L’ergastolo ostativo è incostituzionale. La retorica dei neo professionisti dell’antimafia di Franco Corleone L’Espresso, 26 aprile 2021 La decisione della Corte Costituzionale che ha dichiarato che “l’ergastolo ostativo è incompatibile con la Costituzione” è un punto fermo e ogni discussione deve prendere atto di una ferita che per un anno non sarà sanata. La realtà è in contrasto con l’art. 27 della Costituzione, con l’art. 3 sempre della costituzione e con l’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti umani. Non mi pare poco. E tanti giuristi si sono impegnati per comprendere come superare una ferita allo stato di diritto, assai grave. Le riflessioni di Giovanni Fiandaca, Andrea Pugiotto e di Giovanni Maria Flick sono un esempio di cultura e di intelligenza. Ho scoperto invece e sono sconcertato che all’Università di Bologna esista una cattedra di sociologia del diritto e Mafie e antimafia. Mi paiono assai lontani i tempi di Massimo Pavarini. Bisogna purtroppo prendere atto che germoglia una schiera di nuovi professionisti dell’antimafia per i quali la Costituzione sarebbe un peso, un fardello di cui liberarsi. Una strana concezione per cui la Costituzione avrebbe un valore non per tutti i cittadini, ma dovrebbe essere disapplicata per i “cattivi”. Ovviamente non dovrebbe valere per i mafiosi, per i terroristi, per gli spacciatori di droga, per gli stupratori e l’elenco potrebbe allungarsi all’infinito. Non vale la pena e non è questa la sede per un confronto teorico con il nulla, ma è il caso ancora una volta di ricordare che Aldo Moro si espresse con chiarezza limpida contro l’ergastolo e che questa posizione è stata riaffermata con nettezza da Papa Francesco. La Società della Regione pubblicò nel 2009 il volume “Contro l’ergastolo” e sta preparando un nuovo volume “Contro gli ergastoli”. È bene che la parola torni alla politica e che il Parlamento si occupi finalmente della necessità di un nuovo Codice Penale cancellando il Codice Rocco, fondamento della dittatura e dello stato etico. È una occasione per rifondare giustizia e diritto. Sarebbe desolante una discussione tra epigoni di Lombroso e sostanzialisti che riducono lo stato di diritto e la democrazia a uno straccio. Cartabia: “un patto sulla Giustizia, per il bene dell’Italia” di Giovanni Donnadio gnewsonline.it, 26 aprile 2021 “Superiamo la tentazione dello scontro continuo. In una data così simbolica per l’Italia, che segna il tempo della Liberazione, della rinascita, della ricostruzione, proprio la Giustizia può e deve diventare il terreno sul quale ritrovare lo spirito di unità nazionale. Le diversità resteranno, come nella stagione che portò alla nascita della Costituzione, ma come allora si può provare a ricomporre le fratture su progetti precisi in nome di uno scopo più grande.Deve essere molto chiaro che senza riforme della Giustizia, niente fondi del Recovery. E per un compito così importante, serve responsabilità e volontà di tutti”. È un appello alla responsabilità di tutti quello lanciato dalla Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, in un’intervista con il direttore de La Stampa, Massimo Giannini. Nel giorno della festa del 25 aprile e alla vigilia della presentazione al Parlamento da parte del premier del “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, la Guardasigilli avverte: “La riforma della giustizia, insieme alla Pubblica Amministrazione è il pilastro su cui poggia l’intero Recovery Plan. Se fallisce questa riforma, molto semplicemente, noi non avremo i fondi europei. Non avremo le risorse necessarie a rimettere in piedi il Paese dopo la pandemia. Questa è la posta in gioco”. Accanto all’ invito alle forze politiche, perché “rinuncino al conflitto permanente e ammainino le ‘bandierine identitariè, come ha detto il premier”, il richiamo allo spirito della Liberazione. “La festa del 25 Aprile - osserva la Ministra Cartabia - ci riporta alla mente anni di lacerazione fortissima, ma soprattutto un grande momento di riscatto. Evoca lo stato d’animo di un popolo che seppe mettere da parte le conflittualità, pur conservando le differenze. Seppe ritrovare il coraggio per unirsi e per ricostruire una nazione libera e democratica. La giustizia, molto più che altri ambiti, è stata una trincea dove si è consumato uno scontro di idee e di sensibilità. Ora deve diventare il terreno dove cercare una convergenza, che non è solo trovarsi a metà strada, ma immaginare una mappa di principi in cui tutti possano riconoscersi. Recovery, sulla giustizia Draghi parte dalle riforme di Bonafede (ma le annacqua) di Marco Procopio Il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2021 Road map: a giugno la legge su Csm e autunno di fuoco con processo civile e penale. Nella versione definitiva del Pnrr l’esecutivo sceglie di non decidere, almeno sui punti più delicati delle leggi che dovranno essere approvate nei prossimi mesi. Dalla riforma del Csm sparisce il tema delle porte girevoli tra consiglieri e parlamentari; in materia di prescrizione si prevedono “eventuali iniziative” da inserire in una cornice “razionalizzata e più efficiente” dei processi; sul secondo grado di giudizio non c’è più la proposta di istituire un “giudice monocratico d’appello”. Ma senza un accordo, avverte Cartabia, “l’Italia perderà i fondi europei”. Approfondito quanto basta per ottemperare alle richieste dell’Unione europea, sufficientemente generico per non irritare le diverse anime della (larghissima) maggioranza di governo. In materia di giustizia il Recovery plan targato Mario Draghi sceglie di non decidere, almeno sui punti più delicati delle riforme che dovranno essere approvate nei prossimi mesi. La versione finale del testo, licenziato sabato notte in Consiglio dei ministri, fa proprie gran parte delle misure elaborate dall’ex ministro Alfonso Bonafede e inserite nel Piano precedente, dall’accelerazione dei processi all’abbattimento degli arretrati grazie a oltre 20mila nuove assunzioni, ma annacqua una serie di provvedimenti considerati centrali dal governo Conte. Dalla riforma del Consiglio superiore della magistratura sparisce il tema delle porte girevoli tra consiglieri ed ex membri del governo o del Parlamento; in materia di prescrizione si parla di adottare “eventuali iniziative” da inserire in una cornice “razionalizzata e più efficiente” dei processi; sul secondo grado di giudizio - il più problematico in termini di durata - non c’è più la proposta di istituire un “giudice monocratico d’appello” per snellire le procedure. Il risultato è uno schema di riforme che sposta solo un po’ più in là la discussione politica: la road map chiesta da Bruxelles è infatti serratissima. Il primo scoglio che la ministra della Giustizia Marta Cartabia dovrà superare è la revisione dell’ordinamento giudiziario, in cui rientra anche la riorganizzazione del Csm. Il governo, come si legge nel Pnrr, ha “richiesto la trattazione prioritaria che ne comporterà la calendarizzazione per l’esame dell’Aula entro giugno 2021”. Ma il vero banco di prova sarà a settembre, quando è prevista l’approvazione delle leggi delega sulla riforma del processo penale, del processo civile e dei procedimenti speciali (nel giro di un anno arriveranno i decreti attuativi, mentre per la giustizia tributaria si dovrà aspettare il 2022). Un vero e proprio autunno caldo in cui Lega, Forza Italia, Pd, Leu e Movimento 5 stelle saranno costretti a trovare un accordo sulla revisione dell’intero sistema giudiziario italiano. Non è un caso che nelle scorse ore la stessa guardasigilli abbia fatto un appello all’unità, ricordando in un’intervista a La Stampa che se questa missione dovesse fallire “l’Italia non avrà i fondi europei”. Non solo i circa 3 miliardi stanziati per la giustizia, ma l’intero pacchetto da 191 miliardi in arrivo dall’Ue per risollevare il Paese dopo la pandemia. “Velocizzare i processi per favorire lo sviluppo economico” - L’obiettivo principale delle riforme sulla giustizia tratteggiate nel Recovery plan è quello di accelerare i processi, favorire la “repressione della corruzione” e aumentare “l’efficienza” del sistema, come indicato nelle Country Specific Recommendations indirizzate dall’Europa all’Italia negli anni 2019 e 2020. Si tratta di condizioni “indispensabili” per lo “sviluppo economico”, spiega il governo, perché una “giustizia rapida e di qualità stimola la concorrenza”, accrescendo la disponibilità del credito, promuovendo le imprese più giovani, accelerando l’uscita dal mercato delle “realtà non più produttive”. Si stima infatti che una riduzione della durata dei procedimenti civili del 50 per cento possa “accrescere la dimensione media delle imprese manifatturiere italiane di circa il 10 per cento”. Alcuni passi avanti sono già stati fatti, soprattutto in materia di lotta alla criminalità organizzata e “legislazione anticorruzione”, ma c’è ancora tanto da fare. A partire da un piano assunzioni che permetta di attaccare “l’enorme mole di arretrato che pesa sugli uffici giudiziari”. Il Pnrr punta innanzitutto a creare in pianta stabile in ogni procura l’Ufficio del processo, cioè un team composto da personale qualificato da affiancare ai magistrati per potenziarne il lavoro. Si parla di assumere a tempo determinato entro fine 2021 16.500 laureati in legge, economia e scienze politiche, a cui andranno aggiunti oltre 5mila laureati e diplomati in qualità di staff tecnico e amministrativo. Una sezione a parte è dedicata alla corruzione, da combattere anche attraverso una serie di semplificazioni normative che non impongano “oneri e adempimenti troppo pesanti” alla Pa. Sempre qui in una precedente bozza del documento veniva menzionata la necessità di ridurre, in campo sanitario, “i poteri discrezionali eccessivamente ampi nella nomina dei dirigenti ospedalieri”. Poi il passaggio è stato spostato altrove. Il cuore del Pnrr è però il programma di riforme che, se completato, potrebbe garantire all’Italia entro 5 anni un +0,5 per cento di produttività. Il processo penale e il nodo prescrizione - Il processo penale è il nodo più delicato di tutto il Recovery, quello su cui le ambizioni del governo Draghi rischiano di schiantarsi a causa delle distanze tra le forze di maggioranza. E non è un caso che sia il capitolo più vago a livello di contenuti. Come base di partenza si citano genericamente i “disegni di legge” già presentati in Parlamento, con diversi obiettivi: il primo è semplificare il sistema degli atti processuali, creando uno “strumento telematico per il deposito di atti e documenti”. Vanno poi ridotti i tempi della fase di indagine e di udienza preliminare. Il Pnrr Draghi prevede “la rimodulazione dei termini di durata e della scansione termini, il controllo giurisdizionale sulla data di iscrizione della notizia di reato e l’adozione di misure per promuovere organizzazione, trasparenza e responsabilizzazione dei soggetti coinvolti nell’attività di indagine”. La versione targata Conte del Piano, invece, scendeva più nei dettagli, ipotizzando ad esempio l’obbligo per il pm di “depositare gli atti delle indagini al decorso dei termini massimi di durata, con l’ulteriore obbligo di presentare richiesta di archiviazione o esercitare l’azione penale entro il termine di trenta giorni dalla presentazione della relativa richiesta da parte del difensore dell’indagato o della persona offesa”. Il nuovo testo punta anche ad ampliare il ricorso ai riti alternativi, “incentivando i benefici ad essi connessi”, garantire più scorrevolezza nel “dibattimento di primo grado”, ridurre i procedimenti intervenendo “sulla procedibilità dei reati” e consentendo di “estinguere talune tipologie di reato mediante condotte riparatorie a tutela delle vittime”. L’ultimo punto riguarda il processo d’appello, considerato una “fase particolarmente critica, specie per la prescrizione del reato”. La parola d’ordine è ridurre i tempi, ad esempio prevedendo “l’ammissibilità dell’appello solo se il difensore è munito di specifico mandato a impugnare”. Tuttavia sparisce - almeno sulla carta - l’idea dell’ex guardasigilli M5s di introdurre il “giudice monocratico d’appello”, con competenza a giudicare “sulle sentenze di primo grado pronunciate dal giudice monocratico”. C’è poi un passaggio destinato a fare discutere, perché ipotizza di rivedere lo stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio introdotto dalla legge Spazza-corrotti. Nel Piano si ipotizza infatti di ampliare l’applicazione dell’istituto della “particolare tenuità del fatto”: in tal senso - si legge - “vengono prese in considerazione eventuali iniziative concernenti la prescrizione del reato, inserite in una cornice razionalizzata e resa più efficiente, dove la prescrizione non rappresenti più l’unico rimedio di cui si munisce l’ordinamento nel caso in cui i tempi del processo