Liberazione anticipata: dai detenuti di Torino e Oristano altro appello a Cartabia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 aprile 2021 Chiedono che la liberazione anticipata venga estesa a 75 giorni a tutta la popolazione detenuta e che abbia “effetto retroattivo” al 2015. “Chiediamo che si applichi l’ampliamento della liberazione anticipata estesa a tutta la popolazione detenuta, che tale provvedimento abbia “effetto retroattivo” al 2015 (anno in cui venne sospesa) in modo da avere un risultato concreto sul numero di ristretti”. Dopo la lettera appello delle detenute del carcere di Torino rivolta alla ministra Marta Cartabia e al garante nazionale, si sono aggiunti i detenuti del carcere medesimo e i reclusi del carcere sardo di Massama. Due appelli che l’associazione Yairaiha Onlus ha ricevuto dai detenuti e detenute delle due carceri e inoltrate al Dap e al ministero della Giustizia. “Con un altro messaggio - scrivono dal carcere di Torino - proviamo ad arrivare lì fuori per rompere il muro di silenzio che si sta alzando intorno a tutte le prigioni d’Italia. Dopo le rivolte, le proteste pacifiche, gli appelli passati in sordina, scritti sia da noi reclusi che da fuori: noi non ci rassegniamo a questo limbo. Non vince l’impotenza che dilaga tra queste mura. Non accettiamo di rimanere in silenzio di fronte a questa doppia pena a cui tutti noi siamo stati condannati nel corso dei diversi lockdown”. “Liberazione anticipata per fronteggiare l’emergenza Covid” - Le detenute e detenuti del carcere di Torino spiegano che queste loro parole sono rivolte a coloro che sostengono da più di un anno le loro proposte riguardo alla necessità dell’applicazione di misure deflattive: in primis l’ampliamento della liberazione anticipata a 75 giorni estesa a tutta la popolazione detenuta. “Necessaria - sottolineano nelle lettere - per fronteggiare sia l’emergenza Covid, sia lo stato di sovraffollamento che da troppo non permette a noi reclusi di vivere e superare degnamente il tempo della carcerazione”. Ma questa volta si rivolgono anche a coloro che del “buttiamo via la chiave” hanno fatto “una ragione di vita ed anche a coloro che credono che le carceri siano un hotel”. Le detenute e detenuti di Torino, nella lettera vorrebbero che si rendessero conto della realtà del carcere, perché “così come è “strutturato” non è proficuo né per i rei né per le vittime”. Aggiungono che la vendetta pubblica, risultato di questo sistema penitenziario, ha un effetto boomerang: gli effetti desocializzanti hanno la meglio su quelli rieducativi. “Rieducazione e reinserimento annoverati dalla Costituzione non sono la realtà”, sottolineano nell’appello. Per far comprendere meglio la realtà, le detenute e detenuti di Torino, fanno un semplice calcolo: 6(ore) X 12(mesi) = 72 ore totali, che rappresenta quanto sia alienante la carcerazione. “72 ore, pari a 3 giorni in un anno, è il tempo che viene autorizzato e concesso per i colloqui visivi, (per i detenuti al 4bis o al 41bis è ancora meno) tempo per coltivare affetti”, e ancora “45 giorni all’anno (suddivisi in 12 mesi) di permesso premio, beneficio raggiunto magari dopo anni, grazie alla buona condotta, per tornare ad approcciarsi con la realtà esterna e con gli affetti”. Ebbene denunciano che questo tempo a loro concesso, da più di un anno è ridotto se non bloccato, “con un aggravio sia sulla pena che sulla sfera psico-emotiva”. Sempre nell’appello rivolto alle autorità, ci tengono ben a tenere presente che non stanno chiedendo nessuna clemenza gratuita, bensì - scrivono - “il rispetto di articoli della Costituzione: 27 comma 3, Art. 3 e do articoli del cod. penale (146 e 147) i quali sanciscono l’uguaglianza di diritti e la preminenza del diritto alla salute sulla potestà punitiva dello Stato, a prescindere dal reato”. Per questo chiedono che si applichi l’ampliamento della liberazione anticipata estesa a tutta la popolazione detenuta. Anche i detenuti del carcere “Massama” di Oristano hanno scritto alla ministra - Com’è detto, si aggiunge anche un altro appello, a firma di decine di detenuti del carcere “Massama” di Oristano. La richiesta è la medesima, ovvero la liberazione anticipata speciale. “Speriamo nella sua sensibilità - scrivono i detenuti rivolgendosi alla ministra Cartabia - e capacità di comprendere quanto sia importante per noi avere un filo di speranza in questi luoghi così particolari”. L’associazione Yairaiha, inoltrando le due lettere alla ministra, coglie l’occasione per rinnovare la completa adesione alle proposte formulate, perché le ritiene assolutamente ragionevoli e, soprattutto, “necessarie affinché si possa ridare dignità alle persone recluse, risposte concrete all’emergenza pandemica e senso alla pena”. Ricordiamo che venerdì prossimo scadranno le misure “deflattive” per il carcere, quelle risultate insufficienti. Al senato, c’è Italia Viva che ha presentato l’emendamento per prorogare i termini. Rita Bernardini del Partito Radicale, parla di “minimo sindacale” visto che si tratterebbe di rinnovare le misure risultate insufficienti. Nel contempo, ci si augura che il governo accolga l’ordine del giorno del deputato Roberto Giachetti dove chiede di inserire la liberazione anticipata speciale. Anche questo, in fondo, si tratterebbe del minimo sindacale. Gli stessi detenuti e detenute, nell’appello, hanno dimostrato di essere realisti. Non chiedono indulto o amnistia, ma misure deflattive efficaci. Appello dal carcere: scuola contro la mafia. Indagine del Centro Pio La Torre articolo21.org, 27 aprile 2021 “Bisogna investire nella scuola in carcere, coltivando la fiducia nell’essere umano. Offrire nuove ‘finestrè alle quali potersi affacciare per vedere delle alternative a una vita sbagliata”. Così ha risposto uno studente detenuto al questionario sulla percezione del fenomeno mafioso somministrato dal centro studi Pio La Torre nell’ambito del Progetto educativo antimafia. L’iniziativa, sostenuta dal ministero dell’Istruzione, ha coinvolto per la 15esima edizione più di 600 scuole da Nord a Sud Italia, comprese alcune case circondariali. Ed è la scuola a rivelare tutta la sua centralità in questo anno pandemico: oltre il 65% del campione interpellato discute di mafia a scuola con i docenti, fenomeno che per i ragazzi può essere sconfitto boicottandone l’economia criminale con delle scelte di consumo più consapevoli. Quest’anno il campione degli studenti detenuti si è allargato agli alunni dell’istituto penale minorile di Catania “Bicocca” e “Malaspina” di Palermo, rivelando alcuni dati interessanti. Se per l’utenza di adulti, infatti, la mafia sarà definitivamente sconfitta e chi è stato ucciso per combatterla è “un eroe”, per alcuni minori è “meglio perdere la libertà che l’onore e il rispetto”, mostrando come “la giovane età sia più influenzata dagli stereotipi sulla mafia”, spiega Rita Barbera, vicepresidente del centro. “Emerge anche un desiderio di soldi, benessere - continua Barbera - si è alla ricerca di individualità pur di prendere una posizione, anche se sbagliata”. L’80% degli studenti ritiene però più utile, dovendo cercare un lavoro che li reintegri nella società una volta fuori, “dedicarsi all’agricoltura, studiare e avere una specializzazione”. Le principali cause dell’espansione delle mafie al centro-Nord, secondo la metafora della “linea della palma” profetizzata da Sciascia risiedono nella “corruzione della classe politica locale” per quasi il 55% del campione intervistato, seguito dalla “ricerca di nuovi territori per il riciclaggio” (circa il 30%). Per quanto riguarda il radicamento della mafia siciliana, invece, potendo fornire più di una risposta, i ragazzi ritengono sia colpa della corruzione della classe dirigente (quasi il 45%) delle scarse opportunità di lavoro (39,55%) e della mentalità dei cittadini (39,15%). Sul fronte della lotta per il 42,85% è fondamentale “non sostenere l’economia mafiosa”, per il 21,46% rivendicare i propri diritti e rispettare quelli altrui e, per quasi il 17%, “non essere omertosi”. Tra i comportamenti ritenuti più scorretti, in una scala che prevedeva più di due risposte, i ragazzi hanno messo al primo posto l’evasione delle tasse, odiosa per il 64,55%, il mancato rispetto dell’ambiente per oltre il 50%, seguito dall’assunzione dei lavoratori in nero, 36,74%. “La pandemia crea nuove disuguaglianze e povertà - ha detto Vito Lo Monaco, presidente del Centro - è interessante da questo punto di vista la centralità riconosciuta alla scuola e la convinzione dei ragazzi che, per trovare un lavoro, è meglio fare un corso di formazione o partecipare a un concorso, piuttosto che ricorrere alla raccomandazione di un mafioso. Trasversale l’impegno delle scuole da Nord a Sud: la scuola capofila è il Liceo Classico Vittorio Emanuele II di Palermo, scuole in rete: Liceo “Teresa Ciceri” di Como e I.T.I. “ Antonio Pacinotti” di Fondi (Lt). Con la nostra azione forniamo gli strumenti critici per capire il complesso fenomeno mafioso, ricordare quella legge Pio La Torre diventata la madre di tutta la legislazione antimafia successiva. Anche per questo, giovedì 29, alle 9, procederemo alla pulitura della lapide sul luogo dell’eccidio con alcuni studenti detenuti e gli allievi palermitani della scuola elementare Ragusa - Moleti, del liceo artistico Kyoara e dell’Itet Pio La Torre”. “Si è diffusa tra le generazioni più giovani la consapevolezza che è possibile agire in modo deciso contro la criminalità organizzata - dice Franco Garufi, vicepresidente del centro - resta da capire quanto inciderà sui giovani la lunga chiusura degli istituti e la forzata interruzione della socialità”. Anche per questo, nell’indagine di quest’anno sono state introdotte alcune domande sulle misure di contenimento della pandemia. Sul fronte dell’informazione aumenta il divario tra media on line e media tradizionali: oltre il 76% degli studenti interpellati si informa dai social network, appena il 2,73% legge i quotidiani cartacei. Venerdì 30 aprile, 39esimo anniversario dell’uccisione politico-mafiosa di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, saranno discussi i risultati dell’indagine in una videoconferenza dalle 10 che sarà trasmessa in streaming sul sito www.piolatorre.it e sul Portale Ansa Legalità. Fra gli altri interverranno: la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, il presidente della Camera, Roberto Fico, il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, il presidente dell’Ars, il sindaco di Palermo, i familiari delle vittime, i rappresentanti di sindacati, associazioni e, naturalmente, gli studenti. Nel cuore del Papa la dignità delle persone carcerate e degli anziani di Davide Dionisi e Benedetta Capelli vaticannews.va, 27 aprile 2021 A Vatican News l’intervista a Mauro De Palma, uno dei Garanti dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, ricevuto stamani dal Papa. “Grande condivisione con Francesco su molti temi e sul dolore degli invisibili”. Un dialogo franco e sincero è stato quello che i Garanti dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, Daniela de Robert, Emilia Rossi, hanno avuto stamani con Papa Francesco. Un colloquio incentrato soprattutto sulla distanza tra i diritti acquisiti e la realtà. Diritti che passano anche nel riconoscere all’altro la dignità di un nome. R. - È stata una conversazione assolutamente a largo raggio, i settori di cui si occupa il Garante sono quantomeno quattro: quello penale, il carcere; quello dei migranti, dei centri per i migranti con i rimpatri forzati; quello delle residenze sanitarie per anziani - e quindi delle RSA - e quello anche dei disabili. Tutti i settori che sono nell’agenda del Santo Padre in maniera chiarissima. Quindi lui era un interlocutore desideroso di sapere. L’imbarazzo e l’emozione che c’è inizialmente nel trovarsi seduti alla scrivania a dialogare con il Santo Padre, viene superata dal fatto di avere di fronte non una persona con cui parlare di cose distanti da lui, ma una persona che su quei temi ci mette tutto il suo impegno. Ha poi la sua esperienza e a me ha colpito come lui ricordi, per esempio, visite fatte ad alcune carceri o ad una casa famiglia... ricordi le persone, le situazioni. Il Garante che quadro ha tracciato al Santo Padre, qual è la situazione attualmente? R- Nelle varie aree, il quadro tracciato è di questo genere: l’essere privati della libertà, anche se per ragioni diverse, ha un elemento comune di maggiore vulnerabilità rispetto ai diritti e cioè diventare in un certo senso “anonimi”. Lo scorso anno, per esempio, rivolgendomi al Parlamento, avevo parlato del diritto al nome. Le faccio un esempio, i 130 migranti morti ieri sono dei numeri, non sono dei nomi. Così come quando l’anno scorso ci sono state le rivolte in carcere, i 13 morti non hanno un nome, sono numeri. L’anonimia come perdita di qualunque soggettività dell’essere persona. Questo è il punto su cui ho voluto un po’ concentrare la riflessione perché poi da qui discendono tutti i punti più tecnici. Un esempio è quello dei due baluardi che sono il diritto alla tutela della propria identità e il diritto alla tutela dell’integrità fisica e psichica. Baluardi che sono affermati da tutte le Dichiarazioni e Convenzioni. Eppure, la distanza che noi vediamo molto spesso tra i diritti enunciati e i diritti praticati è una distanza molto forte. Da qui, la necessità di costruire più solide reti sociali, più solide soglie di attenzione e quindi in qualche modo il Garante nazionale vuole essere un occhio su questi mondi che sono poco visibili. Ecco, questo è un po’ stata la traccia della mia introduzione. Prescrizione, Cartabia chiede unità alla vigilia dell’ok corral di Errico Novi Il Dubbio, 27 aprile 2021 Via libera ieri in Senato alla conversione del decreto voluto da Marta Cartabia su esame da avvocato. “In certi Tribunali lo spirito di condivisione ha vinto l’arretrato”, così la guardasigilli chiede unità alla vigilia del termine per gli emendamenti su ddl penale e prescrizione di Bonafede. È un passaggio, non quello che dà il titolo. Ma l’intervista di Marta Cartabia alla Stampa, la prima della guardasigilli dal giorno del giuramento, evoca non solo il metodo dell’unità, della rinuncia all’idea di poter rendere ogni “istanza” una “pretesa irriducibile e unilaterale”. Oltre a un appello che più tempestivo non