Mauro Palma, in nome dei detenuti di Alessandra Vanzi Il Manifesto, 24 aprile 2021 Intervista. Il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà torna su alcune questioni irrisolte. Incontro il professor Mauro Palma, Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà, che di recente ha tenuto una conferenza all’Accademia dei Lincei. È un uomo sempre in movimento e mi racconta che tornando da Firenze si è trovato bloccato per 3 ore sull’autostrada dai ristoratori e albergatori in protesta contro le chiusure: “Mi è venuta in mente una persona di cui mi sono occupato che è stata condannata a 2 anni di carcere per aver megafonato agli automobilisti, invitandoli a non pagare al casello autostradale in Val di Susa, un’azione che è durata 20 minuti”. Gli chiedo di fare il punto sulla situazione carceraria in quest’anno di pandemia ripartendo, se possibile, dalle violente rivolte dell’anno scorso: “Purtroppo la nostra società ha archiviato quei 13 morti come se fossero un danno collaterale, senza riflettere sul fatto che l’esplosione della rivolta è stata provocata dalla comunicazione errata che si sarebbe chiuso tutto. In realtà il provvedimento sospendeva solo per 15 giorni i colloqui”. Ci sono state delle indagini? La magistratura in alcuni casi è andata avanti e ha chiesto l’archiviazione di otto casi e il Garante Nazionale si è opposto perché ha sollevato in almeno cinque casi dei rilievi di maggior indagine da portare avanti. Adesso qual è la situazione? Per fortuna la serenità è stata riportata con la diffusione, da parte dell’amministrazione stessa, di smartphone per parlare con i propri cari e anche vedere gli ambienti esterni, e questo è importante perché stabilisce il fatto che quel mondo è in fondo lo stesso che c’è fuori. Io spero bene che a nessuno venga in mente di togliere questo accesso una volta finita l’emergenza. L’altro elemento problematico è il fatto, che per diminuire i contagi, molte meno figure sono entrate in carcere e anche la stessa didattica a distanza ha funzionato molto poco. Un carcere svuotato dalla connessione con il tessuto sociale esterno ci riporterebbe indietro di tantissimi anni. Quali sono le maggiori criticità del sistema detentivo attuale? Non v’è dubbio che il sistema dell’esecuzione delle pene nel nostro paese presenti delle criticità endemiche e delle criticità specifiche, dovute al particolare momento che si sta vivendo. Parto da quelle strutturali endemiche e dal fatto che la Costituzione all’articolo 27 parla di pene al plurale e quindi nel Costituente c’era l’idea che il carcere fosse una delle pene possibili ma che ci fosse un insieme di sanzioni penali da prevedere. Noi, invece, in realtà, abbiamo un sistema che è centrato soltanto sulla pena detentiva, alla quale, semmai, sono state poi messe nell’ultima parte dell’esecuzione penale delle misure alternative, ma non ci sono delle pene alternative al carcere. Questa è una prima questione strutturale che lascia spazio ad una piegatura del sistema detentivo, dove vanno a finire tutte le complessità sociali: da quelle che nascono da episodi di effettiva gravità, che magari richiedono realmente un periodo di pena privativa della libertà, a quelle che invece dovrebbero trovare risposte di altro genere, fino a quelle che sono in realtà il prodotto dell’assenza di una politica sociale nel territorio che eviti di arrivare alla commissione del reato. Mi riferisco in particolare a un migliaio di persone attualmente detenute che scontano una pena, non un residuo di pena, inferiore ad un anno, molte delle quali sono senza fissa dimora. Allora ti domandi che tipo di pena può essere quella se non un’interruzione di vita destinata poi a riprodursi più volte? E così arriviamo alla seconda questione strutturale che è il fatto che la finalità rieducativa, che pure la Costituzione afferma, diventa solo un simbolo, un feticcio, perché non c’è nessun percorso riabilitativo per pene così brevi che possa essere messo in campo. Così si va perdendo una connotazione che la sanzione penale dovrebbe avere, che è quella che la risposta al reato non può essere solo inibente, ma deve essere anche progettuale, cioè un modo per poter riannodare e ritornare. La terza questione strutturale, che io definisco endemica, sta nel fatto che l’opinione pubblica e la rappresentazione pubblica del carcere è completamente sbilanciata sulle questioni della grande criminalità organizzata; questione vera, rilevante, ma che non riassume in sé la reale complessità della situazione carceraria. Se io penso ai numeri di 41 bis, alta sicurezza e criminalità organizzata, arrivo più o meno a un totale di 10.000 su un totale di 53.000 persone in carcere. Eppure l’occhio del dibattito pubblico, del consenso e dissenso rispetto alle proposte legislative è concentrato solo su quello. Come se non fosse più conveniente per la società ragionare sul domani e il dopo, e invece ci si concentra sull’oggi e il dentro. Queste caratteristiche per me sono anche più rilevanti rispetto a quelle, pur gravi, che riguardano la materialità delle condizioni, temi veri, ma in risposta ai quali ci possono essere delle soluzioni di ripianificazione, ma se non si affronta l’altro nodo avremo sempre un problema di sovraffollamento. In questa complessità si è inserita la pandemia... In luoghi già di per sé chiusi, tendenti ad avere condizioni che non permettono quelle misure di igiene e distanziamento che il contagio richiederebbe s’è aggiunta una nuova ansia, che abbiamo anche noi, quella di essere vittima di qualcosa che non vediamo e di cui possiamo essere noi stessi portatori. Quindi è bene che nel carcere sia vaccinato l’insieme degli attori presenti: chi ci lavora e chi vi è ospitato perché, come tutti i luoghi chiusi, è un potenziale luogo di espansione non controllata del virus; poi c’è una vulnerabilità specifica che dipende proprio dalla composizione delle persone detenute molto spesso provenienti dalla marginalità di strada, da percorsi di abuso di sostanze e di difficoltà di vita, anche giovani che arrivano già con delle fragilità a cui bisogna stare attenti. Non dimentichiamo che la tutela della salute è uno dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione, anzi è l’unico caso in cui viene usata la parola fondamentale. Quando poi parliamo del settore delle pene più lunghe e della grande criminalità, dobbiamo tenere presente l’età avanzata di queste persone. Quali sono i numeri attuali dei contagi? Oggi, 21 aprile, abbiamo 656 detenuti positivi distribuiti in 51 dei 190 istituti esistenti, di cui 32 sintomatici (21 in ospedale e 11 negli istituti). Nelle unità di personale ci sono 510 positivi ma tutti asintomatici. Come si è pronunciata la Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo? La Corte Costituzionale ha stabilito un principio estremamente importante come punto di arrivo di una discussione che più volte si è sviluppata nelle Corti Nazionali e in sede Internazionale. La Corte Costituzionale ha stabilito che considerare soltanto l’elemento della possibile collaborazione come elemento dirimente per la liberazione condizionale non è in linea con ciò che la Costituzione prevede. E stiamo parlando proprio di uno strumento: la liberazione condizionale, che nel caso dell’ergastolo il nostro codice prevede dopo 26 anni. È uno strumento che esiste in tutti gli ordinamenti. Non è un beneficio, ma è un meccanismo che permette di riconsiderare dopo un numero lunghissimo di anni, quando una persona poi non è più la stessa di quando ha commesso il reato, il percorso che ha fatto. Detto questo, la Corte però ha dato un anno di tempo al Parlamento per legiferare. Lo ha fatto perché dice che altrimenti si smantellerebbe adesso un impianto con un paese probabilmente non pronto a tale smantellamento. E qui arriva la mia perplessità. Perché questo diventa il prevalere della ragione politica sulla ragione giuridica. Vedremo come il Parlamento opererà in quest’anno, cui positivamente la Corte ha dato una scadenza. Ho dubbi che il dibattito parlamentare possa essere troppo condizionato da opinioni contrastanti sul piano mediatico di chi non si rende neanche conto di qual è la dimensione della misura. Lo scorso anno, tanto per dare una dimensione reale, le liberazioni condizionali in totale sono state 10, un anno prima erano state nove. Stiamo parlando di numeri veramente piccoli. Un anno per cancellare l’ergastolo è troppo, cari politici sbrigatevi di Sergio Schlitzer Il Riformista, 24 aprile 2021 L’attesa è finita. La Corte si è pronunciata. La vigente disciplina dell’ergastolo ostativo è contraria alla nostra costituzione e all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che vieta i trattamenti inumani e degradanti. Una decisione sicuramente importante, attesa quantomeno dal 2019, che porrà fine a una disciplina indegna e inaccettabile per qualsiasi Stato autenticamente democratico, e che darà finalmente speranza (solo) a chi in carcere ha trascorso alcuni decenni, molti in regime di 41 bis, nel corso dei quali ha effettivamente e autenticamente rivisto il proprio vissuto. Eppure questa sentenza racconta anche un’altra verità. Una verità difficile da reggere e accettare per un giurista sincero, per tutti coloro che amano appassionatamente il Diritto: la lotta in difesa dello Stato di diritto è persa! Anche l’ultima difesa, quella che speravamo insormontabile, è caduta. Sono bastate due righe contenute nella comunicazione della Corte Costituzionale per sancire la disfatta: l’ergastolo ostativo è sì un trattamento inumano e degradante, come tale costituzionalmente illegittimo, ma la sua incostituzionalità non può essere dichiarata, quantomeno sino a maggio 2022, per consentire al legislatore di intervenire normativamente tenendo conto sia della particolare natura dei reati connessi alla criminalità di stampo mafioso sia della “necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia”. Dunque, anche per la Consulta, la lotta al fenomeno mafioso, rispetto alla quale la collaborazione con la giustizia assurge addirittura a valore da preservare, legittima, anche se per un tempo limitato ma tutt’altro che breve, l’ulteriore protrarsi nel nostro Paese di una disciplina inumana e degradante che viola la dignità di tanti esseri umani presenti nelle nostre carceri. E poco conta che la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia categoricamente e ripetutamente escluso che esigenze di prevenzione generale, anche se connesse a fenomeni criminali di grave allarme sociale, possano legittimare deroghe all’articolo 3 della Convenzione. Né rileva il protrarsi dell’inerzia del nostro legislatore che, nel corso di questi ultimi due anni, si è ben guardato dall’adottare qualsivoglia atto teso a riformare la disciplina dell’ergastolo ostativo così come raccomandato dalla sentenza Viola. Nemmeno importa il grave ritardo con la quale la Consulta ha riconosciuto l’illegittimità costituzionale di una disciplina contro l’uomo e la sua dignità, in vigore da quasi venti anni. Su tutto questo prevale l’esigenza di preservare il “valore” della collaborazione quale strumento principe della lotta alla mafia, che evidentemente si teme possa essere indebolito anche dalla sola remota possibilità che dopo (almeno) una trentina di anni di carcere (solitamente al 41 bis) e la sussistenza di altre tassative condizioni, il condannato per mafia possa riacquistare la libertà. Certo, è giusto attendere le motivazioni della Corte per un giudizio più compiuto, ma in verità il principio di fondo è chiaro. Ed è l’epilogo della storia di questi ultimi anni, nel corso dei quali primari valori costituzionali e convenzionali hanno perso progressivamente senso e vigore, sotto i colpi di modifiche normative adottate all’insegna delle contingenze e dei fatti di cronaca del momento, debitamente strumentalizzati dalla politica a fini di consenso elettorale e dalla stessa magistratura inquirente impegnata a preservare i propri poteri. Il tutto condito e amplificato da un’informazione prona al potere che ha smarrito ogni funzione pedagogica. Basti pensare alla legge “spazza-corrotti”, alla nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche, alla sostanziale abolizione della prescrizione, alle riforme del processo penale, ai provvedimenti emergenziali per ragioni epidemiologiche, ai decreti sicurezza e così via. Un incessante logorio dei nostri valori giuridici e culturali di riferimento, di quei valori inerenti la tutela della dignità umana senza se e senza ma, la finalità rieducativa della pena, il giusto processo e la sua ragionevole durata, la riservatezza e segretezza delle comunicazioni, la libertà di circolazione, la proporzionalità e adeguatezza della sanzione: valori nei quali oggi si riconoscono le moderne democrazie occidentali e che nel nostro Paese nemmeno la Corte Costituzionale sembra più in grado di preservare con efficacia. La verità è inconfutabile. Le forze giustizialiste hanno definitivamente trionfato. Così, in questa notte buia e piena di terrori della cultura giuridica italiana, nella quale imperversano “bulli del diritto” (per citare Mattia Feltri), nella loro resistenza in difesa della libertà e dei ditti fondamentali, ai giuristi sinceri non resta che confidare nell’alleato straniero, forse l’ultima autentica Corte delle libertà e dei diritti dell’uomo. Internati. “L’ergastolo bianco è in contraddizione con la nostra Costituzione” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 aprile 2021 L’arcivescovo Bruno Forte: “Com’è possibile che a 70 anni dalla nostra straordinaria Carta costituzionale, noi continuiamo ad avere una così palese contraddizione con i principi della Costituzione in una struttura che di fatto viene supportata dallo Stato, la magistratura, dalla politica?”