“Il carcere riflette le contraddizioni della società, drammatica emergenza educativa” di Maria Elefante Famiglia Cristiana, 25 aprile 2021 Padre Alex Zanotelli: “Così è una scuola di criminalità”. “Il carcere è una questione sociale esso è lo specchio in cui sono riflesse in maniera drammatica le contraddizioni della società. Ci troviamo di fronte a una emergenza educativa spaventosa, profonda e insostenibile”, così in una lettera inviata da Monsignor Antonio Di Donna, Vescovo di Acerra, e presidente della Conferenza Episcopale campana, al Ministro della Giustizia Marta Cartabia. La lettera, i suoi contenuti e le sue proposte operative sono state presentate presso il centro di pastorale carceraria della diocesi di Napoli sito presso la Sanità a Napoli. Don Franco Esposito, responsabile del centro e cappellano del carcere di Poggioreale, introducendo la conferenza stampa ha detto: “La voce profetica dei Vescovi, l’invito a sostenere le misure alternative al carcere è un modo nuovo di vivere il sistema penitenziario. La chiesa in Campania è da sempre impegnata al servizio di questa realtà anche attraverso strutture attive di accoglienza di detenuti ed ex detenuti”. Presente all’incontro anche il missionario Comboniano Alex Zanotelli che nel suo intervento si è detto “grato ai vescovi della Campania per questa presa di posizione”. “Sono speranzoso - ha aggiunto padre Zanotelli - sugli effetti che produrrà e mi auguro che sulla scia della testimonianza di Papa Francesco, di tanti cappellani e di tanti volontari si percepisca sempre di più che il mondo del carcere è un mondo fatto di esclusi, emarginati. Le carceri sono fondamentalmente delle scuole del crimine”. I Vescovi campani su questo punto sono stati chiari: “la risposta della delinquenza non può essere solo il carcere. Si dovrebbe lavorare - il loro pensiero - affinché le dinamiche di vendetta siano elaborate e sanate attraverso la creazione di percorsi e di strutture educative, dove la persona è aiutata a cambiare”. “Crediamo, insieme a Lei Signora Ministra, in una giustizia dal volto umano, come Lei - conclude la lettera inviata a Cartabia - ha più volte affermato”. Il Garante campano delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello, ha portato il saluto del vescovo di Napoli Don Mimmo Battaglia e ha ricordato l’impegno profuso dal Cardinale Crescenzio Sepe sul tema delle carceri, non ultimo della pubblicazione della lettera pastorale ‘Visitare i carcerati’ con cui Sepe ha lasciato la diocesi. “La chiesa - ho dichiarato Ciambriello - è dietro le sbarre per attestare che la vera giustizia è tale quando salva e rimette l’uomo in piedi, lo reintegra, lo include. Il mondo ecclesiale profeticamente denuncia il silenzio e alcune volte l’omertà di una politica pavida che considera il carcere una risposta semplice a bisogni complessi”. Ciambriello ha poi snocciolato i dati sui vaccinati del mondo penitenziario in Campania. Ad oggi, 2.049 è il numero dei vaccinati tra gli agenti penitenziari, del personale amministrativo, educativo e dei volontari che entrano nelle carceri, mentre sono appena 148 i detenuti campani destinatari di somministrazioni. La giustizia riparativa, quando vittima e colpevole si incontrano di Federica Olivo huffingtonpost.it, 25 aprile 2021 In Italia è praticata (non ovunque) solo per i minori, Cartabia vuole sviluppare il tema. Il racconto di un detenuto. La nebbia si dipana lentamente. Ma quando finalmente va via riesci a vedere i tuoi errori con una nitidezza che neanche avresti mai potuto immaginare. E un ponte. Quello che serve a raggiungere gli altri, se non i familiari delle persone a cui hai fatto del male, almeno uomini e donne che hanno perso un loro caro a causa di una mano che, un tempo, ha compiuto gesti simili ai tuoi. Per cui tu stai pagando e ancora pagherai, ma ora con una prospettiva diversa. Volessimo raccontarla con un’immagine, partendo dal punto di vista di chi ha commesso un reato, potremmo affermare che la giustizia riparativa è quel ponte che riesce a unire gli opposti, vittima e reo, quando finalmente la nebbia si dissolve. Quando, senza bypassare il diritto penale, si punta ad andare oltre. A costruire dalle macerie. A recuperare, dove possibile, il rapporto tra l’autore del reato e la vittima e la comunità coinvolta. Non per buonismo, né per sovvertire quel che è stato, ma per ricucire le ferite. Di chi ha subìto e di chi ha inferto dolore, se entrambi lo vogliono. “La giustizia riparativa è un aspetto ancora tutto da sviluppare e che, come ho avuto modo di dire anche in Parlamento, mi sta molto a cuore e desidero sostenere attraverso l’azione di governo”, ha detto pochi giorni fa la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, a Bergamo. La Commissione che si sta occupando della riforma del processo penale è ancora al lavoro. Ma qualche indicazione sulla strada che sarà seguita possiamo vederla nelle linee programmatiche che la Guardasigilli ha illustrato alle Camere: “In considerazione dell’importanza delle esperienze già maturate nel nostro ordinamento, occorre intraprendere una attività di riforma volta a rendere i programmi di giustizia riparativa accessibili in ogni stato e grado del procedimento penale, sin dalla fase di cognizione”, ha sostenuto. In Italia la giustizia riparativa è una realtà diffusa nel settore minorile. Una proposta di legge a prima firma del deputato del Movimento 5 stelle Devis Dori punta a creare strutture che la rendano possibile in tutto il Paese. Per il mondo degli adulti ci sono alcune esperienze in giro per il l’Italia, messe in cantiere principalmente da associazioni ed enti locali. Ma la strada da fare - indicata peraltro da una direttiva europea già nel 2012 - è lunga. E gli aspetti da tenere in considerazione sono tanti. “Siamo abituati a pensare a una giustizia che accerta chi ha compiuto il reato e stabilisce una punizione. La giustizia riparativa introduce un pensiero laterale: guarda anche ai bisogni della vittima, alla sua sofferenza. A come si può riparare”, spiega ad HuffPost la professoressa Grazia Mannozzi, docente di diritto penale all’Università dell’Insubria e fondatrice del Centro studi sulla giustizia riparativa e sulla mediazione. “In Italia manca una legge che stabilisca un modello e le modalità di formazione dei mediatori”, continua. All’estero, invece, sono stati fatti alcuni passi in avanti: “Un esempio interessante è quello della Norvegia (dove istituti di riconciliazione esistono già da circa 30 anni, ndr). In Finlandia si insegna la mediazione sin dalle scuole. In Francia, ancora, sono stati creati dei centri di prima accoglienza per le vittime”. Perché giustizia riparativa vuol dire incontro ma anche prendersi cura di chi il reato l’ha subìto. Che, continua Mannozzi, “ha bisogno di ascolto e di attenzione”. Il confronto che è alla base della giustizia riparativa naturalmente può avvenire solo se sia il colpevole che la vittima lo vogliono. Ma l’incontro è sempre possibile? “Le conseguenze positive della mediazione sono più evidenti dove la sofferenza della vittima è più profonda”, continua Mannozzi. Nei reati contro la persona, quindi. “Difficile immaginare la mediazione per un reato fiscale o per la corruzione. La giustizia riparativa funziona se c’è una vittima”. O, se questa non c’è più perché è stata uccisa, se ci sono i suoi familiari. Ci sono infatti storie di autori di reati molto gravi che hanno sentito il bisogno di incontrare familiari di vittime di un gesto simile a avevano compiuto loro. E che da lì hanno ricominciato a vivere. Alessandro Crisafulli è uno di loro. “Il dolore che ho provocato si è sommato al mio. Ma oggi ho imparato a conviverci ed è il mio faro” C’è stato un momento nella vita di Alessandro in cui uccidere un uomo era quasi naturale. In cui il vortice di violenza in cui era nato, cresciuto e si era ricavato un posto di rilievo era il suo pane quotidiano. Di cui si nutriva dopo un’infanzia vissuta in un quartiere periferico di Milano, Quarto Oggiaro, “respirando aria di criminalità anche in famiglia, senza affetto, da bambino non voluto”. La svolta è arrivata con la galera. Dove è entrato, prima e unica volta, nel 1994, con “un vocabolario di 200, massimo 300 parole” e alle spalle reati gravissimi, anche omicidi. Condannato all’ergastolo, oggi Alessandro Crisafulli è un uomo di 57 anni, in semilibertà, che ha cominciato una vita nuova. Quando racconta ad HuffPost degli anni in cui da bambino il padre “diceva che un uomo vero doveva prendersi con la forza quello che voleva” non lo fa per giustificarsi. Ma per spiegare come, a volte, se cresci in un contesto del genere, quella della criminalità certamente non è l’unica strada che ti si apre davanti, ma è la più grande. E allora ti ci butti, la percorri come se fosse normale, diventi il capo della piazza di spaccio, ti fai del male con la droga, causi dolore inimmaginabile, come se fosse la cosa più lineare del mondo. Che di lineare in quegli anni, di cui Crisafulli non ha dimenticato neanche un dettaglio, non ci fosse nulla lo ha capito dopo. “Era come se la mia esistenza fosse avvolta nella nebbia. Quando si è dissolta - spiega - è risalito tutto a galla. Ho compreso quanto dolore avevo provocato e l’ho sommato a quello che da sempre mi portavo dentro. Oggi ho imparato a conviverci ed è il mio faro”. Mentre era detenuto in alta sicurezza Alessandro si è diplomato, ha continuato a studiare. A un certo punto ha cercato i familiari delle sue vittime: “Non sono mai riuscito ad incontrarli. Non so se loro hanno rifiutato o se c’è stato un problema burocratico”. Nel percorso verso se stesso ha incontrato la religione, ha iniziato a scrivere e a entrare nelle scuole. “Cerco di trasmettere ai più giovani il rispetto verso gli altri. Di spiegare che nella vita si possono fare gli incontri giusti, ma se non inverti la rotta da solo, nessuno ti può aiutare”. Crisafulli è riuscito a cambiare la direzione in cui stava andando, ma sta pagando, e pagherà per sempre, i conti con lo Stato. “Vivo alla giornata - racconta con compostezza, a bassa voce - apprezzo le piccole cose”. E se l’arresto per lui è stato come “una liberazione”, c’è un momento della sua vita in carcere che non dimenticherà mai. Il giorno in cui lui e altri ergastolani hanno incontrato, grazie al programma organizzato dall’associazione Prison Fellowship, familiari di vittime di omicidio: “Abbiamo avuto una serie di confronti. Inizialmente è stato molto difficile. Poi il tutto si è concluso con la nascita di un’amicizia. Con un abbraccio”. Non c’entra il perdono, ci fa capire Alessandro, “non è umano perdonare certi crimini”, c’entra il riuscire ad andare oltre il dolore, non per dimenticarlo, ma per provare a rimarginare le ferite. “Per i familiari delle vittime è molto più difficile. Loro sono stati coraggiosi”, continua. E c’è gratitudine nelle sue parole. “Sa cos’è per me la giustizia riparativa? - ci dice alla fine della nostra lunga telefonata - è creare un ponte, non tanto per te ma per gli altri”. Per le vittime, appunto. E c’è chi si prende cura di loro già da molto prima che incontri di questo genere, che sono l’eccezione e non la regola, avvengano. Prendersi cura delle vittime. L’esperienza di Rete Dafne: “Solo una piccola percentuale chiede la mediazione” Erano i primi anni ‘90 quando Marco Bouchard, allora magistrato, fondava il primo ufficio italiano di mediazione penale, a Torino: “Era un modello fatto esclusivamente per la giustizia minorile. Con il passare del tempo abbiamo realizzato quanto potesse essere complicato esportarla al mondo degli adulti”. È nata da lì l’idea di pensare alle vittime. A dedicarsi a loro per aiutarle in un percorso sempre difficile. “In Italia manca un sistema di assistenza diffuso nei confronti di chi ha subìto un reato”, spiega Bouchard ad HuffPost. Da qualche tempo ha messo da parte la toga per dedicarsi esclusivamente al progetto di Rete Dafne, di cui è presidente onorario. Un ente che fornisce, in vari posti d’Italia e con l’aiuto delle istituzioni, alle vittime l’assistenza di cui possono aver bisogno. Tra i servizi offerti c’è anche la mediazione: quando la vittima si rivolge a loro per incontrare l’autore del reato. “Solo un numero residuale della nostra utenza, all’esito di un percorso, ci chiede di iniziare la mediazione. Si tratta per lo più di vittime di reati contro la persona. La maggior parte di loro, prima di fare questo passo, ci chiede sostegno emotivo”. Quando si sceglie di prendere la strada dell’incontro “le probabilità che l’esito sia positivo - ci spiega - sono molto alte. Ma ciò accade perché il confronto avviene alla fine di un cammino. Non c’è nulla di automatico”. Perché prepararsi all’incontro con una persona che ti ha fatto del male, essere pronto a reggere l’impatto per provare a superare il dolore è difficile. Ma, se si è aiutati dalle persone giuste, può portare buoni frutti. Di una cosa è certo Bouchard: alle vittime bisognerebbe prestare più attenzione. “Non si tratta solo di curare le ferite dopo che un reato si è compiuto, ma anche di agire in maniera preventiva. Di aiutare la vittima a essere forte. Anche questo può contribuire a farla reagire laddove si trovi nuovamente a rischio. Pensiamo ai maltrattamenti prolungati, alle truffe affettive”. Situazioni che potrebbero riproporsi. Ma sapere come affrontarle può essere un aiuto. Certamente non il solo. “Quella volta che una donna che aveva subìto una rapina incontrato i suoi aggressori. E ha superato i suoi traumi”: il racconto di una mediatrice La giustizia riparativa che si realizza attraverso l’incontro richiede professionisti preparati. Annina Sardara è una di loro. Oggi lavora con Rete Dafne, in Sardegna, ma ha un passato nella mediazione minorile: “Seguivamo anche 200 casi in un anno - racconta ad HuffPost - ma era diverso. Erano le istituzioni a richiedere la mediazione”. Ora invece sono le vittime