“Ergastolo da superare. Lo Stato di diritto è più forte dei mafiosi” di Simona Musco Il Dubbio, 21 aprile 2021 Parla Anna Rossomando, responsabile giustizia Pd. Un intervento di sistema, in un’ottica totalmente garantista, partendo da un presupposto fondamentale: riduzione dei tempi. E su questo punterà il Pd con gli emendamenti al ddl sul processo penale, per la cui presentazione la scadenza in Commissione Giustizia è fissata a venerdì. “Un Paese che ha tempi indefiniti nel processo penale è illiberale e incivile”, spiega al Dubbio Anna Rossomando, vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia e Diritti del Pd. Che sull’invito della Consulta a modificare la legge sull’ergastolo ostativo afferma: “I principi costituzionali non possono essere elusi”. Venerdì scadono i termini per la presentazione degli emendamenti sul ddl penale. Il Pd come interverrà sul tema della prescrizione? Per noi la priorità è ridurre in modo significativo gli attuali tempi del processo. La ragionevole durata, per noi, è un caposaldo del garantismo. Su questo tema avevamo lavorato già nella scorsa legislatura, ora abbiamo una novità: con il Recovery Plan c’è una maggiore disponibilità di risorse che hanno a che vedere con il completamento della digitalizzazione, della modernizzazione dei sistemi, un miglioramento dell’organizzazione e un investimento in risorse umane. Questo non attiene alla procedura, ma è importante sapere che ora, a differenza del passato, non sarà una riforma a costo zero. In questo quadro, vanno valorizzati la giurisdizione e il processo, luogo dove si attua il ‘difendersi provando’. Questo è il contesto in cui affrontare il tema della prescrizione. L’obiettivo di una cultura garantista non può che essere la ragionevole durata del processo, sia per gli imputati sia per le vittime dei reati. Se siamo d’accordo su questo, allora possiamo affrontare il discorso. Il Pd non ha mai condiviso una prescrizione all’infinito. Ed è sbagliato pensare di affrontare la questione dei tempi del processo con la prescrizione. Se si usa questo tema per piantare bandierine e segnare aperture di ostilità sicuramente non si sta lavorando per le garanzie del cittadino e soprattutto non si troveranno soluzioni. Però questo tema è divisivo. Il M5S è molto rigido nel difendere la norma Bonafede, così come lo sono Azione, Italia Viva, Forza Italia e Lega nell’osteggiarla. Il Pd proporrà una prescrizione per fasi? Quello della prescrizione per fasi processuali è un percorso sul quale si può lavorare. Voglio pensare che non ci sia l’interesse né al processo mai, né al processo infinito. Se partiamo tutti da una cultura garantista vera, a tutto tondo, un punto di equilibrio si potrà trovare. Il nostro obiettivo non è piantare bandierine e non è nemmeno il compito del Parlamento, che è luogo della dialettica, non il luogo in cui celebrare conflitti. A proposito di garantismo, la Consulta ha tirato in ballo il Parlamento in merito all’ergastolo ostativo, definendolo incostituzionale. Questo è un altro tema divisivo. Ci sarà un emendamento anche su questo punto? Non è un caso che la Consulta abbia dato un anno di tempo al Parlamento. Ci sono dei principi costituzionali che non possono essere elusi e c’è un’esigenza forte di tutela della legalità in un contesto di presenza di criminalità organizzata che trae la sua forza dal mantenimento dei legami sul territorio. Non sono soluzioni che si possono trovare in una settimana. Abbiamo un anno di tempo, anche qui ci sono strumenti tali per prendere decisioni e fare prospettazioni per scrivere una norma che tenga fermo il principio di legalità e i principi della Costituzione. Ho letto anche dichiarazioni molto oltranziste, ma questo è un Paese che ha vissuto momenti drammatici - penso al terrorismo degli anni 70 - rimanendo sempre ancorato allo Stato di diritto. Lo abbiamo fatto con i morti per strada, figuriamoci se non riusciamo a farlo adesso. Anche sull’eutanasia la Consulta aveva dato un anno di tempo, ma il Parlamento ha esitato... L’evoluzione della scienza e i cambiamenti profondi che ha generato nel nostro vivere quotidiano ci hanno obbligati ad una riflessione su temi che erano inediti anni fa. Ci vuole la pazienza del confronto e dell’approfondimento. Quando è stata fatta la legge sul fine vita ricordo che sembrava difficilissimo trovare una soluzione, ma alla fine ci siamo riusciti. Ogni fase ha le sue difficoltà, ma la pronuncia della Corte impone al legislatore di intervenire. Il vento della Giustizia è cambiato? Siamo in una fase politica diversa. Sicuramente questa ministra, per autorevolezza, è una garanzia per tutti. Ciò, insieme alla sua competenza, può aiutare molto a sottrarre la Giustizia dal terreno dello scontro politico strumentale. Questo è il vento nuovo. Non perché il precedente ministro non lo facesse, ma c’è un governo di natura differente. Questo non vuol dire non confrontarsi: la politica, sulla Giustizia, non è mai neutra. Noi la intendiamo come qualcosa al servizio dei cittadini e non dobbiamo mai dimenticare che c’è un giudice che pronuncia una sentenza nel nome del popolo italiano. Quando parliamo di garanzie dobbiamo ricordare che parliamo di qualcosa a tutto campo e che l’ombrello della legalità è ampio: la difesa della legalità comprende anche la difesa della legalità nel processo e del processo. Questo è il garantismo. Tornando al ddl penale, verranno valorizzati i riti alternativi? La nostra impostazione è agevolare risposte diverse a domande diverse. La strada della valorizzazione dei riti alternativi, di conciliazione e di giustizia riparativa per noi è quella giusta. Voglio ricordare che la messa alla prova si sta dimostrando un istituto che funziona molto bene, sia in termini deflattivi sia perché consente di percorrere strade nuove. Piano piano gli enti pubblici si sono allineati e ciò ha generato un percorso di restituzione nei confronti della società. L’alternativa al carcere non significa impunità, ma l’opposto e anzi sta funzionando bene. Per quanto riguarda il civile, invece, si punterà sull’organizzazione più che sulla procedura? Siamo in una fase parallela a quella del penale. Il Pd è d’accordo con l’impostazione illustrata dalla ministra quando ha esposto il suo programma, che prevede, in sintesi, interventi molto mirati sulla procedura, anche perché gli effetti si vedrebbero dopo tempo. La nostra linea è quella di investire in organizzazione, digitalizzazione e intelligenza artificiale non predittiva, personale amministrativo e giudiziario e poi valorizzare l’ufficio del processo, dando più spazio in termini di competenze e di persone che ne fanno parte. E servirà soprattutto per investire sui giovani, sui quali il Pd punta molto. L’ergastolo ostativo è davvero incostituzionale? di Thomas Pistoia iltaccoditalia.info, 21 aprile 2021 Il giurista Vincenzo Musacchio commenta la dichiarazione della Consulta. Il 13 giugno 2019 la Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha condannato l’Italia, dichiarando che l’ergastolo ostativo non rispetta la dignità umana. La Corte Costituzionale, qualche giorno fa, si è adeguata e ha dichiarato la pena incostituzionale. Abbiamo chiesto a Vincenzo Musacchio, giurista e docente di diritto penale, già allievo di Giuliano Vassalli e amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, di aiutarci a comprendere meglio quanto sta accadendo. Dottor Musacchio, la prima domanda è d’obbligo: quanto è incostituzionale, se