, 28 aprile 2021 Il presidente leghista della commissione Giustizia del Senato, Andrea Ostellari, è stato irremovibile: “Parliamo di tutto, fuorché del disegno di legge contro l’omotransfobia”. Il grillino Brescia: “Cosa temi? Stop a squallidi mezzucci” È finita in caciara: da un lato le grida di protesta dei dem e dei grillini, dall’altro l’irremovibile decisione del presidente leghista della commissione Giustizia del Senato, Andrea Ostellari di parlare d’altro. Di tutto. Fuorché del disegno di legge contro l’omotransfobia che prende il nome dal deputato del Pd e attivista Lgbt, Alessandro Zan. Fumata nera. Sulla legge Zan (e gli altri ddl sullo stesso tema), nulla di fatto. Eppure il centrosinistra era sicuro che oggi sarebbe stato il giorno della svolta, con la calendarizzazione della discussione e la scelta del relatore. “Rispetta gli impegni non ce la fai proprio a mantenere la parola”, hanno urlato Franco Mirabelli e gli altri dem al presidente Ostellari. “Era un impegno preciso, discusso anche in capigruppo”, ha rincarato Alessandra Maiorino che per i 5Stelle sta seguendo passo passo la legge e ha lanciato un flash mob social la settimana scorsa. “Cosa temi? Stop a squallidi mezzucci”, attaccano rivolti al presidente leghista i deputati grillini Giuseppe Brescia e Mario Perantoni. “Qui ormai non è più questione di ostruzionismo ma di picchettamento. Era dai tempi del liceo che non vedevo un picchetto”, si è sfogata alla fine della riunione di commissione, Anna Rossomando, vice presidente dem di Palazzo Madama e responsabile giustizia e diritti del partito. Il tempo della commissione per discutere d’altra parte era ridotto all’osso: convocati per le 14 e 30, dopo mezz’ora i senatori sono tutti andati in aula a sentire Draghi sul Recovery Plan. E Ostellari ha invitato i gruppi politici a parlare appunto dei disegni di legge che stavano a cuore. Ha cominciato il leghista Simone Pillon, che ha preso spunto dalla vicenda della donna lombarda affetta da un tumore, la quale è andata alla ricerca della madre naturale per potere accedere alle diagnosi genetiche e mettere a punto un trattamento terapeutico adeguato. Pillon propone di rivedere la legge che garantisce l’anonimato alla madre che non riconosca poi il figlio. “La Corte costituzionale ha chiesto al Parlamento di legiferare in materia. È un argomento delicatissimo, ma è giusto parlarne”, sostiene il senatore leghista. Acerrimo avversario del ddl Zan, Pillon contrattacca: “Sono stati grillini e Pd a polemizzare e a pretendere che non si rispondesse alle loro accuse: mi pare un tantino anti democratico. È slittato tutto per le loro inutili discussioni”. Per Forza Italia invece tra le priorità c’è il ddl sulle interferenze della magistratura in politica. Domani la commissione Giustizia si riunisce di nuovo alle 8 e 45 del mattino. Sarà la volta buona? Ostellari si difende: “Non dipende da me ma dalla commissione”. Salvini e Meloni hanno posto il veto alla legge contro l’omofobia. La capogruppo del Pd a Palazzo Madama, Simona Malpezzi denuncia: “C’è stata una forma di ostruzionismo. Hanno cominciato a chiedere ulteriormente altre calendarizzazioni e per il ddl Zan non c’è stato tempo”. E Rossomando: “Noi insistiamo, è diritto del Parlamento discutere delle leggi. Noi dem, alla Camera, sulla commissione d’inchiesta sulla giustizia, pur essendo contrari ci guardiamo bene dall’impedire che venga calendarizzata o discussa. Il Parlamento va difeso sempre e non a giorni alterni”. Il ddl Zan è stato approvato alla Camera il 4 novembre scorso e si è insabbiato al Senato. Cannabis terapeutica, assolto Walter De Benedetto di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 aprile 2021 La cura viene prima dei divieti. Il tribunale di Arezzo giudica non punibile l’uomo disabile. “Assolto perché il fatto non sussiste”. Malgrado 15 piante di marijuana e 800 grammi di infiorescenze messe già ad essiccare. Walter De Benedetto è soddisfatto, “non solo per me ma anche per tutti coloro che vivono nelle mie stesse difficoltà”. Tira un sospiro di sollievo, il 50enne che vive su un sedia a rotelle per colpa di una devastante artrite reumatoide, e che rischiava fino a quattro anni di carcere; ringrazia i tanti che lo hanno sostenuto e che ancora ieri hanno organizzato sit-in in 18 città italiane, oltre che davanti al tribunale di Arezzo dove si è tenuta l’udienza del processo in direttissima che lo vedeva accusato di coltivazione di sostanze stupefacenti in concorso con un’altra persona condannata per averlo aiutato a innaffiare le piante nel suo giardino. Lui in aula non c’era, ieri non era in grado di muoversi neppure in ambulanza, ma è già pronto a ripartire da questa sentenza “per portare avanti la nostra lotta”. Anche se le sue condizioni di salute lo spingono già altrove, nelle “altre ricerche” che vuole compiere d’ora in poi, come ha detto rispondendo a chi gli chiedeva se riprenderà a coltivare piante di marijuana. La quantità di medicinali cannabinoidi che gli venivano forniti dal Ssn non gli bastavano. La sua condizione ha finito per essere una vera “tortura”, come l’ha definita la senatrice Emma Bonino intervenendo durante il dibattito sul Recovery plan e mostrando al premier Draghi una foto di De Benedetto, costretto ad un “processo grottesco”. E così Walter, che è stato un dipendente comunale, non ha mai fatto uso di stupefacenti e non fuma sigarette, a un certo punto decise di coltivare in casa la pianta che allevia le sue sofferenze. Oggi la sua è una battaglia politica: supportato dalla campagna #MeglioLegale, dall’associazione Luca Coscioni, dai Radicali italiani, da +Europa, dal movimento 6000 Sardine e da singoli esponenti di LeU, Pd e M5S, l’uomo che una settimana fa aveva scritto una lettera aperta al Presidente Mattarella spera ora che questa sentenza apra la strada alla legalizzazione dell’autoproduzione per uso personale e terapeutico. “Non ho più tempo per aspettare i tempi di una giustizia che ha sbagliato il suo obiettivo - aveva dichiarato - Il dolore non aspetta. Mi assumo la mia responsabilità, mi sento a posto con la mia coscienza”. Nel novembre scorso il deputato di +Europa Riccardo Magi gli aveva ceduto un pacchettino di marijuana e si era autodenunciato per il gesto. Oggi Magi chiede “la completa depenalizzazione della coltivazione domestica per uso personale, verso