Carceri: la scommessa di Marta Cartabia di Valter Vecellio lindro.it, 22 aprile 2021 Si contano sulle dita di una mano le dichiarazioni di Marta Cartabia, da quando è Guardasigilli. Discreta almeno quanto il presidente del Consiglio Mario Draghi. Ma la diversa caratura rispetto al suo predecessore, Alfonso Bonafede, è più che palpabile. Giustizia riparativa ed ergastolo ostativo, tra i temi affrontati da Cartabia in occasione della sua visita alla Casa circondariale di Bergamo: “La giustizia deve mirare alla rieducazione. All’interno del carcere, così isolato da tutto e da tutti in questo lungo anno, il disagio può rischiare a volte di spegnere del tutto la fiducia e la speranza, come provano i drammatici suicidi tra agenti della polizia penitenziaria, tra il personale e tra detenuti. Sono già 16 dall’inizio dell’anno, l’ultimo ieri. Sono fatti a cui non possiamo abituarci. Sono richiami forti, gridi di aiuto. Questo tempo di pandemia ha acceso un faro sulle tante problematiche connesse alla salute fisica e psichica che in carcere si amplificano e attendono risposte più adeguate di quelle attualmente esistenti. Sono drammi che non possono essere ignorati”. Il carcere, dice Cartabia, ha molti volti e occorre conoscerli da vicino: “Oggi abbiamo dovuto conoscere il carcere della pandemia. Il carcere della pandemia ha portato in primo piano i problemi della salute. Oggi siamo chiamati a farci carico prioritariamente della salute di chi opera nel carcere e di chi nel carcere è ospitato, per proteggere tutta la comunità carceraria. Ho avuto la comunicazione dal generale Figliuolo che si procederà senza interruzione nel completamento delle vaccinazioni in carcere”. Le cifre, fornite dalla stessa Cartabia: “A oggi, a livello nazionale sono risultati positivi al Covid 737 detenuti, 478 agenti di polizia penitenziaria e 41 addetti alle funzioni centrali, mentre sono stati coinvolti nel piano vaccinale 9.624 detenuti, 16.819 agenti di polizia penitenziaria e 1.780 addetti alle funzioni centrali”. Per quel che riguarda la recente sentenza della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo: “Bisognerà leggere con attenzione le motivazioni che chiariranno l’esatto significato della decisione. Mi pare che sin da ora si possa ritenere che la Corte ha già individuato nell’attuale regime dell’ergastolo ostativo elementi di contrasto con la Costituzione, ma chiede al legislatore di approntare gli interventi che permettano di rimuovere l’ostatività tenendo conto della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e quindi nel rispetto di regole specifiche e adeguate”. Ancora sul carcere: “Deve avere finestre aperte su un futuro, deve essere un tempo volto a un futuro di reinserimento sociale, come esige la Costituzione. Ma le modalità debbono diversificarsi, debbono tenere in considerazione le specificità di ogni situazione”. Il carcere, ricorda Cartabia, costituisce un capitolo nel Piano che il Governo Draghi sottoporrà all’attenzione delle Camere e di Bruxelles. Titolo: “Miglioramento degli spazi e della qualità della vita nei penitenziari per adulti e minori”. Spesa prevista, 132,9 milioni di euro; un terzo servirà per ammodernare quattro istituti per minorenni (Roma, Benevento, Torino e Bologna; il resto per costruire otto nuovi padiglioni e una campagna di manutenzione straordinaria in altri. Il “piano” è riassunto nelle righe di accompagnamento: “Definire un’architettura penitenziaria di nuova concezione, che riveda le strutture carcerarie con l’obiettivo di aumentare gli spazi comuni intramurali, per ottenere e accrescere l’esperienza di una reale prospettiva del reintegro nella società e nel recupero della persona”. Si farò tesoro di quanto elaborato da una apposita commissione presieduta dall’architetto Luca Zevi. Lo stesso Zevi spiega la sua visione del carcere del futuro in un articolo su “Il giornale dell’architettura”: “Un modello di istituto di dimensioni contenute, inserito e permeabile ai contesti urbani, piuttosto che segregato in “lande desolate” e occultato da un imponente muro di recinzione. Un organismo complesso, nel quale tutti i requisiti che caratterizzano la vita libera (a eccezione, naturalmente, della libertà di muoversi all’esterno) - ovvero il diritto al lavoro, alla formazione, alla creatività, al tempo libero, allo sport, alla socialità, a una residenza in gruppi/appartamento anziché in celle allineate lungo corridoi che formano bracci e raggi - venissero garantiti, attraverso una riproduzione quanto più fedele possibile delle condizioni di un’esistenza normale, alla quale il trattamento penitenziario è chiamato a riabilitare”. Insomma: almeno nelle intenzioni dovrebbe andare in soffitta il vecchio modello di ‘padiglione’. I nuovi edifici che si spera saranno realizzati in tempi ragionevoli dovrebbero avere celle per 80 detenuti al massimo, con adeguati spazi per il lavoro e tempo libero. La struttura stessa del padiglione dovrebbe ricordare una civile abitazione perché l’obiettivo è rieducare il detenuto alla vita normale, non “infantilizzarlo”, per usare le parole del Garante peri diritti dei detenuti, Mauro Palma, che partecipa ai lavori della commissione. Carceri, salute, minori: assistenti sociali incontrano la ministra Cartabia cnoas.org, 22 aprile 2021 “Ascolto, interesse, competenza, disponibilità, impegno. L’incontro, nel pomeriggio di ieri, con la ministra della Giustizia può essere riassunto in questi sostantivi che vogliamo condividere con tutti i nostri iscritti. In un’ora di colloquio e di scambio reciproco abbiamo affrontato problemi complessi che aspettano soluzione e che sono diventati anche più urgenti in questa lunga crisi pandemica. La riforma della professione perché l’assistente sociale abbia ancora più competenze per essere di supporto a chi è in difficoltà; la situazione nelle carceri soprattutto per la salute - in particolare quella mentale - dei detenuti; la tutela dei minorenni e il sostegno alle loro famiglie, anche in prospettiva di possibili riforme. Il confronto sarà costante e, siamo certi, aiuterà noi assistenti sociali a fare meglio ciò che facciamo. Ma soprattutto servirà al Paese che ha bisogno di professionisti ancora più forti e adeguati alle nuove sfide”. Così Gianmario Gazzi e Barbara Rosina dopo l’incontro con la ministra Marta Cartabia. Il monito dei Garanti: necessario tutelare la riservatezza dei detenuti entilocali-online.it, 22 aprile 2021 La Polizia penitenziaria può sorvegliare ma non ascoltare le conversazioni dei detenuti. Il 9 aprile 2021 il Garante per la protezione dei dati personali e l’Autorità Garante dei diritti dei detenuti hanno rilasciato un Comunicato congiunto, col quale sono state espresse raccomandazioni e richiami sulla riservatezza nelle carceri italiane. “Sorvegliare e punire”. Questo è il titolo di uno dei libri più famosi sul modo in cui le carceri possono impattare sull’uomo e sulla sua psicologia, scritto da Michel Foucault, nel lontano 1975, ancora oggi studiato a Giurisprudenza. All’epoca in cui fu pubblicato, internet non esisteva e i computer erano grandi quanto grandi stanzoni. Oggi, invece, all’interno delle carceri i detenuti hanno la possibilità di entrare in contatto con i propri cari grazie alla tecnologia delle videochiamate. L’arrivo di Skype. Con la Circolare del Ministero della Giustizia, n. 0031246 del 30 gennaio 2019, è stata introdotta la possibilità per i detenuti di chiamare i propri familiari tramite Skype (Business). Il procedimento è molto semplice: l’operatore di polizia giudiziaria (cd. “Relatore”) predispone e sorveglia la chiamata per il detenuto (cd. “Partecipante”), inserendo poi tutti i dati personali a quest’ultimo riferiti (dal nome e cognome allo stato e grado del procedimento penale a carico), nonché quelli di uno o più familiari intervenuti, in un apposito registro. Chiaramente, per esigenze di sicurezza pubblica (e privata), l’operatore è tenuto a vigilare sul corretto svolgimento della chiamata e impedire, per esempio, che l’interlocutore del detenuto cambi in corsa. A tal proposito, all’inizio e alla fine della conversazione, il poliziotto è tenuto a verificare l’identità personale dei partecipanti alla medesima. Ascoltare è vietato, ma vigilare è dovuto. Già la Legge n. 354/1975 (coeva al libro di Foucault) aveva predisposto che gli operatori di polizia penitenziaria debbono esercitare un controllo a distanza del colloquio (predisposto in un apposito locale che permetta di tenere d’occhio il detenuto), ma con l’espresso divieto di ascoltare la conversazione tra la persona in custodia e i suoi familiari (art. 18). Era chiaramente un tentativo di bilanciare il diritto alla riservatezza dei detenuti con l’interesse alla sicurezza pubblica. Infatti, succede spesso che alcuni boss malavitosi forniscano precisi ordini e indicazioni ai propri “sottoposti” per condurre le attività illecite al di fuori del carcere. Ma è anche successo, come di recente, che in tempi di pandemia, in presenza di maggiori necessità di fare uso delle videochiamate, gli operatori della polizia penitenziaria abbiano origliato (troppo) le conversazioni dei detenuti (violando la loro privacy, ma anche la loro dignità). Il monito dei due Garanti. Le raccomandazioni e prescrizioni delle due Autorità sono le seguenti: devono essere osservate (migliori) misure tecniche e organizzative per garantire la protezione dei dati personali (cfr. art. 32 Gdpr); il controllo a distanza dell’operatore deve essere fatto esclusivamente per il riconoscimento delle persone coinvolte nella conversazione, senza ascoltare alcunché; effettuate queste verifiche (all’inizio e alla fine), per tutta la durata del colloquio telematico l’operatore deve lasciare da solo il detenuto, abbandonando la stanza. Un sacco di dati personali, ma bastano delle cuffie? I detenuti possono rappresentare una fonte molto ricca di informazioni e dati personali, di ogni genere (dai dati comuni, come nome e cognome, a quelli “sensibili”, come analisi relative alla salute o comportamenti video-ripresi). Per questo, e per la sua particolare condizione, la detenzione comporta anche un maggiore affidamento della persona in custodia nei confronti degli operatori penitenziari, in termini di garanzie di legalità, dignità del trattamento, ma anche tutela della privacy. Ottemperare ai moniti dei due Garanti non sembra impossibile, forse sono sufficienti delle cuffie auricolari, oppure un controllo da remoto della polizia solo visivo, senza audio. Gli ingenti investimenti, già opportuni in generale per migliorare la qualità di vita dei detenuti, con riferimento alla tutela dei loro dati personali, solo per il momento potrebbero essere sostituiti da misure di buon senso (come l’impiego di auricolari al posto delle casse altoparlanti). Naturalmente, tamponata l’emergenza, sarebbe opportuno procedere ad un’integrale revisione dei processi di trattamento dei dati personali nelle carceri, e non solo. Sorvegliare e punire, non origliare! I moniti dei due Garanti vanno nella direzione di cercare (e ricordare) il punto di equilibrio tra diritto alla riservatezza dei detenuti e interessi pubblici di sicurezza e contrasto alla criminalità; ma la sua attuazione richiede il buon senso e la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti, dalle persone in custodia, alla polizia, alle direzioni dei penitenziari, fino ad arrivare al legislatore ordinario (che ancora tace). Prescrizione per fasi, ecco l’idea del Pd. FI: “Serve un’alta mediazione di Cartabia” di Errico Novi Il Dubbio, 22 aprile 2021 Ddl penale, gli emendamenti. Slitta a martedì il termine (che scadeva domani) per le proposte di modifica alla riforma del processo, da depositare in commissione Giustizia alla Camera. Il capogruppo dem Bazoli: “Siamo al lavoro su uno schema di sanzioni processuali che, in caso di durata eccessiva del singolo stadio di un giudizio, possono consistere anche nella decadenza dell’azione penale”. Il capo della delegazione azzurra Zanettin: “Dal fine processo mai non si può prescindere”. Ancora un extra time. Ma per far bene, non per dilatare i tempi. Il termine per gli emendamenti al ddl penale slitta di quattro giorni: da domani a martedì, ore 17. Richiesta della Lega, che vuole approfondire meglio l’articolazione delle proposte. Tutti gli altri gruppi rappresentati nella commissione Giustizia di Montecitorio hanno dato volentieri l’ok. Perché di lavoro da fare sul testo base a firma Bonafede ce n’è tanto. Se non sarà stravolta, certo sarà profondamente rivista la filosofia di quella riforma: sì alla rapidità dei processi ma senza sacrificare le garanzie difensive, anzi con l’estensione di riti alternativi come il patteggiamento. La “proposta globale” del Pd, prescrizione inclusa - Peserà molto il pacchetto che sta per arrivare dal Pd. Non eluderà il punto chiave: la prescrizione. “Siamo al lavoro”, spiega Alfredo Bazoli, capogruppo dem in commissione, che conferma: “Ci sarà una proposta relativa alla prescrizione per fasi processuali. Si può anche non cancellare la norma Bonafede, relativa all’estinzione del reato, ma si possono prevedere conseguenze e sanzioni processuali diversificate a seconda di quanto sia ampio lo sforamento dei limiti di durata prestabiliti per ogni stadio del giudizio. Seppure i nostri emendamenti siano in via di perfezionamento”, dice al Dubbio il capogruppo pd, “possiamo già ipotizzare che per sforamenti più lievi si ricorra a sconti di pena (come proposto pure da Federico Conte di Leu, ndr) e che per i ritardi più gravi intervenga la decadenza dell’azione penale”. Ecco, siamo al punto: con una proposta simile, si metterebbe fine allo spettro del “fine processo mai”. Non ci sarebbe alcun procedimento penale potenzialmente destinato a durare in eterno. Passo importante sul quale si dovrà misurare la risposta del Movimento 5 Stelle. Ma il Pd avverte la responsabilità di dover proporre un’impostazione complessiva, tanto da aver già programmato una conferenza stampa per illustrare il proprio “pacchetto”: avrebbe dovuto tenersi domani, dopo la scadenza del termine, “a questo punto la rinviamo a martedì”, dice Bazoli. “Ci saranno anche interventi su patteggiamento e abbreviato: vanno estesi e rafforzati entrambi. Il nostro obiettivo”, aggiunge il capogruppo dem, “è un ddl delega che coniughi riduzione dei tempi e garanzie difensive”. FI: il fine processo mai va abolito, sì alla sintesi di Cartabia - In fondo la logica del “pacchetto organico” aiuta: ogni scelta diventa più facile da discutere anche con chi, come i pentastellati, è contrario a modifiche sulla prescrizione che superino il lodo Conte bis. Forza Italia per esempio, come spiega il capogruppo in commissione Pierantonio Zanettin, sicuramente offrirà in materia di prescrizione “un ventaglio di soluzioni diverse: noi intendiamo far valere l’ispirazione garantista di cui possiamo dire di essere interpreti fedeli. Nello stesso tempo”, dice il deputato azzurro ed ex laico Csm, “intendiamo arrivare a una norma sulla prescrizione e a una riforma penale complessiva che ottengano la più ampia condivisione possibile. La tecnicità delle soluzioni va messa al servizio dei principi costituzionali: vuol dire che in ogni caso il fine processo mai va cancellato. E a proposito di mediazione, visto che non sarà semplice”, aggiunge Zanettin, “ci aspettiamo una sintesi di alto profilo da parte della ministra Cartabia”. I paletti di Italia viva, il nodo Csm - È alla guardasigilli che, in ultima analisi guardano tutti. “Il quadro non è ancora omogeneo”, osserva Cosimo Ferri, magistrato prestato al Parlamento che in commissione Giustizia rappresenta Italia viva. “Colgo ancora una sintonia fra Pd e M5S. Noi invece siamo convinti, per esempio, che la prescrizione di Bonafede vada innanzitutto congelata, come previsto da nostre precedenti proposte”. A complicare un quadro già ricco di insidie contribuisce pure la riforma del Csm: ieri il ddl di Bonafede è stato adottato come testo base, con l’abbinamento della proposta di legge firmata autonomamente dal responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa. Il quale però è stato il solo a non condividere il via libera allo schema dell’ex guardasigilli: “Proprio non me la sono sentita di votare a favore”, ha detto. Costa è convinto fra l’altro che il sistema per eleggere i togati debba escludere il collegamento fra candidati e liste delle correnti, come recita la sua proposta. Ma sulla magistratura il compromesso