davvero lo è, l’ergastolo ostativo? Se l’incostituzionalità si riferisce al principio di rieducazione, come affermerebbe la Consulta, credo che senza collaborazione con lo Stato il condannato non possa dirsi pienamente rieducato. Mi auguro (ma posso solo ipotizzare) che i giudici costituzionali fissino perlomeno dei requisiti molto vincolanti come, ad esempio, indicare la specificità di elementi fattuali, concreti, effettivi che confermino la rescissione dei legami con la criminalità di stampo mafioso che faccia ritenere che non sussista il pericolo della ricostituzione di questi legami con conseguente pericolosità sociale. Questo servirebbe a non vanificare del tutto la necessaria esigenza di prevenzione generale nel contrasto alla criminalità mafiosa e a facilitare il compito del Parlamento che dovrà legiferare. Perché la Consulta, pur avendo indicato l’ergastolo ostativo come incostituzionale, non è intervenuta ma ha rinviato la questione al Parlamento? Lo dice nel comunicato stampa proprio la stessa Consulta: “L’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Sarebbe un’anomala clausola di salvaguardia in deroga all’art. 136 della Costituzione nel quale si afferma che “la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”. Dobbiamo attendere l’ordinanza per esprimere un giudizio più dettagliato e capirne di più. Quali sono, secondo lei, le ragioni di questa scelta? Sembrerebbe un provvedimento ispirato al “pilatismo” che non scontenti le varie esigenze in campo. Ci si è destreggiati nel miglior modo possibile in una materia sicuramente esplosiva e in una situazione particolarmente problematica. Se la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e la Consulta indicano una incostituzionalità, non può che venirci un dubbio: fino ad oggi lo Stato ha sbagliato, infliggendo una pena inumana a tutti i mafiosi? La norma è stata più volte al vaglio della Consulta e ha sempre superato le dichiarazioni d’incostituzionalità. Questa volta probabilmente le forti pressioni di una parte della società civile e le decisioni della Corte di Strasburgo potrebbero aver influenzato la Consulta. Secondo lei, perché soltanto oggi viene fuori il problema dell’incostituzionalità? Prima non se n’era accorto nessuno? Le pressioni da qualche tempo erano tante. Il caso di Marcello Viola, condannato all’ergastolo per il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso, ha dato una forte accelerazione. Viola non ha mai collaborato con la giustizia per cui l’ordinamento penitenziario italiano gli inibiva l’accesso al beneficio o alla liberazione condizionale. La Corte europea dei diritti umani (i cui componenti sanno poco delle mafie italiane) si è pronunciata a suo favore e contro l’ergastolo ostativo inteso in senso assoluto. La pena dell’ergastolo ostativo tuttavia non coincide in assoluto con l’intera vita del condannato poiché per chi è condannato all’ergastolo ostativo esiste un’eccezione che gli permetta di essere ammesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione: la collaborazione con la giustizia. Totò Riina aveva inserito tra le condizioni del famoso “Papello” della trattativa Stato-mafia proprio l’abrogazione dell’ergastolo ostativo. Curiosa combinazione: da cittadini è lecito avere il sospetto che in tutto questo possa nascondersi uno strascico della trattativa? Era certamente uno dei punti del “Papello” di richieste che Riina pretendeva dallo Stato per fermare la terribile stagione delle stragi. La conferma giudiziaria, in sede di testimonianza, proviene proprio dal suo luogotenente Giovanni Brusca. In merito all’esistenza di una trattativa tra Stato e mafie ritengo che i rapporti tra i due siano talmente evidenti a chi voglia individuarli che la sentenza di Palermo è solo una conferma processuale. Non parlerei inoltre di “trattativa” ma userei il plurale. Ci sono purtroppo poteri deviati legati a Roma, ai grandi affari, alle lobbies bancarie, ai poteri finanziari che fanno affari con le mafie, le usano e sono a loro volta usati. La trattativa s’interromperà quando avremo uno Stato che vorrà realmente combattere le mafie. Carceri: vaccinato un detenuto su cinque, contagi in calo di Marco Belli gnewsonline.it, 21 aprile 2021 Un detenuto ogni cinque presenti in carcere ha ricevuto la prima dose di vaccino. È stato infatti superato ieri il traguardo delle prime diecimila somministrazioni: il totale registrato dall’Anagrafe nazionale vaccini del Ministero della Salute ne conta 10.054 (+1.569 rispetto alla settimana scorsa) su una popolazione di 52.471 effettivamente presenti nei 190 istituti penitenziari italiani. Al 19 aprile, data dell’ultimo monitoraggio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, si registra un sensibile calo del numero di detenuti positivi al Covid-19, scesi a 655, con una diminuzione di 166 unità negli ultimi sette giorni. Solo 11 i sintomatici e 20 i ricoverati presso strutture ospedaliere. Anche fra la Polizia Penitenziaria prosegue la flessione dei contagi: sono 474 i positivi (99 in meno rispetto alla settimana scorsa), dei quali 459 presso il proprio domicilio e 12 ricoverati. Fra il personale appartenente alle Funzioni Centrali risultano invece 43 positivi, tutti in isolamento domiciliare. Continua a salire infine il numero del personale avviato alla vaccinazione: sono in totale 16.869 i poliziotti penitenziari (+871 in questa settimana) e 1.970 le unità di personale amministrativo e dirigenziale dell’Amministrazione Penitenziaria (+287). Vaccini per i carcerati. Ranieri (Simspe): “Manca un coordinamento nazionale” di Matilde Scuderi tuttieuropaventitrenta.eu, 21 aprile 2021 Lo scoppio della pandemia del marzo 2020 si è accompagnato ben presto ad un’altra deflagrazione: quella delle rivolte nelle carceri. Si è trattato di espressioni di un forte disagio dei detenuti, provocato certo dal paradosso di trovarsi in lockdown all’interno di un istituto penitenziario, ma anche (forse soprattutto) dalla paura: allora contro il virus non c’erano armi e il divampare di un focolaio in un carcere sovraffollato avrebbe potuto provocare conseguenze tragiche. La sanità penitenziaria ha governato la situazione magistralmente, attuando in un primo momento un rigido cordone sanitario che oggi, fortunatamente, si è allentato per lasciare spazio alla gestione della vaccinazione di detenuti e personale. Abbiamo raggiunto il dottor Roberto Ranieri, Infettivologo responsabile dell’Unità operativa di Sanità Penitenziaria della Regione Lombardia e membro di Simspe (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria), che ci ha aiutato a capire come è stata vissuta l’emergenza sanitaria e quali sono gli ambiti di intervento per il futuro. Dott. Ranieri, come ha inciso la pandemia sulla vita (visite, tempo libero, attività) dei carcerati italiani? Chiaramente nelle carceri si vive di base in una condizione di limitazione della libertà, quindi il Covid-19 ha avuto un impatto notevole. Bisogna tuttavia distinguere tra le diverse fasi dell’emergenza sanitaria. Durante la prima ondata il lockdown totale ha inciso in modo globale sulla vita dei detenuti: fino al 4 maggio 2020 sono state sospese le visite familiari e i colloqui nonché le attività di tipo ricreativo, come lo sport, e quelle educative, che comprendono attività scolastiche, corsi di formazione e attività lavorative in condizione di semilibertà o all’interno degli istituti. Nella seconda e terza ondata ci sono state soltanto interruzioni