poteva essere, rivolto alla vigilia del termine per gli emendamenti dei partiti sulla prescrizione, il messaggio della ministra chiama in causa anche qualche “perla della nostra giustizia”. Viene citato l’esempio del tribunale di Viterbo, che ha “funzionato benissimo in termini di abbattimento dell’arretrato”. Il “segreto”? Lo spirito di “aggregazione”. L’aver saputo “mettere insieme i vari soggetti e farli dialogare: i giudici, l’avvocatura, ma anche l’università, le istituzioni locali, il carcere”. Ecco, dice Cartabia, “quando il Tribunale diventa centro di aggregazione, immerso totalmente nel suo territorio, funziona”. La giustizia come sistema basato sul “co-protagonismo” - per usare un’espressione di Gianni Canzio - delle sue componenti. Innanzitutto magistratura e avvocatura. E soprattutto, la sinergia, il dialogo in funzione di un obiettivo che non può ridursi alle “bandierine” dei partiti ma che deve consistere in una missione che guardi alla tutela della persona. Si tratta di un linguaggio del tutto analogo a quello adottato dall’istituzione degli avvocati, il Cnf, nella “Proposta” al governo sul Recovery giustizia. È significativo che Cartabia lo proponga nelle stesse ore in cui dinanzi al Parlamento (ieri è toccato alla Camera) il presidente del Consiglio Mario Draghi espone i contenuti del Piano a cui l’Unione europea subordina l’erogazione del fondo Next generation Ue. La ministra invoca un cambio di prospettiva: dalle “bandierine” citate nell’intervista al direttore della Stampa Massimo Giannini, alla condivisione tipica dell’unità nazionale. Non a caso le parole della guardasigilli sono state affidate a uno dei maggiori quotidiani del Paese nel giorno della Liberazione. Ed è utile che il riferimento di Cartabia a un “grande patto”, così assimilabile a quello dell’immediato dopoguerra, arrivi a poche ore dal termine per gli emendamenti alla riforma del processo penale, slittata ancora un po’ (doveva essere oggi, se ne parlerà venerdì). Anche alle forze politiche che a breve si misureranno sulle modifiche al ddl Bonafede, e innanzitutto sulla prescrizione, la ministra della Giustizia ricorda di doversi mettere al servizio del Paese come magistrati e avvocati sanno mettersi al servizio dei cittadini nei Tribunali più efficienti. Cartabia ha ricevuto non poche critiche da una parte dei commentatori. Ad esempio dal direttore della Verità Maurizio Belpietro, che l’ha accusata di non aver detto con chiarezza come intende superare la prescrizione di Bonafede o le “lottizzazioni” del Csm. Ma la ministra non ha voluto fare da tutrice ai partiti: li ha chiamati alle loro responsabilità. Anche sulla capacità di trovare una “convergenza” sul processo penale, sulla prescrizione, sugli argomenti più divisivi. Perché aspettarsi che una presidente emerita della Corte costituzionale faccia l’incendiaria, anziché la promotrice di accordi? Non era necessario che, nella sua prima intervista da guardasigilli, Cartabia spiegasse come intende evitare il paradosso del “fine processo mai”, potenzialmente istituito dalla norma Bonafede. Anche perché, senza ricorrere ad affermazioni “conclusive”, la ministra ricorda che in questi primi due mesi e mezzo ha “indirizzato i primi passi nella direzione di ricreare un clima di fiducia reciproca”. Un riferimento anche al “lodo”, che lei stessa ha materialmente scritto, relativo proprio alla ragionevole durata del processo e alla prescrizione: un ordine del giorno condiviso da tutti i partiti di governo subito dopo il voto di fiducia. In quella “premessa” c’era un rifermento inequivocabile non solo al principio della ragionevole durata ma anche a quello, affermato all’articolo 27, del fine rieducativo della pena. Che, evocato a proposito della prescrizione, serve semplicemente a ricordare come sia insensato eseguire una condanna a distanza di troppo tempo dal reato, perché chi ne è ritenuto l’autore è diventato, nel frattempo, un’altra persona. La prescrizione esiste proprio per scongiurare questo paradosso. Cartabia lo sa bene. E forse si tratta solo di abituarsi all’idea che una costituzionalista parla con i princìpi della Carta, non con i toni ultimativi del tribuno. Riti alternativi e divieti d’impugnazione per il pm: così si archivia Bonafede di Valerio Valentini Il Foglio, 27 aprile 2021 Il Pd chiama Cartabia. L’impressione è che si voglia fare senza darlo a vedere: per evitare la gazzarra del M5S. E infatti quando Paolo Sisto, sottosegretario a Via Arenula, dice ai suoi colleghi di FI che “l’indirizzo del governo sulla giustizia, nel Pnrr, è ben chiaro”, fa evidentemente appello alla malizia di chi, dietro a quelle righe, sa leggerci più di quanto ci sia scritto. Ed è in questa direzione che pure il Pd vuole muoversi: archiviando le storture del grillismo sulla prescrizione ma senza stravolgere l’impianto della legge Bonafede. Con Marta Cartabia il Nazareno ha già fissato un appuntamento per domani, quando una delegazione di parlamentari, guidati dalla senatrice Anna Rossomando, responsabile Giustizia nella segreteria Letta, sarà ricevuta a Via Arenula. E sarà lì che gli esponenti del Pd avranno un primo riscontro dalla ministra sul pacchetto di emendamenti al ddl sulla riforma del processo penale, in discussione alla Camera, che proprio oggi verrà illustrato alla stampa. E che vedrà alcune significative novità rispetto alla legge voluta dall’ex Guardasigilli grillino al tempo del governo gialloverde. A partire dal più incandescente dei temi: quello della prescrizione. Su cui il Pd intende muoversi lungo un solco effettivamente tracciato nel Pnrr, e in particolare in un passaggio, a pagina 77, inserito non senza la contrarietà di un pezzo del M5s. L’orizzonte indicato è lì, in quella “cornice razionalizzata dove la prescrizione non rappresenti più l’unico rimedio di cui si munisce l’ordinamento nel caso in cui i tempi del processo si protraggano irragionevolmente”. Bonafede contesta che già nel suo impianto normativo le fasi processuali erano scandite con rigore, prevedendo sanzioni disciplinari per i magistrati che non rispettano i tempi indicati. Il che, però, oltre a essere inefficace, appare perfino controproducente. E così il Pd propone una soluzione completamente diversa, ricalcata sul modello spagnolo. Propone, cioè, l’improcedibilità dell’azione penale scaduti i tempi previsti per l’appello, in caso di sentenza di assoluzione in primo grado. Se invece in primo grado si è giunti a una condanna, si prevede un doppio termine per l’appello: oltre una certa durata, uno sconto di pena di un terzo; se invece i tempi si prolungano oltremodo, anche qui scatta l’estinzione del reato. Tutto sta a indicare le scadenze esatte delle fasi processuali: un onere che il Pd assegnerebbe al governo con una delega specifica. L’altro fronte esplosivo, a leggere gli emendamenti del Pd, è quello dei riti alternativi: e anche in questo caso il Nazareno si orienta con la bussola del Pnrr, laddove il documento si concentra “sulla possibilità di estinguere talune tipologie di reato mediante condotte riparatorie a tutela delle vittime”. Qui il riferimento è la Germania, che riesce a smaltire quasi 200 mila procedimenti all’anno grazie all’istituto dell’archiviazione condizionata, secondo il quale il pm può imporre all’imputato l’obbligo di alcuni atti riparatori (da risarcimenti pecuniari a lavori socialmente utili) all’adempimento dei quali si procede automaticamente all’archiviazione del reato. Il tutto, ovviamente, nell’attesa di conoscere, entro venerdì prossimo, quali saranno gli emendamenti depositati dagli altri partiti. Prima ovviamente della scadenza più importante: quella dell’8 maggio, quando a consegnare alla commissione Giustizia di Montecitorio le proprie proposte correttive sarà Via Arenula. La Cartabia ha chiesto al suo gruppo di lavoro sulla riforma del processo penale di stringere i tempi: e per questo tra oggi e giovedì il comitato di giuristi si riunirà per tre volte, per poi darsi appuntamento a mercoledì 5 maggio per la plenaria conclusiva. Dopo la quale, stando a quel che trapela, si proporrà anche d’inserire nella riforma del processo anche il divieto d’impugnazione da parte del pm delle sentenze d’assoluzione. No a prescrizione e Csm: troppo divisivi per Draghi di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2021 Convincere Bruxelles che le riforme per rendere efficiente la giustizia in Italia si faranno, pena la perdita dei soldi del Recovery Plan e, contemporaneamente, non dire nulla, ma proprio nulla che inneschi una miccia a combustione rapida che faccia consumare questa maggioranza di governo tenuta su con gli spilli. Ecco spiegato l’intervento del premier Mario Draghi ieri alla Camera incentrato sull’obiettivo di ridurre gli arretrati. Chi non sarebbe d’accordo? Ed ecco spiegato perché nel Pnrr, approvato dal Consiglio dei ministri, i capitoli dettagliati riguardano processo civile, ufficio del processo, digitalizzazione, edilizia giudiziaria e penitenziaria, vale a dire quelli ripresi dal piano dell’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Ma quando si legge di prescrizione - che per ogni maggioranza di governo è come la kryptonite per Superman - o di riforma del Csm, ci sono dichiarazioni di intenti, generiche, alcune scadenze e non molto altro perché centrodestra (con renziani annessi) e centrosinistra della maggioranza sono su fronti opposti. La ministra della Giustizia Marta Cartabia, consapevole che le fratture nella maggioranza, se va avanti così, porteranno alla caduta o alla paralisi, ha tentato un monito: “La giustizia è stata una trincea, ora - ha detto a La Stampa - deve diventare il terreno dove cercare una convergenza per il bene delle future generazioni”. E ieri, Draghi alla Camera ha provato a rassicurare e ha puntato su quanto nessuno, almeno a parole, metta in discussione che vada fatto, anche se proviene dal progetto del governo Conte. “La riforma della giustizia affrontai nodi strutturali del processo civile e penale. Nonostante i progressi degli ultimi anni, permangono ritardi eccessivi; ha detto il premier. Che si è soffermato sulla riforma civile, strategica per Bruxelles, per rilanciare gli investimenti stranieri in Italia, non divisiva per la maggioranza: “In media sono necessari oltre 500 giorni per concludere un procedimento civile in primo grado, a fronte dei circa 200 in Germania”. E ricorda punti essenziali già contenuti nella riforma Bonafede: “Il Piano rivede l’organizzazione degli uffici giudiziari e crea l’Ufficio del processo (voluto da Bonafede, ndr), una struttura a supporto del magistrato nella fase conoscitiva della causa. Nel campo della giustizia civile si semplifica il rito processuale in primo grado e in appello, e si dà definitivamente attuazione al processo telematico, come richiesto nei mesi scorsi dal Senato”. Ed ecco un altro passaggio per mettere al sicuro i soldi del Recovery: “Il governo intende ridurre l’inaccettabile arretrato presente nelle aule dei tribunali. È uno degli impegni più importanti ed espliciti che abbiamo preso verso l’Ue. L’obiettivo finale che ci proponiamo è ambizioso, ridurre i tempi dei processi del 40% per il settore civile e almeno del 25% per il penale; Nel Pnrr si parla anche delle oltre 20 mila assunzioni nel settore giustizia, presenti nel piano del governo precedente. Ma è quando il Pnrr tocca punti come Csm o prescrizione che si capisce quanto traballi la maggioranza. Partiamo dall’accenno alla prescrizione in puro politichese: “Vengono prese in considerazione eventuali iniziative concernenti la prescrizione del reato, inserite in una cornice razionalizzata e resa più efficiente, dove la prescrizione non rappresenti più l’unico rimedio di cui si munisce l’ordinamento nel caso in cui i tempi del processo si protraggano irragionevolmente”. E sulla riforma del Csm: “La Commissione si appresta a individuare un testo base sul quale proseguire l’esame, nell’alternativa tra il disegno di legge governativo e alcune proposte di iniziativa parlamentare” e ipotizza il voto a giugno. Il governo tanto deve barcamenarsi per non far scoppiare la maggioranza, che neanche a proposito dei processi d’appello - i più falcidiati dalla prescrizione, insieme ai procedimenti in udienza preliminare - si fa cenno all’ipotesi di un giudice monocratico anche in secondo grado, come propone la riforma Bonafede. Ma dai punti assenti (o generici) nel Pnrr, su riforma giustizia, non si può dedurre che non ci saranno nella riforma che voterà, se la voterà, il Parlamento. Si ha solo la conferma che la vera battaglia sui temi “caldi” è in Parlamento. A partire dalla commissione Giustizia della Camera dove la settimana scorsa hanno sì tutti votato (a eccezione di Azione) come testo base quello della riforma penale di Bonafede, ma si continua a rinviare i termini per presentare gli emendamenti, cartina tornasole di quanto succederà da qui all’autunno. Il termine ultimo era fissato al 24 aprile, poi a oggi e, infine, ieri è slittato a venerdì, mentre per il Csm la scadenza è il 17 maggio, in attesa della proposta del gruppo istituito al ministero da Cartabia. I tempi dei processi si abbasseranno del 40% nel civile e del 25 nel penale di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2021 Ad oggi un procedimento civile dura in media quasi tremila giorni: 527 solo per il primo grado. Secondo le stime del premier si abbasserebbe a 369 per il primo grado e in totale durerebbe meno di 1.800 giorni, circa cinque anni. Nel penale servono oggi circa quattro anni e mezzo per una sentenza definitiva, che diventerebbero poco più di tre se i numeri comunicati dal capo del governo fossero rispettati. Secondo Mario Draghi dopo l’entrata in vigore delle riforme della giustizia previste dal Recovery plan i tempi dei processi in Italia saranno drasticamente ridotti. Un obiettivo che lo stesso presidente del consiglio, durante le sue comunicazioni in Parlamento, ha definito “ambizioso” perché il capo del governo si propone di “ridurre i tempi dei processi del 40 per cento per il settore civile e almeno del 25 per cento per il penale”. Una stima che fino a questo momento non era stata resa nota. Nel testo del Recovery, infatti, il governo si limita a dire che “l’obiettivo fondamentale dei progetti e delle riforme nell’ambito del settore giustizia è la riduzione del tempo del