una vera legalizzazione della cannabis”. Come spiegano i difensori di De Benedetto, gli avvocati Claudio Miglio e Lorenzo Simonetti (vedi intervista), il giudice Fabio Lombardo ha riconosciuto prioritaria la motivazione personale del coltivatore rispetto alla quantità del suo raccolto. D’altronde la cannabis a scopo farmacologico prodotta dall’Istituto militare di Firenze (dal 2020 doveva arrivare a 300 kg l’anno) è ancora insufficiente. La marijuana prodotta a scopo curativo, rispetto a quella che comunemente si trova sul mercato illegale, ha una diversa composizione del principio attivo Thc (il 5,6%) e dei metaboliti non psicoattivi con effetti sedativi e miorilassanti che sono il Cbd (l’8,6%) e il Cbg. E allora, propone la portavoce di #MeglioLegale, Antonella Soldo, bisogna “aprire la produzione di cannabis terapeutica anche a privati, semplificare la burocrazia e formare i medici. Sono questi i passi fondamentali che serve mettere in campo affinché altri pazienti non si trovino nuovamente ad affrontare l’iter giudiziario che ha dovuto percorrere De Benedetto”. “L’assoluzione di Walter - commenta Marco Perduca dell’Associazione Coscioni - apre nuovi scenari che per quanto lo riguardano sono finalmente positivi ma che per chi si trova in situazioni simili devono essere chiarite da una norma di legge. Non tutti gli imputati che hanno coltivato in “stato di necessità” potranno contare su avvocati preparati e impegnati, né su magistrati attenti al bilanciamento del diritto alla salute con quello del rispetto del T.U. sulle droghe, che è di stampo proibizionista con pene sproporzionate e irragionevoli. Oggi festeggiamo ma da domani torneremo a chiedere riforme radicali di norme liberticide”. Walter De Benedetto e la cannabis a uso terapeutico di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 28 aprile 2021 La ministra Dadone: “Giorno storico, invito a un atto di coerenza pubblica i detrattori della legalizzazione”. Walter è stato assolto, finalmente. E non importa se ha assunto cannabis superando le quantità consentite dalla legge. Perché Walter De Benedetto, 49 anni, colpito da una gravissima e dolorosa forma di artrite reumatoide quando di anni ne aveva 16, non era (e non è) uno spacciatore che coltivava l’erba per soldi, ma un malato che cercava di lenire un po’ le sue atroci sofferenze. È una sentenza destinata a fare giurisprudenza e che fa onore alla giustizia e all’etica, quella pronunciata martedì mattina dal gup di Arezzo Fabio Lombardo. Anche la pubblica accusa, al termine della requisitoria, aveva chiesto la piena assoluzione di Walter perché il fatto non sussiste e difendersi dalla prostrazione che provoca il dolore non può essere reato. Assolto - L’assoluzione è stata accolta con soddisfazione anche dal ministro per le Politiche giovanili, Fabiana Dadone. “È un giorno storico - ha scritto sui social -. Oggi mi sento di festeggiare questa sentenza e lo faccio con un test antidroga del capello. Invito per l’ennesima volta a un atto di coerenza pubblica i detrattori della legalizzazione della marijuana che ritengono “cattivi maestri” quelli a favore. Abbiate un filo di coerenza e fatelo anche voi dimostrando che non c’è ipocrisia in questa vostra posizione”. Solidarietà - Walter è stato sommerso da una valanga di messaggi e telefonate da ogni parte d’Italia. Tanta solidarietà non se l’aspettava neppure lui, nonostante la petizione firmata da decine di migliaia di persone prima della decisione dei magistrati d’Arezzo. “Ha vinto il buonsenso. Ringrazio tutti e sono soddisfatto - dice - e non è solo una questione personale. Questa sentenza interessa tutti coloro che vivono le mie stesse difficoltà. C’è stata una grande mobilitazione, davanti ai tribunali di 18 città. Sono commosso e abbraccio tutti. Adesso posso affrontare la malattia e il dolore in modo più sereno. Si va avanti”. La denuncia nel 2019 - Nel suo letto della casa di Ripa di Olmo, provincia di Arezzo, in compagnia della sua gatta Luna, De Benedetto era costretto a cure antidolorifiche anche a base di morfina, che distruggevano il suo corpo e la sua mente. Così aveva deciso di iniziare una terapia a base di cannabis e coltivava nella piccola serra del giardino della sua abitazione quindici piantine, aiutato da un amico, che poi è stato condannato. Nel 2019 qualcuno li aveva denunciati ai carabinieri ed era partito l’iter giudiziario, doloroso anch’esso per un uomo ridotto allo stremo delle forze. Racconta Walter: “Sembrava la fine, o l’inizio di nuove sofferenze. E invece…”. La petizione - E invece ecco arrivare inattesa la solidarietà di decine di migliaia di persone che firmano una petizione, si battono non solo per quell’uomo ma per il diritto di affrontare le malattie più prostranti con dignità. Perché soffrire così non è giusto, non è umano. “Il dolore non aspetta, ma io sono a posto con la mia coscienza”, aveva scritto De Benedetto in una lettera aperta al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. La battaglia - De Benedetto ha lottato come un leone, nonostante l’infermità. Aiutato da dall’Associazione Luca Coscioni, che ha messo a disposizione i propri avvocati, ma anche da Enzo Brogi, promotore della prima legge regionale in Italia sull’uso terapeutico della cannabis, che martedì ha chiesto al segretario del Pd, Enrico Letta, di farsi portavoce di questa battaglia di civiltà. Perché, come ha sottolineato l’attivista Antonella Soldo sono molti i casi come quello di Walter e decine le persone ai domiciliari o con procedimenti penali in corso perché sulla cannabis c’è un tabù ideologico che impedisce “a chi non vuole soffrire di avere il diritto garantito a questa terapia”. Anche Emma Bonino si è interessata del caso e ieri ha mostrato in Senato una foto di De Benedetto parlando del suo caso al premier Mario Draghi e di quel processo che non si doveva fare. I migranti annegano ma l’Unione Europea pensa ai rimpatri di Giansandro Merli Il Manifesto, 28 aprile 2021 La Commissione presenta la strategia del Patto su migrazione e asilo: al centro gli allontanamenti volontari degli “irregolari”. Intanto la Ocean Viking, unica nave umanitaria in zona Sar, salva 236 persone. Chi sperava che la strage di 130 persone della scorsa settimana potesse causare un sussulto di pietà da parte dell’Unione Europea può riporre le speranze in un cassetto. Al “momento