Fine pena mai, così lo Stato nasconde i suoi fallimenti di Giovanni Russo Spena e Gianluca Schiavon Left, 23 aprile 2021 Un imprevisto comunicato della Consulta nel pomeriggio del 15 aprile ha annunciato la incostituzionalità, per ora virtuale, della norma prevista dall’art, 4bis dell’ordinamento penitenziario. Il titolo della nota è risultato tanto perentorio nel tono quanto problematico: “Ergastolo ostativo incompatibile con la Costituzione ma occorre un intervento legislativo. Un anno di tempo al Parlamento”. La Corte costituzionale ha scelto, dopo una camera di consiglio, evidentemente combattuta, di emettere un’ordinanza con cui impone alle Camere una riforma che permetta di abrogare il ‘fine pena mai’ per persone risocializzate, benché non abbiano collaborato con le Procure della Repubblica, conciliando ciò con l’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata. Con questa ordinanza la Corte ha rinviato la propria decisione dismettendo temporaneamente i panni di giudice delle leggi per trasformarsi nel più autorevole suggeritore del potere politico, sapendo che la maggioranza parlamentare molto difficilmente accoglierà il monito. Si tratta di una decisione analoga a quella presa con l’ordinanza n. 207 del 2018. Essa sancì l’incostituzionalità del delitto di aiuto al suicidio sul caso Cappato nei confronti DJ Fabo rinviando a un Parlamento inerte. L’annullamento della norma fu, quindi, pronunciato un anno dopo con la sentenza n. 242/2019. La disamina tecnica sulla scelta della Consulta non poteva essere omessa per far capire la durezza dello scontro politico e culturale sullo sfondo. Non si tratta di contrastare la canea delle posizioni reazionarie di Salvini, Meloni e Bonafede in forza della quale certezza del diritto penale consiste nel “far marcire in galera” persone. Si tratta di ribadire che pene detentive perpetue sono “trattamenti contrari al senso di umanità” e non “tendono alla rieducazione del condannato” come prescritto dall’art. 27 comma 3 della Costituzione. Costituiscono, inoltre, trattamenti “inumani e degradanti”, contrari all’art.3 Convenzione europea dei diritti dell’uomo, pene prive di controllo giurisdizionale in base alla presunzione di irrecuperabilità del reo. Simile presunzione impedisce una equilibrata e concreta valutazione sul percorso di riabilitazione e ravvedimento del Tribunale di Sorveglianza. Per questo va cancellata. L’effetto dell’annullamento normativo non beneficia i capimafia o i terroristi religiosi di un privilegio. L’effetto consiste, invece, nel trattare con senso di umanità persone che hanno già scontato 26 anni di carcere duro, hanno adempiuto alle obbligazioni civili (come recita l’art. 176 del codice penale), sono state, e sono, oggetto di attenta valutazione di poliziotti, magistrati ed esperti in pedagogia e criminologia. Privilegio che, semmai, sta altrove: nelle persone cui non si applica, a parità di condanne, l’ergastolo ostativo. Persone che, collaborando con l’amministrazione della giustizia, hanno ottenuto valutazioni più benevole dal giudice evitando il trattamento e a fine pena sono ricadute nella consumazione di gravissimi reati. Bisogna, infine, ricondurre alla sola guerra alle mafie gli strumenti di massima repressione dei comportamenti illegali. Non si può continuare a inseguire l’onda del sensazionalismo creato da singoli eventi per estendere arbitrariamente a un novero sempre più ampio di reati l’esecuzione penale più afffittiva e la riduzione delle garanzie processuali. Così facendo lo Stato nasconde i suoi fallimenti: aver permesso alla criminalità di proliferare rinunciando di combatterla sul piano sociale ed economico, non aver provato l’attività difficile, ma appagante, di risocializzare con misure alternative. E il reo resta solo in galere anguste e sovraffollate, deresponsabilizzato dalla società civile indifferente dal suo percorso di formazione alla quale non può pagare il conto. Il diritto a una pena riabilitativa di Anna Lisa Antonucci L’Osservatore Romano, 23 aprile 2021 La figura del Garante nazionale delle persone private della libertà, di breve istituzione in Italia, nasce dall’esigenza di “vedere” all’interno di una realtà chiusa com’è quella del carcere. “Un mondo troppo spesso chiuso in sé stesso, visibile solo al suo interno e opaco all’esterno, perché questa è ancora la logica che ne governa regole, ritmi e quotidianità, anche nelle situazioni migliori”. A spiegare il compito di questa Istituzione, nata nel 2016, è stato il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, nella sua Conferenza istituzionale all’Accademia nazionale dei Lincei. L’opera del Garante si richiama a quel “bisogna aver visto” pronunciato da Piero Calamandrei nel sostenere, il 27 ottobre 1948 alla Camera dei deputati, il proprio ordine del giorno sulla previsione di una Commissione d’indagine sulle carceri e sulla tortura. “È nella capacità di vedere - ha detto Palma - che nasce l’efficacia concreta dell’azione e dei pronunciamenti del Garante”. Dunque è attraverso la sistematicità delle proprie visite, che il Garante nazionale pone l’attenzione ai diritti delle persone ristrette e alla possibilità del loro concreto esercizio, perché - ha aggiunto Palma - “i parametri giuridici non valgono da soli a costituire la base per un effettivo godimento dei diritti”. “L’obiettivo del lavoro del Garante è, quindi, la riduzione della persistente distanza che separa i diritti affermati e i diritti agiti nella concretezza di questi luoghi implicitamente poco trasparenti”, ha aggiunto. Ma se “occorre intervenire per migliorare molti aspetti della materialità quotidiana del vivere interno e, tra questi, la costrizione in spazi angusti e densi di altre difficili vite”, secondo Palma, è importante dare alla commissione di un delitto “una risposta che non sia solo sottrattiva”, ma che abbia “una dimensione progettuale, che possa avere una parte, in taluni casi anche ampia, di privazione della libertà e che però non perda la finalità di un ritorno consapevole e diverso al contesto esterno nonché una visione del percorso per giungere a tale meta”. Invece, ad oggi, “sono circa mille le persone in carcere per scontare una pena inflitta della durata inferiore a un anno e altre più di duemila una pena compresa tra uno e due anni: una popolazione detenuta sempre più connotata dalla preponderanza di autori di reato che eseguono sentenze di breve durata e che entrano in carcere con frequente ripetitività”. Questa realtà cosiddetta di “porta girevole” per le continue entrate e uscite dal carcere esclude la possibilità di “sviluppare un percorso rieducativo all’interno di questo mondo chiuso e rischia per un settore considerevole di persone ristrette di vanificare la tendenza rieducativa della pena”. In questo senso, dunque, “pene di tipo diverso, di carattere reintegrativo, interdittivo o propositivo, di utilità sociale - ha detto Palma - potrebbero avere maggiore incisività rispetto al rischio di reiterazione del reato”. Ma il problema è anche che “nonostante esistano misure che permettono di avere accesso a forme alternative alla detenzione per pene molto brevi”, ha sottolineato il Garante, si registra una presenza altissima di persone che a esse non accedono. “Non vi accedono perché prive di una rete sociale di supporto o di una difesa adeguata o anche per la non conoscenza di tali possibilità: la differenza sociale che ne caratterizza la vita esterna trova un’amplificazione nella relazione con il sistema della giustizia penale”. E tra le cause evidenziate dal Garante c’è “la crisi del modello di welfare che si è compiuta con la drastica riduzione di servizi in grado di prevenire e armonizzare il disagio economico e individuale”. Ciò, oltre a respingere di fatto al di là delle mura della segregazione chi è rimasto privo di reti solide di sostegno, non solo materiale, “ha reso spesso privo di significato il termine “rieducazione” nella concretezza dell’esecuzione penale”. Da qui, “la presenza ripetuta di brevi detenzioni per reati seriali anche di minore rilevanza, ma di forte incidenza sulla percezione di sicurezza collettiva o per reati connessi a stili di vita”, ne è un esempio il numero di persone in carcere per detenzione e spaccio di lieve entità di sostanze psicotrope. Dunque, ha aggiunto Palma, “è un diritto del detenuto che l’esecuzione penale sia effettivamente indirizzata alla finalità che la Costituzione le assegna”. Per questo ogni punizione deve sempre avere la dimensione del futuro. “In primo luogo nella direzione del non volere che quanto avvenuto possa ripetersi, ma parallelamente nella direzione della ricomposizione del tessuto ordinato che il reato ha spezzato, riannodando fili lacerati, recuperando così per la sanzione penale una dimensione non meramente inibente, ma in grado di ricostruire” ha concluso il Garante. Ultima mano di poker a tre sull’ergastolo ostativo di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2021 parafrasando il linguaggio del poker, si potrebbe dire che nella vicenda dell’ergastolo ostativo l’Avvocatura dello Stato ha fatto una specie di “apertura al buio” e poi la Consulta un “parol”. E sì, perché l’Avvocatura ha chiesto alla Corte una sentenza che - senza dichiarare l’incostituzionalità della norma impugnata - la interpretasse, nel senso che il giudice di sorveglianza debba verificare in concreto quali sono le ragioni che non consentono la condotta collaborativa. Ma se manca il pentimento (unico elemento obiettivo che consente una valutazione affidabile), ci si consegna alla tattica del condannato e si brancola appunto nel buio. Per parte sua, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, ma ne ha differito di un anno gli effetti passando la parola a un altro (il legislatore), una mossa che si chiama appunto “parol”. Un “parol” che in questo caso dura un anno, giusto il tempo per arrivare al maggio 2022, quando cadrà il 30° anniversario delle stragi di mafia del 1992. Ma la vicenda è troppo seria, terribilmente seria, per giochi di parole. Andiamo dunque alle vere, concrete questioni che pone l’ordinanza pronunziata dalla Corte costituzionale il 15.4.2021. Molto è già stato detto e scritto (sulla base di un comunicato ufficiale cui seguirà la motivazione). E tuttavia su alcuni punti conviene ritornare. 1. Secondo la Corte, l’ergastolo ostativo per i mafiosi non pentiti è incostituzionale per violazione di tre norme: gli artt. 3 e 27Costituzione e l’art. 3 Convenzione Europea Diritti dell’Uomo. Quest’ultimo punto mi sembra contestabile. La realtà della condizione carceraria dei mafiosi è ben lontana dalla tortura, come dal trattamento inumano e degradante. Uno spaccato della situazione si trova nel volume “Lo Stato illegale” (Caselli, Lo Forte - Laterza ed.): ai mafiosi carcerati in difficoltà economiche “l’impegno è di ‘darci’ dai tre ai quattro appartamenti ciascuno”; i costruttori “debbono ‘uscire’ questi appartamenti”; “se qualcuno labbia’ è un infame” e “gliela si deve far pagare”; a tutti i carcerati spetta un “mensile” per le spese correnti; un boss può arrivare a spendere “venti milioni al mese di avvocato, vestiti, libretta’ e colloqui”. Proprio una vita grama non è. Certo si tratta di uno spaccato che non fotografa la condizione carceraria dei mafiosi in tu naia sua complessità, ma è quanto basta per dubitare fortemente che si possano utilizzare le categorie della tortura o dei trattamenti vietati dalla Cedu. Quanto alla nostra Costituzione, nulla da eccepire (ci mancherebbe!) circa la fondamentale rilevanza dei principi di uguaglianza e di redenzione. Sono indiscutibili conquiste di civiltà che caratterizzano una democrazia. Ma si può dire che la Costituzione non è un bancomat? Si può dire che i mafiosi sono di fatto convinti di appartenere a una razza superiore, quella che si autodefinisce degli “uomini d’onore”? Si può dire che considerano tutti gli altri non persone, ma oggetti disumanizzati da asservire? In altre parole, si può dire che con la pratica sistematica dell’intimidazione e dell’assoggettamento (art. 416 bis) i mafiosi si mettono sotto le scarpe tutti i valori della Costituzione e si pongono fuori della sua area? Si può dire che per rientrarvi devono offrire prove certe di ravvedimento e che la rinunzia allo status di uomo d’onore mediante il pentimento è l’unica condotta univoca al riguardo? Nel film “Il rapporto Pelican”, un’impareggiabile Julia Roberts, nel ruolo di una studentessa di Legge, al professore che le chiede perché la Corte suprema non abbia deciso una certa questione secondo la sua opinione, risponde “forse perché la Corte ha sbagliato”. Non oso arrivare a tanto, epperò... 2. Passando la “patata bollente” al legislatore per una nuova legge, la Corte ha fissato alcuni paletti (la mafia ha una sua “specificità” rispetto alle altre condotte criminali associative; la collaborazione di giustizia è un valore da preservare) e ha spiegato il “parol” col rischio “di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Equivale a riconoscere che bisogna fare molta attenzione a toccare una componente dell’architettura complessiva antimafia, se si vuole evitare che questa crolli tutt’intera. Dei paletti e di questo contesto, il legislatore non potrà non farsi carico, salvo preferire che restino solo macerie e la soddisfatta allegria dei mafiosi. 3. Sembra di assistere a una specie di work in progress nella demolizione dell’ergastolo ostativo. Nel senso che già nel 2019 la Consulta gli aveva dato un bel colpo di piccone, ammettendo ai “permessi premio” anche gli ergastolani mafiosi non pentiti, e questa volta senza alcun differimento. Sicché fin dal 2019 si sono aperti ai mafiosi non pentiti spazi di libertà, con la possibilità di approfittarne per rientrare in un modo o nell’altro - rafforzandolo - nel giro delle attività criminali tipiche della mafia (dalla droga agli appalti truccati, con il “corredo”, se necessario, della violenza). Un segnale che la mafia può registrare al suo attivo. Nel contempo, una falla nell’antimafia che il legislatore potrebbe valutare quando interverrà per effetto dell’ordinanza della Consulta sulla liberazione condizionale. Sta di fatto che qualcuno comincia a chiedere ai magistrati di sorveglianza di darsi una mossa. Si è rivolto loro, ad esempio, Stefano Anastasia, garante dei detenuti per il Lazio, perché “comincino a valutare le richieste di permessi premio degli ergastolani (ex)ostativi, in modo che magari, tra un anno, qualcuno possa presentare domanda di liberazione condizionale con speranza di successo”. Come a dire che una cosa tira l’altra. 4. Non è simpatico tirare per la giacca i magistrati di sorveglianza. Escludere l’automatismo (niente pentimento/niente benefici) significa delegare alla discrezionalità del magistrato se concedere o meno il permesso premio. Ma agli occhi del mafioso - poco avvezzo ai “distinguo” - il giudice che nega un possibile permesso diventa un “nemico”. Automaticamente (anche questo automatismo dovrebbe preoccupare...), con tutte le possibili nefaste conseguenze che sono purtroppo la storia di Cosa Nostra, storicamente impegnata sul versante che “i nostri in carcere li dobbiamo cercare in qualunque maniera di accontentarli”. Il 30 scadono le misure deflattive, OdG di Giachetti sulla liberazione anticipata speciale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 aprile 2021 Il 30 aprile scadranno le misure “deflattive” per il carcere ai tempi del Covid. Parliamo di quei provvedimenti previsti dal decreto legge numero 7 del 2021 che finora non sono risultati sufficienti. Il sovraffollamento ancora persiste e con tutte le criticità che ne conseguono. Non a caso il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti ha depositato un ordine del giorno sulla liberazione anticipata speciale. Ricordiamo che è in discussione alla Camera il disegno di legge di conversione del decreto 13 marzo 2021, n. 30. Ed è lì che sono contemplate anche le misure per quanto riguarda il carcere. Rita Bernardini costretta a sospendere lo sciopero della fame - C’è Rita Bernardini del Partito Radicale, non a caso ispiratrice del primo emendamento proposto (e rimasto inevaso) da Giachetti proprio sulla liberazione anticipata speciale, che ha inviato una lettera alla ministra della Giustizia Marta Cartabia sulle emergenze che attraversano le carceri. Allegati alla lettera tutti i nomi e i “memento” di coloro che dal 26 gennaio al 27 aprile hanno preso parte all’ora d’aria sotto il ministero della Giustizia. Una iniziativa dialogante e costruttiva. Ogni giorno, diverse persone di spessore, con esperienza nel mondo penitenziario, giornalisti e giuristi, hanno passeggiato assieme a Bernardini per esporre il proprio pensiero sulle storture del sistema giudiziario e penitenziario. L’ esponente radicale, chiusa l’esperienza del “memento”, ha anche avviato uno sciopero della fame, ma il medico Mario Pepe le ha consigliato di interrompere subito il digiuno in quanto presenta disturbi del ritmo cardiaco (tachiaritmia parossistica) da scompenso elettrolitico. Bernardini, considerando i precedenti che tre anni le portarono in terapia intensiva a seguito di un lungo sciopero della fame, ha deciso di sospendere il digiuno. Ma il dialogo con la Ministra prosegue, tanto da inviarle una lettera che ha reso pubblica. La lettera di Bernardini alla ministra Cartabia - “Egregia Ministra Marta Cartabia - scrive l’esponente radicale -, ci tengo a trasmetterle i nominativi delle persone che da lunedì 19 aprile hanno iniziato con me il digiuno di dialogo sulla situazione penitenziaria. È importante che queste persone, in massima parte mogli o figlie di detenuti, scelgano il metodo nonviolento per portare avanti l’iniziativa. So, per pratica di decenni insieme a Marco Pannella, che per i grandi media fanno più notizia le rivolte o le manifestazioni violente, ma continuo