giudizio, che oggi continua a registrare medie del tutto inadeguate”. Nessuna stima quantitativa, ma un orizzonte temporale fissato nella fine del 2024, data entro la quale “potrebbe verosimilmente stimarsi” l’impatto delle riforme sulla durata dei processi. La velocizzazione dei procedimenti era tra i primi punti del Country Specific Recommendations indirizzate dall’Europa all’Italia negli anni 2019 e 2020. Erano quelle condizioni ‘indispensabili’ per lo “sviluppo economico” che sarebbe provocato dai fondi del Recovery, perché una “giustizia rapida e di qualità stimola la concorrenza”, si legge nel testo del piano. Secondo l’ultima stima del Cepej, la commissione europea per l’efficacia della giustizia del consiglio d’Europa, in Italia per concludere un processo civile di primo grado occorrono in media 527 giorni: peggio fa solo la Grecia con 559, mentre la media europea è di 233. Sempre nel civile per arrivare a una sentenza di Appello servono altri 993 giorni, che diventano 1.442 se si attende la Cassazione. Vuol dire quasi tremila giorni per arrivare a una sentenza definitiva: più di otto anni. Secondo le stime di Draghi, dunque, la durata del processo civile si abbasserebbe a 369 giorni per il primo grado e in totale durerebbe meno di 1.800 giorni, circa cinque anni. Nel penale al momento in Italia servono circa quattro anni e mezzo (1.589 giorni) per avere una sentenza definitiva: 698 giorni per chiudere il primo grado, altri 759 per il secondo, 132 per la sentenza di Cassazione. Con una riduzione del 25% si passerebbe 524 per una sentenza di primo grado, 1.192 per una definitiva: cioè poco più di tre anni. Tempi che inizieranno a essere rispettati a partire dal 2024. Come si dovrebbe arrivare a queste stime? Con la riforma della giustizia che secondo Draghi “affronta i nodi strutturali del processo civile e penale. Nonostante i progressi degli ultimi anni, permangono ritardi eccessivi”, per usare le parole pronunciate dal presidente del consiglio per illustrare il Recovery in Parlamento. “Il Piano - ha aggiunto il capo del governo - rivede l’organizzazione degli uffici giudiziari e crea l’Ufficio del processo, una struttura a supporto del magistrato nella fase ‘conoscitiva’ della causa. Nel campo della giustizia civile si semplifica il rito processuale in primo grado e in appello, e si dà definitivamente attuazione al processo telematico, come richiesto nei mesi scorsi dal Senato”. L’organo di autotutela dei magistrati, allora cambiamolo così di Guido Neppi Modona Il Riformista, 27 aprile 2021 Al di là delle sentenze, quando la magistratura avverte l’esigenza di comunicare con la società o con altre istituzioni utilizza i due canali dell’Associazione nazionale magistrati (Anni) e del Consiglio superiore della magistratura (Csm). Le sciagurate vicende di corruzione e di malcostume giudiziario venute alla luce attraverso lo scandalo Palamara hanno inciso negativamente (e speriamo temporaneamente) sulla credibilità e l’affidabilità di questi due canali, ma per fortuna esiste una terza istanza idonea a portare all’esterno la voce della magistratura. Si tratta del ministro della Giustizia, carica attualmente ricoperta da una costituzionalista di indiscussa preparazione e prestigio quale è Marta Cartabia. Ebbene, di fronte alla crisi che sta attraversando la magistratura italiana - senza dubbio la più grave dell’intero periodo repubblicano - l’attuale ministra della Giustizia ha avvertito l’esigenza di rilasciare un’intervista a tutto campo pubblicata domenica scorsa su La Stampa, come per rassicurare l’opinione pubblica che, grazie a necessarie e opportune riforme, giustizia e magistratura continueranno a svolgere la loro funzione di caposaldi irrinunciabili dell’ordinamento democratico. In occasione dell’anniversario della Liberazione Marta Cartabia ha evocato il “patto fondativo” della Repubblica italiana tra forze politiche profondamente diverse e in contrasto tra loro, ma sorrette dal comune obiettivo di dotare la nazione di un’ottima Costituzione, che tuttora ci governa. Costituzione che esprime appunto il momento di equilibrio tra le contrapposte esigenze dei tre principali schieramenti politici presenti nell’Assemblea Costituente - socialcomunisti, democratici cristiani e liberali; equilibrio ora richiamato dalla ministra Cartabia in vista di un pacchetto di riforme ispirate dall’obiettivo comune di avere una giustizia rapida e amministrata da magistrati credibili. Marta Cartabia ha nominato commissioni di giuristi - magistrati, professori, avvocati - per affrontare e discutere insieme i principali nodi della crisi della giustizia, dalla logica spartitoria che attualmente connota l’attività delle “correnti” nell’attribuzione degli incarichi direttivi ai vari rimedi indispensabili per realizzare l’obbiettivo di una giustizia rapida: istituzione dell’ufficio del processo, formato da giovani laureati in giurisprudenza chiamati a coadiuvare giudici e pubblici ministeri nella loro attività quotidiana; aumento di 11.000 unità degli organici del personale amministrativo nel prossimo triennio; aumento del numero dei magistrati in rapporto alla popolazione; riforme del processo penale, civile e tributario; potenziamento di forme alternative di risoluzione delle controversie, quali l’arbitrato, la negoziazione assistita e la mediazione. Non ultima, evidentemente, è la riforma del Csm, a cui vorrei dedicare particolare attenzione. L’obiettivo principale dei costituenti fu di garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura dal potere politico, in radicale antitesi con la situazione - di fatto e anche in diritto per il pubblico ministero - di sostanziale dipendenza dal potere esecutivo durante lo stato liberale e poi, soprattutto, nel periodo fascista. Questo obiettivo si è tradotto nell’istituzione di un Csm formato per due terzi da componenti togati, eletti tra le varie categorie di magistrati, e per un terzo da componenti laici - professori e avvocati - eletti dal Parlamento. Ebbene, con il trascorrere degli anni e con la progressiva crisi del sistema politico nel Csm è specularmente aumentata l’incidenza dei magistrati, sino a forme di esasperata autotutela corporativa e di impropri rapporti con esponenti dei partiti. Si pone quindi il problema della riforma dell’organo di autogoverno della magistratura, che comporta necessariamente una modifica costituzionale. Se ne occuperà una apposita commissione istituita dalla ministra della giustizia, e non è questa la sede per entrare nei particolari. E comunque auspicabile che nel futuro Csm i magistrati non siano più in maggioranza e che il relativo sistema elettorale sia strutturato in maniera tale da escludere l’attuale degenerazione correntizia. Al fine di evitare un’eccessiva politicizzazione, dannosa tanto quanto lo strapotere delle correnti tra i magistrati, i componenti laici non dovrebbero più essere eletti dal Parlamento e non dovrebbero necessariamente essere tutti professori di materie giuridiche e avvocati; esponenti di rilievo della società civile potrebbero svolgere un ruolo positivo per evitare forme di autotutela corporativa capaci di estendersi dai magistrati al più vasto e altrettanto pericoloso ceto dei giuristi. Combatto ogni giorno per tutti: mai più un innocente dovrà finire dietro le sbarre di Ambrogio Crespi Il Riformista, 27 aprile 2021 Lettera dal Carcere di Opera al “Comitato di Nessuno tocchi Caino per Ambrogio Crespi”. Ciao a tutti, eccoci qua a scrivervi dal carcere. Voglio ringraziarvi tutti per quello che state facendo. Sento la vostra forza che sfonda queste sbarre. Io sto bene anche se ho passato i primi 30 giorni non proprio benissimo. Un viaggio molto difficile: la condanna, l’ingresso in carcere, il Covid, il trasferimento a San Vittore, poi l’ospedale, poi il rientro a Opera. Insomma non è mancato nulla. Però sapere di non essere solo è qualcosa di magico. Quando avete fatto la maratona oratoria per me non sono riuscito a sentirvi tutti e questo mi è dispiaciuto tanto, perché Radio Radicale ha fatto due collegamenti con la vostra diretta. Però sentire le vostre voci ha fatto si che si spezzassero queste sbarre. Siete entrati con forza dentro la mia anima e vi confesso che il mio cuore batteva fortissimo, non sono riuscito a non commuovermi. Ho avuto la sensazione di essere libero, perché le vostre parole sono state macigni di energia positiva. Per questo vi voglio ringraziare con tutto il mio cuore, sentirvi vicino è qualcosa di forte che mi emoziona come un bambino, è un sentimento indescrivibile. Sapere di essere innocente e stare chiuso in carcere di massima sicurezza, i pensieri, la tristezza, il dolore, sono tutti protagonisti della mia quotidianità, però io combatto! Ma non combatto solo per me, lo devo a tutti voi e per quelle persone che prima di me non potevano combattere per affermare la propria innocenza perché quando arriva il timbro “colpevole” dalla cassazione è finita. Strappano la tua anima. Devi pagare una pena da innocente e se penso a quante persone prima di me, mi sento male. Ma mai nessuna dovrà pagare questo prezzo dopo di me. Io credo profondamente nella Giustizia, però oggi questa fiducia non è così viva come prima. Stare chiuso in una cella in carcere senza aver fatto nulla porta a farti mille domande ma alla fine la domanda principale è sempre una: Perché? Forse come mi dice Rita Bernardini “Caro Ambrogio, ti tocca per tutti” e allora questo viaggio, non voglio chiamarlo “il viaggio del dolore”, anche se il dolore non manca qua dentro soprattutto dopo aver fatto le videochiamate con i miei piccoli amori Luca e Andrea, vivo un’emozione così contrastante di felicità e tristezza. Insieme alla mamma, gli abbiamo raccontato una storia. Io sono in missione in un bunker. Allora quando facciamo le videochiamate metto vicino al mio viso la radio che ho acquistato in carcere insieme a un orologio e faccio finta di parlare con la base tramite questo orologio e quando mi comunicano che il tempo a mia disposizione sta terminando allora accendo Radio radicale e loro pensano che mi stiano chiamando. Vedo nei miei bambini la loro felicità, il loro orgoglio e quella sensazione di emozione positiva. In realtà forse questa è davvero una missione, affinché non succeda più a nessuno. E voi fuori state facendo cose straordinarie, siete in trincea a combattere e questa consapevolezza mi fortifica. Coltivo il mio cuore insieme alla mia anima abbracciando l’amore e la forza. Il mio pensiero vola raso al mare con il vento salato e le gocce d’acqua sul viso. Io sono libero! Oggi la giustizia non può essere il luogo dove trovare l’uomo giusto e non la legge applicata. È solo una questione di fortuna. E questo vale anche in Cassazione. Deve finire questo inferno. Per questo non voglio chiamare questo viaggio “il viaggio del dolore” ma lo chiamerò “il viaggio della speranza”: spes contra spem, per avere una giustizia giusta per tutti. Noi tutti siamo la speranza per il cambiamento e per dire basta. Perché trovarsi seduto su uno sgabello con davanti a sé un tavolino e una finestra con le sbarre? Sposto lo sguardo fuori dalla finestra e mi pongo mille domande, poi mi dico che nulla capita per caso e voi tutti siete la speranza di questo viaggio. Il mio corpo è chiuso in questo inferno però la mia anima e la mia forza sono lì con voi, sono al vostro fianco e non mollerò mai. Lo devo a tutti. Non è il tempo che mi fa paura ma stare chiuso in un carcere di massima sicurezza con una “ostatività” che mi fa riflettere molto. Non è possibile dover essere “fortunati” per trovare la giustizia giusta. Io credevo profondamente nella Corte di Cassazione però anche in quel luogo devi trovare l’uomo giusto. Non è giustizia questa. E questo è stato per me un pugno in pieno cuore il giorno della conferma della condanna. Mi prendevo a pizzicotti perché pensavo fosse un incubo. L’ultima notte in casa ho dormito con i miei due bambini ed Helene, tutti insieme nel lettone. Si addormentavano tutte le notti con me ed Helene. Luca voleva sempre la mia mano per fare la nanna, questo da quando con mio fratello lo abbiamo salvato da quella piscina, mentre Andrea non si staccava mai da me facendoci sempre le coccole. Li avevo soprannominati Luca “la cozza” e Andrea “il Koala”. Io non mollerò per nessuna ragione al mondo e tornerò dalla mia cozza e dal mio koala, combatterò con tutte le mie energie. Non mi ammalerò ma rinascerò, perché l’amore della mia famiglia e di tutti voi è il motivo di questo viaggio della speranza e io vi ringrazio a tutti, uno ad uno. Viva la vita, viva la libertà… perché io sono libero! Spes contra Spem. Marchiati a vita: ora hanno arrestato e condannato il passato di Pasquale Zagari di Sandra Berardi* Il Dubbio, 27 aprile 2021 Avevo iniziato a scrivere della famiglia Zagari a dicembre del 2017, all’indomani dell’arresto di Italia, Rosita e Carmine, due sorelle e un fratello, che sono convinta, a leggerne le vicende, vittime del pregiudizio che alle latitudini calabre diventa marchio criminale. Poi ho desistito sperando che la Giustizia facesse il proprio corso. Ma che giustizia è quella che permette di condannare le persone ad anni e anni di carcere sulla base del nulla? E come non considerare “nulla” l’intercettazione del rumore di due comuni buste di spesa spostate in una macchina? E può il nulla di questa intercettazione determinare una condanna ad otto anni di carcere? Probabilmente no. In nessuna altra parte del mondo. Ma in Calabria si!, ed è possibile grazie al libero convincimento di un giudice che difficilmente sarà stato immune dai luoghi comuni e dalle narrazioni mediatiche. Come spiegare altrimenti quelle buste di spesa spostate in macchina diventate “verosimilmente” i viveri che si dovevano portare al latitante! Ecco, è bastato un avverbio scritto tra due cose comuni e un cognome “pesante” per trasformare una persona da madre di famiglia che fa la spesa in criminale da sbattere in galera per 8 anni. Per Carmine Zagari, invece, il non essere presente in nessuna riunione di quelle intercettate nell’operazione Terramara closed ha determinato la certezza che “l’assenza (alle riunioni ma anche dai discorsi intercettati) ne conferma lo spessore criminale ed è indiscutibile che sia il “capo” al punto da metterlo in 41 bis. Quella della famiglia Zagari è una storia come tante qua in