. Il riferimento è alle “case lavoro”, strutture dove vivono recluse persone raggiunte da una misura di sicurezza. Parliamo degli internati, coloro che hanno già finito di scontare la pena ma sono ritenuti ancora socialmente pericolosi. Una ulteriore pena che però può rinnovarsi nel tempo, con il rischio di ricreare quello che fino a qualche anno fa è stato definito “l’ergastolo bianco”. A chiederselo è l’arcivescovo Bruno Forte e lo ha fatto durante il podcast “Incontri” di venerdì 16 aprile. Parliamo di un nuovo format della Libreria della Corte costituzionale, uscito per la prima volta il 12 febbraio scorso. Ogni venerdì la Corte “incontra” i numerosi mondi della cultura e ne raccoglie gli spunti di riflessione, rispondendo con la voce dei singoli giudici e con la lente della Costituzione. Ed è durante l’incontro della scorsa settimana, che il teologo e arcivescovo Bruno Forte della diocesi abruzzese di Chieti e Vasto, ha posto il tema dell’ergastolo bianco correlato al discorso dei cosiddetti “internati”. A rispondere è stato il giudice costituzionale Giovanni Amoroso. L’arcivescovo, da tempo impegnato sul fronte di una delle case lavoro che si trova proprio nella sua diocesi, in particolare a Vasto, durante il podcast ha esordito parlando della nascita della nostra Carta costituzionale. Ha spiegato che rappresenta i valori del personalismo cristiano integrati con quelli del liberalismo e socialismo. “In maniera particolare - ha sottolineato il prelato - sono quelli della dignità della persona, a prescindere dalla sua storia, cultura, situazione economica, lingua e religione”. Ed ecco che secondo l’arcivescovo Bruno Forte “questi valori fondamentali della Costituzione italiana sono palesemente disattesi in una realtà come quella della casa lavoro”. L’arcivescovo ha spiegato che si sta parlando di una realtà istituita in epoca fascista e mai stata abrogata. “Si tratta - ha approfondito di quelle quattro case in cui, in Italia, persone che hanno già scontata la pena, ma che sono ritenute ancora socialmente pericolose, devono continuare a vivere in condizioni di detenzione fino a quando non abbiano trovato un lavoro o una abitazione che li accolga”. Realtà, com’è detto, che l’arcivescovo Bruno Forte conosce bene e dove ha constatato - e lo ha detto con convinzione - “la profonda contraddizione con i valori costituzionali”. Ribadiamo che gli internati si trattano di cittadini italiani, a volte anche stranieri, che hanno espiato la pena ma di fatto continuano ad essere detenuti perché ritenuti socialmente pericolosi. “Quello che io vedo - ha proseguito l’arcivescovo Forte durante il podcast della Corte -, è che queste persone sono realmente dei disperati, che di fatto sono aggiunti da un ergastolo bianco, perché non sanno se e quando usciranno”. E ha aggiunto: “D’altra parte, nelle condizioni in cui si trovano, per loro è molto difficile riuscire a trovare uno sbocco nella loro situazione, tanto che come diocesi ci siamo attivati affinché una casa di accoglienza che avevamo originariamente destinato agli adolescenti, attraverso la comunità Papà Giovanni di don Benzi è stata destinata ad alcuni loro e possono essere accolti per poter progressivamente reinserirsi nella vita sociale e possono uscire dalla condizione di detenzione”. Ma il gran numero che continua ad esserci, al di là dei pochi che è riuscito a farli ospitare nella casa di accoglienza, fa sollevare all’arcivescovo Bruno Forte questo annoso problema: “Com’è possibile - si è chiesto - che a 70 anni dalla nostra straordinaria Carta costituzionale, noi continuiamo ad avere una così palese contraddizione con i principi della costituzione in una struttura che di fatto viene supportata dallo Stato, la magistratura, dalla politica?”. A rispondere è il giudice costituzionale Giovanni Amoroso. Per prima cosa ha voluto sottolineare che l’internamento significa privazione della libertà in termini non diversi dalla detenzione. “Gli internati - ha precisato il giudice delle leggi - possono essere assoggettati anche allo stesso regime del carcere duro previsto dall’ordinamento penitenziario per i detenuti che abbiano commesso reati di particolare gravità, soprattutto di criminalità organizzata”. Eppure qualche differenza c’è ed è relativa alla dimensione del tempo. Lo ha spiegato bene sempre il giudice Amoroso. “I detenuti nelle carceri - ha sottolineato durante il podcast - hanno una pena da scontare che, quando non è l’ergastolo, è di durata ben determinata. Invece gli internati non hanno questa certezza, perché la privazione della libertà personale è legata alla pericolosità che può durare a lungo. Anzi, fino a non molto tempo fa - ha precisato il giudice Amoroso -, la durata dell’internamento poteva essere senza limiti, di qui l’espressione “ergastolo bianco”. Il giudice della Corte ha spiegato che con il tempo sono sopraggiunte diverse sentenze e anche interventi legislativi che stanno portando le misure di sicurezza sui binari della costituzione italiana, in maniera particolare il principio della finalità rieducativa della pena. “In proseguo di tempo - ha spiegato il giudice Amoroso - è stato giurisdizionalizzato il procedimento di applicazione della misura di sicurezza che non è più un procedimento amministrativo di polizia. C’è un giudice che applica la misura e che può essere chiamato a decidere ogni questione che si ponga durante l’internamento, quali innanzitutto la sua cessazione”. Ha aggiunto che il primo intervento legislativo si è avuto dopo 40 anni da quando è stato introdotto quello che è tecnicamente chiamato “il doppio binario”. “Una legge del 1986 abroga la pericolosità presunta - ha spiegato -, quindi a seguito di tale legge la pericolosità non è mai più presunta, ma deve essere accertata caso per caso dal giudice”. Ma c’è anche il discorso di quello che prima era effettivamente un ergastolo bianco, ovvero la durata indeterminata dell’internamento. Il giudice della Corte ha spiegato che c’è voluta una legge abbastanza recente che risale al 2014, la quale ha stabilito che la pena in misura di sicurezza “non può durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso”. In parallelo al versante del legislatore, il giudice Amoroso ha spiegato che anche la Consulta è stata chiamata a fare la sua parte intervenendo con varie pronunce, affermando il principio della residualità delle misure di sicurezza: ovvero il principio dell’extrema ratio analogo a quello del tema di custodia cautela in carcere. “Sul piano delle garanzie - ha sottolineato il giudice Amoroso - vuoi per l’intervento del legislatore, vuoi per le pronunce della Corte costituzionale, si sono fatti importanti passi in avanti anche se, probabilmente, ancora insufficienti”. Infatti, il giudice della Consulta, ricorda che la legge del 2017 di riforma in maniera penale, aveva delegato il governo proprio nel rivedere le misure di sicurezza. “Delega però non esercitata nel termine previsto”, ha affermato il giudice Amoroso al termine del podcast “Incontri”. Il riferimento è alla riforma dell’ordinamento penitenziario, purtroppo attuato a metà. La riforma dei processi per velocizzare la giustizia. E nuove regole sul Csm di Michele Di Branco Il Messaggero, 24 aprile 2021 Un piatto da 2,3 miliardi di euro per accorciare i tempi dei processi e rendere più digeribile la giustizia in Italia. Il governo punta a riformare profondamente la macchina penale, civile e tributaria intervenendo anche sull’ordinamento e sul Csm. “Gli ostacoli agli investimenti risiedono anche nella complessità e nella lentezza della Giustizia, che mina la competitività delle imprese e la propensione a investire”, si legge nel Pnrr. Serve un intervento energico, come ha chiesto l’Europa sulla base di numeri chiarissimi. Ad esempio: in Cassazione 1.266 giorni sono il tempo medio per chiudere un caso nel civile contro un tempo medio, in Europa, di 207 giorni. Quanto al primo grado di un processo, in Italia servono 527 giorni contro 122 in Europa: quasi un quinto. Si punta a fare presto, entro settembre di quest’anno è prevista l’approvazione delle riforme dei processi civili e penali e i relativi decreti attuativi dovranno avere l’ok entro settembre 2022. L’impatto sulla durata dei procedimenti - viene calcolato nel Recovery Plan - “potrebbe stimarsi alla fine del 2024”. Per la giustizia tributaria, invece, si prevede che la riforma possa essere approvata entro il 2022. Quanto agli interventi sul Csm (è in vista una riforma del sistema elettorale) e sull’ordinamento giudiziario, nel documento si ricorda che il termine dei lavori della Commissione di studio costituita in via Arenula dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia è fissato al 15 maggio prossimo. Ambiziosi gli obiettivi. “Le azioni pianificate nel Piano - scrivono i tecnici - si tradurranno in un incremento della produttività degli uffici giudiziari con l’obiettivo di abbattere la durata media dei processi civili di più del 40% e dei processi penali di circa il 10%”. Massiccio il piano di rafforzamento delle piante organiche. Gli investimenti serviranno ad assumere, con contratto triennale, circa 1.600 giovani laureati, 750 diplomati specializzati e 3 mila diplomati che andranno a costituire lo staff amministrativo e tecnico a supporto degli uffici giudiziari. Previsto anche il reclutamento, con contratti a tempo determinato, di 16.500 laureati in legge, economia e commercio e scienze politiche che formeranno lo staff dell’Ufficio del Processo. Prevista inoltre la costituzione di una task force di 1.500 esperti presso il ministero della Giustizia con il compito di gestire le nuove risorse. Come si interverrà nel concreto per riformare i processi? Un quadro più chiaro si avrà quando, entro fine mese, la ministra Cartabia tirerà le somme dei lavori delle Commissioni parlamentari. Appare comunque probabile che la giustizia civile non sarà ridisegnata da zero, ma con interventi mirati a cancellare ciò che provoca le maggiori disfunzioni. Via le udienze superflue, meno casi in cui a decidere è un collegio di giudici, filtri per le impugnazioni e ricorso a udienze da remoto, anche a fine emergenza. Si potenzieranno gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e si rafforzerà la tutela del creditore. Più incisivo il disegno sul sistema penale. Si ipotizzano maggiori interventi: deposito telematico di atti e notificazioni; nuovi termini di durata delle indagini preliminari; semplificazione dei giudizi; ampliamento della inappellabilità delle sentenze. Si interverrà anche a monte, introducendo la possibilità di estinguere alcuni reati con condotte riparatorie a tutela delle vittime e ampliando i casi in cui non si procede per particolare tenuità del fatto. La riforma penale apre a tutela delle vittime e riparazione del danno di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 24 aprile 2021 Percorsi volontari e consensuali sia prima che dopo il processo. La giustizia riparativa entrerà nella riforma del processo penale. L’obiettivo è accrescere la tutela delle vittime di reato attraverso percorsi che coinvolgano anche gli autori dei crimini e riescano a “ricucire” le lacerazioni dei legami sociali e a farsi carico delle conseguenze negative delle violazioni. Si tratta di un tema cui la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, tiene molto e che ha espressamente indicato durante il discorso programmatico alle commissioni Giustizia di Camera e Senato e ribadito il 19 aprile a Bergamo in occasione della cerimonia di intitolazione della casa circondariale al cappellano deceduto per Covid Don Fausto Resmini che aveva a lungo operato in questo campo. La giustizia riparativa farà quindi parte degli emendamenti al disegno di legge delega di riforma del processo penale cui sta lavorando la commissione nominata dalla ministra (all’interno della quale è stata creata una sottocommissione ad hoc) e che dovrebbero vedere la luce a fine aprile. Di che si tratta - Nata nell’ambito minorile, la giustizia riparativa è prevista dalla normativa comunitaria e in particolar modo dalla direttiva 2012/29 sulla tutela delle vittime, cui ora la ministra intende dare piena attuazione. La direttiva la definisce come un procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente e liberamente alla risoluzione delle conseguenze determinate dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale. Un percorso finalizzato ad alleviare la sofferenza delle vittime, a recuperare gli autori dei reati e a evitando le recidive, di cui la mediazione penale costituisce lo strumento più conosciuto, ma non l’unico. Nel sistema penale italiano non c’è una norma a carattere generale che la disciplini, ma la giustizia riparativa non è comunque una novità assoluta. È infatti applicata nella giustizia minorile e, per gli adulti, può essere usata nella “messa alla prova”: un istituto introdotto nel 2014 che consente agli indagati e agli imputati per i reati meno gravi (puniti con pena pecuniaria o reclusione fino a quattro anni) che ne fanno richiesta di evitare il processo e arrivare alla cancellazione del reato, se accettano di seguire un “programma di trattamento”. È in questo programma che, oltre alle attività obbligatorie come lavoro di pubblica utilità, risarcimento del danno ed eliminazione delle conseguenze dannose del reato, può entrare, se possibile, la mediazione con la vittima. Ma quest’ultima chance - rilevano gli operatori - è stata finora molto poco utilizzata. Disciplina a largo raggio - Ora l’intento del ministero è quello di rendere i programmi di giustizia riparativa accessibili in ogni stato e grado del procedimento penale, sin dalla fase di cognizione, come ha affermato Cartabia in Parlamento. I contenuti della riforma sono in via di definizione e prendono le mosse dagli studi e dalle pubblicazioni dei componenti della commissione. Sul tavolo ci sono l’accessibilità alla giustizia riparativa senza limiti legati alla gravità del reato, sia prima del processo che nella fase di esecuzione della pena, con percorsi volontari, consensuali e gratuiti. Si pensa anche a rinforzare l’utilizzo di questi strumenti nell’ambito della messa alla prova. Perché l’accessibilità ai programmi sia reale andranno definiti gli standard formativi dei mediatori e un sistema di accreditamento dei centri di giustizia riparativa esistenti e di quelli futuri. Tra le ipotesi di lavoro anche il fatto di non legare all’esito del programma, effetti giuridici negativi per chi vi partecipa. Da indicare anche la procedura: a decidere sull’ammissione ai percorsi sarà probabilmente l’autorità giudiziaria, come avviene per la messa alla prova. Le esperienze sul territorio - L’utilizzo nel campo minorile e nei programmi di messa alla prova ha aperto la strada alla nascita di centri di giustizia riparativa e ad alcune sperimentazioni. Come il progetto Contatto, che dal 2017 allo scorso dicembre ha coinvolto il territorio di Como