si protraggano irragionevolmente”. Il tutto, continua il Piano, è attualmente allo studio di una commissione di esperti che dovrebbe aver già concluso i lavori “entro il 23 aprile”. Il governo Draghi punta ad adottare le leggi delega entro settembre 2021 e nel giro di un anno esatto i decreti attuativi. L’impatto sulla durata dei processi, si legge, “potrebbe verosimilmente stimarsi alla fine del 2024”. Il processo civile - Nel campo della giustizia civile la prima riforma indicata nel Piano riguarda il rafforzamento degli strumenti alternativi al processo per la risoluzione delle controversie. Il punto di partenza è il disegno di legge delega presentato in Senato dall’ex ministro Bonafede nel gennaio 2020 che prevede, tra le altre cose, un ampliamento delle “garanzie di imparzialità” degli arbitrati, l’estensione dell’applicazione dell’istituto della mediazione e della negoziazione assistita (da allargare alle famiglie non matrimoniali e dell’istituto della mediazione. La tabella di marcia prevede il via libera alle leggi delega entro settembre 2021 e ai decreti attuativi entro settembre 2022. Stesse tempistiche per la riforma del processo civile, su cui l’esecutivo ha intenzione di intervenire in modo “selettivo”: va migliorata la gestione della fase istruttoria con un “calendario del processo” più rigido, saranno istituzionalizzate le udienze da remoto introdotte per il Covid, viene potenziato il filtro di ammissibilità per le impugnazioni. Una novità che non era menzionata nel Recovery del governo Conte è il “rinvio pregiudiziale in Cassazione”: la norma consentirà al giudice di merito di “rivolgersi direttamente alla Corte di Cassazione per sottoporle la risoluzione di una questione nuova”, di “puro diritto”, che “presenti gravi difficoltà interpretative”. L’ultima riforma in ambito civile riguarda il processo esecutivo e i “procedimenti speciali”, con interventi che vanno dalla “riduzione dei termini per il deposito della certificazione ipocatastale” alla semplificazione procedurale delle espropriazioni, fino all’introduzione del meccanismo della “cosiddetta vente privée (vendita diretta del bene pignorato da parte del debitore)”. Anche su questo fronte si punta a chiudere la partita delle leggi delega entro settembre 2021 e nel giro di un anno approvare i decreti attuativi. L’impatto reale di tutte le norme messe in campo sulla giustizia civile si vedrà “alla fine del 2024”. Ordinamento della giustizia e Csm - Anche sul riordino dell’ordinamento giudiziario e del Csm, come trapelato nei giorni scorsi, la ministra Cartabia ripartirà dalla riforma di Bonafede. Gli obiettivi sono due: da un lato migliorare l’efficienza del sistema e la gestione delle risorse umane, dall’altro garantire un “esercizio del governo autonomo della magistratura libero da condizionamenti esterni”. Il testo del Pnrr è praticamente un copia-incolla del precedente, salvo alcuni passaggi “critici” che sono di fatto spariti dalla versione finale. Le misure in campo sono diverse: affidare ai dirigenti il compito di monitorare carico di lavoro e ritardi dei magistrati; riorganizzare le procure della repubblica, creando anche “gruppi di lavoro” in base alle specifiche attitudini dei pm; ridurre i tempi di accesso alla carriera, ridurre i passaggi da “incarichi giudicanti a incarichi requirenti”. L’ultimo punto è il più delicato: si tratta di riformare il meccanismo di elezione dei consiglieri del Csm, rimodulando “l’organizzazione interna dell’organo”. Non una parola sul fenomeno delle porte girevoli tra Parlamento e Palazzo dei Marescialli, a cui invece il Recovery plan del governo giallorosso faceva esplicito riferimento: in quel testo (datato gennaio 2021) si prevedeva una “nuova disciplina, fortemente restrittiva, delle condizioni che consentono la candidatura dei magistrati per incarichi elettivi e dello status dei magistrati, sia in caso di mancata elezione sia, in caso di elezione, al termine del mandato parlamentare o consiliare; una nuova disciplina, altrettanto restrittiva, dello status dei magistrati che abbiano assunto incarichi di governo nazionale, regionale o locale”. Per quanto riguarda la road map, i tempi sono serratissimi: entro il 15 maggio la commissione di esperti istituita dalla ministra Cartabia dovrà fornire le sue proposte sui vari temi (solo qui si parla genericamente della “disciplina dei rapporti tra magistrati ed attività politica”). Quindi si passerà all’esame in Aula: il governo Draghi ha richiesto infatti la “trattazione prioritaria” della riforma, auspicandone l’approvazione “entro giugno 2021”. La giustizia tributaria - L’ultimo dossier sul tavolo di via Arenula - una novità rispetto al Pnrr giallorosso - è quello della giustizia tributaria, su cui a metà aprile è stata istituita una commissione interministeriale guidata da Giacinto della Cananea. Un contenzioso tributario veloce è infatti fondamentale per dare “fiducia agli operatori economici”, ma va preliminarmente ridotto quello pendente. Secondo le stime, infatti, alla fine del 2020 risultano accumulati in Cassazione oltre 50mila ricorsi. È significativo, inoltre, che in un caso su due le decisioni della Corte consistano in un “annullamento di quanto deciso in appello dalle commissioni tributarie regionali”. Da qui la necessità di ridurre il numero di ricorsi, ad esempio grazie al rinvio pregiudiziale citato prima. Per quanto riguarda lo smaltimento degli arretrati, invece, sono previste nuove assunzioni con “adeguati incentivi economici” al personale ausiliario. La riforma della giustizia tributaria è l’ultima in ordine di priorità: il governo Draghi stima di approvarla “entro il 2022”. Il piano Cartabia e quelle toghe da rianimare di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 26 aprile 2021 Alla ministra Cartabia è stata assegnata la responsabilità del ministero della Giustizia in un contesto di estrema difficoltà. Il quadro politico è quello che è, segnato da tempo, nel campo della giustizia, da paralizzanti scontri ideologici o di interesse e ora costretto a comporsi in una maggioranza parlamentare tanto ampia quanto eterogenea. La ministra nella intervista di alto respiro rilasciata ieri a questo giornale, mostra di esserne del tutto consapevole. La titolare della Giustizia adotta il metodo di lavoro della prudenza che smussa gli angoli, unendovi il forte richiamo al dovere morale e politico di curare una istituzione la cui salute è vitale per la Repubblica. Numerosi problemi specifici sono stati lasciati irrisolti dai precedenti governi e non possono rimanere senza soluzione: prima fra tutte la questione dell’insostenibile durata della giustizia civile, penale, tributaria, amministrativa. Di essi si occupano ora i qualificati gruppi di lavoro che la ministra ha nominato per rivedere i testi già pendenti in Parlamento. A loro ha anche affidato il compito di preparare gli emendamenti che presenterà il governo. Si tratta di un lavoro importante e c’è da augurarsi che le proposte vengano accolte in Parlamento senza farne terreno di scontri propagandistici, alla ricerca del “bene comune” richiamato dalla ministra. Tra i temi in discussione ve ne sono alcuni che riguardano l’ordinamento giudiziario, le leggi cioè che definiscono il sistema complessivo del reclutamento, della destinazione alle diverse funzioni e della deontologia dei magistrati professionali, oltre che di quelli onorari. Ma il più visibile - la legge elettorale del Consiglio superiore e la “lotta alle correnti” - è in gran parte di facciata, mentre è venuto il momento di affrontare temi di fondo. L’ordinamento giudiziario in vigore è il frutto di ripetute modifiche, sull’impianto fondamentale che è del 1941. Risalendo alle origini si trovano i testi piemontesi e prima ancora quelli della Francia napoleonica. L’idea di fondo è quella del magistrato funzionario, bocca della legge da cui dipende. Nel frattempo quella finzione è stata definitivamente svelata. È così emerso il problema - processuale, ma soprattutto culturale - di come render compatibile l’attività individuale del giudice nell’applicare ed enunciare il diritto, con il ruolo che è proprio dell’istituzione giudiziaria nel suo complesso. Prevedibilità e stabilità della giurisprudenza sono in gioco. E quindi anche il ruolo della Cassazione ora impedita dalla massa dei ricorsi, prodotti dalle migliaia di avvocati in Italia abilitati a difendere davanti ad essa. Tema di grande e difficile portata, che deve essere affrontato con la definizione dei limiti del campo di intervento dei giudici, della capacità del sistema di decidere la quantità di controversie che gli sono rimesse, delle alternative possibili alla tutela giudiziaria dei diritti. Per non parlare del diverso e specifico problema del pubblico ministero. Tutto questo, tutto insieme è da affrontare. Non sarebbe adeguato farlo nel solo ristretto e finora improduttivo campo dei professionisti della giustizia, magistrati e avvocati, dimostratisi soprattutto conservatori, capaci di scontrarsi nell’inutile bricolage dei ritocchi dell’esistente. Ma la difficoltà della situazione in cui versa la giustizia è anche di natura diversa. Ed è grave da tempo. Lo stesso giorno in cui leggiamo l’intervista di Marta Cartabia, lo stesso giornale dà notizia dell’arresto di un giudice che vendeva per denaro i suoi provvedimenti. Non è il primo caso. Altre volte all’allarme lanciato anche da queste colonne, la magistratura ha risposto rivendicando di essere essa stessa quella che ha individuato e sanzionato i corrotti. E tuttavia c’è l’impressione di una insufficiente vigilanza preventiva dei dirigenti degli uffici e della mancanza di ciò che in ogni insieme professionale è fondamentale: il cosiddetto controllo sociale, che muove dalla convinzione che la caduta deontologica di anche uno solo, colpisce la credibilità di tutti. I fatti di corruzione sono per fortuna certamente pochi, se confrontati alla generale correttezza dei magistrati. Tuttavia è ora necessaria una poderosa iniziativa non solo sul piano del rigore deontologico, ma anche su quello più difficile della consapevolezza e direi anche della fierezza del corpo professionale. In altri tempi l’Associazione nazionale magistrati è stata credibile luogo di elaborazione e stimolo culturale. Ora direi che tra i compiti ineludibili della ministra Cartabia vi è quello di spendere la sua alta credibilità per scuotere l’insieme della magistratura, che mi pare umiliata e tramortita dalla miseria di episodi intollerabili e che interessi di parte presentano come rappresentativi di tutto il corpo giudiziario. È un compito anche più difficile di quello che riguarda i singoli problemi ora in discussione in Parlamento. Ma la ministra, rispettata e indipendente dalle corporazioni, non è sola. La Scuola della magistratura è istituzione importante e seria. Soprattutto è possibile far appello al presidente della Repubblica Mattarella. Poiché le norme sono importanti, ma lo spirito della magistratura lo è altrettanto. Articolo 101: “Non abbiamo chiesto noi commissione, ma necessario indagare sul correntismo” Il Dubbio, 26 aprile 2021 Il J’accuse della corrente ribelle delle toghe: “Solo chi versa in spudorata malafede può assimilare un’inchiesta sulla degenerazione correntizia alla volontà di rifare i processi e riscrivere le sentenze”. “La lista Articolo Centouno non ha nulla a che fare con nessuna proposta di commissione d’inchiesta. È vero invece che, nell’ambito di considerazioni di portata molto più vasta, una commissione di inchiesta sulla materia del correntismo e sulla degenerazione correntocratica dell’autogoverno della magistratura è stata considerata auspicabile nella lettera aperta al Presidente della Repubblica che qualche mese fa è stata sottoscritta da oltre cento magistrati”. E quanto precisa una nota a firma dei quattro componenti eletti nella lista Articolo Centouno al comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati, Maria Angioni, Giuliano Castiglia, Ida Moretti e Andrea Reale, replicando a quanto sottolineato in un documento di Area democratica per la giustizia che “mistifica slealmente la realtà”. “Istituire commissioni di inchiesta su materie di interesse pubblico è una prerogativa costituzionale del Parlamento” ricorda la nota, ed “è evidente” che “una commissione d’inchiesta giammai potrà servire a rifare in altra sede processi o a ribaltare sentenze definitive”. “Solo chi versa in spudorata malafede può assimilare un’inchiesta sulla degenerazione correntizia alla volontà di rifare i processi e riscrivere le sentenze - denuncia Articolo Centouno - Rifuggiamo il collateralismo politico nei fatti e respingiamo il ricatto morale secondo cui non si devono denunciare e affrontare i gravissimi problemi che affliggono l’autogoverno perché vi è il rischio che tali denunce possano