parziali delle varie attività, collegate a quanto decretato con i vari Dpcm e al sistema delle “zone” che ormai tutti conosciamo. In alcuni casi le attività sono state svolte in via telematica, per esempio le attività didattiche e i colloqui, che sono ripresi in forma di videochiamata. Per ovviare ai disagi di questo ulteriore isolamento è stato aumentato il numero delle telefonate e sono state ampliate le fasce orarie in cui è concesso riceverne, in alcuni casi fino a mezzanotte. Devo rilevare che molto spesso i detenuti hanno assunto comportamenti molto protettivi e responsabili, rifiutando per primi i colloqui con i familiari in presenza per paura di trasmettere loro il virus. Le misure di contenimento del virus si sono rivelate efficaci per la popolazione carceraria? Paradossalmente durante la prima ondata della pandemia, nel corso della quale sul territorio si è assistito veramente a un disastro soprattutto tutto qui al Nord, abbiamo avuto pochissimi casi proprio per le misure restrittive molto severe messe in campo. Il momento in cui abbiamo registrato più casi in Lombardia è stato all’inizio della seconda ondata, quando le restrizioni erano minori e il virus è entrato nelle carceri tramite il personale e i detenuti che accedevano all’esterno per attività lavorative. E nelle altre Regioni? In altre Regioni il picco dei contagi è stato raggiunto in momenti successivi. Purtroppo la scarsa condivisione dei dati impedisce di avere riferimenti più precisi, ma quel che è certo è che con il venir meno del lockdown totale i casi di Covid nelle carceri sono aumentati. Fortunatamente non ci sono stati molti casi gravi e i decessi sono stati pochissimi. Questo sia perché i pazienti sono stati presi in carico rapidamente sia perché in molte Regioni l’età media dei detenuti non è molto alta. Inoltre in Lombardia, grazie anche al grande sostegno dell’Amministrazione penitenziaria, siamo riusciti ad allestire a San Vittore e a Bollate due hub in grado di accogliere i detenuti positivi che non avessero necessità di ospedalizzazione. In questo modo abbiamo cercato di aggiungere pressione sul sistema sanitario regionale e abbiamo formato il personale penitenziario sul fronte dell’assistenza sanitaria. Attualmente qual è la situazione dei contagi? A causa della scarsa condivisione di informazioni tra Regioni non ci sono dati complessivi che diano conto degli andamenti epidemiologici o del numero di casi da inizio pandemia tra i detenuti in Italia. Noi emanavamo un report ma non è mai stato reso noto ufficialmente. Inoltre, il Ministero della Giustizia riferisce solamente il dato relativo ai casi giornalieri. Posso dirle che in Lombardia nei primi giorni di dicembre, quindi nel momento di picco dei casi, sono state registrate 442 persone positive tra detenuti mentre oggi arriviamo a 50. Per quanto riguarda il personale penitenziario, sempre in Lombardia, abbiamo invece il dato complessivo: su circa 5000 persone, ci sono stati 770 casi. Sicuramente è vistosa la mancanza di un coordinamento Nazionale nella raccolta dei dati relativi a contagi, tamponi effettuati e via dicendo. Su quali problematiche sanitarie preesistenti si è andata a innestare l’emergenza provocata dal coronavirus? Purtroppo su questo punto ci sarebbe da parlare per ore, ma mi limiterò a enumerare tre ambiti principali che, per altro, sono comuni a livello europeo: le problematiche psichiatriche e quelle relative al disagio psichico (spesso confuse tra loro quando in realtà andrebbero tenute distinte); la tossicodipendenza, spesso correlata al primo ambito al punto da non esserne distinguibile; infine la diffusione di patologie infettive, come la scabbia, l’epatite B e l’epatite C, quest’ultima oggetto di una campagna di eradicazione a livello nazionale. Aggiungo che, con mia grande soddisfazione, a Milano gli istituti penitenziari sono HCV free. Alla base di questi problemi c’è però la grande questione del sovraffollamento. In che modi e in che tempi avverrà la vaccinazione di detenuti e personale che lavora nelle carceri? Il personale sanitario generalmente è stato già vaccinato, perché legato alle Aziende sanitarie ospedaliere e territoriali. In molte Regioni anche gran parte del personale penitenziario ha ricevuto il vaccino. Per quanto riguarda i detenuti invece, anche in questo caso c’è da lamentare la mancanza di un coordinamento nazionale, situazione che ha portato a una vaccinazione a macchia di leopardo. In Lombardia abbiamo iniziato il 10 marzo e ci siamo mossi con rapidità, anche grazie alla sensibilità con cui sono state ascoltate le nostre istanze: ad oggi il 50 per cento dei detenuti ha ricevuto la prima dose e alcuni hanno già ricevuto la seconda. Altre Regioni non hanno ancora cominciato a vaccinare la popolazione carceraria, mentre altre ancora lo hanno fatto solo in alcune città, dove c’era disponibilità di vaccini. Il provveditore dell’amministrazione penitenziaria ed io siamo molto soddisfatti di quanto fatto in Lombardia, ma sarebbe stata necessaria un’azione di sistema, perché gli scambi tra istituti penitenziari, seppur diminuiti, non sono venuti completamente meno. Avete incontrato diffidenza nei confronti dei vaccini? Beh, di certo i continui cambi di direzione e le notizie allarmistiche che i detenuti ricevono dall’esterno non aiutano. Però alcuni istituti riescono a dialogare con loro in modo efficace, ad esempio a Bollate il 90% dei carcerati ha accettato di ricevere il vaccino. Vede, è vero che non si tratta di una popolazione “facile”, ma d’altro canto una volta che viene coinvolta si rivela estremamente aderente alle indicazioni sanitarie. Certo, è importante anche “educare” a prendersi cura della propria salute in modo partecipe e responsabile, usando materiali informativi in lingua straniera laddove servono. Noi a San Vittore abbiamo 75 etnie diverse, bisogna raggiungere tutti anche se si tratta di un’operazione che costa fatica. Cosa succede se un detenuto che ha ricevuto la prima dose di vaccino e viene rilasciato prima di ricevere la seconda? Abbiamo pensato a questa eventualità: è stata allestita una tensiostruttura davanti all’istituto di San Vittore dove chi è stato scarcerato potrà ricevere le seconde dosi. Ovviamente nel caso della popolazione carceraria (come nel caso di migranti o di altri gruppi di persone ad alta mobilità) il vaccino ideale sarebbe il monodose, ma staremo a vedere cosa avverrà. Malgrado tutte le perplessità che si possono avere sui vaccini anti-Covid, è un dato di fatto che i casi siano diminuiti da quando è cominciata la campagna vaccinale. Non è un caso. La crisi provocata dalla pandemia può costituire un’opportunità per apportare dei miglioramenti al sistema di gestione della salute nelle carceri? Assolutamente sì. Oltre quanto già detto in merito alla formazione sanitaria per il personale penitenziario e per i detenuti, sicuramente si dovrebbe continuare a investire sulla telemedicina. Inoltre occorre fare una nuova riflessione sul disagio psichico, rinnovando il più possibile gli interventi da attuare per rendere più efficace il supporto psicologico. Un altro aspetto che può essere migliorato alla luce dell’esperienza di questo anno di pandemia è lo screening delle malattie infettive. Il lungo periodo che abbiamo attraversato deve assolutamente farci cambiare rotta. Per crescere insieme di Marina Piccone L’Osservatore Romano, 21 aprile 2021 A distanza di 10 anni dalla promulgazione della legge 62/2011, in Italia di case protette per detenute madri ce ne sono solo due una a Roma e l’altra a Milano. Una villa bella ed elegante con un grande giardino intorno, pini altissimi e alberi di ulivo. Si tratta di una casa famiglia protetta per donne che devono scontare una pena e che hanno bambini piccoli. Si chiama La casa di Leda, in omaggio a Leda Colombini, una vita a favore dei diritti dei detenuti, soprattutto di quelli delle mamme con figli fino ai 3 anni, ospiti anche loro del carcere. È stata lei l’ispiratrice della legge 62/2011, che ha istituito strutture esterne di tipo familiare comunitario destinate sia all’espiazione di misure cautelari che di misure alternative, con l’obiettivo di assicurare un sereno e armonioso sviluppo a quei bambini i cui genitori hanno compiuto reati. Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al 31 dicembre 2020 le madri detenute in carcere o negli Icam (Istituti a custodia attenuata) erano 30 con 33 bambini. Di case protette, a distanza di 10 anni dalla promulgazione della legge, ce ne sono solo due, una a Roma e l’altra a Milano. La Casa di Leda, una struttura confiscata alla mafia, si trova all’Eur, un quartiere esclusivo della capitale, e ha avuto un inizio di percorso un po’ travagliato. I residenti del quartiere, infatti, “quelle delinquenti”, qui, proprio non ce le volevano. E così, quando si è sparsa la voce, hanno protestato in tutte le forme possibili: lettere ai giornali, interventi nelle commissioni consiliari del comune e nelle assemblee pubbliche del municipio e persino un ricorso al Tar. Una battaglia durata sei mesi condotta con una paziente operazione di mediazione dal responsabile della struttura, Lillo Di Mauro, che ha portato all’apertura delle porte nel marzo 2017, a fronte di una convenzione con il ministero della giustizia datata 2015. La Casa, gestita dalla cooperativa Cecilia in Ati con le associazioni Pronto Intervento Disagio e Ain Karim ha sei stanze con bagno in cui abitano 6 donne e 10 bambini, da pochi mesi di vita agli otto anni. “Si tratta di donne autrici di reati minori: traffico di droga, scippi, furti in appartamento, prostituzione, commessi per accrescere il benessere economico proprio e della propria famiglia o perché costrette dalla propria cultura sociale”, spiega Lillo Di Mauro, responsabile dell’Area giustizia della cooperativa Cecilia. “Il nostro servizio consente al bambino di vivere in un ambiente fisico e psichico adeguato alla sua crescita e alla madre di acquisire o rafforzare la capacità di gestire una relazione equilibrata con il figlio”. Per cui, scolarizzazione (i bambini vanno al nido o a scuola), tirocini formativi, sana alimentazione (il pane è fatto in casa dalle stesse ospiti, che si alternano nei lavori di casa). Ora, grazie a un bando del Dipartimento delle Politiche della Famiglia, l’Ati si è aggiudicata un finanziamento che le consente di intraprendere la seconda fase del progetto educativo, il raggiungimento di un’autonomia reale della donna dopo l’uscita dalla Casa, intervenendo sia sul territorio di provenienza, sia sui componenti della famiglia di origine. Il sostegno economico è la nota dolente di queste strutture per le quali la legge non ha previsto copertura finanziaria. “Per due anni abbiamo avuto un contributo da Poste italiane, ora ne abbiamo uno della Regione attraverso l’Ipab Asilo Savoia. Le utenze le paga il comune ma andiamo avanti con fatica”, continua Di Mauro. “Questa struttura comporta spese ingenti ed è necessario creare una rete di solidarietà nel quartiere per continuare a sopravvivere”. La fatica però viene ripagata dalle gratificazioni. Nell’ultimo periodo sono nati tre bambini. “È stato un Natale molto gioioso”, sorride Di Mauro, e ci sono i riscontri del lavoro svolto dagli operatori, tra cui due psicoterapeute e quattro educatori professionali. “C’è una donna in particolare che ha fatto un percorso straordinario. Di etnia rom, veniva picchiata dal marito. Così, il tribunale le ha concesso di espiare la pena nella casa protetta. Ha due bambine bellissime. Ora lavora come signora delle pulizie all’ospedale Sant’ Eugenio. Fra poco uscirà. Un po’ ci dispiace, ma continueremo a seguirla”. La Casa protetta di Milano, gestita dall’associazione Ciao, è situata all’interno della parrocchia Santi Quattro Evangelisti, in zona Ripamonti, a sud della città. La convenzione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e il Comune di Milano è del 2016 ma già dal 2010 la Casa ha cominciato a ospitare le prime mamme. Attualmente, ci sono cinque donne e cinque bambini, dai 4 ai 10 anni. Sono per lo più straniere, vengono da Perú, Santo Domingo, Marocco, Romania, Filippine, Lituania, Nigeria. “Una buona fetta di mondo” commenta il direttore Andrea Tollis. “Hanno storie molto difficili alle spalle, sono autrici di reati ma anche vittime di violenza, alcune sono totalmente analfabeti. Hanno una fragilità enorme ma una capacità straordinaria di resistere alle avversità”. Il personale è composto da specialisti, come criminologi, psicoterapeuti, psicologi, oltre che da educatori professionali. “Con le ospiti costruiamo un progetto che mira a un loro reinserimento nella società. Le aiutiamo a prendere coscienza di se stesse. Non è facile. Pensiamo a quelle di etnia rom, maturano la convinzione di non poter più rientrare nel loro ambiente ma staccarsi è estremamente difficile. La cura dei figli è importante, ha qualcosa di terapeutico per loro, le aiuta a responsabilizzarsi, a rispettare gli orari; è uno strumento forte per guardare avanti”. La casa dispone di tre appartamenti in ognuno dei quali vivono due mamme con i propri figli. Oltre a gestire autonomamente il loro appartamento, le ospiti sono coinvolte nella manutenzione ordinaria dell’intera Casa. “Ci tengono a che sia tenuta bene, lo considerano il loro nido, e sono loro stesse a sollecitare gli interventi anche perché qui passano un periodo lungo, una media di un anno e mezzo”, spiega Tollis. Sul territorio, l’associazione dispone di altri appartamenti dove le donne sono accompagnate nel percorso di autonomia. “È fondamentale che fuori ci sia una comunità che accoglie e non discrimina. Le signore vanno a fare la spesa al supermercato o a prendere un caffè al bar e tutti sanno chi sono. Ora faremo laboratori aperti alla cittadinanza per abbattere le barriere culturali. Inoltre accogliamo lavoratori di pubblica utilità, volontari, tirocinanti, studenti e persone in messa alla prova”. Si creano forti legami di affetto. Soprattutto con i bambini. “Li vedi crescere e vederli andar via, alla fine del percorso, non è facile. Le figure maschili sono poche e così succede che si attacchino molto a me che sono l’unico uomo. Hanno bisogno della figura paterna. Per questo, quando è possibile, il magistrato dispone l’incontro con il padre detenuto nella casa invece che nel carcere”. Anche i due figli di Andrea Tollis e della moglie, Elisabetta Fontana, presidente dell’associazione, partecipano alla vita comunitaria e fanno amicizia con i bambini della Casa. Il più piccolo, in particolare, aveva legato con un bimbo peruviano. Quando il ragazzino è tornato nel suo Paese gli ha scritto un biglietto “Mi mancherai tanto”. Anche la struttura di Milano, come quella di Roma, va avanti grazie all’impegno dell’associazione che la gestisce, sempre alla ricerca di fondi da parte di fondazioni o di contributi statali. Ora, però, le cose dovrebbero cambiare. L’ultima Legge di Bilancio