della vergogna”, invocato domenica da papa Francesco, è subentrato presto quello del “pragmatismo”, messo sul piatto ieri dal vicepresidente della Commissione europea Margaritis Schoinas e dalla commissaria agli Affari interni Ylva Johansson. Pragmatismo in questo caso significa ribadire, nonostante tutto, il focus principale del Patto su migrazione e asilo presentato il 23 settembre scorso: allontanare tutti coloro che non riescono ad accedere all’asilo. Così il centro della nuova strategia europea verso i migranti saranno, come da programma, i rimpatri volontari. Per fortuna mentre Schoinas e Johansson parlavano, duemila chilometri più a sud c’era una nave umanitaria che riempiva il vuoto lasciato dalle istituzioni europee: tra le 9 di mattina e mezzogiorno la Ocean Viking, della Ong Sos Mediterranée, ha soccorso in due diversi interventi 236 persone. Tra loro 114 minori non accompagnati, 7 donne e un neonato. Dalla Commissione l’unica risposta sul tema del Search and rescue nel Mediterraneo è stato il riferimento al punto inserito nel Patto per favorire l’attivazione del meccanismo di solidarietà tra i paesi membri nella condivisione delle persone sbarcate dopo le operazioni di soccorso. Tutta l’attenzione è stata invece concentrata sui rimpatri volontari, che insieme a quelli forzati costituiscono lo strumento di espulsione dal territorio Ue dei migranti che non riescono a ottenere lo status di rifugiato o altre forme di regolarizzazione. “Solo un terzo delle persone che non hanno diritto a restare in Europa tornano nel loro paese e di queste meno del 30% in modo volontario”, ha dichiarato Johansson. Per Schoinas tale “fallimento” deriva da tre fattori: il quadro degli accordi di riammissione con i paesi terzi; la struttura organizzativa europea dei rimpatri; l’impatto ridotto della volontarietà. Tradotto: servono strumenti per convincere i paesi terzi a riprendersi i loro cittadini e i migranti a lasciare il territorio europeo. Anche perché conviene: si stima che un allontanamento forzato costi in media 3.414 euro, contro i 560 euro di uno volontario. La strategia proposta dalla Commissione prevede un approccio maggiormente integrato che utilizzi le leve politiche, diplomatiche ed economiche a disposizione dell’Ue per imporre le sue esigenze. Con lo scopo di armonizzare interventi e programmi sarà istituita la figura di un coordinatore. La gestione dei rimpatri andrà in mano alla contestatissima agenzia Frontex, che è contemporaneamente al centro di: un’indagine sulle spese contabili dell’Ufficio europeo per le lotte anti-frode (Olaf); una verifica del mediatore europeo sul rispetto degli obblighi in materia di diritti fondamentali; un gruppo di scrutinio nella commissione Libe (Libertà civili, giustizia e affari interni) dell’europarlamento sul presunto coinvolgimento in respingimenti illegali nell’Egeo. Proprio ieri i deputati di Bruxelles in plenaria hanno votato a larghissima maggioranza per posporre l’approvazione del bilancio dell’agenzia: se ne riparlerà a ottobre. Frontex ha visto moltiplicare il suo budget come nessun altro organismo Ue: da 19 milioni nel 2004 a 544 nel 2021 (fonte: Corporate europe). “La Commissione europea pensa che unire le parole “ritorno” e “volontario” dia un suono più bello al suo piano per deportare decine di migliaia di persone. Ciò che ha presentato ieri è in realtà l’agenda dettata da Orbán, Duda, Janša e il desiderio di Salvini e Le Pen”, accusa Sira Rego, eurodeputata di Unidas Podemos, vicepresidente di The Left e parte del gruppo di scrutinio su Frontex. Pietro Bartolo, eletto a Bruxelles con il Partito democratico, si dice “preoccupato che la comunicazione della Commissione preceda una strategia per la creazione di vie legali d’accesso, unico strumento efficace per affrontare la migrazione irregolare e impedire le stragi nel Mediterraneo, ma non solo”. Due giorni fa Bartolo aveva firmato assieme ad altri 52 parlamentari europei una lettera indirizzata a Schoinas e Johansson con la richiesta ufficiale di “attivare una missione e un fondo europeo per la ricerca e il soccorso”. “Salvare vite in mare è un dovere a cui l’Ue e i suoi stati membri non possono sottrarsi”, hanno scritto. Chi davvero non si è sottratto al dovere di soccorrere è la nave umanitaria Ocean Viking, che ha messo al sicuro altre 236 vite. I migranti viaggiavano su due gommoni simili a quello affondato giovedì scorso. Sono stati trovati a 32 miglia nautiche dalla città libica di Zawyia. “Molti sopravvissuti erano deboli e disidratati. Avevano ustioni da carburante e soffrivano vertigini, nausea e mal di testa”, ha raccontato l’Ong. La pandemia non frena la spesa militare globale: nel 2020 +2,6% di Michele Giorgio Il Manifesto, 28 aprile 2021 La pandemia non ha frenato la spesa militare. Nel 2020, mentre medici e infermieri negli ospedali di ogni angolo del mondo lottavano per salvare la vita dei malati di Covid, in molti casi senza avere i respiratori per le unità di terapia intensiva, i governi di molti paesi investivano 1981 miliardi di dollari per comprare altre armi, con un aumento del 2,6% rispetto al 2019. Lo rivelano i dati contenuti nell’ultimo rapporto diffuso ieri dall’International Peace Research Institute di Stoccolma (Sipri) che segue e registra vendite ed acquisti nel mondo di cacciabombardieri, carri armati, droni, sistemi missilistici, armi leggere e pesanti e molto altro. “Possiamo dire con certezza che la pandemia non ha avuto un impatto significativo sulla spesa militare globale nel 2020. Resta da vedere se i paesi manterranno o diminuiranno questi livelli durante il secondo anno di pandemia”, spiega Diego Lopes da Silva, uno dei ricercatori del Sipri. Se la sua previsione, o l’auspicio, si avvererà lo vedremo tra un anno. Sipri sottolinea che l’aumento del 2,6% della spesa militare mondiale è avvenuto mentre il Pil globale è diminuito del 4,4% - secondo i dati del Fondo monetario internazionale - e milioni di persone hanno dovuto chiudere le loro aziende e attività commerciali o hanno perduto il lavoro e sono finite in miseria a causa degli impatti economici della pandemia. Non solo. L’aumento della spesa militare è stato il più significativo dal 2009, la fase più acuta della crisi finanziaria ed economica globale. I cinque maggiori investitori nel 2020 - il 62% a livello mondiale - sono stati Stati