e i dintorni per lavorare alla costruzione della prima “comunità riparativa” d’Italia. Promosso da Comune, diverse associazioni e due Università, e finanziato dalla Fondazione Cariplo, il progetto ha operato sia in ambito sociale, per la prevenzione e la gestione dei conflitti nei contesti a rischio, che giuridico, grazie alla collaborazione del Tribunale di Como. “Abbiamo elaborato percorsi individuali per il recupero dell’autore del reato e la riparazione del danno”, spiega Maria Luisa Lo Gatto, che al Tribunale di Como è il magistrato di collegamento con il territorio e con le istituzioni: “Sono stati soprattutto utilizzati gli istituti della messa alla prova e del lavoro di pubblica utilità, declinati dal giudice in chiave riparativa, ad esempio prevedendo attività a favore della vittima o della comunità colpita dal reato”. A Milano, il centro di giustizia riparativa fa capo al Comune e segue diversi progetti destinati sia ai minori che agli adulti come la mediazione fra detenuto e vittima o, nell’ambito della messa alla prova, il progetto writers che riguarda il reato di imbrattamento e ha coinvolto 120 writer. “La mediazione penale è molto utile soprattutto quando le persone sono destinate a reincontrarsi, come nei luoghi di lavoro, nei contesti familiari e di vicinato”, spiega Federica Brunelli, socio fondatore della cooperativa Dike che gestisce l’attività di mediazione per il centro di Milano. “Il processo accerta il reato ma non chiude il conflitto che rimane aperto e provoca nella vittima incertezza e sfiducia”. “Commissione d’inchiesta? Quella su noi toghe è destinata alla paralisi” di Errico Novi Il Dubbio, 24 aprile 2021 Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore di Milano, stronca la commissione parlamentare d’inchiesta che sta per essere istituita a Montecitorio, con l’accordo di tutti i partiti di maggioranza: “È legittimo che il primo potere, il Parlamento, indaghi su noi magistrati, che siamo il terzo, ma la legge istitutiva non indica i casi concreti su cui fare luce, richiesti dalla Costituzione”. Legittima? “Certo”. Utile? “Dipende: se ci si sofferma sugli obiettivi dichiarati nella proposta di legge per istituirla, quella sull’uso politico della giustizia sembra tutto fuorché una commissione d’inchiesta”. Edmondo Bruti Liberati è stato procuratore della Repubblica a Milano proprio negli anni delle grandi tensioni sulle inchieste che hanno riguardato la politica, e Berlusconi innanzitutto. Rappresenta insomma una “controparte naturale” dell’iniziativa appena assunta a Montecitorio sotto la spinta del centrodestra. Ma non nasconde le proprie perplessità. Vede vizi di legittimità, in questa commissione? La giustizia è senz’altro una “materia di interesse pubblico” su cui, come previsto dall’articolo 82 della Costituzione, il Parlamento può istituire una Commissione di inchiesta. Ciò è accaduto, con esiti diversi, in molte occasioni. Hanno riguardato grandi tematiche come la mafia o le stragi, o un oggetto più specifico come quella sul “rapimento e sulla morte di Aldo Moro”. Queste commissioni d’inchiesta hanno indagato su fenomeni e accadimenti oggetto anche di indagini e processi. E si sono rivelate utili per l’attività giudiziaria? In non pochi casi hanno fornito spunti e impulsi all’azione della magistratura e anche argomentate critiche su indagini e processi. E infine, cosa non marginale, hanno sollecitato al legislatore stesso opportune riforme. Nessuna preclusione quindi che il “primo potere”, il Parlamento, indaghi sul “terzo potere”, la magistratura. E quindi qual è il suo giudizio sulla commissione che partirà a breve? Si tratta di vedere qual è il compito di una Commissione che, come ancora detta l’articolo 82 Costituzione, per il fatto di procedere “alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria” deve avere oggetto ben definito. È stato detto che “il Parlamento può fare tutto, tranne che trasformare una donna in uomo e un uomo in una donna”. Ma una Commissione d’inchiesta è, appunto, una commissione di “inchiesta”. Non è un dibattito parlamentare, non è una analisi sociologica o politologica, non è un seminario di studi. È questo il rischio che vede? Quella proposta con atto Camera numero 2565, prima firmataria onorevole Gelmini, è tutto tranne che una “commissione d’inchiesta”: lo tradisce già il titolo che ne fissa l’oggetto “sull’uso politico della giustizia”. E se non bastasse, basta leggere i compiti attribuiti all’articolo 1: “Lo stato dei rapporti tra le forze politiche e la magistratura” (lettera a) nonché “lo stato dei rapporti fra la magistratura e i media” (lettera b). Temi oggetto in Italia, in Europa e nel mondo di una letteratura sterminata, e bene potrebbero essere oggetto di tesi di dottorato, ove brillanti ricercatori apportino nuovi approfondimenti su temi mai sufficientemente arati. Ma una commissione d’inchiesta è altra cosa. Teme insomma che la genericità degli obiettivi vanifichi l’iniziativa? L’articolo 1 della proposta, con l’apparenza di prefigurare indagini su “casi concreti” sembrerebbe voler rientrare nei limiti della commissione d’inchiesta. Ma i “casi concreti” la cui esistenza si dovrebbe accertare riguardano di tutto e di più. “Esercizio mirato dell’azione penale o di direzione od organizzazione dei dibattimenti o dei procedimenti penali in modo selettivo, discriminatorio e inusuale”. Quali procedimenti? Scelti a campione? In quali sedi? Sorteggiati? Dice che non si può lavorare su presupposti simili? “Mancato o ritardato esercizio dell’azione penale a fini extragiudiziari, in violazione del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale” (lettera g). Ancora più ampio il campo: esercizio ritardato in quali procedimenti? E soprattutto “mancato esercizio”: qui si indaga non su ciò che comunque è stato, ma su ciò che non è stato. Sollecitare tutti i cittadini insoddisfatti a riproporre le loro denunzie? Non è finita qui. Cos’altro ha notato? “Influenza esterna nella determinazione di quello che dovrebbe essere il giudice naturale, nella composizione degli organi giudiziari e nella definizione dei calendari, con particolare riguardo ai procedimenti penali nei quali siano coinvolti capi politici e esponenti politici di partiti” (lettera h). Anzitutto selezioni dei procedimenti: “Capi politici”, ma perché non anche i peones, e perché non anche gli amministratori locali? E all’esito di questa difficile selezione inizierebbe il compito immane di ridiscutere la competenza territoriale, magari già oggetto di decisione in primo grado, in appello e in cassazione e poi addirittura di riesaminare i calendari di udienza e quindi il presupposto, la complicata materia delle tabelle di composizione degli uffici giudiziari. Lei stronca senza appello... Non sono mancate nella storia repubblicana anche recente, commissioni d’inchiesta che non hanno approdato a nulla o che, pur istituite, non hanno di fatto operato. Se questa commissione volesse davvero investigare sui “casi concreti” come sopra in- definiti sarà destinata alla paralisi. Però è indiscutibile l’urgenza di guardarsi negli occhi e superare la crisi, che dura da trent’anni, nei rapporti fra politica e ordine giudiziario. O no? Nessuno vuole eludere problemi della giustizia e cadute nella magistratura. Ma vi sono proposte di legge pendenti in Parlamento, e la ministra Cartabia ha istituito una commissione di studio proprio sul tema dell’ordinamento giudiziario e della riforma del Csm. Questi sono temi “concreti” sui quali il Parlamento sarà chiamato a pronunziarsi, e sui quali si aprirà un dibattito e un confronto tra le diverse posizioni. E infine, non credo sia parlar d’altro, il ricordare che sulla nostra affannata macchina della giustizia si sono abbattuti gli ulteriori ritardi e problemi dovuti alla pandemia. Riorganizzare la ripresa che speriamo prossima, portare a regime le esperienze utili di semplificazione indotte dalla pandemia, abbandonare quelle meramente emergenziali. Proporre quali investimenti nel quadro del Recovery si debbano fare per la giustizia. Ecco terreni di impegno ineludibili e urgenti. Molte sono le proposte in campo tra le quali segnalo quella, molto “concreta”, elaborata da magistrati, avvocati, professori ed esperti di organizzazione, tradotta nel “Libro Bianco Giustizia 2030”, visitabile su www.giustizia2030.it, presentato in questi giorni. “Altro che commissioni d’inchiesta: bisogna togliere al Csm la funzione disciplinare” di Simona Musco Il Dubbio, 24 aprile 2021 Uso politico della giustizia, intervista all’avvocato Gaetano Pecorella, ex presidente della Commissione giustizia alla Camera. “L’uso politico della Giustizia è un fenomeno che ha attraversato il mondo da Cicerone ad oggi. Le Commissioni d’inchiesta possono servire, ma che il Parlamento si metta a indagare sui giudici rispetto a sentenze politiche mi pare una di quelle iniziative che sfociano in niente. Perché non ha il coraggio di sottrarre al Csm la funzione disciplinare, invece di inventarsi queste commissioni?”. A parlare è Gaetano Pecorella, avvocato - difensore, tra gli altri, dell’ex premier Silvio Berlusconi - ed ex presidente della Commissione Giustizia della Camera dal 2001 al 2006. Convinto che indagare sull’uso politico della Giustizia, così come proposto da Mariastella Gelmini, prima firmataria del progetto di legge per l’istituzione di una Commissione d’inchiesta, non porti a nulla. Piuttosto, spiega al Dubbio, sarebbe necessario intervenire sul Csm, con la creazione di una Corte Suprema in grado di giudicare in maniera davvero imparziale l’operato dei magistrati. “Palamara ha scoperto l’acqua calda - sottolinea -. Ma fare i processi sui processi non è mai una buona cosa. È compito degli storici e dei giornalisti indagare su come sono andate le cose”. Professore, cosa ne pensa della proposta di una Commissione d’inchiesta sull’uso politico della magistratura? Credo sia una di quelle iniziative destinate a sfociare nel nulla. Può essere utile, ma alla fine il risultato sarebbe una bella relazione che nessuno leggerebbe e diventerebbe occasione di scontro politico. Come andrebbe, si chiamerebbero a testimoniare i magistrati che hanno emesso sentenze politiche? Il Parlamento ha cose più serie di cui occuparsi in questo momento e non vicende come quella di Grillo o processi del passato. Un conto è Mani Pulite, che ha tagliato alle radici un intero sistema politico, un altro un singolo processo. La proposta a prima firma Gelmini parte dal caso Palamara e dalle rivelazioni emerse con riferimento alle vicende che, nel 2013, hanno portato alla condanna di Silvio Berlusconi e alla sua decadenza da senatore per frode fiscale... Secondo me fare i processi sui processi non è mai una buona cosa. Il processo c’è stato, andrebbe lasciato allo storico, al giornalismo, il compito di fare queste cose. Io ero difensore di Berlusconi, potrei essere ben contento che si dimostrasse che è stata studiata a tavolino la condanna a tutti i costi, però francamente, fare un processo politico sul processo politico mi sembra una classica invenzione italica. Se si vuole fare un’inchiesta la si faccia sul cattivo o buon funzionamento della Giustizia. Anche questa mi sembra una di quelle iniziative che fanno rumore al momento e poi scompaiono. Poi chi bisognerebbe sentire, oltre Palamara? Tutti quelli che hanno messo sotto processo Berlusconi? Mi pare un’iniziativa inutile, soprattutto in questo momento, in cui ci vorrebbe una grande unità delle forze politiche per tirarci fuori da questa situazione drammatica. Andare a creare momenti di frizione politica non mi pare proprio una buona idea, in generale. Ma dato quanto emerso con il caso Palamara non sarebbe il caso di fare un approfondimento? Palamara ha scoperto l’acqua calda. Le cose che scrive in alcuni casi sono elementi specifici, ma il sistema noi avvocati lo abbiamo denunciato da tempo. Gli intrighi tra magistratura e politica sono cose note. Quando mai si può pensare che le correnti non siano collegate ai partiti se addirittura hanno una collocazione politica? Ora, in un libro, ci sono cose che abbiamo conosciuto o immaginato o in qualche modo già saputo. Per un avvocato, che la scelta della dirigenza di uffici importanti è in mano alla politica è una cosa pacifica. La magistratura non vuole essere separata tra inquirenti e giudicanti mica per un fatto tecnico, ma perché vuole essere un corpo politico, una forza che va dalla Cassazione fino all’ultimo giudice singolo. Scoprire oggi, grazie a Palamara, l’uso politico della Giustizia mi pare una sciocchezza. Ogni processo che tocca l’area politica diventa un processo politico o viene creato apposta per colpire quell’area politica. I politici se ne sono accorti oggi e vorrebbero interrogare chi, i magistrati? Si può pensare che vengano ad ammettere responsabilità simili? Palamara lo ha fatto perché è stato buttato fuori. È la sua vendetta, ma certamente tutti quelli che sono in magistratura non diranno mai nulla, tranne casi sporadici. Ma se uno che ha fatto Mani Pulite diventa senatore del Pd, se un magistrato diventa presidente del Senato o presidente di una casa editrice, questo non ci dice niente? Per fare luce su questo uso politico della Giustizia quale dovrebbe essere il metodo? Ha funzionato bene il metodo Palamara, ovvero il lavoro di un bravo giornalista d’inchiesta. Ma non credo che i politici che sono stati l’oggetto di questa politicizzazione della magistratura possano indagare. Mi pare che siamo un po’ al grottesco. Probabilmente ci sono altri sistemi. Se si vuole fare un po’ di polverone questa commissione d’inchiesta si può anche fare, ma che la politica messa sotto processo dai giudici metta sotto processo i giudici mi sembra una cosa da commedia all’italiana. Pd e M5S hanno contestato il fatto che esiste già il Csm per “indagare” sul comportamento della magistratura. Hanno ragione? È un’obiezione senza alcun fondamento. E lo sappiamo prima di tutto dal fatto che anche i componenti del Csm sono stati coinvolti nella vicenda Palamara, in secondo luogo perché sappiamo che la grandissima parte degli esposti contro i magistrati vengono tendenzialmente archiviati. Ma soprattutto sappiamo che la giustizia domestica è fatta in modo da proteggere e non da punire. C’era una mia proposta di legge costituzionale, che era anche l’idea di Violante, di fare