a credere che i mezzi usati prefigurino i fini e che, come predicava e praticava Gandhi, occorre sforzarsi (e non è facile) di “essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo”. Liberazione anticipata pari a 75 giorni per ogni semestre di pena - Ma ritorniamo all’ordine del giorno del deputato Roberto Giachetti. Impegna il governo ad introdurre, in via temporanea e per un periodo di due anni, dell’istituto della liberazione anticipata pari a 75 giorni per ogni semestre di pena, non applicabile ai condannati ammessi all’affidamento in prova, alla detenzione domiciliare o a quelli che siano stati ammessi all’esecuzione della pena presso il proprio domicilio. Ovvero - si legge nell’ordine del giorno - “per quanto riguarda i condannati che, a decorrere da dicembre 2015, abbiano già usufruito della liberazione anticipata, del riconoscimento per ogni singolo semestre della maggiore detrazione di trenta giorni, sempre che nel corso dell’esecuzione successivamente alla concezione del beneficio abbiano continuato a dare prova di partecipazione all’opera di rieducazione”. Non sono boss di mafia, continuano a mandarli al 41bis, ma la Consulta lo ha vietato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 aprile 2021 Lo ha detto in Antimafia il segretario Uilpa De Fazio e la Consulta nel 1997 ha ribadito che i ricorsi al 41bis devono essere “concretamente giustificati”. Si ricorre troppo spesso al 41bis, con il rischio di rinchiudere anche persone che dovrebbero stare in alta sicurezza. Il rischio? “Paradossalmente, inflazionando l’assegnazione ai predetti circuiti si finisca per immettervi soggetti estranei alla criminalità organizzata e che, da un lato, potrebbero essere da quest’ultima “arruolati”, dall’altro, sviliscano lo scopo di ridurre i contatti e le possibilità di comunicazione dei boss”. A dirlo innanzi alla commissione nazionale Antimafia è Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-pa Polizia Penitenziaria. Ciò che ha osservato in commissione il segretario della Uil-pa è di particolare rilievo. I condannati per reati di tipo associativo sono ristretti nelle sezioni di alta sicurezza - Il 41bis, ricordiamo, nasce per rinchiudere i boss mafiosi, quelli che potenzialmente possono dare ordini all’esterno indirizzati al proprio gruppo di appartenenza. L’alta sicurezza, invece, è una sezione del carcere in cui sono riuniti tutti i condannati per reati di tipo associativo (mafia, traffico di droga, etc.), che sono sottoposti ad una sorveglianza più stretta rispetto ai detenuti comuni. “Sempre più spesso, del resto, - ha osservato De Fazio in commissione - si ha la sensazione che si ricorra all’applicazione dell’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario proprio perché l’Alta Sicurezza non offre sufficienti garanzie”. Il 41bis non può essere dato con estrema facilità visto la sua eccezionalità - Appare quindi che la magistratura abbia questo tipo di percezione e per questo ricorre sempre più spesso al 41bis. Ma se così fosse, viene meno la ratio del carcere duro che non può essere dato con estrema facilità visto il suo carattere - almeno sulla carta - eccezionale. Eppure, l’alta sicurezza è un regime certamente non morbido. Il rapporto tematico redatto dal garante nazionale delle persone private della libertà, ci aiuta a capire di che cosa stiamo parlando. Si apprende che le sezioni del circuito di Alta sicurezza (As) sono state istituite con il “compito di gestire i detenuti e gli internati di spiccata pericolosità, prevedendo al proprio interno, tre differenti sotto-circuiti con medesime garanzie di sicurezza e opportunità trattamentali”. Esse sono definite con un Atto amministrativo e non con una norma di carattere primario. La decisione di prevedere tre sotto-circuiti nasce, nel 2009, dall’esigenza, specificata nella citata circolare, di rispondere alla eterogeneità dovuta alle differenti connotazioni di natura criminale alla base della presenza delle persone nell’allora circuito “Elevato indice di vigilanza”, da quel momento sostituito dal circuito dell’Alta sicurezza. La Consulta, già nel 1997, ha chiarito che i ricorsi al 41bis devono essere “concretamente giustificati” - Ciò che ha denunciato De Fazio, se fosse vero, è grave. Va contro alcune sentenze della Corte costituzionale. La Consulta, nella sua sentenza n. 376 del 1997, ha espressamente detto che i ricorsi al 41bis devono essere “concretamente giustificati in relazione alle predette esigenze di ordine e sicurezza”. Poiché - afferma la Corte - “da un lato, il regime differenziato si fonda non già astrattamente sul titolo di reato oggetto della condanna o dell’imputazione, ma sull’effettivo pericolo della permanenza di collegamenti, di cui i fatti di reato concretamente contestati costituiscono solo una logica premessa; dall’altro lato, le restrizioni apportate rispetto all’ordinario regime carcerario non possono essere liberamente determinate, ma possono essere - sempre nel limite del divieto di incidenza sulla qualità e quantità della pena e di trattamenti contrari al senso di umanità - solo quelle congrue rispetto alle predette specifiche finalità di ordine e di sicurezza. Non vi è dunque una categoria di detenuti, individuati a priori in base al titolo di reato, sottoposti a un regime differenziato: ma solo singoli detenuti, condannati o imputati per delitti di criminalità organizzata, che l’amministrazione ritenga, motivatamente e sotto il controllo dei Tribunali di sorveglianza, in grado di partecipare, attraverso i loro collegamenti interni ed esterni, alle organizzazioni criminali e alle loro attività, e che per questa ragione sottopone - sempre motivatamente e col controllo giurisdizionale - a quelle sole restrizioni che siano concretamente idonee a prevenire tale pericolo, attraverso la soppressione o la riduzione delle opportunità che in tal senso discenderebbero dall’applicazione del normale regime penitenziario”. Giustizia e futuro. Il Recovery cambierà anche la prescrizione di Ermes Antonucci Il Foglio, 23 aprile 2021 Tempi certi e controlli forti per evitare indagini eterne. Svolta garantista nel Recovery. Riduzione dei tempi dei processi penali (in particolare con la definizione di tempi certi per le indagini preliminari), riduzione del numero dei procedimenti, miglioramento dell’organizzazione dell’attività degli uffici giudiziari (con una maggiore responsabilizzazione dei dirigenti), riforma del sistema elettorale e del funzionamento del Consiglio superiore della magistratura. Sono i quattro punti principali della riforma della giustizia contenuta nel Piano nazionale di ripresa e resilienza elaborato dal governo (Pnrr), che il Foglio è in grado di anticipare. Il Pnrr sarà varato nelle prossime ore dal Consiglio dei ministri, per poi essere presentato in parlamento la prossima settimana ed essere inviato a Bruxelles entro il 30 aprile. La riforma, predisposta dalla Guardasigilli Marta Cartabia, si pone come primo obiettivo quello di ridurre i tempi (spesso biblici) della giustizia penale italiana, da tempo al centro di preoccupazioni delle istituzioni europee e “condannata” da statistiche che evidenziano una durata dei processi nel nostro Paese di molto superiore alla media europea. “Una eccessiva durata del processo reca pregiudizio sia alle garanzie delle persone coinvolte - indagato, imputato e vittima/persona offesa - sia all’interesse dell’ordinamento all’accertamento e alla persecuzione dei reati”: è questa la considerazione di partenza della riforma, che mira a “rendere più efficiente il processo penale e ad accelerarne i tempi di definizione”. Accanto a interventi in settori ormai “classici” (come la semplificazione e la razionalizzazione del sistema degli atti processuali e delle notificazioni, in particolare con “l’adozione e diffusione di uno strumento telematico”, e l’ampliamento della possibilità di ricorrere ai riti alternativi), spicca la previsione di misure volte a garantire tempi certi alla fase delle indagini preliminari, quella in cui notoriamente si consuma maggiormente il fallimento della giustizia italiana (circa il 60 per cento dei procedimenti finisce in prescrizione prima del dibattimento). A tal proposito, il piano prevede la rimodulazione dei termini di durata e della scansione termini, il controllo giurisdizionale sulla data di iscrizione della notizia di reato e l’adozione di misure per promuovere organizzazione, trasparenza e responsabilizzazione dei soggetti coinvolti nell’attività di indagine. Insomma, tempi certi e controlli rigorosi per evitare che le indagini durino in eterno. Nel testo vengono poi definiti interventi tesi a ridurre il numero dei procedimenti, in particolare intervenendo sulla procedibilità dei reati, sulla possibilità di estinguere alcune tipologie di reato mediante condotte riparatorie a tutela delle vittime, e sull’ampliamento dell’applicazione dell’istituto della particolare tenuità del fatto. In questo ambito, specifica la riforma, vengono prese in considerazione eventuali iniziative concernenti la prescrizione del reato, inserite in una cornice razionalizzata e resa più efficiente, dove la prescrizione non rappresenti più l’unico rimedio di cui si munisce l’ordinamento nel caso in cui i tempi del processo si protraggano irragionevolmente. Un inciso che sembra finalizzato soprattutto a rassicurare la compagine grillina, sensibile al tema della prescrizione e contraria a qualsiasi ipotesi di revisione della legge Bonafede (con processi rapidi non ci sarà bisogno di toccare la legge, sembra essere la logica di fondo della riforma). Il piano mira anche a migliorare l’organizzazione dell’attività degli uffici giudiziari. Due sono le principali novità. Da un lato, l’estensione, anche al settore penale, dei programmi di gestione volti a ridurre la durata dei procedimenti e definire gli obiettivi di rendimento dell’ufficio, e che impongono il rispetto dei criteri di priorità, stabiliti secondo specifiche linee guida definite dal Consiglio superiore della magistratura (punto quest’ultimo di grande rilevanza, che punta a superare la situazione attuale in cui, nella sostanza, ogni procura individua in modo diverso i propri criteri di priorità nell’azione penale). Dall’altro lato, si prevede una maggiore responsabilizzazione del dirigente dell’ufficio giudiziario, al quale spetterà il compito di monitorare costantemente l’andamento delle pendenze e di intervenire per garantire l’efficienza dell’ufficio. A tal fine si prevede anche una riforma del procedimento di selezione e di conferma dei dirigenti degli uffici e delle sezioni, per consentire che questi siano effettivamente diretti da magistrati dotati delle migliori capacità e delle professionalità necessarie. Prevista, infine, anche una riforma del meccanismo di elezione dei componenti del Csm e una rimodulazione dell’organizzazione interna dell’organo. Su questo, la riforma si limita per il momento a stabilire l’obiettivo generale dell’intervento: “Garantire un autogoverno improntato ai soli valori costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità della giurisdizione”. Il ricordo dello scandalo delle cosiddette nomine pilotate al Csm è ancora vivo. Durata dei processi e arretrati. Ecco i nodi critici del Recovery di Monica Musso Il Dubbio, 23 aprile 2021 Oggi in Consiglio dei ministri le linee guida del piano. Tra le sei missioni anche una riforma della Pubblica Amministrazione. Eccessiva durata dei processi e forte peso degli arretrati giudiziari: sono questi i due nodi critici inseriti nel Recovery Plan per quanto riguarda la Giustizia, la cui riforma, si legge nelle linee guida che verranno analizzate oggi a Palazzo Chigi, opera principalmente attraverso due leve: digitalizzazione e riorganizzazione e revisione del quadro normativo e procedurale. Per quanto riguarda la prima linea d’azione, il governo punta ad assunzioni mirate e temporanee per eliminare il carico di arretrati e casi pendenti, nonché per la completa digitalizzazione degli archivi, nonché al rafforzamento dell’Ufficio del processo. Nel secondo caso l’obiettivo è un aumento del ricorso a procedure di mediazione, con la valorizzazione delle procedure alternative di risoluzione delle dispute e interventi di semplificazione sui diversi gradi del processo. Le sei missioni del Piano nazionale di ripresa e resilienza prevedono anche una riforma della Pubblica amministrazione. Nel documento vengono citate altre riforme giudicate ‘abilitanti’, come le semplificazioni per la concessione di permessi e autorizzazioni e interventi sul codice degli appalti. Sono 39 gli assi su cui sviluppare gli interventi, a loro volta suddivisi in 135 investimenti e sette riforme. Tra queste tre riguardano la pubblica amministrazione (trasformazione, accesso e competenze), poi c’è la riforma del sistema della proprietà industriale, quella della formazione obbligatoria per la scuola, le politiche attive del lavoro e la riforma della medicina territoriale. Il monitoraggio è nelle mani del ministero dell’Economia. È prevista la “responsabilità diretta delle strutture operative coinvolte: ministeri ed enti locali e territoriali per la realizzazione degli investimenti e delle riforme entro i tempi concordati e la gestione regolare corretta ed efficace delle risorse”, si legge nella bozza di presentazione del Piano. “Monitoraggio, rendicontazione e trasparenza - continua la bozza- incentrate al ministero dell’Economia che monitora e controlla il progresso dell’attuazione di riforme e investimenti e funge da punto di contatto unico per le comunicazioni con la Commissione Ue”. La digitalizzazione prevede una spesa di oltre 40 miliardi, su un totale di 221,5 miliardi: 191,5 inquadrati nel Recovery fund e 30 derivanti dal fondo complementare. Il Governo propone “un approccio integrato” tra Piano nazionale e fondo, con “medesimi obiettivi e condizioni” u. L’Unica differenza rilevante, continua la bozza, è che non è previsto “nessun obbligo di rendicontazione a Bruxelles e possibilità di scadenze più lunghe rispetto al 2026 in alcuni casi”. Sei le missioni: a digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura, vanno 42,5 miliardi; a rivoluzione verde e transizione ecologica vanno 57 miliardi; 25,3 miliardi vanno a infrastrutture per la mobilità sostenibile con 25,3 mld; 31, 9 miliardi a istruzione e ricerca; 19,1 miliardi a inclusione e coesione e poi salute con 15,6 mld. Alla riunione della cabina di regia di ieri mattina, il Pd ha chiesto “attenzione alle clausole per l’occupazione delle donne e dei giovani, al Mezzogiorno, al contrasto del lavoro nero, il potenziamento del progetto per l’autosufficienza, la garanzia sulla sicurezza per il cloud dei dati pubblici, la richiesta di chiarimento sulla strategia per la rete unica”. Da Forza Italia, invece, la richiesta di puntare sulla Riforma della Pa, sul Sud, infrastrutture e grandi opere. L’attenzione, all’interno di FI, è massima inoltre sui temi del welfare per le famiglie; la montagna e le aree interne, l’occupazione giovanile e il lavoro delle donne. Infine, viene rimarcata la necessità di coinvolgere le Regioni e gli enti locali nell’attuazione del Recovery. Alla sanità arriveranno in totale 19,72 miliardi di euro: 15,6 dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, 1,71 dal React Eu per la politica di coesione e 2,39 dal Fondo complementare. Lunedì e martedì il premier Mario Draghi illustrerà il piano alle Camere, che si esprimeranno con un voto dopo la sua informativa. Solo dopo, tra il 28 e il 29 aprile, dovrebbe esserci il secondo Consiglio dei ministri, per l’esame e il voto finale del Pnrr, prima dell’invio alla Commissione europea, in programma per il 30 aprile. Le misure valgono 3 punti di Pil. Previsti investimenti in infrastrutture green, economia circolare e mobilità sostenibile ma anche banda larga oltreché sulla sanità e il rifinanziamento del Superbonus. Per Paolo Gentiloni, commissario europeo per la fiscalità e l’unione doganale, gli audit e la lotta antifrode dal 2019, “è l’inizio di una nuova fase per ricostruire meglio la nostra economia”. Le prescrizioni diminuiscono ma la politica litiga ancora di Giulia Merlo e Filippo Teoldi Il Domani, 23 aprile 2021 In quindici anni il numero di procedimenti prescritti è calato progressivamente. Il nodo rimane quello delle corti d’appello. In maggioranza è scontro per riscrivere la legge Bonafede. La riforma penale è la prima vera sfida in materia di giustizia per il governo Draghi. Il disegno di legge al momento è fermo in commissione Giustizia alla Camera, il testo è quello elaborato dal precedente esecutivo e, oltre agli emendamenti dei membri della commissione, verranno proposte modifiche dalla commissione ministeriale di esperti individuati dalla ministra Marta Cartabia. Il termine per la presentazione degli emendamenti è nuovamente slittato a martedì prossimo, perché i gruppi sono ancora al lavoro per la stesura degli emendamenti. Segno che il numero sarà consistente. All’interno del disegno di legge, il nodo politico più controverso rimane quello sulla prescrizione, ovvero la norma che prevede l’estinzione del reato a fronte dello scorrere del tempo senza che si sia giunti a sentenza definitiva. L’istituto è stato modificato dalla riforma Bonafede, approvata durante il governo Conte I ed entrata in vigore a gennaio 2020, che ha previsto lo stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio, sia per gli assolti che per i condannati. È certo però che questa previsione verrà modificata nel ddl. Come, è ancora tutto da capire. La previsione nel testo base è quella prodotta dall’accordo tra Partito democratico, Leu e Movimento 5 stelle e separa le strade di condannati e assolti, disponendo che la prescrizione riprenda il suo corso nel caso di assoluzione dell’imputato. Pd e Leu puntano ad aggiungere anche un meccanismo di