Calabria, che ben rappresenta l’eredità mai sfumata della famigerata “Legge Pica”, dove il legame di sangue è di per sé elemento criminalizzante e il cognome diventa marchio di appartenenza ad un “locale di ndrangheta”. In questi casi non serve aver commesso un reato, basta amare un uomo o una donna della famiglia incriminata, o anche avere un semplice rapporto di amicizia, per ritrovarsi puntati i fari della Dda e magari indagati in una delle tante operazioni antimafia, spesso di facciata, tanto care alla novella inquisizione. Nei mesi scorsi l’ennesimo teorema sulla famiglia Zagari, a carico di Pasquale questa volta. E Pasquale Zagari, a differenza delle sorelle e del fratello, ha un passato. Un vissuto che appartiene, appunto, al suo passato; e con il quale ha chiuso da tempo immemore. Un uomo che ha trascorso più di metà della sua vita in carcere per fatti risalenti agli anni 80 e una condanna all’ergastolo per “concorso morale” in fatti di cui non poteva sapere niente e a cui non era nemmeno presente. Ma tant’è. Ora, dopo aver ottenuto il ricalcolo della pena grazie alla sentenza Scoppola che ha tramutato l’ergastolo in una condanna a tempo, il suo cognome, assieme al pregiudizio, sono bastati a farlo arrestare nuovamente con l’accusa di estorsione che non ha ragione di esistere, e nemmeno le “prove” esistono. Eppure il Pasquale Zagari di oggi è un uomo diverso, un uomo che è riuscito a cambiare, come rispondeva sempre a chi gli chiedeva se il cambiamento fosse maturato durante gli anni del carcere. Pasquale si è battuto a lungo affinché venisse riconosciuto questo cambiamento, sia mentre era ancora in carcere sia quando è uscito. Un uomo che ha preso le distanze pubblicamente e fattivamente dalle dinamiche criminali che avevano segnato la sua gioventù, diventando testimone di questo cambiamento nelle scuole e nelle piazze dove ha avuto l’opportunità di parlare, facendosi testimone di un’antimafia sociale, dal basso, che può venire solo da chi è riuscito a sconfiggere i presupposti degli errori del passato dentro di sé. Un’antimafia che non veste i panni dei “professionisti dell’antimafia” sempre pronti a individuare il nuovo nemico pubblico per non perdere la rendita di posizione acquisita. No, Pasquale è un uomo che ha pagato sulla propria pelle essere nato a Taurianova, chiamarsi Zagari e aver fatto scelte sbagliate. Ma tanto ha fatto e tanto ha pagato. Eppure, da queste parti non basta. Eh già! Il Pasquale Zagari cambiato va a sconfessare tutta una letteratura (e qualche carriera) costruita sulla “famiglia Zagari tra le cosche più potenti della Piana”. Figuriamoci il Pasquale Zagari cambiato che, addirittura torna al suo paese e prende parola in pubblica piazza contro la ‘ ndrangheta! Non può esistere! Non sia mai detto che un ex ‘ndranghetista possa diventare testimonianza vivente di quanto siano state sbagliate le proprie scelte e lanciare messaggi positivi ai giovani, che non ripetano i suoi errori, pagati uno a uno, e a caro prezzo. No, a Pasquale non è concesso. Avrebbe potuto rifarsi una vita lontano dalla sua terra, come pure aveva iniziato a fare da quando era uscito: prima a Como, poi a Padova e a Roma. Bussando con pazienza a tutte le porte per trovare un lavoro e provare a costruirsi un futuro nel poco futuro rimasto; e ci stava riuscendo pure. L’estate scorsa è venuto a trovarmi a Cosenza; aveva mille idee e progetti per continuare quel cammino di denuncia e riscatto sociale che aveva iniziato ad assaporare tra gli studenti e le persone normali, tutti letteralmente rapiti da quella sua narrazione che non fa sconti a nessuno. A cominciare da se stesso. E non ne fa alla ‘ ndrangheta, che al Pasquale di oggi fa schifo, e lo rimarca pubblicamente. Non è antimafia questa? Ecco, quello che hanno arrestato, e che vogliono condannare, è il passato di Pasquale Zagari, volutamente ignorando e calpestando l’uomo di oggi; l’uomo che negli ultimi anni stava facendo di tutto per ricucire lo strappo con la società di 40 anni prima. E ci stava riuscendo. *Presidente Yairaiha Onlus Calabria. Covid, nelle carceri vaccinazioni in corso di Anna Foti ilreggino.it, 27 aprile 2021 Il Garante Siviglia: “Sforzo corale per preservare i detenuti”. La somministrazione del siero in atto in tutti gli istituti penitenziari della regione. “Ad oggi, su una popolazione che in Calabria supera le 2.500 persone, sono 1.000 i detenuti che risultano essere stati già vaccinati”. Questo il quadro delineato dal garante regionale delle Persone private della libertà personale Agostino Siviglia, che ha assicurato la somministrazione del siero protettivo in atto in tutti e 12 gli istituti penitenziari calabresi. “La vaccinazione è in corso, sia per le persone detenute che per il personale impegnato nelle carceri, in tutte le province con qualche ritardo che si sta recuperando nel cosentino”, ha spiegato il garante regionale. In un certo frangente messa in discussione la loro presenza, a seguito della mobilitazione dei garanti delle Persone detenute, le carceri sono tornate a figurare in questa fase del piano vaccinale, producendo una ripresa anche in Calabria, dove il focolaio accertato nel carcere di Catanzaro, con 100 detenuti e una ventina di agenti di polizia penitenziaria contagiati in un’unica sezione e purtroppo due decessi, aveva destato grande preoccupazione. Una situazione, quella del carcere di capoluogo di regione ad oggi rientrata. L’emergenza nell’emergenza a Catanzaro - “Nelle tre settimane successive all’individuazione del focolaio si è proceduto con l’isolamento delle persone contagiate che per venti giorni sono rimaste nella camera di pernottamento senza poter uscire, neppure per l’ora d’aria, e senza avere contatti, proprio per evitare ulteriori contagi. Un sacrificio che ha prodotto risultati dal momento che ad oggi la negativizzazione è quasi completa. Vi sono solo otto detenuti e quattro agenti di polizia penitenziari ancora positivi. Grazie all’impegno tempestivo della direttrice Angela Paravati, incrementata anche l’attività di prevenzione con la somministrazione di tamponi e implementato di cinque unità lo staff di infermieri in servizio presso quella sezione dove, è immaginabile, quanto sia stato complicato e complesso gestire l’emergenza. In qualità di garante ho subito sollecitato le vaccinazioni, avviate lo scorso 26 marzo. Dopo una breve interruzione, per via di una decisione del commissario straordinario Figliuolo poi mediata dall’intervento di noi garanti, le vaccinazioni sono riprese regolarmente e adesso sono in corso in tutte carceri calabresi”, ha evidenziato ancora il garante regionale. Situazione sotto controllo - Su una popolazione di 2.573 detenuti, in Calabria il contagio ha riguardato circa 120 persone, di cui un centinaio solo a Catanzaro. “Il virus, che nelle prime ondate non aveva riguardato le carceri nella nostra regione, nel mese di marzo ha fatto registrato un allarme nel carcere catanzarese subito fronteggiato e superato. Qualche contagio c’è stato anche nelle carceri di Vibo, Crotone, Cosenza, Reggio Calabria, Locri ma la situazione è stata prontamente gestita senza particolari criticità. Lo sforzo da parte del Dipartimento amministrazione penitenziaria, dei Garanti e del Servizio sanitario nazionale, al quale afferisce la salute nelle carceri, è stato corale”, ha spiegato ancora il garante Agostino Siviglia. Le conseguenze della pandemia - Nonostante la limitatezza dei contagi, l’emergenza ha avuto un impatto molto forte sulla vita dei detenuti. “L’emergenza Covid ha aggravato la condizione di isolamento dei detenuti. Il mondo carcerario è chiuso e la pandemia, per motivi di sicurezza, lo ha escluso ulteriormente. Si è resa infatti necessaria la sospensione delle attività trattamentali legate alla dimensione ludico-ricreativa, culturale e teatrale. L’accesso ai volontari è stato precluso. Durissima prova anche per la dimensione affettiva con l’impossibilità di incontrare i familiari in presenza. Gli stessi spostamenti per andare a trovare un familiare detenuto non sono, infatti, giustificati per motivi di necessità e urgenza. Misure molto severe, finalizzate a proteggere l’ambiente carcerario dove la gestione degli spazi non ha margini molto ampi e dove sarebbe molto complicato gestire e contenere una eventuale diffusione del virus. Persino le attività scolastiche hanno subito una diversa e non uniforme organizzazione. Non tutti gli istituti penitenziari sono, infatti, dotati di cablaggio tale da potere garantire la didattica a distanza. Al momento possono garantirla gli istituti di Catanzaro, Crotone, Cosenza, Palmi. Negli altri c’è comunque il massimo impegno dell’area educativa-pedagogica per assicurare l’attività tramite, per esempio, l’invio di materiale con posta elettronica e altre soluzioni alternative”, ha sottolineato Agostino Siviglia. In Calabria un sovraffollamento minimo - Se dunque prima della pandemia il miglioramento registrato sul fronte del sovraffollamento nazionale - la popolazione carceraria scesa da 66 mila persone e più di 50mila - faceva ben sperare per un aumento complessivo degli standard detentivi, oggi negativa è un’altra valutazione. “Il sovraffollamento in Calabria riguarda solo qualche istituto e con numeri non critici. Per esempio a Crotone su una capienza di 90 persone, ne sono presenti 120. Situazioni nella norma invece, a Reggio Calabria, con 160 detenuti come da capienza, ad Arghillà con circa 280 detenuti a fronte di una capienza di 300 persone e a Catanzaro, il carcere più grande e articolato, con circa 560 persone a fronte di una capienza di 600 detenuti. Ad oggi dunque le valutazioni critiche, a livello nazionale, riguardano la qualità della vita detentiva, privata del vitale contatto con i familiari e con l’esterno. Una condizione sulla quale, appena la pandemia lo consentirà, si interverrà subito ma sempre con la cautela necessaria”, ha concluso il garante regionale per le Persone detenute Agostino Siviglia. Roma. La Garante dei detenuti: “A Rebibbia 60 donne positive al Covid su 300” di Tommaso Panza ildigitale.it, 27 aprile 2021 Interpellata sul focolaio Covid nell’ala femminile del carcere di Rebibbia, Gabriella Stramaccioni ha raccontato cosa sta succedendo, parlando anche di vaccini, malati psichiatrici detenuti e non solo. Gabriella Stramaccioni è la garante dei detenuti di Roma, da sempre attiva nel campo della salvaguardia dei diritti umani e nominata dalla giunta Raggi nel 2017. Dottoressa Gabriella Stramaccioni, nei giorni scorsi lei ha parlato di un focolaio di Covid nell’ala femminile del carcere di Rebibbia, ci spiega che cosa è successo? Al momento abbiamo 70 casi su 300, circa il 25% della popolazione femminile detenuta a Rebibbia. Il focolaio nell’ala femminile è già il secondo che si verifica, il primo lo abbiamo avuto a dicembre con più di 20 donne contagiate. Questa volta è stata una situazione un pò strana perché già da qualche mese il femminile era chiuso e non c’erano ingressi. Inoltre erano cessate le attività, comprese quello scolastiche, quindi diciamo era un carcere abbastanza “protetto”. Il virus si è diffuso rapidamente, poi come ben risaputo in carcere il distanziamento è impossibile da mantenere. Le donne vivono e mangiano insieme per cui il virus si è propagato molto velocemente. Attualmente i casi dovrebbero essere scesi a 60, speriamo che con l’isolamento dei prossimi giorni si possa arrivare a un azzeramento. Giovedì 22 sono cominciati anche i vaccini a Rebibbia e in tutti gli istituti del Lazio, all’inizio verrà vaccinata solo la popolazione detenuta, poi dopo qualche giorno si passerà agli agenti di polizia penitenziaria. Sono 10.500 dosi destinate a tutti gli istituti penitenziari della regione, il vaccino è Moderna e non più Johnson & Johnson come era previsto inizialmente. Sarà quindi necessario fare una seconda dose dopo 28 giorni. Posso dire che questa mattina si respirava un’aria di incoraggiamento. I detenuti di oggi si sono vaccinati tutti o qualcuno si è rifiutato? Allora la prima fase precedente al vaccino prevede uno screening. C’è un colloquio con un operatore e bisogna rilasciare un’autorizzazione a fare il vaccino, altrimenti si fa il diniego. Questa mattina in pochissimi si sono rifiutati, alcuni erano stranieri ma secondo me è capitato solo perché non sono riusciti a comprendere la situazione. La maggior parte comunque si è vaccinata. Poi chiaramente non c’è l’obbligo. In che modo sono state isolate le donne positive dal resto della popolazione penitenziaria? Sono state tutte spostate nella sezione Camerotti, dove sono state isolate dalle altre detenute. È un isolamento per persone positive non potendo stare in camere singole, quindi vengono curate li. Fortunatamente sono tutte asintomatiche, quindi questo ha sicuramente aiutato. Tutto questo però ha messo in luce la questione strutturale del carcere: il carcere non è pensato per ospitare persone che soffrono o hanno patologie, oppure che addirittura hanno bisogno, come in questo caso, di un distanziamento fisico, tutto ciò in carcere è impossibile. Per questo è difficile arginare il Covid, così come tante altre malattie che in carcere sono presenti. Io personalmente ho assistito a casi frequenti di tubercolosi. Non scordiamoci che tante persone che arrivano in carcere vengono dalla strada, quindi da situazioni già di difficoltà. Poi diciamo che queste patologie non vengono individuate e bloccate, anche se adesso il Covid ha portato un maggiore controllo. Però in condizioni normali questo non avveniva e quindi qualsiasi malattia in carcere rischiava di diffondersi in maniera molto più prepotente. Attualmente ci sono anche donne incinta tra le detenute di Rebibbia? Attualmente abbiano solo una donna in stato di gravidanza e si trova nel reparto maternità, ma uscirà a breve. Altre due donne in stato di gravidanza stavano per essere mandate qui da Civitavecchia, ma fortunatamente l’infettivologa ne ha negato l’accesso. Mentre abbiamo invece una mamma positiva con un bambino di un mese. Non appena diventerà negativa, potrebbe essere questione di ore, tornerà a casa presso il campo rom dove viveva prima. Il magistrato l’ha già autorizzata per l’uscita. Per queste donne, sia per quelle in stato di gravidanza che per quelle che hanno bambini piccoli, il carcere non dovrebbe essere previsto, nemmeno per transitarci. Devono