uniti, India, Russia, Regno unito e Cina. La spesa militare di Pechino è cresciuta per il 26esimo anno consecutivo - 252 miliardi di dollari - ed è la seconda dopo quella degli Usa. “La continua crescita della spesa cinese è in parte dovuta ai piani di espansione e modernizzazione militare a lungo termine del paese, in linea con il desiderio dichiarato di mettersi al passo con le altre principali potenze militari” aggiunge Sipri. La pandemia non ha frenato neanche la spesa militare degli Stati Uniti che ha raggiunto circa 778 miliardi di dollari, pari a un aumento del 4,4% rispetto al 2019: il 39% di quella totale nel 2020. E 12 paesi della Nato hanno speso il 2% in più del loro Pil per le loro forze armate. La Francia, ottavo spender a livello globale, ha superato la soglia del 2% per la prima volta dal 2009. Ma ci sono anche segnali in controtendenza. Alcuni paesi hanno riallocato parte della loro spesa militare investendo una porzione dei fondi stanziati per le nuove armi nella risposta sanitaria alla pandemia, come il Cile e la Corea del Sud. Altri, tra cui Brasile e Russia, hanno tagliato i loro budget militari iniziali. Anche i paesi del Medio oriente, da anni tra i principali acquirenti mondiali di armi, hanno rallentato facendo registrare nel 2020 un meno 6,5% (Arabia saudita -10%) ma hanno comunque speso 143 miliardi di dollari. Libia. Processi farsa dei Tribunali militari dove si condannano centinaia di civili La Repubblica, 28 aprile 2021 La denuncia di Amnesty International. Nella regione della Cirenaica, nel periodo tra il 2018 e il 2021, sono state almeno 22 le condanne a morte e altre centinaia di persone incarcerate. L’organizzazione umanitaria per la difesa dei diritti umani, Amnesty International, ha reso noto che nella Libia orientale (cioè la Cirenaica) i Tribunali militari hanno condannato centinaia di civili in seguito a processi militari segreti “profondamente iniqui”, si legge in una nota dell’Organizzazione, con l’obiettivo di punire veri o presunti oppositori e critici delle Forze armate arabe libiche (Laaf) e dei gruppi armati affiliati. Nel periodo tra il 2018 e il 2021, sono state almeno 22 le condanne a morte, mentre centinaia di altre persone sono state condannate alla reclusione. Molti imputati hanno subìto torture e altri maltrattamenti durante il periodo trascorso in regime di detenzione preventiva. Colpiti solo in quanto giornalisti. Tra i civili processati dai Tribunali militari nella roccaforte delle Laaf nell’Est della Libia, figurano due persone colpite esclusivamente per la propria attività giornalistica, un gruppo che ha partecipato alle manifestazioni pacifiche e decine di persone che hanno difeso i diritti umani o hanno condiviso sui social le critiche alle Laaf o ad altri gruppi armati affiliati. Gli ex detenuti che hanno parlato con Amnesty International hanno raccontato in dettaglio una serie di violazioni: sono stati rapiti e tenuti prigionieri fino a tre anni prima di essere deferiti alla giustizia militare, sono stati tenuti in regime di incommunicado fino a 20 mesi in circostanze simili a quelle di una sparizione forzata, sono stati sottoposti a percosse, minacciati e sottoposti a simulazioni di annegamento. Alcuni hanno detto di essere stati costretti a firmare delle “confessioni” per reati che non avevano commesso. Tutto avviene in segreto, senza avvocati né imputati. “Il processo di civili da parte di tribunali militari, iniquo per natura - dice Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord - il governo di transizione non rispetta gli standard internazionali e regionali. Nella Libia orientale, questi procedimenti avvengono in segreto e a volte in assenza di avvocati e imputati, pregiudicando qualsiasi apparenza di giustizia. Il ricorso a Tribunali militari per i civili è un’evidente cortina di fumo attraverso la quale le Laaf e i gruppi armati affiliati esercitano il proprio potere per punire gli oppositori e per diffondere un clima di paura”, ha aggiunto la vicedirettrice di Amnesty. Secondo il diritto internazionale, il ricorso ai Tribunali militari deve limitarsi ai procedimenti nei confronti del personale militare per le violazioni della disciplina delle forze armate. Ricorrere alla Giustizia militare per processare i civili pone diversi problemi, perché due dei protagonisti del processo, cioè l’Accusa e il il collegio giudicante, sono in servizio presso le forze militari e quindi soggetti alla loro gerarchia, dunque manca loro l’elemento fondamentale dell’indipendenza e dell’imparzialità. Persone trattenute illegalmente per mesi. Nel corso dei colloqui con 11 persone, tra cui ex imputati, difensori dei diritti umani e avvocati, Amnesty International ha riscontrato che le persone che hanno subìto un processo militare sono state trattenute illegalmente per mesi o persino anni, sono state torturate e soggette a procedimenti profondamente iniqui. Un uomo condannato da un tribunale militare nel 2020 ha dichiarato che gli uomini affiliati alla “polizia militare”, un gruppo armato alleato delle Laaf, lo avevano picchiato, minacciato di stupro e gli avevano messo un cappuccio sulla testa prima di versargli dell’acqua addosso per simulare un annegamento. A processo per aver espresso critiche pacificamente. Tra coloro che hanno affrontato dei procedimenti dinanzi a tribunali militari figura una donna che nel febbraio del 2020 era stata portata via dalla sua abitazione da un gruppo armato per un post di critica sui social nei confronti delle Laaf. Non è stato permesso né ai suoi familiari né al suo avvocato di vederla prima che, in attesa del processo, ottenesse la libertà provvisoria nell’aprile del 2021. Inoltre, Amnesty International è venuta a conoscenza di 18 uomini arrestati per le proteste contro i gruppi armati avvenute a settembre 2020 che sono stati deferiti ai tribunali militari. Processi farsa. I processi dinanzi ai tribunali militari nella Libia orientale non rispettano una serie di diritti relativi al processo equo, tra cui il diritto all’assistenza legale prima e durante il processo, il diritto a non rispondere, il diritto a un’udienza pubblica ed equa dinanzi a un tribunale imparziale e indipendente, il diritto a essere presenti durante il processo, ad avere una sentenza motivata nonché la possibilità di revisione. Gli imputati hanno di norma raccontato di non aver potuto incontrare il proprio avvocato durante il periodo di detenzione preventiva e, a volte, durante il processo. Anche gli avvocati sono stati colpiti. Secondo Libyan crimes watch, gruppo libico impegnato nella difesa dei diritti umani, nel mese di marzo del 2020, due avvocati sono stati arrestati e detenuti per molti giorni a causa di alcune denunce nei loro confronti fatte da Slim al-Fergani, presidente del tribunale militare permanente a Bengasi. Secondo una delle denunce esaminata da Amnesty International, un avvocato ha accusato Slim al-Ferjani di aver proibito ai legali di esaminare i fascicoli o di presentare una difesa in tribunale. 