a voler incontrare chi ha fatto loro del male. Sempre che quest’ultimo accetti. “Molte di loro hanno subito bullismo, altre si rivolgono a noi per reati che sono avvenuti in famiglia. L’importante è che l’incontro avvenga senza rischi. Per questo credo che quando si tratta di delitti come violenza o maltrattamenti può avvenire solo dopo che il reo ha fatto un percorso”. Gli incontri sono pochi: “Due o tre. Servono perché ciascuno di loro possa raccontare all’altro cosa ha rappresentato quel fatto nella propria vita” e fare in modo che le conseguenze siano meno devastanti. In alcuni casi poi la riconciliazione tra vittima e reo arriva davvero. Tangibile, improvvisa. “Ricordo - racconta - una signora che aveva subito una rapina, in Sardegna. Gli autori erano quattro minorenni. Da quel giorno aveva gli incubi, non riusciva a far entrare nel negozio persone che avessero anche solo una sciarpa al collo”. Il giorno dell’incontro, però, quelli che erano stati i suoi aggressori si sono rivelati quattro ragazzini fragili. Che si vergognavano del loro gesto. Si sono parlati, si sono guardati negli occhi e il confronto ha aiutato la signora a superare i suoi traumi. “I ragazzi hanno poi svolto anche dei lavoretti nel suo esercizio commerciale”, conclude Sardara. Una piccola storia, un esempio concreto di cosa voglia dire ricomporre le fratture. Vittima e reo, insieme. “Riparare i cocci con un filo d’oro”: la giustizia riparativa nel settore minorile. La proposta di legge per renderla possibile in tutta Italia Se per gli adulti ancora c’è tanta strada da fare, per i minori la giustizia riparativa è prassi. Ma solo, come si vede dai dati del Garante per l’Infanzia, in alcune zone d’Italia. L’onorevole Devis Dori, del Movimento 5 stelle, ha presentato una proposta di legge per fare in modo che uno strumento già sperimentato in varie zone diventi utilizzabile a livello nazionale. Attraverso l’istituzione, in ogni distretto di corte d’appello, di almeno un centro per la mediazione penale. “Con la giustizia riparativa non viene messa in rilievo solo la violazione della norma, ma anche la violazione della persona, delle relazioni. E si provano a curare le ferite”, spiega ad HuffPost. “Si tratta di una sfida non facile, che richiede coraggio”. Il percorso che Dori immagina “non dovrebbe includere solo vittima e reo ma anche la comunità” di riferimento. Il buon esito di questa fase potrebbe avere effetti nel processo penale? Non per forza. Certamente l’esito negativo non dovrebbe condizionarlo. “È previsto che l’autorità giudiziaria tenga conto delle modalità con le quali si è svolto e si è concluso il programma di mediazione ai fini delle decisioni giudiziarie, della valutazione dell’evoluzione della personalità del minorenne e del suo programma di reinserimento sociale”, si legge nella proposta. È un modello esportabile al mondo degli adulti? Dori non ha dubbi: “Certo - dice - ma è opportuna prima una fase di sperimentazione per capire come andare poi oltre”. Comunque si decida per arrivare a una norma, i presupposti in campo minorile ci sono. Lo sa bene Luca Ansini, presidente di Setting in Cammino Onlus, dottore di ricerca in Pedagogia e analista transazionale educativo. Con la sua associazione porta da due anni alcuni giovanissimi autori di reato in cammino sulla via Francigena. “È un’esperienza immersiva, che consente ai giovani in messa alla prova di fare un percorso che li aiuti a mettersi nei panni dell’altro. A comprendere che c’è chi ha sofferto. E a prendersene cura”. Nell’ottica della giustizia riparativa è un passaggio fondamentale. “È come quella pratica giapponese che consiste nel ricomporre i cocci utilizzando l’oro. Si può riparare ciò che si era rotto, aggiungendo qualcosa”. E quel qualcosa serve a guardare avanti senza ripetere gli errori passati. “Ogni abbraccio è stato importante, ogni aiuto dato e ricevuto. Ho capito che ognuno di noi è una stella, che ognuno si noi porta una luce”, ha scritto Damian (nome di fantasia), uno dei ragazzi che ha partecipato al cammino, al termine dell’esperienza. La luce può oltrepassare le macerie, purché le istituzioni forniscano gli strumenti giusti. Ergastolo ostativo: da cosa nasce e perché non va abolito di Stefania Pellegrini* L’Espresso, 25 aprile 2021 Dopo la pronuncia della Corte Costituzionale si riaccende il dibattito su una misura che nel campo della lotta alla mafia fu varata come risposta alle stragi. A pochi mesi dalla precedente pronuncia, la Corte Costituzionale si è nuovamente espressa ritenendo che la previsione che esclude la concessione della libertà condizionale per i condannati all’ergastolo per reati di mafia (artt. 4 bis c. 1, 58 legge 354/75 e 2 d.l.n. 152/1991) sia in contrasto con il principio di rieducazione della pena (art. 27 Cost.), con quello di eguaglianza (art. 3 Cost.) e con il divieto trattamenti inumani e degradanti (art. 3 Cedu). Nello specifico, viene messa in discussione la preclusione assoluta a tale beneficio per chi non abbia collaborato con la giustizia, anche quando il ravvedimento è sicuro. Appare evidente come la Suprema Corte ritenga che il ravvedimento del mafioso possa essere desunto anche da elementi non necessariamente sfocianti in una collaborazione di giustizia e che il regime carcerario speciale riservato ai condannati per reati di mafia c.d. irriducibili debba sottostare ai principi sanciti dalla carta costituzionale e quindi finalizzato alla rieducazione degli stessi. Con questo ulteriore intervento dell’Alta Corte, appare chiaro come si sia inesorabilmente innescato il processo di affievolimento di uno strumento di lotta alla criminalità organizzata che ha già ampiamente dimostrato la sua efficacia. Per comprendere la portata di questa svolta epocale è necessario attivare un dibattito che prenda in considerazione una serie di elementi dai quali non si può prescindere: i reati di mafia non posso essere assimilati ad altri tipi di reati, di conseguenza il loro trattamento penitenziario deve necessariamente basarsi su principi diversi; le intenzioni del legislatore che ha introdotto questo regime carcerario non coincidono con la finalità rieducativa, ma erano indirizzate ad altre esigenze di politica criminale; la collaborazione di giustizia rappresenta l’unica reale dimostrazione che il condannato per mafia abbia rescisso ogni legame con la precedente vita consociativa; per di più, la collaborazione va sollecitata e incentivata, in quanto rappresenta uno dei pochi strumenti di conoscenza delle dinamiche interne alla consorteria criminale. Specificità del reato di mafia - Considerare la mafia alla stregua di un sistema criminale comune è del tutto erroneo e pericoloso, poiché, in quanto cultura si propone e si impone come identità totalizzante. Si tratta di un “fondamentalismo”, un tipo di pensiero che è dentro la persona, ma non consente la soggettività, in quanto non è il soggetto che decide e pensa, ma è la realtà sovrapersonale in cui è inserito e che ha dentro. L’associato di mafia non è un criminale comune, ma è un soggetto che, nel momento in cui commette un delitto fine dell’associazione, ne ha già condiviso pienamente, non solo la fase realizzativa, ma anche quella eventuale, della gestione post delictum. Il mafioso aderisce consapevolmente ad una associazione che ha come elemento identitario e di forza quello di resistere all’intervento statale anche mediante il mantenimento del vincolo tra l’associazione e l’associato, perfino quando questo si trovi in carcere, finanche la sua detenzione abbia carattere perpetuo. In questa prospettiva, risulta estremamente rilevante considerare la dimensione collettiva del crimine organizzato. Una visione “individualista” delle esigenze preventive si rileva inappropriata, in quanto la misura non può essere rivolta al singolo, piuttosto è diretta al di fuori della dimensione penitenziaria, finalizzata ad evitare le attività del gruppo esterno. Ne sono conferma i numerosi accertamenti giurisprudenziali che hanno dimostrato quanto sia cogente l’interesse delle associazioni mafiose a instaurare rapporti comunicativi con gli affiliati detenuti, così da mantenerne l’operatività. Il legame che unisce gli affiliati affonda le proprie radici in una cultura del comparaggio e della fedeltà, in cui il silenzio funziona come segno di riconoscimento. Un silenzio manifestazione di quella omertà che è espressione della carica intimidatoria mafiosa e che porta il mafioso al rifiuto incondizionato ed assoluto a collaborare con gli organi dello stato. Una scelta assunta, non solo per timore di vendette, ma anche per volontà di proteggere la consorteria alla quale si appartiene e per disconoscere ogni legittimazione allo Stato. Di fatto, il cemento che lega tra loro gli associati, più che il timore e dalla soggezione, è costituito dalla comune adesione ad una specifica subcultura che il regime carcerario tradizionale non è in grado di affievolire. Solo una forma detentiva differenziata ed idonea ad interrompere la comunicazione operativa tra il detenuto e l’associazione di appartenenza può recidere quel vincolo che lega indissolubilmente i consociati ad un sistema di valori che ne costituiscono la cementificazione di rapporti inscindibili. Isolare non educare - Il regime del 41 bis o.p. nasce in specifiche circostanze storiche. Siamo all’indomani della strage di via d’Amelio. La notizia venne accolta con disperazione e amarezza da parte di tutta la popolazione, ma festeggiata con un brindisi dai mafiosi incarcerati all’Ucciardone. Ulteriori indagini rivelarono che lo champagne venne condotto in carcere in concomitanza con la preparazione dell’attentato, avvalorando l’ipotesi che i capi mafia detenuti fossero a conoscenza del progetto criminale e che attendessero la notizia dell’avvenuta strage per stappare le bottiglie. Divenne urgente introdurre un provvedimento finalizzato ad assicurare la recisione dei legami esistenti tra le associazioni criminali e i soggetti detenuti, riducendo e filtrando i contatti tra i boss detenuti e gli affiliati all’esterno. Una misura non volta ad impedire la materiale commissione dei delitti da parte del prevenuto, piuttosto orientata ad ostacolare che l’ideazione e la programmazione di crimini si realizzasse all’interno del carcere. Emerse chiara la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un singolare fenomeno criminale che necessitava di interventi specifici in grado di recidere la fitta rete di contatti e il conseguente sistema di comunicazioni non ostacolato dalle mura carcerarie. Proprio tale singolarità ha consentito al nostro legislatore di stabilire una diversa graduazione tra le molteplici funzioni della pena, riducendo lo “spazio educativo” a favore della finalità generalpreventiva che impegnerebbe lo Stato a tutelare i diritti fondamentali, prima che gli stessi siano offesi. Il valore della collaborazione - Il regime speciale trova la sua ragione proprio nelle lapidarie parole del suo ideatore. Giovanni Falcone asserì come la mafia non fosse “una semplice organizzazione criminale, ma un’ideologia che, per quanto distorta, ha elementi comuni con tutta il resto della società - una sorta di subcultura dalla quale - non è possibile staccarsene, spogliarsene come si smettesse un abito”. La decisione di non collaborare conferma l’adesione ad un credo irrinunciabile. Il boss in carcere continua ad esercitare il potere carismatico criminale ed il rifiuto di collaborare con la giustizia lo rende un modello positivo per il suo ambiente. Per contro, la valutazione di collaborare ha insita la consapevolezza che fuoriuscire dal mondo mafioso vuol dire affidarsi totalmente alla capacità di protezione dello Stato: quello che prima rappresentava il nemico da fronteggiare, diventa l’amico con cui cooperare e nelle sue mani gli ex mafiosi mettono il proprio futuro e quello dei propri figli. In molti casi, è proprio l’esperienza del carcere che porta il detenuto verso la collaborazione, perché è proprio durante i momenti di isolamento che si vivono forti emozioni e si può giungere al ripensamento delle proprie scelte di vita. Tant’è che il regime speciale, con le sue lunghissime giornate di isolamento totale, ha spesso portato a sviluppare un’introspezione sul senso delle proprie scelte di vita. Nell’universo culturale mafioso la collaborazione con la giustizia rappresenta l’unica vera dimostrazione che l’affiliato ha rescisso i suoi legami con l’organizzazione. Non si tratta di una semplice volontà di “emenda del condannato”, ma assume un valore profondo nel senso che, valutando il processo di attaccamento come sopra descritto, collaborare, significa tranciare di netto un cordone ombelicale che fino a quel momento ha garantito un’identità forte e robusta, ancorché dogmatica e ripetitiva. Di fatto, solo con la collaborazione si attesta una nitida presa di distanza dal mondo criminale. In mancanza di questa, i boss continueranno ad essere capi rispettati, ai quali si deve obbedienza. Rappresentano un modello “positivo”, andando così a rafforzare quel “capitale sociale” che raffigura la forza di un sistema criminale che per essere scardinato necessità di misure straordinarie e particolarmente adatte ad intervenire su di una struttura fondamentalista e paranoica. I boss sono equiparabili a figure mitologiche, invincibili ed il regime dell’isolamento, mettendoli a confronto con la solitudine, ha provocato il crollo della loro onnipotenza. Anche quando la scelta non è basata su di un ravvedimento profondo, ma su di un calcolo utilitaristico di avvantaggiarsi di benefici, la decisione di fornire informazioni rilevanti comporta l’indebolimento della struttura che viene fiaccata anche dalla presa di distanza pubblica ed inequivocabile di un consociato. Per contro, il ravvedimento del detenuto per mafia non può essere desunto dal suo comportamento. È notorio come il mafioso, tradizionalmente