assolutamente andare nelle case accoglienza o nelle comunità sin da subito. In questi giorni si parla sempre più spesso delle scarcerazioni riguardanti i malati psichiatrici o quantomeno di inserirli in un percorso loro idoneo: lei, in quanto garante, che posizione nutre a riguardo? Scarcerarli è doveroso, poi ci sono ovviamente tanti casi su cui ci sono provvedimenti e misure di sicurezza. Il problema è che ci deve essere una maggiore presa in carico dai servizi riguardo le persone che soffrono di problemi psichiatrici, in carcere sicuramente non possono essere curate. In questo periodo molto difficile a maggior ragione. Ci sono state infatti accentuazioni di casi di malattie mentali, abbiamo inoltre bisogno di avere più posti perché quelli che ci sono non sono sufficienti. Riguardo questo tema, le istituzioni che cosa pensano? Sia il Ministero (Grazia e Giustizia) che il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) sulla carta sono d’accordo. Però poi di fatto la questione sanitaria è in carico alle Asl e quindi al Ministero della salute. Gli accordi iniziali prevedevano inoltre la chiusura degli Opg (Ospedale psichiatrico giudiziario) con la creazione di posti alternativi, ma questo ancora non si è realizzato pienamente. Abbiamo quindi una situazione paradossale, poiché in carcere arrivano tante situazioni di malati psichiatrici che invece dovrebbero essere curati in misure alternative all’interno di strutture adeguate. Invece restano in carcere. Il carcere è un luogo difficile da gestire in condizioni di normalità, in una situazione di emergenza come questa diventa tutto più complicato. Poi non scordiamoci che in questo periodo hanno anche lavorato a rilento le varie cancellerie, la magistratura di sorveglianza, educatori, tutti hanno rallentato. Le persone in carcere hanno costantemente bisogno di avere le cure adeguate. Oltre ad avere diritto tutti a un trattamento educativo, che è poi la finalità della pena. Non ci può essere soltanto la pena senza una finalità educativa. Lei pensa che in questo periodo i magistrati di sorveglianza abbiamo più difficoltà a decidere di scarcerare qualcuno? Io penso che i magistrati in genere cerchino di rispettare la legge. Le leggi attuali poi devo dire, magari fossero applicate completamente, probabilmente le carceri potrebbero essere meno affollate. Ti spiego: ci sono delle leggi che per esempio presentano delle incompatibilità col carcere per motivi di salute. Eppure io so di tantissime persone che pur essendo state dichiarate incompatibili sono ancora in carcere. La legge prevede inoltre che superata la soglia dei 70 anni, a meno che non sia per reati molto gravi, non dovresti andare in carcere. Mamme con bambini, gente che viene dal mondo della tossicodipendenza. Se hai una pena sotto i 4 anni puoi essere affidato a strutture esterne, sotto i 18 mesi puoi andare in affidamento prova o ai domiciliari. Ci sono tutte queste serie di leggi che se ben utilizzate potrebbero favorire alcune uscite. Ma anche qui mancano le risorse. Io conosco bene il tribunale di sorveglianza di Roma: manca il personale, mancano i magistrati, le cancellerie lavorano a rilento. Tutto questo quindi non fa altro che ritardare i procedimenti. Abbiamo parlato del focolaio di Rebibbia, com’è invece la situazione in provincia di Roma? Civitavecchia adesso ha un piccolo focolaio con una dozzina di positivi. Un carcere che fino a oggi ha retto molto bene. Sono stata la scorsa settimana a Velletri e fortunatamente in questi mesi non sono stati riscontrati positivi. A tal punto che lì per esempio la parte didattica non si è mai interrotta, gli insegnanti hanno continuato a entrare. Diciamo che tutto sommato fino a oggi sono riusciti a superare questa parte critica. Certo però anche lì mi rendo conto che a Velletri ci sono circa 300 definitivi su una popolazione tra i 450 e i 500 detenuti, e su un così alto numero di definitivi ci sono poche misure alternative, attività, anche di tipo lavorativo, quindi magari qualcosa in più da questo punto di vista potrebbe essere fatto. Napoli. Lotta alla camorra. Clan, la scossa di don Mimmo alla chiesa di Antonio Mattone Il Mattino, 27 aprile 2021 Una sedia messa sulla strada per occupare un posto auto. Un espediente utilizzato per sancire con arroganza un diritto non acquisito, per rivendicare una proprietà che non si possiede. Da qui è iniziata la lite che poi ha avuto il tragico epilogo che ha portato all’omicidio di Maurizio Cerrato a Torre Annunziata. Quante volte abbiamo visto uno “stendi-panni”, un secchio, un qualsiasi oggetto ingombrante davanti a un marciapiede per scoraggiare dall’idea di parcheggiare la propria autovettura in uno spazio considerato territorio proprio e inviolabile. E quanti, tra coloro che hanno voluto sfidare questa prepotenza, si sono poi ritrovarti con le gomme bucate! Chi si sentiva padrone di quel lembo di strada di Torre Annunziata, questa volta è andato oltre. Non si poteva consentire l’affronto di chi, spostando quella sedia, non ha riconosciuto il potere su quello stallo. Come bestie feroci si sono scagliati con inaudita violenza contro il povero custode degli scavi di Pompei, e mentre in tre lo trattenevano, un quarto componente del branco ha compiuto lo scempio, accoltellandolo a morte. È una scena che si ripete troppo spesso dalle nostre parti. Uomini rapaci si scagliano contro vittime inermi colpendole senza pietà, fino togliergli la vita. Era avvenuto tre anni fa a Francesco Della Corte, la guardia giurata uccisa a bastonate da tre minorenni alla stazione della metropolitana di Piscinola. Questa volta è accaduto a Torre Annunziata, nel quartiere chiamato Provolera, dove un tempo abitavano gli addetti della attigua “Real fabbrica di polvere”, la cosiddetta Polveriera. Periferie senza più connessione con il centro della città, dove si va consolidando un processo di marginalizzazione e si vanno smarrendo l’identità comune e un destino condiviso dalla popolazione locale. A differenza dell’episodio di cui rimase vittima Della Corte, a Torre Annunziata ci sono state delle persone che hanno assistito all’aggressione, testimoni che però non hanno voluto fornire la loro collaborazione. Un fatto grave, che seppur motivato dalla paura, ha rischiato di isolare ancor di più la famiglia della vittima, mentre invece queste testimonianze avrebbero potuto dare una svolta alle indagini. La tempestiva azione investigativa dei Carabinieri ha però permesso di individuare gli assassini che sono finiti in carcere. Tuttavia, nelle pieghe di questa drammatica vicenda, mi sembra di poter scorgere due fatti nuovi. Innanzitutto le ferme parole dell’arcivescovo di Napoli durante le esequie di Cerrato: “La prima mafia si annida nell’indifferenza, nel puntare il dito senza far nulla e girarsi dall’altra parte”. Una presa di posizione netta rivolta anche a “tutti i preti e a tutti i cristiani” a cui don Mimmo ha chiesto chiarezza di vita e coraggio, fino al martirio. “Non mi spaventa il rumore dei violenti ma il silenzio degli onesti”, ha ribadito Battaglia. Affermazioni che delineano una sollecitudine ancora più decisa della chiesa di Napoli nel denunciare quei comportamenti malavitosi e omertosi che permettono alla camorra di espandersi senza alcun freno. Una nuova prospettiva che potrebbe dar vita ad una stagione rinnovata di impegno contro la mentalità camorrista e il malaffare che tante volte sembrano sopraffare e soffocare Napoli e il suo hinterland. In un piccolo ma significativo sondaggio fatto tra alcuni giovani impegnati nelle parrocchie e nelle realtà associative ecclesiali, è emerso che il 70% di questi lascerebbe Napoli, avendone la possibilità. Non è solo la mancanza di lavoro a determinare questa volontà. La presenza della malavita, l’illegalità diffusa e la mancanza di coesione tra gli attori istituzionale e della società civile sono fattori altrettanto importanti che stanno determinando un senso di scoraggiamento e di disaffezione tra le nuove generazioni, che non riescono ad intravedere il proprio futuro nella terra dove si è nati. È un fenomeno preoccupante che non lascia indifferente la chiesa napoletana. L’altro elemento rilevante nella vicenda di Torre Annunziata è stata la grande reazione della famiglia di Cerrato. Le parole di Maria Adriana, la figlia ventenne del custode, fanno emergere un luminoso senso civico e una grande speranza. Di fronte all’omertà che ha caratterizzato le prime fasi dell’omicidio la ragazza ha affermato di non voler giudicare nessuno, ma ha invitato i suoi concittadini a compiere un cambio di mentalità: “Torre Annunziata deve cambiare ed io farò di tutto perché questo avvenga. Tutti sono in tempo di poter cambiare, per poter capire cosa è giusto e cosa è sbagliato”. E da oggi, quando vedremo una sedia messa davanti a un marciapiede per impedire che qualcuno possa occuparlo, non potremo non pensare alla forza e al coraggio di questa ragazza che sogna un futuro di giustizia e un avvenire dignitoso per sé e per la sua generazione. Udine. In memoria di Giulio Regeni, conferita la cittadinanza onoraria a Patrick Zaki di Giancarlo Virgilio telefriuli.it, 27 aprile 2021 Il Consiglio comunale a sostegno dello studente egiziano dell’Università di Bologna detenuto dal 7 febbraio 2020. L’aula ha anche nominato Franco Corleone garante dei Diritti dei detenuti nel carcere di Udine. Ieri sera, il Consiglio Comunale di Udine ha approvato all’unanimità, con l’astensione dei consiglieri di Fratelli d’Italia, il conferimento della cittadinanza onoraria a Patrick Zaki, lo studente 30enne dell’Università di Bologna, detenuto da oltre un anno in Egitto. La delibera, depositata da Sara Rosso, Eleonora Meloni e Monica Paviotti del Partito Democratico, ha trovato il consenso dell’aula e il favore dello stesso primo cittadino. “La politica deve dare un forte segnale alla comunità internazionale, di solidarietà e attenzione alla tutela dei diritti umani”, ha spiegato Pietro Fontanini. “Come sindaco di Udine ritengo sia nostro dovere esprimergli la nostra solidarietà e condannare un governo illiberale come quello egiziano, anche per onorare la memoria del nostro Giulio Regeni”. Ma in aula sono state votate altre due importanti iniziative a favore dei diritti umani. Tra queste, la mozione di sentimenti a favore di Ambra Canciani, la studentessa 26enne dell’Università di Udine (rappresentante degli studenti Ardiss Fvg, presidente del consiglio degli studenti Uniud e rappresentante al Dipartimento di scienze giuridiche) insultata a San Daniele per il colore della sua pelle. Non solo. Sempre ieri sera, il consiglio ha eletto il nuovo garante per i diritti dei detenuti del carcere di Udine, Franco Corleone, già sottosegretario alla Giustizia. “Non posso che esprimere soddisfazione per la nomina - ha affermato Fontanini - Si tratta di una figura il cui nome abbiamo sostenuto fin dall’inizio per l’esperienza maturata attraverso molti incarichi di prestigio e per avere fatto della condizione carceraria, intesa come uno dei parametri privilegiati per misurare l’effettivo livello di democraticità di un ordinamento, una vera e propria missione politica, culturale e umana. Il curriculum di Corleone parla d’altra parte da sé ed evidenzia inoltre l’attenzione da sempre dimostrata verso la realtà udinese e friulana - ha proseguito Fontanini. Inoltre, conosce molto bene la realtà udinese e friulana, anche perché sua madre è di origine carnica”. “Nel dare il benvenuto al Dott. Corleone, che ringrazio per essersi messo a disposizione per questo delicato incarico che, voglio ricordare, viene svolto gratuitamente, desidero ringraziare il Garante uscente, Dott.ssa Natascia Marzinotto, per avere portato avanti in questi anni il proprio ruolo con equilibrio, riuscendo a stabilire un dialogo costante e costruttivo con la direzione del carcere e a far diventare la struttura, attraverso progetti di formazione e reinserimento sociale e nonostante i margini di miglioramento che ancora permangono, uno dei carceri meglio funzionanti in Italia, come testimonia il fatto che il Garante nazionale non abbia mai ritenuto necessario venire in visita a Udine”, conclude il Sindaco. Livorno. Giovane tunisino in fuga dalla polizia muore annegato nel fiume di Dario Antonelli Il Manifesto, 27 aprile 2021 Fares Shgater aveva 25 anni era nato ad Ariana in Tunisia e abitava a Livorno. Nella notte tra il 24 e il 25 aprile è morto nel corso di un controllo di polizia. Il suo corpo è stato ritrovato dai Vigili del Fuoco a circa quattro metri di profondità nel Fosso Reale, lo specchio d’acqua di fronte alla Fortezza Nuova, a sei metri dall’ingresso del Voltone, la via d’acqua che passa sotto Piazza della Repubblica. Intorno alle 23:30 una pattuglia della polizia avrebbe provato a fermare Fares nell’area tra Piazza della Repubblica e Piazza Garibaldi. Non è chiaro in che maniera sia finito nell’acqua, ma ad ogni modo non ne è uscito vivo. Sul momento erano intervenuti anche due militari della Folgore in servizio per l’operazione strade sicure. Secondo la stampa locale senza calarsi in acqua gli agenti e i militari avrebbero cercato il giovane con delle torce, per poi chiamare i soccorsi. Dal giorno successivo gli amici di Fares si ritrovano sulla spalletta che si affaccia sul Fosso Reale proprio nel punto in cui è stato rinvenuto il suo corpo. Questo è diventato un luogo di memoria, di dolore, ma anche di aggregazione e confronto di fronte alla rabbia per la morte di un amico. Sono state tese delle corde tra i lampioni per appendere foto e messaggi di affetto per Fares, oltre ad alcuni striscioni che in arabo e in italiano chiedono giustizia “Stop alla violenza e al silenzio”. Sul muretto sono comparsi ceri e candele, e si legge a caratteri neri “Giustizia per Fares” e “Basta razzismo!”