sembra più a portata di mano. Oltretutto il presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni, del Movimento 5 Stelle, ricorda che i deputati attendono “di conoscere il parere del Csm” in modo da avere “tutti gli strumenti di valutazione”. Certo le obiezioni di Palazzo dei Marescialli si annunciano numerose. Anche sul maggior peso da assicurare agli avvocati nei Consigli giudiziari e nell’ufficio Studi di piazza Indipendenza. Tutti d’accordo invece, compreso il Csm in carica, sullo stop alle porte girevoli fra toghe e politica (come riferito più approfonditamente in altro servizio, ndr). Il via libera alla commissione d’inchiesta sui magistrati - Ieri Perantoni e l’altro presidente di commissione espresso dai 5s, Giuseppe Brescia della Affari costituzionali, hanno deciso di “incardinare tra 15 giorni la proposta di legge Gelmini per la commissione d’inchiesta sull’uso politico della giustizia. Non abbiamo seguito il metodo Ostellari”, è la frecciata al collega leghista che in Senato presiede la commissione Giustizia e che fa infuriare gli ex giallorossi per il ddl Omofobia. Tutto sommato lo spirito auspicato da Cartabia, niente bandierine e dialogo sul merito, potrebbe prevalere al punto da sdrammatizzare il contributo del gruppo di lavoro da lei insediato a via Arenula. Ci sono le premesse per evitare il big bang sulla giustizia penale, strano ma vero. Alla Camera la maggioranza si spacca sul Csm e sulla commissione d’inchiesta sulle toghe di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 22 aprile 2021 Costa di Azione si astiene sull’adozione del testo base dell’ex Guardasigilli Bonafede. Il Csm dice sì alla proposta Cartabia sul rinnovo parziale ogni due anni. Arriva la stretta sui giudici in politica. Maggioranza in crisi sulla giustizia alla Camera. Scontro sulla commissione parlamentare d’inchiesta sulla magistratura dove prevale il centrodestra di governo (Fi, Lega, Azione) e d’opposizione (Fratelli d’Italia), ma è d’accordo anche Italia viva. Mentre Pd e M5S sono contrari, ma sono costretti a piegare la testa, anche se vedono già evidente il rischio che un potere dello Stato, quello legislativo-parlamentare, finisca per fare “il processo” a quello giudiziario. Soprattutto visti i toni del testo finora presentato da Forza Italia che annuncia, di fatto, un’indagine parlamentare a 360 gradi sulle ragioni delle indagini giudiziarie, sul perché sono state aperte, sui criteri con cui sono andate avanti. Un “processo” in tutto e per tutto. Al quale non riescono a opporsi i due presidenti, entrambi di M5S, delle due commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera, Giuseppe Brescia e Mario Perantoni di fronte a un’evidente maggioranza numerica che chiede di calendarizzare il testo della commissione d’inchiesta. I due la buttano sull’istituzionale e ammettono, in una nota, che “le presidenze hanno preso atto delle indicazioni della maggioranza dei gruppi, e non hanno seguito il metodo Ostellari”. Allusione al presidente della commissione Giustizia del Senato Andrea Ostellari, leghista, che proprio nelle stesse ore sta bloccando la legge Zan sull’omofobia. Invece la commissione d’inchiesta sulla magistratura andrà avanti, i lavori cominceranno all’inizio di maggio, ogni gruppo presenterà la sua proposta, per giungere a una legge istitutiva della stessa commissione. Plaudono i forzisti Pierantonio Zanettin e Giusi Bartolozzi, e Costa di Azione. Una commissione che non sarà di certo solo sul caso Palamara, ma si trasformerà in un’indagine a tappeto sulla magistratura per la quale si terranno dozzine di audizioni. Tutto questo mentre, faticosamente, la stessa maggioranza dovrà venire a capo delle riforme sulla giustizia. Sulle quali lo scontro è sempre dietro l’angolo. Come dimostra la divisione sul testo base da adottare per la riforma del Csm. L’intreccio tra Camera e Csm - Toccherà proprio a David Ermini, l’attuale vice presidente del Csm, spiegare nei prossimi giorni alla Camera - dove lui stesso è stato responsabile Giustizia del Pd - qual è l’organo di governo autonomo dei giudici che palazzo dei Marescialli vorrebbe. A partire dall’idea, lanciata dalla Guardasigilli Marta Cartabia, di future elezioni parziali ogni due anni per rinnovare solo la metà del Consiglio. Proposta su cui l’attuale Csm si dichiara d’accordo. Così come chiede una stretta definitiva sui magistrati in politica, a cominciare da quelli che già siedono in Parlamento oppure nei ruoli chiave dei ministeri. Con una singolare coincidenza il parere del Csm sul disegno di legge dell’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede arriva proprio nelle stesse ore in cui alla Camera, in commissione, partono i grandi giochi proprio su questo tema. Che s’intrecceranno con quelli della riforma del processo penale. Ma anche sul Csm tutto partirà dal testo di Bonafede. E qui la maggioranza rivela le sue défaillance. Perché il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa si astiene sulla decisione di assumere, come testo base per discutere i prossimi emendamenti, proprio quello di Bonafede. “No, la Bonafede no” dice Costa - Alla Camera ormai la commissione Giustizia è diventata una polveriera. Difficile prevedere come si potrà arrivare, con questo clima, a chiudere per l’aula sia la riforma del processo penale che quella del Csm. Mentre slitta alle 12 di lunedì 26 aprile il termine per presentare gli emendamenti sul processo penale e sulla prescrizione - e se ne preannunciano molte centinaia - ecco che la maggioranza scricchiola anche sulla riforma del Csm. Perché dovrebbe andare de plano l’idea di assumere, come testo base della discussione e dei futuri emendamenti, quello presentato dal ministro di M5S Bonafede. Si tratta, tra l’altro, proprio dello stesso testo su cui in via Arenula il gruppo di lavoro istituito da Cartabia e presieduto dal costituzionalista Massimo Luciani sta preparando le proposte di emendamento che dovrebbero essere pronte per i primi di maggio. Non basta. È lo stesso testo su cui, giusto nelle stesse ore, il Csm riversa una serie di osservazioni e di critiche. Ma anche di possibili emendamenti. Quindi - obbligatoriamente - non può che essere questo il testo base, tant’è che, per il Csm, sarò lo stesso vice presidente David Ermini, nelle prossime settimane, a presentare le osservazioni del Consiglio alla Camera. Ma il deputato e responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa storce il naso. Lui vorrebbe un testo differente. E non gli basta aver ottenuto che anche la sua proposta sul “voto singolo trasferibile” per cambiare il sistema elettorale del Csm e sbaragliare le correnti - tant’è che l’ha battezzata “spazza-correnti” - entri nella partita. Lui non vuole la Bonafede. Tant’è che, subito dopo la decisione, twitta: “Oggi alla Camera la maggioranza tutta, ad eccezione di Azione, ha scelto il ddl Bonafede come testo base per la riforma del Csm. A costo di apparire fuori dal coro, proprio non me la sono sentita di votare a favore”. Dunque un’astensione, che ha prodotto più di una sorpresa soprattutto nel centrodestra. Dal Csm sì a Cartabia sulle elezioni di mid-term - Mentre la politica si divide, al Csm si ritrovano d’accordo sull’idea di Marta Cartabia di un rinnovo parziale del csm ogni due anni. Alcuni degli attuali componenti del Consiglio potrebbero restare in carica sei anni, anziché 4. Sarebbe l’indispensabile fuori format che i consiglieri del Csm - ma quali, chi, è difficilissimo dire oggi - potrebbero adottare per poter dare il via alla nuova forma plasmata dalla legge che ne prevede il rinnovo. Da oggi, tuttavia, l’ipotesi acquista maggiore solidità. Anche il Consiglio apre alla proposta delle elezioni per metà Consiglio superiore, ogni 2 anni, per metà dei componenti: togati e laici. È stato depositato da tutti i membri laici del Consiglio l’emendamento che riguarda le elezioni di “mid-term” - o di “rinnovo parziale” - proprio come aveva ipotizzato Marta Cartabia in Parlamento. “Nelle linee programmatiche sulla giustizia recentemente pronunciate dal nuovo ministro della Giustizia - è scritto nell’emendamento - viene prospettata una possibile ipotesi da affiancare al nuovo sistema elettorale, consistente nel ‘rinnovo parziale del Csm come già avviene per altri organi costituzionali’ e in particolare nel rinnovo ogni due anni di metà dei componenti laici e togati”. È la proposta che da alcune settimane si fa strada, lo studio che è al vaglio del costituzionalista Massimo Luciani. Prosegue la nota. “Il Consiglio valuta positivamente questa proposta di riforma, compatibile con l’attuale assetto costituzionale del Csm; da essa, tra l’altro, discenderebbero effetti positivi sull’efficienza dell’istituto, sia per la mancata dispersione delle competenze acquisite dai consiglieri in carica, che per la mancata interruzione di operatività legata al rinnovo totale del Consiglio”. Stop alle “porte girevoli” tra giudici e politica - È il parere che fa più discutere, tra i 6 relativi al disegno di legge firmato Bonafede di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. Ed è quello che passa a maggioranza, nel plenum del Csm e incide indirettamente anche sull’imminente partita delle amministrative nelle grandi città: in particolare torna a riaprire le divisioni in seno al Consiglio sul caso di Catello Maresca, sostituto procuratore generale che ormai da mesi viene evocato come candidato sindaco, per l’area di centrodestra, al Comune di Napoli, nel cui distretto continua ad esercitare la funzione, senza aver sciolto ancora la prognosi sulla propria discesa in campo. “Appare pienamente condivisibile - si legge nel testo - la scelta del legislatore di prevedere che i magistrati che abbiano assunto incarichi elettivi o di governo non possano, alla cessazione del mandato, essere riassegnati a funzioni giudiziarie”. L’emendamento porta le firme dei consiglieri togati di Area: Cascini, Dal Moro, Chinaglia, Suriano e Zaccaro. Due le astensioni. È scritto ancora: “Le radicali trasformazioni intervenute nella società e nella politica impongono, infatti, di ritenere che lo svolgimento di tali incarichi incide negativamente sulla immagine di imparzialità e di indipendenza dei magistrati e quindi non è compatibile con lo svolgimento delle funzioni giudiziarie”. Ma non basta. Il Csm chiede anche che le norme più rigide si applichino anche alle toghe che, nel momento stesso dell’entrata in vigore della futura legge, si trovano “in politica”, cioè eletti oppure con incarichi di governo (i capi di gabinetto, per intenderci). E chiede di introdurre “una disposizione transitoria” che consenta loro di “chiedere il rientro in ruolo e di essere riassegnati a funzioni giudiziarie”. Scaduto quel termine anche per loro varrà l’obbligo di rispettare la nuova legge. Voto contrario da parte del consigliere di Autonomia e Indipendenza Nino Di Matteo. Che, “pur condividendo la riforma nella parte che limita il rientro in magistratura dopo incarichi politici”, esprime un voto contrario perché “così come è prospettato il ddl rischia di comprimere indebitamente il diritto del magistrato di scegliere un impegno politico, finendo per azzerare la presenza di magistrati in Parlamento, presenza che nel tempo ha fornito un contributo importante”. Per il consigliere e pm antimafia Di Matteo, insomma, “il nodo delle commistioni improprie tra politica e giustizia non si affronta comprimendo il diritto di un magistrato a scegliere di candidarsi a un incarico politico”. Sul fronte diametralmente opposto Giuseppe Cascini, che ha ribadito i ritardi scontati dalle toghe in questi limbo, e la necessità di previsioni più rigide: sia per il rientro in ruolo dei magistrati che abbiano assunto incarichi politici, sia per la possibilità - e qui il riferimento a Maresca è evidente - di candidarsi nel territorio dove il magistrato ha esercitato le funzioni. “Non voglio riprendere - sottolinea Cascini - una polemica interna sulla posizione di un magistrato che ancora oggi, anche per colpa dell’inerzia del Consiglio, esercita la giurisdizione nella città dove è, di fatto e agli occhi di tutti, candidato alla carica di sindaco. Ma è evidente come vi sia un rischio di commistione, almeno sul piano della immagine, tra l’esercizio della giurisdizione e l’impegno politico, per cui è più che giusta la scelta del legislatore di separare, nel tempo e nello spazio, la candidatura di un magistrato rispetto all’esercizio della giurisdizione”. Commissione d’inchiesta e Csm, scontro totale sulla giustizia di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 22 aprile 2021 Centrodestra e renziani uniti per incardinare l’esame della proposta di legge Gelmini per una commissione speciale sui rapporti tra i giudici e la politica e i media. Mentre il Consiglio superiore della magistratura dice sì alla proposta della ministra Cartabia di introdurre le elezioni di metà mandato. La giustizia, non da sola, divide ogni giorno di più la larga maggioranza di governo. In commissione alla camera due scontri in una sola giornata. Il primo segna la vittoria, ma poco più che simbolica, per Pd, 5 Stelle e Leu. Perché è stato adottato come testo base per la riforma del Csm quello presentato dall’ex ministro Bonafede. Scelta accettata alcune settimane fa anche dalla ministra Cartabia. Perché tanto saranno gli emendamenti ai quali sta lavorando in gran segreto la commissione che ha insediato lei stessa in via Arenula (presidente il costituzionalista Luciani) a ridisegnare la riforma. Partendo dalla legge elettorale per i togati. E proprio oggi il Csm licenzierà il suo parere sul testo Bonafede nel quale - accanto a diverse critiche - molto probabilmente sarà inserito un “gancio” per la ministra Cartabia, un apprezzamento preventivo alla sua proposta (formulata fin qui solo come ipotesi) di prevedere il rinnovo parziale del Consiglio ogni due anni. Il secondo scontro della giornata di ieri, questa volta nelle commissioni riunite giustizia e affari costituzionali, segna invece la vittoria del centrodestra, fronte al quale si sono associate Italia viva e +Europa Cambiamo. Al secondo tentativo è stata accolta la richiesta di incardinare la proposta di istituire una commissione di inchiesta sul “sistema Palamara”, che nella versione di Forza Italia (Gelmini; l’altra proposta è della Lega) diventerebbe un aggrovigliato lavoro sul complesso dei rapporti magistratura-politica e magistratura-media. Mentre il centrodestra esulta per questo passaggio, che certamente darà spazio ad altri scontri e a polemiche - ma solo quando se ne comincerà sul serio a parlare, assai dopo i quindici giorni che mancano al formale incardinamento - i presidenti 5 Stelle delle due commissioni, Brescia e Perantoni, fanno notare che di fronte alla richiesta della maggioranza dei gruppi non hanno seguito “il metodo Ostellari”. Che è quello del presidente leghista della seconda commissione del senato, che invece ha fatto saltare la discussione del disegno di legge sull’omofobia. Per il capogruppo del Pd in commissione giustizia alla camera, Alfredo Bazoli, la proposta di legge Gelmini “non ha rispetto della separazione dei poteri e ci fa precipitare indietro di venti anni”. Dunque “non ha chance”. La discussione sul Csm invece comincerà a breve, in parallelo con quella sulla riforma del processo penale visto che la speranza di Cartabia è di arrivare a un primo sì entro l’estate- ma il percorso è ancora lungo (si tratta di leggi che contengono diverse deleghe al governo). Il Csm dovrebbe concludere oggi l’approvazione del suo parere. Ieri nel corso di un lungo e anche acceso dibattito (con un duro scontro sul ruolo delle correnti) è stato assai ammorbidito il giudizio critico su quella parte del testo Bonafede che irrigidisce i criteri di valutazione dei candidati agli incarichi direttivi e semi direttivi. Il Consiglio non dirà più che il progetto del governo ridimensiona le sue prerogative costituzionali. L’emendamento è stato sottoscritto da tutti i consiglieri laici, così come quello - che, come dicevamo, sarà votato oggi - che plaude agli “effetti positivi” dell’introduzione delle elezioni di metà mandato. Positivi anche per i consiglieri in carica, visto che una metà di loro si troverà il mandato prolungato di due anni. I fortunati potrebbero essere scelti con sorteggio (così da aprire uno spiraglio alla tecnica di selezione preferita dai 5 Stelle e dalle correnti togate di centrodestra). Almeno così proponeva la commissione Balboni nel 1996 (assieme al voto singolo trasferibile). Perché l’ultima idea sul Csm - che ha già cambiato sette volte la legge elettorale - non è certo una novità. Sì alla presunzione di innocenza, una rivoluzione nel paese della gogna di Tiziana Maiolo Il Riformista, 22 aprile 2021 Il Senato ha votato il via libera definitivo alla direttiva europea che rafforza un principio calpestato ogni giorno. Anche Grillo dovrebbe far festa. Ora la parola a Cartabia per i decreti attuativi. Dovrebbe mettere da parte la rabbia e invece far festa in questi giorni Beppe Grillo, e fare un applauso al Senato che ha votato in via definitiva l’ingresso nella legge italiana della direttiva europea sul rafforzamento della presunzione di innocenza. Una vera rivoluzione, in un Paese in cui l’articolo 27 della Costituzione è violato ogni giorno da conferenze stampa di pubblici ministeri che annunciano di aver sgominato la cosca di Tizio e Caio, e giù nomi e cognomi dei “colpevoli”. Un Paese in cui una torma di giornalisti amici dei pm e di editori terrorizzati dagli stessi pm dal loro potere di indagine e di manette mette alla gogna gli imputati sui giornali e negli show televisivi. Il Paese della vergogna con cui fu trattato dalla giustizia e dall’informazione Enzo Tortora, ma molto prima anche Piero Valpreda, quando un fotografo gli gridò “Alza la capocchia, mostro!”