ha istituito un fondo di 1,5 milioni di euro per ciascuno degli anni del triennio 2021-2023 da destinare alle case famiglia protette. Questo consentirebbe di far uscire dal carcere tutti i bambini detenuti e di consentire loro la crescita in un luogo dove non ci sono né sbarre né lucchetti. Basta ritardi e ambiguità: la riforma della giustizia non può più aspettare di Bernardino Tuccillo Il Riformista, 21 aprile 2021 Caro Riformista, è una novità clamorosa che persino il pm d’assalto Henry John Woodcock si sia schierato per la separazione delle carriere tra pm e giudici e per sottrarre le nomine ai vertici degli uffici giudiziari alla discrezionalità di un Csm dilaniato dalla lotta tra correnti politicizzate, puntando dunque su merito e sorteggi. Credo che tutto l’arco delle forze davvero riformiste dovrebbero fare dell’iniziativa per una seria ed efficace riforma della giustizia il cuore della propria agenda programmatica. Per 35 anni le posizioni di parte significativa della sinistra si sono identificate con un rigetto delle iniziative prima di Craxi e poi di Berlusconi sul tema, che si riteneva, per il secondo con qualche ragione, fossero più interessate a mettere a mettere la mordacchia all’iniziativa “autonoma” e all’indipendenza della magistratura che a realizzare una compiuta riforma di sistema. Credo abbia ragione il direttore Piero Sansonetti: “La sinistra nasce garantista, non giustizialista e forcaiola, si è sempre battuta per estendere e consolidare i diritti, anche quelli individuali, e mai per comprimerli”. È un’anomalia tutta italiana che posizioni da “Santa Inquisizione” abbiano rappresentato uno dei tratti identitari delle forze cosiddette progressiste che hanno prodotto, di recente, lo sconfortante risultato di una riforma illiberale della prescrizione dei processi (su cui è auspicabile che il nuovo governo voglia intervenire). Mi sentirei più sicuro in un Paese dove due magistrati non convengono sul fatto che “Salvini forse ha ragione, ma bisogna colpirlo” come emerge dal libro-intervista di Luca Palamara, anche se censuro politicamente le scelte dell’ex ministro degli Interni. Vorrei vivere in una città dove i procedimenti aperti sul primo cittadino non siano esaminati da suoi ex colleghi che magari hanno preparato il suo stesso concorso e con i quali ci sono, probabilmente, rapporti di cordialità e sintonia che culminano nella partecipazione a iniziative comuni come presentazioni di libri e altro. È pretendere troppo che i magistrati che conducono le indagini siano da reclutare con un concorso diverso dai giudici che su quelle indagini devono pronunciarsi? È eversivo pretendere che accusa e difesa siano posti su un piano di assoluto equilibrio e pari dignità? Perché i magistrati, in caso di evidenti errori giudiziari commessi per colpa grave o negligenza, non dovrebbero rispondere in prima persona, così come avviene per tutte le altre categorie (medici, avvocati, ingegneri, amministratori pubblici), e al loro posto devono essere chiamati lo Stato e l’Erario pubblico a risarcire il danno procurato per una ingiusta detenzione, per esempio? Non siamo al cospetto di un privilegio castale medievale e intollerabile? Perché non pretendere che le nomine al vertice degli uffici giudiziari siano svincolate da logiche correntizie e quindi politiche? E che i procuratori rispondano esclusivamente alla propria coscienza e professionalità e siano ispirati solo dal dovere di assicurare legalità e giustizia? Le forze democratiche e di progresso hanno il dovere di impegnarsi per una Giustizia davvero equa e giusta, che rappresenti uno dei cardini della nostra democrazia, incentrata sulla separazione dei poteri, che non solo sia ma che appaia anche libera e indipendente, che si dimostri all’altezza dei compiti fondamentali che la nostra Costituzione le ha assegnato. Si tratta di un tema cruciale per il futuro del nostro Paese. Ambiguità, mediazioni al ribasso e ritardi non appaiono più ammissibili. “Si dica addio alla prescrizione di Bonafede”, Costa torna a brandire gli emendamenti-siluro di Errico Novi Il Dubbio, 21 aprile 2021 A tre giorni dal termine per presentare modifiche al ddl penale, il responsabile giustizia di Azione avverte gli alleati di governo che sulla norma cara ai 5 stelle non accetterà “soluzioni pasticciate”. Invece Leu interviene con proposte che non eliminano l’ipotesi del processo eterno per i condannati in primo grado. Sta per riaccendersi il solito incendio. Ci risiamo. “Basta passi indietro sull’addio alla prescrizione di Bonafede”, dice Enrico Costa. Lo fa il giorno in cui si infittiscono le voci su una “linea moderata” di altre forze governative, come Leu, rispetto alla norma cara ai 5 stelle. Il responsabile Giustizia di Azione ed ex viceministro a via Arenula annuncia di voler presentare propri emendamenti entro venerdì. Alle 17 di quel giorno scade, in commissione Giustizia alla Camera, il termine per depositare proposte di modifica alla riforma del processo penale. È il momento della verità. Come riportato da Domani, uno dei protagonisti del confronto, Federico Conte di Leu, ha pronto un nuovo schema che prevede la decadenza dell’azione penale, la cosiddetta prescrizione di fase, solo in quei giudizi d’appello successivi a un’assoluzione in primo grado. Qualora invece in primo grado ci sia una condanna, il parlamentare di Leu, avvocato penalista come Costa, lascerebbe in sostanza inalterato lo schema del lodo Conte bis, che prende il suo nome: in quel caso la prescrizione resterebbe abolita come previsto dalla famigerata norma Bonafede. La sola mitigazione consisterebbe in 45 giorni di sconto, sulla pena eventualmente inflitta, per ogni 6 mesi di sforamento rispetto alla durata massima prevista (ma solo in via “ordinatoria”) nel ddl penale per il secondo grado, che è di due anni. Ipotesi sulla quale, va ricordato, lo stesso ex guardasigilli del M5S si era detto disponibile a discutere. Il timore di Costa è che almeno in prima battuta il Pd converga sulla “attenuazione minima” già delineata da Conte. “Appena si è insediato il governo Draghi”, riepiloga il responsabile Giustizia di Azione, “abbiamo responsabilmente ritirato gli emendamenti sulla prescrizione al decreto Milleproroghe. Abbiamo anche digerito la scelta di mantenere il ddl Bonafede di riforma del processo penale come testo base sul quale presentare gli emendamenti. Stiamo prendendo atto, pur senza condividerlo, del fatto che il governo non ha intenzione di sgombrare il campo dallo stop alla prescrizione prima dell’esame del ddl penale. Tre passi indietro che”, avverte Costa, “si giustificano solo se all’orizzonte se ne intravede uno avanti significativo, decisivo, chiaro e non pasticciato. Esattamente come gli emendamenti che depositeremo venerdì. Ora la maggioranza è a un bivio”, conclude il deputato. A dire il vero, che le modifiche alla norma Bonafede sarebbero arrivate solo all’interno della riforma penale era diventato pacifico già quando, pochi giorni dopo il giuramento da ministra, Marta Cartabia aveva promosso l’ordine del giorno sulla ragionevole durata del processo. Così sarà, dunque. Nel giuro di poche ore, dagli emendamenti si comprenderà meglio l’orizzonte entro cui intende muoversi ciascun partito, compreso il Pd. Dopodiché anche passato venerdì, avranno tempo per proporre ulteriori modifiche sia la guardasigilli sia i relatori della riforma. Uno dei quali è Franco Vazio, vicepresidente dem della commissione Giustizia. La