. Alle 15 del 26 aprile tanti ragazzi originari della Tunisia si sono dati ritrovo in quel punto. Hanno tanta voglia di parlare e raccontano di precedenti episodi di violenza durante i controlli di polizia “nel 2013 mi hanno gettato nell’acqua i poliziotti”, racconta uno dei presenti. Altre voci riportano simili storie di minacce e violenza. “Non si può morire così, siamo tutti uguali, non importa se sei straniero o se commetti dei reati” dice una ragazza. In Piazza della Repubblica ci sono due camionette della polizia e numerosi agenti. Med Amine è cresciuto insieme a Fares, sono arrivati qua insieme, sono come fratelli. “Vogliamo sapere cosa è successo. Non si può morire così. Fares aveva il permesso di soggiorno di sei mesi, tra poco avrebbe avuto un lavoro, non gli hanno trovato addosso droga o altro. Se scappava è perché noi tunisini abbiamo sempre paura dei controlli, paura della polizia, paura di essere rimpatriati per un qualsiasi motivo, dopo tutto quello che abbiamo passato per arrivare qua”. Il 27 aprile, dice Med, “il nostro avvocato dovrebbe incontrare il magistrato per chiedere le riprese delle telecamere della zona e vedere cosa è successo davvero”. Alle 17 gli amici di Fares si mossi verso la questura con un piccolo e rumoroso corteo, aggirando i blocchi della polizia. In piazza erano presenti anche molti solidali, abitanti del quartiere, membri di altre comunità straniere, associazioni e collettivi. Una delegazione è stata ricevuta dal questore, che si è limitato a dire, secondo i presenti, che si aspetta il lavoro della magistratura. La Procura di Livorno ha infatti aperto un fascicolo sul caso. Gli amici di Fares e i solidali attendono chiarezza sul caso e comunque ribadiscono che non si può morire in questo modo, e chiedono che la vicenda di Fares non finisca nel silenzio. Ancona. Dal progetto del carcere di Barcaglione alla tavola dei consumatori anconatoday.it, 27 aprile 2021 Carne di ottima qualità, nel segno della filiera cortissima e anche utile nel sociale. È l’Agnello di Barcaglione, allevato all’interno della fattoria dell’omonima casa di reclusione anconetana grazie al progetto di recupero per detenuti, ora venduto all’esterno grazie alla collaborazione con l’azienda agricola dei Fratelli Giangiacomi. Trait d’union tra queste due realtà confinanti tra loro sul colle a nord del capoluogo dorico è stato l’infaticabile Antonio Carletti, presidente di Federpensionati Coldiretti Ancona e tutor dell’orto sociale del carcere. Giangiacomi, socio di Coldiretti Ancona, alleva bovini, maiali e coltiva foraggio per la loro alimentazione tra Barcaglione e Casine di Paterno. Una realtà storica che controlla tutta la filiera e si allunga fino al consumatore finale attraverso il punto vendita aziendale, aperto 13 anni fa. Dall’allevatore alla tavola. “Seguiamo la filosofia della qualità e del chilometro zero da sempre - spiega Diletta Giangiacomi, terza generazione al lavoro nell’impresa di famiglia - ed è proprio pensando a tutto ciò che abbiamo deciso di aderire a questo progetto con il carcere. L’Agnello di Barcaglione nasce e cresce qui in questa collina. Una filiera cortissima che è garanzia di qualità, oggi sempre più ricercata dai consumatori. Siamo entrati subito in sintonia con i responsabili del carcere”. Il carcere di Barcaglione non smette di stupire per la valenza delle sue attività. Già attivo con l’orto, dove circa 60 detenuti coltivano frutta e verdura, producono olio extravergine di oliva dall’oliveto e miele dalle arnie, da pochi mesi ha avviato una stalla con 20 pecore e un laboratorio caseario. I lavori sono seguiti con attenzione e perizia da Sandro Marozzi, l’agronomo del carcere dorico. Carletti metti a disposizione la sua esperienza per insegnare il lavoro dei campi. Non è la prima volta che i prodotti del carcere escono all’esterno. L’orto sociale ha partecipato ai mercati natalizi di Campagna Amica: olio e miele sono gettonatissimi. Ora si scommette anche sull’Agnello di Barcaglione. Una grossa soddisfazione per i detenuti-lavoratori che grazie a questo progetto hanno modo di ritrovare fiducia nelle loro capacità, imparare un mestiere e avere un’occasione di riscatto. Sicuri che le idee, anche le più aberranti, si combattano col codice penale? di Domenico Battista Il Domani, 27 aprile 2021 Bisogna riflettere se è corretto continuare ad ampliare senza limiti il campo del diritto penale, con la inevitabile conseguenza della oggettiva paralisi del sistema e di una discrezionalità di fatto nell’esercizio dell’azione penale. È giusto l’ampliamento dei reati di opinione? La mia cultura radicale e liberale mi impone una risposta negativa. Chi vuole introdurre queste modifiche al codice penale nega che si vogliano colpire le idee. “Garantismo penale e diritto penale minimo sono in effetti termini sinonimi, che designano un modello teorico e normativo di diritto penale in grado di razionalizzare e minimizzare la violenza del diritto punitivo vincolandolo, nella previsione legale dei reati, come nel loro accertamento giudiziario, a limiti rigidi imposti a tutela dei diritti della persona”. Non sono parole mie, ma del Prof. Luigi Ferrajoli, uno dei fondatori di Magistratura democratica, studioso particolarmente critico maggiormente contro quella che oggi si usa definire la visione “panpenalistica” come strumento privilegiato dell’intervento repressivo dello Stato contro ogni forma di “disvalore” ritenuto meritevole di sanzione. Diritto penale minimo o diritto penale massimo? Prevedere la sanzione penale (e, quindi, la limitazione della libertà personale) presuppone a monte un giusto processo rispettoso dei diritti e delle garanzie costituzionali e convenzionali, utilizzabile come extrema ratio a fronte di condotte ben delineate, chiare, precise e, quindi rispettose del principio di legalità. Oppure continuare ad ampliare senza limiti il campo del diritto penale, con la inevitabile conseguenza (superabile solo mediante triplicazione del numero di magistrati, di funzionari amministrativi e di aule giudiziarie) della oggettiva paralisi del sistema e di una discrezionalità di fatto nell’esercizio dell’azione penale incompatibile con l’obbligatorietà (ormai solo virtuale) sancita dalla nostra Costituzione? Questa riflessione, tante volte affrontata nel dibattito su come e con quali modalità riformare il “sistema giustizia” per riportarlo nei suoi giusti binari e, soprattutto, per renderlo efficace anche in termini di ragionevole durata, mi è tornata alla mente seguendo (in particolare sui social) il dibattito spesso con toni “curvaroli” sul cd. disegno di legge Zan e altri che, con una serie di modifiche integrative del già esistente articoli 604 bis del codice penale, dovrebbe, secondo l’intento dei suoi ideatori, riuscire a prevenire e contrastare la discriminazione e la violenza “per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. Allo stato la norma già sanziona la propaganda e l’istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa, ma con una ulteriore specificazione: il maggior disvalore per la propaganda o l’istigazione o l’incitamento a fronte del “concreto pericolo” di diffusione del “negazionismo” o dalla “minimizzazione in modo grave” della Shoah o dei crimini di genocidio, o contro l’umanità ed i crimini di guerra. In caso di approvazione della norma i “motivi”, trasformati in elemento costitutivo del reato, diventerebbero una infinità. Ampliare i reati di opinione Ma è giusto l’ampliamento dei reati di opinione? La mia cultura radicale e liberale mi impone una risposta negativa. Chi vuole introdurre queste modifiche al codice penale nega che si vogliano colpire le idee. E tuttavia gli stessi proponenti sono talmente consapevoli del contrario, da avere previsto l’introduzione di una specificazione, che non esito a definire una excusatio non petita, che costituisce una eccezione rispetto alle stesse altre condotte di propaganda o di istigazione già sanzionate nello stesso articolo. È previsto infatti nell’articolo 4 del ddl (rubricato come “pluralismo di idee e libertà di scelte”) che “ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione dei convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Già il fatto di scrivere in una norma di valenza penale che non sono sanzionabili “le condotte legittime” dovrebbe far saltare sulla sedia qualsiasi studioso non solo del diritto, ma anche del buon senso. Soprattutto leggendo che questa anomala premessa è preceduta da una ulteriore pleonastica precisazione: “Sono fatte salve” e dal mutamento delle prime parole della rubrica dell’art.604 bis del codice penale (da “propaganda e istigazione a delinquere” a “propaganda di idee fondate sulla superiorità”, laddove la istigazione diventa un fattore secondario rispetto alla propagazione). Le idee si combattono col codice penale? Mi domando: le idee, anche quelle più aberranti, come ad esempio quelle sul negazionismo, si combattono con il codice penale e con la minaccia di qualche mese di reclusione, magari comminato a distanza di anni dal momento della diffusione di un pensiero? O invece con la conoscenza, la cultura, lo studio, l’educazione e tutti gli strumenti che la civiltà ci ha insegnato ad utilizzare, esaltando il confronto ed il contraddittorio anche con coloro dai quali siamo distanti anni luce? Chi è meno giovane ricorda ancora quanti e quali battaglie di progresso culturale sono state condotte contro i reati di opinione, per la totale eliminazione degli stessi, spesso retaggio di regimi autoritari, o almeno per la loro delimitazione, entro un raggio di azione idoneo a bilanciare il diritto alla libera manifestazione del pensiero ed altri diritti personali. Esiste ancora un pensiero liberale che, in tempi ormai lontani, sull’onda dell’esplosione del caso Braibanti, ha consentito di eliminare grazie ad un intervento della Consulta il reato di plagio (che pur conteneva al suo interno una previsione di specifica, ancorché nei fatti indimostrabile, condotta)? Il pensiero corre inevitabilmente al reato di diffamazione a mezzo stampa ed alla sollecitazione, per ora rimasta inascoltata, della Corte Costituzionale che nella ordinanza 132 del 26/6/2020 ha rinviato ogni decisione all’udienza del 22/6/2021, auspicando nelle more un intervento del legislatore idoneo a bilanciare, senza dover necessariamente ricorrere alla reclusione del giornalista, la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione individuale. La sede processuale - Immagino già l’obiezione: non chiediamo di punire le idee. lo abbiamo precisato, vogliamo sanzionare il “concreto pericolo” di compimento di atti discriminatori o violenti. Non sarà così in sede processuale: il diritto penale minimo può anche essere definito “il diritto penale dei fatti”; un codice di rito di stampo accusatorio prevede l’esercizio del diritto alla prova (l’art.190 c.p.p.) e l’individuazione dell’oggetto della prova (l’art.187 c.p.p.); ebbene accusa e difesa dovranno confrontarsi non tanto sui fatti, quanto sulla “idoneità” (o non idoneità) della legittima propaganda, che si trasformerebbe in illegittima solo se ed in quanto in grado di “determinare” un “concreto pericolo” che soggetti terzi siano indotti al compimento di atti “discriminatori” (tralascio gli atti “violenti”, perché il reato di istigazione a delinquere o il concorso morale del mandante di condotte di violenza sono già ampiamente stabiliti in molteplici norme penali, di talché la specificazione appare del tutto inutile). In definitiva che cosa potrebbe accadere? Una ulteriore incertezza del diritto, una ennesima violazione del principio costituzionale di tassatività e di determinatezza ed, alla fine, un ampliamento senza limiti della discrezionalità del giudicante. Ha scritto in tempi non sospetti il Prof. Ferraioli: “Il legislatore deve saper far il suo mestiere, cioè deve saper produrre leggi quanto più possibile chiare e precise, onde siano ridotti quanto più possibile i margini della discrezionalità interpretativa e quindi dell’opinabilità della verità giudiziaria”. Riflettiamoci. Migranti. Salvare e proteggere le vite di Pierfrancesco Majorino Il Manifesto, 27 aprile 2021 Papa Francesco ha utilizzato parole pesanti come pietre: “ora è il momento della vergogna”. E non si può non convenire con il Pontefice, la cui voce, dolorosa e potente, prova da tempo a richiamare la comunità internazionale alle proprie responsabilità. L’ennesima strage nel Mediterraneo ha confermato, in maniera spietata e drammatica, la validità di quanto in molti affermiamo (inascoltati) da tempo: sull’immigrazione si deve cambiare tutto. Papa Francesco ha utilizzato parole pesanti come pietre: “ora è il momento della vergogna”. E non si può non convenire con il Pontefice, la cui voce, dolorosa e potente, prova da tempo a richiamare la comunità internazionale alle proprie responsabilità. Del resto ha detto bene Enrico Letta (uno dei pochi che può affermare di aver utilizzato le proprie funzioni istituzionali per fare molto sul piano del soccorso in mare) quando ha dichiarato che “otto anni dopo Lampedusa è sempre tragedia e impotenza”. Otto anni di sostanziale immobilismo restituiscono così il senso di una drammatica stasi morale, civile, politica. Per dirla in modo un po’ schematico, infatti, si deve ricordare che i Paesi europei in tutto questo tempo hanno voluto accelerare molto poco sul piano della collaborazione e della condivisione preferendo a ciò la conferma dello schema del regolamento di Dublino che pure il Parlamento europeo aveva profondamente cambiato. E in questa cornice si è inoltre rafforzata la pericolosa filosofia dell’esternalizzazione dei confini europei che ha visto crescere, invece che il corretto potenziamento delle missioni in mare, i tentativi di arginare gli arrivi realizzando aree di contenimento o accordi volti a delegare ad altri la gestione della materia. I campi di concentramento e detenzione e il sostegno alla guardia costiera libica, la delega in bianco (e pure ben remunerata) a Erdogan, la decisione di chiudere sostanzialmente l’accesso attraverso la rotta balcanica: tutti questi passi sono alla fine tenuti assieme dalla stessa filosofia di fondo. Servirebbe, dunque, il coraggio di un’altra politica capace di provare a percorrere strade diverse. Quali? Vediamone alcune. Innanzitutto quella della volontà di superare effettivamente l’attuale schema sulla migrazione ed asilo, dotando l’UE, al contrario di quanto proposto recentemente dalla stessa Commissione europea, di una strategia complessiva capace di valorizzare la condivisione della responsabilità dell’accoglienza e svincolando proprio la richiesta d’asilo dal Paese di primo approdo. Poi, la necessità di insistere sulla legalizzazione di alcuni canali di accesso alla stessa Europa (particolarmente presidiati e controllati, ovviamente) e la realizzazione di veri corridoi umanitari per svuotare alcune