. Il Paese in cui un gruppo di pubblici ministeri milanesi si presentò davanti alle telecamere a protestare di non poter tenere in carcere cittadini innocenti secondo la costituzione perché in attesa di giudizio. Quei cittadini furono esibiti come colpevoli senza che nessuno battesse ciglio. Va ricordato che Ciro Grillo, figlio di Beppe e accusato insieme a tre suoi amici di aver stuprato una ragazza durante una vacanza in Sardegna di due anni fa, non ha subito nulla di tutto ciò. Anzi, ha goduto di due anni di silenzio da parte della procura di Tempio Pausania e di grande riservatezza: nessun atto giudiziario depositato in edicola, nessuna intercettazione sulle pagine di Repubblica o del Fatto quotidiano. Eppure i tempi non sono cambiati, basta dare un’occhiata a qualche puntata di Report sulla Regione Lombardia. Certo, la direttiva europea del 2016 non si rivolge direttamente alla stampa, ma prosciuga alla fonte l’acqua della gogna mediatica. C’è persino da vergognarsi del fatto che ci sia stato bisogno di farsi tirare le orecchie dall’Europa per decidersi a recepire la direttiva europea, anche se con cinque anni di ritardo, perché il ministro Bonafede e i parlamentari del Movimento cinque stelle si erano sempre posti contro il provvedimento. Così l’Italia, culla del diritto, era rimasta a fare il fanalino di coda in Europa, nonostante l’articolo 27 della Costituzione sia chiarissimo sulla presunzione di non colpevolezza. C’è da arrossire a rileggere i principi di civiltà della direttiva, laddove prevede che gli Stati membri dell’Europa adottino “le misure necessarie a garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza, non presentino la persona come colpevole”. Per autorità pubbliche si intendono magistrati e poliziotti, ma anche ministri ed esponenti politici. Le fonti da cui sgorga l’acqua della gogna mediatica. Ora la parola passa alla ministra Cartabia per l’emanazione dei decreti attuativi. Fate presto. “Una corte dentro la realtà”: il 2020 della Consulta in un annuario di Francesca Spasiano Il Dubbio, 22 aprile 2021 Non solo numeri: il bilancio 2020 della Corte Costituzionale è fatto soprattutto di innovazione e scelte coraggiose. E certo anche di cifre, con le quali si documenta “la produttività” della Corte che non ha subito contraccolpi nonostante le difficoltà imposte dall’emergenza sanitaria. Con un’iniziativa editoriale, pensata “sul modello di altre Corti nel mondo”, la Consulta dà conto della propria attività attraverso un annuario - il primo - disponibile da ieri sia in versione digitale che cartacea, e in doppia lingua (inglese e italiano). Si tratta di 48 pagine in cui riassumere i mesi assai difficili della pandemia, e poi della ritrovata “normalità”, attraverso “mezzi e metodi propri del resoconto contemporaneo”: numeri, grafici, fotografie, link e approfondimenti. Strumenti che certificano anche l’impegno della Corte nella “sfida della multimedialità” con l’inaugurazione, nel 2020, di un profilo Twitter e di una libreria di podcast. La pubblicazione anticipa, ma non sostituisce, la consueta Relazione del presidente della Corte, che si terrà il 13 maggio alla presenza del presidente della Repubblica e delle più alte cariche dello Stato. In apertura troviamo un’intervista al presidente Giancarlo Coraggio che racconta di “una Corte sempre più “dentro” la realtà”. Due i passaggi chiave, richiamati dal presidente Coraggio: il ruolo fondamentale della Consulta nel sollecitare l’attività del legislatore e “l’emergere con forza di nuovi diritti fondamentali privi di tutela”. “Mi rendo conto che, specie nell’attuale situazione politica, il Parlamento si trova di fronte a impegni non meno delicati e rilevanti. Tuttavia la Corte non finirà mai di sottolineare la necessità di un migliore raccordo tra le due Istituzioni”, spiega Coraggio. “È un fatto - sottolinea il presidente che i numerosi moniti con cui la Corte ha chiesto al legislatore di intervenire sono aumentati e sono in gran parte rimasti inevasi”. I numeri parlano chiaro: i moniti al legislatore sono passati da 20 a 25 nel solo 2020, con la più recente pronuncia sull’ergastolo ostativo che fissa il termine per l’intervento del Parlamento. “La pandemia non frena l’efficienza”: il 2020 in cifre - Netto calo dei tempi del processo e riduzione delle pendenze. Nessuna frenata, con l’emergenza Covid, dell’efficienza della giustizia costituzionale: sono 281 le decisioni adottate dalla Consulta nel 2020 - 10 in meno del 2019 - ma, anche se la domanda è lievemente inferiore rispetto al 2019, la Corte conferma la sua “produttività”. Il 2020, infatti, è iniziato con 314 giudizi pendenti: nel corso dell’anno ne sono arrivati 332 e ne sono stati definiti 342: il saldo finale è di 304 giudizi pendenti, e segna un - 3,2% rispetto al 2019. Si riduce, in particolare, la pendenza dei giudizi incidentali. Inoltre, è netta la riduzione dei tempi di risposta, i più bassi dal 2016: dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale delle ordinanze in via incidentale fino alla trattazione in udienza passano in media 226 giorni. Le decisioni - “Processo penale, reati e sanzioni, lavoro, famiglia, ambiente, imposte e molte altre ancora sono le materie nelle quali è intervenuta la Corte nel 2020”, spiega la Corte. Si prendano a titolo esemplificativo le decisioni su famiglia e tutela dei minori: “L’identità personale del figlio, secondo la Consulta - si legge nell’annuario - non è correlata esclusivamente alla verità biologica ma anche ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno della famiglia: la sentenza n. 127 “salva” quindi la legittimazione a impugnare il riconoscimento del figlio, consapevolmente falso, purché il favor veritatis venga bilanciato con altri valori”. E ancora: “Con la sentenza n. 230 - spiega la Consulta - viene invece lasciato al legislatore il riconoscimento dell’omogenitorialità all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, anche per realizzare una migliore tutela dell’interesse del bambino”. Composizione - Il 2020 è anche l’anno del cambio del 20 per cento del Collegio della Corte Costituzionale e di tre avvicendamenti alla presidenza. Da Marta Cartabia - prima donna alla guida della Consulta e oggi ministra della Giustizia - si è passati all’elezione di Mario Rosario Morelli a cui è succeduto, lo scorso dicembre, Giancarlo Coraggio. Mai così tante le donne nella storia della Corte, che con l’elezione a dicembre 2020 di Maria Rosaria San Giorgio nel collegio, sono diventate quattro. Toghe in politica, ok del Csm sullo stop alle “porte girevoli” di Simona Musco Il Dubbio, 22 aprile 2021 Parere favorevole da Palazzo dei Marescialli al ddl bonafede. Ma il magistrato Nino Di Matteo protesta: “Diritti dei magistrati compressi”. Il plenum del Csm ha votato favorevolmente allo stop alle porte girevoli tra politica e magistratura, parere arrivato proprio mentre la Commissione Giustizia adottava come testo base della riforma dell’ordinamento giudiziario quello elaborato dall’ex ministro Alfonso Bonafede. Un tema delicato, ha affermato Alessio Lanzi, relatore del parere, data “la diffusa percezione di una insidiosa compenetrazione fra i due ambiti, politico e giudiziario”, notevolmente accresciuta dallo scandalo Palamara. La norma Bonafede, in sostanza, prevede l’ineleggibilità dei magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari alla carica di parlamentare nazionale ed europeo, consigliere regionale o presidente di regione (o di provincia autonoma) nella circoscrizione elettorale nei quali abbiano esercitato le funzioni giurisdizionali nei due anni precedenti la candidatura. Stesso divieto è previsto in relazione alla carica di sindaco di comune con più di 100mila abitanti, nel caso in cui nei due anni precedenti abbiano svolto funzioni giurisdizionali nel territorio della provincia in cui è ricompreso il comune. All’atto dell’accettazione della candidatura il magistrato dovrà essere in aspettativa senza assegni da almeno due mesi. I magistrati candidati e non eletti non potranno poi essere ricollocati in ruolo presso un ufficio avente sede nel territorio della Regione nella cui circoscrizione non sono stati eletti o in un ufficio del distretto nel quale esercitavano le funzioni al momento della candidatura. Previsto, inoltre, per tre anni il divieto di svolgere funzioni di gip/gup e requirenti e di presentare domanda per posti direttivi e semidirettivi. Per i magistrati eletti, alla cessazione della carica, è prevista la perdita dell’appartenenza ai ruoli della magistratura e il loro inquadramento in un ruolo autonomo del ministero della Giustizia, di un altro ministero o della Presidenza del Consiglio dei ministri. Nella sua relazione, Lanzi ha espresso una valutazione complessivamente positiva della disciplina, pur evidenziando “alcuni profili di problematicità” e auspicando “una maggiore armonizzazione tra le disposizioni complessive del Capo III che sembrano quindi presentare una certa incongruenza, laddove si consideri la severità del regime applicabile al magistrato che abbia svolto un mandato elettivo o un incarico di governo anche assai breve, ovvero di quello riferibile al magistrato candidato che non sia stato eletto”. Un Capo la cui impostazione complessiva è ritenuta eccentrica, in quanto “contiene previsioni funzionali a limitare grandemente le scelte professionali del magistrato considerate a rischio di appannamento della sua immagine d’imparzialità, fino ad imporgli una sostanziale scelta a monte tra esercitare il suo diritto a partecipare alla vita politica in prima persona o continuare a svolgere le funzioni giudiziarie”. Secondo Area, rappresentata dal togato Giuseppe Cascini, è “pienamente condivisibile” la proposta contenuta nel ddl Bonafede. “Si tratta di tutelare l’immagine di imparzialità e di indipendenza del magistrato che è compromessa anche nel caso in cui un magistrato si candidi nella sede dove presta servizio”, ha detto Cascini. Il riferimento, pur senza citarlo per nome e cognome, è al pm Catello Maresca, “un magistrato che esercita la giurisdizione nella città dove è, di fatto e agli occhi di tutti, candidato alla carica di sindaco”. L’unico voto contrario a questa parte del parere del Csm è stato espresso da Nino Di Matteo, “perché così come è prospettato il ddl rischia di comprimere indebitamente il diritto del magistrato di scegliere un impegno politico finendo per azzerare la presenza di magistrati in Parlamento, presenza che nel tempo ha fornito un contributo importante”. E “il nodo delle commistioni improprie tra politica e giustizia” non si può affrontare “comprimendo il diritto di un magistrato a scegliere di candidarsi ad un un incarico politico”. Voto favorevole da parte di Sebastiano Ardita, togato di Autonomia e Indipendenza, che ha definito paradossale il dibattito in cui “ci si occupa in modo formale del problema della candidatura in politica dei magistrati e non si spende neppure una parola sul vero problema che oggi è sotto i nostri occhi: la politica interna alla magistratura, la sua ricerca di consenso, i poteri enormi che determina nelle nomine e la sua capacità di incidere sugli altri poteri dello Stato. Nelle chat di Palamara di questo delicatissimo aspetto c’è tutto, e qui oggi non ho sentito spendere una sola parola su tutto questo”. Caduta, inoltre, la censura di incostituzionalità del Csm al ddl Bonafede sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario, contenuta nel parere messo a punto dalla Sesta Commissione. È stato infatti approvato un emendamento, sottoscritto da tutti i componenti laici, con il quale si sopprime la premessa del capitolo sulla nuova disciplina sul conferimento degli incarichi direttivi, secondo la quale la scelta del legislatore di cristallizzare in una legge le norme che il Csm si è già dato con una circolare avrebbe determinato “una complessiva limitazione del potere discrezionale del Consiglio” ponendosi “in contrasto” con i principi di autonomia e indipendenza della magistratura e con il ruolo stesso del Consiglio, delineato dalla Costituzione. Approvata invece la parte del parere sulle norme che riguardano l’organizzazione degli uffici giudiziari. Tortora, Stasi, Amanda e gli altri: processati e condannati a mezzo stampa di Valentina Stella Il Dubbio, 22 aprile 2021 La lunga galleria degli orrori del processo mediatico: quando il presunto colpevole è processato e condannato a mezzo stampa. “Quando l’opinione pubblica appare divisa su un qualche clamoroso caso giudiziario - divisa in innocentisti e colpevolisti - in effetti la divisione non avviene sulla conoscenza degli elementi processuali a carico dell’imputato o a suo favore, ma per impressioni di simpatia o antipatia. Come uno scommettere su una partita di calcio o su una corsa di cavalli. Tortora in questo è un caso esemplare”: così scriveva il 5 maggio 1987 Leonardo Sciascia su El Pais. L’articolo iniziativa così: “Marco Pannella è il solo uomo politico italiano che costantemente dimostri di avere il senso del diritto, della legge e della giustizia” e forse anche per questo fu l’unico articolo di Sciascia che nessun quotidiano o periodico volle pubblicare. Ma questa è un’altra storia; però quelle parole sono significative di come il nostro Paese faccia da sempre fatica ad accettare un approccio laico e consapevole della giustizia. Un sintomo di questo giustizialismo etico e populista è proprio il processo mediatico: potremmo dire che prese il via proprio con Enzo Tortora. Era il 1983 e i militari, per trasferire il noto conduttore, accusato ingiustamente di associazione camorristica, nel carcere di Regina Coeli, aspettarono che fosse mattina presto per garantire ai fotografi la prima fila davanti all’Hotel Plaza e riprendere il giornalista con i ceppi ai polsi. Da allora è stato un susseguirsi di processi mediatici, che sempre più hanno invaso quella sfera che dovrebbe rimanere circoscritta nelle aule giudiziarie. Il 9 maggio 1997 la giovane studentessa Marta Russo fu raggiunta alla testa da un colpo di pistola che si rivelerà mortale, mentre passeggiava, in compagnia dell’amica Iolanda Ricci, in un viale dell’Università de La Sapienza di Roma. Mai come in quel caso la stampa ebbe la capacità di costruire i mostri, di spettacolarizzare gli eventi e di emettere la sentenza prima dei giudici. Come scrisse Francesco Merlo sul Corriere della Sera “dopo quelle politiche è questa la prima vera, grande istruttoria collettiva, una specie di apocalisse del delitto. Manca solo un numero verde per avere o dare suggerimenti ai pm o al questore o al capo della Mobile o, perché no?, agli imputati. È come se l’Italia intera dirigesse e seguisse le indagini, tutte le indagini minuto per minuto”. Per quel delitto furono condannati Salvatore Ferraro e Giovanni Scattone. Quest’ultimo, scontata la pena, ottenne una cattedra all’Istituto Einaudi di Roma: vi rinunciò a causa del clamore mediatico. Il tribunale del popolo non perdona: sulla stampa la condanna è a vita, purtroppo. Nel 2002 ad irrompere nelle nostre case fu il delitto di Cogne: il piccolo Samuele Lorenzi, secondo