partita insomma è ancora tutta da giocare. La Cartabia prospetta una mediazione sulla prescrizione di Valerio Valentini Il Foglio, 21 aprile 2021 Bonafede tentenna, il Pd sbuffa. Quando i dispacci diramati da Via Arenula hanno preso a circolare, prospettando una soluzione preventiva che evitasse l’inasprirsi delle ostilità, Alfonso Bonafede c’ha provato, a tenere a prendere tempo. “Fatemi confrontare coi miei, sapete che per noi il tema è delicato”, ha fatto sapere l’ex Guardasigilli ai collaboratori di quella Marta Cartabia che lo ha succeduto al ministero della Giustizia. E che, tramite la sua commissione di esperti, una mediazione su come superare la prescrizione, puntando sulla certezza delle fasi processuali, l’ha trovata. Il tutto, ovviamente, prima che sul dibattito riservato tra i partiti irrompesse il frastuono del video di Beppe Grillo. Che è, certo, una questione privata. Ma visti i toni utilizzati dal comico genovese, la sua scombiccherata arringa in difesa del figlio Ciro accusato di stupro in nome della tutela degli indagati, ha messo ancor più in imbarazzo i parlamentari del M5S È un po’ l’effetto Ciro sulla prescrizione, insomma. Un inciampo comunicativo che stronca buona parte della combattività dei deputati grillini, che già si preparano all’assedio in commissione Giustizia alla Camera, dove entro venerdì verranno depositati gli emendamenti al disegno di legge sulla riforma del processo penale. “Alla luce della sopraggiunta sensibilità garantista di Grillo qualsiasi arroccamento del M5s sulle vecchie posizioni giustizialiste risulterebbe davvero poco sostenibile”, spiega il deputato dem Carmelo Miceli uscendo dalla riunione convocata da Anna Rossomando, responsabile nazionale Giustizia per il Nazareno, che ha indicato ai colleghi l’opportunità imperdibile di varare una riforma organica del processo penale, “tenendo fermo l’obiettivo assoluto della ragionevole durata”. E certo, tutti dal Pd sperano anche che né i calendiani di Azione, né Italia viva, procedano per provocazioni. “Perché questo porterebbe i grillini a irrigidirsi di nuovo”, prosegue Miceli. E in effetti loro, i grillini, sono già in trincea. “Io da presidente della commissione Giustizia vorrei mantenere una certa neutralità”, mette le mani avanti Mario Perantoni, che poi però subito, da Cinque Stelle tutto d’un pezzo, non può che suonare la sua campana: “Mi limito a ricordare che il M5s, entrando in questo governo, ha ribadito la condizione che su certe battaglie non si sarebbe tornati indietro”. Ma è evidente che se perfino il Pd vede prossima l’opportunità di una svolta, figurarsi cosa avviene dalle parti di Forza Italia. “Noi non possiamo che accogliere con gioia Grillo nella grande famiglia dei garantisti”, se la ride l’azzurro Pierantonio Zanettin. “Ed è per questo - aggiunge - che ci aspettiamo una mediazione di alto livello dalla ministra”. Perché poi, al di là delle dissimulazioni di prammatica, sono tutti consapevoli che la soluzione verrà da lì, da Via Arenula. E anzi Bonafede, proprio per difendere la riforma che porta il suo nome, nelle scorse settimane aveva provato a dettare la linea della fermezza: “Dobbiamo convincere gli altri partiti a rimandare la presentazione degli emendamenti finché non arriveranno quelli del governo”, aveva catechizzato i suoi. Tentativo fallito, perché il renziano Catello Vitiello, fiutando l’inghippo, s’era messo di traverso. E dunque da venerdì inizia la baruffa, a Montecitorio, ma con la sottaciuta consapevolezza che la mediazione necessaria sarà poi la Cartabia, a indicarla. E il gruppo di lavoro che la ministra ha creato a metà marzo, presieduto dal presidente emerito della Consulta Giorgio Lattanzi, una via l’ha già indicata ai responsabili dei vari partiti. È quella che porterebbe al mantenimento della sospensione della prescrizione dopo il primo grado, salvaguardando così l’onore grillino, ma definendo poi dei tempi fissi per l’Appello e la Cassazione oltre i quali si procederebbe a una progressiva riduzione della condanna. È un po’ il sistema in vigore anche in altri paesi europei, come la Spagna e la Germania, ed è valido a scongiurare il rischio del processo infinito. “Ma è anche la soluzione minima”, mugugnano in Forza Italia. Anche Enrico Costa, deputato di Azione e in guerra permanente col M5s, si tiene le mani libere: “Noi presenteremo emendamenti di tutti i generi pur di cancellare lo stop alla prescrizione”. E insomma pare farsi largo l’ipotesi di un intervento più drastico, pure questo vagliato dal comitato di giuristi a servizio della Cartabia, che introduca cioè l’improcedibilità dell’azione penale o l’ineseguibilità della sentenza oltre la scadenza dei termini fissati per il secondo grado. Ma così, forse, lo smacco al M5s sarebbe eccessivo. Anche dopo il video di Grillo. Coraggio: “Doveroso l’intervento della Consulta a tutela dei nuovi diritti” di Davide Varì Il Dubbio, 21 aprile 2021 L’intervista al presidente della Corte Costituzionale, Giancarlo Coraggio, contenuta nell’Annuario 2020 della Consulta: un’iniziativa editoriale, sul modello di altre Corti nel mondo, per raccontare l’anno appena trascorso con mezzi e metodi propri del resoconto contemporaneo. Presidente, il 2020 è stato l’anno della pandemia. L’emergenza vi ha costretto a rivedere l’organizzazione del lavoro per garantire la continuità della giustizia costituzionale. Dal mese di aprile le udienze pubbliche sono state celebrate anche con collegamenti da remoto, sia di giudici che di avvocati, ed è stata introdotta la firma digitale delle sentenze. I numeri dicono che a fine anno la pendenza si è ridotta e la durata del processo è scesa sotto i 9 mesi, la più bassa dal 2016. Insomma, un quadro con più chiari che scuri. È così? In effetti, gli obblighi e i limiti imposti dalla pandemia non hanno inciso negativamente sulla “produttività” della Corte, tanto che è diminuito il numero delle cause pendenti. Grazie all’impegno del Segretariato generale e di tutto il personale, è stato possibile effettuare le udienze pubbliche e le camere di consiglio anche da remoto e va sottolineata la disponibilità dei colleghi e del Foro, che si sono rapidamente adattati all’uso di queste tecnologie, pur consapevoli che l’impossibilità di un rapporto diretto e personale - “guardarsi in faccia” - è stato un sacrificio di non poco conto. Non posso non aggiungere, tuttavia, che tutto ciò è stato reso possibile dalla situazione indubbiamente privilegiata della Corte costituzionale rispetto agli altri uffici giudiziari, sia per il numero più limitato dei giudizi sia per le disponibilità finanziarie e strumentali. Come negli anni precedenti, l’attenzione alla società civile è rimasta viva. Nel 2020, il processo ha aperto le porte alle “voci di fuori” con una delibera di gennaio, quella sugli amici curiae e sugli esperti in alcune discipline. Dopo un anno, quale riflessione si sente di fare su questa nuova esperienza, che allinea la Corte ad altri Paesi? Un bilancio indubbiamente positivo. Quanto agli amici curiae, l’istituto, anche se estraneo alla nostra tradizione giudiziaria, si è innestato senza particolari difficoltà in un processo, quale quello costituzionale, dalle caratteristiche affatto speciali per il suo oggetto e per la generalità della sua efficacia. L’ attenta gestione del nuovo istituto da parte della Corte - su 64 richieste ne abbiamo accolte 28, relative a 12 cause su un totale di 326 - ha permesso di arricchire il dibattito