essere strumentalizzate”. “La degenerazione correntocratica ha raggiunto livelli gravissimi e rende detto ricatto, sempre deleterio, ancor più intollerabile. E semplicemente risibile, poi - incalzano i componenti di Articolo Centouno- che l’accusa di collateralismo politico provenga da chi, all’interno della magistratura, ha storicamente rappresentato l’alter ego di partiti politici e, definendosi espressamente “soggetto politico” e così tradendo platealmente il dovere di indipendenza esterna e di imparzialità della giurisdizione, ha sempre sostenuto, in palese contrasto con la Costituzione, il ruolo “politico” del Consiglio superiore della magistratura”. “Comprendiamo che recenti eventi che hanno visto negativamente coinvolta AreaDG, come la sconfitta elettorale nelle ultime elezioni suppletive del Csm e la pubblica emersione di condotte censurabili nei confronti dei componenti del Comitato direttivo centrale compiute dal presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia (appartenente ad AreaDG), possano aver generato un certo nervosismo e la scomposta aggressività che contrassegna gli ultimi interventi di quel gruppo e dei suoi appartenenti. L’invito, a tutti - conclude il gruppo di Articolo Centouno - è a recuperare un minimo di controllo della realtà, constatando che se le istituzioni giudiziarie sono giunte al minimo storico della loro credibilità non è certo per colpa delle dita di quattro componenti del Cdc che indicano la luna; l’invito a tutti è a rimboccarsi le maniche e a decidere, finalmente, che è il momento di intraprendere la strada che possa effettivamente porre rimedio a quei mali che ormai non possono più essere nascosti sotto i tappeti dell’ipocrisia”. Carcere ai giornalisti, Vitiello accelera: “Subito la riforma in Parlamento” di Viviana Lanza Il Riformista, 26 aprile 2021 Il diritto di cronaca dei giornalisti, quello a essere informati dei cittadini, il rischio della gogna mediatica per chi è protagonista di fatti di cronaca giudiziaria. E ancora, la libertà di stampa, il diritto di critica, la presunzione di innocenza, la durata (eccessiva) dei processi, il diritto alla reputazione, le querele temerarie, il carcere per i giornalisti e la riforma di cui da anni si discute senza mai approdare a nulla di concreto. I temi sono tanti e si intrecciano tra loro in una discussione che va avanti ormai da tempo mentre di anno in anno continua a crescere il numero dei cronisti minacciati dalla camorra o querelati da chi vuole mettere un bavaglio al loro lavoro di inchiesta. E la politica che fa? Ne abbiamo parlato con Catello Vitiello, deputato di Italia Viva, avvocato penalista e componente della Commissione Giustizia della Camera. “Effettivamente, nel 2004, la Corte europea dei diritti dell’uomo, in occasione di un ricorso di due giornalisti condannati per diffamazione in quanto autori di un articolo nel quale accusavano un giudice di essere coinvolto in fatti di corruzione, ha ricordato in proposito il proprio insegnamento secondo cui la stampa svolge l’essenziale ruolo di “cane da guardia” della democrazia, rilevando il delicato equilibrio tra il diritto di espressione e la tutela della reputazione delle persone, senza mai dissuadere i media dal dovere di segnalare all’opinione pubblica casi apparenti o supposti di abuso dei pubblici poteri”. È labile il confine fra diritti e interessi diversi. “Così accade, per esempio, con il timore di sanzioni detentive - aggiunge il deputato Vitiello - La pena detentiva per un reato a mezzo stampa può essere compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti, quando altri diritti fondamentali siano stati seriamente offesi. La politica deve farsi carico di garantire che questo equilibrio venga rispettato, anche precisando i casi tassativi in cui la pena detentiva sia extrema ratio posta a garanzia di diritti di pari valore costituzionale”. Da tempo si discute di riforme, ma alle parole ancora non seguono i fatti. A proposito della possibilità del carcere per i giornalisti condannati, a giugno scade il termine che lo scorso anno la Corte Costituzionale ha stabilito affinché sia rivista in Parlamento la norma che prevede la reclusione per i giornalisti condannati per diffamazione: a che punto siamo? “Le proposte di legge sono diverse e tutte ferme - spiega il componente della Commissione Giustizia - La Consulta ha chiesto al Parlamento di rivedere il bilanciamento di cui parlavo, tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, proprio in particolare con riferimento all’attività giornalistica. Personalmente, ritengo che occorre una riforma seria”. Di che tipo? “Una riforma - sottolinea Vitiello - che punti, da un lato, a rivedere la distinzione fra il giornalista dipendente e quello freelance dal punto di vista del trattamento lavorativo e del riconoscimento della tutela legale; dall’altro, a regolamentare lo spazio della libertà di informare e di formare la pubblica opinione stabilendone con precisione i limiti dettati dagli altri diritti fondamentali in gioco, come la reputazione della persona e la vita privata. Visto che una buona parte delle querele sono legate al mondo giudiziario, sarebbe anche utile ridefinire l’ambito del diritto di cronaca giudiziaria, i cui confini non possono ritenersi sovrapponibili al diritto di cronaca lato sensu inteso. Di conseguenza - conclude - anche la tutela legale del giornalista investigatore dovrebbe essere garantita e trattata in maniera specifica”. Nuoro. Badu e Carros, mezzo secolo di un carcere tra mafiosi e terrorismo La Nuova Sardegna, 26 aprile 2021 Oggi nel gergo tecnico ministeriale viene chiamata Casa Circondariale di Nuoro, ma “Badu’e Carros” aperta negli anni ‘70 non è mai stato un carcere come tutti gli altri. Un luogo qualunque alla periferia della città, prima isolato ora avvolto dalle case della nuova urbanizzazione. Fin dagli anni successivi alla sua apertura l’istituto ha visto la presenza di regimi-circuiti detentivi speciali (carcere speciale negli anni settanta, sezione di 41 bis poi ed altre tipologie come quella attuale che lo hanno identificato come il luogo ideale per ospitare i detenuti più pericolosi del panorama malavitoso nazionale. Terroristi, mafiosi e camorristi, qui in 50 anni sono passati tutti. Spesso lasciando anche il segno. Oggi la quasi totalità dei 220 reclusi (22 stranieri) è in regime di AS3, (alta sicurezza) con 4 ore giornaliere fuori cella e assenza di spazi di socialità ai piani (peraltro luminosi e curati). Da alcuni anni è stata istituita una sezione destinata ai detenuti AS2 (gestita dal Gom), gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria, negli stessi spazi precedentemente occupati dal regime di 41bis, ovvero nei locali originariamente destinati all’isolamento. La struttura guidata dalla direttrice Patrizia Incollu ultimamente è interessata da significative ristrutturazioni, che prevedono lo spostamento dei reclusi (7) in AS2, nell’ex sezione femminile presente fino ad alcuni anni fa prima del trasferimento in blocco in altri istituti. Catanzaro. All’Istituto De Nobili il progetto “Giustizia e Umanità, liberi di scegliere” catanzaroinforma.it, 26 aprile 2021 Un giornale, i prof, un giudice e un attore insieme alla cantastorie per parlare di legalità e giustizia. È approdato all’Istituto Giovanna De Nobili di Catanzaro il progetto “Giustizia e Umanità, liberi di scegliere” promosso nelle scuole di tutta Italia dall’Associazione culturale “Biesse Bene sociale” presieduta da Bruna Siviglia insieme al Dott. Roberto Di Bella Presidente del Tribunale dei minorenni di Catania. L’evento - che ha avuto il suo fulcro nel confronto tra gli studenti e il Giudice sul libro da lui scritto con la sceneggiatrice Monica Zapelli, in cui sono raccontate le intuizioni, le fatiche e la determinazione del Giudice Di Bella nella sua inedita e straordinaria attività di contrasto alla ‘ndrangheta - è stato contraddistinto da intensi momenti dedicati al tema del dibattito nonché da molteplici interventi. I saluti istituzionali sono stati affidati al Dirigente scolastico Angelo Gagliardi che nel ringraziare tutti i partecipanti ha messo in luce il valore del progetto liberi di scegliere anche come importante strumento di educazione alla legalità, nonché il diligente lavoro di studio preparatorio all’incontro con Di Bella svolto dagli studenti del De Nobili, auspicando ulteriori eventi formativi di questo tipo che coinvolgano sempre più i ragazzi, già impegnati in un percorso di educazione alla legalità. Giulia Anna Pucci, Presidente della “La voce della legalità” - associazione che promuove in ambito scolastico incontri tematici sulla legalità, parità di genere ed eguaglianza - ha focalizzato l’attenzione del suo intervento sulla componente familistica della ‘ndrangheta ove la struttura criminale coincide con quella familiare condannando così i figli ad un destino ineluttabile di violenza e cultura criminale fin dalla nascita, da qui l’importanza del progetto liberi di scegliere che offre una concreta alternativa di vita ai minori appartenenti a queste famiglie, attraverso la decadenza della responsabilità genitoriale o l’allontanamento dal nucleo familiare nei casi più gravi, facendo cenno infine alla figura delle madri di questi “bambini a metà”, spesso a loro volta vittime della spirale di odio e sottomissione alle logiche criminali della famiglia di appartenenza, finalmente anche loro libere di scegliere un futuro diverso per i propri figli. Pucci ha inoltre portato i saluti del Direttore di Catanzaro informa Riccardo Di Nardo, da sempre attento alle iniziative di educazione alla legalità, e che ha premiato i talentuosi artisti catanzaresi Francesca Prestia e Francesco Colella - intervenuti nel convegno - nell’ambito del prestigioso Premio “Catanzaro informa 2020” sul palco del Cinema Teatro Comunale di Catanzaro. È intervenuto poi il Vice Presidente e coordinatore della Voce della legalità Simone Rizzuto, partendo dalla considerazione della fenomenologia mafiosa che prima ancora che penetrare nei gangli vitali della pubblica amministrazione, delle professioni, dell’economia e della politica, ha l’attitudine a penetrare nell’ambito del tessuto familiare, ha analizzato le conseguenze dell’indottrinamento mafioso - che appunto nasce e si sviluppa nel luogo che dovrebbe proteggere i minori ossia la famiglia- in quanto incide su altri istituti come per esempio la responsabilità genitoriale, comportandone eventuale destituzione ove vi siano i presupposti, infine si è soffermato, anche in qualità di legale, sulla centralità del minore e della sua tutela nel sistema penale, dove non si tende a comminare una sanzione che sia afflittiva ma si tende ad adottare strumenti giuridici differenziati al fine di preservare la personalità del minore, come personalità vulnerabile e non ancora strutturata. La docente Elena Maida ha sviluppato il concetto di legalità inteso anche come rispetto, uguaglianza ed attenzione verso i più deboli, invitando energicamente gli studenti a comportamenti virtuosi improntati all’ossequio delle regole e alla difesa di chi in società versa in condizioni più svantaggiate rispetto agli altri. La moderatrice Bruna Siviglia, Presidente di Biesse bene sociale Associazione culturale che opera per il bene comune e che ha sottoscritto tanti protocolli di intesa con importanti Enti, ha descritto l’enorme successo che il progetto Giustizia e umanità liberi di scegliere promosso dalla stessa unitamente al Presidente Di Bella sta riscuotendo nelle scuole di tutta Italia, indice della sensibilità delle nuove generazioni verso queste tematiche; si è inoltre soffermata sul concorso indetto dalla Biesse legato al suddetto progetto, in base al quale gli studenti si cimenteranno nell’elaborazione di temi o cortometraggi riguardanti “liberi di scegliere”, i tre migliori lavori saranno premiati con tre borse di studio intitolate a Fava e a Lea Garofalo. A questo punto è stata trasmessa una parte del film in cui ha recitato l’attore Francesco Colella, poco prima del suo intervento. Colella, esaltando il tratto visionario del Dottore Di Bella che ha permesso la liberazione dal male dell’illegalità di tantissimi ragazzi, ha poi parlato agli studenti, in modo appassionato, della sua interpretazione attoriale nel film liberi di scegliere in cui ha interpretato un boss padre di un minore, il suo impegno - riuscitissimo - è stato quello di suscitare nel pubblico sentimenti contrari all’empatia, rispetto al suo personaggio, quindi di repulsione a causa della capacità di “portare morte, desolazione e desertificazione dei sentimenti” di queste persone, ha concluso il suo intervento con l’invito ai ragazzi a frequentare sempre arte, conoscenza e cultura. La cantastorie Francesca Prestia, che ha brillantemente messo in musica le parole in dialetto