la Corte Suprema di Giustizia, composta per un terzo da magistrati, un terzo da professori universitari, un terzo da avvocati, con una funzione disciplinare distinta dal Csm. Il Csm non può essere un organo disciplinare: finché ci sarà la commistione tra chi deve punire e chi fa le nomine non potrà giudicare, perché una cosa condizionerà l’altra. E poi chi mai emetterebbe una sentenza che domani potrebbe essere applicata a sé stesso? Ci sarà sempre una mano molto leggera. Durante questo dibattito, era stata proposta anche una commissione “mista”. Potrebbe essere una soluzione? Tutte le commissioni d’inchiesta hanno al loro interno consulenti esterni. Si può fare, ma alla fine chi decide che cosa mettere nelle relazioni è sempre il Parlamento. Non può essere la componente esterna. Il Parlamento lo sa benissimo che il Csm funziona a modo suo e che deve fare un organo con una maggioranza esterna alla magistratura e basterebbe questo. Quello sì che potrebbe fare le inchieste. Un organo costituzionale, con tutte le garanzie. Ma non un organo nominato dal Parlamento. Quindi ciò che serve è la riforma del Csm... La riforma da fare è togliere al Csm la sezione disciplinare, da affidare ad un altro organo. Modificare le forme elettorali, perché finché le correnti domineranno il Csm lo stesso sarà un organo politico. Sono contrario all’estrazione a sorte, perché non si estrae a sorte l’intelligenza o la preparazione, ma oggi il Csm non è espressione della magistratura, ma delle sue correnti politiche e quindi è un organo politico. E come tutti gli organi politici non è imparziale, ma segue le esigenze politiche. Perché il Parlamento non ha il coraggio di sottrarre al Csm la funzione disciplinare, invece di inventarsi queste commissioni? Faccia una riforma costituzionale, istituendo una Corte Suprema, con il compito di giudicare magistrati e avvocati. “Un processo per stupro”, dopo 43 anni non ha ancora insegnato nulla di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 24 aprile 2021 Oltre 40 anni dopo lo storico documentario della Rai, sono sempre messe sotto accusa le donne che hanno subito violenza. Come ora nelle parole di Grillo in difesa del figlio. “Mi fijo nun ha fatto niente de male. Nun l’ha ammazzata, ‘sta ragazza. Mi fijo è annato a divertisse. Certo che je piaceva pure a llei d’anna’ a divertisse...”. Quarantatré anni dopo le parole della madre di uno degli stupratori di gruppo d’una ragazza di Latina, raccontato allora in un famoso documentario Rai, riassumono decenni di processi simili. Dove alla sbarra, come è successo anche col “caso Grillo”, rischiano di finire le vittime... Era invelenita, quella madre, quel giorno, davanti alla cinepresa di “Un processo per stupro”. Decisa a difendere con unghie e denti il suo pupone quarantenne accusato con tre amici d’aver attirato con l’offerta di un lavoro una diciottenne disoccupata in una villa di Nettuno dove la ragazza era stata più volte violentata. Macché violenza! Era lei, la novella Circe, ad aver adescato lui perché “se voleva divertì, se no non ci andava con mi fijo, che aveva moglie e un figlio e lei lo sapeva...”. Voce di Loredana Rotondo, una delle sei registe del documentario: “Ma se aveva una moglie e un figlio perché ci andava?”. “Perché tutti lo fanno! Che, è il primo che lo fa? Suo marito, si ce l’ha, nun ce va?”. Togliete ora gli accenti laziali, la villa sul litorale, il bianco/nero dei filmati di allora: son poi così abissalmente diverse le surreali scusanti accampate da quella madre popolana dell’Agro Pontino da quelle sbraitate l’altro giorno nel web da Beppe Grillo in difesa del figlio e dei suoi tre amici accusati di uno stupro di gruppo nella villa in Costa Smeralda? “... non è vero niente, che c’è stato uno stupro, non c’è stato niente... una persona che viene stuprata la mattina il pomeriggio va in kytesurf e dopo otto giorni fa la denuncia... c’è un video in cui si vede che c’è un gruppo che ride, ragazzi di 19 anni che si divertono e ridono in mutande e saltellano con il pisello, così... perché sono quattro coglioni...”. Insomma, quasi una ragazzata... Colpevoli? Innocenti? Decideranno i giudici. Ma l’ennesimo ricorso alla difesa degli accusati basata sulla sistematica demolizione della vittima, senza un’incertezza, un dubbio, un accenno alle troppe donne annientate da stupri simili, dimostra una volta di più quanto la storia, spesso, non riesca affatto a essere “magistra vitae”. Tanto più se non viene solo dimenticata. Ma rimossa. Abolita. Cancellata. Come è accaduto appunto al documentario “Un processo per stupro”, girato nel ‘78, trasmesso dalla Rai in una tarda serata dell’aprile ‘79 e accolto da un successo così impattante (tre milioni di telespettatori) da guadagnarsi a furor di popolo una nuova messa in onda in prima serata con una audience addirittura triplicata. Quanto sarebbe bastato a qualunque programma per venire riproposto chissà quante volte in tivù se non fosse stato azzoppato da una sentenza. La quale accolse la pretesa di qualche avvocato che, finalmente a disagio per i toni, le battute da bordello, le insinuazioni usate mettendo alla sbarra la ragazza anziché i suoi stupratori, condannati in primo grado (per delitto contro la moralità pubblica, non contro la persona!) a pene risibili con la condizionale e a un risarcimento miserrimo (mezzo milione di lire a testa: 1.789 euro attuali), chiese il diritto all’oblio. Niente più nomi, niente più facce, niente più indignazione... Risultato: da quel momento quel documento adottato come una preziosa testimonianza perfino dal MoMA di New York e girato dalle registe Maria Grazia Belmonti, Anna Carini, Rony Daopulo, Paola De Martiis, Annabella Miscuglio e la già citata Rotondo, è sparito da tutti i palinsesti vita natural durante. Come fosse una versione più spinta di Ultimo tango. O uno “snuff movie” dove le vittime sono uccise davvero. Peccato. Perché quelle parole usate da quei legali, oggi visibili solo in spezzoni su YouTube, hanno ancora, nella loro strafottenza machista, molto da dire. Esempi: “Avete cominciato a scimmiottare l’uomo. Voi portavate la veste, perché avete i pantaloni? Avete cominciato col dire “abbiamo parità di diritto, perché io alle nove di sera debbo stare a casa, mentre mio marito il mio fidanzato mio cugino mio fratello mio nonno mio bisnonno vanno in giro?” (...) Voi avete voluto uscire! Se questa ragazza si fosse stata a casa, presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente”. “La violenza c’è sempre stata (...). Non la subiamo noi uomini? Non la subiamo noi anche da parte delle nostre mogli? Oggi per andare fuori ho dovuto portare con me l’avvocato (...) e l’avvocato (...), testimoni che andavo a pranzo con loro, sennò non uscivo di casa. Non è una violenza questa?”. “Le donne! Le abbiamo sempre considerate, cediamo loro il posto sul tram, non facciamo confidenze se qualcuna ci concede i suoi favori... Di più: non disprezziamo la prostituzione che in tempi lontani, o anche vicini, ci può aver visto partecipi di momenti di piacere...”. “Signori miei, una violenza carnale con fellatio può esser interrotta con un morsetto. L’atto è incompatibile con l’ipotesi di violenza. Tutti e quattro avrebbero incautamente abbandonato nella bocca della loro vittima il membro... Lì il possesso è stato esercitato dalla ragazza sui maschi, dalla femmina sui maschi. È lei che prende, (...) sono loro passivi, inermi, abbandonati, nelle fauci avide di costei!”. Una schifezza. Dirà l’avvocato Tina Lagostena Bassi, formidabile nemica di quei metodi: “Le parole pronunciate dagli avvocati si commentano da sole. E spingono le vittime a non denunciare i propri carnefici per non subire esse stesse un processo e passare da accusatrici a accusate”. C’è bisogno di rivederlo, quel documento storico. Non è possibile sulla tivù pubblica? Si scelga una sede di prestigio. Di cultura alta. Un museo. Una galleria. Ma va tirato fuori, per aiutare tutti a capire, dai sotterranei dov’è stato sepolto. Condanne penali, nuova patente anche senza riabilitazione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 aprile 2021 Giudicando il caso di un soggetto condannato per associazione finalizzata al traffico illecito di stupefacenti, il Consiglio di Stato, sentenza n. 3084/2021, ha chiarito che la riabilitazione può semmai avere effetti ai fini della domanda prima del decorso dei tre anni. Non è necessario un provvedimento di riabilitazione per conseguire nuovamente la patente dopo una condanna per associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. È infatti sufficiente il decorso del tempo. Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, sez. III, con la sentenza del 14 aprile 2021, n. 3084 (Pres. Frattini, Est. Cogliani) che ha respinto il ricorso della Prefettura di Bari contro la decisione del Tar di Bari (del 25 novembre 2019) di annullamento dell’atto con il quale era stato negato il rilascio del nulla osta per l’ottenimento del nuovo documento di guida. Per i giudici di Palazzo Spada dunque deve considerarsi illegittimo il diniego di nulla osta al rilascio della nuova patente di guida in ragione della sussistenza, a carico del richiedente, di sentenze per i reati di cui all’articolo 74, Dpr n. 309 del 9 ottobre 1990, senza che siano intervenuti provvedimenti riabilitativi, atteso che il mero decorso del tempo comporta la rilasciabilità del titolo. Entrando nel dettaglio, la Sezione, richiamando precedenti del giudice di appello (sezione IV, 3 agosto 2015, n. 3791), ha infatti chiarito che la revoca della patente, nei casi previsti dall’articolo 120 del Codice della strada (Requisiti morali per ottenere il rilascio della patente di guida), non ha natura sanzionatoria né costituisce conseguenza accessoria della violazione di una disposizione in tema di circolazione stradale, ma rappresenta la constatazione dell’insussistenza (sopravvenuta) dei “requisiti morali” prescritti per il conseguimento di quel titolo di abilitazione. Dunque, prosegue il ragionamento, per la possibilità di rilasciare una nuova patente di guida depongono una serie di elementi, quali: il comma 1 dell’articolo 120 del Cds àncora il divieto di conseguire la patente per la durata dei divieti, ma prevede la possibilità di conseguire “di nuovo” il titolo, salvo per “le persone a cui sia applicata per la seconda volta, con sentenza di condanna per il reato di cui al terzo periodo del comma 2 dell’articolo 222”. Il comma 2 prevede che “La revoca non può essere disposta se sono trascorsi più di tre anni dalla data di applicazione delle misure di prevenzione, o di quella del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per i reati indicati al primo periodo del medesimo comma 1”. Il comma 3 dispone che “La persona destinataria del provvedimento di revoca di cui al comma 2 non può conseguire una nuova patente di guida prima che siano trascorsi almeno tre anni”. Dal dato normativo, conclude il Cds, “si ricava che il rinnovo della patente è possibile e previsto dalla disciplina, che la valutazione negativa del requisito morale è ‘a termine’ per così dire, poiché dopo tre anni, l’Amministrazione non potrebbe procedere alla revoca, nel caso in cui non sia disposta prima, che l’ostatività al nuovo titolo discende da una nuova condanna”. “Ne discende che l’eventuale riabilitazione può avere semmai effetti ai fini della domanda di rilascio prima del decorso dei tre anni, ma non costituisce - in base alla lettera della norma - condizione ulteriore per il rilascio una volta decorso l’arco temporale previsto”. Campania. Covid e carceri, i vescovi scrivono al ministro della Giustizia di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 24 aprile 2021 L’appello. “Onorevole ministra, in questi mesi l’epidemia di Coronavirus ha messo in luce, ancora di più, i problemi cronici che attanagliano la realtà degli istituti penitenziari. Il Covid-19 ha certamente peggiorato le condizioni dei detenuti: diminuzione drastica delle visite, dei permessi, flessione delle relazioni con il mondo del volontariato, della cultura, della formazione, annullamento delle possibilità per l’inserimento lavorativo. E’ la lettera che sarà presentata domani, 24 aprile, alle ore 10,30, da don Franco Esposito, responsabile del Centro pastorale carceraria della diocesi di Napoli, padre Alex Zanotelli, missionario comboniano, e Samuele Ciambriello, garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, al ministro della Giustizia, Marta Cartabia. “Da ciò scaturisce la considerazione che, per affrontare la crisi indotta dalla pandemia, non si può prescindere dal fatto che il carcere è un insieme di persone, una comunità appunto, nella quale contano le condizioni di ogni singola persona, sia essa un operatore penitenziario che un detenuto o un volontario”. Piemonte. Convegno sul ruolo del carcere nei percorsi trattamentali di sex-offenders atnews.it, 24 aprile 2021 “Il modo migliore per evitare che il tempo di detenzione sia un ‘tempo sprecato’ è fare in modo che il detenuto, pur sapendo di essere in detenzione, non senta di esserlo”. Con questa riflessione di Fedor Dostoevskij ha preso il via il convegno “Tempo perso? Il ruolo del carcere nei percorsi trattamentali di sex-offenders e maltrattanti”, organizzato e moderato dal garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano. “Un’occasione - ha sottolineato Mellano - per riflettere su esperienze e buone pratiche nell’ambito dei trattamenti previsti in ambito carcerario per le persone detenute per reati da ‘codice rosso’, anche alla luce del fatto che la legge finanziaria nazionale ha previsto nel bilancio 2 milioni di euro annui, per il triennio 2021-2023, per garantire e implementare la presenza di professionalità psicologiche esperte all’interno degli Istituti penitenziari per consentire un trattamento intensificato cognitivo-comportamentale nei confronti degli autori di reati contro le donne e per la prevenzione della recidiva”. È intervenuta la responsabile dell’Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria regionale Catia Taraschi, che ha fatto presente come al momento, nelle carceri piemontesi “siano presenti complessivamente 373 maltrattanti e sex offenders: 173 al Lorusso e Cutugno di Torino, 106 a Biella, 49 a Vercelli, 11 a Ivrea, 10 a Cuneo, 6 rispettivamente al San Michele e al Don Soria di Alessandria, 