processuale, sia pure con l’apporto solo scritto degli amici curiae, senza un eccessivo appesantimento del processo. Importante si è rivelato anche il contributo di esperti in alcuni giudizi - nel 2020 quello sulle Poer delle Agenzie fiscali - nei quali è opportuno approfondire specifici profili tecnici. Questa maggiore partecipazione della società civile nel processo - che ha ricevuto il plauso dell’Europa nel Report sullo stato della giustizia dei Paesi membri - ha prodotto effetti ampiamenti positivi. Nel 2020 è continuato il trend in aumento delle sentenze rispetto alle ordinanze e la tendenza della Corte a entrare nel merito delle questioni, superando gli ostacoli di ammissibilità. Così come avete continuato a colmare vuoti di tutela costituzionale anche là dove “la rima non era obbligata”, come si dice quando non c’è una sola soluzione per riempire il vuoto lasciato da una dichiarazione di incostituzionalità. Due direzioni ormai consolidate? Quanto alla prima questione, in generale è vero che, a prescindere dalla forma del provvedimento - sentenza ovvero ordinanza - è continuato il trend di riduzione delle pronunce di inammissibilità e ciò vuoi per la migliore formulazione delle ordinanze di rimessione e dei ricorsi vuoi per la maggiore propensione della Corte ad arrivare all’esame del merito. Personalmente, ritengo tutto ciò estremamente apprezzabile, perché ho sempre pensato, nel lungo esercizio della mia attività giudiziaria, che le pronunce di inammissibilità, quale ne sia la causa, costituiscano una sconfitta per la giustizia. Quanto alla seconda questione? Tocca un punto delicato della funzione e del ruolo della Corte, quello cioè dei rapporti con il Legislatore. Nel complesso, l’atteggiamento di self restraint della Corte, implicito nella formula “a rime obbligate”, è ispirato alla volontà di non sostituire le proprie valutazioni a quelle del Parlamento, là dove la pronuncia di accoglimento richiederebbe di scegliere fra una pluralità di soluzioni. Nel tempo, la modifica del contesto in cui la giustizia costituzionale si è trovata ad operare, l’emergere con forza di nuovi diritti fondamentali privi di tutela e l’esigenza sempre più avvertita di garantirli, hanno reso indispensabile e doveroso l’intervento della Corte, anche quando esso presuppone l’esercizio di discrezionalità. Tuttavia, siamo stati molto attenti a entrare in punta di piedi nel quadro legislativo, sforzandoci di trovare in quello stesso quadro i riferimenti necessari. Come caso guida, in questo senso, può essere ricordata la sentenza Cartabia n. 40 del 2019 con cui la sanzione penale in materia di stupefacenti è stata rideterminata ispirandosi a sanzioni già previste nell’ordinamento sulla stessa materia. Questa strada, peraltro, è stata poi seguita in altre pronunce del 2020. Se dovesse fare un bilancio sulla “leale collaborazione” tra la Corte e il Legislatore, il saldo sarebbe positivo o negativo? È un fatto che i numerosi moniti con cui la Corte ha chiesto al legislatore di intervenire sono aumentati e sono in gran parte rimasti inevasi. Un esempio virtuoso di leale collaborazione si è avuto però con il ricalcolo dell’assegno spettante agli invalidi civili totali: subito dopo la decisione che ne ha stabilito l’insufficienza a garantire “il minimo vitale”, il legislatore è intervenuto per adeguare l’ammontare della pensione. Naturalmente, mi rendo conto che, specie nell’attuale situazione politica, il Parlamento si trova di fronte a impegni non meno delicati e rilevanti. Tuttavia, la Corte non finirà mai di sottolineare la necessità di un migliore raccordo tra le due Istituzioni. È in questo contesto di difficoltà di attuazione delle nostre decisioni che si spiega la novità introdotta nel 2019, sul caso dell’aiuto al suicidio. In quell’occasione, com’è noto, la Corte non si è limitata a un semplice monito ma, sul presupposto dell’incostituzionalità della disciplina vigente, ha posto al Legislatore un termine entro cui doveva intervenire, fissando al contempo una nuova udienza nella quale, in mancanza dell’intervento legislativo, avrebbe provveduto direttamente (ordinanza n. 207/2018). Ciò che poi è in concreto avvenuto a seguito del perdurante silenzio del Parlamento. La stessa eccezionale procedura è stata seguita nel 2020 a proposito della sanzione detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa, sanzione ritenuta incompatibile con la nostra Costituzione e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ordinanza n. 37 del 2020). Il termine concesso al Legislatore è tuttora pendente (scade il 22 giugno 2021) e sarebbe augurabile che il Parlamento manifestasse una maggiore sensibilità per una questione che tocca uno dei fondamentali della democrazia. L’apertura all’esterno, durante la pandemia, è stata declinata anche con i Podcast. Nel 2020 è nata La Libreria dei Podcast della Corte costituzionale per continuare a promuovere la cultura costituzionale. Siete l’unica Istituzione che ha usato questo nuovo strumento di comunicazione, anche nell’attività istituzionale, per esempio in occasione della Relazione annuale. Ma il 2020 è stato anche l’anno dell’App, del nuovo sito, della nascita di un profilo Twitter della Corte. Tutto ciò rafforza l’immagine di un’Istituzione aperta e moderna. È realmente così? Senza dubbio. È un nuovo modo di intendere i rapporti tra la società civile e le Istituzioni. L’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione messi a disposizione dalle moderne tecnologie ha permesso un’apertura in altri tempi impensabile, e debbo dire che il riscontro è stato estremamente positivo poiché i cittadini hanno dimostrato un reale e crescente interesse. In particolare, i giovani e le donne sono tra i più assidui frequentatori dei nostri canali social, preziosi strumenti per veicolare informazioni sulla Costituzione e sull’attività della Corte in modo più moderno ed efficace. Nel 2020 è stato messo in cantiere un nuovo ciclo di podcast, gli INCONTRI con esponenti del mondo della cultura. Dopo gli studenti, i detenuti, la cittadinanza, continua l’interlocuzione con il mondo “fuori”. Come valuta questa nuova iniziativa? In modo estremamente positivo. Il dialogo che si è così instaurato su temi di grande rilevanza - dai sistemi elettorali all’informazione, dall’università alla famiglia, dall’ambiente alla scienza, dalla letteratura all’arte - oltre a rafforzare l’apertura della Corte alla società civile, ha costituito un oggettivo, reale arricchimento per noi giudici, come ho potuto constatare dai commenti dei colleghi che con entusiasmo hanno partecipato, e partecipano, al progetto. In generale, ho sempre ritenuto che l’autoreferenzialità sia un pericolo per tutti i giudici e sono sempre più convinto che l’apertura alla realtà, sociale, economica e culturale, sia assolutamente indispensabile per un’Istituzione come la Corte, le cui decisioni, su questa realtà, sono destinate ad incidere. Liguria. Rossetti (Pd): “Misure urgenti a favore dei malati psichiatrici in carcere” lavocedigenova.it, 21 aprile 2021 “Oggi è stato approvato all’unanimità un ordine del giorno di cui sono stato proponente, firmato da tutti i gruppi consiliari, che ha fatto seguito ad una campagna di raccolta adesioni lanciata dal Partito Radicale Non Violento Transnazionale Transpartito, in merito al problema dei malati psichici nelle carceri italiane, un problema profondo che necessita di interventi urgenti nel segno della legalità costituzionale