prescrizione processuale, con autonomi emendamenti. L’intenzione è quella di proporre una modifica che non sconfessi interamente il progetto di Bonafede ma che ne corregga alcuni effetti, offrendo garanzie maggiori agli assolti. Obiettivo: “smitizzare” la prescrizione riducendo la durata media dei processi. La prescrizione per fasi processuali riguarderebbe l’appello, con l’ipotesi di sconti di pena in caso di processo con durata superiore ai due anni previsti. Sul fronte opposto, invece, il centrodestra, Azione e Italia viva puntano a cancellare del tutto la riforma Bonafede. Tutti, però, guardano a via Arenula: quando si è insediata, la ministra Cartabia ha chiesto la fiducia dei partiti caricandosi della responsabilità di trovare una sintesi per modificare la norma. E il metodo scelto è quello di diluire la politicità del tema, intervenendo prima di tutto sulla durata dei processi, con l’obiettivo di evitare che il tema della prescrizione - considerato patologia processuale - si ponga. I dati - I dati forniti dal ministero della Giustizia, tuttavia, aiutano a mettere a fuoco come la prescrizione ha inciso fino a oggi nei procedimenti penali. Ma soprattutto se l’istituto è davvero un punto chiave nell’ordinamento oppure se il tema è diventato un punto di scontro più politico che concreto. Il punto di partenza è che il numero delle prescrizioni in Italia è sistematicamente calato nel corso degli anni, con un più che dimezzamento nel corso degli ultimi quindici anni. Centrale è poi individuare la fase in cui i reati si prescrivono: l’andamento nel corso degli ultimi dieci anni evidenzia come siano progressivamente aumentate le prescrizioni nel grado di appello e si siano invece progressivamente quelle nella fase delle indagini preliminari. Tuttavia, la maggior parte delle prescrizioni avvengono comunque tra la fase delle indagini preliminari e il primo grado. Dunque - prendendo in considerazione i dati del 2020 - l’incidenza della legge Bonafede per come è oggi (che sospende la prescrizione dopo la sentenza di primo grado) riguarderebbe circa un quarto delle prescrizioni che si verificano in totale. La prescrizione è una patologia processuale. La ragione per cui si verifica è che lo stato, titolare dell’azione penale, non è riuscito a esercitarla nei tempi previsti e dunque, in virtù del principio della ragionevole durata del processo, la sua pretesa punitiva deve venire meno a causa di un eccessivo trascorrere del tempo. Tra le cause della prescrizione c’è la carenza di organico negli uffici giudiziari, soprattutto nel grado di appello dove il giudizio è sempre collegiale: per un reato che in primo grado è stato giudicato da un giudice solo, in appello ne vanno individuati tre. Per questo è significativo individuare e interpretare, a livello territoriale, dove avviene il maggior numero di prescrizioni in appello. Prendendo in considerazione i dati dei 26 distretti, la mappa dell’Italia si presenta a macchia di leopardo e mostra come il numero delle prescrizioni non abbia correlazione né con la dimensione delle corti, né con la collocazione geografica. Inefficienze - Nel 2020, la media nazionale di incidenza delle prescrizioni in grado d’appello sul totale dei procedimenti definitivi è stata del 26 per cento. I distretti con le maggiori difficoltà sono Roma (49 per cento), Reggio Calabria (48) e Venezia (45). Proprio questo dato è significativo perché si tratta di tre corti diversissime: Roma è la più grande d’Italia con oltre 10mila procedimenti definiti l’anno; Reggio Calabria invece, con poco più di 1100 procedimenti, è omologabile a Caltanissetta che ha invece solo il 3 per cento di prescrizioni; infine Venezia, che conta circa 4.000 procedimenti. Sopra la media nazionale ci sono poi Napoli (39 per cento, su 9 mila procedimenti), Catania e Bologna (33, rispettivamente su 3mila e 6500) e Catanzaro (29 per cento su 2900). Efficienti, invece, sono le corti d’appello medio-grandi come Milano e Palermo (6 per cento di prescrizioni su, rispettivamente, 5.700 e 5.000 procedimenti) e buoni risultati si hanno in tutte le procure siciliane, dove spicca il dato negativo di Catania, mentre le altre tre oscillano tra il 3 e il 6 per cento di prescrizione. La prescrizione come patologia di sistema dunque è un fenomeno “localizzabile”, la cui soluzione - che si traduce in una riduzione dei tempi del contenzioso - potrebbe partire proprio da un’analisi del funzionamento delle singole corti e soprattutto dalle scoperture di organico. Remissione dell’inquirente che dà l’indagato per colpevole? di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 23 aprile 2021 Presunzione d’innocenza, l’idea di Costa. Come intervenire quando a violare la presunzione d’innocenza, nelle dichiarazioni alla stampa, è lo stesso pm titolare dell’indagine? Si tratta della principale sfida posta dalla direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza, che l’Italia ha finalmente recepito. Il deputato di Azione Enrico Costa propone la “remissione” del fascicolo ad altro ufficio. Ma la naturale solidarietà fra magistrati rischia di vanificare il rimedio. Circa un mese fa, su queste stesse pagine, il collega avvocato, deputato di Azione ed ex viceministro della Giustizia Enrico Costa sollevava il problema del mancato rispetto della presunzione d’innocenza all’interno degli assetti giudiziari. Secondo l’onorevole Costa, il principio della presunzione d’innocenza verrebbe costantemente e sistematicamente compresso nonché, per certi versi, violato ogni qual volta venga strumentalizzata, quale oggetto di mediatizzazione, l’azione penale, anche tramite l’anticipazione di atti d’indagine o lo svolgimento di simulazione di processi in tv, esponendo inevitabilmente alla pubblica gogna persone innocenti, rectius, indiscutibilmente innocenti fino alla conclusione dei tre gradi di giudizio o della cosiddetta sentenza passata in giudicato.. O, almeno, così dovrebbe essere ai sensi dei codici sostanziale e di rito. Nota è nel nostro Paese la tendenza a rendere i processi dei veri e propri spettacoli, lanciati in pasto alle opinioni della massa, a consulenti e periti che operano plastiche ricostruzioni e fingono conclusioni, calpestando ogni forma di diritto alla presunzione di innocenza. Ma simili violazioni avvengono in primis, e in maniera più distruttiva per la vita dell’indagato, quando il pubblico ministero tende a mediatizzare il procedimento di sua competenza, allorquando le parole spese dal medesimo dinanzi i microfoni attengono a tempi verbali propri dell’indicativo, più che del congiuntivo o condizionale. “Sono colpevoli di…” in luogo di “pare che siano colpevoli di…”. È vero che chi parla è un magistrato, ma non è il giudicante, viceversa una parte processuale che siede al lato opposto dell’avvocato, la difesa privata. Il rimedio ipotizzato da Costa: la remissione del procedimento - Costa evidenzia un problema, insomma, di cui non si può non condividere l’assunto. In particolare, nella summenzionata intervista, il deputato di Azione propone di introdurre un istituto, che egli stesso definisce “remissione”, con il quale il procedimento passa dal magistrato inquirente macchiatosi di eccessiva eco mediatica a un nuovo ufficio. L’istituto così definito è figlio di un legittimo spirito garantista che, come si evidenziava sopra, viene spesso calpestato. A questo punto però è necessario chiedersi come una cosiddetta “remissione” del magistrato inquirente possa funzionare e se, in concreto, siffatto istituto possa rivelarsi utile per l’indagato. A tal fine procederemo per step secondo quelli che sono i maggiori interrogativi che una simile riforma comporta. La remissione interverrebbe solo nel caso di mediatizzazione del processo o ogniqualvolta ci sia un “calpestamento” della presunzione di innocenza? Probabilmente, sarebbe auspicabile una restrizione dell’ambito di applicazione alla sola mediatizzazione del procedimento o a poche altre evidenti e tassative ipotesi. La ratio è lapalissiana: ampliare eccessivamente l’ambito oggettivo di applicazione della remissione rischia di compromettere il carico per le autorità giudiziarie, le quali, già sufficientemente stressate, si ritroverebbero molto probabilmente invase di richieste di remissione del magistrato inquirente. Per ovviare a ciò pare necessario che i confini dell’istituto ivi ipotizzato siano definiti con precisione chirurgica, non solo per quanto detto poc’anzi, ma anche e soprattutto perché non bisogna dimenticare come il pm sia un magistrato con il compito di rinvenire elementi tanto a carico quanto a discarico del prevenuto (come la Costituzione insegna) e, ancor prima, la verità. Pertanto, così come un avvocato può essere convinto dell’innocenza del proprio assistito, parimenti il procuratore può essere altrettanto convinto della colpevolezza dello stesso, a volte innamorandosi del castello accusatorio al punto da poter manifestare in taluni ambiti simile convinzione, che, inevitabilmente, collide con la presunzione di innocenza. Pertanto, è auspicabile che solo laddove la violazione del diritto alla presunzione di innocenza sia manifestamente palese e manifestamente lesiva per il soggetto indagato/imputato, intervenga l’istituto della remissione, e non già quando il pm eserciti l’azione penale senza aver realmente valutato tutte le circostanze. Come potrebbe essere proposta ed esaminata l’istanza - A questo punto è necessario domandarsi chi abbia la facoltà di azionare l’istituto della remissione. È pacifico affermare, senza eccessive elucubrazioni, che l’istituto possa essere fatto valere dal soggetto che vede lesa la propria presunzione di innocenza, ossia la persona indagata/ imputata, la quale, si ipotizza, potrebbe presentare una istanza dinanzi l’autorità procedente affinché questa si esprima nel merito dell’asserita lesione. In ordine a quest’ultimo aspetto, al fine di non rallentare eccessivamente i procedimenti, è necessario che la questione attorno alla remissione si risolva in breve tempo, anche allo scopo di evitare distorsioni. A tal fine è possibile ipotizzare che, successivamente alla presentazione di una memoria ad hoc ad opera della difesa, l’organo giudicante procedente, esaminata la questione, si esprima sull’accoglibilità o meno, per poi rimandare eventualmente a una successiva udienza per la trattazione nel merito, sentendo le parti entro un termine di giorni dalla presentazione della richiesta. Il vero interrogativo: a chi va trasferito il fascicolo? - In terzo luogo è necessario definire a chi il fascicolo debba tradursi. In ordine a quest’ultimo aspetto, infatti, le insidie non sono poche. Ipotizziamo infatti che, successivamente a un vittorioso esperimento di remissione, il fascicolo sia trasferito ad altro procuratore facente parte della stessa Procura, o della stessa area di competenza. Premesso che il trasferimento del fascicolo nell’ambito dello stesso Tribunale, e quindi Procura, è inevitabile e necessario, a maggior ragione se vi è già un giudice “precostituito per legge”, siffatto rimedio potrebbe finire per risultare del tutto sterile. Si immagini la traduzione di un fascicolo dall’ufficio del procuratore Tizio a quello del procuratore Caio, suo vicino di stanza all’interno dello stesso Palazzo di Giustizia. È evidente che simile trasferimento, in simili casi, rischia di essere sostanzialmente inutile, soprattutto in quei Tribunali di piccole dimensioni in cui il numero di magistrati inquirenti si conta sulle dita di una mano, e laddove un cambio di paternità del fascicolo non garantisce in nessun modo un cambio di atteggiamento nei confronti della causa, visti gli inevitabili legami tra magistrati inquirenti. Pertanto, è nella sostanza utile un cambio formale di paternità del fascicolo? A parere di chi scrive la risposta deve trovare segno negativo, non garantendo simile traduzione del procedimento, oltre tutto, il rispetto di garanzie di innocenza che, in ogni caso, risulterebbero già violate e non più ripristinabili in forza della remissione. È possibile trarre qualche spunto da un istituto già presente nel nostro ordinamento, che è la ricusazione del giudice. La ricusazione interviene in quelle situazioni in cui la presenza del soggetto giudicante è in una posizione tale che ne inficia irrimediabilmente la sua neutralità. In un istituto come quello ipotizzato, invece, la remissione interverrebbe solo una volta dimostrata la violazione del diritto alla presunzione di innocenza da parte del magistrato inquirente, rendendo del tutto vana una traduzione del fascicolo che interverrebbe solo ex post il fatto lesivo. Insomma, posta in questi termini la remissione appare più come una “punizione” per il pm, che un vero rimedio di salvaguardia delle garanzie processuali e non può dirsi uno strumento veramente utile a cui far ricorso, dovendosi le soluzioni ricercare altrove, a maggior ragione se si considera che la contropartita si risolverebbe in un inevitabile appesantimento dei processi e non semplice modifica del codice di rito. *Avvocato, Direttore Ispeg Perché indagare sulla giustizia di Sabino Cassese Corriere della Sera, 23 aprile 2021 Il Consiglio superiore della magistratura non riesce a intervenire ed è ormai diventato un “meccanismo para-parlamentare”, la politica legifera continuamente sul tema moltiplica i reati e non riesce a introdurre sanzioni diverse dal carcere. “Se il pubblico vede i giudici come politici con la toga, la sua fiducia nelle corti e nella legalità può solo diminuire, riducendo il potere delle corti, incluso quello di agire come controllori degli altri poteri”. “La legalità dipende dalla fiducia che le corti siano guidate da principi giuridici, non dalla politica”. Queste due frasi sono state pronunciate il 6 aprile scorso nell’Università di Harvard dal giudice della Corte suprema americana Stephen Breyer in una “Scalia Lecture” su “l’autorità della Corte e il pericolo della politica”. Solo tre giorni dopo, il presidente Biden ha firmato un “Executive Order” con il quale ha istituito una commissione su quel “mostro sacro” che è la Corte suprema americana, suscitando reazioni positive e negative, specialmente da parte di coloro che temono che venga avviato quel “packing” della Corte suprema che aveva tentato, senza successo, negli anni 30 del secolo scorso, il grande presidente Franklin Delano Roosevelt. Non è solo in Italia, quindi, che si discute dei rapporti tra politica e giustizia e non è solo in Italia che si conta su una commissione per studiarli. In Italia, nel luglio 2020 è stata presentata in Parlamento una proposta di legge istitutiva di una Commissione di inchiesta sull’uso politico della giustizia, sulla quale negli ultimi giorni si è riacceso il dibattito. È quindi utile fare qualche riflessione sia sulla legittimità, sia sull’opportunità di un’inchiesta parlamentare sulla giustizia. L’articolo 82 della Costituzione prevede che ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse: non c’è dubbio che quella dei rapporti tra politica e giustizia sia tale. L’argomento che il Parlamento non possa indagare sulla giustizia, perché questa appartiene ad un altro potere, dimostra troppo. Se fosse corretto, i giudici, a loro volta, non potrebbero indagare né parlamentari, né amministratori pubblici, che sono parte, rispettivamente, del potere legislativo e di quello esecutivo. Aggiungo che il Parlamento, nell’esercizio del suo potere di inchiesta, non svolge una funzione legislativa, e che, se negli Stati Uniti, dove la separazione dei poteri è molto più forte che in Italia, il capo del potere esecutivo ha potuto nominare una commissione sul vertice del potere giudiziario, a maggior ragione ciò può essere fatto in Italia, dal Parlamento, sui rapporti tra politica e giustizia. Infine, se il Consiglio superiore della magistratura non affronta il problema, è giusto che sia il Parlamento a interessarsene. Se è legittimo che il Parlamento avvii una inchiesta sui rapporti tra politica e giustizia, è anche opportuno farlo? La situazione della giustizia, oggi, in Italia è peculiare. Da un lato, si assiste a una dilatazione del ruolo dei giudici, dall’altro ad una crescente inefficacia della giustizia. Molti osservatori concordano sul fatto che la magistratura sia diventata parte della “governance” nazionale; che vi sia una indebita invasione della magistratura nel campo della politica e dell’economia; che in qualche caso la magistratura cerchi persino di prendere il posto della politica, controllando anche i costumi, oltre ai reati, proponendosi finalità palingenetiche delle strutture sociali, stabilendo rapporti diretti con l’opinione pubblica e con i mezzi di comunicazione, con una presenza continua nello spazio pubblico. Nella situazione ora descritta, un posto particolare hanno acquisito le procure, tanto che molti esperti parlano di una “Repubblica dei pm”, divenuti un potere a parte, con mezzi propri, che si indirizzano direttamente all’opinione pubblica, rubando la scena mediatica, avvalendosi della “favola” dell’obbligatorietà dell’azione penale, utilizzando la cronaca giudiziaria come mezzo di lotta politica e trasformando l’Italia in una “Repubblica giudiziaria”. Dall’altra parte, mentre la magistratura continua la politica malthusiana di reclutamento e sta dando uno spettacolo penoso per frantumazione correntizia, protagonismo e autoreferenzialità, il processo è in crisi per la sua lentezza. La Commissione sull’efficacia della giustizia, del Consiglio d’Europa, ha valutato che per concludere un processo civile nei tre gradi sono necessari più di 7 anni e per un processo penale più di 3. Così si alimenta la fuga dalla giustizia e imprenditori italiani e stranieri non investono nel timore dell’incertezza del diritto. Il Consiglio superiore della magistratura non riesce ad intervenire, perché ormai diventato “meccanismo para-parlamentare”, che