15 anni di galera per critiche alle Laaf. A maggio del 2020, un Tribunale militare ha condannato il giornalista Ismail Bouzreeba Al-Zway a 15 anni di detenzione, perché accusato di appoggiare il terrorismo. Amnesty International ritiene che sia stato punito per i contenuti trovati sul suo telefono, tra cui dei messaggi di critica alle Laaf e delle comunicazioni con stampa straniera. Non gli è stato permesso di mettersi in comunicazione con la sua famiglia e con il suo avvocato durante l’intero periodo di detenzione preventiva e il processo è avvenuto in sua assenza. In molti casi, fino al processo agli imputati non venivano comunicate con esattezza le accuse nei loro confronti, le udienze non erano pubbliche e non veniva dato loro accesso ai fascicoli o alle prove contro di loro o, una volta condannati, alle sentenze motivate. Il peso delle gerarchie militari sulla giustizia. Inoltre, le sentenze emesse da un Tribunale militare possono essere appellate esclusivamente dinanzi a Tribunali militari di grado superiore. Sia la procura militare che i giudici mancano di indipendenza e imparzialità, essendo associati alle Laaf o ai gruppi armati alleati. A esempio, Faraj AlSoussa’a, attuale capo della procura militare nella Libia orientale rappresenta anche le Laaf nei colloqui della commissione militare libica (5+5) sotto l’egida dell’Onu, mentre Khairi al-Sabri a capo dell’Autorità militare giudiziaria generale, in passato ha guidato l’intelligence militare sotto il controllo delle Laaf. A sua volta, il giudice del Tribunale militare permanente a Bengasi è subordinato alla direzione dell’Autorità militare giudiziaria generale. La pena di morte. Secondo le dichiarazioni della Unsmil (la Missione di sostegno in Libia delle Nazioni Unite) e delle Laaf, tra il 2018 e il 2020, i Tribunali militari hanno condannato a morte almeno 22 persone, in seguito a processi iniqui. Secondo le organizzazioni libiche per i diritti umani, sono almeno 31 le condanne a morte comminate. Amnesty International è contraria al ricorso alla pena di morte in qualsiasi circostanza. Secondo il diritto internazionale, i processi per i reati punibili con la pena di morte devono rispettare tutti i principi relativi a un processo equo e le esecuzioni a seguito di processi iniqui violano il diritto alla vita. Pesanti conseguenze per i civili condannati. I civili scarcerati dopo aver scontato le pene hanno riferito che questi procedimenti nei loro confronti hanno danneggiato le loro vite, anche le loro prospettive lavorative future. Sulle loro teste incombe la paura di ulteriori arresti. Ibrahim el-Wegli, un medico che lavorava in un ospedale pubblico a Bengasi ha detto ad Amnesty International che dopo la sua scarcerazione il suo contratto di lavoro pubblico era stato invalidato a causa della sentenza a lui sfavorevole, emessa dal tribunale militare. Inoltre, due uomini condannati dai Tribunali militari hanno riferito ad Amnesty International che dopo il loro rilascio, hanno ricevuto costanti minacce verbali di ulteriori arresti e di sentenze più dure da parte di persone affiliate alla “polizia militare”, il che li ha spinti a fuggire dalla Libia. Motivazioni legali dubbie. Nel 2017, i membri della Camera dei rappresentanti, l’ultimo parlamento libico eletto, hanno approvato la legge n. 4/2017 che sanciva la giurisdizione dei tribunali militari sui civili accusati di “terrorismo” e di reati commessi nelle “zone militari”. In quel momento, il paese era diviso tra due organismi contrapposti e in conflitto: la camera dei rappresentanti di Tobruk, alleata con le Laaf, che avevano il controllo della maggior parte dell’est della Libia, e il Governo di accordo nazionale (Gna) con sede a Tripoli. A novembre del 2018, un portavoce delle Laaf ha dichiarato che gli emendamenti del 2017 hanno fornito una base giuridica per i processi nei confronti delle persone accusate di “terrorismo” dinanzi ai tribunali militari. Stati Uniti. Ora le armi si costruiscono in casa. Controllarle è sempre più difficile di Francesca Berardi Il Domani, 28 aprile 2021 Nelle case statunitensi ci sono 400 milioni di armi, ovvero più armi che persone. Chiunque segua il dibattito sul controllo delle armi negli Stati Uniti ricorda il 2012 come un anno particolarmente intenso, conclusosi tragicamente. Il 14 dicembre, nella scuola elementare Sandy Hook di Newtown, in Connecticut, un ventunenne, armato di un fucile semi automatico e due pistole, uccise venti bambini e sei adulti. Quel massacro, avvenuto pochi mesi dopo quello altrettanto scioccante in un cinema del Colorado, riportò furiosamente a galla lo scontro politico sull’urgenza di limitare la vendita e il possesso di armi, soprattutto quelle d’assalto. La National Rifle Association (Nra), la potente lobby per le armi, ebbe una reazione ancora impressa nella memoria degli americani. Dopo una settimana di pesante silenzio, Wayne LaPierre, al vertice dell’organizzazione da trent’anni, disse che “l’unica cosa che ferma un cattivo ragazzo con una pistola, è un bravo ragazzo con una pistola”. Il tentativo di Obama - L’allora presidente Barack Obama, affiancato dal suo vice e attuale presidente Joe Biden, firmò 23 ordini esecutivi per bypassare il Congresso. L’obiettivo era di limitare le vendite e rendere più efficienti i controlli sugli acquirenti delle armi, i cosiddetti background checks, soprattutto nel caso di persone con disturbi psichiatrici. Una vera riforma avrebbe comunque implicato l’approvazione di Capitol Hill, e di fatto non ci fu una svolta significativa. Gli ostacoli erano, e sono tuttora, numerosi e complessi da superare. Nelle case statunitensi ci sono 400 milioni di armi, ovvero più armi che persone. C’è una