una sentenza definitiva, fu ammazzato nel lettone da sua madre Annamaria Franzoni che lo colpì 17 volte probabilmente con un utensile di rame. Come non scordare l’ormai celebre plastico di casa Lorenzi a Porta a Porta: “Quando ci fu il delitto di Cogne i giornali pubblicarono la pianta della casa. Erano plastici su carta. Noi abbiamo fatto quelli veri”, disse Bruno Vespa a Vanity Fair. Poi arrivò il delitto di Garlasco: il 13 agosto 2007 Chiara Poggi fu uccisa nella sua villetta di famiglia. Dopo cinque gradi di giudizio a finire in carcere è stato il fidanzato Alberto Stasi. La politica in quel mese non offriva spunti e quindi tutta l’attenzione venne data all’omicidio; persino Fabrizio Corona si recò nel piccolo paese in provincia di Pavia per contattare due cugine della vittima, finite per qualche giorno tra le sospettate non dei magistrati ma del popolo. Alberto Stasi fu subito lombrosianamente condannato dalla stampa, come ricordò lo scrittore Alessandro Piperno sul Corsera: “Mi chiedo se Alberto Stasi, frattanto, abbia fatto il callo alle sue mille foto apparse in questi due anni sui giornali. Nel qual caso a quest’ora saprà che non c’è centimetro quadrato del suo corpo né impercettibile dettaglio del suo contegno che non parli di colpevolezza: l’incarnato diafano, la sobrietà dei lineamenti, la sfuggente pudicizia, tutto lo rende l’interprete ideale del ruolo di Stavroghin in una eventuale trasposizione cinematografica de I demoni di Dostoevskij”. Sempre nello stesso anno ma ad inizio novembre, fu Perugia a finire al centro della cronaca giudiziaria italiana e internazionale: la studentessa inglese Meredith Kercher venne ritrovata priva di vita con la gola tagliata nella propria camera da letto, all’interno della casa che condivideva con altri studenti, in via della Pergola 7. Il processo divenne una grande fiction: due giovani amanti - Raffaele Sollecito e Amanda Knox - il sesso, la droga e le notti brave. I media, imbeccati soprattutto dalla procura, si schierarono immediatamente sul fronte colpevolista: “No all’orgia e l’hanno uccisa” (La Stampa), “Tre arresti per Meredith: Sono loro gli assassini” (La Repubblica), “Meredith uccisa con il coltello di Raffaele” (Il Giornale), solo per citarne alcuni. Non erano loro gli assassini ma hanno fatto comunque 4 anni di carcere da innocenti, mentre la stampa li mostrificava. Questa immagine accusatoria non scomparve neppure dopo l’assoluzione definitiva della Suprema Corte di Cassazione. Basti leggere l’articolo di Marco Travaglio, pubblicato il 29 marzo 2015, dopo la sentenza finale, che continuava a sostenere che la verità sostanziale non è quella processuale, è che i due ragazzi sono gli unici a poter essere logicamente considerati concorrenti del Guede nel delitto di omicidio di Meredith Kercher. Un altro anno orribile fu il 2010: il 26 agosto ad Avetrana, in provincia di Taranto, venne uccisa la piccola Sarah Scazzi. Per la giustizia le colpevoli sono la zia Cosima Serrano e la cugina Sabrina Misseri. La vicenda ebbe un grandissimo rilievo mediatico, culminato nell’annuncio del ritrovamento del cadavere della vittima in diretta sul programma Rai Chi l’ha visto? dove era ospite, in collegamento, la madre di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo. Per non parlare del tour dell’orrore; per un periodo alcune agenzie di viaggio hanno offerto un pacchetto all inclusive: viaggio andata e ritorno, pranzo in trattoria, visita a casa Scazzi e villa Misseri, tappa veloce in chiesa, piccolo stop al cimitero dove riposa la vittima, infine il momento clou al pozzo dove era stata seppellita dallo zio Michele Misseri.Di sicuro la guida non avrà spiegato i termini giuridici della questione! Nello stesso anno ma qualche mese dopo, il 26 novembre, scomparve da Brembate, in provincia di Bergamo, Yara Gambirasio. Il suo corpo fu ritrovato esattamente tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola. Il 16 giugno 2014 viene arrestato Massimo Giuseppe Bossetti, un muratore di Mapello incensurato di 44 anni. Probabilmente in questo caso si raggiunse il punto più alto del voyeurismo mediatico-giudiziario: il suo arresto fu mandato in onda da tutte le televisioni. Sono stati i dieci minuti più bui del perverso rapporto tra stampa e forze dell’ordine e procure. Qualcuno potrebbe dire “ma è colpevole”: nessuno, neanche il peggior criminale, può essere privato della sua dignità come è accaduto a Bossetti, a maggior ragione se dietro la telecamera c’era un agente dello Stato. E arriviamo al 2015, a quel terribile 17 maggio quando a Ladispoli, in provincia di Roma, perse la vita il giovane Marco Vannini, colpito accidentalmente da un colpo di pistola sparato dal padre della fidanzata, Antonio Ciontoli. Il 3 maggio la Cassazione si pronuncerà per la seconda volta sul caso. Gli imputati, ossia tutta la famiglia Ciontoli, sono stati perseguitati dalla stampa: agguati sotto casa, sul posto di lavoro, per strada. A causa di questo hanno dovuto abbandonare l’abitazione e rifugiarsi separatamente in altre città. Ben tre ex Ministri - Bonafede, Trenta, Salvini - si sono esposti sul fronte colpevolista senza aspettare una sentenza definitiva. Qui, purtroppo o per fortuna, non siamo negli Stati Uniti dove due giorni fa, durante il processo per la morte di George Floyd, il giudice Peter Cahill ha bacchettato la deputata democratica Maxine Waters che nei giorni precedenti si era espressa a favore di una sentenza di colpevolezza per il poliziotto: “Mi piacerebbe che i rappresentati politici la smettessero di parlare di questo caso e di farlo in modo non rispettoso della legge”, ipotizzando che i commenti della deputata “potrebbero rappresentare la base per un appello”. Anziano e malato, dopo aver avuto il Covid in carcere, Gaetano Riina andrà ai domiciliari di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 22 aprile 2021 La decisione del tribunale di Sorveglianza di Torino per il fratello del “capo dei capi” di Cosa nostra. Il detenuto che ha 88 anni non tornerà a Corleone, ma andrà in provincia di Trapani. Potrà uscire dalle 10 alle 12. È affetto da varie patologie e secondo i giudici la sua pericolosità è “scemata”. Finirà di scontare la pena nel 2024. Non erano valse a nulla le istanze di scarcerazione precedenti, nonostante gli 88 anni e svariate patologie, dal tumore a diverse ischemie fino all’asportazione di un rene: Gaetano Riina, fratello del più noto “capo dei capi” di Cosa nostra, Totò, deceduto al 41 bis il 17 novembre del 2017, secondo Procura e giudici di Sorveglianza era pericoloso. Soltanto dopo essersi ammalato di Covid nelle settimane scorse, adesso il tribunale di Sorveglianza di Torino ha deciso di concedergli gli arresti domiciliari. Riina non tornerà a Corleone, ma andrà in provincia di Trapani. I giudici hanno accolto la richiesta degli avvocati Maria Brucale e Vincenzo Coluccio che lo difendono. In carcere - non è mai stato sottoposto al 41 bis - il fratello di Totò Riina era finito soltanto nel 2011, da incensurato e da ultrasettantacinquenne, per scontare una condanna per mafia (che oggi ha espiato completamente) e successivamente una pena per illecita concorrenza aggravata dall’aver agevolato Cosa nostra. Il fine pena è fissato per maggio 2024. Riina, mentre sarà detenuto ai domiciliari, avrà diritto di uscire dalle 10 alle 12 “per provvedere alle proprie esigenze di vita”, così hanno stabilito i giudici. A settembre scorso, alla vigilia della seconda ondata di Covid, un’istanza simile presentata dagli avvocati era stata invece rigettata. E alla fine il detenuto si è ammalato di Covid proprio nel carcere di Torino. Ora è guarito. La Procura si era opposta anche a quest’ultima richiesta di scarcerazione per motivi di salute, ribadendo la presunta pericolosità sociale del detenuto, anche se sulla scorta di vecchie dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Una pericolosità che il tribunale ha ritenuto ora “scemata”. L’Asl piemontese ha poi messo in evidenza che Riina è “un grande anziano, affetto da pluripatologie, che non versa in immediato pericolo di vita, tuttavia a rischio improvviso e non prevedibile peggioramento delle patologie in essere, alla luce della fragilità correlata all’età”. Lo scafista è l’autore mediato dello sbarco in Italia materialmente realizzato dai soccorsi di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2021 Il naufragio non volontariamente provocato non spezza il nesso di causalità col favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e le morti conseguenti al reato. Lo scafista non può scaricare sui soccorritori delle Ong il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina aggravato dalla morte e dalle procurate lesioni dei migranti. L’autore diretto del delitto è in realtà colui che viene tratto in inganno o costretto in buona fede a commettere il reato a tutela di interessi superiori delle persone quale la loro incolumità e l’obbligo appunto di trarli in salvo. E questo anche se lo sbarco - secondo il diritto del mare - non avviene nel porto più vicino al punto dove si realizza il naufragio. La condotta dei soccorritori è scriminata dall’articolo 48 del Codice penale. La Corte di cassazione ha così respinto - con la sentenza n. 15084/2021 - il ricorso di due uomini libici che, in base alle testimonianze dei migranti, erano stati individuati come responsabili dell’illegale trasporto e perciò condannati a 14 anni di reclusione e a una multa di oltre 6 milioni di euro. Il reato mediato - L’uso di mezzi fatiscenti o la messa in atto di modalità che rendano umanitariamente necessario il salvataggio in mare determinano in capo allo scafista il ruolo di autore mediato del reato. Del reato commesso dalle Ong risponde solo l’autore “mediato”, cioè colui che volontariamente abbia indotto in errore l’autore diretto, salvo che il suo errore non sia incolpevole. Solo in tal caso potrebbe l’autore “diretto” del reato essere chiamato a risponderne a titolo di colpa. Giurisdizione - Riaffermata la competenza del giudice italiano per i migranti soccorsi in acque internazionali e trasportati da altre imbarcazioni sulle coste nazionali. Non scatta perciò la competenza del giudice dello Stato di cui batte bandiera il natante che naufraga in acque internazionali. I ricorrenti contestavano la giurisdizione italiana in quanto l’incidente non era stato provocato al fine di determinare il soccorso umanitario in mare, ma era frutto di un guasto tecnico e quindi la vicenda di cui venivano imputati si era completamente realizzata in acque internazionali senza addivenire direttamente allo sbarco in Italia e quindi senza aver favorito di fatto alcun ingresso illegale. Comunque - affermano i giudici - il guasto o l’avaria, anche se non volontariamente procurato, non poteva ritenersi imprevedibile date le condizioni vetuste dell’imbarcazione e il sovraffollamento. Non si può, in base a tali presupposti materiali, affermare che scafisti e migranti non ritenessero di poter contare sull’intervento di terzi, cioè i soccorritori. Costringendoli appunto al salvataggio e a concludere il viaggio verso l’Italia. Scriminanti e attenuanti negate - Non scatta alcuno stato di necessità per la morte delle persone imbarcate su natante in numero esorbitante rispetto ai posti convenzionalmente previsti per quel dato mezzo di trasporto. I migranti - affermano gli imputati - erano tutti portatori di interessi personali in ordine al motivo e alle modalità del viaggio per cui inattendibili. I ricorrenti sostengono perciò che non vi è prova che i dichiaranti che li avevano individuati come gli scafisti non fossero in realtà loro stessi gli scafisti. Gli imputati sostenevano inoltre, a loro discolpa, di essere stati costretti con violenza da altri a condurre l’imbarcazione. Circostanza non provata. I reati conseguenti - I ricorrenti sostenevano anche che mancasse il nesso causale tra il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e quello previsto e sanzionato dall’articolo 586 del Codice penale per le morti e le lesioni personali dovute al naufragio, affermando che questo si era determinato per un imprevedibile guasto e per il movimento della folla di migranti reale causa dell’incidente non governabile dalla loro volontà. L’omicidio colposo è stato invece attribuito ai ricorrenti in cooperazione colposa tra loro. In caso di dolo si sarebbe trattato di un’ipotesi di concorso nel reato. Parma. Il Dap chiede rimozione medico che ha lanciato l’allarme sanitario per 220 detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 aprile 2021 La motivazione del Dap sarebbe che il dirigente dell’Ausl abbia messo a conoscenza delle autorità esterne il focolaio al 41 bis del carcere di Parma. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha chiesto la rimozione di Choroma Faissal, il responsabile sanitario del carcere di Parma. La motivazione sarebbe da ritrovarsi nel fatto che abbia messo a conoscenza delle autorità esterne, dai garanti al tribunale di sorveglianza, il focolaio che ha coinvolto il 41 bis del carcere parmense. Ma soprattutto per aver messo in guardia delle possibili complicazioni per i detenuti che hanno gravi patologie pregresse. Se il motivo è questo, resta lo stupore di tale richiesta, soprattutto perché la sanità penitenziaria è gestita dal Sistema sanitario nazionale, in particolar modo dalle Asl che svolgono il loro lavoro in completa autonomia. Non risulta una normativa che vieti il responsabile sanitario del carcere di avvisare le autorità esterne, oltre che la direzione e il Dap, degli eventi critici dal punto di vista sanitario. Gli avvocati dei detenuti al 41 bis non erano a conoscenza dei casi di Covid - Anche perché, ricordiamo, gli avvocati che hanno i loro assistiti al 41 bis, non erano venuti a conoscenza del focolaio in atto nel carcere di Parma. Infatti, la Camera penale di Parma ha stigmatizzato l’assenza di informazioni alla Avvocatura circa l’esistenza e l’entità del contagio, con missiva in data 24 marzo 2021 inoltrata alla Ausl Parma e alla direzione del carcere, oltre che, per conoscenza, ai soggetti deputati alla tutela della salute e della sicurezza non solo delle persone detenute, ma altresì di tutti coloro che accedono al carcere per motivi di lavoro. La Camera penale di Parma ha chiesto che avvocati e parenti siano informati quotidianamente - Non a caso, la Camera penale ha invitato la Ausl di Parma e ai competenti uffici della Amministrazione penitenziaria affinché, al pari dei liberi cittadini che stanno vivendo gli effetti del contagio da Covid-19 e le conseguenti apprensioni, informino quotidianamente i familiari e gli avvocati dei detenuti contagiati sullo stato di salute dei congiunti ristretti e sulle misure che verranno adottate per la loro tutela e per la prevenzione futura. Questo è accaduto all’inizio del focolaio, dopo fortunatamente gli avvocati sono stati messi a conoscenza dello stato di salute dei loro assistiti. Il responabile sanitario invitava a trasferire i soggetti vulnerabili - Ma ritorniamo alla richiesta di dimissione del responsabile sanitario Faissal. Nella sua segnalazione inviata anche alle autorità esterne, con grande senso di responsabilità ha chiesto di valutare, ove possibile, il trasferimento dei soggetti vulnerabili lontano dal focolaio rilevato nell’istituto. Parliamo dello stesso dirigente che ultimamente ha segnalato la criticità che persiste al centro clinico del carcere di Parma, dove denuncia la difficoltà oggettiva nell’assistere h24 quei detenuti che richiedono tale assistenza. I continui arrivi di detenuti da altre carceri mette in crisi il centro clinico - A causa dei continui arrivi di detenuti malati che provengono da diverse carceri, lo standard esistenziale di tale centro clinico (ora denominato Sai), è messo in seria difficoltà. Una criticità già denunciata dalla Ausl ai tempi della prima ondata della pandemia. Ribadiamo che le ragioni della richiesta di dimissioni da parte del Dap sembrano ritrovarsi sul fatto che il dirigente sanitario abbia segnalato la situazione del Covid al 41bis e possibili complicazioni, alle autorità esterne. Forse esiste una legge che lo vieti? Nel caso il Dap ha avuto le sue buone ragioni. Altrimenti sembrerebbe emergere una incomprensibile linea dura. Oltre al fatto che stride con l’autonomia delle Aziende sanitarie che si occupano della sanità penitenziaria come prevede la riforma del 2008. Parma. La salute dei detenuti è competenza del Servizio