attribuisce i vertici degli uffici giudiziari, in molti casi, sulla base di criteri politici o correntizi, consente troppi incarichi extragiudiziari e permette che oltre 200 giudici svolgano compiti non giurisdizionali nella posizione di “fuori ruolo”, molti persino nel Ministero della giustizia, che è parte del potere esecutivo. Inoltre, il Csm non contrasta una concezione proprietaria della funzione giudiziaria da parte della magistratura e non riesce a valutare i magistrati. Il sistema politico, a sua volta, non è privo di colpe, perché legifera continuamente sulla giustizia, moltiplica i reati, non riesce a introdurre sanzioni diverse dal carcere, tollera mezzi di prova invasivi della vita privata delle persone, dilata l’uso del diritto penale e lascia il campo aperto alle procure; a corto di idee e programmi, ha delegato alla magistratura il controllo della virtù, sottoponendosi anch’esso a tale controllo e rinunciando alle immunità che i costituenti avevano introdotto. Conclusione: è consigliabile avviare una inchiesta parlamentare sul rapporto tra politica e giustizia. Csm rieletto ogni due anni: sì delle correnti, ma così vince Davigo di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 23 aprile 2021 Ok alla proposta della guardasigilli Marta Cartabia che aveva ventilato l’ipotesi di procedere con il rinnovo parziale dei componenti del Consiglio a metà consiliatura. “Il rinnovo parziale dei componenti del Consiglio superiore della magistratura potrebbe essere un buon compromesso”, dichiara il professore Alessio Lanzi, laico in quota Forza Italia, a proposito dell’emendamento sul punto proposto ieri in Plenum durante la discussione del parere sul testo di riforma dell’organo di autogoverno delle toghe e che raccoglie la proposta formulata dalla ministra della Giustizia. Marta Cartabia, nelle linee guida illustrate in Parlamento nei giorni scorsi, aveva ventilato l’ipotesi di procedere con il rinnovo parziale dei componenti del Consiglio a metà consiliatura, quindi ogni due anni. Diversi sarebbero i benefici del rinnovo parziale: maggiore continuità dell’istituzione, non dispersione delle competenze acquisite dai consiglieri in carica, fine delle logiche “spartitorie”. “Il Consiglio valuta positivamente questa proposta di riforma compatibile con l’attuale assetto costituzionale del Csm. Da essa tra l’altro discenderebbero effetti positivi sull’efficienza dell’istituzione sia per la mancata dispersione delle competenze acquisite dai consiglieri in carica sia per la mancata interruzione di operatività legata al rinnovo totale del consiglio”, il testo dell’emendamento firmato dai consiglieri Emanuele Basile Alberto Benedetti, Stefano Cavanna, Michele Cerabona, Filippo Donati Alessio Lanzi e condiviso da Fulvio Gigliotti. L’emendamento è stato approvato con 13 voti a favore, 7 contrari e 5 astensioni. L’emendamento è stato poi integrato da un’aggiunta in cui si chiarisce che il Consiglio “sottolinea la necessità di collegare il rinnovo parziale a una riforma del sistema elettorale tale da garantire il rispetto del pluralismo nella rappresentanza dei consiglieri togati”. Il rischio, infatti, è che senza una modifica del sistema elettorale del Csm vengano premiati i candidati dei gruppi associativi più forti. Un rinnovo parziale dei componenti è già in essere alla Corte costituzionale. L’ultimo ostacolo riguarda l’interpretazione dei “quattro anni” di cui al penultimo comma dell’articolo 104 della Costituzione, se sia da riferirsi ai membri del Csm singolarmente considerati o all’organo nel suo complesso. Con il rinnovo parziale Piercamillo Davigo sarebbe potuto rimanere al Consiglio? Decaduto lo scorso anno per sopraggiunti limiti di età, l’ex pm di Mani Pulite ha sempre sostenuto che la durata del mandato di consigliere del Csm fosse svincolata dal paletto anagrafico. Davigo si è ora rivolto al giudice ordinario dopo che il Consiglio di Stato, confermando la decisione del Tar del Lazio, aveva dichiarato la non competenza del giudice amministrativo sulla questione della decadenza. Il Csm ha approvato questa settimana a maggioranza, con 5 astensioni, una delibera della Commissione verifica titoli che dà mandato all’Avvocatura dello Stato di costituirsi in giudizio. Non sussistono gli estremi “per reputare fondata la domanda volta ad ottenere l’accertamento del diritto alla conservazione della carica di consigliere elettivo del Csm, la condanna del Consiglio superiore della magistratura alla reintegrazione nell’incarico e la disapplicazione o l’annullamento del collocamento fuori ruolo del dottor Celentano (Carmelo, ndr)”, subentrato a Davigo in rappresentanza dei giudici di legittimità. L’udienza al Tribunale di Roma è fissata il prossimo 12 maggio. “Con la riforma, al Csm solo pm…”, le toghe danno ragione agli avvocati di Simona Musco Il Dubbio, 23 aprile 2021 Secondo il plenum, il sistema elettorale previsto dal ddl Bonafede sostituirebbe il peso delle correnti con quello dei notabilati locali. I notabili locali al posto delle correnti. È questo il rischio insito al sistema elettorale previsto dalla riforma Bonafede, secondo il Consiglio superiore della magistratura, in quanto, riducendo i collegi elettorali, agevolerebbe le candidature individuali, garantendo la molteplicità delle provenienze territoriali dei componenti. E ciò senza avere, come esito, “una adeguata rappresentanza”, in seno al Csm, delle funzioni di legittimità e merito, giudicanti e requirenti, bensì rafforzando “il collegamento territoriale tra elettori e eletti”. Il rischio, dunque, sarebbe quello di sostituire al peso delle correnti quello dei notabilati locali. Un parere pesante, quello approvato ieri a maggioranza (18 voti favorevoli, 2 contrari e un astenuto) dal plenum del Csm, che si è espresso sulla riforma nel merito del sistema elettorale dell’organo di autogoverno. Nel documento approvato (di cui è stato relatore il togato Sebastiano Ardita), Palazzo dei Marescialli ha evidenziato che uno dei potenziali vantaggi della riforma sarebbe quello di avvicinare i candidati agli elettori, favorendo la rappresentanza di genere e, infine, promuovendo candidature “non formalmente collegate alle correnti della magistratura”. Ma sarebbero diverse le criticità - ha evidenziato Ardita - che renderebbero tale sistema non idoneo allo scopo, “nonché foriero di effetti distorsivi”. Il consigliere togato ha evidenziato come il sistema maggioritario uninominale, pur assicurando la governabilità, censuri la rappresentatività e il pluralismo, escludendo le minoranze. “Il sistema attuale prevede una composizione del Consiglio, per la parte togata, suddivisa in componenti eletti con funzioni di legittimità e di merito, questi ultimi ulteriormente distinti tra giudicanti e requirenti”, si legge nella relazione. Il tutto allo scopo di garantire la rappresentanza dei diversi saperi ed esigenze della magistratura. Il sistema delineato dal ddl, invece, “prevede che questa suddivisione in categorie sia limitata al minimo, essendo prevista esclusivamente l’elezione di due componenti di legittimità e 18 componenti di merito, senza altre distinzioni”. Previsione fortemente criticata dall’avvocatura, soprattutto tra i penalisti. “Con una certa probabilità - ha sottolineato Ardita nella sua relazione - saranno i magistrati requirenti ad essere sovra rappresentati, per la notorietà e l’esposizione mediatica che spesso si accompagna allo svolgimento di determinate indagini”. Ma non solo: nel parere viene definito “inadeguato” il collegamento tra il territorio e la componente consiliare. Se, da un lato, lo stesso favorisce la conoscenza delle diverse realtà territoriali, “patrimonio utile per lo svolgimento delle funzioni consiliari”, dall’altro è necessario ricordare che il Consiglio “gestisce l’organizzazione della giurisdizione nella sua dimensione nazionale e deve necessariamente rifuggire alle pressioni e alle istanze localistiche”. Motivo per cui, rafforzando il collegamento territoriale tra elettori ed eletti “si corre il serio rischio di sostituire, o peggio, di aggiungere, al peso di gruppi associativi anche quello dei notabilati locali, fenomeno deteriore anche più del correntismo in quanto caratterizzato da opacità di relazioni e da assenza di orizzonte culturale”. Nel corso della discussione di ieri, il togato Nino Di Matteo, ha manifestato la propria contrarietà alla parte della norma relativa al ricollocamento in ruolo dei magistrati che hanno fatto parte del Csm. Per quattro anni, stando al ddl, gli ex consiglieri non potrebbero ambire a ruoli direttivi o semidirettivi. Per Di Matteo si tratterebbe di una sorta di punizione, una norma “manifesto”, che porrebbe magistrati d’esperienza di fronte ad un bivio: scegliere gli occupare una poltrona al Csm o la carriera. Ciò, ha evidenziato Di Matteo - col quale era d’accordo il laico Alessio Lanzi - produrrebbe un chiaro effetto: “Al Csm ambirebbero sempre di più giovani rampanti che hanno avuto già accesso a incarichi direttivi o semidirettivi” o giovani che avrebbero tempo di ambire a posti apicali, infine magistrati a fine carriera, che quindi dopo aver fatto parte del Csm potrebbero ben rassegnarsi a non fare domande per incarichi direttivi o semidirettivi, perché avrebbero terminato il loro impegno in magistratura. Una norma sbagliata, secondo Di Matteo, che disincentiverebbe le candidature e che sarebbe discriminatoria rispetto a quanto previsto per i magistrati eletti in politica, il cui “esilio” durerebbe solo due anni. Ma contro Di Matteo si è scagliato il togato Carmelo Celentano, che ha contestato i l’idea secondo cui i magistrati sarebbero titolari di un diritto a fare carriera. “Dobbiamo abituarci a pensare che non è necessariamente così - ha evidenziato -. Ho aderito a Unità per la Costituzione, moltissimi anni fa, perché nel documento fondativo del ‘79 c’era scritto che bisognerebbe combattere per modificare l’ordinamento giudiziario per prevedere che si possa ricoprire un ruolo apicale solo una volta nella vita. Oggi la degenerazione ci ha portati a questo ed io penso che immaginare una norma che ci aiuti a rompere in questo momento storico è accettabile, proprio per impedire che questa smania di carriera determini quei fenomeni di correntismo che ci troviamo tutti i giorni ad esaminare”. Secondo Lanzi, invece, si tratterebbe di un dato oggettivo: “Il Consiglio sarebbe, di fatto, vietato ad un over 60 che giustamente ritiene di voler usufruire nella sua vita anche di un incarico direttivo. Eliminare questa categoria significherebbe eliminare la possibilità di usufruire di magistrati capaci”. Una scelta assurda, ha concluso. Ma l’emendamento non ha superato il vaglio della maggioranza. Uccidere per gelosia non riduce la responsabilità penale di Bruno Ferraro* Libero, 23 aprile 2021 Può una “soverchiante tempesta emotiva” trasformarsi in una attenuante del delitto di omicidio determinando una riduzione di pena? A questo interrogativo hanno risposto in modo opposto i giudici che si occuparono di Michele Castaldo, reo dell’uccisione di una commessa di origine moldava con cui aveva intrattenuto una breve relazione prima del tragico epilogo a Riccione del 5 ottobre 2016. Sulla base di una perizia psichiatrica, i giudici di primo grado condannarono a 30 anni di reclusione dando quindi una risposta negativa; i giudici di appello andarono in contrario avviso riducendo la pena a 16 anni. La Cassazione annullò con rinvio la seconda sentenza; la Corte di appello ha di recente confermato la condanna a 30 anni. Quindi, nessun valore alla cosiddetta “tempesta emotiva”, piena capacità di intendere e di volere, esclusione di ogni valenza psichiatrica per lo stato psicologico dell’omicida al momento del fatto. Concordo con la valutazione della Cassazione. Il nostro codice penale afferma nell’art.85 che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se al momento in cui lo ha commesso non era imputabile; è imputabile chi ha capacità d’intendere e di volere”. Il successivo art. 88, disciplinando il vizio totale di mente, stabilisce che non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere e di volere. Di seguito l’art. 89 riconosce il diritto ad uno sconto di pena se, sempre in conseguenza di una infermità, la capacità risulti” grandemente scemata”. Tratto comune è dunque la sussistenza di una malattia mentale; ovvero di una infermità di natura patologica non necessariamente permanente ma caratterizzata da una certa stabilità: un’infermità che può essere anche di natura fisica ma che normalmente è di natura psichica, determinando un’alterazione delle facoltà intellettive o volitive o di entrambe. Questa impostazione positivistica, che valorizza solo l’aspetto patologico di impronta psichiatrica, esclude che possa darsi valore processuale alle teorie sociologiche e psicologiche, che porterebbero troppo lontano e finirebbero per giustificare ogni comportamento non conforme alla norma. Quindi, nessun rilievo e nessuna esclusione della capacità per una vasta gamma di situazioni quali: le alterazioni caratteriali, le alterazioni del sentimento, le anomalie riconducibili a nevrosi o psicopatie, l’omosessualità, la pedofilia, le degenerazioni dell’istinto sessuale, la senilità che non trasmodi in demenza senile, le reazioni a corto circuito in cui la reazione del soggetto agente non è proporzionata allo stimolo derivante dalla condotta altrui. Va tenuto conto infine che per l’art. 90 “gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità”. Si tratta invero di una norma che tende a favorire il controllo delle proprie pulsioni e ad impedire troppo facili assoluzioni nei delitti di sangue. Quindi nessuna incidenza sull’imputabilità possono avere le eccitazioni ed i perturbamenti momentanei ed improvvisi: come pure la gelosia se non travalica la sfera puramente psicologica degenerando in uno squilibrio mentale prolungato o transitorio. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Estradizione, il giudice deve attivarsi per ottenere informazioni “individualizzate” di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2021 Le notizie web di taglio generale sulle condizioni delle carceri del Paese estero richiedente vanno appurate anche con richieste suppletive di chiarimenti. La Corte di appello chiamata a decidere sull’esecuzione di un mandato di arresto estradizionale deve attivarsi per ottenere informazioni il più individualizzate possibili, in ordine alla condizione carceraria cui l’estradando andrebbe incontro. Puntuale deve essere perciò l’accertamento della sussistenza o meno della causa ostativa alla consegna, prevista dal primo comma dell’articolo 698 del Codice di procedura penale. Non è sufficiente a far ritenere sussistente il rischio di una detenzione disumana e degradante l’apprensione di notizie dal web non specifiche e su cui l’autorità emittente interpellata sul punto offre, secondo i giudici, risposte generiche. E qui sta il punto affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 15297/2021: se la Corte di appello ritiene non sufficientemente chiaro il quadro di detenzione cui l’estradando sarà sottoposto, anche a causa delle risposte generiche dell’autorità richiedente, essa è tenuta ad attivarsi con contro-richieste mirate ad accertare l’effettiva condizione carceraria in cui l’arrestato si verrà a trovare. Per la mancanza di tale approccio “attivo” del giudice di merito, la Cassazione ha accolto il ricorso della Procura che contestava il diniego all’estradizione, in quanto privo di adeguato esame. Veniva stigmatizzata dalla Procura la passiva ricezione di notizie sul web da parte dei giudici e senza contro-argomentare alle informazioni ricevute dalle autorità estere sull’estensione della cella, superiore ai limiti dei tre metri quadrati individuati come criterio minimo di un’umana carcerazione dalla Corte dei diritti dell’uomo, e sull’affermata garanzia di assistenza e cure sanitarie all’interno dello specifico istituto carcerario. Va cioè messo in moto su impulso degli stessi giudici remittenti un meccanismo dialogico e chiarificatore con le autorità che chiedono l’estradizione al fine di verificare o smentire le notizie circolanti e di cui è investita l’opinione pubblica. E soprattutto di ottenere, al pari della parallela disciplina del mandato di arresto europeo, informazioni individualizzate sul caso specifico. Avvocati, la gravità della condanna legittima la “sospensione” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2021 Lo hanno stabilito le Sezioni unite della Cassazione, sentenza n. 10740 depositata oggi, respingendo il ricorso di un avvocato di Rieti. Lo “strepitus fori” che autorizza la sospensione cautelare dalla professione di avvocato, è insita, senza dunque bisogno di ulteriore dimostrazione, nella condanna a tre anni e tre mesi del legale per truffa nell’esercizio della professione e patrocinio infedele ai danni di tre clienti. Lo hanno stabilito le Sezioni unite della Cassazione, sentenza n. 10740 depositata oggi, respingendo il ricorso di un avvocato di Rieti contro la misura adottata dal locale Consiglio dell’Ordine, e poi confermata dal Consiglio nazionale forense, che aveva sollevato per otto mesi il professionista dall’esercizio della professione. Secondo il ricorrente invece la decisione violava gli artt. 32 del Regolamento disciplinare n. 2/2014 e 60, Legge n. 247/2012, in quanto il provvedimento di sospensione “avrebbe dovuto trovare giustificazione nella necessità di sedare il c.d. strepitus fori, non potendo trovare fondamento solo nella gravità dell’imputazione”. Al contrario, per la Suprema corte, il Giudice disciplinare, “ben lungi dall’avere assegnato automaticità alla sospensione, e, peraltro ben conscio della gravità dei fatti (tutti maturati nell’esercizio della professione d’avvocato) addebitati con la sentenza di condanna penale, ha