cultura delle armi che si tramanda da generazioni, proprio come i fucili di famiglia, e che ha a che fare con l’identità, anche politica, di decine di milioni di americani. Ci sono i soldi dell’Nra nelle tasche dei parlamentari, repubblicani ma non solo. C’è il secondo emendamento della Costituzione al quale i difensori del diritto al possesso di armi si appellano in modo ostinatamente letterario e anacronistico per opporsi a ogni cambiamento. Tuttavia, la forte presa di posizione di Obama ebbe i suoi effetti. Uno dei più evidenti fu la percezione, da parte dei possessori di armi, che il governo potesse davvero imporre forti limitazioni. In quello stesso anno accadde infatti anche qualcosa di meno noto. Fatte in casa - Mentre a Washington suonava un disco rotto, in una piccola townhouse ad Austin, in Texas, uno studente di legge pensava a come produrre armi aggirando tutta la politica, padri fondatori inclusi. Cody Wilson aveva allora 24 anni. Con un paio di conoscenti con i quali condivideva gli stessi interessi - gaming, tecnologia, la fascinazione per una certa idea di anarchia e libertà - decise di provare a costruire armi con una stampante 3d. L’intenzione era di elaborare i file necessari per la produzione e poi distribuirli gratuitamente attraverso Internet, negli Stati Uniti e non solo. Il progetto si chiamava Wiki-Weapon - un omaggio ai WikiLeaks di Julian Assange - e per realizzarlo Wilson e soci fondarono l’organizzazione Defense distributed, attiva ancora oggi. Sono loro, grazie a un discreto successo mediatico, ad avere dato la spinta decisiva alla popolarità delle cosiddette ghost guns, ovvero armi auto-costruite in casa (non necessariamente con stampante 3d) e senza numero di serie, ma non per questo illegali. Armi fantasma - La diffusione delle ghost guns è per ovvie ragioni difficile da misurare, ma negli ultimi dieci anni è aumentata sensibilmente. Tanto che se ne è accorta pure la Casa Bianca. Lo scorso 8 aprile, parlando dal Giardino delle rose, Biden ha presentato il suo programma per affrontare l’epidemia di violenza provocata dall’uso delle armi. È “un imbarazzo internazionale” ha detto, mentre negli Stati Uniti il numero dei mass shootings continua a intensificarsi (per mass shooting, letteralmente sparatoria di massa, si intende una sparatoria in cui perdono la vita o vengono ferite almeno quattro persone, escluso il responsabile). Negli ultimi 30 giorni se ne sono verificati più di 45. Dopo aver salutato alcuni dei presenti - primi tra tutti i genitori di uno dei bambini uccisi nella scuola Sandy Hook - Biden ha detto di essere determinato a fermare la proliferazione delle ghost guns. “Queste sono armi fatte in casa, costruite a partire da un kit che include le istruzioni per completarle”, ha spiegato. “Non hanno numero di serie, così quando fanno la loro apparizione sulla scena del crimine non possono essere tracciate”. Inoltre, ha detto, “agli acquirenti non è richiesto di passare il background check per comprare il kit e costruire l’arma”. Di conseguenza - ha aggiunto - può farlo chiunque, criminali e terroristi inclusi. Il presidente ha così dato al dipartimento di Giustizia 30 giorni per fare una proposta su come limitarne o quantomeno regolamentarne la diffusione. Non è ancora chiaro che tipo di iniziative conterrà la proposta, ma è improbabile che imponga il divieto di costruire armi in casa, anche perché si tratta di una pratica fino a ora considerata legale e che ha radici profonde. È infatti solamente dal 1968, con il Gun Control Act, che i produttori di armi devono ottenere una licenza dal governo federale e marcare le armi con un numero di serie. E la legge non riguarda chi assembla armi per uso personale, cosa che appunto si presuppone siano le ghost guns. Solo che negli anni Sessanta - e neppure nel 1993 quando il Brady Gun Violence Prevention Act ha fondato il sistema federale di background checks facendo di nuovo un’eccezione per le armi fatte in casa - non si poteva ancora immaginare il potere di Internet. Le possibilità concesse dalla rete hanno infatti dato una nuova chiave di interpretazione all’associazione tra armi e libertà. Pezzi da comporre - Per Wilson - che si definisce un crypto anarchist e dice di essere cresciuto in una famiglia senza armi - produrre armi in soggiorno è un gesto politico, un modo di affermare la propria libertà, alla faccia di un governo sempre più controllante, non importa se a destra o sinistra. Non a caso la prima pistola interamente realizzata con una stampante 3d da Defense Distributed si chiamava Liberator, come quella prodotta in massa dal governo americano nel 1942 con l’intenzione di armare gruppi della resistenza in Europa. L’idea, poi non portata a termine, era di sganciarne migliaia dal cielo nella speranza che finissero nelle mani giuste, ma con la consapevolezza che potevano anche essere intercettate dai nazisti. Come si vede in un esemplare conservato al Museum of Jewish Heritage di New York, erano confezionate in scatolette di cartone contenenti anche le istruzioni per azionarle. Esattamente come i kit per produrre le ghost guns. Le armi prodotte con stampanti 3d sono infatti solo una piccola parte. Come ha accennato Biden nel suo discorso, si tratta più in generale di armi costruite a partire da kit acquistabili online da diverse aziende specializzate, per poche centinaia di dollari. L’acquirente riceve a casa un cosiddetto “80 per cent receiver”, ovvero un corpo inferiore di un’arma completo all’80 per cento e le istruzioni per terminarlo. Il corpo inferiore è infatti il pezzo fondamentale, quello che include anche grilletto e cane, a cui è associato numero di serie e licenza. Anche le armi prodotte con la stampante 3d spesso hanno solo la parte del corpo inferiore realizzata con questa tecnologia, poiché il resto dei pezzi sono reperibili sul mercato senza controlli. Dal sito di Defense Distributed al momento si possono acquistare i corpi inferiori di diversi modelli, dalla pistola semiautomatica M1911 usata già dai primi del Novecento dalle forze armate degli Stati Uniti, al fucile semiautomatico Ar-15. Il costo varia dagli 80 ai 150 dollari. Inoltre, con un minimo di duemila dollari, è possibile acquistare una macchina a controllo numerico che, collegata a un computer e tramite uno specifico software, permette di produrre in casa componenti in