vesta gli abiti del detenuto modello. Basare la sua “redenzione” sulla valutazione del percorso trattamentale potrebbe essere del tutto fuorviante. Il magistrato di sorveglianza incaricato dovrebbe vagliare l’animo dell’ergastolano, assumendo un incarico estremamente delicato e, sulla base di “elementi” non meglio definiti, valutare caso per caso se i boss detenuti siano ancora pericolosi, soprattutto quando, nonostante la detenzione, non si siano mai distaccati dall’organizzazione, mantenendo quel “silenzio” che rappresenta un potentissimo collante per mantenere saldi i legami associativi. È facile pensare come questa attività lo possa facilmente esporre a ritorsioni, andando così a mettere a rischio la serenità della sua analisi. Si torna quindi ad affermare come solo attraverso la collaborazione l’affiliato possa dimostrare di avere effettuato un percorso, più o meno intimo ed interiore, di distacco dal sistema criminale e culturale dal quale proveniva. Solo questo può essere un chiaro segnale di un avvio di un percorso di rieducazione che potrà poi essere implementato e sostenuto con una serie di progetti atti a ricollocare il soggetto in una dimensione sociale ben diversa da quella di provenienza. L’art. 27 della Costituzione riconosce la finalità rieducativa della pena. Una rieducazione che deve tendere ad abbracciare e rispettare i valori fondamentali del vivere democratico. Esattamente quei valori che il sistema mafioso calpesta e disprezza. Ora, come si può ritenere che un mafioso che non vuole discostarsi da un sistema di disvalori, rifiutandosi di collaborare, possa compiere un percorso di rieducazione verso quegli stessi principi che il proprio sistema di appartenenza rifiuta e rinnega? Da ultimo, preme ricordare come il collaboratore, con le sue dichiarazioni, non si limiti a descrivere episodi o fatti, ma delinei una societas con le sue strutture fondanti, le sue gerarchie di valori, i suoi meccanismi di autoconversazione. Attraverso le sue narrazioni, quindi aumentiamo anche la conoscenza di un fenomeno giungendo anche a comprendere le dinamiche criminali che sottendono alla commissione di tanti delitti. Conforta la decisione dei giudici della Corte di rimandare l’accoglimento del ricorso ad un momento successivo, dando la possibilità al legislatore di intervenire in modo sistematico sulla normativa. Si richiama l’attenzione sulla peculiarità dei reati di mafia e sulla necessità di preservare il valore che in questi casi riveste la collaborazione con la giustizia. La riforma che si sollecita sarà estremamente complessa e delicata. Il rischio che si corre sarebbe quello di indebolire, sino al totale svilimento, uno degli strumenti più efficaci di lotta alla criminalità organizzata. Sarà in grado il Parlamento di svolgere un ruolo così delicato e di caricarsi di una simile responsabilità? Procedere verso lo sgretolamento del regime penitenziario differenziato equivarrebbe ad abdicare al nostro standard di efficienza nella lotta alla criminalità organizzata, frutto di decenni di elaborazioni giuridiche e sociologiche. Un Parlamento costantemente arrovellato tra crisi intestine ed impegnato nel proporre interventi che permettano al Paese di emergere dalla crisi economica e sociale nella quale la pandemia lo ha gettato, sarà all’altezza di questo compito? Riuscirà a misurarsi con una simile prova nell’arco di un solo anno? La sorte, la beffa o una congiunzione astrale favorevole o contraria, ha indotto la Corte a stabilire un limite temporale a questo intervento legislativo. La trattazione è stata rimandata al maggio del 2022. I rappresentanti istituzionali che presenzieranno alla commemorazione del 30ismo anniversario della strage di Capaci avranno la responsabilità di guardare quelle steli dell’autostrada, quel groviglio di lamiere appartenenti alla Quarto Savona 15, specchiarsi negli occhi dei parenti delle vittime e dichiarare di aver mantenuto fede al sacrificio di chi ha lottato anche perché il regime penitenziario speciale diventasse legge. *Ordinaria di Sociologia del diritto e Mafie e Antimafia all’Università di Bologna Marta Cartabia: “Uniti sulla riforma della giustizia o niente soldi del Recovery” huffingtonpost.it, 25 aprile 2021 L’appello del ministro della Giustizia ai partiti nella data simbolica del 25 aprile. “Abbiamo un compito storico, un’occasione irripetibile per l’Italia. È il Recovery Plan” e “vorrei che una cosa fosse ben chiara, ai partiti e ai cittadini: insieme a quella della Pubblica Amministrazione, la riforma della giustizia è il pilastro su cui poggia l’intero Piano nazionale di ripresa e resilienza. Se fallisce questa riforma, molto semplicemente, noi non avremo i fondi europei”. Nella data simbolica del 25 aprile, la ministra della Giustizia, Marta Cartabia - in un’intervista a ‘La Stampa’ - esorta le forze politiche a ritrovare lo spirito di unità nazionale, con un appello alla “responsabilità” e un’esortazione al “realismo”: “Rinuncino al conflitto permanente e ammainino le ‘bandierine identitarie’, come ha detto il premier”. La giustizia “è stata una trincea” ora, sottolinea, “deve diventare il terreno dove cercare una convergenza” per “il bene delle future generazioni”. Serve “un grande patto”: così lo definisce Cartabia, che da costituzionalista lo associa al “patto fondativo che fece nascere la nostra Repubblica”: “Anche allora c’erano tre forze politiche dominanti che andavano in direzioni diverse, le lotte interne imperversavano. Eppure la Costituzione si fece”. Il suo metodo sarà “un ascolto profondo delle ragioni contrapposte, nel tentativo di farle convergere”. E l’obiettivo è “una giustizia rapida e di qualità”, con “riforme dei processi, digitalizzazione, assunzione di personale, ristrutturazioni edilizie”. Cartabia ricorda che “una riduzione della durata dei processi civili del 50% può accrescere la dimensione media delle imprese italiane di circa il 10%. Una riduzione da 9 a 5 anni dei tempi di definizione delle procedure fallimentari può generare un incremento di produttività dell’economia dell?1,6%”. Scandali, correnti di potere, processi infiniti: la magistratura è in crisi di Paolo Biondani L’Espresso, 25 aprile 2021 “I cittadini non ci capiscono più”. Ai minimi di credibilità e autostima, con un Csm lacerato dal caso Palamara, tra riforme gattopardesche e cronici problemi di efficienza e procedure, ora i giudici temono l’affondo finale della politica: “In pericolo la nostra indipendenza”. L’Espresso chiede a otto protagonisti della storia giudiziaria, da Caselli a Spataro, dalle procuratrici antimafia a Calvi e Zagrebelsky, perché il sistema legale è al collasso e cosa bisogna cambiare. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Cesare Terranova, Guido Galli, Emilio Alessandrini e tanti, troppi altri. Sono magistrati che hanno sacrificato la vita per la giustizia, per liberare l’Italia dalla mafia e dal terrorismo. Sarebbe bastato ricordare i loro nomi, fino a ieri, per non cadere nella trappola politica e mediatica di scaricare su tutti i giudici le colpe di alcuni, strumentalizzando un caso giudiziario per screditare l’intera magistratura. In passato la giustizia italiana ha superato scandali molto peggiori del caso odierno di Luca Palamara, l’ex capo-corrente di Unicost intercettato mentre trattava le nomine dei procuratori con politici indagati, e ora accusato (da altri magistrati) di aver incassato tangenti e regali per favorire un amico imprenditore. Ci sono stati giudici illustrissimi incriminati per mafia, concussione, abusi sessuali, corruzioni miliardarie. Ma il blocco dei colleghi resisteva, reagiva con indagini, arresti e condanne delle toghe sporche. Anche negli anni più neri della nostra storia, la giustizia come istituzione aveva tenuto. Ma oggi la magistratura attraversa una crisi senza precedenti. Perché è una crisi interna. Grave. Di democrazia e rappresentanza. Di credibilità e reputazione. Amplificata dal cronico sfascio del sistema legale e processuale, che esaspera i cittadini onesti. Nei palazzi di giustizia chiusi dal Covid-19, da Milano a Palermo, molti magistrati confessano di sentirsi “disillusi”, “demotivati”, “sconfortati”. Parlano di “una crisi generale”, scollegata da vicende specifiche. Non credono più nelle “auto-riforme” annunciate dal Csm o dai vertici della loro associazione. E si aspettano invece contro-riforme punitive, decise da politici che rifiutano il controllo giudiziario. La posta in gioco è l’indipendenza della magistratura, la sua capacità di imporre la legalità a tutti, anche agli altri poteri dello Stato: una conquista del 25 aprile. Per capire le ragioni della crisi, l’Espresso si è rivolto a magistrati, avvocati e giuristi che hanno vissuto da protagonisti la storia giudiziaria. Molti, che lavorano ancora nei tribunali, preferiscono non esporsi in dichiarazioni. Ma spesso i loro giudizi, e le parole stesse, coincidono. Gian Carlo Caselli, come procuratore a Torino e Palermo, ha guidato indagini storiche contro il terrorismo e la mafia, proprio negli anni delle stragi di magistrati. Oggi è preoccupato come mai: “La parola epocale è abusata, ma ci sta tutta se riferita all’attuale crisi della magistratura. Con lodevoli eccezioni, è un corpo culturalmente indebolito, tramortito da crisi di efficienza, credibilità, autostima. Lo scenario di fondo è cupo: un processo farraginoso e incomprensibile, con tempi e costi che generano sfiducia nei cittadini; martellanti campagne mediatiche; personalismi e polemiche tra magistrati; rischio di derive illiberali, con un crescente rifiuto del processo, della giurisdizione stessa. Tutti questi fattori non possono non causare disagio nei giudici responsabili, quelli che patiscono il fatto di non poter rendere un servizio ai cittadini. Nel contempo, cresce la tendenza ad interpretare il ruolo in maniera burocratica, piuttosto che con l’etica della responsabilità. Significa accontentarsi del minimo sindacale. Dopo trent’anni di calunnie, insulti, aggressioni ai magistrati, è comprensibile che qualche collega si chieda: ma chi me lo fa fare? Qualche parte politica ostile cercherà sicuramente di approfittare di questa crisi per attaccare la giustizia, non le sue inefficienze”. E a lei chi l’ha fatto fare? Perché è diventato magistrato? Il pensionato Caselli si prende in giro: “Era il lontano 1967... Era il lontano 1967... I miei genitori hanno fatto i salti mortali per farmi studiare, volevo ripagarli di tanti sacrifici. Allora i figli di operai che entravano in magistratura si contavano sulle dita di una mano”. E che motivazioni aveva, un giovane dell’Italia di allora? “In quegli anni nella società italiana affiorava l’esigenza della difesa dei diritti, l’affermazione dei principi costituzionali di uguaglianza. Anche la magistratura cominciava a rompere la sua tradizionale sintonia col potere... Furono decisive alcune letture: Calamandrei, Bobbio, Galante Garrone, Ramat, Danilo Dolci, don Milani... Dopo due anni di tirocinio, ho avuto la fortuna di lavorare con un maestro, Mario Carassi, che guidava i giudici istruttori. Fu lui a creare il primo pool, che poi ispirò Caponnetto a Palermo. Quando le Brigate rosse uccisero il procuratore Coco con Saponara e Dejana, gli uomini della scorta, Carassi affidò l’istruttoria a tre magistrati, dicendoci chiaramente: così, se i terroristi ammazzano uno di voi, gli altri due vanno avanti. Fu Carassi a insegnarmi l’etica della responsabilità. L’esempio conta molto”. La crisi allarma i grandi vecchi della magistratura, mentre tra i giovani genera sfiducia, apatia, impotenza. Armando Spataro è stato pm a Milano dal 1976, in una procura in trincea contro il terrorismo, e ha lasciato la toga nel 2018, dopo un’elezione al Csm e grandi indagini sulla mafia al Nord e i servizi segreti (“ma anche i furti di biciclette”, minimizza). Anche lui oggi è preoccupato: “Un senso di crisi covava da tempo, ma si è accentuato negli ultimi due anni, con il caso Palamara e soprattutto con l’impatto mediatico del suo libro, utilizzato per attaccare tutte le correnti, anzi tutta la magistratura. Bisogna reagire con durezza. E con la massima trasparenza. Mi piacerebbe vedere anche l’avvocatura al fianco dei magistrati”. Come si spiega questa crisi? Spataro esita a rispondere: “Sulle ragioni vorrei essere prudente, temo di indulgere in rimpianti dei tempi andati. Certamente vedo comportamenti che non apprezzo. Magistrati che si propongono come eroi solitari in lotta contro i poteri forti. E dall’altro canto un atteggiamento burocratico, di fuga dalle responsabilità, purtroppo diffuso anche tra i più giovani. Negli anni di piombo la nostra generazione usciva dai palazzi di giustizia per dire no al terrorismo. C’era un fortissimo impegno civile, che oggi mi sembra scemato. Non so dire perché, non faccio il sociologo. Penso che influisca anche un’informazione distorta sulla giustizia: nell’era di Internet vince chi dà per primo una notizia urlata, anche se è sbagliata, falsa, e non la si corregge più. Ma quando si arriva ad approvare il sorteggio per selezionare le commissioni di concorso, o a proporlo per l’elezione al Csm, significa che anche nella magistratura si rischia di rinunciare alla competenza, alla valutazione del merito, al senso della propria dignità”. Anche la fiducia dei cittadini è ai minimi storici. L’inefficienza della giustizia - tra processi civili lentissimi, migliaia di vittime dei reati beffate dalla prescrizione, strutture fatiscenti, deficit di personale e rivoluzioni informatiche che non decollano mai - dipende da leggi mal fatte dalla classe politica. Ma i magistrati più responsabili sanno che la gente incolperà loro dei disservizi. E fino a ieri cercavano di rimediare con più impegno, per senso del dovere. Oggi anche questo è in crisi. Laura Bertolè Viale è una donna di ferro che ha fatto il magistrato per 48 anni. Gli ideali di giustizia li ha assorbiti