reggino dei minori provenienti da contesti difficili nonché il loro bisogno di rifiorire ed affrancarsi dalla tristezza che il loro destino tracciato comporta, ha esordito facendo riferimento alla data odierna, compleanno di Lea Garofalo, testimone di giustizia uccisa dalla ‘ndrangheta, per la quale Prestia ha scritto ‘la ballata di Lea’, oltre a ‘ninna nanna’ dedicata a Giuseppina Pesce, entrambe fatte ascoltare durante il convegno. Presente all’incontro anche Michele Geria, Direttore del Reggio Film Festival di Reggio Calabria, con il quale l’associazione Biesse nei prossimi giorni siglerà un protocollo d’intesa, per cui il progetto giustizia ed umanità liberi di scegliere il 22 luglio farà parte de Reggio film festival con la proiezione del film liberi di scegliere e con la premiazione dei cortometraggi vincitori del concorso indetto per le scuole. Infine il Giudice Di Bella, dopo aver messo in luce il potenziale educativo enorme del film liberi di scegliere trasmesso da Raiuno, poiché demistifica il mito mafioso, ha raccontato la sua esperienza di Presidente del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria dal 1993 a settembre 2020, una scelta inizialmente casuale ma poi rivelatasi straordinariamente efficace visti i risultati della sua attività. Di Bella ha raccontato con sensibilità, umanità e competenza gli esordi del suo percorso in Calabria, a partire dal suo primo caso, un cruento omicidio di una giovane la cui colpa fu quella di essersi innamorata di un ragazzo sbagliato, ha poi raccontato altri casi dolorosi che si è trovato ad affrontare come quello dei minori della faida di San Luca o minori che hanno ucciso le loro madri per essersi legate sentimentalmente ad altri uomini e non aver aspettato che il marito uscisse dal carcere, minori che hanno ucciso forze dell’ordine e così via, tanti casi di giovanissimi, capaci ed intelligenti, che avrebbero potuto aspirare ad una vita diversa se solo non fossero nati da famiglie di ‘ndrangheta. Da questa constatazione è nato il progetto liberi di scegliere, con la necessità dell’allontanamento dei minori dalle famiglie originarie, sfociata nella speranza di un riscatto, tutto ciò reso possibile grazie alla rete collaborativa con Libera e con la Cei. L’allontanamento di madri e figli è un duro colpo alla credibilità del sistema criminale, ha affermato Di Bella, per questo è fondamentale continuare in questa direzione, dando a tanti altri ragazzi la possibilità di una vita libera e dignitosa ed il diritto di essere loro i protagonisti della stessa. A conclusione dell’incontro numerose domande degli studenti, coinvolti ed attentissimi, alle quali il Giudice Di Bella e gli altri intervenuti hanno risposto con interesse e generosità, con l’auspicio di un nuovo incontro. Giuseppe Misso, l’ex boss che ama Céline di Roberto Saviano Corriere della Sera, 26 aprile 2021 Fu il principe del Rione Sanità. Capoclan, oggi collaboratore di giustizia, si racconta con un alter ego nel romanzo “I leoni di marmo” (Milieu). Giuseppe Misso lo chiamano da tempo il boss scrittore. Lui rifiuta con sdegno la definizione di camorrista, e si descrive come autore di “prelievi forzati”: un rapinatore, in definitiva. Eppure, è stato un capo, il Quartiere Sanità è stato il suo feudo, ha fondato negli anni Novanta un cartello potente, considerato l’unico in grado di fronteggiare la temuta Alleanza di Secondigliano. La storia di Misso non ha precedenti. Si racconta come un bandito che sceglie la via del crimine per combattere il crimine, considera il male come necessario impossibile da eliminare. Non può esserci alcun bene se eliminiamo il male, ma il male a cui fa riferimento è un male che va gestito e controllato, dominato da regole e persino - a suo dire - da un codice morale. Misso ha una visione ideologica della prassi criminale: molti anni fa quando era il principe del Quartiere Sanità minacciò di bruciare il negozio ai commercianti del suo quartiere che pagavano il pizzo ai clan, perché non dovevano piegarsi, avrebbe fatto lui da garante. Chi cede alla camorra verrà punito. Per lo Stato, oggi Misso è un collaboratore di giustizia in detenzione domiciliare in una località segreta, con alle spalle oltre 30 anni di carcere per vari reati, tra cui associazione a delinquere di stampo mafioso e omicidio. Negli anni di carcere ha ripreso gli studi, abbandonati prima delle scuole medie, e ha scoperto un amore ossessivo per la letteratura: Pavese, Dostoevskij, Wilde, Balzac, la filosofia tedesca, e soprattutto il suo prescelto, Louis-Ferdinand Céline. Che la cultura da sola possa far mutare direzione è un’ingenuità, se avesse incontrato da bambino scuole e lavoro e non miseria e ignoranza probabilmente la letteratura l’avrebbe portato altrove, ma ora gli ha dato strumenti di comprensione inaspettati, accessi nuovi alla sua vita. Misso ha iniziato a scrivere della sua vita dal primo furto per fame ai caveau delle banche più importanti, ne è uscito il romanzo, I leoni di marmo, rivisto e corretto, cambiato e ricalibrato negli anni. Il protagonista del romanzo si chiama Michele Massa, ma la storia raccontata è quella vissuta dall’autore e i personaggi che compaiono nel libro sono persone realmente esistite che hanno incontrato sul proprio sentiero, per destino o per scelta, Giuseppe Misso. Tutto ha inizio sui magnifici trecenteschi leoni stilofori di Tino Di Camaino che si trovano sulla facciata del Duomo di Napoli, ai lati del portale centrale; su quei leoni da sempre si siedono i bambini, fingono di cavalcarli, di domarli, e domandoli diventano i re di Napoli. Il romanzo racconta di due bambini che giocano su quei leoni, che stringono un legame profondissimo, fino a fondersi nella stessa persona. “Perché nella vera amicizia vi è anche amore, nell’amore non sempre vi è anche amicizia”, è il credo di Misso. Ma questi bambini uniti da un amore fraterno con cui rubano, rapinano, vivono con il desiderio di sopravvivere a qualsiasi costo, ma con la sola regola di farlo insieme, finiranno da adulti per massacrarsi, l’uno contro l’altro. Il rapporto di Michele Massa (Giuseppe Misso) e Mario Giolitti (Luigi Giuliano) è uno dei più straordinariamente ed incredibilmente epici nella storia della criminalità internazionale. Questo romanzo esce per Milieu, casa editrice animata da Edoardo Caizzi. Milieu si chiama l’editore, e non è un caso. Il concetto di Hippolyte Taine, intellettuale che per primo utilizzò il termine “naturalismo” riferito ai comportamenti sociali e all’uomo, ambiti per cui capì che poteva essere applicato lo stesso metodo di analisi utilizzato in campo scientifico. Non più un approccio emotivo ai comportamenti umani, quindi, ma un’analisi di questi in base a race, milieu, e moment, ovvero fattori ereditari, contesto sociale e momento storico. Di questi tre parametri ho sempre considerato davvero determinante il secondo, ovvero il milieu, l’ambiente dal quale l’individuo proviene, in cui è nato, cresciuto, alle cui regole si è assuefatto o ribellato, i cui codici ha assorbito o sovvertito. E così, se visitate il catalogo dell’editore Milieu, vi accorgerete di una scelta, unica nel panorama editoriale italiano, quella di lavorare a stretto contatto con i protagonisti di queste storie, non solo con le fonti giornalistiche e giudiziarie, ma con le memorie dirette dei banditi e dei loro familiari. Ecco la scelta: dare voce ai protagonisti criminali. È un lavoro che cammina sul filo, insidioso, che presuppone un patto di fiducia tra editore e lettore. Una fiducia oggi rara. Poter accedere direttamente alle pagine di chi ha commesso e vissuto crimini è fondamentale. L’intento non è educativo né di esaltazione della vita vissuta fuori dalle regole, ma la creazione di una mappa necessaria per muoversi nel mondo, la ricerca di un altro punto di vista che, in determinati frangenti, potremmo sorprendentemente scoprire essere vicino al nostro. La qual cosa ci spaventerà, ci disorienterà: sarà un’esperienza da cui usciremo diversi. Ne “I leoni di marmo” Misso, attraverso il suo alter ego, racconta dal suo punto di vista la vita da bandito e capoclan. Si descrive come un capo dai modi nettamente opposti a quelli dei rivali. Parla di agguati e strategie, sappiamo che quel che racconta lo ha vissuto. Sappiamo che non lo ha studiato, non lo ha letto in atti giudiziari, non ha partecipato, da spettatore, ai processi. L’universo mafioso ha prodotto molti presunti poeti e parolieri di canzoni, ma Giuseppe Misso ha qualcosa di differente dai boss parolieri. La sua formazione filosofica non è per nulla banale, non è rimasta sulla superficie ma è stata interiorizzata e filtrata sulla sua esperienza. Il racconto ha inizio con Michele Massa che esce dal carcere di Poggioreale, in libertà provvisoria. Siamo nel 1979 e Massa è un rapinatore già noto in città: “[…] tutti dicevano che nel mio campo ero il miglior prelevatore. Intorno alla mia persona si era creato un alone di mistero e di fascino…”. A Poggioreale era stato due anni, eppure, una volta uscito troverà la sua Napoli radicalmente trasformata dalla presenza di una nuova organizzazione criminale: “La lunga gestazione del malaffare degli amministratori pubblici aveva partorito un gelido mostro, questa volta tossico: la nuova camorra”. E anche lo storico amico Giolitti, con cui aveva passato infanzia e adolescenza tra furti e rapine, è cambiato: ora non è più un semplice malavitoso, ma il capo di un clan violento, i cui membri sono dediti a estorsioni e droga. Giolitti ha anche un grande obiettivo, quello di sconfiggere la Nuova Camorra Organizzata e il suo fondatore, Raffaele Cutolo: “Nemmeno mi ascoltava, nemmeno si rendeva conto della nausea che riusciva a farmi provare nel parlarmi di strategie di guerra e di morte”. Massa sembra scegliere una strada diversa, quella dell’indipendenza: non si schiera né con Giolitti e la sua Fratellanza Napoletana (vero nome della confederazione di clan passata mediaticamente alla storia come Nuova Famiglia) né con i cutoliani; riprende a fare rapine e costituisce un suo gruppo criminale autonomo che permetta a lui e ai suoi sodali di difendersi dagli altri cartelli in città e di proteggere i propri interessi. Sì, perché nel frattempo Massa aveva aperto un’attività commerciale in Via Duomo ed era quindi anche lui soggetto ad aggressioni per fini estorsivi: “Il pensiero che prima o poi dovevamo sparare per uccidere mi assillava. In fondo non chiedevamo tanto: volevamo essere indipendenti dalle organizzazioni camorristiche, senza per questo subire ricatti, violenze, offese. Chiedevamo soltanto autonomia e rispetto per le nostre scelte. Era utopia?”. Ogni volta che nel romanzo è citato il termine “camorra” viene utilizzato con spregio: “Con i camorristi non si è mai sicuri di niente, nel loro sangue si alligna l’inganno”. E più avanti: “Non avrei mai potuto sottostare all’arroganza e alla prepotenza di chicchessia, tanto meno dell’infame camorra”. E, infatti, Massa reagisce con disgusto quando scopre di essere ricercato dalle forze dell’ordine nell’ambito di un’operazione contro la Nuova Famiglia: “C’era anche il mio nome nell’interminabile lista delle persone da ricercare: incredibile! Mi battevo contro la camorra e lo Stato ordinava la mia cattura per associazione camorristica”. E qui capiamo che non esiste un solo “noi” e un solo “loro”, ma infiniti “noi” e infiniti “loro”. Qui capiamo che bisogna mettersi all’ascolto, è qui la risposta a quanti negli anni mi hanno accusato di non aver mai dato voce al bene e di aver sempre raccontato il crimine organizzato dalla prospettiva di chi lo compie. Ma è proprio quella la prospettiva che ci manca, è quella la prospettiva che dobbiamo indagare, sondare e portare alla luce pur sapendo di non riuscire a coglierne che una pallida ombra. Lo so, starete pensando a quanto sia pericoloso sposare questo punto di vista; starete forse pensando che anche riportare il contenuto di questo romanzo equivalga a fornire una versione dei fatti alternativa rispetto a quella ufficiale, giudiziaria. Ma vi sorprenderà forse sapere che la versione ufficiale, quella che vede contrapposti buoni e cattivi, vittime e carnefici, guardie e ladri, noi e loro, non viene messa in discussione, non è scalfita, ma arricchita. Così è per il racconto delle carceri, che sembra non trovare mai spazio nel dibattito pubblico. Misso è stato detenuto a Poggioreale, Pianosa, Rebibbia, Ariano Irpino, Ascoli Piceno, Sollicciano, poi a Spoleto, Parma e ancora altri penitenziari, e critica le condizioni di vita dei detenuti, racconta di soprusi e omicidi derubricati come suicidi: “A Poggioreale - scrive - sono stipati circa 2.500 reclusi: milioni e milioni di lire che spariscono nel fetore di una brodaglia. Quella prigione è fuorilegge non perché c’è il sovraffollamento, ma perché si trova a Napoli e rispecchia fedelmente le caratteristiche di questa città: disorganizzazione endemica, scarsa professionalità, corruzione a tutti i livelli, approssimazione, furbizia spicciola, sporcizia atavica…”. E ancora: “Le condanne, specialmente se associate alle percosse, non correggono nessun criminale”. Ecco, sul sovraffollamento la penso diversamente ma, riguardo alle percosse, come dimenticare il racconto che Pietro Ioia, oggi garante dei detenuti di Napoli, ha fatto della cella zero di cui reca, sul corpo, segni permanenti? Così è per il racconto della camorra, che i politici colgono come opportunità: “Sono riusciti a tramutare il fango in oro, e hanno scoperto, con la camorra, l’elisir di una lunga vita politica”. E ancora: “Con la disoccupazione e la miseria che attanagliavano Napoli, la camorra stava diventando un’industria per tanti disperati: distribuiva lavoro! Era un grande serbatoio di voti, che il regime poteva controllare. Poco importava se a lungo andare l’economia della città moriva di violenza insieme a tanti esseri umani. L’importante era che al momento la camorra serviva. Infine, sui “nuovi criminali”, i politici potevano scaricare le colpe di una città stuprata dal degrado, dall’incuria, dall’abbandono...”