metallo di vari modelli di armi. Legali, per ora - Sebbene non sia possibile fare una stima del numero di ghost guns che circolano negli Stati Uniti, né ovviamente verificare chi le possiede, alcuni dati confermano che vengono utilizzate anche per scopi criminali. Nel 2019 gli agenti del Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives (Atf), ne hanno sequestrate circa 10mila nel corso di arresti e perquisizioni. Secondo un’inchiesta pubblicata nello stesso anno dal sito The Trace, specializzato in violenza causata dall’uso delle armi, il 30 per cento delle armi sequestrate dalla polizia dell’Atf in California erano senza numero di serie. In molti casi erano state utilizzate per rapine o omicidi. In almeno due dei più recenti mass shooting avvenuti in California, nel 2013 in un college di Santa Monica e nel 2017 in varie zone del Tehama County, gli assalitori hanno usato ghost guns dopo che era stata loro negata la licenza. Inoltre, come ha raccontato alla radio pubblica americana il giornalista Ioan Grillo, autore del libro Blood gun money: how America arms gangs and cartels, il mercato delle componenti di armi da assemblare sta contribuendo a potenziare l’arsenale dei cartelli della droga in Messico e altri paesi del Centro America. Negli ultimi anni i tentativi di fermare la proliferazione delle ghost guns non sono mancati ma è difficile stabilire se abbiano o meno avuto effetto. Diversi stati hanno tentato di regolamentarne il possesso o la vendita, come la California che dal 2016 richiede che le armi costruite in casa vengano registrate, o il New Jersey che proibisce del tutto il commercio di kit e componenti. Tuttavia nella maggior parte degli stati continuano a essere legali e non regolamentate. L’azione di Biden in questo senso potrebbe segnare una svolta, quantomeno in termini di sensibilizzazione sul tema. A seguito del suo annuncio, grandi piattaforme di acquisti online come Facebook marketplace, Etsy e Google si sono impegnate a stringere i controlli dopo essere stati accusati di facilitare il commercio di parti di armi, in particolare stabilizzatori che permettono di utilizzare l’arma con una sola mano e con maggiore precisione. Tuttavia le aziende del settore come Defense Distributed non si scoraggiano. Sui loro siti sono comparsi banner che rassicurano la clientela sul fatto che, vista l’opposizione che una legge sul controllo per le armi potrebbe trovare in Congresso, per almeno altri 90 giorni non dovrebbero entrare in vigore nuove leggi. Il pericolo, come avvenne nel 2012 e come avviene ogni volta in cui si mette in discussione la libertà degli americani di possedere armi, è l’effetto boomerang: l’incremento delle vendite di kit e parti da assemblare proprio in questo periodo. Così in Sud Sudan la chiesa cattolica è diventata un nemico da combattere di Marco Grieco Il Domani, 28 aprile 2021 Mancano pochi mesi al 9 luglio, quando i sud sudanesi festeggeranno il decimo anniversario della loro indipendenza dal Sudan, ma quel cordone ombelicale reciso nel 2011 dal 98 per cento degli elettori, è ancora oggi intriso di sangue. Nemmeno la chiesa cattolica, protagonista del lento cammino di pacificazione del paese, può definirsi al sicuro. Nella notte di ieri, infatti, il missionario comboniano Christian Carlassare, nominato vescovo di Rumbek appena due mesi fa, ha subìto un agguato ed è stato ferito alle gambe con colpi di arma da fuoco. Secondo quanto riferito dalla Conferenza episcopale del paese il presule non è in pericolo di vita, ma l’evento ha scosso tutte le diocesi, anche per la speranza che il più giovane vescovo italiano della chiesa cattolica porta nello stato più giovane del mondo. “Sento una grande responsabilità. Dovrò riuscire a far capire quanto tengo a loro, anche se le mie origini sono straniere” aveva dichiarato monsignor Carlassare qualche giorno fa ad Avvenire, parlando degli 800mila sud sudanesi della sua diocesi (un quarto è cattolico). Estesa su un territorio di 60mila chilometri quadrati e con appena 15 parrocchie, a Rumbek la maggioranza della popolazione è di etnia dinka. Appena venti giorni fa, il paese piangeva la morte dell’anziano arcivescovo Paulino Lukudu, il missionario che è stato un saldo pilastro per tanti civili nel marasma del conflitto interno. Luduku e Carlassare, agli antipodi anagrafici, incarnano l’impegno trasversale e atemporale della chiesa cattolica in uno stato che ha smesso di credere ai suoi stessi tentativi di pace. L’accordo firmato ad Addis Abeba il 12 settembre 2018 tra il presidente Salva Kiir e Riek Machar, rimpatriato dopo il rovinoso esilio costato la vita a centinaia di combattenti, era stato l’atto estremo della pressione diplomatica internazionale. Ma nella stessa Juba, dove il presidente del paese e il leader del movimento ribelle avevano celebrato il rinnovato dialogo, pochi mesi dopo i vescovi cattolici avevano espresso le loro perplessità. “La situazione concreta sul campo dimostra che non si stanno affrontando le cause profonde dei conflitti nel Sud Sudan. Siamo estremamente preoccupati perché, nonostante l’accordo di pace, la situazione sul terreno è che violenze e scontri continuano” avevano dichiarato il 28 febbraio 2019, senza risparmiare la dura condanna ai tiepidi tentativi di riconciliazione: “Le violazioni dei diritti umani continuano impunemente, tra omicidi, stupri, violenze sessuali diffuse, saccheggi e occupazioni di terreni e proprietà civili. Mentre si parla molto della pace, le azioni non corrispondono alle parole e temiamo che i leader di tutte le fazioni abbiano agende nascoste”. Secondo gli ultimi dati forniti dalla Commissione per i diritti umani dell’Africa orientale, il 75 per cento del paese è ancora lacerato da attacchi a livello locale. Nel Sud Sudan il problema sono le armi, sebbene il presidente Kiir abbia rinnovato gli sforzi per il disarmo. Eppure le azioni di un governo in parte svuotato di autorevolezza sono percepite con sospetto dai civili, e questo alimenta gli scontri, anche fatali, con le autorità. “Il disarmo in Sud Sudan assomiglia a un’operazione di contro-insurrezione abusiva, non una raccolta ordinata di armi” dichiarava lo scorso agosto al New York Times Alan Boswell, analista presso l’International crisis group (Icg). Appena un anno prima papa Francesco aveva ricordato ai leader del paese che “la guerra non potrà