al liceo classico di Pescara, insieme a compagni di classe come Emilio Alessandrini e Vito Zincani. “Allora sapevamo che i magistrati rischiavano la vita. Poi, negli anni di Mani Pulite, ci siamo sentiti tutti osannati: altro errore. Oggi c’è rassegnazione, appiattimento, mediocrità. Non lo si dice, ma si accetta la disillusione dilagante: l’Italia non cambierà mai, la corruzione c’è sempre stata, con la mafia si può convivere, non uccide quasi più. Ho un buono stipendio e un posto sicuro, perché dovrei sacrificarmi? È in crisi il senso del dovere”. Oggi più di metà dei magistrati sono donne, che stanno conquistando anche posizioni di vertice: sapranno far funzionare meglio la giustizia? “Beh, in questo il cambiamento è stato enorme. Quando ho fatto il concorso, con me c’erano solo Livia Pomodoro e pochissime altre. Credo che le donne, mediamente, tendano ad essere più laboriose, tenaci, combattive, proprio perché devono superare i pregiudizi che ancora esistono. La parità di genere è una bella conquista, ma di per sé non risolve i problemi. La degenerazione delle correnti ha rovinato tutto. Una volta i migliori magistrati fondavano le correnti e animavano un dibattito pubblico di altissimo livello. Ora i migliori escono dall’associazione magistrati”. Le intercettazioni del caso Palamara hanno demolito l’istituzione. Il capo-corrente parlava con tutti. E ora la sua difesa è craxiana: il sistema delle nomine coinvolgeva tutte le correnti. Tutti colpevoli, nessun colpevole. Le sue interviste indignano i tanti giudici che si dannano di lavoro e magari rischiano la vita. Ma pochi credono alle soluzioni proposte dai vertici, dal Csm o dall’Anm. Alessandra Cerreti, pm antimafia a Milano e Reggio Calabria, se n’è andata dal direttivo di Unicost con un folto gruppo di colleghi. “Per una categoria composta in grandissima maggioranza da persone perbene, il caso Palamara è stato uno shock. A Milano abbiamo organizzato assemblee infuocate, con più di 400 giudici e pm, per dire basta, adesso si cambia. Presi la parola per chiedere scusa a nome di una corrente in cui avevo creduto. Servirebbe un’autocritica collettiva. Invece non cambia niente: si fanno riforme di facciata, gattopardesche, e noi all’interno ce ne accorgiamo. C’è molto disincanto. O disinganno. All’ultima elezione suppletiva per il Csm, circa il 40 per cento dei magistrati non è andato a votare”. E lei perché ha fatto il magistrato? Cerreti sorride: “L’avevo scritto nel tema della terza elementare: da grande voglio fare il giudice che arresta i mafiosi... Sono siciliana, sono cresciuta col mito di Falcone”. Cosa c’è dietro la crisi di oggi? “Ci sono tanti fattori, è anche il frutto avvelenato di trent’anni di attacchi vergognosi alla magistratura. Ci fanno guidare una macchina giudiziaria disastrosa, che fa acqua da tutte le parti, facendo credere ai cittadini che la colpa sia dei magistrati. Ma ora è più difficile difendersi. E c’è un problema di motivazione. Quando ho fatto il concorso, la sede più ambita era Palermo. Oggi un trentenne dopo il tirocinio tende a cercare un posto tranquillo, che non imponga troppi sacrifici. Senza l’impegno dei giovani non usciremo dalla crisi”. Giuseppe Di Lello ricorda bene quel “periodo tragico, ma anche di grandi speranze”, con “tantissimi giovani che volevano fare i magistrati a Palermo”. Oggi è un sopravvissuto del pool antimafia di Falcone, Borsellino e Caponnetto. E avverte che nella giustizia italiana non è mai esistita un’età dell’oro: “Fino agli anni 70 la magistratura era omogenea a un assetto sociale e politico conservatore. Al Csm si votava col maggioritario e Magistratura indipendente prendeva tutti i seggi. Dopo il ‘68, con l’ingresso dei giovani, è nata Magistratura democratica e poi le altre correnti, che avevano fortissime motivazioni ideali. C’era il terrorismo, la mafia era impunita: si sentiva il dovere di difendere la democrazia, i cittadini. Negli ultimi anni le correnti sono degenerate in gruppi di potere per spartirsi le nomine. Questo scoraggia la partecipazione. E favorisce la commistione con la politica. Sono poteri dello Stato che devono restare separati. Dopo le stragi del 1992, tutti mi dicevano di andare via da Palermo. Ho fatto il consulente per la commissione antimafia e poi sono stato eletto in Parlamento, dove ho trovato Felice Casson e Gerardo D’Ambrosio. Nessuno di noi ha mai fatto comunelle di interessi con altri magistrati e tantomeno con politici. La giustizia deve essere indipendente. Un magistrato, come qualunque cittadino, ha diritto di candidarsi, ma deve cambiare mestiere”. Giuliano Turone è l’ex giudice istruttore che, per citare solo le sue indagini più famose, ha scoperto la loggia P2 e arrestato a Milano il super boss di Cosa Nostra Luciano Leggio (detto Liggio), . Ha vissuto in prima persona la svolta storica della giustizia italiana, che colloca in un periodo preciso: “Ho iniziato a fare il magistrato poco prima della bomba di Piazza Fontana. In Italia i principi della Costituzione si sono affermati lentamente, gradualmente, solo a partire da quegli anni. L’indipendenza della magistratura si è affermata concretamente con l’istruttoria sulla strage di Milano. Con la scoperta della strategia della tensione, delle complicità di apparati dello Stato, è nata la consapevolezza dei valori della democrazia. E della necessità di difenderli dal terrorismo”. All’epoca Guido Calvi, poi diventato senatore dei Democratici e membro del Csm, era l’avvocato di Valpreda, l’anarchico incarcerato ingiustamente con il marchio di stragista. Anche lui invita a non confondere le correnti con la loro degenerazione: “Va rivendicata la funzione positiva, dirompente, della nascita di Magistratura democratica. Negli anni ‘50 e ‘60 c’era il problema della continuità con il fascismo. Era molto peggio di oggi. Le correnti hanno avuto una grandissima importanza per la nostra democrazia: facevano cultura, le loro riviste entravano nelle università. Negli anni ‘70 rappresentarono i momenti più alti di elaborazione del nostro pensiero giuridico”. E oggi che ne resta? “I magistrati sono sfiduciati, stanno perdendo la consapevolezza di quanto è importante la loro funzione per i cittadini. La magistratura è l’istituzione fondamentale per la tutela della legalità, quindi va difesa soprattutto nei momenti di crisi come l’attuale. Per i casi individuali, c’è bisogno di severità, di maggior controllo ispettivo. Ma occorrono anche profonde riforme del processo e dell’ordinamento giudiziario. Ed è la politica, è il Parlamento che deve farle”. Per i magistrati non sarà facile uscire dalla crisi. Il professor Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale, sottolinea che nella giustizia funziona un micidiale effetto estensivo: “Ci sono professioni, che si richiamano ad alti valori ideali, per cui un singolo scandalo può inquinare la visione dell’intera categoria. Succede per i magistrati, i politici, i giornalisti, anche per i preti, chiamati ad agire in nome della giustizia, il bene comune, la verità, Dio. Se un dentista sbaglia, non si accusano tutti i medici. Ma ogni magistrato deve essere consapevole che il suo comportamento può compromettere la credibilità di tutta la giustizia. Nel caso Tortora, l’errore giudiziario fu commesso da pochi. Ma da lì nacque il referendum sulla responsabilità civile, che colpì tutti i magistrati. Per uscire dalla crisi servirebbero riforme di altissimo profilo”. Indagine parlamentare sulle toghe, un colpo a Montesquieu di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 25 aprile 2021 La Commissione di inchiesta sulla magistratura voluta da alcune forze politiche, per la sua natura evidentemente politico-punitiva, porta con sé il rischio di una progressiva erosione di indipendenza. Sono tanti i motivi per cui ritengo che il Parlamento non debba mettere sotto indagine la magistratura, si muovono su piani diversi pur essendo tra loro correlati in modo inestricabile. Motivi che attengono all’essenza della democrazia costituzionale. Il principio enunciato all’articolo 101 della Carta secondo cui “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” va interpretato in considerazione della necessità democratica di preservare l’indipendenza dei giudici e tenerli fuori dall’orbita del potere, come ci ha insegnato Luigi Ferrajoli. Non è questo un principio da interpretare come espressione di chiusura corporativa. Sin dalla fine degli anni ‘60 del secolo scorso Magistratura Democratica, nata nel 1964 e a cui tanto dobbiamo per lo sviluppo di una cultura della giurisdizione rispettosa dei diritti fondamentali, interpretava l’art. 101 della Costituzione da un lato per colpire quel legame distorto e pericoloso che aveva tradizionalmente e pericolosamente unito giudici e politica e dall’altro per riconnettere giuridicamente e sentimentalmente la magistratura a norme e spirito costituzionale. A sua volta l’art. 3 della Carta, con il suo richiamo forte all’uguaglianza e alla dignità, richiede frammentazione del potere pubblico. L’indipendenza della magistratura deve essere sia interna che esterna. La storia italiana è stata segnata da deviazioni istituzionali, crimini, progetti eversivi. L’indipendenza della magistratura deve essere garantita, protetta, promossa a tutti i costi, anche nei momenti più difficili della magistratura stessa, vittima di pratiche consociative. Ogni piccola erosione allo spazio di autogoverno, autonomia e indipendenza rischia di produrre effetti a catena negativi sull’architrave del sistema costituzionale che, ricordiamolo, retroagisce a Montesquieu il quale così scriveva: “E non vi è libertà neppure quando il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: poiché il giudice sarebbe il legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore”. La Commissione di indagine sulla magistratura voluta da alcune forze politiche e di cui parla sulle pagine del Corriere il prof. Sabino Cassese, per la sua natura evidentemente politico-punitiva, porta con sé il rischio di una progressiva erosione di indipendenza. La democrazia è materia viva, non è solo il prodotto di norme. È fatta di invasioni sostanziali di campo, di segnali, di messaggi subliminali diretti all’auto-censura. Indagare la magistratura italiana nel suo complesso è qualcosa che può creare turbamento in tutti quei giudici che oggi stanno indagando sugli uomini delle istituzioni. Ha il sapore di una vendetta politica. Non mi pare un argomento quello della reciprocità, ossia che i parlamentari possono indagare la magistratura in quanto i giudici possono mettere sotto inchiesta un parlamentare. Se così non fosse dovremo assicurare immunità assoluta ai detentori del potere politico, come ai tempi del dispotismo settecentesco o come avviene nelle democrazie formali. I giudici possono e devono mettere sotto inchiesta chiunque per le proprie responsabilità individuali, ma non possono certo mettere sotto inchiesta il parlamento, anche là dove ci sia una diffusa corruzione nella politica. È semmai il parlamento che può mettere sotto inchiesta se stesso, così come deve fare il Csm sulla magistratura. I giudici possono però incriminare una persona che riveste alte cariche, senza guardare in faccia nessuno, come prescrive l’articolo 3 della Costituzione. Possono e debbono farlo se ha rubato, ammazzato, truffato, rapinato, sequestrato. Dare invece al parlamento la possibilità di indagare la magistratura significa aprire il vaso di Pandora, legittimare le vendette che aspettavano di essere consumate da trent’anni a questa parte. Questo atto di difesa della magistratura e della sua indipendenza parte dalla piena consapevolezza delle storture che si sono avute nei rapporti tra politica e giustizia, come il caso Palamara ha evidenziato. Ha questa volta ragione sempre Sabino Cassese quando afferma che “il sistema politico, a sua volta, non è privo di colpe, perché legifera continuamente sulla giustizia, moltiplica i reati, non riesce a introdurre sanzioni diverse dal carcere, tollera mezzi di prova invasivi della vita privata delle persone, dilata l’uso del diritto penale e lascia il campo aperto alle procure; a corto di idee e programmi, ha delegato alla magistratura il controllo della virtù, sottoponendosi anch’esso a tale controllo e rinunciando alle immunità che i costituenti avevano introdotto”. Ma la conclusione non è una commissione di indagine parlamentare, neanche su politica e giustizia. La conclusione deve essere quella di una rigenerazione etica, politica e antropologica senza la quale le cose non possono che peggiorare. La politicizzazione dello scontro farà male all’indipendenza della magistratura che invece richiede sobrietà, pacatezza delle posizioni, per un ritorno a quell’idea di magistrato che fa politica non costruendo alleanze ma esprimendo idee alte. Le toghe contro la commissione d’inchiesta: “A rischio la nostra indipendenza” di Davide Varì Il Dubbio, 25 aprile 2021 Anm e Area contro l’iniziativa assunta a Montecitorio di una commissione parlamentare d’inchiesta sull’uso politico della giustizia. “In nome di una farlocca ricostruzione dei rapporti con la politica, alimentata da quanti da troppo tempo insidiano l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, si vuole una inchiesta parlamentare che dovrebbe sostanzialmente mettere sotto accusa i magistrati che si sono impegnati in difficili processi, processi che li hanno costretti a ingiuste e pesanti sovraesposizioni personali, che infine si sono conclusi con accertamenti irrevocabili nel rispetto delle regole e dei diritti”. A dirlo è il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, aprendo la riunione del comitato direttivo centrale del sindacato delle toghe. “C’è chi tra noi plaude a questa iniziativa, che mostra di non comprendere la palese strumentalizzazione del momento di oggettiva difficoltà in cui versa la magistratura da parte di chi