compiutamente e razionalmente spiegato che la naturale diffusività della notizia, procurata dalla pubblicità del dibattimento penale, imponeva la misura cautelare, al fine di tutelare il decoro e la dignità dell’avvocatura”. Del resto, prosegue, “non è dubbio” che sia l’entità della pena che il titolo dei reati addebitati rientrano nell’ipotesi normativa prevista della legge professionale e dal Regolamento. Mentre “l’eco di notorietà dei fatti derivante dalla pronuncia di pubblica condanna penale, a prescindere dall’epoca alla quale i fatti risalgono, e, come ovvio, dalla consistenza dell’incolpazione, di esclusivo dominio del giudice penale, rende attuale quello ‘strepitus fori’ costituente ratio della misura”. Nel caso in esame, dunque, conclude la Corte, “il professionista risulta essere stato condannato con sentenza penale, a seguito di pubblico dibattimento, quindi, il disdoro che ne deriva per la professione, oltre che attuale, appare necessariamente concreto, specie ove i fatti risultino, non solo corrispondenti alle tipologie di reato previste dalla legge, ma intimamente correlati all’esercizio della professione d’avvocato”. Lazio. Coronavirus, al via la vaccinazione nelle carceri per Polizia penitenziaria e detenuti romatoday.it, 23 aprile 2021 Sono partite ieri, 22 aprile, le attività di vaccinazione riservate alla Polizia Penitenziaria e i detenuti degli Istituti di pena di tutto il territorio della Regione Lazio. “In pochi giorni”, ha fatto sapere l’assessore alla Sanità della Regione Lazio, Alessio D’Amato, “completeremo le operazioni con il vaccino Moderna. Ringrazio tutti i nostri operatori sanitari e le Uscar per l’impegno straordinario e l’efficienza dimostrata e la collaborazione da parte del personale dell’amministrazione penitenziaria”. La notizia è stata commentata dal consigliere regionale Paolo Ciani (Demos), vicepresidente della Commissione Sanità alla Regione Lazio: “È un passo importante che avevo chiesto con forza già nel dicembre scorso e che sono felice si sia finalmente avviato. Bisogna considerare che da oltre un anno le misure di contenimento del Covid hanno accentuato l’isolamento e la riduzione di molte attività di socializzazione, peggiorando la vita quotidiana”, ha scritto in una nota. La seconda e terza ondata della pandemia, continua “purtroppo non hanno risparmiato i penitenziari, dove si sono registrati diversi casi di contagio e alcuni morti. Il carcere è per definizione uno spazio chiuso e proprio per proteggere tutte le persone presenti (detenuti, agenti, personale civile, personale sanitario), ritengo sia importante che si proceda speditamente con la vaccinazione”. Molise. Morto il presidente di “Antigone Molise”: una vita per tutelare i diritti di chi è recluso primonumero.it, 23 aprile 2021 Gian Mario Fazzini, figlio del partigiano Gilberto, non era mai venuto meno all’impegno per la tutela dei diritti dei detenuti. Aveva anche avviato uno sportello legale per garantire assistenza ai reclusi nelle carceri molisane. È morto Gian Mario Fazzini, presidente di ‘Antigone Molise’. A darne notizia gli stessi membri dell’associazione che tutela i diritti dei carcerati: “Da ormai diversi anni Gianmario era impegnato con la nostra associazione per la tutela dei diritti dei detenuti reclusi nelle carceri molisane, che monitorava costantemente come parte attiva del nostro osservatorio sulle condizioni di detenzione. È un grande dolore per noi”. Tra l’altro, assieme agli altri attivisti molisani, aveva anche messo in piedi uno sportello di informazione legale, dedicato proprio ai reclusi. E nonostante fosse malato, anche negli ultimi tempi aveva proseguito il suo grande impegno. “Lascia in tutti noi un grande vuoto e un forte ricordo. Ci stringiamo attorno alla sua famiglia a cui vanno le nostre condoglianze”. Aveva 64 anni ed era figlio del partigiano Gilberto Fazzini. Da sempre attivo nella tutela dei diritti delle persone, lavorava alla Biblioteca dell’Unimol di Campobasso ed era iscritto all’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia). Napoli. A Poggioreale, arrivano i vaccini: ma le altre carceri? di Viviana Lanza Il Riformista, 23 aprile 2021 Da ieri ha preso il via il piano di vaccinazioni per i detenuti delle carceri napoletane. Le prime dosi sono state somministrate a 20 detenuti ultrasettantenni e a due ultraottantenni reclusi a Poggioreale e oggi si procederà a vaccinare 19 detenuti ultrasettantenni e due ottantenni a Secondigliano. La necessità e l’importanza di vaccinare la popolazione carceraria erano state sottolineate sin dall’inizio della pandemia e ora il progetto è in fase di attuazione. Soddisfatto il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello che si è fortemente battuto per la tutela del diritto alla salute, quindi anche al vaccino, per coloro che vivono in cella: “Mi auguro che tutte le Asl campane mettano in sicurezza questo comparto”. Nei prossimi giorni, come anticipato dal direttore generale dell’Asl Napoli 1 Ciro Verdoliva, la campagna vaccinale proseguirà anche per i detenuti fragili (immunodepressi, diabetici, trapiantati, gravi obesi, dializzati, oncologici, cardiopatici). A oggi si contano, oltre ai neovaccinati di ieri nel carcere di Poggioreale, 16 giovani ospiti del carcere minorile di Nisida e 101 detenuti delle carceri salernitane già immunizzati. In Campania, inoltre, sono attualmente 2.050 gli operatori penitenziari, tra agenti di polizia penitenziaria, operatori sanitari, cappellani, volontari e civili che entrano in carcere a vario titolo, ad aver ricevuto il siero. Grande l’impegno da parte del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Antonio Fullone, del direttore del carcere di Poggioreale Carlo Berdini, della direttrice del carcere di Secondigliano Giulia Russo. Le vaccinazioni avviate ieri sono avvenute con il coordinamento del referente sanitario Vincenzo Irollo e del responsabile della sanità penitenziaria Lorenzo Acampora. “Il piano vaccinale contempla la vaccinazione della popolazione carceraria nel suo insieme e rientra nelle categorie prioritarie del ministero della Salute - ha spiegato il garante Ciambriello - Al di là delle polemiche stucchevoli su chi vaccinare prima, mi auguro che tutte le Asl campane facciano partire la loro campagna vaccinale anche all’interno degli istituti penitenziari di propria competenza, con provvedimenti immediati e incisivi che consentano ai detenuti di potersi vaccinare, se lo vogliono. La vaccinazione del sistema penitenziario permetterà di alleviare le sofferenze che la pandemia ha procurato in questo luogo chiuso e rimosso”. Catanzaro. “Dolce lavoro”, il riscatto di detenuti passa attraverso la pasticceria di Benedetta Garofalo Corriere della Sera, 23 aprile 2021 All’interno dell’Istituto Penitenziario previsti corsi per la realizzazione di prodotti per il mercato esterno. Un percorso formativo per una qualifica artigianale. Questo è un “Dolce lavoro” che profuma di dolcetti e biscotti, come fatti in casa. E per una volta le mura dell’Istituto Penitenziario di Catanzaro, dove i prodotti verranno realizzati e confezionati per il mercato esterno, saranno un luogo di apertura al mondo e di crescita umana e professionale, non solo di espiazione. Per dodici detenuti, con reati di una certa gravità alle spalle, si apre infatti lo spiraglio di una vita possibile, che ha inizio da un percorso formativo online dal “dolce” titolo che li porterà ad acquisire la qualifica di pasticceri, spendibile su tutto il territorio nazionale. Dal 21 aprile al 22 settembre, per la durata di seicento ore complessive, i corsisti saranno quotidianamente impegnati nell’apprendimento delle tecniche per la produzione di prodotti di pasticceria e da forno, attraverso l’utilizzo di attrezzature acquistate per l’occasione, oltre che dei laboratori dell’azienda “Pecco”, grazie alla disponibilità della Regione Calabria. Una volta “formati”, i corsisti svolgeranno il loro tirocinio in aziende del settore e saranno pronti a costituire a loro volta una cooperativa di tipo “B”, in cui rendersi responsabili e protagonisti della vendita sul web di quanto prodotto. Un progetto non esclusivo in Italia, ma la novità è che questi detenuti si costituiranno in cooperativa. Fondazione con il Sud ha patrocinato premiando anche il lavoro “corale” tra quanti hanno portato avanti l’idea: dalla direttrice della Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro, Angela Paravati, alla responsabile del Provveditorato del Ministero della Giustizia, Giuseppa Maria Irrera; dalla referente dell’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna (Uiepe), Maria Letizia Polistena, al rappresentante della Regione Calabria, Luigi Bulotta. All’associazione di volontariato “Amici con il Cuore”, presieduta da Antonietta Mannarino, da tempo impegnata ad insegnare l’arte dell’intreccio della carta all’interno del carcere, va il merito di avere intercettato la passione per i dolci di alcuni detenuti e di avervi visto un’autentica opportunità lavorativa e di riscatto sociale. È stato poi il Centro Servizi al Volontariato “Calabria Centro” a fare sintesi tra le “forze” istituzionali in campo e a spingere il progetto verso un riconoscimento unanime per la sua capacità - come ha avuto modo di spiegare il direttore del Csv, Stefano Morena - di rafforzare legami di fiducia e rappresentare un “anello di congiunzione” tra la realtà carceraria ed il territorio. Giuseppe Pedullà, dell’impresa sociale “Promidea” affiancherà l’ente capofila “Amici con il Cuore” nella realizzazione del progetto, ha illustrato il percorso che avrà molte ore di didattica online. E quando il prodotto dolciario avrà ottenuto la certificazione regionale, rappresenterà la valida motivazione a rientrare a pieno titolo in società, dopo aver scontato il proprio debito: più forti grazie a questa impresa. Varese. Al carcere dei Miogni inaugurato l’orto di piante aromatiche varesenews.it, 23 aprile 2021 Grazie a diversi contributi, alla formazione di Enaip è stato inaugurato lo spazio verde con 300 piante. Un progetto voluto dal consigliere Astuti e che coinvolge un gruppo di detenuti. Sette parchi storici, 53 giardini scolastici, 39 aree verdi di quartiere, spazi alberati. È questo il patrimonio verde di Varese, denominata città giardino. Da oggi, al capitale arboreo si aggiunge una piccola ma preziosa dotazione. Un orto di piante aromatiche, realizzato in via Felicità Morandi al civico 5. Parliamo di un appezzamento minuscolo per dimensioni, circa 130 mq, ma di grande significato perchè è un’area piantata e curata da un gruppo di detenuti del carcere dei Miogni. Tutto ebbe inizio con la visita del consigliere regionale Samuele Astuti all’istituto penitenziario. Con la direttrice Carla Santandrea sostenne l’idea di avviare un’esperienza laboratoriale nel settore del verde. “La proposta - ha ricordato la direttrice dell’istituto - si è concretizzata in virtù del finanziamento di Regione Lombardia proposto dal Consigliere Astuti e il progetto è stato realizzato in collaborazione con l’Assessorato all’Agricoltura della Regione, Ersaf Lombardia, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia, nonché Fondazione Enaip. Il giardino è stato creato da un gruppo di detenuti e, a oggi, sono state interrate circa trecento piante aromatiche. La finalità di questo intervento è quella di fornire alla popolazione detenuta un’occasione di apprendimento professionale e di sviluppo di azioni positive in vista re-ingresso nella “società libera”“. Nei scorsi mesi, nonostante gli ostacoli organizzativi imposti dall’emergenza sanitaria in corso, è stato avviato il lavoro grazie all’impegno dei formatori di Enaip: è stato allestito lo spazio orto, formato un piccolo gruppo di detenuti per la gestione dell’attività agricola: “La casa circondariale di Varese - spiega Sergio Preite operatore di Enaip - per questioni strutturali ha spazi esigui a dedicare alle attività di carattere socio-culturale. Con questa iniziativa, tutti gli attori coinvolti, sono riusciti a conquistare una nuova area dove poter realizzare un laboratorio permanente capace di coinvolgere attivamente la popolazione detenuta”. Il Presidente del Consiglio regionale della Lombardia Alessandro Fermi ha sottolineato: “Ha trovato oggi compimento la realizzazione di un significativo progetto di reinserimento lavorativo destinato ai detenuti della Casa circondariale di Varese, che potranno contare sulla presenza all’interno della struttura di un giardino botanico e di un orto biologico che consentirà di coltivare prodotti freschi e a chilometro zero. Una attività che andrà a integrare e ottimizzare la collaborazione che già un paio di anni la Casa circondariale di Varese ha avviato con la testata “Cucinare al fresco”, dove vengono raccolte le ricette proposte dagli ospiti di numerose case circondariali lombarde. Ora le “ricette varesine” si arricchiranno sicuramente di nuove sperimentazioni culinarie basate sulle genuinità dei prodotti coltivati e utilizzati direttamente in casa propria”. Il consigliere regionale del Pd Samuele Astuti, presente all’inaugurazione, ha commentato: “Si realizza finalmente un progetto che offre un’opportunità di formazione ai detenuti e contribuisce, pur nel suo piccolo, a dare loro uno spazio ‘naturale’ anche se dentro le mura, che può contribuire a migliorarne la qualità della vita. Il ringraziamento deve andare oltre che alla direttrice del carcere Carla Santandrea, a Ersaf Lombardia, Enaip e al Provveditorato generale dell’amministrazione penitenziaria di Milano che hanno creduto e collaborato al progetto”. inaugurazione orto aromatico Le idee che riguardano la piccola produzione che verrà portata a termine non hanno natura commerciale, ma sono ugualmente ambiziose, infatti si prevede la realizzazione di un elisir al timo ed altre micro-leccornie: “Di questo però ne parleremo un’altra volta, per oggi limitiamoci a prendere atto che dentro alle mura dei Miogni qualcosa sta crescendo…” commenta Preite. Torino. Sos dal carcere: “Fermate il gioco d’azzardo” di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 23 aprile 2021 Incontriamo Michele al Centro di Ascolto Caritas diocesano “Le due Tuniche” di corso Mortara a Torino, in una mattina ordinaria di emergenza pandemia tra persone che cercano un salvagente, una parola buona per non affondare. La responsabile, Wally Falchi con i volontari cerca di rispondere a tutti, a tutti si offre una indicazione utile a seconda del bisogno. È a lei che abbiamo chiesto di metterci in contatto con una persona che abbia conosciuto il nostro giornale in carcere, grazie alla generosità di 70 lettori che hanno risposto a nostro appello “abbona un detenuto”. Il Centro le due Tuniche e la Caritas operano all’interno del carcere, oltre che fornendo ai detenuti più indigenti e senza famiglia beni di prima necessità, anche indicazioni e opportunità per l’inserimento nella società una volta scontata la pena. Michele è uno di quelli: recluso al “Lorusso e Cutugno” dove sta scontando una pena legata a reati commessi per essere entrato nelle spire del gioco d’azzardo, in questo periodo, grazie all’art. 21, gode del regime di semilibertà. È stato assunto presso una cooperativa sociale come aiuto cuoco ma in questi mesi di crisi della ristorazione è in cassa integrazione. “E così ho deciso di chiedere di fare il volontario presso il Centro le Due Tuniche perché voglio restituire in qualche modo il bene che ho ricevuto all’interno del carcere dove, grazie alla Caritas, ai cappellani, alla mia educatrice e alla criminologa e a molti altri volontari e agenti, ho capito che solo facendo del bene si può rientrare in noi stessi e cambiare. Lo faccio soprattutto per mia moglie e per i miei tre fi gli che ho fatto soffrire ma che mi hanno sempre sostenuto nel mio cammino di riscatto. Senza di loro non ce l’avrei fatta”. Michele, in attesa di riprendere il lavoro, dà anche una mano per le pulizie nella parrocchia Santa Maria Goretti e, soprattutto si è iscritto alla Facoltà di Scienze Politiche al Polo Universitario per studenti detenuti. “È qui che ho conosciuto il vostro giornale e sono riconoscente ai vostri lettori che ci hanno regalato la possibilità di rimanere in contatto con il mondo esterno, per farci un’opinione su cosa succede in città, nel Paese. In carcere entrano gratuitamente solo La Voce e il Tempo ed Avvenire: gli altri quotidiani te li devi acquistare e non tutti hanno la possibilità di farlo. Inoltre, siccome in cella non si è soli, è difficile seguire i telegiornali e i programmi di informazione perché a non tutti interessano: leggere invece allena la mente e ti fa sentire ancora un cittadino”. Michele sottolinea con forza che condivide la presa di posizione del nostro giornale sull’errore di liberare il gioco d’azzardo: “L’ho vissuto sulla mia pelle, ha rovinato la vita e quella della mia famiglia, è una piaga sociale da estirpare, ti annienta: per questo ho deciso di fare una tesi proprio sul Gioco d’azzardo e, quando finirò di scontare la mia pena, chiederò ai miei docenti di poter andare a parlare nelle scuole per raccontare ai giovani la mia esperienza e di quanti vengono distrutti dal gioco”. Michele sottolinea che, nonostante le difficoltà strutturali degli istituti di pena e come certi mass media parlino di detenzione solo in termini negativi, “a me il carcere è servito: se non fossi stato arrestato non sarei qui a raccontare della mia rinascita. Qui, grazie alle persone che ho incontrato, all’umanità profonda di tanti compagni di cella che hanno avuto la sfortuna di nascere in culle sbagliate, mi sono spogliato di tutto, ho capito che la vita impostata solo sul denaro da ottenere a tutti i costi, sul possedere l’effimero mi stava uccidendo. Certo l’avere una famiglia che mi aspetta e la possibilità di trovare un lavoro e di studiare mi hanno dato