4 a Verbania, 3 rispettivamente a Fossano e a Novara e 2 ad Asti. E ha sottolineato “l’importanza dello stanziamento statale, che consentirà di implementare gli interventi già attivi sul territorio e, soprattutto, di prevederne di nuovi per averne almeno uno in ogni sezione che ospita questa tipologia di detenuti”. Dea Demian Pisano, assistente sociale ed esperta presso l’Ufficio del garante regionale della Campania ha raccontato un progetto messo in atto con 17 sex offenders del carcere di Poggioreale (Na) osservando che “in alcuni casi non si rendevano pienamente conto del male compiuto per via dei pregiudizi e delle mentalità in cui sono cresciuti. “Avere avuto la possibilità di avvicinarli e confrontarsi - ha concluso - ha contribuito a modificare il loro punto di vista”. La coordinatrice della formazione e dei progetti speciali del dipartimento di salute mentale dell’Asl Roma 1 Adele Di Stefano ha sottolineato che “non è detto che tutti i trattamenti siano validi per tutti i tipi di detenuti che hanno commesso questi tipi di reato, ma per l’Italia l’importante è cominciare, dal momento che è ancora piuttosto indietro rispetto a molti Paesi d’Europa” e la necessità “di imparare a lavorare in rete a cominciare dai Tribunali, dagli avvocati e dal Servizio sanitario regionale. Se non cominciamo ora che ci sono le possibilità, anche economiche, per farlo, rischiamo di perdere un’occasione importante”. Il presidente del Centro italiano di promozione della mediazione (Cipm) di Milano Paolo Giulini ha evidenziato la necessità che “la pena, soprattutto in questo ambito, sia utile ed efficace. E l’Ue insiste sulla necessità che la pena non sia solo retributiva, ma ‘riparativa del sé e delle relazioni future che l’autore del reato intratterrà al termine della pena’ e miri a far comprendere appieno il male commesso nei confronti delle vittime”. Georgia Zara, docente del dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino e vicepresidente dell’Ordine degli psicologi del Piemonte, ha sottolineato che “il reato sessuale non è una ‘questione privata’, non ha nulla a che fare con il desiderio di contatto con la vittima” e ha illustrato il progetto pilota “Sorat” destinato a chi ha commesso reati sessuali ed è recluso nell’Istituto Lorusso e Cutugno di Torino. Al portavoce dei garanti territoriali Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio e dell’Umbria e docente del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Perugia, cui è stata affidata la conclusione dei lavori, ha messo in guardia sul fatto che “si tratta di una sfida ardua, poiché non di rado la pena detentiva è ‘condanna al tempo perso’, ma non impossibile, orientando la prospettiva entro cui operare alla rieducazione dell’autore di reato, alla tutela della vittima del reato e alla prevenzione di comportamenti d’inciviltà una volta scontata la pena. Piemonte. Oltre 370 i detenuti per reati da “codice rosso” adnkronos.com, 24 aprile 2021 Sono complessivamente 373 i maltrattanti e sex offenders presenti nelle 11 carceri del Piemonte. Di questi 173 al Lorusso e Cutugno di Torino, 106 a Biella, 49 a Vercelli, 11 a Ivrea, 10 a Cuneo, 6 rispettivamente al San Michele e al Don Soria di Alessandria, 4 a Verbania, 3 rispettivamente a Fossano e a Novara e 2 ad Asti” Il dato è stato reso noto in occasione del convegno ‘Tempo perso? Il ruolo del carcere nei percorsi trattamentali di sex-offenders e maltrattanti’, organizzato e moderato dal garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano. “Un’occasione - ha sottolineato Mellano - per riflettere su esperienze e buone pratiche nell’ambito dei trattamenti previsti in ambito carcerario per le persone detenute per reati da ‘codice rosso’, anche alla luce del fatto che la legge finanziaria nazionale ha previsto nel bilancio 2 milioni di euro annui, per il triennio 2021-2023, per garantire e implementare la presenza di professionalità psicologiche esperte all’interno degli Istituti penitenziari per consentire un trattamento intensificato cognitivo-comportamentale nei confronti degli autori di reati contro le donne e per la prevenzione della recidiva”. All’incontro è intervenuta la responsabile dell’Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria regionale Catia Taraschi, che ha sottolineato “l’importanza dello stanziamento statale, che consentirà di implementare gli interventi già attivi sul territorio e, soprattutto, di prevederne di nuovi per averne almeno uno in ogni sezione che ospita questa tipologia di detenuti”. Dea Demian Pisano, assistente sociale ed esperta presso l’Ufficio del garante regionale della Campania ha raccontato, invece, un progetto messo in atto con 17 sex offenders del carcere napoletano di Poggioreale osservando che “in alcuni casi non si rendevano pienamente conto del male compiuto per via dei pregiudizi e delle mentalità in cui sono cresciuti. Avere avuto la possibilità di avvicinarli e confrontarsi - ha osservato - ha contribuito a modificare il loro punto di vista”. La coordinatrice della formazione e dei progetti speciali del dipartimento di salute mentale dell’Asl Roma 1 Adele Di Stefano ha evidenziato che “non è detto che tutti i trattamenti siano validi per tutti i tipi di detenuti che hanno commesso questi tipi di reato, ma per l’Italia l’importante è cominciare, dal momento che è ancora piuttosto indietro rispetto a molti Paesi d’Europa” e ha richiamato la necessità “di imparare a lavorare in rete a cominciare dai Tribunali, dagli avvocati e dal Servizio sanitario regionale. Se non cominciamo ora che ci sono le possibilità, anche economiche, per farlo, rischiamo di perdere un’occasione importante”. Il presidente del Centro italiano di promozione della mediazione (Cipm) di Milano Paolo Giulini ha rimarcato la necessità che “la pena, soprattutto in questo ambito, sia utile ed efficace. E l’Ue insiste sulla necessità che la pena non sia solo retributiva, ma ‘riparativa del sé e delle relazioni future che l’autore del reato intratterrà al termine della pena’ e miri a far comprendere appieno il male commesso nei confronti delle vittime”. Per Georgia Zara, docente del dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino e vicepresidente dell’Ordine degli psicologi del Piemonte, illustrando il progetto pilota ‘Sorat’ destinato a chi ha commesso reati sessuali ed è recluso nel carcere torinese delle Vallette ha spiegato che “il reato sessuale non è una ‘questione privata’, non ha nulla a che fare con il desiderio di contatto con la vittima”. Concludendo i lavori, il portavoce dei garanti territoriali Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio e dell’Umbria e docente del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Perugia, ha messo in guardia sul fatto che “si tratta di una sfida ardua, poiché non di rado la pena detentiva è ‘condanna al tempo perso’, ma non impossibile, orientando la prospettiva entro cui operare alla rieducazione dell’autore di reato, alla tutela della vittima del reato e alla prevenzione di comportamenti d’inciviltà una volta scontata la pena”. Liguria. Detenuti: il Garante che non c’è lanuovasavona.it, 24 aprile 2021 “Una figura che in Liguria manca, e che svolge un ruolo di mediazione tra chi vive dentro il perimetro carcerario (persone detenute, agenti e operatori penitenziari) e le istituzioni, cercando di prevenire e di risolvere conflitti che dentro una realtà così complessa rischiano di essere alquanto negativi”. In settimana il capogruppo di Linea condivisa Gianni Pastorino, accompagnato dall’avvocata Alessandra Ballerini (osservatrice di Antigone), si è recato in visita al carcere genovese di Marassi. “È la mia seconda visita in questa legislatura, la prima è stata nel 20 novembre 2020 - dichiara il consigliere regionale Gianni Pastorino - e la ritenevo necessaria, vista anche l’emergenza sanitaria in atto che, in un perimetro come quello carcerario, rappresenta un problema enorme”. La nuova direttrice ha fornito al consigliere Pastorino i dati relativi alla casa circondariale di Marassi: sono circa 624 i detenuti, in calo rispetto al 20 novembre scorso di circa 50 unità, ma sempre in sovrannumero rispetto alla capienza standard che è di circa 550 persone; sono circa 275 gli agenti di polizia penitenziaria, a fronte di una dotazione organica di circa 365. “Certamente questo, del sovraffollamento, rimane un grande problema perché, a fronte di una capienza di 500/550 detenuti, ne abbiamo per lo meno tra i 70-90 in più e, inoltre, molte stanze con sei detenuti nello stesso spazio”, rimarca Pastorino. “Abbiamo posto alla dirigenza del carcere soprattutto il problema, sollevato da associazioni e detenuti, dei prezzi del sopravvitto e del necessario controllo da esercitare su questo servizio, portato avanti dall’azienda Landucci - prosegue il capogruppo Pastorino -. In precedenza ci era infatti stato segnalato un aumento dei prezzi che non trovava giustificazione, a tal proposito la dirigenza di Marassi ha assicurato il massimo controllo e il rigore sul prezziario che viene proposto dall’azienda”. Il consigliere Pastorino e l’avvocata Ballerini sono stati accompagnati dal vicecomandante e dall’ispettrice, oltre che dagli agenti penitenziari preposti, attraverso un sopralluogo in sezione prima, mentre per motivi di sicurezza non è stato possibile fare altrettanto in sezione seconda. La visita è proseguita poi nella sezione sesta, nel centro clinico e in altri settori del carcere, comprese le stanze destinate all’osservazione di persone detenute con patologie psichiatriche, attualmente vuote da circa 15 giorni. “Ribadiamo un giudizio positivo sulla gestione dell’emergenza sanitaria, sull’andamento delle vaccinazioni e sul fatto che a detta della dirigenza non vi siano in questo momento casi positivi, inoltre quelli che si sono verificati sono stati gestiti in maniera tempestiva”, aggiunge Pastorino. Sul fronte vaccini sono state vaccinate circa 230 persone tra la popolazione detenuta, solo negli ultimi due giorni sono stati 20 i detenuti che hanno ricevuto la dose del vaccino anti-covid. Sono più o meno 220 invece gli agenti di polizia penitenziaria vaccinati e oltre 90 le persone che collaborano con l’attività carceraria. Tutti sono stati vaccinati con la prima dose di AstraZeneca. “Questa visita rinsalda in me l’ulteriore necessità di nominare il garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, - aggiunge il capogruppo di Linea condivisa Gianni Pastorino - figura che manca in Liguria e che svolge un ruolo di mediazione tra chi vive dentro il perimetro carcerario (persone detenute, agenti e operatori penitenziari) e le istituzioni, cercando di prevenire e di risolvere conflitti che dentro una realtà così complessa rischiano di essere alquanto negativi”. Il consigliere Pastorino si riferisce a una figura che deve avere la capacità di partire da un’analisi delle condizioni delle carceri in Liguria, sia dal punto di vista delle strutture che da quello delle condizioni di vita delle persone detenute e degli operatori penitenziari. “Una figura indipendente e competente a mio giudizio importante, che deve guardare a tutto tondo alla realtà carceraria, senza rischiare mai di subire pressioni o condizionamenti di sorta”, spiega il consigliere. “Proprio per questo è necessario che anche la classe politica ligure invii da una parte segnali di attenzione alle realtà carcerarie e ai disagi di chi vive dentro, persone detenute e operatori penitenziari, riuscendo però, dall’altra, a mantenere un netto distacco da pressioni strumentali di gruppi organizzati, magari sottoposti a regimi penitenziari particolari (vedi 41-bis o altre realtà)”, chiosa Pastorino. Campania. Ciambriello: “Nelle carceri vaccinato meno del 50% del personale” di Chiara Carlino cronachedellacampania.it, 24 aprile 2021 Si è riunito l’Osservatorio Regionale per la Sanità Penitenziaria, a cui hanno partecipato direttori delle carceri Campane, i responsabili sanitari degli istituti penitenziari, del Provveditorato Campano dell’Amministrazione Penitenziaria, del Dipartimento Giustizia Minorile e il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania Samuele Ciambriello. La riunione ha fatto il punto della campagna vaccinale negli istituti penitenziari della Campania. “Attualmente sono stati vaccinati 2049 persone, tra agenti di polizia penitenziaria, personale amministrativo, operatori penitenziari e volontari che entrano nelle carceri su un totale di 4274 che ne hanno fatto richiesta, quindi il 47,94 % delle persone. Le quattro carceri Casertane hanno la piu’ alta percentuale di questo personale vaccinato, in primis Santa Maria Capua Vetere con 342 persone, il primo tra gli istituti in Campania, pari al 66,93% dei richiedenti”, spiega il Garante Campano dei detenuti Samuele Ciambriello parlando di una partenza a macchia di leopardo. “Ho chiesto durante la riunione di far partire negli istituti penitenziari i punti vaccinali anche attraverso un’equipe di vaccinatori per consentire la vaccinazione dei detenuti, partendo dagli ultra 80, 70 e 60enni e dai soggetti fragili. Ad oggi tale campagna di vaccinazione per i detenuti è partita solo nel carcere di Poggioreale con 21 vaccinati, Secondigliano con 23 vaccinati e le carceri di Salerno, Vallo della Lucania ed Eboli con un totale di 101 vaccinati. Faccio appello ai responsabili sanitari delle Asl affinché’ nelle prossime giornate possano destinare risorse e vaccini agli istituti penitenziari per far partire tale campagna di vaccinazione in tutte le 15 carceri della Campania dove attualmente sono ristrette 6458 persone, di cui 319 donne e 862 stranieri”, aggiunge Ciambriello. Reggio Emilia. Carcere, il Covid imperversa: 150 contagi e 10 ricoverati reggiosera.it, 24 aprile 2021 L’Ausl: sezioni in quarantena per presenza costante di nuovi casi. Il Covid non smette di imperversare nel carcere di Reggio Emilia. I detenuti positivi sono ad oggi oltre 150 e 10 sono stati ricoverati in ospedale. L’aggiornamento della situazione arriva dal direttore generale Cristina Marchesi che spiega: “Da parte della sanità pubblica, così come delle istituzioni penitenziarie, c’è grande attenzione su questo focolaio. Ma per uscirne il processo sarà abbastanza lungo”. Questo perché’, viene spiegato, “abbiamo diverse sezioni in quarantena e ogni volta che effettuiamo i tamponi di fine isolamento