pensa che possa realizzarsi l’obiettivo storico di ridimensionarne il ruolo e lo statuto costituzionale di garanzie”, avverte Santalucia ricordando che “una parte delle forze politiche presenti in Parlamento vuole istituire una commissione di inchiesta sulla magistratura, e opinion leader di peso indiscusso ne legittimano l’opera e le finalità”. Secondo il presidente del sindacato delle toghe, “si pretende di ridiscutere i fatti accertati da sentenze passate in giudicato nutrendo l’opinione pubblica del malizioso sospetto, ad arte enfatizzato, che la magistratura in tutti questi anni sia stata al servizio di una parte politica per avversarne, con metodi eversivi, un’altra”. “Io scorgo in queste posizioni associative una forma, consapevole o meno non importa, di pericoloso collateralismo con la politica”, conclude Santalucia. “L’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uso politico della giustizia confligge con l’autonomia e l’indipendenza della magistratura (voluti dal legislatore costituente a beneficio non dei magistrati ma della collettività), soprattutto se volta a riscrivere o, peggio, a piegare la verità storica di venti anni di attività giudiziaria alle mistificazioni di un instant book”, scrive in un documento il Coordinamento di Area democratica per la Giustizia, il gruppo delle toghe progressiste, secondo le quali “si tratta di un’operazione di pura strategia mediatica che vorrebbe accreditare, con affermazioni apodittiche e indimostrate, che nei processi riguardanti leader nazionali e partiti del centro destra, l’azione giudiziaria sia stata condizionata dal presidente delle Repubblica Giorgio Napolitano e, addirittura, orientata verso la persecuzione di parti politiche avverse, paralizzando, così, qualsiasi iniziativa ai danni dei partiti di sinistra”. I magistrati di Area, dunque, si dicono “fermamente convinti” che “una simile ricostruzione non abbia alcuna credibilità pubblica, né possa fondare la ragion d’essere di un organo istituzionale come una commissione d’inchiesta che voglia essere autorevole e consapevole della storia. Ovvie - aggiungono - sono le finalità di tale iniziativa: riscrivere l’esito di vicende giudiziarie suggellate da sentenze definitive, utilizzando qualsiasi argomento, ancorché lontano dalla verità storica e giudiziaria, per mettere in discussione l’indipendenza di pensiero di quei tanti magistrati se ne sono occupati, mai omologabili in quelle tesi precostituite che la manipolazione mediatica vorrebbero accreditare”. In tale quadro, proseguono le toghe progressiste, “è inaccettabile che tale iniziativa sia apertamente sostenuta da rappresentanti della lista 101 che siedono nel cdc dell’Anm, e che questo gruppo, aderendo apertamente, a simili mistificazioni, tradisca il ruolo nel quale ha sempre affermato di riconoscersi, ossia di contribuire alla tutela dell’autonomia ed indipendenza della magistratura. Tale contraddittoria scelta dimostra, semmai - conclude il documento di Area - un inaccettabile collateralismo con le forze politiche che sostengono un simile progetto di mistificazione della storia giudiziaria del Paese e che AreaDg respinge con determinazione”. Il Garante privacy boccia i Pass vaccinali: “gravi criticità” di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2021 La norma prevede un utilizzo eccessivo di dati. Avvertimento formale al Governo: “necessario un intervento urgente a tutela dei diritti e delle libertà delle persone”. La norma appena approvata per la creazione e la gestione delle “certificazioni verdi”, i cosiddetti pass vaccinali, presenta criticità tali da inficiare, se non opportunamente modificata, la validità e il funzionamento del sistema previsto per la riapertura degli spostamenti durante la pandemia. È quindi necessario un intervento urgente a tutela dei diritti e delle libertà delle persone. È questa l’indicazione del Garante per la protezione dei dati personali contenuta in un avvertimento formale, adottato ai sensi del Regolamento Ue, appena trasmesso a tutti i ministeri e agli altri soggetti coinvolti. Il provvedimento è stato inviato anche al Presidente del Consiglio dei ministri, per le valutazioni di competenza. Il Garante osserva innanzitutto che il cosiddetto “decreto riaperture” non garantisce una base normativa idonea per l’introduzione e l’utilizzo dei certificati verdi su scala nazionale, ed è gravemente incompleto in materia di protezione dei dati, privo di una valutazione dei possibili rischi su larga scala per i diritti e le libertà personali. In contrasto con quanto previsto dal Regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali, il decreto non definisce con precisione le finalità per il trattamento dei dati sulla salute degli italiani, lasciando spazio a molteplici e imprevedibili utilizzi futuri, in potenziale disallineamento anche con analoghe iniziative europee. Non viene specificato chi è il titolare del trattamento dei dati, in violazione del principio di trasparenza, rendendo così difficile se non impossibile l’esercizio dei diritti degli interessati: ad esempio, in caso di informazioni non corrette contenute nelle certificazioni verdi. La norma prevede inoltre un utilizzo eccessivo di dati sui certificati da esibire in caso di controllo, in violazione del principio di minimizzazione. Per garantire, ad esempio, la validità temporale della certificazione, sarebbe stato sufficiente prevedere un modulo che riportasse la sola data di scadenza del green pass, invece che utilizzare modelli differenti per chi si è precedentemente ammalato di Covid o ha effettuato la vaccinazione. Il sistema attualmente proposto, soprattutto nella fase transitoria, prosegue il Garante, rischia, tra l’altro, di contenere dati inesatti o non aggiornati con gravi effetti sulla libertà di spostamento individuale. Non sono infine previsti tempi di conservazione dei dati né misure adeguate per garantire la loro integrità e riservatezza. Il Garante rimarca, infine, con una punta polemica, che le gravi criticità rilevate si sarebbero potute risolvere preventivamente e in tempi rapidissimi se, come previsto dalla normativa europea e italiana, i soggetti coinvolti nella definizione del decreto legge avessero avviato la necessaria interlocuzione con l’Autorità, richiedendo il previsto parere, senza rinviare a successivi approfondimenti. L’Autorità ha comunque offerto al Governo la propria collaborazione per affrontare e superare le criticità rilevate. Il sangue infetto non è un farmaco, ma la trasfusione è somministrazione di medicinale guasto di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2021 La Cassazione chiarisce e distingue la nozione di medicinale in base alle norme comunitarie e ai fini penali. Ai fini della configurabilità del reato di omissione di atti d’ufficio, il direttore del centro trasfusionale di un’azienda sanitaria non è “oggettivamente” responsabile dell’avvenuta infusione di sangue infetto. I giudici devono dimostrare il nesso causale tra le sue omissioni e il trattamento medico “venefico” realizzato. Va compiutamente effettuato il giudizio di bilanciamento tra il dovere di vigilare - cui è tenuto il responsabile del reparto - e l’agire dei medici posti sotto la sua direzione e che in concreto trattano i pazienti. Così come - al fine della contemporanea contestazione del reato di somministrazione di medicinali imperfetti - va provata la conoscenza effettiva da parte del direttore che una delle sacche “a rischio” fosse rientrata perché restituita da altro ospedale. Infatti, tale reato, previsto dall’articolo 443 del Codice penale, richiede la coscienza del dolo eventuale. La Cassazione con la sentenza n. 15463/2021 ha così rinviato a nuovo giudizio di merito il ricorrente accusato e condannato per omissione o rifiuto di atti d’ufficio, per somministrazione di medicinali guasti e per la morte del paziente come conseguenza dei reati di cui è stato imputato. Nel caso concreto il ricorrente, in qualità di responsabile del centro trasfusionale, aveva preso parte alla riunione del Comitato per la lotta alle infezioni ospedaliere, che - a seguito di precedente decesso di un paziente emotrasfuso - aveva imposto il preventivo esame microbiologico delle sacche di sangue provenienti da un determinato lotto il cui utilizzo altrimenti era da considerarsi vietato. La Cassazione esclude che i giudici di merito abbiano compiutamente provato l’omissione di atti d’ufficio, prevista come reato dall’articolo 328 del Codice penale. Il rilievo sta nella mancata dimostrazione che le direttive del Comitato (il Cio) fossero dirette esclusivamente al responsabile e che questo fosse tenuto in proprio a vigilare che le preventive analisi sulle sacche non vietate, ma sospette, venissero realmente realizzate. Il reato comunque nel caso concreto si è prescritto. La Cassazione respinge invece il ragionamento della difesa che, in ordine al contestato reato di somministrazione di farmaci guasti, aveva fatto rilevare che la direttiva comunitaria sui medicinali a uso umano, recepita con Dlgs 219/2006, escludeva dal suo campo di applicazione il sangue. Infatti, conferma la Cassazione; che la legge definisce medicinali solo i prodotti derivati da un procedimento industriale. Ma la stessa Cassazione chiarisce che anche se il sangue non è assimilabile a un farmaco la sua somministrazione integra il comportamento sanzionato dalla legge penale. A seguito del rinvio il ricorrente sarà nuovamente giudicato affinché si accerti se abbia agito o meno con dolo eventuale in quanto non si tratta di fattispecie imputabile a titolo di colpa. Elementi costituenti le fattispecie di reato di appropriazione indebita e infedeltà patrimoniale di Fabrizio Ventimiglia e Giorgia Conconi Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2021 Con la sentenza in commento la Cassazione si pronuncia in merito agli elementi distintivi delle fattispecie di reato di infedeltà patrimoniale e appropriazione indebita, affermando come le stesse siano “legate nella comunanza dell’elemento costitutivo della deminutio patrimonii e dell’ingiusto profitto, differendo per l’assenza nella seconda di un preesistente ed autonomo conflitto di interessi, che invece connota la infedeltà patrimoniale”. Questa in sintesi la vicenda processuale. Il Tribunale di Roma, decidendo sulla richiesta di riesame relativa al provvedimento del GIP dello stesso Tribunale, confermava l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di due amministratori di una società a responsabilità limitata indagati per i reati di riciclaggio, appropriazione indebita e infedeltà patrimoniale. Entrambi i destinatari della misura cautelare proponevano ricorso per Cassazione, deducendo l’erronea applicazione della legge penale e l’illogicità della motivazione in riferimento, in primo luogo, al reato di autoriciclaggio, in quanto il Tribunale aveva ritenuto privo di rilievo il mancato raggiungimento della soglia penalmente rilevante delle somme accumulate mediante evasione fiscale e aveva, perciò, ritenuto sussistenti i reati tributari, quali reati presupposto. In secondo luogo, con riferimento ai delitti presupposto di appropriazione indebita e infedeltà patrimoniale, viene dai medesimi contestato il fatto che il Tribunale non avesse verificato la sussistenza del requisito dell’ingiusto profitto e, in particolare, dell’elemento costitutivo delle due fattispecie di reato, ovvero la deminutio patrimonii. La Cassazione ritiene i ricorsi fondati, sostenendo che il Tribunale del riesame avesse erroneamente ritenuto irrilevante il fatto che la somma accumulata per mezzo della condotta illecita fosse sotto soglia, in quanto il mancato raggiungimento di tale valore minimo comporta l’assoluzione dell’imputato e, pertanto, la constatata insussistenza del fatto penalmente rilevante non permette di ritenere integrato il reato presupposto di autoriciclaggio. In ordine agli altri reati presupposto contestati - di appropriazione indebita e infedeltà patrimoniale - la Corte conferma l’assenza di una valutazione da parte del Tribunale riguardante gli elementi costitutivi delle fattispecie. Ebbene, nell’annullare l’ordinanza impugnata, la Corte ravvisa l’insussistenza degli elementi costitutivi del reato presupposto di autoriciclaggio in ragione del fatto che la somma accumulata risulta sottosoglia rispetto al valore penalmente rilevante e che, ai fini dell’integrazione dei reati di appropriazione indebita e infedeltà patrimoniale, è imprescindibile l’accertamento relativo alla sussistenza degli elementi costitutivi alla base delle fattispecie, ovvero i requisiti comuni a entrambe della deminutio patrimonii e dell’ingiusto profitto e, limitatamente alla sola infedeltà patrimoniale, la presenza di un conflitto di interessi. Campania. Appello dei vescovi alla ministra Cartabia: risorse e progetti per carceri più umane di Viviana Lanza Il Riformista, 25 aprile 2021 “In questi mesi l’epidemia di coronavirus ha messo in luce, ancora di più, i problemi cronici che attanagliano la realtà degli istituti penitenziari. Il Covid ha certamente peggiorato le condizioni dei detenuti: diminuzione drastica delle visite e dei permessi, flessione delle relazioni con il mondo del volontariato, della cultura, della formazione, annullamento delle possibilità per l’inserimento lavorativo. Da ciò scaturisce la considerazione che, per affrontare la crisi indotta dalla pandemia, non si può prescindere dal fatto che il carcere è un insieme di persone, una comunità appunto, nella quale contano le condizioni di ogni singola persona, sia essa un operatore penitenziario che un detenuto o un volontario”. Comincia così la lettera che i vescovi della Campania hanno indirizzato alla ministra della Giustizia Marta Cartabia per richiamare l’attenzione della politica e del Governo sui drammi che i detenuti vivono dietro le sbarre e valutare possibili soluzioni. Una lettera “con una sua