la spinta per rialzarmi. Per questo dedicherò la mia tesi a mia moglie e ai miei fi gli. E qui ho ritrovato anche la fede: grazie al cappellano ho ricominciato a leggere la Bibbia che mi ha fatto capire che non sono solo anche nella disperazione. E ho ricominciato a pregare”. Basta carcere, basta vendetta: la giustizia è pietà e speranza di Mons. Vincenzo Paglia e Luigi Manconi Il Riformista, 23 aprile 2021 Quello tra il sociologo ed attivista politico Luigi Manconi e l’arcivescovo Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, è un confronto tra due concezioni del mondo distanti e, per certi versi, inconciliabili: una ispirata da un profondo senso religioso, l’altra immersa nella società e nella concretezza delle sue contraddizioni e delle sue sofferenze. Ma entrambe tese a cercare, di fronte ai dilemmi che attraversano la vita quotidiana, il significato delle scelte di ognuno. Ecco un “assaggio” del dialogo, tratto dal capitolo 6 e 7 del libro “Il senso della vita” Einaudi, 2021. Manconi. Il male (sia esso la droga o il crimine) non può essere messo al bando dalla società. Quel male e il dolore che porta con sé può venire ridotto e “governato” attraverso strategie che ne limitino gli effetti piú dirompenti e dannosi per il singolo e la collettività. Discendono da qui le politiche e gli interventi sociali che vengono definiti di “riduzione del danno”. (…) È un’idea di società che tende a includere e ad accogliere, a rendersi permeabile alle nuove identità culturali e sociali, ai movimenti interni e a quelli provenienti dall’esterno. Ciò comporta che si limitino allo stretto indispensabile i provvedimenti e gli istituti del controllo e dell’esclusione, destinati solo a chi si riveli socialmente pericoloso. Paglia. Sono d’accordo con te che nella società bisogna accettare la compresenza del bene e del male. (…) E, sarai d’accordo con me, il bene e il male traversano ciascuno di noi, al suo interno. Non c’è il bene assoluto da una parte e il male assoluto dall’altra. E che nella società convivano ambedue è giocoforza. In tal senso, che la società debba essere inclusiva mi pare inoppugnabile. Manconi. In realtà, attribuisco tanta importanza a questa riflessione perché, come dicevo, da essa discendono non solo diversi modelli di policy, ma anche differenti idee sul futuro della nostra società e su un sistema dei diritti di cittadinanza adeguato ai tempi e alla nuova composizione sociale delle comunità contemporanee. Insomma, penso che una società dell’inclusione debba prevedere la convivenza con i diversi mali sociali per ridurre al minimo la sofferenza individuale e collettiva che producono. Qualche decennio fa partecipai a un convegno dal titolo davvero eloquente: Dare un posto al disordine. In altre parole, adottare strategie sociali capaci di “negoziare” con tutti i soggetti (penso ai centri sociali), i gruppi e le minoranze (per esempio i rom), ma pure con ogni forma di trasgressione e devianza (ancora il consumo di sostanze), al fine di “dare un posto” anche a loro nella vita sociale, escludendo solo le manifestazioni di violenza e di sovversione delle regole democratiche. Se, poi, trasferiamo un simile discorso su un piano generale, è ancora questa strategia la piú adeguata ad affrontare problematiche di difficilissima composizione, come quella dei flussi migratori o quella rappresentata dalla popolazione detenuta. (…) Prendiamo la questione del carcere, forse la piú “intrattabile”. Come si fa a non essere abolizionisti? Il carcere è una istituzione insostenibile sotto il profilo giuridico e politico, sociale e finanziario. Deve essere quindi abolito e sostituito da altre misure, capaci di soddisfare tanto la domanda di giustizia dei cittadini, quanto il diritto del condannato al pieno reinserimento sociale al termine della pena, che è proprio quanto il carcere - non solo per cause contingenti - impedisce. Ma voglio sottolineare qualcosa che viene costantemente ignorato. La Costituzione non parla mai di carcere, né di pena detentiva. Anche se i costituenti conoscevano solo il carcere (e molti tra essi lo avevano sperimentato in prima persona) e la pena capitale, in modo saggio e lungimirante non aggettivarono le pene, lasciando campo libero a un legislatore che volesse cambiare radicalmente la fisionomia delle sanzioni penali. (…) Dunque, una pena moderna, razionale e adeguata non può che essere totalmente diversa ed esprimersi attraverso forme sanzionatorie diverse, partendo dall’assunto che la privazione della libertà deve limitarsi solo ed esclusivamente allo strumento e al tempo indispensabili per contenere la violenza del condannato pericoloso per la comunità. (…) In questo quadro, i meccanismi dell’esclusione e della reclusione devono riguardare solo i socialmente pericolosi e solo per il tempo in cui lo siano. Convivere e negoziare con il male rappresentato dai crimini e dai criminali significa elaborare una politica penale totalmente diversa da quella finora adottata. Una politica fondata, piuttosto, su quella che chiamiamo “giustizia riparativa”, e che a me piace definire “ristoratrice”. “Ristorare” è parola dolce e forte, rassicurante e allo stesso tempo gratificante, capace di offrire sollievo e lenimento. Richiama non solo la soddisfazione di un bisogno (di cibo, acqua, riposo, conforto), ma anche il ristabilirsi di un equilibrio. La giustizia riparativa mira a sanare la ferita determinata nelle relazioni sociali dalla commissione di un reato. Non si limita a sanzionare la lesione inferta, ma opera per curarla. Si basa sulla responsabilizzazione dell’autore del reato nei confronti della parte offesa: e, di conseguenza, sull’esigenza di porre rimedio al danno inflitto attraverso il risarcimento alla vittima e alla collettività. Paglia. Giovanni Battista Scanaroli, sovrintendente delle carceri dello Stato pontificio, nel suo trattato di tre volumi, scrive sconsolato che nella sua vita non ha mai visto un carcerato uscire dalla prigione migliore di quando era entrato. Nulla di nuovo sotto il sole! Eppure noi continuiamo imperterriti a costruire carceri, spesso malamente, quasi sempre sovraffollate… Intanto è decisivo anche promuovere una coscienza nuova circa la giustizia umana e la concezione della pena. Tu parli della giustizia riparativa o, come tu preferisci, “ristoratrice” (pure a me piace più questo termine). Sono ancora una volta pienamente consenziente. È solo così che si sconfigge l’idea di una pena che condanna senza speranza alcuna di riabilitazione. Va recuperata la prospettiva di una pena che aiuti il condannato a cambiare nel senso opposto ai fatti criminosi che ha commesso. (…) Anche la pena non deve sottrarsi alla sfida della progettualità, né può essere avulsa dal giudizio morale sui suoi contenuti e le sue conseguenze: giudizio, quest’ultimo, che dipende dalla sua capacità di perseguire il bene comune rispondendo alle esigenze della dignità umana di tutti i soggetti (vittime e agenti) coinvolti nel reato. (…) Per sanare in profondità le ferite che lacerano la convivenza tra gli uomini sono necessari sia la giustizia sia il perdono. Una giustizia “spietata”, cioè senza la pietas, non aiuta a cambiare. E purtroppo lascia una ferita nella società. Bisogna scendere nelle profondità dell’animo sia del colpevole che dell’offeso. In modi ovviamente diversi, ambedue sono chiamati ad atteggiamenti nuovi che evitino sia la vendetta sia l’indurimento. E in questo è parte in causa anche la stessa società di cui entrambi gli attori fanno parte. (…) Manconi. Come si sa, la questione della giustizia richiama quella della diseguaglianza, che si esprime attraverso varie manifestazioni e, in primo luogo, attraverso la più antica e irreparabile di esse: la penuria di mezzi materiali. (…) Se meno individui muoiono di fame e cresce il reddito minimo pro capite è un grande risultato, ma se la distanza tra poveri e ricchi aumenta e in parallelo un rilevante numero di individui passa da uno stato di sicurezza economica a uno di precarietà, quella che chiamiamo “percezione” rende ancora più cruda e stridente la presenza della povertà nel mondo. (…) Paglia. Il rischio odierno è dato dall’aver superato il limite oltre il quale le diseguaglianze non debbono andare, pena uno squilibrio ingestibile. Di qui l’urgenza di una politica che prenda responsabilmente il suo compito di regolare la convivenza evitando di lasciare al solo mercato il potere sulla distribuzione del reddito e sul controllo della moneta. Purtroppo una prolungata assenza della politica nella vita della società contemporanea ha avuto come conseguenza la crescita di quel “popolo di vittime” - per dirla con Slavoj Žižek - che subisce negativamente il potere del mercato. (…) Mentre ci avviamo alla conclusione di questo capitolo sento l’urgenza di fissare un punto chiaro sulla pena di morte. E so che ti trovo d’accordo con me. È un tema a mio avviso essenziale per la qualità di una società. Finalmente, dopo secoli, negli ultimi tempi la Chiesa ha respinto una volta per tutte la legittimità morale della pena di morte. I dati Istat che ho citato all’inizio, però, ci dicono purtroppo che molti italiani sono favorevoli alla reintroduzione della pena di morte nel nostro ordinamento giuridico. Questa tendenza va contestata con decisione: sarebbe una regressione barbarica. Cesare Beccaria - un grande italiano - lo ha mostrato per primo nel secolo XVIII. Segnò uno spartiacque nella cultura giuridica e umanistica circa il rapporto tra i delitti e le pene e la conseguente critica radicale alla legittimità della pena di morte. È una lezione - venuta dall’interno del pensiero illuminista - che va riscoperta, proprio mentre assistiamo alla risorgenza di una mentalità vendicativa che dimentica l’obbligo morale di aiutare il colpevole a riabilitarsi. Nessuno può essere mai identificato con il delitto che ha compiuto. Eppure, fin dall’antichità classica vengono sostenuti non solo la legittimità della pena di morte ma addirittura l’obbligo di comminarla, convincendo gli stessi condannati a ritenerla una misura lodevole. Il nodo si stringeva attorno al principio del primato del bene della società su quello dell’individuo. Non è questa la sede per ripercorrere il tema della pena di morte nella tradizione biblica e nella storia cristiana, anche se la predicazione cristiana e la teologia, fin dagli inizi, si sono distinte per tenere fermo il comandamento: non uccidere. E comunque nessuno ha potuto mai cancellare il passo della Bibbia: “Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!” (Gn 4,13-15). Nei catechismi della Chiesa cattolica, da quello di Trento sino a quelli di Pio X e del catechismo del 2017 viene però ammessa la legittimità del ricorso alla pena di morte per il bene della società. Nel corso del Novecento, la crescita della cultura dei diritti umani e la consapevolezza della intangibilità della vita umana hanno sgretolato man mano quella granitica convinzione che portava ad ammettere la pena di morte, anche se solo in casi eccezionali. Nella seconda metà del Novecento è cresciuta sempre più nella Chiesa la coscienza della “inammissibilità” della pena di morte. Ultimamente è stato decisivo papa Francesco: ha cambiato il catechismo (n. 2267) mettendo la parola fine a un lungo dibattito di revisione circa la legittimità della pena di morte. È un traguardo che pone termine a ogni ambiguità: la pena di morte è inammissibile perché contraria al Vangelo. Potrei dire che finalmente abbiamo compreso in senso pieno le pagine della Bibbia. Papa Giovanni XXIII amava dire a coloro che gli rimproveravano i cambiamenti: “Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. (…) Manconi. Non mi spaventa parlare anche delle “cose ultime”, secondo la definizione del teologo Romano Guardini. È una formula che mi piace molto perché contiene quel termine “cose” che toglie alla riflessione ogni astrattezza e riporta alla ruvida materialità delle esperienze di fine vita. D’altra parte, chiamarle “ultime” sottolinea una contraddizione proprio con la dottrina cattolica, che vorrebbe quelle “cose” non ultime, bensì premessa di una nuova vita. Noi - tutta la ciurma degli atei, agnostici, increduli, scettici, perplessi, miscredenti, bestemmiatori, fino ai poco credenti - viviamo oscuramente tutto ciò come un deficit. C’è poco da dire: quella nuova e ulteriore vita ci manca. Dunque, viviamo con un senso di inferiorità il fatto che altri, anche vicini a noi, o, addirittura nostri familiari, abbiano la fortuna di credere. (…) Paglia. La nuova nascita di cui parla la fede è la grazia di una vita il cui “mondo” sarà disponibile per la piena espansione dei doni della vita di Dio, che vuole diventare la nostra. In tal senso saremo creati - generati - di nuovo. Stavolta, però, oltre la lotta e la fatica di fare nostra la vita ricevuta: l’iniziazione ha termine, la destinazione ha il suo compimento. Ma siamo sempre noi il soggetto di questa metamorfosi: la “resurrezione” è il compimento segretamente sperato, nel quale la nostra vita si riconosce e si “ritrova”. Noi amiamo le sostituzioni, i replicanti, i super corpi e le super menti che rimpiazzano gli esseri umani che fino a poco prima ci erano cari. Dio non sostituisce! “Nuovo” qui significa “riparato”, “sistemato una volta per tutte”, “rinnovato”, “messo a nuovo per sempre”. Per questo la “carne” e la sua destinazione rimangono centrali nel cristianesimo. Le “cose ultime” sono terra, cielo e carne definitivamente riconciliati. “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” - non solo le anime e le menti - è la parola finale della nostra rivelazione (Ap 21,5). “Cucinare al fresco” il progetto editoriale che coinvolge le carceri italiane di Michele Vanossi ilgiornaleoff.it, 23 aprile 2021 Arianna Augustoni ideatrice del progetto editoriale “Cucinare al fresco”. Avete mai sentito parlare di una redazione ubicata all’interno di una casa circondariale? È proprio così! A raccontarcelo è Arianna Augustoni, giornalista e fondatrice con Alessandro Tommasi del progetto editoriale Cucinare al Fresco presentato anche durante la scorsa edizione di Bookcity Milano via web, con una clip. Di cosa si tratta? Si tratta di una raccolta di ricette studiate, preparate e scritte dai detenuti delle carceri italiane. L’idea è nata presso il carcere Bassone di Como (sede della redazione) e ha poi coinvolto altri 11 istituti penitenziari italiani: Milano (San Vittore), Varese, Bollate, Sondrio, Opera, Perugia, Pavia, Monza, Vibo Valentia, Locri e Barcellona Pozzo di Gotto. Siamo operativi da diversi anni, in base all’ispirazione e alla raccolta di materiale, organizziamo il lavoro; i nostri “redattori speciali” hanno scritto e testato più di 500 ricette di piatti che preparano abitualmente nelle stanze di detenzione con strumenti e ingredienti a loro disposizione. Il 27 maggio 2021 uscirà il primo libro, è il nostro debutto con la casa editrice “L’Erudita” di Roma che ha creduto nell’iniziativa e ha voluto pubblicare un ricettario particolare, realizzato, appunto, dietro alle sbarre. È un percorso di profumi, di colori e di sensazioni raccolte in un libro di 180 pagine. Fino a oggi abbiamo lavorato pubblicando piccoli prodotti editoriali con scadenza trimestrale sponsorizzati da realtà del territorio comasco che volevano mettere la loro firma su questa iniziativa. In più abbiamo ci sono dei volumi dedicati ai piatti delle feste e guide monotematiche. Ci piace molto l’idea di far dialogare le carceri con l’esterno attraverso queste pubblicazioni, tramite Youtube e i canali social come Instagram e Facebook sui quali vengono pubblicate 2 ricette al giorno! L’idea come è nata? E’ nata per caso durante un laboratorio che trattava di argomenti completamente differenti dalla cucina; una fortuita chiacchierata coi detenuti ha dato vita in poco tempo a una storia che ha reso partecipi tutti i presenti in aula decisi a fare qualcosa di buono sia in cucina … sia nella vita! In quell’occasione mi sono resa conto che il cibo in carcere è un elemento preponderante e fondamentale perché unisce e permette di comunicare tra persone anche molto diverse. Bisogna considerare infatti che, la maggior parte dei detenuti delle carceri italiane è costituita da persone straniere che spesso non sanno né leggere né scrivere, ma sanno cucinare. Quali sono gli strumenti che utilizzano i detenuti per preparare il cibo? Nelle celle i detenuti possono utilizzare fornelletti da campeggio ed è proprio con questi strumenti che hanno saputo creare una sorta di “forno” apponendo sopra le normali padelle una cappa realizzata con carta stagnola lasciando aperte le due estremità con un foro (per l’entrata e l’uscita dell’aria). Analizzando le diverse modalità abbiamo poi deciso che fosse perfetto creare anche un libro all’interno del quale venissero inserite ricette fatte “in padella” utilizzabile dalle massaie di tutta Italia per cucinare risparmiando energia trasferendo tutto quello che si fa in forno nella padella: torte, pizze, pane, focacce… L’impatto iniziale con i detenuti come è stato? Dopo le prime lezioni si instaura un rapporto di fiducia, i “corsisti” a volte sentono la necessità di raccontare le proprie esperienze e gli aspetti più personali. La cucina in questo caso diventa solo lo strumento attraverso il quale vengono esternati sentimenti e ricordi che permettono loro di sorridere e di ricordare con piacere i momenti trascorsi in famiglia coi propri cari. Quale è la validità dei percorsi riabilitativi all’interno delle carceri? Ci sono progetti che piacciono, altri che sono meteore e vengono abbandonati in corso d’opera. “Cucinare al Fresco” ha una tripla valenza: crescita personale, imparare a scrivere (alcuni detenuti potrebbero diventare giornalisti - conoscono il timone, sanno creare contenuti, si informano sulla comunicazione) e promuovere il rinserimento sociale. Con questo progetto siete riusciti a creare una rete con altre realtà che operano all’esterno delle carceri… Ci sono numerose associazioni che si occupano di progettualità legate al mondo della detenzione. Noi abbiamo intrapreso rapporti con la Fondazione Arte del Convivio di Milano, una scuola di alta cucina; con l’associazione culturale “Artisti Dentro” che propone dei concorsi a livello nazionale, per i detenuti: pittori, scrittori e, appunto, cuochi. Poi “Kairos” di Don Claudio Burgio (Cappellano del Beccaria) e poi con il “Consorzio Viale dei Mille di Milano” che sta sviluppando una serie di attività legate ai detenuti definiti “articolo 21”, coloro che, per una serie di requisiti si trovano nella condizione di potere uscire a lavorare per poi rientrare negli istituti penitenziari la sera. La risposta dei detenuti a questo progetto? Sicuramente molto positiva, stiamo lavorando da tre anni e il numero delle persone che partecipano è in continuo aumento. Il progetto ha come obiettivo quello di raccontare l’esperienza della cucina in carcere, da reclusi. Una modalità per portare all’esterno messaggi positivi e di interazione con la società, una forma di coinvolgimento e di impegno serio e costante che parte solo da loro stessi. Tra le pubblicazioni di Cucinare al Fresco ci sarà una novità, un volume con le ricette dei piatti preferiti da Papa Francesco... Questa è l’ultima trovata che abbiamo avuto; parlando con alcuni giornalisti di Radio Vaticana ci siamo confrontati e ci siamo detti: “Perché non dedicare un volume ai cibi preferiti da Papa Francesco?”