. Quando si trova improvvisamente catapultato in un summit della Fratellanza Napoletana, in cui vengono scelte le vittime di successivi attacchi, Massa commenta così: “Nietzsche scrive che “l’uomo è un essere senza forma, una brutta pietra che ha bisogno dello scultore”. Il potere politico, con la complicità delle stesse sue vittime, aveva reso quella pietra ancora più mostruosa. Purtroppo, noi napoletani, abbiamo sempre meritato “scultori” del genere”. Il romanzo continua seguendo gli eventi del clan Misso: l’incontro nel 1983 con il futuro parlamentare del Msi Massimo Abbatangelo alla ricerca di sostegno per le elezioni, la famosa rapina al Monte dei Pegni del Banco di Napoli del 3 aprile 1984, ma anche il racconto delle bombe - che Misso rivendica qui, in queste righe - esplose nel 1982 allo Stadio San Paolo e davanti a casa dell’allora presidente del Napoli, Corrado Ferlaino, contro il quale fu anche fatto sorvolare sulla città uno striscione trascinato da un aereo per chiederne le dimissioni. E ancora la latitanza di Misso in Brasile, fino al suo arresto nel 1985 e i due processi storici che lo vedono imputato in quegli anni, quello inerente alla rapina al Monte dei Pegni e quello per la vicenda del Rapido 904 (per il quale fu assolto dal reato di strage). E poi c’è la vita personale, la nascita del suo primo figlio mentre è in carcere, la morte della madre durante la sua detenzione e l’impossibilità di vederla un’ultima volta. E ci sono le lotte contro i clan al cui fianco non ha mai voluto schierarsi, quello dei Giuliano e l’Alleanza di Secondigliano. Il sipario cala il 16 aprile 1999, quando, dopo 14 anni, Massa esce dal carcere (dove sarebbe tornato pochi anni dopo). Fuori dalla Questura di Firenze, dopo aver firmato gli obblighi di sorveglianza speciale, ad aspettare il capo ci sono i suoi nipoti, pronti per riportarlo a Napoli. Il libro è uno scrigno colmo di dati, punti di vista, aneddoti, sangue e ancora sangue. Il paradosso del bandito che si fa boss per combattere la camorra e dare al male regole d’onore affascina e lascia perplessi al contempo, ma I leoni di marmo ci consente di osservare l’uomo in uno spazio di insolita nudità, non l’uomo criminale, non il peggiore, ma l’uomo che si trova a vivere in condizioni date che sono diverse da quelle che è capitato a noi di sperimentare. L’uomo in rapporto con il milieu, con il suo mondo, il suo sistema di valori, le prassi quotidiane. Sbagliamo a credere che siano uguali per tutti. E a Napoli questo lo impari in fretta. “Se porti un bambino nato a Napoli in Inghilterra, egli imparerà l’inglese, se invece porti un bambino inglese nei “ghetti” di Napoli, da grande egli parlerà il linguaggio del marciapiede”. A Napoli una strada può segnare il confine tra il tuo mondo e un mondo che non ti apparterrà mai veramente. Che puoi conoscere, frequentare, finanche chiamare per nome, col tuo nome, ma non sarà mai davvero tuo. Il volume - Il romanzo “I leoni di marmo” di Giuseppe Misso (pagine 320, euro 16,90) è in libreria per la casa editrice Milieu. Giuseppe Misso (Napoli, 1947) ha alle spalle oltre trent’anni di carcere per vari reati, tra cui associazione a delinquere di stampo mafioso e omicidio. Adesso è un collaboratore di giustizia in detenzione domiciliare. Nel romanzo il protagonista si chiama Michele Massa, ma la storia raccontata è quella dell’autore. “Tutti dicevano che nel mio campo ero il miglior prelevatore”, scrive ne “I leoni di marmo” (Milieu). Giuseppe Misso si definisce un autore di “prelievi forzati”, un rapinatore. Nel libro si parla anche dell’amico d’infanzia Luigi Giuliano (che diventerà boss di Forcella e avversario). Anni di piombo, a Milano scritte le pagine della nostra storia di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 26 aprile 2021 Davide Steccanella è l’autore di un volume sulla violenza politica partita dal capoluogo lombardo negli anni 60. Anni da non dimenticare, che hanno fatto la storia del nostro paese. Ne è convinto l’avvocato Davide Steccanella, autore del libro “Milano e la violenza politica 1962-1986” (Milieu Edizioni, pp. 264 con illustrazioni e prefazione di Claudia Pinelli, euro 18,90). Il sottotitolo del volume, a riprova del fatto che si tratti di pagine indimenticabili, è chiaro: la mappa della città e i luoghi della memoria. Una memoria fatta di slanci vitali, cristallizzatasi anche con la violenza ed i lutti del ventennio 60-80 del secolo scorso. Il libro di Steccanella, che è il difensore di Cesare Battisti, è impreziosito da immagini d’epoca, molte delle quali dimenticate negli archivi delle redazioni giornalistiche. Grazie alle tessere dei tanti episodi descritti e ai suoi protagonisti si riesce a ricomporre il mosaico di una parte della storia d’Italia partorita nel capoluogo lombardo. “In questo libro - racconta a Il Dubbio l’avvocato Steccanella - ho cercato di ricostruire nel modo più oggettivo possibile un periodo di storia della nostra città, limitandomi a ricostruire i fatti e lasciando che fossero un centinaio di protagonisti di quegli anni, da una parte e dall’altra, a commentarli. Gli anni Settanta sono stati anni di approvazioni di leggi come lo Statuto dei lavoratori, il Servizio sanitario nazionale, la Legge Basaglia, le riforme del diritto di famiglia, della scuola e del diritto penitenziario, le leggi su divorzio, aborto e asili nido, l’obiezione di coscienza, l’abbassamento dell’età del voto alla Camera e la Legge Merli. Però, c’è stata anche un’altra storia e “prima di voltare una pagina”, come ha scritto lo storico jugoslavo Predrag Matvejevic, “bisogna leggerla”“. Gli anni di piombo hanno cambiato Milano e l’hanno proiettata nel futuro molto tempo prima rispetto al resto d’Italia? La città di Milano, dal dopoguerra in avanti, è stato l’epicentro di gran parte di quello che è accaduto in Italia nella seconda metà di un secolo, il Novecento, contrassegnato più di ogni altro da fermenti radicali di vario tipo, per esempio culturali, generazionali e sociali. In questo senso, è corretto affermare che anche quel lungo periodo di diffusa violenza politica a vari livelli che ha interessato non solo l’Italia ma la gran parte del mondo occidentale negli anni Sessanta e Settanta, e parte degli Ottanta, sia partito da Milano per poi diffondersi in altre realtà metropolitane di un Paese ancora poco omogeneo e diseguale. Direi che non sono stati gli “anni di piombo”, definizione mediatica che mistifica il significato assai diverso del titolo di un bellissimo film della tedesca Von Trotta, a proiettare Milano verso il futuro, ma semmai il contrario. Ci spieghi meglio... L’affannosa rincorsa al benessere nel finale degli anni 50 generò quelle grandi tensioni sociali destinate a esplodere nel successivo decennio, quando la ribellione studentesca del ‘68 contro un sistema vetusto si unì a quella operaia dell’autunno caldo e in seguito si allargherà a giovani disoccupati e ai proletari delle varie periferie, i quali, rimasti esclusi da quel boom, pativano le conseguenze dei successivi 70 di sacrifici e di austerity. Inoltre, fu a Milano che si consumò quel micidiale passaggio di decade che vide compiersi in pochi giorni la strage di Piazza Fontana, l’arresto ingiustificato di alcuni anarchici e la morte in questura di Pinelli. Il suo libro è un atto di amore verso Milano? Certamente, anzi direi che è stato il motivo principale che mi ha indotto a scriverlo. Come racconto nella prima parte, in cui descrivo i mutamenti della città negli anni che hanno preceduto i Settanta, Milano era ricchissima non solo di soldi, quelli ci sono sempre stati, ma soprattutto di personaggi straordinari, da Gadda a Strehler, da Arbasino a Mario Mieli, da Gaber a Jannacci, da Andrea Valcarenghi a Primo Moroni, da Dario Fo a Paolo Grassi e Claudio Abbado, da Fernanda Pivano a Ada Merini, di luoghi come il Santa Tecla, il Giamaica, il Piccolo Teatro, la libreria Calusca. Si percepiva una voglia diffusa di cambiare le cose in un irripetibile miscuglio di intelligenza, creatività e rabbia per ogni forma di ingiustizia, per cui tutti o quasi sembravano mossi da un impegno totale e collettivo. Insomma, una città che era oggettivamente avanti anni luce rispetto al resto di un’Italia ancora molto arretrata. Le tensioni e le divisioni degli anni di piombo hanno rafforzato la coscienza civica degli italiani? Io non so valutare l’attuale “coscienza civica” degli italiani, ma non mi pare che la storia la indichi come una delle nostre maggiori virtù. Qualcuno ha detto che ad onta delle grandi innovazioni tecnologiche siamo rimasti “il paese di Alberto Sordi” e soprattutto questi anni paiono dominati da un individualismo sfrenato e da un’estenuante rincorsa al denaro e al potere. Ambizioni più che legittime, ci mancherebbe, ma se diventano le linee guida per le nuove generazioni rischiano di creare un mondo cinico e poco attento ai bisogni dei più deboli. Vedo anche molto giustizialismo e una voglia di forca spacciata per difesa della legalità che mi inquieta e ogni tanto mi viene da pensare che alla sbandierata “caduta delle ideologie” del Novecento sia succeduta una “caduta delle idee”, che è cosa ben diversa. Forse, questa drammatica esperienza del Covid, che ci ha costretto a rivedere schemi di vita e modelli dati fino a ieri per immodificabili, potrebbe renderci in grado di lasciare ai nostri figli un mondo più attraente. Milano è la città in cui il corpo di Mussolini è stato esposto a Piazzale Loreto. La violenza del ventennio di piombo 60-80 del secolo scorso è, secondo lei, anche un’eredità di quanto accaduto nella Seconda guerra mondiale e nel dopoguerra? Certamente, la storia, anche se non si ripete mai nelle singole declinazioni, è sempre collegata ad un filo continuo e nulla accade per caso. Il mio libro inizia proprio da Piazzale Loreto, perché è il luogo in cui ha avuto inizio la seconda parte del Novecento italiano. Milano era stata il centro nordico della Resistenza ed è a Milano che nel primo dopoguerra opera la Volante Rossa, per cui la violenza politica non è un’invenzione dell’antifascismo militante degli anni Settanta che porterà a ripetuti scontri di piazza fino alle tragiche giornate dell’aprile 1975. Va, tuttavia, chiarito che il diverso fenomeno della lotta armata clandestina non nasce dall’antifascismo militante ma dal conflitto sociale sviluppatosi nelle grandi fabbriche e nelle periferie, tanto che fu alla Pirelli e alla Siemens che nacquero le Brigate rosse. Sarà nel bacino industriale di Sesto San Giovanni che qualche anno dopo nascerà Prima Linea, le due principali, anche se certo non uniche, organizzazioni armate degli anni Settanta. Tutto il “secolo breve”, come venne definito dallo storico inglese Eric Hobsbawm, è stato scandito da un radicalismo violento, perché non è stato solo il secolo di ben due guerre mondiali ma anche quello di molte rivoluzioni. Alcune, poche, riuscite e molte fallite. Lei ha difeso Cesare Battisti. Anche il suo assistito ha vissuto in prima persona quanto descritto nel suo libro. Battisti è figlio o padre degli “anni di piombo”? Battisti ha militato, come migliaia di altri giovani in quegli anni, in una delle tante formazioni minori di matrice “autonoma” nate in città sulle ceneri del Movimento del ‘77 per un fenomeno che ha avuto diverse declinazioni. La storia ufficiale non ha mai saputo o voluto raccontare quel periodo nei suoi reali termini, perché i numeri di quel conflitto parlano chiaro. La nota ministeriale del 30 dicembre 1979 riporta: 269 sigle armate operanti alla fine del 1979, 36.000 cittadini inquisiti, 