forza, e una sua “profezia”, spiegano. L’iniziativa sarà presentata stamane nel centro pastorale della Diocesi di Napoli, nel quartiere Sanità, da don Franco Esposito, responsabile del centro pastorale carceraria della Diocesi partenopea, da Padre Alex Zanotelli, missionario comboniano, e da Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti. “La Chiesa è dietro le sbarre”, ricordano i vescovi campani ribadendo l’impegno per il recupero e il reinserimento di detenuti ed ex detenuti. Non è un caso, infatti, che l’arcivescovo Mimmo Battaglia abbia inaugurato il proprio ministero pastorale a Napoli partendo proprio dalle carceri. L’iniziativa della lettera indirizzata al ministro Cartabia si inserisce nell’ambito della conferenza episcopale campana presieduta da monsignor Antonio Di Donna, vescovo di Acerra. Nella lettera alla guardasigilli i vescovi portano l’attenzione sull’importanza delle misure alternative come soluzione per contrastare il sovraffollamento nelle carceri che in questo periodo di pandemia rappresenta anche un pericolo per la salute di chi vive e lavora all’interno degli istituti di pena, ma anche come misura per riconsegnare alla pena quella funzione rieducativa che prevede la Costituzione e quella dimensione umana che la Chiesa invita a non dimenticare. Sono tanti in Campania, come nel resto d’Italia, i progetti sostenuti dalla Chiesa e dalle associazioni per accogliere e sostenere nei percorsi di accoglienza e reinserimento gli ex detenuti. “È importante trovare strutture alternative di accoglienza”, sostengono i vescovi campani. Di qui la proposta di mettere in campo progetti e risorse, sia umane che economiche, per rendere più strutturata e ampia la rete di accoglienza e di responsabilizzazione per chi sconta una condanna. “La risposta alla delinquenza non può essere solo il carcere”, è il pensiero dei vescovi campani e di chi, come i cappellani dei penitenziari e i garanti, si impegna ogni giorno per chi è più in difficoltà, per chi vive ai margini della società o all’interno di una cella. Secondo le statistiche, ogni giorno dalle carceri italiane escono circa mille persone e per circa ottocento di loro il destino sembra essere già segnato in mancanza di luoghi di accoglienza, in assenza di percorsi di rieducazione da seguire una volta usciti dal circuito penitenziario, oltre che di un lavoro e a volte anche di una casa. “Sappiamo già che 800 torneranno a farsi e a fare del male”, dicono. Le statistiche sulle recidive parlano chiaro: torna a delinquere meno chi segue il percorso delle misure alternative al carcere, chi viene assistito nel percorso di reinserimento sociale. Dunque, per i vescovi come per il garante, sono quanto mai necessari adeguati interventi e investimenti. È questo il senso dell’appello rivolto a Cartabia: i vescovi campani chiedono al Governo segnali concreti di attenzione verso il popolo delle carceri. “La Chiesa - concludono i prelati - è dietro le sbarre per attestare che la vera giustizia quando salva e rimette l’uomo in piedi, lo include e lo reintegra”. Sardegna. Campagna di vaccinazione in carcere. Associazione Sdr: “Percorso a rilento” sardiniapost.it, 25 aprile 2021 “La vaccinazione dei detenuti in Sardegna è iniziata nella Casa di reclusione all’aperto di Is Arenas dove hanno ricevuto la prima dose tutti i detenuti che hanno aderito alla campagna regionale. Un importante risultato ma una goccia nel mare dei reclusi, occorre accelerare anche perché in alcuni Istituti non è stata completata neppure la vaccinazione del personale dell’amministrazione per le perplessità avanzate verso il vaccino Astrazeneca”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo diritti riforme. “La vaccinazione nella Colonia penale del territorio di Arbus ha interessato una cinquantina di persone private della libertà, nelle prossime settimane - sottolinea Caligaris - è già stata programmata anche un’analoga iniziativa nella Casa di reclusione di Mamone (Onanì), dove si trovano un centinaio di ristretti. Insomma il percorso è troppo a rilento considerando che i grandi numeri sono soprattutto a Cagliari con circa 600 detenuti, Sassari (circa 400), Nuoro (poco meno di 300) e Oristano (circa 260)”. Per la portavoce di Sdr, “senza una tabella di marcia a tappe forzate risulta difficile pensare che in un baleno si possa garantire una maggiore sicurezza a tutti, a partire dagli operatori, soprattutto se sarà necessario fare il richiamo vaccinale. Sarebbe infatti opportuno - conclude - riservare alle carceri il vaccino monodose Johnson”. “La campagna di vaccinazione a Is Arenas per i detenuti e il personale e quella nella Casa di reclusione di Oristano Massama per il solo personale sono in pratica concluse - ha sottolineato il direttore Pierluigi Farci - il ritardo si è registrato con la sospensione dell’Astrazeneca. Anche la tipologia dei vaccini non è determinante giacché ciascun detenuto, anche in caso di trasferimento o liberazione, viene accompagnato con i dati forniti dalle aziende sanitarie. La Sardegna è riuscita a contenere l’ondata virale nelle carceri, grazie all’impegno di tutti, personale penitenziario e delle Asl, ma è evidente che completare la vaccinazione significa offrire a tutti un ambiente di vita e di lavoro più sereno”. Brescia. Covid, vaccinato l’80% dei detenuti Corriere della Sera, 25 aprile 2021 La Garante: “I fragili, per esempio, hanno ricevuto il Pfizer già nel mese di marzo”. Non se ne parla, non abbastanza, eppure nonostante gli episodi di tensioni, il carcere - anzi, entrambi gli istituti penitenziari - bresciano è un modello da seguire a livello nazionale. Almeno per quanto riguarda la profilassi contro il Covid. Perché quasi tutti i detenuti sono già stati vaccinati: “Circa l’80%”, conferma la garante per i loro diritti, Luisa Ravagnani. “Qualcuno non ha voluto e ha rifiutato la dose, ma parliamo di una percentuale minima, mentre gli altri che non l’hanno ancora ricevuta sono in fase di valutazione per una serie di patologie e problematiche cliniche da approfondire” in modo che si scelgano tempi e vaccini adeguati. “I fragili, per esempio, hanno ricevuto il Pfizer già nel mese di marzo”. E questo sia a Canton Mombello che a Verziano, dove “non si sono registrati né problemi organizzativi, né effetti collaterali gravi”. Stesso discorso per il personale: “Anche gli agenti, sostanzialmente quasi tutti, si sono già sottoposti al vaccino, eccezion fatta per coloro che non hanno voluto”. L’auspicio, dunque, “è che si possa andare incontro alla ripresa dell’attività e dei contatti esterni per i detenuti che, ad oggi, vedono giusto me e gli operatori del centro diurno”, come prevedono le direttive del Prap e del Dap (rispettivamente il provveditorato regionale e il dipartimento di amministrazione penitenziaria). “La situazione carceri in questo senso è diversa in tutta Italia e le differenze non aiutano, per esempio in relazione ai trasferimenti: un piano omogeneo significherebbe più sicurezza per tutti. Brescia insegna”. Giarre (Ct). Visita ispettiva del Pd al carcere: “Organico e cure sanitarie insufficienti” livesicilia.it, 25 aprile 2021 Prosegue l’attività ispettiva del Partito Democratico della Sicilia negli istituti penitenziari dell’Isola. Una iniziativa voluta per “monitorare” lo stato di salute dei detenuti e verificare eventuali carenze (sanitarie, personale di polizia penitenziaria e servizi di assistenza) e lo stato della copertura vaccinale anti covid per l’intera popolazione carceraria che comprende, oltre ai detenuti, anche il personale che quotidianamente frequenta gli istituti. Dopo l’accesso, nei mesi scorsi, nella casa circondariale Lo Russo-Pagliarelli di Palermo, oggi il segretario regionale del Pd Sicilia, Anthony Barbagallo ha “visitato” il penitenziario di Giarre, in provincia di Catania assieme a Maria Grazia Leone, responsabile del dipartimento Diritti del Pd Sicilia incontrando la responsabile dell’area ‘trattamento’, il comandante del personale della polizia penitenziaria, Sergio Bruno, il responsabile medico, Sebastiano Russo e gli stessi detenuti ospitati nella casa circondariale di via Ugo Foscolo. “I detenuti sono stati vaccinati quasi totalmente ed a maggio - afferma Barbagallo - ultimeranno il ciclo con la seconda dose, stessa cosa dicasi per il personale”. Mentre ci sono “evidenti problemi legati alla carenza di personale: 31 unità a disposizione rispetto alle 34 previste dalla pianta organica - afferma Maria Grazia Leone - e alle 57 stimate come dotazione minima indispensabile. Ciò comporta una sproporzione dei carichi di lavoro per gli agenti penitenziari oltre che a problemi legati a riposi che non potranno mai essere goduti. Inoltre la notte i turni sono coperti da 3 o due unità e in caso di emergenza questo può rappresentare un rischio sia per il personale sia per i 50 detenuti attualmente presenti”. “Presenteremo una interrogazione- annuncia Barbagallo - soprattutto per le criticità di tipo sanitario, in particolare per integrare le ore previste per il trattamento e la cura dei profili di psicologia e psichiatria. Le ore riconosciute in capo alle figure dello psichiatra (5 ore settimanali) e dello psicologo facenti capo all’ASP oltre che quelle dello psichiatra (5 ore settimanali) e dello psicologo facenti capo del SERT, sono chiaramente insufficienti. Inoltre sentito il responsabile dell’area sanitaria si sono appurati due casi di detenuti, rispettivamente di 30 e 50 anni, che necessitano di interventi chirurgici ortopedici delicati, non più rimandabili”. Il PP Sicilia ha già programmato una prossima visita ispettiva nel penitenziario di Agrigento. Varese. Un orto biologico nel carcere. Fermi: “Occasione di reinserimento lavorativo” malpensa24.it, 25 aprile 2021 “Ha trovato compimento la realizzazione di un significativo progetto di reinserimento lavorativo destinato ai detenuti della Casa circondariale di Varese, che potranno contare sulla presenza all’interno della struttura di un giardino botanico e di un orto biologico che consentirà di coltivare prodotti freschi e a chilometro zero”, lo ha sottolineato il presidente del consiglio regionale della Lombardia Alessandro Fermi in occasione dell’inaugurazione del nuovo orto biologico e sociale del carcere varesino avvenuta nei giorni scorsi. Il contributo di Regione Lombardia - L’orto è stato realizzato grazie a un contributo regionale di 15mila euro frutto di un emendamento all’Assestamento di Bilancio 2019 di Regione Lombardia presentato dal Consigliere Samuele Astuti (Pd), condiviso poi dallo stesso presidente Fermi che si è adoperato affinché l’erogazione del contributo potesse andare a buon fine in tempo utile. Reinserimento lavorativo dei detenuti - “Per i detenuti del carcere dei Miogni una occasione in più per sviluppare nuove competenze utili da spendere poi in ambito sociale ma anche un motivo di orgoglio nel potersi dedicare a una attività gratificante e capace di regalare soddisfazioni importanti - ha proseguito Fermi - Una attività che andrà a integrare e ottimizzare la collaborazione che già un paio di anni fa la Casa circondariale di Varese ha avviato con la testata “Cucinare al fresco”, dove vengono raccolte le ricette proposte dagli ospiti di numerose case circondariali lombarde. Ora le “ricette varesine” si arricchiranno sicuramente di nuove sperimentazioni culinarie basate sulle genuinità dei prodotti coltivati e utilizzati direttamente in casa propria”. Sinergia tra enti - “Un ringraziamento -ha sottolineato infine il presidente Fermi- , oltre che al Consigliere Samuele Astuti, va ovviamente alla Direttrice della Casa circondariale Carla Santandrea per aver creduto in questo progetto e a tutti i detenuti che vorranno dedicarvi parte del loro tempo e delle loro energie. Un grazie doveroso anche a Ersaf, all’Enaip e al Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria di Milano per aver contribuito alla sua realizzazione”. “Stefano. Una lezione di giustizia”, di Ilaria Cucchi e Andrea Franzoso recensione di Francesca Visentin Corriere del Veneto, 25 aprile 2021 Stefano Cucchi segue il carabiniere che l’ha arrestato, dietro c’è n’è un altro. D’un tratto il carabiniere davanti si volta di scatto, molla un ceffone in pieno volto a Stefano e lo spintona con violenza. Mentre Stefano, stordito, vacilla, l’altro carabiniere lo colpisce con un possente calcio. Stefano finisce violentemente a terra. Il tonfo della testa sul pavimento è così forte che un terzo carabiniere sobbalza. “Basta, finitela! Così lo ammazzate!” grida, spingendo via gli altri. Ma prima che possa allontanare anche l’ultimo, questa sferra un calcio in faccia a Stefano. Violenza, abusi, ingiustizia, depistaggi, hanno segnato il caso Stefano Cucchi e condannato a morte il giovane romano. Una storia ricostruita dallo scrittore veneziano Andrea Franzoso con Ilaria Cucchi, nel libro che esce il 4 maggio Stefano. Una lezione di giustizia (Fabbri Editori, copertina disegnata da Makkox). È il primo volume della nuova collana Fabbri L’educazione civica raccontata ai ragazzi per avvicinare i giovani ai grandi temi dell’educazione civica. Accanto alla storia, ricostruita nei dettagli, capitolo dopo capitolo ci sono pagine e schede che spiegano in modo chiaro concetti come diritti e libertà personale, potere coercitivo dello stato, polizia giudiziaria, arresto, procedimento penale e molto altro. Andrea Franzoso, oggi scrittore, nel 2015 denunciò gli illeciti del presidente di Ferrovie Nord Milano, il suo gesto coraggioso gli costò il posto di lavoro, ma portò all’approvazione nel 2017 della legge a tutela dei whistleblower, chi denuncia malaffare e illeciti. Franzoso si occupa adesso di educazione civica e fa lezione nelle scuole attraverso i suoi libri. Il 15 ottobre 2009 Stefano Cucchi era a cena dai genitori, quindi uscì con la cagnolina Micky e un amico. Una sera come tante, che finì nel modo peggiore. Stefano fu