. Ho sottoposto alla redazione del Bassone di Como e agli altri gruppi di lavoro l’idea ed è stata subito sposata; chiederemo a tutte le carceri che hanno aderito al progetto di inviarci, partendo da quelle che sono le preferenze del Santo Padre, alcune ricette con gli ingredienti; naturalmente non mancheranno quelle relative alle delizie argentine pensate dai detenuti in suo onore. Nel Mediterraneo ennesima strage annunciata di migranti: 130 morti al largo della Libia di Carmine Di Niro Il Riformista, 23 aprile 2021 L’ennesima strage nel silenzio colpevole e complice dell’Europa. Sarebbero almeno cento le perone morte al largo della Libia, annegati nel naufragio di un gommone che si stava dirigendo verso le coste italiane o maltesi. A riferirlo è Alarm Phone in un tweet in cui si precisa che la barca “con cui eravamo in contatto si è capovolta. Ocean Viking ha trovato corpi senza vita. Tutte le autorità erano allertate, Frontex li aveva avvistati: li hanno lasciati annegare. Per l’Europa, black lives don’t matter”. Il gommone avrebbe tentato la traversata in condizioni di mare proibitive: le tracce dell’imbarcazione di fortuna si sono perse a nord-est di Tripoli, dove sono stati finora avvistati in mare i cadaveri di trenta persone, ma non è stato ancora possibile recuperarli. A ricostruire quanto accaduto tra Italia e Libia è Sos Mediterranee. “L’equipaggio della Ocean Viking ha dovuto assistere alle devastanti conseguenze del naufragio di un gommone a nord est di Tripoli. Questa barca era stata segnalata in pericolo con circa 130 persone a bordo mercoledì mattina. Alarm Phone - continua Sos Mediterranee - ci aveva avvisato di un totale di tre imbarcazioni in pericolo nelle acque internazionali al largo della Libia. Tutti loro erano ad almeno dieci ore dalla nostra posizione al momento della ricezione degli avvisi. Abbiamo cercato due di queste barche, una dopo l’altra, in una corsa contro il tempo e con mare molto mosso, con onde fino a 6 metri”. “In assenza di un efficace coordinamento guidato dallo Stato”, prosegue Sos Mediterranee - tre navi mercantili e la Ocean Viking hanno collaborato per organizzare la ricerca in condizioni di mare estremamente difficili”. Sos Mediterranee sottolinea che “senza ricevere il sostegno delle autorità marittime responsabili, tre cadaveri sono stati avvistati in acqua dalla nave mercantile “My Rose”. Poco dopo un aereo Frontex ha individuato il relitto di un gommone. Da quando siamo arrivati sulla scena, non abbiamo trovato nessun sopravvissuto mentre abbiamo potuto vedere almeno dieci corpi nelle vicinanze del relitto. Pensiamo alle vite perse e alle famiglie che potrebbero non avere mai la certezza di quello che è successo ai loro cari”. La Ong sottolinea il prezzo pagato dai migranti nel tentativo di arrivare in Europa: più di 350 persone hanno perso la vita in questo tratto di mare quest’anno, “senza contare le decine di morti nel naufragio a cui abbiamo assistito oggi. Gli Stati abbandonano la loro responsabilità di coordinare le operazioni di ricerca e salvataggio, lasciando gli attori privati e la società civile a riempire il vuoto mortale che si lasciano alle spalle. Possiamo vedere il risultato di questa deliberata inazione nel mare intorno alla nostra nave”. Cannabis terapeutica: Mara, Alfredo e gli altri, storie di un diritto alla cura negato di Viola Giannoli La Repubblica, 23 aprile 2021 Il caso più noto è quello di Walter De Benedetto, affetto da una grave forma di artrite reumatoide, a processo per coltivazione domestica di cannabis. Ma sono decine le segnalazioni di intoppi medici e burocratici per la terapia del dolore. Il 27 aprile ci sarà l’udienza decisiva del processo a Walter De Benedetto: rischia fino a sei anni di carcere per aver coltivato la cannabis di cui ha bisogno per alleviare i dolori della grave forma di artrite reumatoide con cui convive da 35 anni e che lo ha reso invalido. Ma non c’è solo Walter. Donato, Mara, Carlo, Stefania, Rosario, Alfredo, Paolo: sono i nomi, i volti, le storie di migliaia di pazienti che dal 2007 a oggi, da quando cioè il ricorso a farmaci cannabinoidi in Italia è legale, si scontrano col loro diritto alla cura. Perché la disponibilità di cannabis medica, prodotta dallo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze o importata dall’estero, è spesso insufficiente o in ritardo; perché la domanda di Bedrocan è troppo alta; perché le farmacie che fanno preparazioni galeniche sono troppo poche; perché i rifornimenti sono variabili; perché talvolta è difficile avere la ricetta. I troppi perché su cui ogni giorno Meglio Legale, campagna per la legalizzazione della cannabis, riceve decine di segnalazioni. C’è Alfredo Ossino di Catania, cinquant’anni, affetto da deficit funzionale della colonna vertebrale dal 2007. Era un maresciallo capo della Guardia di finanza, poi la sua patologia l’ha portato al congedo. “Mi sono operato nel 2013 - racconta - ma per i dolori non serve l’intervento”. E così nel 2015, dopo 6 anni di cure con gli oppiacei, ha ottenuto la prima prescrizione di cannabis medica con benefici immediati. Eppure, nonostante la sua regolare prescrizione, restano gli ostacoli: “Una persona che prende 600 euro al mese di pensione, come fa spenderne 386 per 30 grammi?”. Già, i costi. Poi c’è la burocrazia che blocca le cure, i medici poco informati. E per un ex maresciallo della Guardia di finanza, che l’unica alternativa alla mancanza di approvvigionamento siano i pusher per strada, il mercato nero, è più che un paradosso. A Milano c’è Stefano Lavore, ha quarant’anni, un Parkinson di origine genetica. I primi sintomi sono arrivati a vent’anni, la diagnosi a 34. Fumava cannabis per uso ludico e così per caso si è accorta che agiva sul dolore. Ne ha parlato col suo neurologo, ma per la sua malattia la somministrazione non è prevista e Stefania è costretta ad acquistarla in farmacia, senza esenzione. “L’ultima volta che l’ho acquistato ho chiamato mia madre: ‘Mamma mi puoi dare i soldi per comprare il farmaco, perché io non ce la faccio” dice Stefania coi suoi capelli verdi e gli occhiali rotondi. Con lei, nella stessa città, c’è pure Mara Ribera: una malattia rara autoimmune e una cefalea invalidante provano il suo corpo, da circa trent’anni. Ma solo un anno fa è arrivata a vedersi prescritta, dal centro di terapia del dolore del Niguarda, la cannabis medica. “Il dolore non può essere parte integrante della vita delle persone - si sfoga - Eppure ci sono dei mesi in cui a Milano non c’è disponibilità di scorte di infiorescenza”. Poi c’è Carlo Monaco, che di anni ne ha 35 e vive a Roma. Quando era poco più che maggiorenne ha iniziato a non stare bene, stress, studio, lavoro notturno, notti insonni, niente cibo. Nei momenti peggiori è arrivato a pesare 55 chili, per 1 metro e 81 centimetri di altezza. “Mi hanno prescritto forti dosi di Valium e di Xanax” ha raccontato. Niente. “Poi in Spagna è arrivata la svolta con la prescrizione della cannabis terapeutica”. Svolta durata poco perché in Italia nessuno voleva somministrargliela. Fino al 2015, quando quella ricetta è arrivata anche per lui. Ora si batte per sostenere i pazienti nella continuità terapeutica e nella facilità di accesso al farmaco. “L’unico modo per garantire il diritto costituzionale alla salute è dare la possibilità di coltivare a chi ne fa domanda” ha spiegato. Donato Farina è di Padova e ha 31 anni. La sua sinusite cronica che gli causava mal di testa così forti da non farlo dormire la notte è quasi sparita. “Il mio medico mi aveva consigliato di assumerla ogni giorno, ma l’approvvigionamento ha buchi anche di 10-15 giorni, mi son fatto una tabella per dilazionare le gocce nel tempo, prenderne meno e non restare mai senza” ragiona Donato. A Grosseto vive Paolo Malvani. Un incidente stradale gli ha lesionato il nervo sciatico periferico, un inferno quotidiano di dolori neuropatici cronici. La cannabis è stata la sua strada per ritrovare un po’ di pace dopo pesanti antidolorifici e la riabilitazione. Come Walter De Benedetto poi c’è Rosario D’Errico, 49 anni, con una sindrome ansio-depressiva. “Mi si sono formate diverse ernie del disco. E anche per colpa della burocrazia lentissima ho deciso di coltivarmi da solo le piante di cannabis” spiega Rosario. “Non l’ho mai spacciata ma a qualche vicino dava fastidio e mi ha denunciato”. Così è arrivato un processo penale e lui è rimasto senza lavoro. “Il caso di Walter è tra i più gravi e i più conosciuti, ma non è l’unico - dice la coordinatrice di Meglio Legale, Antonella Soldo - Ci sono centinaia di storie a cui il Parlamento dovrebbe rispondere con urgenza”. Libia, emergenza migranti nei barconi o in galera. Msf: “La situazione precipita” di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 23 aprile 2021 La scelta per i migranti di passaggio in Libia è tra i barconi, con il rischio di morire in mare, e le galere sovraffollate. Medici Senza Frontiere: “Come può l’Italia fare finta di niente?”. Le guardie hanno sparato nel mucchio, forse per placare il tumulto, in una cella dove sei umani si contendevano lo spazio vitale di uno, la notte tra l’8 e il 9 aprile. Così sono due profughi ragazzini di 17 e 18 anni, un morto e un ferito, le ultime vittime conosciute del “Centro di raccolta e rimpatrio” Al-Mabani, una delle cinque galere per migranti aperte attorno a Tripoli. Vittime ufficiali, s’intende: cioè quelle (poche) di cui Medici Senza Frontiere, una delle benemerite organizzazioni che riescono a mettere piede nella bolgia libica, può dare conto, raccontando che “la gente bloccata qui dentro per un periodo indefinito corre gravi rischi”, come ha spiegato Ellen van der Velden, manager operativa della Ong. Pare si muoia facilmente, dopo essere stati “salvati”. Ad Al-Mabani a febbraio i migranti prigionieri erano trecento. Sono diventati in fretta mille e settecento perché la guardia costiera libica, da noi sovvenzionata, ne ha riacciuffati parecchi tra fine inverno e inizio primavera. Sopravvivono senz’aria né luce, con poco cibo e poca acqua, hanno spiegato i volontari di Msf. È così in tutti i campi sotto il controllo del Dcim (il Dipartimento per la lotta all’immigrazione illegale) dove fughe e rivolte vengono stroncate nel sangue e dove all’inizio di marzo è stato impedito persino all’Unhcr (l’Alto commissariato Onu per i rifugiati) di continuare a distribuire coperte, materassi e abiti. In Libia sono aperti in questo momento 15 campi governativi, con 4.152 migranti prigionieri, il 27% dei quali minorenni e il 12% donne (1.046 sono i più vulnerabili). “Le loro sconvolgenti condizioni di vita vanno peggiorando”, testimoniano volontari che preferiscono restare anonimi. Solo a febbraio, il personale di Medici senza frontiere ha curato 36 prigionieri con fratture, abrasioni, ferite agli occhi e agli arti, gambe spezzate: tutti traumi recenti “a indicare che sono stati loro inferti nei campi di detenzione”. E i campi di detenzione di cui parliamo sono solo la punta dell’iceberg, neppure la più ignobile. Nel suo rapporto sui diritti umani, Amnesty International scrive che nel 2020 la guardia costiera libica ha “intercettato in mare 11.891 rifugiati e migranti, riportandoli indietro sulle spiagge libiche, dove sono stati sottoposti a detenzione arbitraria e indefinita, tortura, lavoro forzato ed estorsione”. Ma neppure questi conti vergognosi tornano. Il capo missione dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), Federico Soda, osserva che se gli ospiti dei campi ufficiali sono circa quattromila, mancano all’appello ottomila dei migranti catturati solo lo scorso anno. Alcuni vengono assistiti nei programmi dell’Unhcr o dell’Oim. Ma ne risultano svaniti ancora troppi. “Dobbiamo pensare che vengano trasferiti in campi non ufficiali, di cui nessuno conosce il numero”, dice Soda. Di recente la Brigata 444 ha fatto irruzione nei centri clandestini di Bani Walid, liberando profughi torturati e stuprati, per ricondurli nel circuito formale. Ma la differenza tra strutture legali e illegali in Libia spesso è solo burocratica. E talvolta il percorso è inverso. Scrive Amnesty: “A migliaia sono sottoposti a sparizione forzata, dopo essere stati trasferiti in luoghi di detenzione non ufficiali, compresa la ‘Fabbrica del Tabacco’ di Tripoli, sotto il comando di una milizia affiliata al Gna (il governo nazionale). Di loro non s’è saputo più nulla”. Già dai rapporti Onu del 2018 era noto come profughi e migranti fossero catturati, seviziati e ricattati da gang spesso “parastatali”, nelle quali confluivano banditi e funzionari governativi. Già da allora la famosa guardia costiera libica veniva definita alla stregua di una confraternita di pirati. A settembre dell’anno scorso l’Unhcr ha rilasciato una nota formale in cui si rigetta la nozione della Libia come posto sicuro di sbarco e “si invitano gli Stati a trattenersi dal rimandare in Libia qualsiasi persona salvata in mare”. Nella mappa dei luoghi più mortali per i migranti in Africa, subito dopo il deserto tra Niger e Libia c’è la costa libica, con Bani Walid, Sabratha, Zuwara e Tripoli. E, appena venerdì scorso, l’Alto commissario Filippo Grandi è tornato a sollecitare “la fine delle detenzioni abusive”, auspicando che “la nuova amministrazione libica dia segnali più forti di voler bloccare lo sfruttamento di migranti e rifugiati” (non va certo in questo senso la recente scarcerazione e promozione a maggiore della guardia costiera del trafficante Bija). Tuttavia, questa storia ha un’altra faccia, che non è possibile ignorare. Un terreno minato per tutti i governanti italiani, sul quale si è mosso con fatica persino Mario Draghi nella sua visita a Tripoli, ringraziando la Libia “per quello che fa nei salvataggi”. Frase impegnativa che, pur mitigata dal caveat sul “problema umanitario”, ha provocato malumori e si presta in realtà a una domanda, non provocatoria, su chi siano davvero i salvati. Non i migranti, è di tutta evidenza, ormai. Dunque? Ancora una volta parlano i numeri. La crisi migratoria del 2014-17, con una media che si proiettava verso i 200 mila sbarchi l’anno, ha minato la nostra convivenza, trasformato i migranti in nemici e aperto autostrade (anche elettorali) all’estremismo xenofobo. Il contestatissimo memorandum libico firmato nel 2017 dal ministro pd Marco Minniti ha quasi chiuso i flussi. Ma è un gioco di pretese sempre al rialzo. Oggi la ministra Lamorgese è chiamata a ridiscuterne coi libici: noi chiediamo più umanità, loro più quattrini. Anche gli sbarchi, forse non casualmente, stanno crescendo: vanno triplicandosi, pur partendo dai numeri bassissimi garantiti dagli accordi coi guardacoste di Tripoli. Che da noi il fuoco covi sotto la cenere è dimostrato, ove servisse, dal Barometro dell’Odio 2021 di Amnesty: immigrati e minoranze religiose sono tra i bersagli preferiti degli odiatori online. “Non è questione che l’Italia può affrontare da sola”, riflette Soda: “La mancanza di coerenza dell’Europa è grave”. Abbandonati e soli alla frontiera delle migrazioni, dunque, i salvati siamo noi. Per adesso. Pagare buttafuori per garantirci la quiete non pare una strategia sostenibile a lungo. Egitto. La via crucis di Hassan Al-Banna, giornalista di Giulia Beatrice Filpi Il Manifesto, 23 aprile 2021 Prima il carcere a Tora, dove l’amico Shady Habbash gli è morto tra le braccia. Poi la paura fuori, il viaggio in Giordania e la deportazione al Cairo con la complicità di Amman e di due compagnie aeree. Il giornalista egiziano Hassan Al-Banna è stato fatto scomparire per oltre 24 ore dalle autorità egiziane, dopo essere stato trasferito forzatamente al Cairo dall’aeroporto di Amman, dove era arrivato venerdì scorso con un regolare volo dall’Egitto. Banna era già stato vittima di sparizione forzata nel 2018: venticinquenne, fu arrestato con l’amico Mustafa Al-Aasar, per poi riapparire, come raccontato anche da questo giornale, in una sede dei servizi di sicurezza a Giza, accusato di diffusione di false notizie sulla base di prove artefatte. Volando in Giordania, Hassan sperava di lasciarsi alle spalle le sofferenze di due anni e mezzo di custodia cautelare, il trauma per la morte dell’amico regista Shady Habbash, spentosi tra le sue braccia nel carcere di Tora, e poi la paura di uscire per la strada, anche dopo la scarcerazione, il terrore di un nuovo arresto immotivato, come quello subito da Mustafa, tuttora detenuto. “Hassan era andato in Giordania perché è un paese che consente agli egiziani di accedere senza visto. Voleva rilassarsi lì qualche giorno, pensare a come iniziare una nuova vita - spiega al manifesto Abdel Rahman Fares, fratello di Hassan e senior editor della testata Al-Araby Al-Jadid - Appena è salito sull’aereo dall’Egitto ci ha mandato una sua foto, sorrideva. Dopo essere uscito di prigione diceva sempre: non sarò tranquillo fino a quando non avrò lasciato il Paese”. Ma una volta ad Amman, le autorità aeroportuali hanno negato il visto a Banna e iniziato a fare pressione per deportarlo nuovamente in Egitto, nonostante il giornalista tentasse di appellarsi ai suoi diritti, sottolineando i rischi che avrebbe corso in patria. “Nel frattempo noi abbiamo contattato personalità di alto livello, tra cui un ministro - spiega ancora Fares - Ha promesso di non deportarlo, ci ha solo fatto perdere tempo”. A sostenere Banna, cercando di ottenere di farlo viaggiare verso un Paese terzo, è stata anche la Egyptian initiative for personal rights (Eipr), l’ong per cui lavorava anche Patrick Zaki. Dopo aver ottenuto un visto elettronico per il Kenya e nonostante le rassicurazioni delle autorità di Nairobi, ha spiegato il direttore Hossam Baghat al giornale indipendente Mada Masr, una compagnia aerea ha rifiutato di trasportare Banna, sostenendo che il suo visto non fosse valido. Lo stesso è accaduto con un’altra compagnia che, con giustificazioni analoghe, gli ha negato la possibilità di acquistare un biglietto per il Libano. “Più tardi - spiega ancora Fares - abbiamo appreso che le autorità egiziane avevano inviato alla loro controparte giordana due lettere, per chiedere prima l’arresto, poi l’estradizione di Hassan”. A colpire è quella che sembrerebbe essere la totale collaborazione da parte di Amman: dopo aver trascorso 56 ore in aeroporto, Banna è stato scortato fino in Egitto da un ufficiale della sicurezza giordana. Poi, una volta al Cairo, l’interruzione di tutte le comunicazioni, un buco nero durato un giorno: ora che Hassan è tornato a casa, spiegano i familiari, ha bisogno di riposo e preferisce non parlare di quanto accaduto in quelle ore. “Non ho idea del perché le autorità egiziane siano così interessate a mio fratello…Se non volevano che viaggiasse, perché lo hanno lasciato uscire dal Paese?”