mai portare la pace, l’unica via è affrontare i problemi senza l’uso delle armi e risolverli davanti al popolo”. L’11 aprile 2019, dopo due giorni di ritiro spirituale in Vaticano, il pontefice aveva implorato la pace in ginocchio, baciando i piedi del presidente Kiir e dell’allora vicepresidente designato Machar cercando, nel gesto divenuto iconico, di conciliare simbolicamente le loro rispettive etnie dinka e nuer: “Vi chiedo come fratello, rimanete nella pace”, aveva implorato il pontefice. Da quell’incontro l’accordo di pace è rimasto un tentativo, mentre lo stesso Kiir accusava Machar di reclutare combattenti per rientrare a Juba armato. Intanto la corruzione nel paese resta radicata. Una recente inchiesta realizzata dal portale The Elephant ha fatto luce sul commercio illegale del legno di teak, che viene venduto sottobanco in Europa attraverso l’India, sebbene dal 2013 l’European Timber Regulation dovrebbe arginare la vendita illegale di legname. L’inchiesta mostra nel dettaglio come questa attività stia arricchendo politici corrotti e classi sociali interne che utilizzano i guadagni per dotarsi di armi nel conflitto fra etnie. Arginare questo e altri fenomeni è impossibile persino per i caschi blu, spesso bersagli degli attacchi: proprio ieri le consultazioni tra le autorità del Sudan e del Sud Sudan per il ritiro delle forze di sicurezza dell’Onu dalla zona demilitarizzata di Abyei si sono concluse con un nulla di fatto. Secondo il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, per sguarnire la zona cuscinetto tra i due stati ci vorrà almeno un anno. Il clima di incertezza diplomatica si riflette anche a livello locale e così le cicatrici ornamentali che i due gruppi etnici utilizzano da secoli per distinguersi fra di loro, oggi equivalgono a segni distintivi di morte. Intanto, continuano gli appelli dei vescovi a deporre l’ascia di guerra, come il recente invito di monsignor Hiiboro Kussala, vescovo di Tombura-Yambio e presidente dei vescovi di Sudan e Sud Sudan. “Queste pecore smarrite devono essere aiutate a riconoscersi tutte figlie di Dio, tutte figlie dello stesso paese, andando oltre i propri clan” aveva dichiarato monsignor Carlassare in una recente intervista all’Osservatore Romano. Parole che oggi, vedendo le immagini del suo corpo insanguinato in barella, lasciano intendere con amarezza quanto la pace sia un percorso spesso in salita. Bielorussia. La campionessa in esilio: “Lukashenko punisce gli atleti infedeli, aiutateci” di Marco Bonarrigo Corriere della Sera, 28 aprile 2021 La denuncia di Aliaksandra Herasimenia, campionessa olimpica a capo della Belarussian Sport Solidarity Foundation, con la quale supporta gli atleti minacciati o incarcerati e che finanzia mettendo all’asta le sue medaglie. “Se sei un atleta non allineato al regime, in Bielorussia ti basta poco per finire in galera. A Yelena Leuchanka, stella del nostro basket, è stato fatale un post su Instagram spedito dall’aeroporto di Minsk dove stava per volare negli Usa: l’hanno arrestata al controllo passaporti e si è fatta 15 giorni di carcere. La regina del nostro freestyle, Aleksandra Romanovskaya, è stata cacciata dalla nazionale per aver firmato un appello per i diritti civili, Pavel Sitenkov - celebre coach del nuoto - è stato manganellato a sangue dalla polizia come pure Andrey Kravchenko, argento olimpico del decathlon, umiliato per 10 giorni nel carcere di Zhodino: entrambi avevano sfilato in corteo. E sono solo alcuni casi”. A parlare col Corriere (da Vilnius, dov’è rifugiata dopo essere stata bollata come “minaccia alla sicurezza e all’economia nazionale”) è Aliaksandra Herasimenia, 35 anni, due argenti e un bronzo ai Giochi olimpici del 2012 e 2016 e due ori mondiali nel nuoto. Aljaksandra guida la Belarussian Sport Solidarity Foundation che supporta gli atleti minacciati o incarcerati e la finanzia mettendo all’asta le sue medaglie. Nella Bielorussia di Alexander Lukashenko quando a reclamare i diritti civili è un atleta la prigione, i soprusi, la perdita del posto di lavoro statale o della borsa di studio e del diritto di allenarsi sono automatici. A protestare contro le elezioni farsa dell’agosto 2020 - che mantennero al potere l’autocrate Lukashenko - è un pezzo importante società civile. Ma per un capo dello Stato che esibisce i risultati agonistici come bottino militare (96 medaglie olimpiche dall’indipendenza del 1991), che un campione rifiuti di presenziare alle parate militari e chieda di partecipare ai Giochi di Tokyo sotto bandiera neutrale è un oltraggio da punire. Russia a parte (ma lì si parla di doping), la Bielorussia è la sola nazione al mondo sospesa dal Cio che ha disconosciuto il comitato olimpico nazionale, fino allo scorso autunno presieduto da Lukashenko stesso che poi ne ha fatto dono al figlio Viktor Aleksandrovich, suo consigliere per la sicurezza, accusato di ripetute violazioni dei diritti civili dalla Comunità Europea. La sanzione del Cio si limita a bandire la presenza di padre e figlio da Tokyo (il padre ci sarà comunque come capo di Stato) e a un generico appello a non discriminare gli atleti. La Bielorussia (al contrario della Russia) può però continuare ad ospitare grandi eventi sportivi e a far sfilare i suoi atleti sotto la bandiera nazionale. “A giugno - spiega Herasimenia - Minsk ospiterà gli Europei di ciclismo su pista con atleti di 50 nazioni. Abbiamo chiesto invano alla federazione di spostarli altrove per appoggiare la nostra protesta”. L’Unione Europea di Ciclismo è presieduta da un italiano, Enrico Della Casa. “Non possiamo spostarci - ammette - perché nessuno ci darebbe i 350 mila euro che ci offre la federazione locale per coprire i costi. E comunque abbiamo il nullaosta del Cio”. Herasimenia: “Pura ipocrisia, un voltarci le spalle e far finta che tutto vada bene. In realtà non va bene nulla: gli atleti meritevoli sono sistematicamente emarginati e sostituiti con quelli più scarsi ma fedeli al regime o che si guardano bene dal protestare. Ogni atleta sa che ai Giochi va chi corre o nuota più veloce, salta, lancia o gioca meglio. Regole universali, ma non nel nostro paese. Chiedo agli atleti di tutto il mondo - e in particolare alla vostra Federica Pellegrini, fuoriclasse contro cui ho gareggiato - di sostenere la nostra causa. Bastano una parola, una frase, un post. Non lasciateci soli”.