sanitario nazionale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 aprile 2021 La riforma del 2008 ha previsto il passaggio totale delle competenze dal ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale. Una tappa di civiltà attesa da anni, anche in aderenza alle direttive emanate ripetutamente dalla Comunità Europea. Si è trattato, infatti, di un passaggio assai importante, epocale per alcuni, frutto di un ampio e lungo dibattito sviluppatosi nel corso degli anni 90, grazie a un movimento di opinione a favore del passaggio delle competenze sanitarie penitenziarie al servizio sanitario nazionale che, partendo dall’esperienza di singoli e passando attraverso le associazioni di volontariato attive nelle carceri, arrivò a coinvolgere enti locali, sindacati, autorità politiche. Si tratta di una pietra miliare per la tutela della salute dei detenuti e di un importante passo avanti per la civiltà stessa dell’ordinamento penitenziario. Un passo avanti anche nella ricomposizione di un rapporto positivo tra carcere e società. Sin dall’istituzione dell’ordinamento penitenziario con la L. 354 del 1975, una delle materie più controverse e oggetto di acceso dibattito circa la determinazione di competenze è stata la tutela della salute. Con il passare degli anni, e dopo varie commissioni di studio, si è arrivato al convincimento che era impossibile riformare la sanità dall’interno del servizio penitenziario. In tal senso, importante ruolo di stimolo nei confronti del governo Prodi e dei ministri della Salute Livia Turco e della Giustizia Clemente Mastella, affinché si avviasse il percorso di transito di tutti i servizi sanitari alle Asl, continuava ad essere svolto da alcune Regioni (in particolare Toscana, Emilia Romagna e Lazio), dal Forum nazionale per la tutela della salute dei detenuti (organismo che ha sede presso l’Ufficio del garante dei diritti dei detenuti del Lazio, presieduto all’epoca da Leda Colombini, presidente dell’associazione di volontariato “a Roma Insieme” e responsabile delle politiche sociali di Lega autonomie locali Nazionale), dai Garanti regionali dei diritti dei detenuti, da importanti sigle sindacali (Cgil) e associazioni come Antigone. Fu una spinta decisiva per compiere i passi concreti per attuare la riforma iniziata precisamente con la legge del 1998 che stabilì il trasferimento dal ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale di tutte le funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse. Si dovevano attendere però dieci anni, con il Dpcm del primo aprile 2008 (che stabilì il definitivo transito della medicina penitenziaria al Servizio sanitario nazionale), per vedere chiuso il primo, lungo atto di una riforma tanto importante quanto complessa. Dal 14 giugno 2008 sono state trasferite al Servizio Sanitario Nazionale tutte le funzioni sanitarie, fino ad allora svolte dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Dipartimento della Giustizia Minorile del ministero della Giustizia. Con esso, assieme alle funzioni, sono state trasferite al Fondo sanitario nazionale e ai Fondi sanitari regionali le risorse, le attrezzature, il personale, gli arredi e i beni strumentali afferenti alle attività sanitarie nelle carceri. Il personale sanitario che ad oggi opera nelle carceri italiane è dunque inquadrato contrattualmente quale dipendente dell’Azienda sanitaria e non più del Dap. Uno dei principi fondamentali della riforma è il “riconoscimento della piena parità di trattamento, in tema di assistenza sanitaria, degli individui liberi e degli individui detenuti ed internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale”. La sanità penitenziaria è stata oggetto di epocali, numerosi e positivi cambiamenti nel corso degli ultimi decenni, tutti aventi lo scopo di parificare - quanto più possibile - l’offerta sanitaria “carceraria” a quella prevista per la popolazione “libera”. Molto si è già fatto, tuttavia permangono ancora tantissime difficoltà indissolubilmente legate allo status detentivo, ma anche dovuto da una cultura politica che ancora tende a difendere oltre ogni limite il concetto esasperante della sicurezza. Passando, di fatto, sopra anche sul diritto alla salute. Avellino. Carcere di Bellizzi: tre morti in quattro mesi di Andrea Esposito Il Riformista, 22 aprile 2021 Spazio di riscatto sociale? Macché. Tutt’al più luogo di espiazione e di sofferenza, se non addirittura di morte. Ecco a che cosa si è ridotto il carcere in Campania. Sono i numeri a restituire una fotografia impietosa degli istituti di pena: dall’inizio dell’anno, nella nostra regione, si sono già suicidati tre detenuti. L’ultimo due giorni fa a Bellizzi Irpino, dove a togliersi la vita è stato un pugliese, padre di tre figli, arrestato a novembre scorso e trasferito da Foggia nell’istituto di pena avellinese il primo aprile scorso. Una tragedia che si somma a quella del 16enne che si è tolto la vita in una comunità del Casertano e a quella del detenuto che ha compiuto il gesto estremo tre giorni dopo essere entrato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Tre morti in meno di quattro mesi, dunque, a conferma di un trend in netta crescita. Nel 2020 i suicidi dietro le sbarre sono stati nove a fronte dei cinque registrati nel 2019. Allo stesso modo, stando a quanto si legge nella relazione annuale presentata dal garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, sono aumentati gli atti di autolesionismo aumentati (1.232 casi in un anno), gli scioperi della fame (1.072) e il rifiuto dell’assistenza sanitaria (398 casi) come forma di protesta, con conseguente aumento dei provvedimenti disciplinari che portano alla perdita di benefici e, di conseguenza, alimentano il sovraffollamento. A prescindere dalle motivazioni di certi gesti, i dati dimostrano come il carcere continui a esasperare, straziare e persino a uccidere anziché a rieducare. Soprattutto in un periodo in cui il distanziamento sociale imposto dall’emergenza sanitaria ha ridotto i contatti tra detenuti e familiari, comunicazione, ascolto e presenza di figure sociali. Manca qualcosa? Probabilmente sì, almeno secondo Ciambriello: “Bisogna implementare progetti rieducativi e umanizzanti, distribuendoli nell’arco della giornata, con l’obiettivo di combattere l’isolamento. E poi servono più figure sociali di accompagnamento come psicologi, psichiatri, pedagogisti ed educatori, il che significa più attività di inclusione, lavoro, studio e formazione”. Fino a qualche tempo fa, d’altra parte, nei 15 penitenziari della Campania erano in servizio 17 psicologi e 23 psichiatri provenienti dalle Asl ai quali si aggiungevano 43 esperti psicologi inquadrati nel personale dell’amministrazione penitenziaria. E medici e infermieri? I primi non vanno oltre le 108 unità e i secondi non superano le 189. Poco a fronte di una popolazione carceraria che oscilla tra le 6.300 e le 6.500 persone e nella quale non mancano casi di detenuti affetti da disturbi psichici o da altre patologie. Poco per gestire il trauma della carcerazione che spesso esplode in chi fa ingresso in un istituto di reclusione e che si manifesta con sintomi che vanno dall’ipertensione all’astenia. Così i penitenziari campani - ma il discorso non è diverso per quelli del resto d’Italia - si trasformano in cimiteri. Alla politica tutto ciò interessa? Nemmeno per sogno. Il tema dell’invivibilità del carcere e del reinserimento sociale dei condannati sono del tutto estranei all’agenda dei rappresentanti istituzionali. Stesso discorso per molti organi di informazione. Un’indifferenza comprensibile, in un contesto politico e sociale impregnato di giustizialismo, ma altrettanto inaccettabile per chi fa dei diritti il proprio credo. Taranto. Morto in carcere 54enne di origini siciliane, disposta l’autopsia di Carmelo Amato sicilians.it, 22 aprile 2021 Ieri mattina è morto nella casa circondariale Carmelo Magli di Taranto, il 54enne barcellonese Salvatore Piccolo. L’uomo era rinchiuso dal 24 gennaio 2018 a seguito dell’ordinanza Gotha 7 eseguita - mentre si trovava già detenuto - era stato inoltre attinto dall’ordinanza custodiale dell’operazione “Dinastia”, in seno alla quale il prossimo 30 di maggio si sarebbe discussa la posizione nello stralcio abbreviato al quale l’imputato aveva fatto accesso e per il quale la Dda di Messina aveva richiesto la condanna a 3 anni. Espletati gli accertamenti del caso, la Procura della Repubblica di Taranto ha disposto la traslazione della salma all’ospedale Annunziata di Taranto dove nei prossimi giorni è probabile che venga eseguito l’esame autoptico per stabilire le esatte cause della morte. Salerno. Giovane di Sarno morto in carcere, assolti medico e guardia penitenziaria di Nicola Sorrentino Il Mattino, 22 aprile 2021 Sono stati assolti i due imputati in servizio nel carcere di Secondigliano, un medico e una guardia penitenziaria, accusati di omicidio colposo per la morte di A.E., suicida in cella il 19 giugno 2013. Il ragazzo morì nell’ospedale psichiatrico dov’era ricoverato, dopo essere stato in precedenza a Villa Chiarugi a Nocera Inferiore e ancora presso l’opg di Aversa, a causa di diverse segnalazioni per eventi critici. “Dalle indagini espletate è emerso che il decesso è stato causato da un atto volontario mediante impiccagione”, così recitò il referto. La sentenza di assoluzione esclude responsabilità per i due imputati. La Procura aveva presentato una prima richiesta di archiviazione, seguita da una successiva opposizione presentata dal legale dei familiari dell’uomo, l’avvocato Vincenzo Calabrese, fino al processo a carico dei due imputati disposto dal gup al termine dell’udienza preliminare. Il giovane di Sarno, affetto da problemi psichici, si sarebbe tolto la vita volontariamente nel carcere di Secondigliano, a 29 anni. La famiglia aveva chiesto chiarezza su quanto fosse accaduto quel giorno in carcere. Il ragazzo aveva piccoli precedenti penali alle spalle. Fu trasferito nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, in precedenza. Per uccidersi avrebbe usato i pantaloni del pigiama, per poi legarli al cancello della cella dove era recluso, da solo. Nell’ipotesi iniziale della Procura, vi erano presunti e mancati accorgimenti e controlli da parte dei due imputati, parte del personale della struttura, senza controllo utile a prevenire atti autolesionistici del giovane. Le condizioni della detenzione avrebbero aggravato le sue condizioni, con il passare del tempo. Le motivazioni dei giudici, una volta depositate, meglio faranno comprendere i dettagli della sentenza di assoluzione per i due imputati. Padova. Covid nel carcere, il focolaio si dimezza con 46 contagiati di Nicola Cesaro Il Mattino di Padova, 22 aprile 2021 Il focolaio padovano non è più il maggiore a livello nazionale, ma resta comunque un fronte aperto. Calano i positivi della casa di reclusione e della casa circondariale di Padova, dove fino a due settimane fa i contagiati erano ben 113. Alla rilevazione di ieri, i contagiati tra i detenuti padovani erano 46, dunque più della metà in meno rispetto a inizio mese. Due di questi si trovano in ospedale, pur non in condizioni gravi, mentre tutti gli altri sono asintomatici. La situazione è dunque nettamente migliorata in questi ultimi giorni. L’8 aprile, su 149 positivi negli istituti penitenziari del Triveneto, ben 113 si trovavano a Padova: 96 detenuti e 8 agenti di polizia penitenziaria in casa di reclusione, 8 detenuti e 3 lavoratori in casa circondariale. Praticamente un ospite ogni cinque del Due Palazzi risultava positivo al Coronavirus. Il focolaio padovano è uno di quelli che comunque persiste nel panorama nazionale. Il principale resta a Reggio Emilia, ma è in diminuzione: i casi sono diventati 74 (con 4 ricoverati e gli altri tutti asintomatici) ed erano 107 quattro giorni prima. A Pesaro sono 46 (2 ricoverati, gli altri asintomatici) ed erano 55. Nessun miglioramento invece a Rebibbia femminile, dove le contagiate restano 72, tutte asintomatiche, e a Melfi, dove si contano sempre 56 casi. Verona. Focolaio Covid in carcere, 21 positivi. La direzione: tutto sotto controllo di Giovanni Vitacchio telenuovo.it, 22 aprile 2021 Sono ventuno le persone positive al Covid all’interno del carcere di Montorio. Solo due di loro presentano sintomi lievi e per nessuno si è reso necessario il ricovero in ospedale. Non desta particolari preoccupazioni il focolaio che si è sviluppato nelle celle della Casa circondariale. Su 250 tamponi rapidi, poco meno del 10% è risultato positivo, mentre hanno dato esito negativo i test effettuati su altre venti persone che erano entrate in contatto con i contagiati. Contagiati che sono stati immediatamente separati dal resto della popolazione carceraria e isolati in reparti creati ad hoc. Tranquilla si è detta la direttrice del carcere, Maria Grazia Bregoli, che ha confermato la prosecuzione delle attività e i contatti tra i detenuti e i rispettivi familiari. A subire un leggero stop sono state solo le iniziative di volontariato. Bregoli ha espresso soddisfazione anche per la campagna di vaccinazione, che prosegue all’interno della struttura. La polizia penitenziaria e gli operatori che hanno aderito alla campagna, hanno già ricevuto la prima dose, così come i detenuti più anziani. A confermare una situazione di assoluto controllo c’è anche Margherita Forestan, Garante dei diritti dei detenuti, che ha parlato di gestione serena dei contagi. Una situazione sicuramente meno preoccupante rispetto a quella vissuta nell’aprile del 2020 quando a Montorio i contagiati dal Covid diventarono in pochi giorni più di 40, facendo del carcere veronesi uno dei più colpiti a livello nazionale. Napoli. Vaccini, al via la campagna per i detenuti del carcere di Poggioreale Il Mattino, 22 aprile 2021 “Esprimo apprezzamento per l’avvio delle vaccinazioni nelle carceri napoletane, oggi sono stato a Poggioreale e ho verificato che si sono sottoposti volontariamente alla vaccinazione 20 detenuti ultrasettantenni e 2 ultra ottantenni; ricordo che domani inizieranno le vaccinazioni anche presso il Carcere di Secondigliano dove si sono prenotati 19 detenuti ultra settantenni e 2 ottantenni”. Cosi Samuele Ciambriello, Garante campano dei detenuti, che con il direttore dell’Istituto penitenziario di Poggioreale Carlo Berdini, il referente Sanitario Vincenzo Irollo, e il responsabile della sanità penitenziaria Lorenzo Acampora ha presenziato all’iniziativa. Nei prossimi giorni, come già annunziato dal direttore generale dell’Asl Napoli 1, Ciro Verdoliva, continuerà la campagna vaccinale oltre alle categorie predisposte anche per i detenuti fragili (immunodepressi, diabetici, trapiantati, gravi obesi, dializzati, oncologici, cardiopatici). A Napoli sono stati anche vaccinati nei giorni scorsi 16 giovani ospiti del carcere minorile di Nisida e si contano 101 detenuti vaccinati presso le carceri salernitane. In Campania poi sono 2050 gli operatori penitenziari tra agenti di polizia penitenziaria, operatori sanitari, cappellani, volontari nonché civili che entrano in carcere a vario titolo, ad aver già ricevuto il vaccino. “Il piano vaccinale contempla la vaccinazione della popolazione carceraria nel suo insieme e rientra nelle categorie prioritarie del Ministero della Salute. Al di là delle polemiche stucchevoli su chi vaccinare prima, mi auguro - conclude Ciambriello - che tutte le Asl campane facciano partire la loro campagna vaccinale anche all’interno degli istituti penitenziari di propria competenza, con provvedimenti immediati ed incisivi, al fine di permettere ai detenuti di potersi vaccinare se lo vogliono. La vaccinazione del sistema penitenziario permetterà di alleviare le sofferenze che la pandemia ha procurato in questo luogo chiuso e rimosso”. Modena. Formazione e lavoro, come ripartire dopo il carcere Avvenire, 22 aprile 2021 Perché il carcere non sia la fine, ma un nuovo inizio. Perché il carcere sia un luogo di vita e non la fine delle emozioni e dei sentimenti. Perché il carcere sia un luogo di riscatto, che rimette in gioco. Perché il carcere sia una possibilità. Questo, e molto altro, è stato alla base del convegno organizzato tra gli altri dal Csi Modena all’interno della Rete-Studio-Carcere, un’iniziativa nata da un gruppo di persone e di associazioni legate alle strutture penitenziarie di Modena e Castelfranco Emilia. Un pomeriggio di profonde riflessioni, con quasi duecento persone collegate da tutta Italia, per ascoltare