arrestato e a casa non tornò più. Andrea Franzoso e Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, ripercorrono passo dopo passo il dramma che portò alla morte del ragazzo: la notte dell’arresto, la prigione, gli ultimi drammatici momenti, i depistaggi, la durissima battaglia giudiziaria. Ogni tappa apre a un approfondimento: sui diritti, sul sistema carcerario, sul ruolo delle forze dell’ordine, sui tribunali. I fatti che hanno coinvolto Stefano diventano nel libro una storia che riguarda tutti, lezione di giustizia e di educazione civica, perché tutti potremmo essere Stefano. “Una storia vera che può capitare a ognuno di noi - evidenzia Andrea Franzoso - per questo è importante conoscere, capire il rapporto tra libertà e potere, riflettere sulla giustizia e sui diritti. È un libro rivolto agli adolescenti, ai ragazzi delle superiori, un esempio di quello che non dovrebbe succedere in uno stato di diritto”. Franzoso è stato anche ufficiale dei carabinieri. “Proprio da ex carabiniere questa vicenda è una macchia per tutta l’Arma, mi ha fatto molto soffrire - dice. Ma soprattutto i depistaggi e l’insabbiamento suscitano indignazione, sono stati la cosa peggiore: una parte dello stato ha pensato di essere al di sopra delle leggi”. “Il 14 novembre 2019 è stata pronunciata la sentenza di primo grado che ha condannato i carabinieri Di Bernardo e D’Alessandro a dodici anni di carcere per omicidio preterintenzionale. I carabinieri Tedesco e Mandolini a due anni e sei mesi, e tre anni e otto mesi, per la falsificazione del verbale d’arresto - ricorda Ilaria Cucchi. Il reato di calunnia, invece, è caduto in prescrizione: è passato troppo tempo e benché sia stato dimostrato il tentativo dei due carabinieri di indirizzare i sospetti verso tre innocenti, di questo non devono più rispondere e non possono essere condannati. Così come nessuno risponderà delle false testimonianze rese in aula: la legge, infatti, tollera che una persona possa mentire per cercare di evitare il carcere”. In questo caso giudiziario la verità è arrivata solo perché Ilaria Cucchi ha continuato ostinatamente a dare battaglia, contro ogni potere forte e nonostante i depistaggi. Ma se accadesse ancora? L’invenzione di una società totalmente diversa di Luciana Castellina Il Manifesto, 25 aprile 2021 Mi domando se la Resistenza sarebbe stata ricordata, e se gli ormai tantissimi nati molto dopo il 1945 ne avrebbero avuto qualche cognizione, se ogni anno, da più di 70, non fosse stata puntualmente commemorata dalle associazioni partigiane e dalle istituzioni antifasciste. Mi pongo questo interrogativo ovvio per non lasciare spazio alcuno a chi - ce ne sono parecchi - considera gli anniversari stanche e retoriche ripetizioni. Sono invece importantissimi perché si tratta di momenti preziosi della vita di ciascuno: quando ci si sente parte di una memoria collettiva. Occasioni sempre più rare, perché di collettivo nelle nostre vite più recenti ce ne è sempre di meno. Altro è il discorso sul come si usa la memoria, oggi che di partigiani ancora vivi ce ne sono pochissimi e perciò il succo che si trae dal loro vissuto è meno scontato e sempre più arbitrario. Sarebbe bello, per esempio, fare una volta un grande serio sondaggio, articolato per settori di opinione ma anche per generazione, per capire meglio cosa evoca in ciascuno questa data. Non solo per soddisfare una curiosità, ma perché ne potrebbe scaturire un interessante dibattito politico, fra posizioni anche molto diversificate pur emerse da un medesimo schieramento politico e sociale. Se si facesse un simile confronto spererei comunque non si finisse col fare l’elenco dei valori da riaffermare. Non è così, ma solo se ci si sforza di tradurli in pratica oggi e qui, che si fa un passo avanti. Da quando i protagonisti ufficiali della politica sembrano volersi identificare a partire dai valori, che sono certo importanti ma non tanto se poi non diventano programmi e impegni rispettati, l’identità di ciascuno si è annebbiata e si rischia che appaiano tutti uguali. A me piacerebbe che da questo 25 aprile partisse una riflessione, comune ma non per questo omogenea, su quello che considero l’aspetto più singolare e straordinario della Resistenza italiana: il coraggio dell’invenzione di una società totalmente diversa che nessuno sapeva ancora come dovesse essere, perché i giovani partigiani non avevano avuto modo di sperimentare una democrazia in nessuna sua forma. La futura società per cui rischiavano la vita era dunque per loro un progetto tutto da verificare ma per il quale si era pronti a dare l’assalto al cielo. Quel che tuttora più mi colpisce e mi entusiasma della Resistenza è la spregiudicatezza della sfida che, senza il salvagente di stati preesistenti e dei loro garanti, come era altrove in Europa, drappelli di ragazze e ragazzi provenienti da regioni diverse e che la guerra aveva casualmente aggregato su questa o quella montagna, hanno ingaggiato non per recuperare un passato conosciuto ma per conquistare un sistema del tutto sconosciuto che aveva però un pregio fantastico ed era perciò un obiettivo entusiasmante : si trattava di un mondo inesplorato ma sognato. Proprio di questo coraggio oggi avremmo bisogno. Perché siamo arrivati ad una crisi, di cui la pandemia ha costituito solo l’allarme, così profonda per tanti aspetti tutti però intrecciati, che l’ipotesi di riparare, per farlo ancora vivacchiare, il modello attuale, nonostante qualche sicurezza che ancora garantisce, non interessa più a nessuno. O perlomeno non i più giovani. Voglio dire che dobbiamo ritrovare quello stesso coraggio dei partigiani perché oggi è indispensabile per ripensare tutto, a cominciare dal nostro modello democratico. Da quando nessuno sa più dove vengono realmente prese le decisioni che contano - certamente non nel Parlamento nazionale ma neppure in quello europeo visto che in realtà a dettar legge sono gli accordi del tutto privati fra i grandi gruppi multinazionali finanziari e/o industriali e i loro algoritmi - questa democrazia risulta a tal punto svuotata da apparire quasi inservibile. Il rischio è che ci si arrenda difronte a questa evidenza, ma è anche quello di diventare puramente ripetitivi, illudendosi cha sia possibile rivivere il tempo passato, con un parlamento davvero rappresentativo della società che lo ha eletto, ad essa collegato da partiti capaci di fornire partecipazione consapevole. Oggi dobbiamo essere in grado di garantire la nostra irripetibile Costituzione ma al tempo stesso di armarci della fantasia e della buona volontà necessarie a costruire nuove e più dirette forme di espressione politica: autogestione collettiva di pezzi almeno della nostra società, per ridurre al minimo il ricorso ad affidamenti che non danno più fiducia: lo stato, il mercato, ma anche referendum imbelli che liquidano enormi questioni con un semplice sì o no. No, non sto rievocando il mito anarchico, ma certo invocando nuovi intrecci fra democrazia delegata e diretta; sto semplicemente invitando a impegnarsi a inventare nuove forme consolidate di democrazia organizzata da far crescere sul territorio, in cui sia possibile impegnarsi per gestire insieme i beni e i servizi nuovi che bisognerà approntare se si vuole davvero imboccare la transizione a un nuovo modo di produrre e consumare. Non per chiudersi nella propria comunità, ma come punto di forza per poter con autonomia “tener aperto lo sguardo sull’altrove”, come saggiamente consiglia papa Francesco a chi rischia di chiudersi nel proprio “locale”. È già su questo terreno che operano una quantità di gruppi cresciuti in questi ultimi anni e che sebbene ancora frammentati attestano l’esistenza di nuove risorse che tuttavia si esprimono in forme diverse da quelle che noi, nella nostra adolescenza, abbiamo incontrato crescendo. Solo ripartendo da queste nuove esperienze possiamo pensare a un mondo nuovo, e smetterla di piagnucolare su quello che non c’è più. So che ci sarebbe bisogno anche dei partiti di cui siamo nostalgici, perché sono necessari a capire meglio dove si vuole arrivare a lungo termine. E però non li ricostruiremo mettendo insieme i ricordi, o rintracciando parentele, ma a partire dalle sollecitazioni che ci verranno da una società arricchita da nuove pratiche democratiche. I tanti giovani che in questi ultimi anni hanno sentito il bisogno di iscriversi all’ANPI potrebbero essere un canale prezioso per intercettare questa nuova disponibilità a impegnarsi trasmettendo l’esempio della sfida lanciata nel 1943. Migranti. Naufragio, la Libia si difende. Il triste silenzio dell’Europa di Alfredo Marsala Il Manifesto, 25 aprile 2021 Tripoli: “Non è vero che li abbiamo lasciati morire. Pochi mezzi e tre allarmi insieme”. Il vescovo di Palermo, Lorefice, attacca “il grave rimpallo di responsabilità”. Dalle cancellerie il silenzio è tombale. Tace l’Europa dei palazzi, mentre le immagini della strage dei 130 in Libia rimbalzano da un continente all’altro. Sei anni sono trascorsi dalla foto shock che scosse il mondo: quella del piccolo Alan Kurdi, il bimbo siriano di tre anni appena, riverso col viso poggiato sulla sabbia della spiaggia di Bodrum, in Turchia. Uno strazio. Sembrava che quell’istantanea potesse stravolgere le agende dei governi. Macché. Di immagini di morti galleggianti nel Mediterraneo ce ne sono state tante, l’inerzia e i terribili silenzi dell’Ue sono rimasti tali. Ma a “ferire la coscienza umana e cristiana”, accusa il vescovo di Palermo Corrado Lorefice all’indomani della tragedia, “non è solo l’assoluta indifferenza in cui tutto questo è avvenuto”, ma “è anche e soprattutto il grave rimpallo di responsabilità tra la Libia, Malta, l’Italia e Ue”. Già. Perché la guardia costiera libica non ci sta a essere accusata di avere ignorato un Sos in mare lasciando annegare i naufraghi, come denunciato dall’Oim, secondo cui “gli Stati sono rimasti inerti e si sono rifiutati di agire”. Attraverso un portavoce, i libici assicurano di aver fatto tutto il possibile per salvare quelle vite. Ma con sole due motovedette funzionanti e tre allarmi scattati contemporaneamente mentre il mare era in burrasca - è la versione di Tripoli - non hanno potuto sventare la strage. Cui potrebbe aggiungersene un’altra: un gommone con una quarantina di persone risulta scomparso. Per l’Oim si tratta del più tragico naufragio avvenuto quest’anno nel Mediterraneo centrale, con la nave Ocean Viking dell’ong Sos Mediterranée che non è arrivata in tempo a salvarli. Anche il numero di emergenza Alarm Phone ha sostenuto che “tutte le autorità consapevolmente li hanno lasciati morire in mare”. “È assolutamente falso - ha replicato il portavoce della Marina libica, Massoud Abdelsamad - Siamo intervenuti nonostante le pessime condizioni meteo, ma c’erano forti venti e onde alte che rendevano quasi impossibile compiere salvataggi. “Al momento abbiamo disponibili solo due motovedette”, ha ricordato Massoud, ma “quel giorno avevamo tre casi: uno al confine con la Tunisia e due, compreso quello tragico, al largo di Khoms”. Pare che delle sei motovedette a disposizione della guardia costiera di Tripoli, una ha un guasto e altre tre sono in Italia per riparazioni. Non ci sta il vescovo di Palermo. “Il lungo temporeggiare sull’obbligo del soccorso e l’accavallarsi confuso delle giustificazioni sul perché non si sia fatto nulla per precipitarsi a salvare 130 persone in evidente pericolo continuano purtroppo a dimostrarci che non è più possibile che si ritardi nella ricerca di una soluzione politica a livello europeo umanamente sostenibile, che ponga fine una volta per tutte a questa straziante barbarie”. “Basti guardare in questi mesi al Congo e al North Kiwu per capirlo. Ebbene, di fronte a questa ingiustizia sistematica - incalza Corrado Lorefice - noi europei, invece di sentire l’obbligo di un risarcimento, chiudiamo le frontiere del nostro benessere grondante del sangue dei poveri, per impedire ad altri il diritto a un’esistenza che non sia svuotata di dignità. Tutto questo è scandaloso. Ci perdonino tutti coloro che hanno perso la vita in questi anni e ci infondano il coraggio di cambiare, insieme”. Duro anche il commento delle Acli. “Finché non si assume finalmente il concetto che il fenomeno migratorio è un dato di fatto e non un capriccio; finché l’Europa continua a inseguire la politica dell’esternalizzazione, rimanendo ostaggio economico e politico di Paesi che non rispettano i più elementari diritti umani; finché si ringraziano i libici per i salvataggi in mare anziché disconoscerli per la violenza ampiamente documentata; finché si preferisce criminalizzare le ong impegnate in missioni di salvataggio anziché apprezzarle perché sono le uniche a rispettare la legge del mare, i morti aumenteranno”. La comunità di Sant’Egidio ha promosso per domani in Italia e in tutta Europa numerose veglie di preghiera in memoria delle vittime. E chiede all’Ue “di riattivare con urgenza una rete di salvataggio in mare, rapida ed efficiente, così come lo impone il diritto internazionale per non dover rispondere in futuro, oltre che alla propria coscienza, anche a reati di omissione di soccorso”. Migranti. Il comandante della Ue Graziano: “I diritti umani dei migranti non si negoziano” di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 25 aprile 2021 Il generale: Libia collo di bottiglia per i migranti, ma il nodo è la guerra. Non c’è soluzione militare alle crisi e non c’è soluzione alle crisi senza capacità militare Si parte alla rovescia... “Posso farle io una domanda?”, chiede Claudio Graziano. Prego... “Noi vogliamo veramente dipendere da qualcuno?”