6.000 condannati, 7.866 attentati compiuti e 4.290 azioni ai danni di persone. Il paradosso è che oggi Battisti, figura non certo centrale di quel periodo di storia, viene fatto passare come quello che ha inventato la lotta armata in Italia e descritto come un pericoloso terrorista anche se sono passati 42 anni dal suo ultimo delitto, commesso quando il contesto storico del nostro Paese e dell’intero mondo occidentale era completamente diverso. Come vive Battisti la sua pena? Non mi piace inserire una vicenda di cui mi sto occupando come avvocato, quello che posso dire è che il mio assistito sta scontando quarant’anni dopo un regime penitenziario punitivo in aperto spregio a quanto stabilito dalla Corte di Assise di Appello di Milano, giudice della sua esecuzione, con un provvedimento del 17 maggio 2019. Nonostante ci sia scritto che non deve essergli applicato per legge il regime di cui all’art. 4 bis, da più di due anni Battisti è di fatto in isolamento con tutte le restrizioni in tema di corrispondenza, colloqui, ora d’aria, previste per i terroristi islamici. Il ministero, sin dal suo arrivo, lo ha inviato in carceri speciali, prima in Sardegna e oggi in Calabria, con la classificazione in “Alta Sorveglianza 2” e, nonostante le ripetute richieste, non è mai stata comunicata ai difensori la ragione per una tale classificazione a distanza di quarantadue anni dai fatti. Ma questo fa parte della costruzione mediatica del “mostro” Battisti. Basti pensare che la semplice richiesta di mangiare del riso in bianco per accertate ragioni di salute, è stata occasione da parte dei media per consultare i familiari delle vittime per sapere da loro se fosse giusto o meno che Battisti “si scegliesse il menù”, e per l’ex viceministro Salvini di dire pubblicamente “stia zitto e digiuni”, dopo che aveva proclamato al suo arrivo a Ciampino “che sarebbe marcito in galera”. “Scollare il capitalismo dal consumismo, per salvare il pianeta e la società umana” di Lucia De Ioanna La Repubblica, 26 aprile 2021 Digitale e ambiente al centro della lectio magistralis di Luciano Floridi. “Non basta perseguire una carriera che porti a essere benestanti perché si viva in una società benestante: quest’ultima è fatta di tantissimi poveri e pochissimi ricchi”. Costruire un progetto umano che unisca il verde di uno sviluppo sostenibile e il blu del digitale favorendo nello stesso tempo un modo di vivere centrato sulle relazioni più che sul consumo: è questo il cuore della sfida indicata come urgente e decisiva per il futuro da Luciano Floridi, uno dei più autorevoli pensatori contemporanei, in grado di interrogare i grandi nodi politici, sociali ed economici del nostro tempo alla luce della filosofia. Professore ordinario di Filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford, Floridi ha tenuto una lectio magistralis, in collegamento da Oxford, sul tema Il verde e il blu - Il progetto dell’umanità per un futuro sostenibile e preferibile, organizzato dal Lions Club Parma Host con Università, Comune, Unione Parmense degli Industriali e Gazzetta di Parma. Se la cattiva filosofia, “introversa e oscura, è come un vino scadente che ti fa diventare astemio”, la buona filosofia deve guardare alle sue radici, uscire dalle aule e da un auto-riferimento sterile e antiquario, recuperando un’utilità vitale per l’agire umano. Guardando alla società contemporanea, la nostra esperienza è anfibia: “Non viviamo né online né offline ma onlife, in uno spazio ibrido che è nello stesso tempo analogico e digitale. Se sto cucinando e scarico una ricetta mentre ascolto musica attraverso un vecchio I-pad, non ha senso domandarmi se quella esperienza è online o offline: porre una domanda simile significa essere ancora nel Novecento”. Con la pandemia la vita si è spostata marcatamente verso l’ambiente digitale declinandosi sempre più come ‘onlifè, scollando la presenza dalla localizzazione: “Ad esempio, mentre il mio corpo è localizzato a casa, posso interagire in un altro spazio, come in questo momento”, osserva Floridi. La possibilità di agire a distanza rappresenta un mutamento epocale: “Perfino gli dei dell’Iliade, per intervenire nelle vicende degli uomini, dovevano andare sotto le mura di Troia, in presenza”. Se il digitale opera un costante processo di “cut and paste”, scollando e ricomponendo le forme dell’esperienza in nuove costellazioni, fisiche quanto di pensiero, “un altro scollamento prodotto dal digitale è quello tra territorialità e legge: molte cose che avvengono nel cyberspazio, ad esempio, difficilmente possono essere regolamentate dal singolo Stato”. In una società che presenta sfide sempre più complesse che investono l’ambiente, il lavoro, la giustizia, l’immigrazione, “quello che serve è il fattore C ossia la capacità di agire avvalendosi di coordinamento, collaborazione e cooperazione. Ma, paradossalmente, peggio stai, tanto più hai bisogno degli altri con i quali sei portato a collaborare mentre quanto più una società cresce, tanto più cala la collaborazione, fino ad arrivare a credere che possa essere sufficiente solo un po’ di mero coordinamento”. In questo senso, il problema climatico, che presenta il massimo grado di complessità, richiede il massimo grado di collaborazione per essere affrontato: “Senza collaborazione, tutti gli sforzi sono inutili”. Per governare una transizione che, per la rapidità con la quale si realizza, non ha precedenti nella storia umana, dal momento che neppure la rivoluzione agricola e industriale hanno prodotto mutamenti così veloci come quelli innescati dalla trasformazione digitale, “è necessario avere una visione e una buona governance. Parte della nostra crisi attuale, populismi compresi, deriva da un fallimento della governance delle nostre società dell’informazione”. Mentre la progettualità moderna si occupa quasi esclusivamente di facilitare le progettualità individuali, osserva il filosofo, perde di vista l’obiettivo di costruire un progetto sociale, umano: “Non basta perseguire una carriera che porti a essere benestanti perché si viva in una società benestante: quest’ultima è fatta di tantissimi poveri e pochissimi ricchi. Unendosi in un gruppo collaborativo è possibile avere ambizioni superiori rispetto a quelle che possiamo porci se restiamo separati in tanti atomi: dobbiamo recuperare il sapore forte del ‘noi’ che ‘io’, come parola, non può avere”. Il progetto umano deve prendersi cura del mondo, e per farlo “deve scollare il capitalismo dal consumismo: non possiamo pensare a un futuro in cui distruggeremo tre pianeti all’anno, perché non li abbiamo. Dobbiamo inventare un consumismo non capitalistico ma di cura. Abbiamo bisogno di agenti molto potenti che svolgano il loro ruolo come buoni cittadini: non basta occuparsi dei propri interessi facendo profitto: non è più così. Bisogna prendersi cura della felicità non solo individuale ma di intere popolazioni, di tutto il pianeta”. Se il lavoro da fare è tanto, è anche entusiasmante: “Ai ragazzi e alle ragazze di oggi, possiamo dire che abbiamo davanti una delle più grandi sfide che l’umanità abbia mai visto: salvare il pianeta e la società umana. Questa sfida è un po’ il nostro sbarco in Normandia: c’è un futuro per l’umanità da costruire in modo tale che quado qualcuno guarderà indietro potrà dire grazie a chi lo ha preceduto”. Il matrimonio tra il verde e il blu permette di realizzare “una progettualità sociale, comunitaria e non individualista che serve per coordinare in modo collaborativo gli sforzi per risolvere problemi ormai globali: oggi le tecnologie ci permettono di affrontare questioni complesse in maniera molto più costruttiva che nel passato”. Guardando alle società del passato troviamo l’indicazione per una svolta per ridisegnare il futuro: “Quando ero piccolo, nel mio paese della Ciociaria non si buttava nulla perché non c’era nulla da buttare. Tranne che negli ultimi decenni, abbiamo da sempre vissuto in economie circolari ma povere”. Solo da poche manciate di decenni, “siamo passati a un’economia lineare, ricca, che con la tecnologia analogica ha fatto bene all’uomo distruggendo però l’ambiente. Oggi il digitale permette di fare molto di più con risorse sempre minori: basta pensare, ad esempio, passaggio dalla candela, alla lampadina elettrica e poi al led”. Grazie al blu del digitale, “possiamo tornare alle economie circolari come nel passato ma ricche come le più recenti perché il led è molto migliore della lampadina, aumentando le nostre opportunità ma a consumi sempre più bassi. Investire sul verde del digitale significa investire sulla sostenibilità e costruire un progetto per l’umanità all’altezza della sua grandezza”. Alla lectio magistralis del professor Floridi è seguita una tavola rotonda, moderata da Cesare Azzali, direttore dell’Unione Parmense degli Industriali, con la partecipazione del rettore Paolo Andrei, del Governatore del distretto Lions 108Tb Gianni Tessari, dell’assessore alla Cultura Michele Guerra, della presidente dell’Unione Parmense degli Industriali Annalisa Sassi, del direttore della Gazzetta di Parma Claudio Rinaldi, del presidente del Lions Club Parma Host Sergio Bandieri e del neuroscienziato Giacomo Rizzolatti. “Nazi-fascismo”, le parole contano di Michela Murgia La Stampa, 26 aprile 2021 Non c’era una sola parola sbagliata nel discorso che Mario Draghi ha fatto ieri per la Festa della Liberazione dal nazifascismo. Poche frasi, ma talmente esatte che dovrebbero diventare il canone di riferimento per i discorsi di tutti i 25 aprile che verranno, invariate in bocca a qualunque presidente del Consiglio esca dalla tombola delle urne e dei rimpasti. Il discorso ha infatti un pregio incommensurabile: contiene cinque parole magiche che in questi anni molti hanno cercato di far sparire, a partire proprio dai contesti istituzionali. “Fascismo” e “nazismo”, tanto per cominciare, a ricordare che non ci siamo liberati da una generica guerra, ma dall’imposizione di due dittature criminali che congiunte hanno fatto milioni di morti e hanno infettato l’Europa di razzismo e nazionalismo. La liberazione è dal nazifascismo e Draghi lo ribadisce senza ombre, smentendo chiunque, anche tra le parti politiche dell’attuale maggioranza, provi a descrivere la nascita della democrazia italiana come una notte in cui tutte le vacche erano nere, un periodo confuso in cui ciascuno aveva le sue buone ragioni e solo per caso una parte ha poi avuto la fortuna di diventare politicamente dominante. Non è così: i venti mesi in cui le variegate forze partigiane, dopo l’armistizio del ‘43, ripresero il controllo del territorio italiano sottraendolo ai fascisti che si rifiutavano di riconoscere la sconfitta, furono la lotta tra una visione di mondo democratica e includente e gli ultimi residui di una dittatura che aveva portato il Paese alla catastrofe sociale. Sentirlo ribadire dal presidente del Consiglio dovrebbe essere ovvio, ma a dimostrare che non lo è poi così tanto basterebbe la lettera che il direttore generale dell’ufficio scolastico regionale della Marche ha inviato in occasione della stessa ricorrenza, invitando chi studia a “non fare distinzioni di parte” (cioè a non essere partigiani) celebrando l’unità nazionale a prescindere alle opinioni politiche. Il discorso di Draghi dice invece il contrario: che siate adulti o giovani, sappiate che se l’Italia è un Paese libero è perché qualcuno si è preso la responsabilità e la fatica di fare una distinzione e scegliere da che parte stare: con la democrazia sempre, con il fascismo mai più. Il ministero dell’Istruzione ha giustamente chiesto al direttore marchigiano di spiegare l’ambiguità delle sue frasi, ma non ci vuole una grande indagine per capire che la ragione di quello e di altri tentativi di inquinare la storia italiana è contenuta in un’altra delle parole tabù del discorso di Draghi: “memoria”. Il presidente del Consiglio non la evoca per celebrarla retoricamente, ma la rimpiange come una cosa collettiva e perduta. La memoria non va confusa col ricordo: quello è personale, perché appartiene solo a chi c’era. La memoria è invece il processo di costruzione di una narrazione comune in cui chiunque può riconoscersi e sentirsi parte, soprattutto se ha avuto la fortuna anagrafica di non dover vivere in prima persona l’esperienza del fascismo. I ricordi, specie se forti, non mutano più; la memoria invece va manutenuta ogni giorno: basta saltare una generazione perché vada perduta e con essa si perda anche la possibilità di riconoscersi in una storia comune. Le ultime due parole che da anni non sentivamo nei discorsi pubblici delle figure politiche sono pesanti, ma necessarie: “odio” e “indifferenza”, atteggiamenti distruttivi che oggi fanno parte quotidiana della nostra vita pubblica e che - sempre secondo le parole di Draghi - generano consenso