registriamo nuovi casi positivi. Quindi non possiamo ‘liberare’ le sezioni”. Bari. Covid, nessun distanziamento nel carcere: arriva il ricorso al Tar borderline24.com, 24 aprile 2021 Un ricorso al Tar Puglia contro il silenzio del Ministero della Giustizia di fronte alla richiesta di garantire il distanziamento nel carcere di Bari. È quanto depositato dagli avvocati Alessio Carlucci e Luigi Paccione, con il sostegno dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”. I legali, in particolare, nell’aprile 2020, durante il lockdown per la prima ondata dell’emergenza Covid, aprirono una class action procedimentale invitando il Ministero della Giustizia ad “adottare ogni misura atta a garantire all’interno della sovraffollata casa circondariale di Bari il rispetto della normativa sul distanziamento interpersonale sul divieto di assembramento”. All’epoca dell’istanza, va specificato, il carcere di Bari, a fronte di una capienza di 299 persone, accoglieva 434 detenuti. Secondo i due avvocati però, gli spazi detentivi nel carcere di Bari non consentono alle persone ristrette, stante il detto sovraffollamento, di rispettare il distanziamento e “detta oggettiva impossibilità si traduce nell’aggravamento dei rischi per la salute dei detenuti e del personale penitenziario”. “A distanza di un anno - spiegano - nella permanenza dell’obbligo normativo e a fronte del silenzio del Ministero, gli scriventi hanno depositato un ricorso dinanzi al Tar Puglia per far dichiarare l’illegittimità del silenzio inadempimento ministeriale. Problematiche analoghe sono state evidenziate anche da altre associazioni che si occupano di garantire i diritti dei detenuti. Genova. Fino a sei detenuti in una cella, la denuncia di Pastorino primaillevante.it, 24 aprile 2021 Il capogruppo di Linea Condivisa in visita al carcere di Marassi. In settimana il capogruppo di Linea condivisa Gianni Pastorino, accompagnato dall’avvocata Alessandra Ballerini (osservatrice di Antigone), si è recato in visita al carcere genovese di Marassi. “È la mia seconda visita in questa legislatura, la prima è stata nel 20 novembre 2020 - dichiara il consigliere regionale Gianni Pastorino - e la ritenevo necessaria, vista anche l’emergenza sanitaria in atto che, in un perimetro come quello carcerario, rappresenta un problema enorme”. Il problema principale resta il sovraffollamento - La nuova direttrice ha fornito al consigliere Pastorino i dati relativi alla casa circondariale di Marassi: sono circa 624 i detenuti, in calo rispetto al 20 novembre scorso di circa 50 unità, ma sempre in sovrannumero rispetto alla capienza standard che è di circa 550 persone; sono circa 275 gli agenti di polizia penitenziaria, a fronte di una dotazione organica di circa 365. “Certamente questo, del sovraffollamento, rimane un grande problema perché, a fronte di una capienza di 500/550 detenuti, ne abbiamo per lo meno tra i 70-90 in più e, inoltre, molte stanze con sei detenuti nello stesso spazio”, rimarca Pastorino. “Abbiamo posto alla dirigenza del carcere soprattutto il problema, sollevato da associazioni e detenuti, dei prezzi del sopravvitto e del necessario controllo da esercitare su questo servizio, portato avanti dall’azienda Landucci - prosegue il capogruppo Pastorino -. In precedenza ci era infatti stato segnalato un aumento dei prezzi che non trovava giustificazione, a tal proposito la dirigenza di Marassi ha assicurato il massimo controllo e il rigore sul prezziario che viene proposto dall’azienda”. La visita ha toccato anche la sezione per patologie psichiatriche - Il consigliere Pastorino e l’avvocata Ballerini sono stati accompagnati dal vicecomandante e dall’ispettrice, oltre che dagli agenti penitenziari preposti, attraverso un sopralluogo in sezione prima, mentre per motivi di sicurezza non è stato possibile fare altrettanto in sezione seconda. La visita è proseguita poi nella sezione sesta, nel centro clinico e in altri settori del carcere, comprese le stanze destinate all’osservazione di persone detenute con patologie psichiatriche, attualmente vuote da circa 15 giorni. “Ribadiamo un giudizio positivo sulla gestione dell’emergenza sanitaria, sull’andamento delle vaccinazioni e sul fatto che a detta della dirigenza non vi siano in questo momento casi positivi, inoltre quelli che si sono verificati sono stati gestiti in maniera tempestiva”, aggiunge Pastorino. Sul fronte vaccini sono state vaccinate circa 230 persone tra la popolazione detenuta, solo negli ultimi due giorni sono stati 20 i detenuti che hanno ricevuto la dose del vaccino anti-covid. Sono più o meno 220 invece gli agenti di polizia penitenziaria vaccinati e oltre 90 le persone che collaborano con l’attività carceraria. Tutti sono stati vaccinati con la prima dose di AstraZeneca. “Manca un garante per queste persone” - “Questa visita rinsalda in me l’ulteriore necessità di nominare il garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, - aggiunge il capogruppo di Linea condivisa Gianni Pastorino - figura che manca in Liguria e che svolge un ruolo di mediazione tra chi vive dentro il perimetro carcerario (persone detenute, agenti e operatori penitenziari) e le istituzioni, cercando di prevenire e di risolvere conflitti che dentro una realtà così complessa rischiano di essere alquanto negativi”. Il consigliere Pastorino si riferisce a una figura che deve avere la capacità di partire da un’analisi delle condizioni delle carceri in Liguria, sia dal punto di vista delle strutture che da quello delle condizioni di vita delle persone detenute e degli operatori penitenziari. “Una figura indipendente e competente a mio giudizio importante, che deve guardare a tutto tondo alla realtà carceraria, senza rischiare mai di subire pressioni o condizionamenti di sorta”, spiega il consigliere. “Proprio per questo è necessario che anche la classe politica ligure invii da una parte segnali di attenzione alle realtà carcerarie e ai disagi di chi vive dentro, persone detenute e operatori penitenziari, riuscendo però, dall’altra, a mantenere un netto distacco da pressioni strumentali di gruppi organizzati, magari sottoposti a regimi penitenziari particolari (vedi 41-bis o altre realtà)”, chiosa Pastorino. Bologna. Carceri, il sovraffollamento rende difficile il distanziamento di Fiorella D’Auria diritto.news, 24 aprile 2021 La Camera Penale di Bologna “Franco Bricola”, unitamente al proprio Osservatorio Carcere, esprime grande preoccupazione per la situazione di allarmante sovraffollamento della popolazione detenuta all’interno della Casa Circondariale. È stato diffuso un comunicato del Consiglio Direttivo e dell’Osservatorio Diritti umani, Carcere e altri luoghi di privazione della libertà, in cui si legge: “La Camera Penale di Bologna ‘Franco Bricola’, unitamente al proprio Osservatorio Carcere, esprime grande preoccupazione per la situazione di allarmante sovraffollamento della popolazione detenuta all’interno della Casa Circondariale di Bologna. Attualmente le presenze si attestano sulle 750 unità, a fronte di una capienza regolamentare di 500?. Secondo la nota, ripresa dal sito bolognatoday.it, lo stato di emergenza dovuto alla pandemia in atto, imporrebbe l’adozione di misure deflattive, allo scopo di ridurre il rischio di contagio all’interno del carcere, che rappresenta, per ovvie ragioni, una realtà in cui è complicato mantenere adeguati parametri di distanziamento. La nota così prosegue: “Se è vero che l’emergenza sanitaria costituisce solo la punta dell’iceberg del problema di grave sovraffollamento, che caratterizza ormai da troppo tempo l’Istituto di pena bolognese, è altrettanto evidente che si deve porre rimedio a tale gravissima situazione anche attraverso un uso corretto delle misure sostitutive al carcere, sia nella fase della cognizione che dell’esecuzione della pena”. E oltre a ciò: “Sono difatti ancora troppi i detenuti in attesa di giudizio, per i quali l’applicazione della misura cautelare in carcere, prevista dal legislatore quale extrema ratio, è spesso inflitta in maniera spasmodica dal Giudice della Cognizione, talvolta anche in spregio delle eventuali condizioni soggettive che possono essere valorizzate per l’applicazione di una misura diversa dal carcere. Parimenti, le misure alternative alla detenzione meriterebbero una più ampia applicazione, in ottemperanza alla finalità rieducativa della pena prevista dall’art. 27 della Costituzione”. Firenze. La repressione oltre il carcere. Sinistra Progetto Comune: “Immaginare una liberazione” comune.fi.it, 24 aprile 2021 “Verso il 25 aprile in Santo Spirito, Rifondazione organizza un’iniziativa sul superamento delle logiche repressive, a partire da una riflessione sugli istituti penitenziari, insieme al consigliere comunale Dmitrij Palagi e l’Associazione Progetto Firenze”. La Firenze Antifascista ha organizzato il tradizionale 25 aprile in piazza Santo Spirito tenendo conto dell’emergenza pandemica in cui siamo immersi. Si eviteranno quindi situazioni di assembramento, si rispetterà il distanziamento e ci si concentrerà sugli interventi politici, rispettando tutte le disposizioni previste per evitare il diffondersi di Sars-CoV-2. Il nostro gruppo consiliare sarà ovviamente presente e il consigliere comunale Dmitrij Palagi parteciperà all’iniziativa “verso la Liberazione” organizzata dal Partito della Rifondazione Comunista, dove è stata invitata anche l’Associazione Progetto Firenze. Si partirà dall’impegno di questi mesi sul tema degli istituti penitenziari, per discutere dei meccanismi di repressione dentro e fuori il carcere, contestando un modello di società dove il controllo si fa sempre più ossessivo e invadente, come dimostra la gara a chi vuole più telecamere sul territorio, tra Partito Democratico e destre. L’iniziativa sarà oggi - alle 18.00 - e si potrà seguire in modalità telematica, su YouTube (https://youtu.be/59w8NOQSp8s) o su Facebook (pagina@rifondazione.comunista). Oltre a Dmitrij Palagi e Massimo Lensi (Associazione Progetto Firenze) saranno presenti Italo Di Sabato (Osservatorio Repressione), Bruno Mellano (garante delle persone private della libertà della Regione Piemonte) ed Eleonora Forenza (già eurodeputata e della direzione nazionale del Partito della Rifondazione Comunista). I conflitti (e i rischi) da evitare di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 24 aprile 2021 In questa fase ciò che divide è la questione della “soglia”: a che punto i rischi economici diventano più rilevanti di quelli sanitari? Aperturisti e chiusuristi: questi due neologismi segnalano la comparsa di una nuova linea di conflitto intorno alla gestione della pandemia. Come mostrano le tensioni di questi giorni fra governo, regioni e partiti, da un lato c’è chi spinge per aprire subito le attività, dall’altro chi le vorrebbe tenere ancora chiuse, almeno in parte. Ciò che divide è la questione della “soglia”: a che punto i rischi economici diventano più rilevanti di quelli sanitari? Gli aperturisti ritengono che il punto sia stato raggiunto e stanno dando battaglia politica per abolire i vincoli. La loro quota oscilla fra il 30 e il 50 per cento di chi risponde ai sondaggi. Secondo gli scienziati, la pandemia durerà ancora a lungo. Dovremo perciò abituarci al tira e molla. Ma c’è di più. La sfida del Covid è destinata a intrecciarsi con quella ambientale. In parte è già così: sappiamo che l’inquinamento aumenta il rischio di contagio. Le forti preoccupazioni emerse dal Summit sul cambiamento climatico, conclusosi proprio ieri, indicano che il degrado ecologico richiede sforzi massicci non solo per la prevenzione e la tutela della salute, ma anche per una radicale svolta nei modelli di produzione e consumo, di organizzazione sociale e del welfare. Come per la pandemia, la battaglia contro le minacce ambientali imporrà molti sacrifici, inevitabilmente distribuiti in modo diseguale. I costi saranno infatti concentrati su quei settori che causano maggiori emissioni nocive, più danni all’ambiente. La spesa pubblica e il prelievo fiscale dovranno essere ricalibrati in base al nuovo mix di rischi e bisogni. Ad esempio occorrerà prevedere compensazioni eque per i gruppi sociali e i territori perdenti, nonché finanziare la riqualificazione ecologica. Sarà necessario aumentare le imposte o tagliare alcune voci di spesa, per salvaguardare la sostenibilità di bilancio. Programmare una transizione “giusta” non è troppo difficile sulla carta ma, come ha insegnato l’esperienza dei ristori, l’attuazione pratica sarà tutt’altro che agevole. Per qualche anno, i costi saranno almeno in parte assorbiti dai fondi Ue. Ma la questione della soglia è destinata a diventare più scottante e controversa. Il virus uccide qui e ora, i suoi effetti sono immediatamente visibili, tutti siamo esposti al rischio. Invece il cambiamento climatico produce danni in modo meno evidente, spalmati nel tempo. Il saldo costi/benefici delle misure di sostenibilità avrà livelli di tolleranza più bassi rispetto al Covid, aumentando così il potenziale di protesta sociale. Ogni fase storica ha le proprie sfide di governo e le sue dinamiche di conflitto. Nella seconda metà del Novecento la sfida principale è stata quella di conciliare capitalismo, democrazia e welfare, rispondendo alla lotta di classe. La nuova fase riguarda soprattutto la conciliazione fra benessere e sostenibilità e dunque la gestione dei conflitti “eco-sociali”. Questi ultimi saranno più complessi di quelli novecenteschi. Si incroceranno infatti due diverse linee di contrapposizione. La prima opporrà chi è a favore di regole più stringenti sulle varie attività produttive, da un lato, e chi è invece preoccupato della redditività e persino della sopravvivenza di quelle stesse attività. La seconda divisione opporrà chi appoggia un nuovo modello di spesa e di tassazione a chi invece difende il welfare e il fisco così come sono oggi. Il nostro Paese è pronto e attrezzato per affrontare questo scenario? Come gli altri europei, secondo i dati Eurobarometro la maggioranza degli italiani è preoccupata per i nuovi rischi che riguardano salute e ambiente. Vi sono però significative differenze: i ceti più disagiati, i lavoratori autonomi e in generale quelli con basse qualifiche, nonché coloro che si dichiarano di destra tendono ad essere meno preoccupati. Altre ricerche segnalano che in Italia