aree particolarmente critiche (penso alla Bosnia, alle isole greche e agli stessi campi libici). Inoltre, il bisogno urgente di costruire una grande missione di soccorso europeo capace di collaborare con le organizzazioni non governative. Infine, ovviamente, vi è l’enorme questione costituita dal sostegno a forme intelligenti di cooperazione allo sviluppo e l’urgenza di politiche riguardanti aree del mondo in grande difficoltà sul piano climatico, economico, sociale e del rispetto dei diritti umani che producano un’alternativa credibile alla necessità di “partire”. Esattamente l’opposto di quanto fatto in questi anni in cui, attraverso l’utilizzo dei fondi fiduciari, abbiamo assistito al dirottamento di risorse destinato allo sviluppo per finanziare la gestione esternalizzata delle frontiere della UE (come abbiamo denunciato dal Parlamento europeo la Guardia costiera libica è stata spesso finanziata proprio in questa maniera). Tema, questo, enorme, che l’Europa affronta percorrendo itinerari contraddittori: da una parte è il soggetto al mondo che investe più risorse dall’altra fatica a creare strategie coerenti tra gli stessi Stati membri finendo per “bruciare” denaro in numerosi rivoli. È ovvio che affermare tutto questo vuole dire andare incontro ad un’obiezione: così facendo si rischia di dare forza al messaggio della destra peggiore. La quale, in assenza di politiche adeguate sul piano della protezione sociale ha costruito consenso giocando le proprie carte sulla mobilitazione di una parte dei cittadini più deboli proprio sul piano sociale. Cittadini che si sono ritrovati in un ragionamento molto semplice e diretto - si pensi prima a noi. La cosa ha finito per condizionare buona parte del dibattito sull’immigrazione, permanentemente “drogato” dalla questione del consenso. Si deve, a mio modesto avviso, avere il coraggio di interrompere questo gioco al massacro delle buone politiche. E insistere su due terreni diversi. Quello, per l’appunto, di un evidente cambio di passo su Libia, soccorso, emersione dei flussi, politiche di integrazione, libera circolazione all’interno dei confini europei. E, poi, quello che ha proprio senso in sé: la definizione di priorità sul terreno economico e sociale in grado di far sentire meno sole le persone più fragili di fronte al tempo che viviamo. Che significa, anche a partire dai fondi presenti in Next Generation EU, aggredire i temi della precarizzazione del lavoro, della condizione salariale, del diritto alla casa e alla salute, della lotta alle povertà. Questioni cruciali che il cinismo di alcuni (e la pavidità di altri) ha artificiosamente messo in contrapposizione alla ineluttabile responsabilità di salvare le vite. *Europarlamentare del Partito democratico Migranti. Il dolore di chi scappa dalle guerre di Dacia Maraini Corriere della Sera, 27 aprile 2021 In tempi di paure da pandemia molti non riescono a occuparsi dei dolori altrui. A giudicare dalla previsione dei voti, si direbbe che una maggioranza di italiani sia cieca e sorda alle pene di chi scappa dalla guerra, dalla dittatura, dalla fame a rischio della vita. Troppo spesso però questa cecità dipende soprattutto da ignoranza. Orribile quello che è successo nel Mediterraneo. Centinaia di morti che nessuno ha voluto salvare. Uomini, donne, bambini morti soprattutto per ipotermia, come dimostra la foto di un uomo rimasto a galla ma senza vita. Mi viene in mente uno degli esperimenti che i nazisti facevano nei campi di sterminio: immergevano un giovane dentro l’acqua gelida per vedere quanto poteva resistere. Serviva per capire quanto tempo occorresse per salvare i loro aviatori caduti in mare. “La frequenza respiratoria e il battito cardiaco rallentano e infine sopraggiunge il coma”. La sopravvivenza in acque fredde può andare dai 50 a 70 minuti. Dopo di che il cuore smette di battere. Entro un’ora più o meno si può ancora salvare un corpo in ipotermia avvolgendolo in coperte termiche, ma spesso il cervello e il sistema nervoso ne rimangono danneggiati. Basterebbero una debole conoscenza della storia e un poco di immaginazione per farci capire cosa voglia dire morire dentro acque fredde in una primavera che tarda a scaldarsi. Ma in tempi di paure da pandemia molti non riescono a occuparsi dei dolori altrui. A giudicare dalla previsione dei voti, si direbbe che una maggioranza di italiani sia cieca e sorda alle pene di chi scappa dalla guerra, dalla dittatura, dalla fame a rischio della vita. Troppo spesso però questa cecità dipende soprattutto da ignoranza. Giovani che non hanno letto, riflettuto, approfondito la memoria del recente passato. Giovani che alzano bandiere nere con teschi e coltelli incrociati, prendendo per eroismo un vago e romantico amor patrio basato su un analfabetismo politico. Ho sentito un giornalista dichiarare alla radio che chi scrive per i quotidiani dovrebbe essere imparziale. Come se tutte le idee si equivalessero. Equivoco spesso ripetuto e affermato anche da esperti cronisti. Ma stiamo attenti a non confondere la buona regola di dare spazio alle opinioni di tutti, base della democrazia, col rifiuto di esprimere il proprio giudizio. Chi difende i diritti civili, che sono universali, chi sostiene la libertà di pensiero, di parola e la sacralità del corpo umano non può essere considerato uguale a chi crede nella pena di morte, nelle guerre sante, nella tortura, nella repressione delle donne. Naturalmente le cose sono complicate e i confini fra l’una e l’altra posizione non stabili e fissi. Ma una cosa è certa: la chiarezza viene dalla conoscenza e la conoscenza è libertà. Stati Uniti. “Time”: un grido di dolore contro il carcere inumano di Francesca Spasiano Il Dubbio, 27 aprile 2021 Con la vittoria di “Nomadland” della regista Chloé Zhao trionfa l’altra America, si è detto, il sogno americano di chi si aggrappa alla sopravvivenza invece che al successo. Tra la delusione per l’Italia che ne esce a mani vuote e i lustrini pochi, sulla notte degli Oscar meno “spettacolare” della storia si è scritto quasi tutto. A noi non resta che tessere l’elogio della sconfitta puntando l’attenzione su chi l’Academy non ha premiato: tra tutti “Time”, il docufilm della regista afroamericana Garrett Bradley in corsa per la categoria Miglior documentario. Lo trovate su Prime Video come esclusiva Amazon e vi basta solo un’ora e mezza per lasciarvi colpire come colpisce un pugno al centro dello stomaco. Anche in questo caso c’entra il sogno americano, che c’entra quasi sempre. Ma qui la sopravvivenza e la scalata per l’emancipazione sono una cosa sola. Partiamo da una scena di metà film: “Il successo è la miglior vendetta, il successo è la miglior vendetta, il successo è la miglior vendetta”. Sibil Fox Richardson, protagonista di questa storia vera, continua a ripeterselo mentre dall’altro capo del telefono un’impiegata frettolosa le fa sapere che suo marito probabilmente resterà ancora in carcere. Ma il giudice non ha ancora trovato il tempo di metterlo nero su bianco, forse lunedì, la cancelleria il venerdì chiude alle 16: “Richiami”. L’uomo in questione, Rob, si trova recluso in una prigione della Louisiana da quasi vent’anni, condannato a 60 per una rapina commessa da giovanissimo in un momento di disperazione. Fuori le porte della banca, in quel giorno che avrebbe cambiato per sempre le loro vite, c’era anche Sibil, che di anni invece ne ha scontati poco più di tre. Sibil ha sposato il suo compagno di liceo, e con lui era partita alla ricerca del successo quattro stracci alla mano e un bimbo piccolo. Sibil è afroamericana, come suo marito, per loro nella Grande America “tutto è possibile”, ma meno alla portata. Convinti di fare il colpaccio investono i risparmi in un negozietto di abbigliamento, vogliono portare in città la moda pop. E invece portano a casa un mucchio di bollette e debiti. La rapina è solo un attimo, il centro di una vita passata a rimediare. Quando Rob viene condannato Sibil è incinta di due gemelli, di figli in tutto ne avrà sei. Si mette subito a lavoro: l’impiego in un autonoleggio e la battaglia per la libertà di suo marito. La sfida contro il sistema penitenziario americano è vinta appena 21 anni dopo, quando finalmente a Rob concedono la grazia. Nel mezzo ci sono oltre 100 ore di filmato che Sibil raccoglie giorno dopo giorno fino al momento del riscatto. Video familiari, conferenze, appelli social, momenti intimi di sgomento e fragilità: un piccolo capitale umano che la regista ha portato sullo schermo in un continuo sovrapporsi di piani temporali, tra immagini di repertorio e riprese attuali. Sibil è ora giovanissima, col pancione, ora madre di due gemelli che ormai 18enni hanno messo su la barba senza aver mai visto il padre fuori da una cella. Il tempo, a cui è consacrato il film, scorre lento e inesorabile: quasi immobile per chi sta dietro le sbarre, ma troppo in fretta per chi cerca di conservare un po’ di prospettiva. “Provate voi a tenere unita una famiglia quando hai due visite al mese e 60 anni da scontare in cella”, grida Sibil mettendo a frutto rabbia e frustrazione in uno dei suoi incontri con la comunità. La pena prevista dal codice americano per il reato di rapina va dai 5 ai 99 anni di detenzione, salvo patteggiamenti. “Il vero delitto è cancellare la vita di un uomo senza concedergli alcuna possibilità di recupero”, denuncia ancora la donna. Con instancabile convinzione dice di considerarsi “un’abolizionista”: perché il carcere per i neri americani è come una “forma legale di nuova schiavitù”. Al punto che per il quotidiano statunitense Los Angeles Times, questo film rappresenta la “personalizzazione della prospettiva storica” illustrata nel documentario del 2016 “XIII Emendamento”, che spiega proprio col razzismo le ingiustizie del sistema penitenziario. Allora si parlò dell’America come di una “nazione- carcere”: solo gli Stati Uniti, secondo i dati aggiornati a qualche anno fa, vantano il 5% per cento della popolazione mondiale e il 25% di quella carceraria. Con quelle cifre ha a che fare anche Sibil, nuova Davide contro Golia, oggi brillante attivista. Di tutti i numeri con cui ha fatto i conti se ne lascia alle spalle soprattutto uno: “La chiamata è a carico del ricevente, prema il tasto 1 per accettare”, recita la voce registrata del centralino penitenziario. Dall’altra parte Rob: “Pronto, amore, sai oggi ho visto le nuvole. Mi sembrava di camminare libero almeno in cielo”. Stati Uniti. “Prigioni segrete” della Cia, accolto ricorso detenuto Guantánamo notizieinitalia.it, 27 aprile 2021 La Corte Suprema ha accettato di valutare il ricorso presentato da uno dei pochi detenuti rimasti a Guantánamo, Abu Zabaida, per ottenere maggiori informazioni sui “black site” della Cia, in cui è stato detenuto e torturato dopo la sua cattura in Pakistan nel 2002 e prima del suo trasferimento nel centro di prigionia a Cuba nel 2006. La decisione della Corte, che ascolterà il caso il prossimo autunno, va contro il parere del governo americano che, pur avendo declassificato diverso materiale relativo a Zayn al-Abidin Muhammed Hussein, il nome di nascita del palestinese, aveva invocato il “segreto di stato” per non rispondere alle nuove richieste di informazioni da parte degli avvocati del detenuto, in particolare riguardo ai funzionari dell’intelligence straniere che hanno lavorato insieme agli agenti americani nella gestione delle prigioni segrete della Cia all’estero. In particolare, gli avvocati dei detenuti hanno chiesto un mandato di comparizione per interrogare due contractor della Cia, che hanno sviluppato le cosiddette “tecniche di interrogatorio”, vere e proprie torture, che furono usate nelle prigioni segrete dalla Cia durante la guerra al terrorismo. La richiesta degli avvocati di Zubaida, che nel 2014 ha vinto un ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani che ha ordinato alla Polonia di pagargli 100mila euro di danni per aver detenuto per un anno il sospetto terrorista in una delle prigioni segrete della Cia sul suo territorio, era stata originariamente bocciata da Mike Pompeo, quando l’ex segretario di Stato era stato nominato, all’inizio della presidenza Trump direttore della Cia. Secondo il repubblicano la diffusione delle informazioni richieste avrebbe portato “gravi danni alla sicurezza nazionale”, perché se costretta a rendere noti i propri partner la Cia “apparirebbe non in grado di mantenere riservati i suoi contatti segreti, e le relazioni con altre intelligence verrebbero messe a repentaglio”. Un giudice federale aveva poi appoggiato la posizione di Pompeo, ma la corte d’appello aveva detto che in realtà, le informazioni coperte dal segreto di stato potevano essere circoscritte, soprattutto alla luce del fatto che molta parte del caso di Zubaida è già nota al pubblico, chiedendo quindi che si dividesse il materiale top secret da quello che si poteva divulgare. Descritto dal presidente Bush come “il capo delle operazioni di al Qaida” al momento della sua cattura nel 2002, in realtà Abu Zubaida alla fine è apparso all’intelligence americana avere un ruolo molto più ridotto, ed un rapporto della commissione Intelligence del Senato del 2014 ha stabilito che la Cia “ha esagerato in modo significativo” il ruolo che aveva all’interno di al Qaeda. E sulla base di questa falsa premessa Zubaida che ora ha 50 anni, nel quattro anni di detenzione nelle prigioni segrete della Cia, è stato sottoposto ad una serie infinita di torture: di fronte ad una commissione militare a Guantánamo nel 2007, il detenuto ha detto che “i dottori mi hanno detto che sono morto quasi quattro volte” e di essere stato sottoposto 83 volte al waterboarding. I videotape dei suoi interrogatori sono fra quelli che sono stati distrutti dalla Cia nel 2005. Iran. Attivista condannata, Johnson: “Disumano e ingiusto” Avvenire, 27 aprile 2021 L’operatrice umanitaria Nazarin Zaghari-Ratcliffe partecipò, 12 anni fa a Londra, a una manifestazione per i diritti in Iran: giudicata colpevole di propaganda sovversiva. Ha appena scontato 5 anni per complotto anti Stato. “Crudele, disumana e del tutto ingiustificata”. Il premier britannico Boris Johnson alza i toni sulla nuova condanna a un anno di carcere inflitta a Teheran contro la cittadina irano-britannica Nazanin Zaghari-Ratcliffe. Mentre parole identiche vengono pronunciate dal suo ministro degli