per chi calpesta libertà e diritti. Sorpresa: c’è un odio che crea consenso e chi se lo intesta costruisce fortune politiche. È facilmente riconoscibile, perché prende ancora la forma del razzismo e della xenofobia. Quell’odio, combinato con l’indifferenza di chi si gira per non vedere, oggi come ottant’anni fa consente la morte di centinaia di persone, non nei forni, ma nel fondo del Mediterraneo. Liliana Segre, che proprio Draghi cita come fonte morale per spiegare i danni dell’indifferenza, non ha mai avuto problemi a riconoscere l’analogia tra i Ponzio Pilato di ieri e quelli di oggi, perché sa che è al presente, non al passato, che serve la memoria. “I migranti sono respinti come lo fummo io e mio padre, ebrei a varcare la frontiera nella notte e nella neve”. Accogliamo dunque le forti parole di Draghi, ma sapendo che più forti ancora apparirebbero se i gesti di governo fossero conseguenti, per esempio cessando gli scandalosi accordi con la Libia e offrendo la cittadinanza italiana a Patrick Zaki. La profezia nei discorsi può ispirare molto, ma non se smentita dal cinismo della realpolitik. Il Papa: vergogna per i 130 migranti morti in mare, per chi non li aiuta di Ester Palma Corriere della Sera, 26 aprile 2021 Francesco ha duramente condannato l’ennesima tragedia nel Mediterraneo: “Sono persone che hanno implorato per due giorni aiuti che non sono arrivati: chi poteva farlo si è voltato dall’altra parte”. “Vi confesso che sono molto addolorato per la tragedia che ancora una volta si è consumata nei giorni scorsi nel Mediterraneo: 130 migranti sono morti in mare. Sono persone, sono vite umane che per due giorni interi hanno implorato invano aiuto: un aiuto che non è arrivato”. Lo ha detto il Papa, al Regina Coeli in piazza San Pietro. “Fratelli e sorelle, interroghiamoci tutti su questa ennesima tragedia. È il momento della vergogna. Preghiamo per questi fratelli e sorelle e per tanti che continuano a morire in questi drammatici viaggi. Preghiamo anche per coloro che possono aiutare, ma preferiscono guardare da un’altra parte. Preghiamo in silenzio per loro”. “Gesù ci conosce e ci ama uno per uno, per Lui non siamo massa” - Non è certo la prima volta che papa Francesco porta l’attenzione del mondo sulla tragedia dei migranti: ma oggi ha usato toni particolarmente forti. Ha pregato anche per gli 82 morti e i feriti dell’incendio dell’ospedale Ibn al Khatib di Baghdad. E ha espresso “vicinanza alla popolazione delle isole di Saint Vincent e Grenadine, dove un’eruzione vulcanica sta provocando danni e disagi. Assicuro la mia preghiera. Benedico quanti prestano soccorso e assistenza”. Perché “Dio conosce e ama ciascuno di noi - aveva detto poco prima della recita del Regina Coeli, la preghiera mariana che per tradizione sostituisce l’Angelus fino alla Pentecoste - Come è bello e consolante sapere che Gesù ci conosce ad uno ad uno, che non siamo degli anonimi per Lui, che il nostro nome gli è noto. Per Lui non siamo “massa”, “moltitudine”, no. Siamo persone uniche, ciascuno con la propria storia, ciascuno col proprio valore, sia in quanto creatura sia in quanto redento da Cristo. Ognuno di noi può dire: Gesù mi conosce come nessun altro. Solo Lui sa che cosa c’è nel nostro cuore, le intenzioni, i sentimenti più nascosti”. Ordinati 9 sacerdoti: “Siate umili, vicino al popolo e e lontano dal denaro” - Poco prima il Papa aveva ordinato 9 nuovi sacerdoti, sei italiani e gli altri tre provenienti da Romania, Colombia e Brasile, in una Messa solenne nella Basilica di San Pietro: “Per favore, allontanatevi dalla vanità e dall’orgoglio dei soldi. Il diavolo entra dalle tasche, siate poveri che amano i poveri - ha raccomandato - Non siate arrampicatori, quando un sacerdote diventa imprenditore della parrocchia, del collegio, perde quella povertà che lo avvicina a Cristo povero crocifisso”. E ha aggiunto: “Siate sacerdoti di popolo non chierici di Stato, questa non è una carriera è un servizio, lo stesso che ha fatto Dio con il suo popolo. Sarete come lui vi vuole, pastori del santo popolo fedele di Dio, delle volte avanti, in mezzo, indietro al gregge, ma sempre lì con il popolo di Dio e secondo lo “stile” di Dio: vicinanza, compassione e tenerezza. Siate umili e vicini ai vostri vescovi”. E per dare loro un esempio di umiltà, al termine del rito si è avvicinato ai nuovi sacerdoti e li ha salutati chinandosi per baciare a ciascuno le mani. Poi, fra commozione e grande si è diretto verso i primi banchi della navata per salutare e intrattenersi brevemente con i loro familiari. E al momento della foto di gruppo ha chiesto ad uno dei nuovi sacerdoti, il colombiano don Mateus Henrique Ataide Da Cruz, di dargli la benedizione. “Cittadinanza anche per chi arriva in Italia in tenera età: i tempi sono maturi” di Orlando Trinchi Il Dubbio, 26 aprile 2021 Intervista all’attivista Jovana Kuzman, del movimento “Italiani senza cittadinanza”. “Preferiamo non ancorarci ad alcuna forma, quello che ci interessa è il contenuto”. L’attivista Jovana Kuzman delinea senza orpelli l’essenza del movimento “Italiani senza cittadinanza”. Kuzman, lo Ius soli rappresenta uno dei cardini del programma politico del nuovo segretario Pd Enrico Letta. Ciò la fa ben sperare? Come movimento, abbiamo sempre chiesto una modifica della legge che tenesse conto non solo di chi nasce in Italia ma anche di chi vi arriva da piccolo. Per chi giunge in Italia in tenera età, infatti, la procedura è molto più lunga e difficile rispetto a chi vi nasce. Sono anni che ci battiamo in piazza, organizzando manifestazioni e incontri e dialogando con politici di varia estrazione, aspettando che i tempi siano maturi e si riscontri un reale impegno politico. Questo è un governo appoggiato da un’ampia maggioranza: in teoria, se ci fosse una volontà comune, i numeri non mancherebbero. Sicuramente ciò che serve è una legge che tenga conto delle nostre difficoltà. Ce ne potrebbe parlare? Per chi nasce in Italia, aspettare fino ai diciotto anni per ottenere la cittadinanza rappresenta senz’altro un’attesa lunga, nonostante dal 2013 ci si possa avvalere di certificati vaccinali o scolastici per coprire eventuali buchi di residenza. Diverso il discorso per chi vi arriva da piccolo ma non vi nasce: nel caso in cui il genitore ottenga la cittadinanza quando il ragazzino è ancora minorenne, anche lui diventa cittadino italiano, ma se il genitore ha fatto domanda e nel mentre il figlio diventa maggiorenne, tutta la famiglia risulta italiana e il ragazzo, a livello documentale, rischia di rimanere uno straniero. Inoltre, sono stati spesso indetti viaggi d’istruzione a cui i ragazzi con permesso di soggiorno non potevano prendere parte - perché magari i visti erano molto costosi - o banditi concorsi rivolti esclusivamente a cittadini italiani o dell’Unione europea. Durante l’attuale emergenza, sono stati emessi diversi bandi per medici o operatori sanitari che non contemplavano individui senza cittadinanza italiana o permesso di soggiorno di lungo periodo. C’è stata una battaglia di diversi movimenti per la cittadinanza per far riconoscere che, in un momento come questo, i bandi debbano essere aperti a ragazzi che, pur non essendo cittadini italiani, hanno studiato e si sono formati in Italia. Altro problema fondamentale: non possiamo votare. Il voto rappresenta un grande gesto di partecipazione che ti fa sentire parte di un Paese, mentre invece noi, cresciuti in Italia, parte integrante del suo tessuto socio-economico, dobbiamo accettare passivamente le scelte di altri senza poterci esprimere attivamente. Da non trascurare, infine, la paura costante di essere rimandati indietro in quanto, facendo spesso i nostri genitori lavori precari, il permesso di soggiorno un giorno potrebbe non essere rinnovato. Giuseppe Brescia, presidente grillino della Commissione Affari costituzionali della Camera, preferisce parlare di Ius culturae. Condivide? Come attivista, penso che sarebbe necessaria una legge inclusiva, concepita da esperti che conoscono le problematiche del settore, non una mera disposizione calata dall’alto. Ai tempi in cui si presentò la questione dello Ius culturae, vi era chi voleva legare la cittadinanza al profitto scolastico. Intendimento che non condividevo, poiché il rendimento scolastico non sempre dipende esclusivamente dal ragazzo ma è influenzato anche da fattori esterni. Alcune forze politiche ostacolano lo Ius soli, sostenendo che in questo periodo vi siano altre priorità. Cosa si sente di rispondere? Da quando sono attiva sul tema della cittadinanza ho sempre sentito parlare di altre priorità. Rimandare una legge essenziale come questa non definendola una priorità equivale a dire che anche le nostre esistenze non sono una priorità. Credo che sarebbe ora di dimostrare che i giovani - non solo i figli di genitori stranieri, ma i giovani in generale - siano una forza da prendere in seria considerazione non solo quando fa comodo. Sarebbe un gesto di civiltà. Come movimento, abbiamo sempre chiesto una modifica della legge che tenesse conto non solo di chi nasce in Italia ma anche di chi vi arriva da piccolo. Per chi giunge in Italia in tenera età, infatti, la procedura è molto più lunga e difficile rispetto a chi vi nasce. Sono anni che ci battiamo in piazza, organizzando manifestazioni e incontri e dialogando con politici di varia estrazione, aspettando che i tempi siano maturi e si riscontri un reale impegno politico. Questo è un governo appoggiato da un’ampia maggioranza: in teoria, se ci fosse una volontà comune, i numeri non mancherebbero. Sicuramente ciò che serve è una legge che tenga conto delle nostre difficoltà. Ce ne potrebbe parlare? Per chi nasce in Italia, aspettare fino ai diciotto anni per ottenere la cittadinanza rappresenta senz’altro un’attesa lunga, nonostante dal 2013 ci si possa avvalere di certificati vaccinali o scolastici per coprire eventuali buchi di residenza. Diverso il discorso per chi vi arriva da piccolo ma non vi nasce: nel caso in cui il genitore ottenga la cittadinanza quando il ragazzino è ancora minorenne, anche lui diventa cittadino italiano, ma se il genitore ha fatto domanda e nel mentre il figlio diventa maggiorenne, tutta la famiglia risulta italiana e il ragazzo, a livello documentale, rischia di rimanere uno straniero. Inoltre, sono stati spesso indetti viaggi d’istruzione a cui i ragazzi con permesso di soggiorno non potevano prendere parte - perché magari i visti erano molto costosi - o banditi concorsi rivolti esclusivamente a cittadini italiani o dell’Unione europea. Durante l’attuale emergenza, sono stati emessi diversi bandi per medici o operatori sanitari che non contemplavano individui senza cittadinanza italiana o permesso di soggiorno di lungo periodo. C’è stata una battaglia di diversi movimenti per la cittadinanza per far riconoscere che, in un momento come questo, i bandi debbano essere aperti a ragazzi che, pur non essendo cittadini italiani, hanno studiato e si sono formati in Italia. Altro problema fondamentale: non possiamo votare. Il voto rappresenta un grande gesto di partecipazione che ti fa sentire parte di un Paese, mentre invece noi, cresciuti in Italia, parte integrante del suo tessuto socio-economico, dobbiamo accettare passivamente le scelte di altri senza poterci esprimere attivamente. Da non trascurare, infine, la paura costante di essere rimandati indietro in quanto, facendo spesso i nostri genitori lavori precari, il permesso di soggiorno un giorno potrebbe non essere rinnovato. Giuseppe Brescia, presidente grillino della Commissione Affari costituzionali della Camera, preferisce parlare di Ius culturae. Condivide? Come attivista, penso che sarebbe necessaria una legge inclusiva, concepita da esperti che conoscono le problematiche del settore, non una mera disposizione calata dall’alto. Ai tempi in cui si presentò la questione dello Ius culturae, vi era chi voleva legare la cittadinanza al profitto scolastico. Intendimento che non condividevo, poiché il rendimento scolastico non sempre dipende esclusivamente dal ragazzo ma è influenzato anche da fattori esterni. Alcune forze politiche ostacolano lo Ius soli, sostenendo che in questo periodo vi siano altre priorità. Cosa si sente di rispondere? Da quando sono attiva sul tema della cittadinanza ho sempre sentito parlare di altre priorità. Rimandare una legge essenziale come questa non definendola una priorità equivale a dire che anche le nostre esistenze non sono una priorità. Credo che sarebbe ora di dimostrare che i giovani - non solo i figli di genitori stranieri, ma i giovani in generale - siano una forza da prendere in seria considerazione non solo quando fa comodo. Sarebbe un gesto di civiltà. Nadia, la missionaria vicentina che aiutava i bambini uccisa in Perù di Alessio Ribaudo Corriere della Sera, 26 aprile 2021 