è particolarmente ampio il segmento che privilegia il mantenimento del welfare esistente rispetto a misure con finalità ecologiche. Abbiamo anche una quota più alta di eco-scettici: chi attribuisce poca importanza alle sfide ambientali. Se è così, la strada della sostenibilità incontrerà da noi parecchi ostacoli, incluso il rischio di una intensa polarizzazione eco-sociale. Nel breve periodo, è molto importante che il governo riesca a spendere in modo efficace tutti i fondi europei, in modo da promuovere la transizione verde e digitale limitando i sacrifici economici per i cittadini. I leader politici responsabili farebbero bene tuttavia a elaborare strategie di medio e lungo periodo per sensibilizzare l’opinione pubblica e aggregare intorno all’obiettivo della sostenibilità un’ampia coalizione sociale, motivata - per dirla con Weber - da interessi non solo materiali, ma anche ideali. Proprio come avvenne in passato, e in tutta Europa, per la costruzione di quel modello sociale che tutto il mondo ci invidia. Migranti. I Cpr e i voli di sola andata: intervista al Garante nazionale di Andrea De Lotto pressenza.com, 24 aprile 2021 Un paio di settimane fa, quando intervistai il Garante per i detenuti nominato dal Comune di Milano, Francesco Maisto, scoprii che il Garante nazionale, Mauro Palma, aveva visitato il CPR di via Corelli, aperto 5 mesi fa, più di quello del comune di Milano. Scrissi quindi una mail sul loro sito ufficiale, chiedendo la possibilità di fargli un’intervista. Della serie: tentar non nuoce. Sarà una coincidenza, ma dopo poco più di un’ora dalla pubblicazione del mio articolo in cui trattavo del suo rapporto, ricevo una breve mail dalla sua segreteria che dice di chiamare il giorno dopo un certo numero di cellulare per parlare con il “Presidente”. Non capisco se è per fare direttamente l’intervista, chiedo, ma non mi dicono di più… Il giorno dopo sono a scuola, saluto i miei studenti alle 14 e mi attacco al telefono. Occupato. Alle 14 e 15 provo un’ultima volta, scendo le scale e vado a prendere la mia bici. Proprio in quel momento suona il telefono: “Sono Mauro Palma….” Ferma tutto!!! Rilega la bici, torna su per le scale, col fiatone mi presento, lo saluto e lo ringrazio, non voglio perdere l’occasione per poter parlare con lui. Si scusa, era dentro a Regina Coeli (o Rebibbia… non ricordo). Iniziamo a parlare. Ha letto il mio articolo e non ha nulla da eccepire. Gli spiego il lavoro che faccio: insegno in un Cpia (Centro Provinciale Istruzione Adulti), gli racconto che quando chiusero il Centro di accoglienza straordinaria (CAS) di via Corelli noi perdemmo dalla sera alla mattina decine di studenti. Fu duro per noi, ma ancor più per loro. Gli dico, affettuosamente, che sono di parte. Lui capisce. Gli chiedo come fa ad occuparsi di tutte le carceri italiane e in più dei CPR, mi sembra un’impresa titanica. Mi risponde che si deve occupare anche delle RSA. Rimango sbalordito, temo di aver capito male, tanto che il giorno dopo vado a verificare sul sito ed è proprio così: vi trovo una lunga relazione che parla di RSA… certo che andrebbe fatta una seria riflessione sul fatto che le RSA siano “avvicinate” a carceri e CPR…. Quasi si prevedesse quello che è successo in quest’ultimo anno di vera reclusione… Mi dice che il lavoro è tanto, ma ci sono 30 persone che lavorano con lui. Il suo incarico è avvenuto per nomina del Presidente della Repubblica, dura sette anni, ne ha ancora due. E’ stato il primo, era tutto da costruire, da inventare, è riuscito a fare molto per coordinare i garanti locali, regionali, c’è ancora molto da fare, ma, appunto, ha ancora due anni. Gli chiedo se le visite che ha fatto ai CPR è riuscito a farle a sorpresa e se ha potuto parlare con i detenuti. Mi spiega di si, è importante che vengano fatte così, sulla possibilità di parlare con i detenuti, può farlo sempre e “in maniera non monitorata”, ed è accompagnato da interpreti. Mi racconta, prendo nota più che posso, ma non è facile. Ci soffermiamo su come avvengono i rimpatri. Mi conferma che la sua attenzione e vigilanza deve avvenire anche in quei momenti, tanto che quel giorno stesso due “dei suoi” sono su un aereo che sta effettuando dei rimpatri. E qui mi racconta qualcosa che non sapevo: “Sono sostanzialmente quattro i Paesi verso i quali stanno avvenendo la gran parte dei rimpatri: Tunisia, Egitto, Marocco e Nigeria. Attualmente solo per la Tunisia è possibile effettuare dei voli charter regolari, Marocco ed Egitto pretendono che i rimpatri avvengano su voli di linea. Verso la Nigeria vengono rimpatriate soprattutto donne, attraverso dei charter”. Chiedo di descrivere meglio questi momenti, la possibile tensione che ci può essere nel trasbordo. “La tensione è soprattutto il giorno prima. Ci sono per esempio due voli charter alla settimana verso la Tunisia, loro sanno quando avvengono e il giorno prima è il momento più difficile. In Tunisia possono essere rimpatriate al massimo 80 persone a settimana, ma nei due voli di solito ci sono circa una trentina di immigrati. Ad accompagnarli ci sono due poliziotti per ogni immigrato. Se poi aggiunge un medico, il personale di bordo, viaggiano un centinaio di persone. Quando arrivano, gli italiani non sbarcano neppure. I rimpatriati scendono e vengono consegnati alla polizia locale. L’aereo riparte”. Missione compiuta: scaricato il carico di rabbia, dolore, frustrazione, l’aereo riparte, forse non ha neppure spento il motore. Mi si stringe un groppo in gola. Immagino quei volti, quei polsi tenuti, magari con discrezione, quegli sguardi, le parole che si diranno. Penso ai miei alunni che parlano arabo in classe e chiedo loro di parlare in italiano. Penso a quell’unica volta in cui la polizia mi fermò e mi portò via. Uno di loro, un distinto signore in borghese aveva infilato un braccio sotto la mia giacca e mi piantava un pugno nella schiena, nelle reni. Non si vedeva nulla, ma la spinta c’era, eccome. Ci vuole arte. Mauro Palma mi racconta, con grande disponibilità. Gliene sono grato. Non invidio per nulla il lavoro che fa. Racconta delle sbarre e del plexiglass di Gradisca d’Isonzo, tristissimo. Racconta di come attualmente si mescolino nei CPR persone che arrivano dal carcere con persone arrivate da poco, e che le differenze sono enormi: tra gli immigrati che incontra ci sono ex detenuti, altri appena arrivati in Italia, chiaro che alcuni sono più disinvolti e si permettono di dire “ci rivediamo presto”… altri invece sono disperati, perché vedono il loro sogno infranto. Lo stesso Garante sembra essere ben cosciente che il fenomeno dell’immigrazione non possa essere affrontato così, quasi si volesse svuotare un mare con un cucchiaio. Mi permetto di chiedergli alla fine se crede che i CPR abbiano senso, mi risponde quello che mi aspettavo: “Non posso esprimermi, diciamo che se gli obiettivi erano quelli di contenere e ridurre l’immigrazione, ecc. (cioè tutto quello che sta scritto sulla carta), direi di no”. Se c’erano già parecchi motivi per manifestare contro i CPR il 24 aprile e oltre, ora ce n’è un altro ancora: far sì che il Garante nazionale dei detenuti possa dedicarsi con più calma alle carceri, crediamo ne abbia abbastanza di quelle. Delle RSA ne parleremo un’altra volta. Strage di migranti, l’Onu accusa: “L’Ue non li ha salvati” di Leo Lancari Il Manifesto, 24 aprile 2021 Per due giorni nessuno ha risposto alle segnalazioni di Alarm Phone in un tragico scaricabarile tra autorità libiche ed europee. È l’immagine di una strage. Il corpo senza vita di un uomo che galleggia nell’acqua del mare, leggermente piegato sul lato sinistro, il volto rivolto verso il fondale, le gambe unite e le braccia che sembrano conserte. Una immagine che ricorda altre stragi del passato. Se non fosse per il giubbotto che gli cinge il torace in un vano tentativo di salvezza, potrebbe essere la vittima di un disastro aereo, cosa che sicuramente avrebbe impegnato navi e aerei di molti Stati nelle operazioni di soccorso. Invece è il corpo di un migrante, uno dei 130 dispersi in un naufragio avvenuto giovedì a nord est di Tripoli, in Libia, e del quale fino a ieri sera erano stati ritrovati solo tredici corpi. “Abbiamo navigato in un mare di cadaveri” ha raccontato Alessandro Porro, il presidente di Sos Mediterranée che si trova a bordo della Ocean Viking, la nave che insieme a tre mercantili ha disperatamente provato a soccorrere i migranti. Cosa che non ha fatto la cosiddetta Guardia costiera libica, sebbene allertata in tempo da Alarm Phone. Ma neanche le autorità europee, italiane comprese, rimandando a Tripoli il compito di intervenire. L’accusa arriva dalle ong, ma non solo. A puntare il dito contro l’Europa che ancora una volta ha fatto finta di non vedere è direttamente l’Onu: “Gli Stati sono rimasti inerti e si sono rifiutati di agire per salvare le vite di oltre cento persone” ha denunciato su Twitter la portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), Safa Msehli. “Loro hanno implorato e lanciato chiamate di emergenza per due giorni, prima di affondare nel cimitero blu del Mediterraneo. È questa l’eredità dell’Europa?”, ha chiesto la portavoce. Accuse che arrivano nello stesso giorno in cui al Viminale la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese riceve la ministra degli Esteri di Tripoli Najitla el Mangoush alla quale ha assicurato il sostegno italiano al nuovo corso libico. Ripercorse oggi, le ore che hanno preceduto l’ultima strage del Mediterraneo sono la cronaca di un’omissione di soccorso. La prima segnalazione sul barcone affondato e su altre due imbarcazioni in difficoltà è di mercoledì 21 aprile. A lanciarlo è Alarm Phone che da qual momento rimane per dieci ore in contatto con i migranti che chiedono aiuto. Alle 11.51 invia via email la richiesta di intervento alle autorità competenti: “Ciò significa - spiega Alarm Phone - che da quel momento in poi, i seguenti attori erano a conoscenza di questa imbarcazione in difficoltà: Mrcc Italia, Rcc Malta, la cosiddetta Guardia costiera libica, Unhcr, e i soccorritori delle ong”. Alle 13 - dopo vari tentativi, Ap riesce a contattare il barcone: “Ci hanno trasmesso la loro posizione Gps e hanno dichiarato che c’erano circa 130 persone a bordo, tra cui 7 donne, una delle quali era incinta. Erano su un gommone e hanno detto che il mare era agitato. Abbiamo immediatamente informato le autorità competenti e reso pubblico il caso”. Verso mezzogiorno, prosegue Alarm Phone, “abbiamo informato Mrcc Italia, il centro di coordinamento dei soccorsi marittimi di Roma, che la nave mercantile Bruna era vicina al caso di emergenza e sarebbe potuta intervenire. Tuttavia, Bruna ha proseguito la sua rotta”. Alle 16:11 “Mrcc Italia ci comunicava, in una conversazione telefonica, che avremmo dovuto informare le autorità competenti sul caso di emergenza”. Il riferimento è a Tripoli, che però AP riesce a contattare solo alle 16:44 quando a rispondere è “un ufficiale libico che ha dichiarato che erano a conoscenza di tre barche e che le stavano cercando con la loro motovedetta Ubari”. Non succede nulla però fino alle 19,53, quando la Ocean Viking annuncia di aver cambiato la sua rotta per soccorrere i naufraghi. “Alle 22.52 - prosegue AP - abbiamo parlato di nuovo con Mrcc Italia e spiegato che non eravamo mai stati in grado di contattare le autorità libiche. L’ufficiale italiano ci ha detto: “Stiamo facendo il nostro lavoro, chiamate se avete nuove informazioni”. Alle 00:22 ci siamo finalmente messi di nuovo in contatto con le autorità libiche. L’ufficiale libico ci ha detto che non avrebbero cercato la barca in difficoltà perché le condizioni meteorologiche erano troppo brutte. Abbiamo scoperto che la cosiddetta Guardia costiera libica aveva nel frattempo intercettato un’altra imbarcazione, che aveva a sua volta allertato Alarm Phone, con a bordo circa 100 persone - in questo caso, una donna e il suo bambino sono morti. Alle 00:55 viene informata Mrcc Italia che la Guardia costiera libica non avrebbe condotto un’operazione di ricerca. Il giorno dopo, il 22, alle 9:30, abbiamo parlato di nuovo con Mrcc Roma, chiedendo un’azione immediata. L’ufficiale italiano ha detto: “Chiamateci se avete nuove informazioni, sappiamo della barca”. Il risultato è che nessuno tra quanti vengono contattati interviene e quando la Ocean Viking arriva nel punto indicato è ormai tropo tardi. “130 persone annegate. Le autorità dell’Ue e Frontex sapevano del caso di emergenza, ma hanno negato il salvataggio”, accusa la ong tedesca Sea Watch. In serata fonti della Guardia costiera italiana rispondono alla ricostruzione fatta da Alarm Phone spiegando di aver individuato i mercantili che erano più vicini all’area nella quale era stata segnalata la presenza di imbarcazioni con a bordo migranti e di averli comunicati alle autorità libiche. Sempre in serata si fa sentire il presidente del parlamento europeo, David Sassoli: “È oramai chiaro - afferma - che le politiche nazionali non sono in grado di gestire con umanità ed efficacia i movimenti di migranti e richiedenti asilo. È su queste omissioni che si misurano le responsabilità delle morti in mare”. Da parte sua, invece, Matteo Salvini non perde l’occasione per attaccare chi difende le ong: “Altri morti, altro sangue sulla coscienza dei buonisti che, di fatto, invitano e agevolano scafisti e trafficanti”, dice il leader della Lega. Migranti. I guardiacoste libici e quelle manovre scorrette nell’area Sar pagata da Roma di Nello Scavo Avvenire, 24 aprile 2021 È vietato ma gli uomini di Tripoli recuperano i barconi e i motori usati dai migranti e li riportano a terra perché siano riutilizzati. E bloccano i voli della Ong che li riprendono, smascherandoli Ciò che resta di un naufragio in mare. Migranti vittime dei trafficanti e di chi si gira dall’altra parte. La Sar libica è un’invenzione italiana. E lo è anche l’ultima nata tra le milizie del mare. Solo che è stata avvistata a recuperare gommoni e motori. L’assenza di testimoni scomodi spesso impedisce di sapere cosa accade davvero a ridosso delle coste libiche. Ma stavolta alcune immagini gettano nuove ombre sui guardacoste equipaggiati dall’Italia. Le regole sono chiare. Se un barcone di migranti viene individuato in mare deve essere distrutto e affondato dopo avere messo al sicuro i naufraghi. Invece l’ultima arrivata tra le