parole che hanno portato soprattutto esempi pratici, veri e concreti di quanto si sta già facendo in provincia di Modena, tra la casa circondariale Sant’Anna di Modena e la Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia. Un’attenzione particolare è stata prestata al tema delle opportunità lavorative dentro e fuori il carcere, per rendere il carcere più utile a tutti. Le domande in partenza erano “Come favorire la creazione di linee produttive all’interno delle mura carcerarie, gestite da soggetti esterni?” “Come avviare una rete di aziende e soggetti produttivi della città con una logica di responsabilità sociale di impresa?” “Come privilegiare la formazione professionalizzante e l’orientamento al lavoro anche nella fase della detenzione?” Dopo l’introduzione di don Paolo Boschini, responsabile della consulta diocesana per la cultura, si sono susseguiti interventi di autorità, associazioni e aziende, per descrivere quello scambio sociale e culturale che alla base di un progetto che porti lavoro, e quindi speranza e futuro, a chi si trova in una situazione complessa come quella della detenzione. “Perché la realtà - come ha detto Maria Martone, direttrice della casa di reclusione di Castelfranco Emilia - è molto semplice: il carcere non può essere una prerogativa solo dell’amministrazione penitenziaria, dobbiamo creare un ponte con il territorio, implementare la formazione professionale e le attività lavorative perché attraverso processi di inserimento seri, che non possono prescindere dal lavoro, si crea anche più sicurezza sociale”. Si creano rapporti, non muri. E da una parola scambiata con una persona conosciuta durante il volontariato in carcere, può nascere un contratto di lavoro. È stato così per Alecrim di Maranello, che con Ecobi si occupa di ambiente, isole ecologiche, manutenzione del verde e raccolta differenziata. Solo un esempio di quanto si possa fare per tradurre in pratica un valore come quello del riscatto sociale. Catanzaro. Nel carcere di Siano il “Dolce lavoro” profuma di dolcetti e biscotti lanuovacalabria.it, 22 aprile 2021 È un “Dolce lavoro” che profuma di dolcetti e biscotti, come fatti in casa. E per una volta le mura dell’Istituto Penitenziario di Catanzaro, dove questi dolci verranno realizzati e confezionati per il mercato esterno, saranno un luogo di apertura al mondo e di crescita umana e professionale, non solo di espiazione. Per dodici detenuti, con reati di una certa gravità alle spalle, si apre infatti lo spiraglio di una vita possibile, che ha inizio da un percorso formativo online dal “dolce” titolo che li porterà ad acquisire la qualifica di pasticceri, spendibile su tutto il territorio nazionale. Dal 21 aprile al 22 settembre, per la durata di seicento ore complessive, i corsisti saranno quotidianamente impegnati nell’apprendimento delle tecniche per la produzione di prodotti di pasticceria e da forno, attraverso l’utilizzo di attrezzature acquistate per l’occasione, oltre che dei laboratori dell’azienda “Pecco”, grazie alla disponibilità della Regione Calabria. Una volta “formati”, i corsisti svolgeranno il loro tirocinio in aziende del settore e saranno pronti a costituire a loro volta una cooperativa di tipo “B”, in cui rendersi responsabili e protagonisti della vendita sul web di quanto prodotto. Un progetto non esclusivo in Italia, ma di certo originale nella parte in cui prevede la costituzione della cooperativa tra gli stessi detenuti per i quali il progetto è nato, che avrà rappresentato un valore aggiunto per la Fondazione con il Sud che lo ha preferito ad altri nel concedere il finanziamento. Ma ad essere premiato è stato anche il lavoro “corale” tra quanti hanno portato avanti l’idea: dalla direttrice della Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro, Angela Paravati, alla responsabile del Provveditorato del Ministero della Giustizia, Giuseppa Maria Irrera; dalla referente dell’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna (UIEPE), Maria Letizia Polistena, al rappresentante della Regione Calabria, Luigi Bulotta, sono piovute parole di apprezzamento, nel giorno della presentazione online, per la validità di un progetto che ha convinto tutti dall’inizio, e che restituisce dignità e fiducia nella vita a chi, ritrovandosi dietro le sbarre, l’ha persa. All’associazione di volontariato “Amici con il Cuore”, presieduta da Antonietta Mannarino, da tempo impegnata ad insegnare l’arte dell’intreccio della carta all’interno del carcere, va il merito di avere intercettato la passione per i dolci di alcuni detenuti e di avervi visto un’autentica opportunità lavorativa e di riscatto sociale. È stato poi il Centro Servizi al Volontariato “Calabria Centro”, puntualmente interpellato, a fare sintesi tra le “forze” istituzionali in campo e a spingere il progetto verso un riconoscimento unanime per la sua capacità - come ha avuto modo di spiegare il direttore del CSV, Stefano Morena - di rafforzare legami di fiducia e rappresentare un “anello di congiunzione” tra la realtà carceraria ed il territorio. È spettato poi a Giuseppe Pedullà illustrare le modalità del corso, in rappresentanza dell’impresa sociale “Promidea” che affiancherà l’ente capofila “Amici con il Cuore” nella realizzazione del progetto: sarà un percorso lungo e impegnativo, con tante ore di didattica online, ma sicuramente gratificante per il serio contributo che darà all’opera di rieducazione degli aspiranti pasticceri. Sin dal primo giorno essi saranno chiamati a mettersi in gioco e a convogliare le loro energie verso la creazione di un prodotto dolciario che, una volta ottenuta la certificazione regionale, rappresenterà la valida motivazione a rientrare a pieno titolo in società da imprenditori a tutti gli effetti e a pieno titolo, dopo aver scontato il loro debito. Castelfranco Emilia (Mo). Alla Casa di reclusione un call-center curato da detenuti di Maria Rosa Di Termine valdarno24.it, 22 aprile 2021 Un progetto di reinserimento dei detenuti attraverso il lavoro. È nata in Valdarno l’idea sviluppata da iCall srl, società del Gruppo Gfi, in collaborazione con la Casa di reclusione di Castelfranco Emilia. Nel carcere modenese è stata allestita una prima serie di 20 postazioni di call center dove lavorano alcuni reclusi per conto di operatori telefonici e di compagnie elettriche con le quali la società collabora. Tutto è cominciato da un colloquio informale tra Roberto Vasarri, manager montevarchino titolare della Gfi, ed Enzo Brogi, presidente del Corecom e attento ai temi della marginalità e delle condizioni all’interno degli istituti di pena. Due anni fa, Brogi propose all’amico imprenditore di impostare un progetto di inclusione pilota a livello nazionale, allestendo una centrale di informazioni con persone che stanno pagando il loro debito con la giustizia. “In prima battuta l’idea fu presentata al direttore della Casa circondariale di Arezzo - spiega Brogi - ma non si è potuta concretizzare per il trasferimento del dirigente. E così ho contattato Maria Martone, adesso al timone del penitenziario emiliano, ma già responsabile della realtà di Massa, considerata modello perché occupa tutti i detenuti in attività di falegnameria, metallurgia e del tessile e le statistiche confermano che chi ha sperimentato quel percorso difficilmente torna in prigione avendo imparato un mestiere”. Grazie all’impegno della direttrice della casa di reclusione e di Vasarri è stata concretizzata l’opportunità di utilizzare il lavoro dei reclusi per operazioni di telemarketing e di gestione di clientela. “Le persone impiegate - spiegano i referenti dell’iniziativa - sono retribuite secondo i contratti previsti; il tempo disponibile degli operatori, oltre alla formazione che ricevono dal personale di iCall dedicato, fa sì che questa occupazione possa essere produttiva per la parte sociale e di integrazione e per quella economica. Ovviamente i sistemi e le connessioni assicurano la massima sicurezza agli addetti e ai clienti che vengono contattati automaticamente dal programma nel quale sono presenti liste circoscritte”. “Il tipo di attività - proseguono - permette alle persone impiegate di avere rapporti con l’esterno e di interloquire con molti consumatori, rompendo l’isolamento nel quale normalmente si trovano i reclusi, favorendone il recupero sociale. La pandemia ancora in corso non ha permesso di ampliare il numero di occupati, ma i risultati ottenuti anche in questa situazione fanno sperare in un’ottima riuscita del progetto, che potrà essere ulteriormente sviluppato”. E in ultimo ringraziano quanti hanno contribuito alla realizzazione: Enzo Brogi che ha messo in contatto i protagonisti, Simone Musmeci e Alessandro Inches di iCall che hanno curato rispettivamente la parte tecnica e organizzativa e il progetto all’interno della struttura carceraria. Salerno. “La Solidarietà” in campo per il reinserimento dei detenuti di Riccardo Manfredelli zerottonove.it, 22 aprile 2021 “La Solidarietà” di Fisciano ente capofila di una convenzione per l’orientamento e l’inserimento lavorativo di soggetti detenuti: le attività previste. Stipulata una Convenzione tra l’Associazione di Volontariato “La Solidarietà” di Fisciano e il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, rappresentate dal Consiglio Regionale della Campania nella persona del responsabile di settore, nell’ambito del progetto “Liberi Fuori” relativo all’orientamento e all’inserimento lavorativo delle persone attualmente detenute presso gli istituti circondariali di S. Angelo dei Lombardi e dell’Icatt di Eboli. Il Consiglio Regionale, a seguito di apposita verifica in merito al valore sociale e alla funzione dell’attività di volontariato svolta dal sodalizio con sede alla frazione Lancusi di Fisciano, ha inteso affidare a “La Solidarietà”, presieduta da Alfonso Sessa, l’attività di collaborazione e supporto relativamente alla realizzazione del progetto di orientamento ed inserimento lavorativo dei detenuti presso gli istituti circondariali sopra indicati. Le attività richieste sono: colloqui con i detenuti per la rilevazione delle problematiche di carattere sociale; consegna degli atti relativi alle problematiche rilevate presso la struttura di supporto al Garante. Per lo svolgimento di tali attività sono richieste: quattro figure professionali esperte nel campo lavorativo e nel completamento delle relative pratiche per dieci visite complessive per gli istituti carcerari considerati e un incontro settimanale presso l’ufficio del Garante. “La stipula di questa Convenzione - dichiara il Presidente del sodalizio Sessa - evidenzia il carattere solidale della nostra Associazione, i cui volontari, oltre a prestare attività di emergenza sanitaria sui propri territori di competenza, offrono anche servizi di carattere sociale mediante la professionalità messa in campo da apposite figure che hanno le competenze specifiche nei settori in cui sono chiamate ad operare. Nel caso di specie, si tratta di un lavoro di grande responsabilità rivolto a persone, alle quali si intende offrire una opportunità di riscatto sociale”. Nell’ambito dello svolgimento delle attività oggetto della Convenzione, “La Solidarietà” garantirà la disponibilità di un numero di volontari sufficiente all’adempimento di tutti i compiti previsti, assicurando la loro specifica competenza e preparazione per gli interventi cui sono destinati, mettendo altresì a disposizione la propria sede con l’individuazione di spazi specifici presso i quali porre in essere tutte le attività indicate nell’intesa tra le parti aderenti. Tav e non solo. Pensiero unico, dissenso, repressione di Livio Pepino Il Manifesto, 22 aprile 2021 Esiste un filo rosso che lega fenomeni a prima vista eterogenei come la criminalizzazione del conflitto sociale, la repressione delle rinate lotte operaie, la delegittimazione della rete di soccorso e accoglienza dei migranti e molto altro ancora? Sì, esiste. E sta nel crescente tentativo dello Stato, nelle sue diverse articolazioni, di rimuovere con la forza i problemi che non sa o non vuole risolvere. L’espulsione dalla scena pubblica del conflitto agito da movimenti sociali antagonisti o semplicemente non omologati è, dal luglio 2001, una costante. Con un caso di scuola: quello della Val Susa, dove a fronte della opposizione al Tav si è assistito progressivamente all’esclusione della comunità locale da ogni interlocuzione, alla manipolazione dei dati relativi all’utilità dell’opera, alla criminalizzazione della protesta con interventi legislativi, amministrativi e di polizia comprensivi di un uso sproporzionato della forza e a un’azione repressiva della magistratura senza precedenti per numero di indagati, qualità delle imputazioni, impiego di misure cautelari, dilatazione delle ipotesi di concorso di persone nel reato e finanche - come nel caso del processo contro Erri De Luca - riesumazione del delitto di apologia di reato. Non basta. Quando, negli ultimi anni, il conflitto è tornato nei luoghi di lavoro, in particolare nei settori della logistica e dei lavoratori migranti, le pratiche repressive si sono estese fino all’uso di lacrimogeni contro gli scioperanti, alla riscoperta del delitto di “picchettaggio” e alla dilatazione a dismisura, anche in questo caso, della responsabilità a titolo di concorso. Oggi si contano a centinaia i lavoratori sottoposti a processo penale per violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale e blocco stradale (reato, quest’ultimo, ripristinato nel 2018, non a caso, da uno dei decreti Salvini). Di ugual segno sono molti interventi nei confronti di organizzazioni, movimenti e singole persone impegnati, dal Mediterraneo ai confini occidentale e orientale, nel salvataggio e nel sostegno a migranti in arrivo o in transito. Diciamolo in modo esplicito: l’obiettivo è quello di fare terra bruciata intorno ai migranti diffondendo il messaggio che le organizzazioni impegnate nel soccorso (e, da ultimo, persino i giornalisti che lo documentano) sono collusi con i trafficanti, corrotti e, magari, al soldo di potenze straniere. Ciò a sostegno di una impostazione nella quale le campagne xenofobe della Lega si sono intrecciate con gli strappi di un ministro come Marco Minniti, con la propaganda di Di Maio e con le iniziative marcatamente repressive di diverse Procure, da Catania a Trapani e a Locri, nei confronti di Ong o di esperienze simbolo dell’accoglienza come quella di Riace. Bastano questi flash a far intravedere il filo rosso dell’insofferenza, segnalata all’inizio, nei confronti del dissenso, della protesta, dell’opposizione radicale, del pensiero diverso. È, a ben vedere, l’altra faccia della crisi della democrazia, di quella crisi che individuiamo, in genere, con il venir meno dei canali della rappresentanza (dai partiti ai corpi intermedi), l’adozione di sistemi elettorali che escludono le minoranze, il trasferimento del potere reale in luoghi diversi dalla politica, la concentrazione dell’informazione in poche mani prive di legittimazione. Ed è l’avvisaglia di quella democrazia autoritaria che sta soppiantando, anche in alcune parti d’Europa, lo Stato di diritto. Di questo si discuterà oggi, giovedì 22 aprile, dalle 16 alle 19 nel convegno “Pensiero unico, dissenso, repressione” (diretta streaming qui: https://youtu.be/phegbdRB_Hc), organizzato da Centro Riforma dello Stato, Controsservatorio Valsusa, Fondazione Basso, Società della Ragione, Studi sulla Questione Criminale, Udi Palermo e Volere la Luna, con la partecipazione di Maria Luisa Boccia, Livio Pepino, Daniela Dioguardi, Xenia Chiaramonte, Lorenzo Trucco, Claudio Novaro, Rossella Selmini, Ilaria Boiano, Nicoletta Dosio, Franco Focareta, Lorena Fornasir, Francesco Martone, Filippo Miraglia e Marina Prosperi. Intelligenza artificiale: l’Europa non vuole il Grande Fratello, con qualche eccezione di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 22 aprile 2021 La Commissione Europea ha presentato la bozza di regolamento sull’intelligenza artificiale. Resta il nodo delle deroghe ai governi sugli algoritmi per la “sicurezza. nazionale”, un concetto che può essere usato contro manifestanti, immigrati in casi di “emergenza” decisi dalle maggioranze di turno. Alcuni parlamentari Ue chiedono di bandire ogni forma di sorveglianza biometrica. Il testo dovrà passare sotto le forche caudine degli Stati e del securitarismo diffuso in Europa. La Commissione Europea ha presentato ieri la bozza di una proposta di regolazione