Nadia De Munari, vicentina di Schio, 50 anni, aiutava i bambini poveri nel Paese sudamericano. È ritrovata agonizzante a letto mercoledì mattina, colpita alla testa e alle braccia con un martello o un’ascia. Aveva scelto di vivere fra i bambini poveri delle alte montagne del Perù. Quelli che scendono dalla Sierra andina alla prima città di mare con famiglie che sognano un futuro diverso, finendo spesso nella baraccopoli di Nuevo Chimbote. Nadia De Munari, vicentina di Schio, 50 anni, non sapeva che quella sarebbe stata la sua ultima missione. Dopo una vita dedicata agli altri, qualcuno ha infatti messo la parola fine alla sua e l’ha fatto in un modo violento: a colpi di martello o di ascia o di machete. Mercoledì mattina l’hanno trovata agonizzante nella sua camera da letto, all’interno del centro Mamma Mia, una delle case famiglia volute da padre Ugo De Censi nell’ambito dell’Operazione Mato Grosso. Aveva delle brutte ferite alla testa e una frattura al braccio destro. Dopo un primo ricovero all’ospedale di Chimbote hanno dovuto portarla alla clinica giapponese-peruviana di Lima, 600 chilometri a Sud, per un intervento chirurgico delicatissimo. Tutto inutile: Nadia non ce l’ha fatta. Le ipotesi - C’è dunque un delitto e un assassino su cui indagare. Si era pensato a un rapinatore per il fatto che non si trova il telefonino di Nadia. “Ma è sparito solo quello, non i soldi e comunque l’aggressore si è diretto subito in camera da letto, senza toccare nient’altro”, precisa padre Raffaele al telefono. Lui gestisce le case famiglia e ha seguito Nadia nei suoi ultimi giorni accompagnandola da un ospedale all’altro. Hanno pensato al martello come arma del delitto perché pare che la Scientifica della capitale peruviana, che ha fatto i rilievi sul posto, abbia trovato delle tracce di sangue sull’attrezzo. “Ma il medico che l’ha operata alla testa mi ha detto che la ferita farebbe pensare di più a qualcosa di tagliente”, aggiunge il religioso. Non ci sono testimoni oculari, anche perché la missionaria, laica, viveva da sola al terzo piano della casa. Il delitto sarebbe stato commesso di notte, dopo che tutti i volontari erano andati a letto. La regola interna stabilisce degli orari: alle 21.30 ci si ritira, sveglia alle 6.30 per la preghiera che introduce alla giornata lavorativa. Quella mattina Nadia non si è presentata. I volontari l’hanno cercata al telefonino che suonava a vuoto, sono quindi entrati in casa e hanno capito tutto. Pare che anche un secondo telefonino sia sparito dal centro e che un’altra persona sia stata aggredita. La sua testimonianza potrebbe essere utile. “Sono però episodi scollegati”, dicono quelli della casa famiglia. “Per me non è stata una rapina, forse una vendetta personale, magari anche per motivi poco importanti”, sospira padre Raffaele. Lui ha vissuto con Nadia gli ultimi, difficili giorni. “A Chimbote, prima di sedarla, aveva risposto alle poche domande dei medici. E anche dopo la sedazione, nonostante non parlasse, rispondeva con cenni della testa. La situazione era però critica ed è peggiorata con il lungo viaggio da Chimbote a Lima. Interminabile, siamo andati con l’ambulanza, poi non si trovava posto per via del Covid. Qui è terzo mondo, non è facile”. Chi era - Nadia, maestra d’asilo, era partita nel 1990 per l’Ecuador, sempre in America Latina. Poi il Perù, dal 1995. “Abbiamo iniziato insieme - racconta Rosanna Stefani, l’amica di sempre. È rimasta per oltre 20 anni sulla Sierra, a 3.400 metri di quota. Poi padre Ugo decise di aprire a Chimbote queste scuole per bambini molto poveri che scendevano in massa dalle montagne. Sulla costa le chiamano “invasioni”. Nessuno ci voleva andare, solo lei. Faceva parte del suo cammino. Nadia era speciale, aveva un’indole pacifica. Su questa terra ha fatto solo del bene”. Stati Uniti. Guantánamo è simbolo di illegalità e violazioni, deve chiudere di Valerio Fioravanti Il Riformista, 26 aprile 2021 Il 16 aprile scorso, 24 senatori “liberal” hanno esortato Biden a chiudere Guantánamo. La loro posizione è netta: “Guantánamo è simbolo di illegalità e violazioni dei diritti umani. Ha danneggiato la reputazione dell’America, alimentato il fanatismo anti-musulmano, e indebolito la capacità degli Stati Uniti di contrastare il terrorismo e combattere per i diritti umani e lo stato di diritto in tutto il mondo”. Nessuno tocchi Caino segue con regolarità le vicende di Guantánamo, e dei processi militari che non riescono nemmeno a iniziare. In quel luogo si addensano molte contraddizioni del sistema giudiziario statunitense, e più in generale di un sistema democratico quando decide di prendere delle scorciatoie. Al termine della guerra Ispano-Americana nel 1898, gli Stati Uniti “liberarono” Cuba dal dominio coloniale spagnolo, e per “riconoscenza” le nuove autorità insediate concessero in usufrutto gratuito eterno l’estremità orientale dell’isola, quella dove era sbarcato Cristoforo Colombo. Gli Usa ci impiantarono una base navale, che però non fu mai considerata di fondamentale rilevanza, nemmeno dopo la rivoluzione comunista, perché a meno di 200 chilometri dalla Florida, dove era più facile ed economico tenere navi e personale. Guantánamo è invece tornata utilissima quando, pochi mesi dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, l’amministrazione Bush decise di “rastrellare” sospetti qaedisti in giro per il mondo. Con modi spicci, utilizzando “informatori” e non vere e proprie indagini, gli Usa sequestrarono cittadini stranieri, li tennero per mesi e anni in prigioni segrete della Cia all’interno di basi militari in altri paesi e li interrogarono utilizzando varie forme di tortura. Se queste persone fossero state portate a giudizio in un normale tribunale, i difensori avrebbero, ovviamente, contestato le torture. Le quali sono tutte avvenute con il tacito consenso delle autorità dei paesi che ospitavano i “black sites”, i “siti neri” della Cia. Nel tentativo di tenere in equilibrio alcuni dei diritti “incomprimibili” della difesa, ma anche i “diritti” della Cia a non far arrestare i propri funzionari e i “diritti” del governo Usa a non crearsi gravissime crisi diplomatiche con i paesi che avevano collaborato, si è pensato alla strana soluzione “oltreoceano” di Cuba, e a processi celebrati in corti militari e non federali. Con queste premesse Guantánamo nel corso di ormai quasi 20 anni ha “ospitato” circa 780 prigionieri. I processi non sono mai riusciti a partire, troppe le questioni preliminari che si sono rivelate insormontabili, e troppi soprattutto i detenuti nei confronti dei quali l’amministrazione non è nemmeno riuscita a formulare accuse precise. Tolti una decina di casi, nessuno dei detenuti di Guantánamo, a 20 anni dall’arresto, è mai stato nemmeno rinviato a giudizio. Uno solo è stato processato e condannato. Nel corso degli ultimi anni, 731 detenuti sono stati “restituiti” ai paesi da cui erano stati prelevati, nove sono morti di malattia e alcuni liberati. Oggi ne rimangono 40. Pochi, ma comunque un grosso problema. I senatori delineano i passi da intraprendere: ripristinare l’ufficio del Dipartimento di Stato, smantellato dall’amministrazione Trump, adibito alla negoziazione con i governi stranieri per trasferire i prigionieri in altri paesi; negoziare trasferimenti all’estero per tutti coloro nei cui confronti l’amministrazione non riesce a formulare incriminazioni precise; utilizzare i tribunali federali per perseguire accordi di patteggiamento con i detenuti e consentire loro di scontare la detenzione residua all’estero. Le probabilità di successo di Biden non sono chiare. Obama appena entrato in carica emise un ordine di chiusura, ma la procedura venne bloccata da una veemente opposizione, non solo repubblicana. E a guardar bene, in effetti, anche questa lettera è firmata solo da metà dei senatori “liberal” che dovrebbero aiutare Biden in questo passo storico. A margine di tutto questo, ma è il margine migliore, dobbiamo ricordare che tutte queste informazioni, e altre, sono aggiornate da un sito del New York Times che si chiama “The Guantánamo Docket”. Tutti i “prisoners” sono identificati per nome e tracciati in tempo reale. È un servizio “di democrazia” sconosciuto in Italia dove, ad esempio, i detenuti al 41 bis sono “oscurati” da una specie di segreto di stato che i “grandi” media non ritengono di dover scalfire, e lasciano a quelli “piccoli” come questo il compito di difendere lo stato di diritto. I Paesi del Sud Est asiatico alla Birmania: “Basta violenze, liberate Aung San Suu Kyi” La Repubblica, 26 aprile 2021 La richiesta è stata formulata al vertice straordinario dell’Asean convocato a Giacarta, al quale ha partecipato anche il generale golpista nel suo primo viaggio all’estero dopo il colpo di Stato. Il premier malese: risultati oltre le aspettative. I leader del Sud Est asiatico hanno chiesto alla giunta golpista birmana di cessare le violenze contro i manifestanti, liberare i prigionieri politici e ripristinare la democrazia. “La situazione in Myanmar è inaccettabile e non deve continuare. La violenza deve cessare, mentre la democrazia, la stabilità e la pace devono essere ripristinate immediatamente”, ha detto il primo ministro indonesiano. Joko Widodo è intervenuto in una conferenza stampa al termine del summit di emergenza dell’Asean, che si è riunito oggi a Giacarta per discutere del golpe del primo febbraio in Myanmar. Il capo della giunta militare birmana, generale Min Aung Hlaing, ha partecipato al vertice Asean, nel suo primo viaggio all’estero dopo il golpe. Il premier indonesiano ha sottolineato che gli altri leader partecipanti hanno chiesto al Myanmar di impegnarsi a cessare le violenze, aprire un dialogo inclusivo con tutte le parti in causa e dare accesso agli aiuti umanitari. “Serve un dialogo significativo, inclusivo e politico che può realizzarsi solo con il rapido e incondizionato rilascio dei prigionieri politici”, ha aggiunto il primo ministro della Malaysia, Muhyiddin Yassin, in un chiaro riferimento alla leader democratica birmana Aung San Suu Kyi. Non è stato reso noto quale sia stata la risposta del generale birmano. L’invito rivolto a Min Aung Hlaing è stato criticato da gruppi della società civile del Myanmar. L’esito del vertice è stato “superiore alle previsioni”, ha detto il primo ministro della Malesia, Muhyiddin Yassin, all’agenzia di stampa malese “Bernama”. “Ci siamo riusciti. Il risultato dell’incontro di oggi è al di là delle nostre aspettative”, ha detto. “Il Myanmar ha risposto bene e non ha respinto le tre proposte della Malesia”, ha proseguito Muhyiddin, riferendosi alle sue richieste sulla cessazione delle violenze, il rilascio dei detenuti politici e l’accesso al Paese per il presidente e il segretario generale dell’Asean. Il leader malese ha aggiunto che l’esito del vertice dimostra che aveva torto chi riteneva che l’Asean dovesse rimanere fuori dalla crisi birmana. Il vertice si è concluso con un accordo in cinque punti che comprende la “cessazione immediata della violenza in Myanmar e tutte le parti eserciteranno la massima moderazione”. In secondo luogo “dovrà iniziare un dialogo costruttivo tra tutte le parti interessate per cercare una soluzione pacifica nell’interesse del popolo”. I successivi tre punti riguardano il ruolo dell’Associazione: un inviato speciale del presidente faciliterà la mediazione; l’Asean fornirà assistenza umanitaria tramite l’inviato speciale e una delegazione visiterà il Myanmar per incontrare tutte le parti interessate. Indonesia, quando la pena di morte arriva via Zoom di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 aprile 2021 Nel suo Rapporto sulla pena di morte nel 2020, pubblicato alcuni giorni fa, Amnesty International ha notato, oltre a quella delle esecuzioni, anche la diminuzione delle nuove condanne a morte. L’Indonesia fa eccezione. Lo scorso anno sono state emesse almeno 117 condanne a morte, soprattutto per reati di droga, contro le 80 del 2019. In almeno 100 casi, gli imputati sono stati giudicati colpevoli e destinati al plotone d’esecuzione da giudici che hanno visto solo su un monitor. La pandemia da Covid-19 dunque, almeno in Indonesia, non ha fermato i processi per i reati capitali. Se già è estremamente discutibile considerare equi processi in cui si decide della vita e della morte di un imputato in modalità virtuale, soprattutto in stati come l’Indonesia in cui la connessione a Internet è instabile, che dire dell’impossibilità dei contatti diretti tra i condannati e i loro avvocati e dell’accesso di questi ultimi agli atti del processo? Anche quest’anno le sentenze alla pena capitale continuano ad arrivare via Zoom: mercoledì scorso sono stati condannati a morte 13 membri di una banda di narcotrafficanti accusati di aver introdotto in Indonesia 400 chilogrammi di metamfetamina.