. È una domanda retorica? “Certo”. Infatti, il generale, da novembre 2018 presidente del Comitato militare dell’Unione europea, va avanti senza attendere la risposta, scontata: “Eccole spiegato cosa sia l’autonomia strategica per l’Europa: il contrario di autonomia è dipendenza. Un punto colto appena qualche settimana fa dal premier Draghi. Come per la produzione dei vaccini, anche nella difesa occorre autonomia. Ovvero capacità di agire da soli se necessario, con i partner se è possibile. Nel quadro dell’ambizione che l’Europa si è data”. Un esempio? “Beh, l’operazione Irini nel Mediterraneo centrale: esclusivamente europea, lanciata l’anno scorso per l’embargo delle armi sulla Libia”. Ma la Nato è al tramonto? “No. Continua a essere il pilastro della difesa collettiva. Ma dopo il 2011 in Libia ha deciso di partecipare meno alle operazioni di sicurezza, di pace. Questo ha lasciato uno spazio. Ma non c’è contrapposizione, anzi: un’Europa più forte, rende la Nato più forte”. Cos’è la sovranità tecnologica oggi? “Stabilita un’ambizione, si cercano metodo e strumenti finanziari: fondamentali per non restare schiacciati dagli sviluppi tecnologici di Usa e Cina. Primato tecnologico significa anche egemonia geopolitica e militare”. Il Covid cosa ha cambiato? “Tutto, e in peggio. Già prima eravamo molto preoccupati per gli interventi della Turchia in Siria e Libia e per l’attività russa. Il Covid ha aggravato le minacce tradizionali con una nuova minaccia cyber: siamo sempre più dipendenti da spazi elettromagnetici per comunicare”. I vaccini sono un’arma geopolitica di Russia e Cina. “Non può essere una gara tra gli Stati, al massimo una corsa per salvare vite. Ma è vero che la produzione e la campagna vaccinale sono soft-power, dunque la resilienza delle organizzazioni internazionali diventa sicurezza”. Per valutare sicurezza e rischi comuni, la Commissione ha lanciato la Bussola strategica. Come funziona? “Si parte dall’analisi condivisa della minaccia, raccogliendo i contributi di tutti, senza però un ordine di priorità, che richiederà sviluppi successivi. È importante che i singoli Stati contribuiscano”. Ma i 27 non guardano tutti dalla stessa parte nemmeno nelle alleanze… Alla bussola serve un ago politico? “Serve impegno per mediare sulle percezioni. C’è una percezione di minaccia da Sud, dalla Libia, ma anche da Est e da Sudest, siamo appena tornati dalla Bulgaria, forte è la percezione di minaccia dal Mar Nero. Evidentemente la direzione politica è quella che manca, Prodi lo ha detto”. La Bussola potrebbe rendere l’Europa più unita? “E’ l’obiettivo a cui mi propongo di contribuire. Mai come adesso non c’è soluzione militare alle crisi ma non c’è una soluzione alle crisi senza anche la capacità militare, almeno a livello di deterrenza”. Cosa cambia per noi con l’America di Biden? “La nuova amministrazione ha dato segnali importanti di volontà di collaborazione e di multilateralismo. Le alleanze vanno rinvigorite quando Turchia e Russia agiscono fuori dalle regole delle relazioni internazionali”. Quanto ci preoccupa l’intelligence russa? “La Russia è una delle minacce ibride per la Ue, ci sono sanzioni per ciò che hanno fatto in Ucraina. È intervenuta in Siria con sistemi ibridi. Si è schierata in Libia. Per loro è fondamentale indebolire la coesione delle grandi alleanze. Anche dal punto di vista dell’intelligence”. Erdogan ha offeso von der Leyen ed è arrivato alla crisi diplomatica con Draghi… alleato nella Nato, nemico dell’Europa: cos’è davvero? “La Turchia ha fatto del pragmatismo un modus operandi. In altri contesti si pone fuori da regole e relazioni internazionali, ambito in cui speriamo di ricondurla. Certo la diplomazia è fatta di momenti simbolici. Sicché ho difficoltà a credere che la vicenda cui lei ha fatto riferimento sia da ricondurre solo a un errore protocollare e non rappresenti un messaggio”. Da Erdogan ai libici, applichiamo come Ue la strategia del buttafuori per tenere alla larga i migranti. Che intanto annegano in mare... “Parliamo di gestione dei flussi. Terrorismo, Stati falliti e immigrazione incontrollata sono un triangolo di instabilità. Il rispetto dei diritti umani è un valore non negoziabile per noi. La Libia è il collo di bottiglia di flussi che risalgono dall’Africa, per ora c’è solo Irini contro il traffico d’armi, anche se si può tenere tra i suoi compiti l’addestramento della guardia costiera sui nostri standard dei diritti. Il problema di fondo è la guerra, ristabilita la pace interverremo alla radice direttamente sul problema dei migranti”. Stiamo restituendo l’Afghanistan ai talebani? “La comunità internazionale non deve abbandonare il Paese. Il rischio di ritorno dei talebani esiste. Come quello che il vuoto sia riempito da Cina, Russia, Iran”. L’autonomia strategica europea è contro le democrature? “No, non lo è. Alcuni attori hanno preso a declinare la guerra ibrida anche contro le istituzioni europee, combinando operazioni nel dominio cibernetico ed in quello cognitivo. L’Unione deve essere in grado di difendersi: da sola, meglio ancora se nell’ambito delle storiche alleanze. Quello che non può succedere è che la sicurezza delle nostre libere istituzioni dipenda da altri”. Potrà esistere la Ue senza un esercito comune? “La difesa è una prerogativa nazionale, ma in meno di 70 anni siamo passati dal farci la guerra gli uni con gli altri a impiegare uomini sotto il comando di ufficiali stranieri con la bandiera europea. Non possiamo fallire nel percorso europeo, significherebbe tornare alle trincee della Prima guerra mondiale. L’esercito comune è un sogno: io non lo vedrò. Ma nemmeno Roma è stata costruita in un giorno”. Cannabis terapeutica. Walter De Benedetto non è solo di Marco Perduca e Antonella Soldo Il Manifesto, 25 aprile 2021 Martedì prossimo 27 aprile l’uomo affetto da artrite reumatoide comparirà davanti a un giudice rischiando fino a sei anni di carcere per aver coltivato la marijuana di cui aveva bisogno e che non riusciva a ottenere regolarmente. Era il 28 aprile del 2007 quando con il Decreto Turco si riconobbe in Italia l’efficacia terapeutica del Thc, il principio attivo più importante della cannabis, per il trattamento del dolore cronico. Esattamente quattordici anni dopo. Il suo caso è tra i più conosciuti ma non è l’unico: da quando la cannabis terapeutica è legale migliaia di pazienti si sono scontrati con l’impossibilità di vedere il loro diritto alla salute rispettato. Chi s’interessa di questi temi, come l’Associazione Luca Coscioni e Meglio Legale, ogni giorno ascolta storie simili a quella di Walter, storie alle quali le nostre istituzioni devono rispondere con urgenza e non per compassione ma per rispettare la legalità costituzionale. Walter De Benedetto affronterà l’udienza decisiva del processo che lo vede imputato ad Arezzo, per coltivazione di sostanza stupefacente in concorso, in condizioni di salute precaria. De Benedetto è assistito dagli avvocati Claudio Miglio e Lorenzo Simonetti che affermano senza mezzi termini che “non è un problema solo di Walter. Dal momento in cui la farmacia ospedaliera non procura al paziente la medicina per la quale ha una regolare prescrizione, lasciandolo di fatto senza terapia, il paziente è lasciato solo dallo Stato”. Uscendo dall’aula giudiziaria dove era arrivato in ambulanza, De Benedetto aveva dichiarato: “Mi assumo la mia responsabilità, questa è una battaglia in cui non ci sono solo io, credo nella giustizia e nella legge, mi sento a posto con la mia coscienza”. Poco prima De Benedetto si era rivolto al Presidente della Repubblica chiedendo che fosse rispettato il suo diritto alle cure previsto dall’articolo 32 della Costituzione. Quell’Appello ha raccolto oltre 20.000 firme che, per conto di Walter, abbiamo consegnato di persone al Quirinale lo scorso 16 aprile. In questa situazione tra il paradossale e l’illegale nei giorni scorsi tanti pazienti hanno deciso di raccontare la loro storia: Alfredo Ossino, ex maresciallo Capo della Guardia di Finanza in congedo a causa di un deficit-funzionale della colonna vertebrale, che denuncia i costi esorbitanti delle cure. Stefania Lavore, 40 anni, tecnico di laboratorio, affetta dalla malattia di Parkinson di origine genetica. Mara Ribera, che sottolinea come “il dolore non può essere parte integrante della vita delle persone”. O il trentenne Carlo Monaco, affetto da anoressia nervosa, o Paolo Malvani che soffre di dolore neuropatico causato da un incidente stradale, o Rosario D’Errico la cui decisione di procedere con la coltivazione domestica, data l’assenza di terapia, l’ha portato ad avere problemi con la giustizia e un processo con conseguente perdita del lavoro. Donato Farina, trentunenne di Padova, ha dovuto supplire con gli antidolorifici le lungaggini della prescrizione medica. E altri continuano a scriverci. Per cambiare la situazione ci sono alcune cose che si possono fare già oggi: autorizzare altri enti privati e pubblici a produrre cannabis terapeutica, visto che lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze che non è in grado di soddisfare il fabbisogno nazionale; informare e formare i medici, anche di famiglia, che già oggi possono prescrivere; mettere a carico del Servizio sanitario nazionale una terapia ancora troppo costosa, liberalizzarne l’importazione e cancellare il divieto di vendita per corrispondenza imposto alle farmacie. Lo chiede Walter a nome del diritto alla salute negato. Biden riconosce il genocidio degli armeni. Le conseguenze geopolitiche della svolta di Vittorio Da Rold Il Domani, 25 aprile 2021 Nell’anniversario del massacro del 1915 il presidente americano usa per la prima volta il termine “genocidio”, come aveva promesso La decisione crea nuove frizioni con la Turchia, che avranno ricadute sulle contese nel Mediterraneo e sui rapporti con la Russia. Genocidio degli armeni. Questa la frase storica pronunciata per la prima volta dal presidente americano, Joe Biden, nel discorso per il 106° anniversario del massacro armeno da parte dell’impero ottomano nel 1915. Biden aveva avvisato in precedenza telefonicamente il presidente turco Recep Tayyip Erdogan della sua intenzione di riconoscere il genocidio, passo che creerà nuova tensione con un alleato scomodo ma membro della Nato. Erdogan nei giorni scorsi aveva reagito affermando che “la Turchia continuerà a difendere la verità contro le menzogne sul cosiddetto “genocidio armeno” e contro coloro che stanno sostenendo questa calunnia sulla base di calcoli politici”. Il discorso di Biden sullo sterminio degli armeni è stato preparato a lungo. La decisione di Biden giunge dopo la lettera aperta di oltre cento membri del Congresso che lo invitava a dare seguito alla sua promessa elettorale. “Signor Presidente, come ha detto nella sua dichiarazione del 24 aprile dello scorso anno”, nell’anniversario dell’eccidio di massa, “il “silenzio è complicità”. Il vergognoso silenzio del governo degli Stati Uniti sul fatto storico del genocidio armeno è durato troppo a lungo e deve finire”, recitava l’appello dei membri del Congresso. Riconosciuto da una trentina di paesi nel mondo tra cui l’Italia e la Francia e dalla comunità internazionale degli storici come il primo genocidio del XX secolo, il massacro del 1915 è invece da sempre negato da Ankara. Le sue contestazioni riguardano sia il bilancio delle vittime - che per la maggior parte degli esperti si attesta tra 1,2 e 1,5 milioni - sia l’accusa di un’uccisione pianificata, riconducendo le morti al conflitto con la Russia zarista e alle sue conseguenze e sottolineando le perdite su entrambi i fronti. “Le dichiarazioni senza valore legale non porteranno benefici, al contrario danneggeranno le relazioni”, ha detto il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu, avvisando che “se gli Stati Uniti vogliono peggiorare le relazioni, è una loro decisione” Le tensioni dopo Trump - I rapporti tra Ankara e Washington si sono fatti sempre più tesi dopo l’addio di Trump. Tra i principali punti di frizione con l’alleato Nato resta il rapporto con la Russia, da cui la Turchia ha acquistato il sistema missilistico S-400, subendo le conseguenti sanzioni americane. Ma l’amministrazione Usa ha rimarcato la distanza anche sul tema dei diritti civili e della democrazia, criticando il ritiro dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere. E ora si prepara ad aprire un nuovo fronte. L’uso del termine “genocidio” da parte del nuovo presidente Usa segna un rafforzamento di un asse transatlantico nel quadrante libico per contrastare l’influenza turca e russa. La definizione di Mario Draghi su Erdogan “dittatore” si inquadra nel contesto dove Biden ha definito il presidente turco “un autocrate” e Vladimir Putin “un killer”. La nuova amministrazione americana non sembra intenzionata ad accettare nuovi superamenti di linee rosse da parte turca nel Mediterraneo come quando Erdogan alla parata militare a Baku nel dicembre scorso per la vittoria azera nel Nagorno-Karabakh citò Erven Pascia, uno dei componenti del triumvirato che insieme agli altri due, Mehmed Talat e Ahmed Cemal, è considerato anche responsabile del genocidio degli armeni. Secondo Sargis Ghazaryan, ex-ambasciatore d’Armenia in Italia: “(L’utilizzo del termine genocidio da parte del presidente Biden) può accresce la sicurezza e la stabilità dell’Armenia, in primis, e del Mediterraneo allargato in generale. Oltre ad essere un atto di giustizia e verità, è un chiaro segnale che l’Amministrazione Biden è contraria alla postura assertiva e destabilizzante di Erdogan in Caucaso, nel vicino oriente, in Magreb e domani, forse, nei Balcani. Ciò può spingere gli stati membri dell’Ue ad allinearsi, anche sulla scia del governo Draghi”. E poi prosegue: “L’ultimo atto di un genocidio è la sua negazione, che apre alla recidiva. Erdogan, che è negazionista, neo ottomano in politica interna e panturco in politica estera, ha attraversato una linea rossa promuovendo e partecipando all’offensiva azera contro il Nagorno-Karabakh armeno e l’Armenia. Immaginatevi, per assurdo, se 106 anni dopo la Shoah, paradossalmente, una Germania ancora negazionista avesse promosso una guerra contro Israele”.