dell’intelligenza artificiale negli Stati membri. Insieme al regolamento sulla privacy e ai progetti legislativi Digital Services Act e Digital Markets Act questo testo di 108 pagine completa un’architettura giuridica che intende garantire sia “l’eticità” della tecnologia, sia la “competitività” delle imprese. La bozza disegna il profilo di una democrazia di mercato in un mercato globale dominato dai Leviatani della rete Usa e cinesi. Più che trasformare l’Europa in un centro di produzione mondiale, l’obiettivo è quello di garantire i “valori” dei consumatori e usare le tecnologie nella sanità, trasporti, energia, agricoltura, turismo e la “cyber-sicurezza”. Lo ha detto il commissario al mercato interno Thierry Breton. Il documento limita l’uso dell’intelligenza artificiale in campi che vanno dalle auto che si guidano da sole al governo della forza lavoro nelle imprese attraverso gli algoritmi, dai prestiti bancari alla selezione per l’iscrizione a scuola e al punteggio degli esami. La vicepresidente della Commissione Ue Margrethe Vestager ha detto di volersi opporre a modelli di “sorveglianza di massa”. Ad esempio il “punteggio sociale” sperimentato in Cina dove si misura l’affidabilità di un individuo e si orientano i suoi comportamenti. La bozza contiene una serie di bandi tra i quali c’è anche il riconoscimento facciale dal vivo negli spazi pubblici, anche se ipotizza diverse deroghe sulla “sicurezza nazionale”. Nozione, quest’ultima, tutta da chiarire. Nel testo è specificato che riguarderà casi di rapimento o per prevenire e rispondere a attacchi terroristici. Tuttavia la “sicurezza” ha molteplici declinazioni, in particolare nello stato di emergenza permanente in cui continueranno a vivere le società neo-liberali in crisi dopo la pandemia. I governi già usano tecnologie biometriche in maniera “securitaria” per controllare e colpire i manifestanti oppure per riconoscere i sostegni sociali in sistemi di Welfare sempre più ricattatori. In questi casi invocano questioni di “sicurezza” declinabili a seconda delle maggioranze di turno. Si rischia così di colpire le persone per il genere, la razza, la sessualità, l’orientamento politico o lo status di immigrato. Queste ambivalenze hanno sollevato diverse critiche. Alcuni parlamentari europei hanno scritto due lettere alla presidente della commissione Ursula Von Der Leyen e hanno chiesto il bando di ogni sorveglianza biometrica. La bozza assegnerebbe ai governi un margine troppo ampio di intervento e sarebbe troppo amichevole rispetto all’industria digitale. Il testo sarà comunque emendato dal parlamento Ue, ma dovrà passare sotto le forche caudine del Consiglio Europeo dove ci sono Stati come la Francia di Macron che vogliono integrare gli algoritmi nei loro apparati di sicurezza. L’ambizione della Commissione Ue di vietare pratiche da “Grande Fratello” - tecnologie che orientano i comportamenti e la formazione delle mentalità - dovrà affrontare un altro problema. Nella piramide dei “rischi inaccettabile” che ha disegnato ci sono anche le piattaforme che usano algoritmi che selezionano contenuti rilevanti per i loro utenti. Cosa farà, ad esempio, l’esecutivo europeo se Facebook darà seguito al progetto di un Instagram per i minori di 13 anni per fare concorrenza a Tik Tok? Lo vieterà? Forse sì, anche per fare sentire il fiato sul collo alla Silicon Valley. Ma questo sarebbe anche un intervento contro la “libera concorrenza” che rientra tra le prerogative del mercato europeo. Earth Day 2021, il mondo è nelle nostre mani di Luca Fraioli La Repubblica, 22 aprile 2021 “Restore our Earth” è il tema di questa Giornata mondiale della Terra. La crisi climatica è al centro dell’agenda politica mondiale, ma bisognerà vedere se alle promesse dei politici seguiranno azioni concrete per limitare i danni. Ha appena compiuto cinquant’anni, ma proprio ora le viene chiesto l’impegno maggiore. Le foto in bianco e nero di quel 22 aprile 1970, prima Giornata mondiale della Terra, raccontano di una gioventù americana scesa in strada (furono decine di milioni in tutti gli States) per chiedere alla politica più attenzione verso il Pianeta. Erano gli anni del Vietnam e della contestazione, di ragazze e ragazzi che sognavano di cambiare il mondo marciando dietro slogan e striscioni. Molti la considerano la data di nascita dell’ambientalismo moderno, che ha certamente contribuito ad accrescere la consapevolezza dell’opinione pubblica, ma non si può dire che abbia cambiato radicalmente il nostro modo di vivere, di consumare, di produrre energia, di sfruttare la Natura. Tanto che 51 anni dopo ci ritroviamo a sperare che l’Earth Day segni un nuovo inizio, rappresenti una svolta soprattutto nell’affrontare la principale emergenza ambientale della nostra era: quella climatica. Stavolta, complice anche il Covid, non ci saranno folle di giovani in strada. Ma l’epicentro sarà ancora una volta l’America: il presidente Biden, ansioso di rimettere gli Usa alla guida della rivoluzione Green, dopo il negazionismo trumpiano, ha organizzato proprio in occasione della 51esima Giornata mondiale della Terra un vertice al quale ha invitato 40 capi di Stato e di governo. La solita passerella? Le solite promesse non mantenute, come accusano i giovanissimi attivisti di Fridays for Future? Vedremo. Certo, la Casa Bianca ha preparato l’evento mandando nelle principali capitali il suo zar per il clima John Kerry. E si spera che l’ex Segretario di Stato di Obama non sia tornato a Washington a mani vuote. Ma la vera scommessa riguarda proprio l’Amministrazione Biden: come scrive Bloomberg, piattaforma di informazione di proprietà dell’omonimo magante ambientalista ex sindaco di New York, “l’America vuole la leadership sul clima, ma prima dimostri al mondo di fare sul serio”. Come dire che la Casa Bianca, per essere credibile e trascinare con se le altre nazioni in una vera transizione ecologica, deve gettare il cuore oltre l’ostacolo e non limitarsi ad accettare i tagli alle emissioni ratificati ormai sei anni fa a Parigi e la cui efficacia è superata dal precipitare della situazione. Lo chiedono ormai non solo Greta Thunberg e i suoi epigoni, ma persino i 310 manager più influenti d’America che hanno appena scritto una lettera a Biden invocando misure drastiche per frenare il riscaldamento globale. “Business is business”, ma in un mondo agonizzante quale business potrebbe mai sopravvivere? Purtroppo i dati raccolti da scienziati e istituzioni sovranazionali, e riassunti in questo speciale di Green and Blue, confermano ogni giorno di più che occorre agire in modo deciso e immediato. Nel 2021 le occasioni non mancano: il vertice voluto da Biden, il G20 a guida italiana, la Cop26 di Glasgow a inizio novembre. C’è poi quello che può fare ciascuno di noi nel suo piccolo, come individuo e come comunità. Non a caso il tema individuato per questa 51esima edizione della Giornata mondiale della Terra è “Restore your Earth”, un invito rivolto a tutti noi, perché ognuno restauri il pezzetto di Pianeta di sua competenza. Vedremo se i Grandi manterranno le promesse fatte nei prossimi summit. E se le persone normali sapranno cambiare le loro abitudini per contribuire. Chissà che nel 2022, in occasione della 52esima Giornata della Terra, non si possa tornare in strada come in quel lontano 1970. Magari non per protestare, ma per festeggiare l’inizio di una vera rivoluzione verde. I migranti del clima aumenteranno fino al 350% se non facciamo qualcosa di Enrico Franceschini La Repubblica, 22 aprile 2021 Le simulazioni anticipano le allarmanti proporzioni che il dislocamento di massa dovuto ai cambiamenti climatici potrà avere da qui alla fine del secolo, specie se il mondo non mantiene gli obiettivi degli accordi di Parigi per ridurre le emissioni nocive nell’atmosfera. Milioni di persone sono costrette a lasciare le proprie case ogni anno a causa delle estreme condizioni atmosferiche causate dal cambiamento climatico. Ora uno studio del fenomeno indica le allarmanti proporzioni che questo dislocamento di massa potrà avere da qui alla fine del secolo, specie se il mondo non mantiene gli obiettivi fissati dagli accordi di Parigi per ridurre le emissioni nocive nell’atmosfera. Secondo dati della Croce Rossa Internazionale, più di 10 milioni di persone si sono dovute trasferire a causa del clima avverso soltanto negli ultimi sei mesi, quattro volte di più del numero di coloro che nello stesso periodo hanno lasciato le proprie abitazioni per guerre e conflitti. Un recente esempio sono le inondazioni in Australia, dove decine di migliaia di persone sono state costretti a lasciare le proprie cause dopo settimane di piogge torrenziali. Il rapporto del Weather and Climate Risk Group di Zurigo, pubblicato di recente dalla rivista Environmental Research Letters, esamina l’influenza del cambiamento climatico così come dei cambiamenti demografici e socioeconomici per questo genere di rischi. I ricercatori hanno così scoperto che, se la popolazione terrestre rimarrà stabile al livello attuale, il rischio di migrazioni di massa come conseguenza di inondazioni aumenta del 50%, rispetto ai livelli del 2010, per ogni grado in più di temperatura del Pianeta. La popolazione della Terra, tuttavia, non rimane stabile, bensì continua a crescere. Ebbene, anche se questa crescita demografica continuerà a un livello sostenibile, il rischio di evacuazioni di massa aumenterà significativamente fino al 110% entro la fine del XXI secolo. Questa previsione viene fatta calcolando che l’obiettivo degli accordi di Parigi di limitare a 2°C l’aumento della temperatura del Pianeta entro l’anno 2100 verrà mantenuto. Ma se ciò non avvenisse, e il gap tra ricchi e poveri continuasse a crescere, il rischio salirebbe al 350%. “Le nostre scoperte indicano la necessità di un’azione rapida per mitigare il cambiamento climatico e al tempo stesso ridurre il rischio di inondazioni, particolarmente nei confronti delle popolazioni più vulnerabili, costruendo dighe e altre barriere protettive”, afferma il dottor Pui Man Kam, autore principale dello studio. “Non è troppo tardi per intervenire”. Solo il boia non si ammala di Covid: altre esecuzioni in pandemia di Luca Miele Avvenire, 22 aprile 2021 Un paradosso. Terribile. Lo nomina Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International: “Mentre il mondo cercava il modo di proteggere le vite umane dalla pandemia, alcuni governi hanno mostrato una sconcertante ostinazione nel ricorrere alla pena capitale”. Il Covid ha reso ancora più atroce la condizione dei condannati a morte: “La pandemia - spiega Callamard - ha fatto sì che molti prigionieri nei bracci della morte non abbiano potuto incontrare di persona i loro legali e che molti che hanno cercato di fornire aiuto si sono dovuti esporre a gravi, e del tutto evitabili, rischi per la loro salute”. Il report annuale di Amnesty International certifica una tendenza ambivalente: una riduzione globale delle esecuzioni, a cui fa da contraltare una “fiammata” concentrata in un pugno di Paesi. Nel 2020 le condanne eseguite, in 18 nazioni, sono state 483 (16 le donne uccise). Si tratta del dato più basso registrato in oltre un decennio, in calo del 26% rispetto al 2019 e del 70% rispetto al picco di 1.634 casi registrato nel 2015. L’88% delle esecuzioni si sono concentrate in quattro Paesi: almeno 246 in Iran, dove la pena capitale “è sempre più usata come arma di repressione politica contro dissidenti e minoranze etniche”, 107 in Egitto (che ha triplicato le uccisioni), 45 in Iraq e 27 in Arabia Saudita. Come nelle edizioni passate, il calcolo globale non include le migliaia di esecuzioni che vengono eseguite in Cina, dove i dati sulla pena di morte sono classificati come segreto di Stato, e pesa anche l’accesso estremamente limitato alle informazioni in Corea del Nord e Vietnam, che si ritiene applichino in larga misura le condanne capitali. Risultano in calo le nuove sentenze di morte emesse nel mondo, almeno 1.477 ossia il 36% in meno rispetto al 2019. La pena di morte è stata applicata 17 volte negli Stati Uniti nel 2020, e a fine dicembre c’erano 2.485 detenuti condannati alla pena capitale. Per Agnès Callamard “la pena di morte è una punizione abominevole e portare a termine esecuzioni nel mezzo di una pandemia ne ha ulteriormente evidenziato la crudeltà. L’uso della pena di morte in circostanze del genere è un attacco particolarmente grave ai diritti umani”. Nonostante le ombre, c’è anche qualche luce. Come quella che illumina i Paesi che hanno chiuso definitivamente con il boia. Secondo dati aggiornati ad aprile del 2021, 144 Stati hanno abolito la pena di morte nelle leggi o nella prassi, 108 dei quali per tutti i reati. “Nonostante alcuni governi si ostinino a usare la pena di morte, il quadro complessivo del 2020 è stato positivo. Sono aumentati gli Stati abolizionisti”, commenta Callamard. “Alla fine del 2020 un numero record di 123 Stati ha approvato la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per una moratoria sulle esecuzioni. La pressione sugli altri stati sta aumentando”. Amnesty International non ha dubbi. questa tendenza deve proseguire. Stati Uniti. Il verdetto giusto e le morti ingiuste di Bruno Cartosio Il Manifesto, 22 aprile 2021 Chauvin è stato giudicato colpevole di tutte le imputazioni che gli erano state addebitate. La pena sarà decisa nelle prossime settimane, quando inizierà il processo anche agli altri tre agenti che erano con lui quel 25 maggio. Stai seguendo, giorno per giorno, il processo a Derek Chovin, l’ex agente che ha ammazzato George Floyd a Minneapolis poco meno di un anno fa. Poi arrivano la notizia e l’immagine dell’omicidio di Adam Toledo: un ragazzino ispanico ammazzato di notte in un vicolo di Chicago mentre si trova fermo, in piedi contro uno steccato, a mani alzate. Possibile, dici, che sia tutto così facile? Ti torna alla mente l’aria indifferente dell’agente Chauvin, che si guarda intorno mentre ammazza George, tenendo una mano in tasca e con gli occhiali da sole alzati sulla fronte come se stesse comprando il giornale all’edicola. Ripensi all’agente che ha inseguito e ucciso il ventenne Daunte Wright nei pressi di Minneapolis l’11 aprile, dicendo poi di avere confuso il taser con la pistola. Rifai i conti, e verifichi: la progressione è lineare. Nell’ultima decina d’anni, gli omicidi della polizia negli Usa non sono mai stati meno di mille all’anno. Uno più, uno meno: tre al giorno. In proporzione ai gruppi sociali, gli uccisi bianchi sono tot, gli ispanici sono quasi due volte tot e i neri sono oltre due volte e mezza tot; poi vengono gli asiatici, i fuori di testa e quelli di cui non si conoscono i connotati. Quelli del processo sono giorni tesi. Sia perché si attende il suo esito, sia perché si addensa una sequenza particolarmente fitta di “massacri” come se quello compiuto da Tim McVeigh il 19 aprile 1995 a Oklahoma City e quello alla scuola Columbine di Denver il 20 aprile 1999 continuassero a esercitare un’attrazione perversa. E destabilizzante. Alla fine, il processo di Minneapolis arriva alla sua conclusione. La giuria si ritira e resterà in isolamento fino a quando avrà raggiunto il suo verdetto. Quando è sicuro di non interferire con il lavoro dei giurati, il presidente Biden rilascia una dichiarazione: “Prego perché il verdetto sia quello giusto. Per me le prove sono travolgenti”. Le polizie di tutto il paese si mobilitano; la tensione è molto alta a Chicago e la Guardia nazionale viene schierata a Minneapolis, nell’eventualità che il verdetto possa essere non-giusto. Non sarebbe la prima volta, come tutti sanno. E invece il verdetto è giusto, e sarà severo. Chauvin è stato giudicato colpevole di tutte le imputazioni che gli erano state addebitate. La pena sarà decisa nelle prossime settimane, quando inizierà il processo anche agli altri tre agenti che erano con lui quel 25 maggio. La tensione si allenta pressoché ovunque. Biden farà appena in tempo a dichiararsi “sollevato” per il verdetto e perché il paese sembra avere appena scampato il pericolo di una nuova sollevazione. (Il giorno dopo dirà che è stato “un gigantesco passo avanti sulla strada verso la giustizia in America”.) Ma è una questione di minuti e arriverà la notizia di una nuova uccisione poliziesca. Infatti, quello stesso pomeriggio a Columbus, la capitale dell’Ohio, la sedicenne Ma’Khia Bryant è stata ammazzata con quattro colpi di pistola. Chiamato a intervenire in una lite tra