guardie costiere libiche ha preso l’abitudine di riportare a terra gli scafi ancora in grado di navigare. Le immagini ottenute da “Avvenire” sono di alcuni giorni fa. Recentemente il comando della missione Ue Irini ha ammesso che esistono “diverse guardie costiere in Libia”, ma le marine militari dell’Ue si fidano solo “di quella di Tripoli”. In particolare si tratta del Gacs, una polizia marittima che risponde al ministero dell’Interno libico e viene formata a Gaeta, presso strutture della Guardia di finanza. All’ultimo corso di formazione un ufficiale libico non si è presentato in aeroporto per tornare in patria, ed ora è irregolare da qualche parte in Europa. Cannabis terapeutica. Processo per De Benedetto, il paziente che aveva coltivato la sua cura Il Riformista, 24 aprile 2021 Affetto da una grave forma di artrite reumatoide che lo immobilizza da anni, il prossimo 27 aprile alle ore 12, presso la Procura di Arezzo, Walter De Benedetto affronterà la udienza decisiva del processo che lo vede imputato per coltivazione di sostanza stupefacente in concorso. Il paziente, indagato per aver coltivato cannabis, si era trovato a lungo senza terapia - nonostante la regolare prescrizione - a causa delle carenze del Sistema Sanitario. Rinviato a giudizio lo scorso 23 febbraio, in quell’occasione era stato incardinato il rito abbreviato, condizionato alla produzione documentale, come aveva spiegato l’avvocato Claudio Milgio che, insieme al collega Lorenzo Simonetti, segue il caso. “Non è un problema solo di Walter. La filiera degli attori che compaiono in questo caso è molto più ampia del semplice rapporto imputato/tribunale: dal momento in cui la farmacia ospedaliera non procura al paziente la medicina per la quale ha una regolare prescrizione, lasciandolo di fatto senza terapia, il paziente è lasciato solo dallo Stato” aveva dichiarato il legale Simonetti. A febbraio, uscendo dall’aula dove era arrivato in ambulanza, De Benedetto aveva dichiarato: “Mi assumo la mia responsabilità, questa è una battaglia in cui non ci sono solo io, credo nella giustizia e nella legge, mi sento a posto con la mia coscienza”. Sono numerosi infatti i pazienti che, trovandosi in condizioni analoghe, hanno deciso di raccontare la propria storia attraverso la campagna Meglio Legale. È il caso di Alfredo Ossino, Maresciallo Capo della Guardia di Finanza, in congedo a causa di un deficit-funzionale della colonna vertebrale. Oppure la quarantenne Stefania Lavore affetta dalla malattia di Parkinson di origine genetica. E ancora, Mara Ribera, che denuncia come “il dolore non può essere parte integrante della vita delle persone, soprattutto laddove si è riscontrato che l’utilizzo di cannabis terapeutica riesce a garantire una vita migliore”. E poi il trentenne Carlo Monaco, affetto da anoressia nervosa, e Paolo Malvani che soffre di dolore neuropatico causato da un incidente stradale, e Rosario D’Errico la cui decisione di procedere con la coltivazione domestica, data l’assenza di terapia, l’ha portato ad avere problemi con la giustizia e un processo penale con conseguente perdita del lavoro. Donato Farina, trentunenne di Padova, ha dovuto supplire con gli antidolorifici le lungaggini della prescrizione medica; fino alla storia di una bambina di dodici anni che solo grazie alla cannabis terapeutica riesce a controllare gli spasmi epilettici causati dalla sua rarissima patologia. In Italia la cannabis terapeutica è legale dal 2007 ma, a causa dello scarso quantitativo prodotto dallo Stato, la distribuzione è spesso assente. Per quanto la legge preveda che il medico possa prescrivere questa terapia a carico del Servizio Sanitario Nazionale, molto spesso il farmaco non si trova in farmacia, portando chi ne fa uso all’assenza di terapia. Inoltre, lo stigma creato intorno alla pianta rende difficile anche il processo di prescrizione. Due fenomeni, questi, che legati alla scarsa informazione in merito rendono molto complesso l’approvvigionamento della terapia. “Era il 28 aprile del 2007 quando con il Decreto Turco si riconobbe in Italia l’efficacia terapeutica del THC riconoscendo la cannabis terapeutica come adiuvante nella terapia del dolore. Quattordici anni dopo, il prossimo 27 aprile, Walter comparirà davanti a un giudice rischiando fino a sei anni di carcere per aver coltivato la sua medicina. Noi di Meglio Legale naturalmente saremo ad Arezzo per supportarlo.” - ha detto Antonella Soldo, coordinatrice della campagna - “Il suo caso è tra i più conosciuti, ma non è l’unico: migliaia di pazienti si sono scontrati con l’impossibilità di avere diritto alle cure con questa terapia. Meglio Legale ogni giorno riceve messaggi con storie simili alla sua e richieste di supporto. Storie alle quali il Parlamento dovrebbe rispondere con urgenza”. Lo scorso ottobre De Benedetto si era rivolto al Presidente della Repubblica chiedendo che fosse rispettato il diritto alle cure previsto dalla Costituzione: l’appello, supportato da Meglio Legale insieme all’Associazione Luca Coscioni, ha raccolto oltre 20.000 firme depositate presso il Quirinale lo scorso 16 aprile. Egitto. I Regeni: “Dettagli macabri e nomi di testi: che razza di giornalismo è?” di Antonio Maria Mira Avvenire, 24 aprile 2021 J’accuse dei genitori di Giulio dopo le ultime rivelazioni sulla sua morte in Egitto. “Amarezza e sconvolgimento”. È quello che esprimono Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, il ricercatore sequestrato, torturato e ucciso nel 2016 in Egitto. Lo fanno con una dignità che tutti dovremmo ammirare, ma anche con la forza di chi, malgrado il dolore, guarda dritto negli occhi e dice cose chiare. Questa volta non denunciano i torturatori o chi li protegge, ma alcuni cronisti, anzi “un modo di fare giornalismo spregiudicato, morboso e assolutamente irrispettoso e lesivo del lavoro che abbiamo fatto”, accusa papà Regeni in un breve video condiviso dal loro avvocato Alessandra Ballerini. Un video che dovrebbe imbarazzare noi giornalisti o almeno far discutere. E invece nulla. Pochissime condivisioni e nessuna testata che oggi, online, lo abbia ripreso o citato. Eppure le pacate ma forti accuse di mamma e papà Regeni sono precise, circostanziate. Denunciano la pubblicazione di “atti d’indagine il cui contenuto è delicatissimo” e che “rischia di mettere a repentaglio testimoni, consulenti e avvocati, oltre ad intralciare il nostro percorso per arrivare alla verità”. Non solo. Paola Regeni, con voce chiara ma immaginiamo con quale sofferenza, afferma che “non è certo continuando questo stillicidio, raccontando ogni giorno in modo sempre più macabro tutte le torture che Giulio ha patito, che ci aiutate e ci state vicini”. Poi aggiunge quasi una lezione di deontologia giornalistica. “Nel momento in cui i genitori vi dicono che hanno visto sul volto del loro figlio tutto il male del mondo e nel momento in cui la procura vi ha detto e ha scritto che Giulio è stato torturato per 8-9 giorni, quali particolari, quali immagini servono in più?”. Nei giorni scorsi alcune importanti testate hanno, infatti, pubblicato macabri particolari delle torture, citando i testimoni che li hanno riferiti, coi nomi di copertura assegnati dai magistrati italiani, ma purtroppo ugualmente e pericolosamente identificabili. E questo nel pieno delle fasi più delicate e decisive dell’inchiesta. Eppure proprio i genitori di Giulio, appena quattro mesi fa, ospiti di Fabio Fazio, a “Che tempo che fa” su Rai3, avevano fatto un accorato appello proprio ai giornalisti. “Rispettate noi e nostro figlio, non continuare a saccheggiare i documenti. Continuate a sostenerci, ma vi chiediamo di smettere di diffondere dettagli sulle torture subite da nostro figlio durante la prigionia”. Non sono stati ascoltati. Ancora una volta siamo chiamati alla responsabilità del “cosa” e del “come” pubblicare le notizie. Una vecchia questione. Tanti anni fa, partecipando a un dibattito con alcuni colleghi, sentii un grande cronista di giudiziaria affermare con convinzione “io pubblico tutto quello che mi arriva”. La risposta gliela dà papà Regeni. “È gravissimo che questi atti siano stati consegnati a giornalisti e che i giornalisti li abbiano pubblicati, perché molti altri giornalisti, che pure hanno questi atti, hanno deciso come scelta etica, morale e deontologicamente corretta di non pubblicarli”. È una scelta che anche qui ad “Avvenire” abbiamo fatto, scegliendo di non pubblicare ciò che può offendere, provocare ulteriore dolore o vanificare il lavoro degli inquirenti. Dobbiamo tenere a mente, come scrisse papa Francesco nel 2018, in occasione della Giornata mondiale delle comunicazioni, che il giornalista “ha il compito, nella frenesia delle notizie e nel vortice degli scoop, di ricordare che al centro della notizia non ci sono la velocità nel darla e l’impatto sull’audience, ma le persone. Informare è formare, è avere a che fare con la vita delle persone”. Niente di più lontano dai “macabri particolari” o dalla rivelazione delle testimonianze. Lo dicono con chiarezza mamma e papà Regeni, invitando i giornalisti “a fare le indagini e non a disvelare e pubblicare le indagini fatte da altri”. Come rispondiamo? La libertà di stampa è preziosa, per questo non va usata in modo “spregiudicato, morboso e assolutamente irrispettoso e lesivo”. Grazie Paola e Claudio Regeni per averlo detto come questa chiarezza e questa dolorosa forza. Russia. Navalny interrompe lo sciopero della fame: “Obiettivi raggiunti” di Emiliano Squillante Il Manifesto, 24 aprile 2021 L’annuncio dal carcere dell’oppositore russo dopo le manifestazioni di mercoledì scorso, a cui sono seguiti centinaia di arresti. Mosca alla comunità internazionale: “Concentratevi sui vostri problemi”. L’oppositore russo Aleksej Navalnyj ha annunciato la fine dello sciopero della fame, iniziato il 31 marzo scorso per protestare contro le condizioni della sua detenzione a seguito dell’arresto nel quadro del caso Yves-Rocher. L’annuncio arriva dopo le manifestazioni di mercoledì scorso, durante le quali, secondo Navalnyj, è stato “ottenuto abbastanza da revocare lo sciopero”. Le condizioni dell’attivista erano andate peggiorando negli ultimi giorni, tanto da richiedere un trasferimento in una struttura civile nella regione di Vladimir - dove sta scontando la sua detenzione - per accertamenti: una situazione che ha spinto giovedì anche i suoi medici personali a esprimersi contro un ulteriore digiuno che a loro dire avrebbe potuto causarne la morte. Dopo aver esaminato i referti delle analisi svolte in ospedale, lo staff ha richiesto il trasferimento in una struttura a Mosca, per consentirgli di ricevere un trattamento adeguato alle sue attuali condizioni. Lo stop allo sciopero della fame arriva a seguito delle manifestazioni di mercoledì che secondo i dati di organizzazioni come Ovd-Info hanno portato a un totale di 1.631 arresti in tutta la Russia. Le proteste sono state particolarmente intense a San Pietroburgo, in cui si contano 743 fermi, mentre sono solo 26 quelli registrati a Mosca. Sempre divergenti, invece, i numeri forniti dalle autorità e dallo staff di Navalnyj sulla partecipazione alle manifestazioni: mentre il ministero dell’Interno parla di 6mila persone a Mosca e 4.500 a San Pietroburgo, lo staff dell’attivista riferisce rispettivamente di 10-15 mila e 6-8 mila. Numeri che, anche considerando le grandi manifestazioni in città come Ekaterinburg, Novosibirsk e Omsk, appaiono ridotti rispetto allo scorso gennaio, complice anche il discorso alla nazione di Vladimir Putin mercoledì scorso. Nel frattempo, con la possibilità di nuove manifestazioni nel fine settimana, dalla comunità internazionale proseguono le richieste per il rilascio dell’oppositore, a cui le autorità di Mosca hanno risposto in maniera secca. La portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova ha invitato i “paesi occidentali” a “concentrarsi sui loro problemi”: “Molti associano le sue condizioni a un avvelenamento da armi chimiche: se siete così preoccupati fornite tutto il materiale su ciò che gli è successo, cosa che non è stata ancora fatta”. Nigeria. L’attivista ateo Bala da un anno in prigione di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 24 aprile 2021 È ormai un anno che un attivista ateo, Mubarak Bala, langue dietro le sbarre in una prigione del nord della Nigeria senza processo e neanche incriminazione ufficiale. Era stato arrestato il 28 aprile 2020, poco dopo il matrimonio, con l’accusa di aver criticato il profeta Maometto in un post su Facebook: un atto di blasfemia punibile con la morte, nel nord musulmano e ultraconservatore della Nigeria dove la sharia viene applicata insieme alla legge tradizionale. Oltre ad essere ingegnere in una compagnia elettrica nello stato di Kaduna, il 36enne Bala è il presidente dell’Associazione Umanista della Nigeria, un’organizzazione che si definisce “la via dell’umanesimo nel mondo”. Cresciuto in una famiglia musulmana tradizionale, con un padre poligamo e una madre che ha avuto nove figli, l’uomo da adulto ha smesso di credere in Dio e ha deciso di combattere i movimenti estremisti salafiti che prosperano nel Paese. Già nel 2014, la sua battaglia lo aveva portato a essere internato per volontà della famiglia in un ospedale psichiatrico per 18 giorni. Ma questo episodio non lo aveva scoraggiato e aveva continuato a fare campagna soprattutto sui social network dove sostiene che “non c’è vita dopo la morte”. Ancor più dell’ateismo, è soprattutto il suo attivismo a disturbare i religiosi, il cui potere e la cui influenza sono immensi nel nord del Paese più popoloso dell’Africa, ha sostenuto Leo Igwe, difensore dei diritti umani e fondatore dell’associazione umanista. Nel maggio 2020, i suoi avvocati avevano presentato una domanda all’Alta Corte federale di Abuja per chiedere il suo rilascio, poi ottenuto solo sulla carta a dicembre, quando il tribunale ha ordinato alla polizia di rilasciarlo su cauzione senza però che l’ordine fosse eseguito. Il Relatore speciale Onu sulla libertà religiosa, Ahmed Shaheed, si dice “molto preoccupato per la persecuzione dei non religiosi in Nigeria”: nei paesi in cui “le leggi della Sharia sono mantenute in parallelo anziché essere subordinate ai tribunali ordinari, assistiamo a violazioni dei diritti fondamentali molto frequenti e preoccupanti”, ha dichiarato Shaheed.