Esteri, Dominic Raab, in una dichiarazione alla Camera dei Comuni. Amnesty International condanna a sua volta il verdetto dell’Iran e chiede a Londra di rispondere a tono. Nazanin Zaghari-Ratcliffe, 42 anni, operatrice umanitaria è stata condannata a un anno di reclusione per propaganda sovversiva per avere partecipato, dodici anni fa a Londra, a una protesta per i diritti in Iran e avere rilasciato un’intervista all’emittente Bbc. Secondo il suo avvocato Hojjat Kermani, il giudice ha disposto anche che la donna - che ha la doppia cittadinanza irano-britannica - per un anno non potrà lasciare l’Iran. Zaghari-Ratcliffe, che prima dell’arresto viveva con il marito e le figlie a Londra e lavorava per un’associazione caritatevole della Thomson Reuters Foundation, aveva già trascorso cinque anni in carcere con l’accusa di “complotto contro lo Stato”. Da marzo 2020 le erano stati concessi i domiciliari, una misura volta a evitare rischi dopo l’inizio della pandemia di Covid-19. Solo pochi giorni fa aveva finito di scontare la condanna e le autorità le avevano anche rimosso il braccialetto elettronico alla caviglia. Poi, le nuove accuse, che riportano la donna in carcere. Il marito della donna, Richard Ratcliff, ha più volte denunciato che l’operatrice umanitaria è una “pedina” nei giochi politici tra Teheran e Londra: il Regno Unito non avrebbe onorato una commessa militare risalente al 1979. I complessi rapporti tra l’Iran e i Paesi occidentali hanno spinto diversi analisti a intravedere nelle persone incarcerate o condannate una strategia di Teheran per fare pressione sui paesi alleati degli Stati Uniti. Tra questi figura il ricercatore irano-svedese Ahmadreza Djalali, da novembre nel braccio della morte, e per il quale una rete di organismi della società civile ha chiesto la cittadinanza italiana onoraria per via del suo lavoro svolto al Centro di ricerca in medicina d’emergenza e dei disastri (Crimedim), dipartimento dell’Università del Piemonte Orientale. Iran. Appello urgente per Ahmadreza Djalali, detenuto da cinque anni uniroma1.it, 27 aprile 2021 A cinque anni dall’arresto del ricercatore iraniano, la rete Scholars at Risk - SAR lancia un appello urgente per Ahmadreza Djalali, per chiedere la sospensione della sentenza capitale e l’immediato rilascio per le cure mediche necessarie La Sapienza sostiene l’appello urgente della rete Scholars at Risk - SAR per Ahmadreza Djalali, a cinque anni dal suo arresto, avvenuto ad aprile 2016. L’appello è stato lanciato il 26 aprile 2021 dal presidente del Karolinska Institutet di Stoccolma, Ole Petter Ottersen, dal rettore dell’Università del Piemonte Orientale di Vercelli, Gian Carlo Avanzi, e dalla rettrice della Vrije Universiteit Brussel Caroline Pauwels, a nome dei tre atenei nei quali Ahmadreza Djalali aveva svolto attività di ricerca prima della sua detenzione in Iran. “Abbiamo avuto il privilegio di avere il dottor Djalali come collega - scrivono i tre rettori - e ora chiediamo ancora una volta pubblicamente il suo immediato rilascio”. Scholars at Risk chiede alle autorità iraniane di sospendere la sentenza capitale emessa contro il Ahmadreza Djalali e di assicurare il suo immediato rilascio in modo che possa ricevere le cure mediche di cui ha urgente bisogno. Mentre visitava l’Iran nell’aprile del 2016, per partecipare a una serie di workshop ospitati dalle università di Teheran e Shiraz, le autorità hanno arrestato Djalali per presunta “collaborazione con governi ostili”. Da allora è stato successivamente detenuto nella prigione di Evin e tenuto periodicamente in isolamento. Il 21 ottobre 2017 Djalali è stato condannato a morte. Il 24 novembre 2020, le autorità iraniane lo hanno trasferito in isolamento e hanno iniziato i preparativi per eseguire la condanna a morte. Da allora, le autorità hanno continuamente rimandato l’esecuzione ma hanno mantenuto Djalali in isolamento per oltre 20 settimane. La sua salute si è drasticamente deteriorata mentre era soggetto a condizioni estreme, tra cui avere le luci accese in isolamento 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Secondo quanto riferito, soffre di dolori allo stomaco e difficoltà respiratorie e ha perso almeno 12 Kg. Il 14 aprile 2021 le autorità hanno trasferito Ahmadreza Djalali dall’isolamento a una cella con diversi occupanti. Le autorità continuano a negargli l’accesso al suo avvocato, alla sua famiglia e all’assistenza medica urgentemente necessaria. Queste azioni deliberate impongono incommensurabile angoscia e dolore al dottor Djalali e alla sua famiglia. Prima del suo arresto, avvenuto nell’aprile 2016 mentre si trovava nella capitale iraniana per un seminario, Djalali viveva e svolgeva la sua attività di ricerca a Stoccolma, dove si era trasferito da anni con la famiglia, e aveva rapporti accademici internazionali con diversi atenei. La rete Scholar at Risk, di cui la Sapienza fa parte dal 2019, si è mobilitata, insieme a Amnesty International e ad altre organizzazioni, per chiedere la sospensione della condanna a morte e la scarcerazione immediata di Djalali per motivi di salute. La campagna è sostenuta anche dall’alleanza CIVIS, dalla rete Unica, il network delle università delle capitali europee e dalla Crui, che hanno inviato appelli alle autorità iraniane per chiedere la liberazione di Djalali. Scholar at Risk è una rete internazionale di Università fondata nel 1999 presso l’Università di Chicago da accademici e difensori dei diritti umani interessati a promuovere il principio di libertà accademica e a proteggere accademici/che in pericolo di vita o il cui lavoro di ricerca e insegnamento è severamente compromesso. Fake news e diffamazione, così il Marocco si libera dei giornalisti indipendenti di Stefano Mauro Il Manifesto, 27 aprile 2021 Il caso di Omar Radi e Soulaiman Raissouni, in prigione rispettivamente da otto e dieci mesi sulla base di post anonimi sui social e stampa diffamatoria. Sono in sciopero della fame: gli attivisti ne chiedono il rilascio urgente. “Tempi duri per la libertà di espressione e di stampa in Marocco, il re e il suo entourage hanno un serio problema con la libertà di informazione”, ha di recente affermato lo storico franco-marocchino Maâti Monjib, rilasciato su cauzione a fine marzo, dopo tre mesi di detenzione preventiva per “riciclaggio di denaro” e 19 giorni di sciopero della fame. Dallo scorso 14 aprile sono oltre 120 i giornalisti che hanno firmato una petizione in cui esprimono la loro “grande preoccupazione” per la sorte di Omar Radi e Soulaiman Raissouni, denunciando la “reiterata violazione della presunzione di innocenza” e “l’impunità di cui gode la stampa per diffamazione in Marocco”. Omar Radi e Soulaiman Raissouni, due giornalisti che si sono distinti per il loro attivismo e le loro critiche nei confronti del governo marocchino, hanno iniziato uno sciopero della fame, lo scorso 9 aprile, nella prigione di Oukacha a Casablanca, dove sono incarcerati in detenzione preventiva rispettivamente da otto e dieci mesi. Entrambi chiedono “un rilascio provvisorio e un processo equo”, dopo che le loro udienze sono state continuamente rinviate dalla giustizia marocchina. In queste settimane - l’ultima lo scorso sabato davanti al parlamento di Rabat - sono state organizzate numerose manifestazioni di sostegno da parte degli attivisti che richiedono la loro liberazione urgente “visto l’aggravarsi delle loro condizioni di salute”. In un recente appello Human Rights Watch (Hrw), Amnesty International (Ai) e Reporters sans Frontières (Rsf) denunciano “numerose incarcerazioni di attivisti”, spesso con l’utilizzo della “stampa diffamatoria” - pubblicazioni legate alle informazioni fornite dai servizi di sicurezza - che ultimamente hanno avuto un ruolo chiave per diffamare e incarcerare numerosi attivisti e giornalisti, attraverso informazioni relative a questioni morali, reali o presunte. Soulaiman Raissouni, editorialista e redattore capo del quotidiano Akhbar Al Yaoum - quotidiano online recentemente chiuso per fallimento e spesso bersaglio delle autorità giudiziarie perché considerato una delle ultime roccaforti della stampa libera in Marocco - è stato infatti perseguito per “aggressione, violenza e rapimento di un uomo” nel 2018, a seguito di un post anonimo su Facebook. Omar Radi, giornalista noto per il suo attivismo riguardo a disuguaglianze, corruzione e violazioni dei diritti umani in Marocco, è stato arrestato il 29 luglio 2020, con accuse “di spionaggio e pericolo per la sicurezza dello Stato” (a causa di alcune ricerche sulla corruzione in Marocco condotte per ong internazionali) e “per stupro e violenza sessuale”. “Affermiamo il dovere imperativo di indagare attentamente sulle accuse di violenza sessuale e di ritenere responsabili gli autori - afferma la dichiarazione congiunta di Hrw, Ai e Rsf - Siamo però preoccupati che l’accusa nei confronti dei due giornalisti arrivi in un contesto in cui diversi politici, attivisti e giornalisti indipendenti sono stati arrestati, processati o incarcerati con accuse discutibili di violenza sessuale negli ultimi anni”. Anche associazioni come Attac-Maroc, l’Associazione marocchina per i diritti umani (Amdh) e Khmissa, collettivo femminista marocchino che difende i diritti delle donne e le libertà politiche, hanno recentemente denunciato “la strumentalizzazione, da parte delle autorità marocchine, delle accuse di crimini sessuali, anche quando si tratta di rapporti consensuali, allo scopo di screditare o imprigionare i dissidenti”. Nel suo rapporto annuale, Amnesty denuncia l’utilizzo “della giustizia e di accuse diffamatorie per almeno una ventina di giornalisti e altrettanti attivisti e blogger” in questi ultimi due anni. Lo stesso report, inoltre, indica la continua violazione dei diritti umani e l’utilizzo della tortura, fisica e psicologica, nei confronti degli attivisti saharawi incarcerati nelle prigioni marocchine o di Nasser Zefzafi e Nabil Ahamjikdi, leader del movimento di protesta del Rif. Afghanistan, il piano Usa di una nuova catastrofe di Manlio Dinucci Il Manifesto, 27 aprile 2021 Il generale Scott Miller, comandante delle forze Usa e alleate in Afghanistan, ha annunciato il 25 aprile l’inizio del ritiro delle truppe straniere che, secondo quanto deciso dal presidente Biden, dovrebbe essere ultimato entro l’11 settembre. Gli Usa terminano così la guerra condotta per quasi vent’anni? Per capirlo, occorre anzitutto fare un bilancio dei risultati della guerra. Il bilancio in vite umane è in gran parte inquantificabile: le “morti dirette” tra i militari Usa ammonterebbero a circa 2.500, e i feriti gravi a oltre 20.000. I contractor (i mercenari Usa) uccisi sarebbero circa 4.000, più un numero imprecisato di feriti. Le perdite tra i militari afghani ammonterebbero a circa 60.000. Le morti di civili sono di fatto incalcolabili: secondo le Nazioni Unite, sarebbero state circa 100.000 in soli dieci anni. Impossibile determinare le “morti indirette” per povertà e malattie, provocate dalle conseguenze sociali ed economiche della guerra. Il bilancio economico è relativamente quantificabile. Per la guerra - documenta il New York Times in base ai dati elaborati dalla Brown University - gli Usa hanno speso oltre 2.000 miliardi di dollari, a cui se ne aggiungono oltre 500 per l’assistenza medica ai veterani. Le operazioni belliche sono costate 1.500 miliardi di dollari, ma l’ammontare esatto resta “opaco”. L’addestramento e armamento delle forze governative afghane (oltre 300 mila uomini), sono costati 87 miliardi. Per “l’aiuto economico e la ricostruzione” sono stati spesi 54 miliardi di dollari, in gran parte sprecati a causa della corruzione e inefficienza, per “costruire ospedali che non hanno curato nessun paziente e scuole che non hanno istruito nessun studente, e che talvolta neppure esistevano”. Per la lotta alla droga sono stati spesi 10 miliardi di dollari, col seguente risultato: la superficie coltivata ad oppio è quadruplicata, tanto che è divenuta la principale attività economica dell’Afghanistan, il quale fornisce oggi l’80% dell’oppio prodotto illegalmente nel mondo. Per finanziare la guerra in Afghanistan, gli Stati uniti si sono pesantemente indebitati: hanno dovuto quindi pagare finora, sempre con denaro pubblico, 500 miliardi di dollari, che nel 2023 saliranno a oltre 600. Inoltre, per i militari Usa che hanno riportato gravi ferite e disabilità nelle guerre in Afghanistan e Iraq, sono stati spesi finora 350 miliardi, che saliranno nei prossimi decenni a 1.000 miliardi, di cui oltre la metà per le conseguenze della guerra in Afghanistan. Il bilancio politico-militare di questa guerra, che ha versato fiumi di sangue e bruciato enormi risorse, è catastrofico per gli Usa, salvo che per il complesso militare-industriale che ha realizzato con essa enormi profitti. “I talebani, divenuti sempre più forti, controllano o contendono gran parte del paese”, scrive il New York Times. A questo punto, il segretario di Stato Blinken e altri propongono che gli Stati uniti riconoscano ufficialmente e finanzino i talebani, poiché in tal modo “dopo aver preso il potere, parzialmente o pienamente, essi potrebbero governare meno duramente per ottenere il riconoscimento e il sostegno finanziario delle potenze mondiali”. Allo stesso tempo, riporta il New York Times, “il Pentagono, le agenzie spionistiche americane, e gli Alleati Occidentali stanno mettendo a punto piani per dispiegare nella regione una forza meno visibile ma ancora potente, comprendente droni, bombardieri a lungo raggio e reti spionistiche”. Secondo l’ordine di Biden, riporta sempre il New York Times, gli Usa stanno ritirando i loro 2.500 soldati, “ma il Pentagono ha attualmente in Afghanistan circa 1.000 militari in più di quelli pubblicamente riconosciuti, appartenenti a forze speciali agli ordini sia del Pentagono che della Cia”, cui si aggiungono oltre 16.000 contractor Usa che potrebbero essere usati per addestrare le forze governative afghane. Scopo ufficiale del nuovo piano strategico è “impedire che l’Afghanistan riemerga quale base terroristica per minacciare gli Stati uniti”. Scopo reale resta quello di 20 anni fa: avere una forte presenza militare in quest’area al crocevia tra Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e orientale, di primaria importanza strategica soprattutto verso Russia e Cina.