ragazze, uno degli agenti ha “riportato la pace”, sparando contro Ma’Khia, che dopo avere buttato a terra una delle ragazze, ne stava aggredendo un’altra con in mano un comune coltello da cucina. In pochi secondi, l’agente è sceso dall’auto e ha ucciso Ma’khia. Così. Anche in questo caso, come in quello di Adam Toledo, a mostrare lo svolgimento conclusivo dell’intervento poliziesco è la body cam, la camera fissata sul petto dell’agente. Era stata introdotta meno di 10 anni fa, presumendo che avrebbe reso meno violenti, più responsabili i comportamenti dei poliziotti. Invece continua solo a mostrare la disinvoltura e indifferenza con cui le polizie usano le armi. Russia. Proteste per Navalnyj, 400 fermati in 60 città di Emiliano Squillante Il Manifesto, 22 aprile 2021 Arrestata anche la portavoce. Putin duro contro “le ingerenze occidentali”. Una risposta “asimmetrica, rapida e dura” alle provocazioni. Con queste parole Putin, durante il discorso di ieri all’Assemblea federale, ha fatto riferimento alle tensioni tra Mosca e la comunità internazionale, andate crescendo nelle ultime settimane a causa della vicenda Navalnyj, dell’escalation militare nel Donbass e delle nuove sanzioni imposte dagli Usa. Un intervento incentrato su questioni interne - pandemia, cambiamento climatico e prezzi dei generi alimentari - ma in cui non sono mancati i moniti alla comunità occidentale, invitata a “non oltrepassare la linea rossa” con la Russia. Nessun riferimento all’oppositore Aleksej Navalnyj e alla situazione nel Donbass, dove le tensioni rimangono elevate dopo l’escalation militare delle ultime settimane. Un duro attacco nei confronti dell’Occidente è arrivato invece in relazione al recente tentativo di colpo di Stato in Bielorussia ai danni dell’alleato Aleksandr Lukashenko: una questione che, secondo Putin, avrebbe meritato una condanna da parte della comunità internazionale che invece non è arrivata. “Nessuno sembra accorgersene, e tutti fingono che non sia successo nulla: è caratteristico che simili azioni non siano state condannate dall’Occidente”, ha affermato, aggiungendo che i colpi di Stato “superano ogni confine”. Una deriva “pericolosa” che Putin ha imputato alla pratica di “imporre la propria volontà agli altri con la forza”: un chiaro riferimento alle sanzioni internazionali. Si susseguono, nel frattempo, i fermi in tutto il Paese nel quadro delle proteste contro la detenzione di Navalnyj, le cui condizioni in carcere si sono aggravate negli ultimi giorni dopo l’entrata in sciopero della fame il 31 marzo scorso. Due importanti arresti sono avvenuti ieri mattina: ad essere fermate Ljubov Sobol (rilasciata in serata), avvocato della Fondazione per la lotta alla corruzione, e la portavoce di Navalnyj Kira Jarmysh, mentre le organizzazioni non governative riferivano nella serata di ieri di oltre 400 fermi in più di 60 città in tutto il paese. Numeri che sembrano evidenziare una partecipazione minore alle proteste rispetto a gennaio, complice forse il discorso alla nazione di Putin. Divergenti anche le stime diffuse dalle autorità russe e dallo staff di Navalnyj in relazione al numero dei partecipanti: i funzionari di polizia hanno riferito di circa 4.500 persone a San Pietroburgo e 6.000 a Mosca, dove al corteo hanno preso parte anche il fratello di Navalnyj, Oleg, la madre Lyudmila e la moglie Julia. Stime che sono state definite “ridicole” dallo staff dell’oppositore. Navalny, Putin agli “avversari” della Russia: “Attenti a varcare la linea rossa” di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 22 aprile 2021 In piazza i sostenitori dell’oppositore, mentre lo zar si prepara a mettere fuori legge l’organizzazione. Vladimir Putin ammonisce gli avversari della Russia a “non varcare la linea rossa”, nel senso che qualsiasi azione mirante a colpire il suo Paese riceverebbe una durissima risposta. Questo nel giorno in cui coloro che non si riconoscono nell’attuale governo scendono in piazza a migliaia per protestare contro il trattamento riservato Aleksej Navalny, l’oppositore in carcere (mille i fermati). Non sono molti quelli che hanno deciso di manifestare, meno di quanto si aspettassero gli alleati di Navalny che avevano invitato tutti a far sentire la propria voce in 165 città, non solo Mosca e San Pietroburgo. Ma è sempre più difficile e pericoloso prendere iniziative, anche le più moderate, vista la reazione delle autorità. L’ultimo esempio viene dalla Fondazione anti-corruzione dello stesso blogger. Sta per essere dichiarata organizzazione estremista e a quel punto chiunque effettuerà una semplice donazione (ma la norma potrebbe riguardare anche il passato) potrà essere denunciato come finanziatore e rischiare fino a otto anni di carcere. Anche il solo dimostrare per le vie delle città non è uno scherzo, pure senza riunirsi in gruppi consistenti. La polizia, gli Omon (truppe anti sommossa) intervengono subito e fermano chiunque ritengano stia in qualche modo protestando, anche se da solo. Così ieri sono state centinaia le persone finite nei cellulari parcheggiati nelle strade secondarie e pronti a portar via grappoli di oppositori, a volte trascinati spesso in malo modo. Ma Putin è tranquillo, e non solo perché i più recenti sondaggi di opinione confermano che, nonostante tutto, la Russia è con lui. Dopo le ultime vicende che hanno visto protagonista Navalny, la percentuale delle persone che ritengono giusta la sentenza che lo ha inviato in penitenziario per due anni e mezzo è addirittura salito quasi al 50 per cento. L’oppositore, che è in sciopero della fame, è stato trasferito in un ospedale all’interno di un’altra colonia penale. Secondo le autorità, sarebbe anche stato visitato da medici estranei all’amministrazione carceraria, notizia non confermata dagli alleati del blogger. Il consenso per il presidente è stabilmente sopra il 60 per cento e non sembra destinato a scendere, nonostante quanto stia avvenendo. Anzi, il sempre più aspro confronto con l’Occidente sembra rilanciarlo. Ieri nell’annuale discorso alla nazione il presidente ha parlato di nuove potentissime armi di cui sarà presto dotato l’esercito russo. Ha promesso quattrini a quasi tutti i settori sociali, dalle famiglie alle imprese. Ha ammonito l’Occidente, tirando in ballo anche un fantomatico golpe che sarebbe stato organizzato nella vicina Bielorussia (ma per ora sarebbero coinvolti solo personaggi più che secondari). Le sanzioni varate contro la Russia sono molto leggere e in più Biden ha riconosciuto il ruolo planetario del Cremlino invitando Putin a un vertice a due. Anche per questo Vladimir Vladimirovich non fa passi indietro nei confronti dei vicini con i quali i rapporti sono pessimi, dalla Repubblica Ceca all’Ucraina. Ai confini Mosca ha ormai schierato ottantamila uomini con aerei d’assalto, ospedali da campo e tutto quello che potrebbe servire per una guerra. Non si tratta, quasi certamente, di un progetto di invasione, come denunciano a gran voce da Kiev, ma di un altro segnale. Tutti, a cominciare dai riottosi vicini, devono fare i conti con la Russia, evitare provocazioni, sedersi rispettosamente al tavolo delle trattative, tenere conto molto seriamente di quello che Mosca dice. Colombia. Mario Paciolla, due inchieste e ancora nessuna verità di Gianpaolo Contestabile e Simone Scaffidi Il Manifesto, 22 aprile 2021 Oltre nove mesi dopo. Sul caso dell’“international specialist” italiano alle dipendenze dell’Onu si indaga sia in Colombia che in Italia, sono finiti sotto indagine i poliziotti che hanno permesso il presunto inquinamento delle prove, sono state fatte promesse e dichiarazioni di disponibilità a collaborare da parte delle istituzioni italiane e colombiane. Ma niente di concreto è emerso durante tutto questo tempo. Il 15 luglio 2020 le Nazioni Unite comunicano alla famiglia di Mario Paciolla che il corpo del loro familiare è stato ritrovato senza vita, lo classificano come suicidio e chiedono ai genitori se sono interessati a far rimpatriare la salma. Sono passati oltre nove mesi da quel giorno, più di 270 giorni in cui sono state formulate diverse ipotesi sulle cause della morte. Sono state aperte due inchieste, una in Colombia e una presso la Procura di Roma, sono finiti sotto indagine i poliziotti che hanno permesso il presunto inquinamento delle prove, sono state fatte promesse e dichiarazioni di disponibilità a collaborare da parte delle istituzioni italiane e colombiane, ma nessuna novità ufficiale sul caso è emersa durante questo lungo periodo di attesa. La Procura di Roma sta portando avanti l’indagine internazionale affidata agli agenti del Ros e ha ritenuto opportuno non condividere le informazioni raccolte tramite l’autopsia del medico legale Vittorio Fineschi, i reperti raccolti sul campo e gli interrogatori ai membri della Missione di Verifica dell’Onu per cui lavorava Mario Paciolla, per non rischiare di compromettere il lavoro investigativo. Dalla Colombia, oltre al referto della prima autopsia che descrive parte della scena del delitto e le ferite trovate sul corpo di Mario Paciolla, sono trapelate solo informazioni ufficiose e non si conoscono i risultati di ulteriori accertamenti o dell’indagine riguardante gli agenti di polizia. ll silenzio e la discrezione sono anche gli elementi che in questi mesi hanno caratterizzato la strategia comunicativa delle Nazioni Unite. Mario Paciolla era assunto come International Specialist all’interno del programma United Nations Volunteers, posizione che richiede un’esperienza internazionale e un curriculum eccellente ma che inquadra il lavoratore in una posizione gerarchica molto bassa. Secondo la giornalista investigativa e amica di Paciolla Claudia Duque, uno dei motivi delle frizioni tra Mario e la Missione Onu era stato anche il trattamento diseguale nei confronti dei lavoratori delle Nazioni Unite inquadrati come “volontari”. In nove mesi l’Onu non ha fornito spiegazioni pubbliche sull’accaduto, né in forma privata alla famiglia. Quando sollecitato dai giornalisti il portavoce del Segretario delle Nazioni Unite ha manifestato e ribadito la collaborazione dell’organizzazione con le autorità italiane e colombiane. Non è ancora chiaro inoltre se si sia proceduto a sollevare dall’immunità diplomatica i funzionari che potrebbero, attraverso omissioni o inadempienze, essere coinvolti nella vicenda. Il responsabile della sicurezza della Missione, Christian Thompson Garzòn, prima persona accorsa sulla scena del delitto è stato al centro di diverse polemiche perché secondo la giornalista Duque avrebbe ripulito la stanza dove giaceva il corpo di Paciolla e requisito i suoi dispositivi elettronici. Tale comportamento, se confermato, appare in contraddizione con il compito del responsabile della sicurezza della Missione che dovrebbe essere al corrente delle linee guida previste dalle Nazioni Unite in caso di morte di un lavoratore. Nel “Handbook for Actioning in Case of Death in Service”, il documento del 2011 che illustra tali procedure, viene specificato che i membri delle Nazioni Unite, in caso di morte di un loro collega, dovrebbero assicurarsi che la scena del delitto non venga manomessa e sono tenuti a chiudere a chiave la stanza in attesa dell’arrivo della polizia e delle autorità competenti. Nel frattempo la famiglia Paciolla supportata dall’incessante lavoro dei propri legali, da una parte e dall’altra dell’Oceano Atlantico, continua la sua ostinata ricerca della verità e della giustizia, chiedendo a chi ha conosciuto Mario di raccontare, di far emergere cosa è successo nei giorni e nelle settimane precedenti alla sua morte violenta, per capire cos’è che lo ha messo sotto pressione, lo ha convinto a comprare un volo per l’Italia e a scappare, come sostengono i genitori, per salvarsi e ritrovare la tranquillità di un luogo sicuro. L’Afghanistan “restituito agli afghani”, dove si confondono coraggio e viltà di Adriano Sofri Il Foglio, 22 aprile 2021 Il paese sta in quella vigilia, un istante prima della vendetta dei talebani, un istante prima che venga scagliata la pietra della lapidazione su inermi e perseguitati. La violenza contro le donne (e gli animali) sta alla radice della violenza degli animali umani. Ed è la situazione nella quale i due connotati opposti, coraggio e viltà, coincidono teatralmente. L’uomo - il vigliacco - che picchia la “sua” donna, o la donna “di tutti”, è tipicamente virile. Una faticosa trafila poetica provò a raddrizzare il tiro facendo dell’uomo valoroso il paladino della debolezza femminile: debolezza che la cavalleria confermava. La sproporzione, materiale e culturale, nell’esercizio della violenza fra i sessi resta colossale anche dove più forte è il progresso dei costumi, comunque la si misuri: i posti percentuali occupati da donne che hanno ucciso uomini, o da donne detenute, sono incomparabilmente più bassi di quelli occupati da donne nei consigli di amministrazione. Se prendiamo un altro caso esemplare di coincidenza fra viltà e pretesa di audacia virile, la violenza “di branco”, o quella della folla, ritroviamo quel contenuto fondante. L’Afghanistan restituito “agli afghani”, cioè, oggi, ai talebani, è il luogo doppiamente esemplare, del vanto del coraggio virile e della metodica violenza su bambine e donne, ora resa più accanita dall’ansia di vendicare l’oltraggio di una parziale loro liberazione. Certo è assurda una guerra internazionale dei vent’anni in una repubblica islamica asiatica di nemmeno 40 milioni di persone. Vent’anni fa si rispondeva all’11 settembre. Siccome non si stana e uccide Bin Laden mettendo più di 100 mila soldati sul campo, si evocò l’effetto collaterale della liberazione dal carcere duro domestico delle donne afghane. Domenica, l’altro ieri, Farhad Bitani, l’autore de “L’ultimo lenzuolo bianco”, intervistato da Maria Cuffaro, raccontava che solo qualche giorno fa a una ventina di chilometri dalla base militare italiana di Herat c’era stata la fustigazione pubblica di una donna: lo diceva perché immaginassimo che cosa sarà quando le forze internazionali avranno lasciato il paese. Ospite a Herat, visitai il famoso carcere femminile finanziato dagli italiani (molte cose notevoli facevano quelle e quegli italiani in divisa) e adibito a rifugio per le donne minacciate di morte dai “loro” uomini. È terribile annunciare una protezione a inermi e perseguitati e poi lasciare il campo. Chi voglia può trovare in rete i video delle lapidazioni pubbliche in Afghanistan (e non solo) e istruirsi sulle modalità delle pietre da scagliare: non troppo piccole che non facciano male non troppo grandi che abbrevino il supplizio. Il libro importante di Peppino Ortoleva “Sulla viltà” (Einaudi) ricostruisce la “virtù maschile” del coraggio e l’autoindulgenza verso il “delitto collettivo”, la folla assassina che perde la testa, come nel linciaggio, e la mattina dopo si rivendica anonima e dunque irresponsabile. “La folla che aggredisce è insieme istigatrice all’azione e riparo dentro cui rifugiarsi”. Ebbene, quel meccanismo ha la sua scena madre nella lapidazione dell’adultera che Gesù sventa in extremis. Quella piccola folla aspetta solo che parta la prima pietra, a scagliarla potrà essere il più vile, fatto forte degli altri che lo spalleggiano, o il più ardito, quello che prende l’iniziativa, e potrà essere la stessa persona: è la prima pietra che occorre fermare, perché fra un istante diventerà la furia della gragnuola. Prima del commiato ortodosso del “non peccare più”, Gesù interrompe la legge, e la tradizione più forte della legge, vecchia “come il mondo”, e per farlo inventa il più azzardato degli espedienti: scarabocchiare per terra, attirare l’attenzione per distrarla dalla sventurata, riportare gli invasati della sassaiola a individui sconcertati che si interrogano l’un l’altro su quello stravagante. E fra un momento si interrogheranno, ciascuno, se sia senza peccato, e che cosa voglia dire davvero, e se ne andranno vergognandosi. La prima pietra della lapidazione è come una precipitazione chimica: c’è un breve fermo immagine dentro il quale può insinuarsi una difesa, una deviazione, un interdetto. L’Afghanistan sta in quella vigilia. Le forze di occupazione militare non sono Gesù, e conoscono esse stesse la complicità deresponsabilizzante nella violenza e la viltà della strapotenza. Ma la concretissima, sporchissima scena afghana riproduce sulla scala dall’uno ai milioni la radice in cui si confondono coraggio e viltà, degli antichi e dei moderni.