. Si indigna ancora Fares, che scrive da Doha, in Qatar: “Penso semplicemente che gli apparati di sicurezza egiziani non vogliano che gli ex detenuti vivano in pace, vogliono tenerli sotto pressione”. “L’episodio di questi giorni non ha fatto che aumentare la nostra costante paura del regime - conclude il giornalista - La nostra famiglia ha diversi membri detenuti, altri in esilio. Nostro fratello maggiore è stato ucciso dall’esercito e dai proiettili della polizia, la nostra vita è influenzata negativamente da ogni nuova intimidazione. Vogliamo solo respirare liberamente”. Afghanistan. Salta la conferenza di pace e l’agenda dettata dagli USA di Giuliano Battiston Il Manifesto, 23 aprile 2021 Niente più conferenza di pace. Non ora. Inizialmente programmata per marzo, posticipata a inizio aprile, poi al 16 dello stesso mese, infine fissata ufficialmente dal 24 aprile al 4 maggio 2021, la conferenza di pace che nei piani di Washington avrebbe dovuto condurre al consenso politico sulla fine della guerra afghana è stata cancellata. Ieri ne ha dato annuncio Unama, la missione dell’Onu a Kabul, promotrice insieme ai governi di Turchia e Qatar. “Alla luce degli sviluppi recenti”, recita il comunicato ufficiale, “e dopo estese consultazioni con gli attori coinvolti, è stato concordato di posticipare la conferenza”. Si aspettano tempi in cui ci siano “condizioni migliori per un progresso favorevole”. Ma una nuova data non c’è. Sicuramente, dopo la fine del Ramadan, a metà maggio. Sempre che si tenga. È una nuova vittoria per i Talebani, almeno sul breve termine. E la sconfitta dell’offensiva diplomatica di Washington, in particolare del segretario di Stato, Antony Blinken. È stato lui, a inizio marzo, a inviare una lettera dai torni urgenti al presidente afghano, Ashraf Ghani, e ad Abdullah Abdullah, a capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale. La lettera di Blinken, che indicava l’urgenza del momento, era una sorta di agenda dettata dall’esterno. Indicava i passaggi necessari, agli occhi di Washington, per rompere lo stallo diplomatico tra i Talebani e il fronte “repubblicano” di Kabul. Ci vuole una conferenza di pace, in fretta, e un governo di transizione che traghetti il Paese verso un nuovo quadro politico, così diceva Blinken. Ricevuta con malcelata insofferenza da Ghani, più volte pressato dagli americani affinché rinunciasse al palazzo presidenziale per un governo di “ampia coalizione”, quella lettera incarnava una scommessa, dettata dall’esigenza di garantirsi un’uscita di scena meno disonorevole: portare a casa un accordo tra gli afghani, prima del ritiro delle truppe. Una scommessa persa. Una volta annunciato il ritiro dal Paese, che avverrà - così Biden - entro l’11 settembre e in modo incondizionato, cioè senza tener conto di ciò che avviene sul fronte militare o diplomatico, la già fragile cornice che teneva in piedi il processo di pace è saltata. Per ora, provvisoriamente. Ma il colpo potrebbe essere letale. Sono valsi a poco i tentativi di Islamabad, Washington, Onu, Turchia e Qatar di convincere i Talebani, che hanno male accolto la decisione unilaterale di Washington di non rispettare l’accordo firmato a Doha nel febbraio 2020. Prevedeva il ritiro completo delle truppe americane entro l’1 maggio 2021. Biden si è preso invece altri 4 mesi circa. L’occasione buona per i Talebani per alzare la posta in gioca, tirare la corda, accusare Washington di non rispettare i patti. E rifiutarsi di partecipare alla conferenza di Istanbul. Per gli studenti coranici è una vittoria chiara. Ma solo sul breve termine. Se dovessero continuare a tirare la corda, rifiutandosi di sedersi al tavolo negoziale, non otterrebbero quella patente di legittimità internazionale a cui ambiscono e di cui hanno bisogno. È su questo che punterà Washington. Mentre a Kabul il presidente Ghani, che ha tentato di mantenere il più a lungo possibile le truppe straniere nel Paese, ora si dice convinto che il ritiro è giusto e che è l’occasione per gli afghani per tornare a esercitare la sovranità in casa propria. Ai tanti che hanno paura, che temono un ulteriore intensificazione del conflitto, la spallata militare dei Talebani o l’emergere di nuovi e diversi attori stragisti, il tecnocrate che per 25 anni ha vissuto negli Usa risponde così: “chi ha paura, vada fuori dal Paese”. Russia. Magadan, Siberia: là dove c’era un gulag ora c’è una città di Wlodek Goldkorn L’Espresso, 23 aprile 2021 Fu costruita per sfruttare le ricchezze del sottosuolo. E popolata grazie ai campi di lavoro forzato. Molti ex detenuti però sono rimasti ad abitare lì. Era il cinque dicembre dell’anno 1947, quando il vaporetto Kim approdò nella Baia di Nagaev, a Magadan. A bordo i detenuti si ribellarono. In tremila vennero sommersi dai gettiti di acqua delle guardie armate. È una delle storie che narra Varlam Šalamov, scrittore russo, fra i più grandi del Novecento, autore di “I racconti di Kolyma”, un libro che dà conto dei suoi diciotto anni di prigionia nell’estremo Nord della Russia, ma che, analogamente all’opera di Primo Levi, non è testimonianza ma letteratura che si interroga sulle cose prime e ultime degli esseri umani. Ci torneremo. Magadan venne fondata nel 1929. Qualcuno parlò di una “piccola San Pietroburgo” o meglio Leningrado, per via di qualche bell’edificio. In realtà si trattava di un progetto titanico di sfruttamento delle risorse naturali disponibili in una zona impervia grande una volta e mezzo il Giappone. Da quelle parti, dicevano i geologi sovietici, c’era oro, uranio e tanti minerali necessari per la gloria della patria e la vittoria del comunismo. Il problema era come attrarre la gente ad abitare in luogo dove l’estate (si fa per dire) dura due mesi e d’inverno le temperature scendono a 38 gradi sotto lo zero e qualche volta arrivano a meno cinquanta. La soluzione fu trovata con facilità: costruendo un sistema di schiavitù, una rete di lager in cui i deportati avrebbero lavorato gratuitamente, fino alla fine delle loro forze, puniti in caso di scarsa produttività e perennemente affamati. Quel sistema ebbe il nome di gulag e la sua capitale simbolica può essere considerata appunto Magadan. Talvolta al posto del nome della città si nomina il fiume Kolyma. Ecco: Magadan e Kolyma, sono la metonimia del gulag, l’orrore dello stalinismo, segno della trasformazione di un’utopia nella radicale distopia. Oggi a Magadan abitano poco più di novantamila persone. Molti sono figli o nipoti degli ex prigionieri, gli “zek”, così chiamati nel gergo burocratico dei lager russi, altri invece sono discendenti dei guardiani. La strada che dalla città porta fino a Yakutsk, nella regione della Yakutia, in Siberia, è lunga circa duemila chilometri ed è anche denominata la “strada delle ossa”. Fu costruita dai prigionieri con attrezzature rudimentali: molti morivano di stenti e fatica. I cadaveri venivano gettati nelle fosse comuni, proprio lì dove ora passano i camion. E del resto, si racconta di un proprietario di una miniera d’oro, sempre dalle parti di Magadan, che un giorno, durante gli scavi fatti dai suoi operai, scoprì una montagna di ossa umane. Racconti macabri? Sì. Ma le storie rendono evidente una certa, chiamiamola spontaneità, nella vita e nei modi di dare la morte nell’universo concentrazionario sovietico. Ne citiamo uno. Una ex detenuta raccontava in un filmato, come, ai tempi, vide un uomo sporgersi oltre il filo spinato. Una guardia gli sparò. Il cadavere restò là, finché non se lo portò via un orso. Detto con brutalità, quel modo di procedere, caotico e senza una vera sepoltura ha fatto sì che pure le statistiche delle vittime sono approssimative e variano a seconda dei parametri usati dai ricercatori. Possiamo dire grosso modo che il numero dei detenuti in tutto il sistema dei Gulag è stato di circa 18milioni e fino a 20 milioni e non ci avventureremo nelle ulteriori spiegazioni. Ne parla comunque Anne Applebaum in “Gulag. Storia dei campi di concentramento sovietici” (Mondadori). Oggi a Magadan la memoria è materializzata in un monumento. L’aveva progettato lo scultore Ernst Neizvestnyj, scomparso cinque anni fa all’età di 91 anni negli Stati Uniti. Si tratta di una storia che riassume la vicenda dell’Unione sovietica. Militare dell’Armata rossa, nell’aprile 1945 Neizvestnyj fu ferito e dichiarato morto, tanto che la madre ricevette la medaglia “postuma”. Guarì invece, diventò artista importante finché nel 1962 la sua arte venne paragonata dall’allora segretario del partito Nikita Kruscev agli escrementi di una mucca. Emigrò quindi negli States. Ecco, nel 1996 Neizvestnyj costruì a Magadan “La maschera del rimorso”, un monumento a forma di maschera, appunto, alto quindici metri. Sembrava l’inizio di una presa di coscienza collettiva su cose sia stato il comunismo sovietico. Ma poi qualcosa si è inceppato, Vladimir Putin decise di ricostruire il pensiero imperiale, tanto che oggi stando ai sondaggi tre russi su quattro hanno un buon ricordo dell’Urss. Ci sono molti film girati in Russia su Magadan, Kolyma, e su coloro che qui sono stati imprigionati. In uno di questi si parla di un detenuto celebre, Sergej Korolev. Korolev è stato il padre dei razzi che portarono gli Sputnik e i Vostok in orbita fra fine anni Cinquanta e primi Sessanta. Finì in Kolyma nel corso delle purghe delle forze armate nel 1938. Dopo aver lavorato nella miniera d’oro, venne traferito in una “sharashka”, un campo di quelli speciali descritti da Aleksandr Solzenicyn, destinati agli scienziati di cui il regime aveva necessità. In un filmato sua figlia dice: “Stalin ha fatto più male che bene. Però”. E riconosce al tiranno un certo coraggio, durante la guerra. In altri filmati, persone che abitano a Magadan, nel cuore dei luoghi della morte e delle atrocità, ricordano come, sempre durante la guerra, i soldati morissero sul fronte con il nome di Stalin sulla bocca. E ancora, in uno stupendo reportage girato nel 1994 dall’olandese Theo Uitensbogaard, viene data la voce a Vadim Kozin. Kozin in Russia è una leggenda. È stato il più famoso cantante degli anni Trenta e primi Quaranta. Veniva invitato al Cremlino, e nel filmato racconta come cantava non solo per, ma insieme a Stalin. Momenti di divertimento, di sintonia fra un artista e il tiranno. Nel 1944 lo arrestarono. Per quale motivo? Lui cita una conversazione con il capo del Nkvd Beria che lo rimproverava di non cantare canzoni su Lenin. Probabilmente finì nel Lager dalle parti di Magadan perché era omosessuale. Dopo sei anni lo liberarono. Ma lui aveva deciso di restare in quella città per sempre. Non solo lui. La popolazione diminuisce, le orrende palazzine sono in stato di abbandono ma moltissimi ex prigionieri ed ex guardie non hanno voluto andarsene via, nonostante il clima, il buio, la miseria. Il cantante Kozin ricordava Stalin con tenerezza. In un altro reportage, però, realizzato nel 2016 da un regista tedesco, è centrale la versione di una ex prigioniera, Antonia Novosad, anche lei rimasta a Magadan. Novosad ha l’aria di una signora intelligente, ha occhi vivaci ed eloquio riflessivo. Racconta la sensazione di fame. La paura. Narra di come sia arrivata con le compagne detenute in città, dopo giorni di navigazione su un piroscafo, simile al Kim, citato da Šalamov, o forse lo stesso. Una volta sbarcate, le donne sono condotte al lager. Per prima cosa vengono portate al bagno. Ordinano loro di spogliarsi nude, davanti agli uomini. Segue il taglio di capelli, la depilazione. La signora Novosad, nella sua modestissima abitazione, seduta a un tavolo guarda dritto la telecamera ed esprime un desiderio: “Voglio che la mia storia venga rammentata fra cento e duecento anni”. Ma che cosa ricorda? Bene, rendiamo la cosa esplicita. Nello stesso filmato, un’altra donna anziana, parla delle torture subite e dice: “Siamo stati torturati con metodi fascisti”. Poi descrive i supplizi in modo dettagliato (ne citiamo uno solo: stare nuda per 24 ore in una cella gelata, una sfida alla morte). Certo, nei lager di Kolyma non c’erano camere a gas. Soprattutto, a differenza da quelli nazisti, i guardiani non appartenevano a un’altra umanità, non erano superuomini, potevano diventare loro stessi detenuti. Fra i prigionieri molti erano ex capi e alti funzionari dei servizi di sicurezza, a loro volta vittime delle “purghe” dopo essere stati carnefici. Lo racconta Evgenija Ginzburg in un altro libro, “Viaggio nella vertigine”, pubblicato negli anni Sessanta in Occidente. Criticato da Šalamov in quanto “troppo romantico”, non amato da Nadezda Mandelstam, la vedova del grande poeta morto da queste parti, il testo in realtà restituisce il clima dell’epoca e lo stato d’animo di una giovane docente di letteratura russa all’Università di Kazan, fervente comunista, vittima delle purghe di Stalin e che ritrova l’uomo che la portò in carcere, prigioniero nello stesso lager. Dalle parti di Magadan, con altre donne taglia i boschi, patisce la fame, assiste alle fucilazioni. Ma non si arrende, e se può apparire ingenua la sua voglia di trovare la bellezza ovunque è un’ingenuità toccante e lodevole. Continua a recitare a memoria “Evgenij Onegin”, il capolavoro di Puskin. E si innamora del dottore del lager. Quell’amore le ridarà la vita. Šalamov nell’amore credeva poco. Per lui, il gulag era una situazione estrema, al limite del nichilismo. Nel lager, diceva, tutti diventiamo delle bestie. In una annotazione in apparenza marginale ma centrale, cita il caso di un medico, con l’esperienza del lavoro al fronte durante la guerra. E dice che neanche quell’esperienza l’aveva preparato a ciò che avrebbe visto nel gulag. Aggiungeva che, a diciassette anni dall’evento che l’aveva sconvolto (l’approdo della nave Kim, appunto), quello stesso chirurgo non se lo ricordava più. Corea del Sud. Giustizia negata: il tribunale dà torto alle “donne di conforto” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 aprile 2021 La sentenza del tribunale della Corea del Sud che l’altro ieri ha respinto la richiesta di un gruppo di “donne di conforto”, presentata nel 2016, di ottenere un risarcimento dal Giappone ha avuto l’effetto di una doccia gelata. A gennaio, un’altra sezione dello stesso tribunale aveva infatti ordinato al Giappone di pagare i danni a un gruppo di 12 donne sopravvissute al sistema di schiavitù sessuale introdotto dalle forze armate giapponesi nei territori occupati prima e durante la Seconda guerra mondiale: un sistema che obbligò circa 200.000 donne a dare “conforto” nei bordelli alla soldataglia del Sol Levante. Secondo la sentenza di gennaio, quel sistema aveva causato “un’estrema, inimmaginabile sofferenza fisica e mentale” cui “non potrebbe essere applicata l’immunità che si deve agli stati e agli atti compiuti nell’esercizio della sovranità”. La sentenza di ieri dà ragione alla posizione del Giappone: un accordo bilaterale raggiunto nel 2015 col governo sudcoreano dell’epoca ha risolto la questione “in modo irreversibile” e il principio della sovranità dello stato tiene al riparo le autorità di Tokio da ricorsi ai tribunali stranieri. Negli ultimi 30 anni le sopravvissute al sistema delle “donne di conforto” si sono rivolte ai tribunali in Cina, Corea del Sud, Filippine, Paesi Bassi e Taiwan. Hanno sempre perso. Il tempo scorre senza giustizia. Delle 10 sopravvissute che si erano rivolte al tribunale di Seul nel 2016 ne restano in vita solo quattro.