e del rispetto dei diritti umani”. Lo ha dichiarato in una nota Pippo Rossetti, Consigliere Regionale PD. “L’Appello è stato sottoscritto da molte personalità del mondo della politica di diversi schieramenti, dello spettacolo, della scienza, del giornalismo e della cultura oltre che da centinaia di cittadini. L’appello del Partito Radicale dice che “nei 109 istituti di pena italiani il 78% dei ristretti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui per il 41% da una patologia psichiatrica e i dati ci dicono che i detenuti con dipendenze da sostanze psicoattive rappresentano il 23,6%, con disturbi nevrotici il 18%, il 6% con disturbi legati all’abuso di alcol e il 2,7% con disturbi affettivi. Considerato che dall’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone del 2020 risulta che, nei 98 istituti visitati, il 27% dei detenuti è in terapia psichiatrica (Spoleto il 97%, a Lucca il 90%, a Vercelli l’86%) e il 14% dei detenuti è in trattamento per dipendenze”. “La normativa italiana è ferma a quanto prescritto dal Codice Rocco del regime fascista, risalente a ben 91 anni fa, le norme relative alla imputabilità, alla pericolosità sociale, sono del 1930 e sono ancora in vigore, nonostante siano profondamente mutate le conoscenze scientifiche in ambito psichiatrico ed inoltre, esistono due provvedimenti cautelari della Cedu in materia di diritti dei detenuti e soggetti vulnerabili relative al caso di due pazienti psichiatrici detenuti in carcere che hanno disposto che il Governo italiano provveda al loro immediato trasferimento presso una struttura idonea ad assicurare un trattamento medico-sanitario adeguato alle loro condizioni di salute. Da oggi il Presidente e la Giunta si sono impegnati a farsi parte attiva presso il Ministro alla Salute alla Giustizia affinché il Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Grazia e Giustizia) metta a disposizione i dati necessari nei portali istituzionali atti a completare la fotografia reale della situazione della patologia psichica in carcere, e che si adottino con la massima urgenza misure per il trasferimento dei malati psichici in strutture e servizi territoriali/residenziali curativi alternativi al regime detentivo”. Piemonte. “Il ruolo del carcere nei percorsi trattamentali di sex-offenders e maltrattanti” atnews.it, 21 aprile 2021 Il seminario organizzato dal Garante regionale delle persone detenute. “Tempo perso? Il ruolo del carcere nei percorsi trattamentali di sex-offenders e maltrattanti” è il titolo del seminario on line organizzato dal garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano che si svolgerà giovedì 22 aprile dalle 17. “Le cosiddette ‘sezioni protettè nelle carceri italiane - ha dichiarato Mellano, illustrando l’iniziativa - definiscono target di detenuti che risultano meritevoli di particolare attenzione in termini di sicurezza o di trattamento: il caso degli autori di reato sessuale interroga in modo eclatante le amministrazioni coinvolte e la società civile sul senso della pena e sul costo della recidiva. Una pena che non sia utile ed efficace, infatti, rischia di essere tempo perso”. Moderati da Mellano, interverranno la responsabile dell’Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato dell’Amministrazione regionale penitenziaria Catia Taraschi, l’assistente sociale ed esperta presso l’Ufficio del garante dei detenuti della Campania Dea Damian Pisano, la coordinatrice della formazione e dei progetti speciali del Dipartimento di Salute mentale dell’Asl Roma 1 e presidente del Centro italiano di promozione della mediazione (Cipm) di Milano Adele Di Stefano e la vicepresidente dell’Ordine degli psicologi del Piemonte e docente del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino Giorgia Zara. Le conclusioni sono affidate al portavoce dei Garanti territoriali Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio e dell’Umbria e docente del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Perugia. I cittadini possono richiedere il link per partecipare all’evento all’indirizzo mail garante.detenuti@cr.piemonte.it Avelino. Mafia foggiana, si è ucciso in carcere l’uomo del boss Moretti quotidiano.net, 21 aprile 2021 Trovato impiccato Domenico Valentini. L’uomo, 50 anni, fu arrestato per estorsioni nel 2017 e poi coinvolto in “Decimabis” nel novembre del 2020. Si è impiccato Domenico Valentini, 50enne foggiano detenuto nel carcere di Avellino. “Mentre i compagni di cella dormivano ha posto in atto il suo insano gesto impiccandosi al termosifone della stanza”. Lo riporta il sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria (Sappe). Valentini non è un nome qualsiasi, nel 2017 fu arrestato insieme al boss Rocco Moretti detto “il porco” per estorsioni. La vittima del racket fu taglieggiata per essersi rifiutata di ritirarsi dall’acquisto di terreni comunali a Borgo Incoronata e per non aver versato, in sostituzione della prima richiesta, la somma di 200mila euro. In appello i giudici inflissero 4 anni e 8 mesi a Moretti, 2 anni e 8 mesi a Valentini. Quest’ultimo era tornato in liberà, ma venne arrestato nuovamente lo scorso novembre nel maxi blitz “Decimabis” contro la mafia foggiana. Secondo gli inquirenti continuava ad occuparsi di estorsioni ed era a libro paga dei boss intascando uno stipendio mensile di 750 euro. Perché si è ucciso resta un mistero. Padova. Il neo-Garante dei detenuti: “Certe polemiche mi hanno lasciato sconcertato” di Alberto Rodighiero Il Gazzettino, 21 aprile 2021 “Sinceramente certe polemiche mi hanno lasciato sconcertato”. Antonio Bincoletto, professore di Lettere in pensione del liceo Marchesi non nasconde il suo stupore per le accesissime polemiche che hanno accompagnato la sua designazione a Garante dei detenuti. Una tensione che ha costretto il presidente del consiglio comunale Giovanni Tagliavini a convocare, nonostante il Covid 19, per bene tre volte il parlamentino di palazzo Moroni. Oltre al centrodestra, ad accusarlo di non essere equidistante rispetto alle associazioni che si occupano di detenuti e la direzione carceraria, è stato anche il consigliere della lista Giordani Luigi Tarzia. Lo stesso Tarzia che ha portato avanti, in nome della parità di genere, la candidatura di Maria Pia Piva. “Come prima cosa, mi dispiace che proprio per l’opposizione di un consigliere di maggioranza, la nomina del garante sia slittata di oltre un mese - ha esordito Bincoletto - Detto questo, mi rammarica che la mia nomina sia stata oggetto di una battaglia politica. Uno dei motivi che mi hanno spinto ad accettare la candidatura era proprio il fatto che non aveva una valenza politica. Evidentemente ho fatto male i conti”. “La questione dell’equidistanza, poi, non sta in piedi -ha continuato - È vero, in passato ho collaborato con associazioni di cui ho la massima stima penso, per esempio, a Ristretti orizzonti. Realtà di cui, però, non ho mai fatto parte. Di conseguenza sostenere che la mia figura sarebbe tutta sbilanciata in favore delle associazioni, non ha alcun senso. Per quel che riguarda la direzione carceraria, ho avuto modo di conoscere il vecchio direttore, il nuovo per esempio, non l’ho mai visto. In tutti i casi, il mio obiettivo è quello di collaborare con tutti nel massimo rispetto. Mi è dispiaciuto, poi, che la mia candidatura abbia sollevato polemiche sulla presunta violazione della parità di genere. Sinceramente certe dinamiche faccio fatica a comprenderle”. Polemiche a parte, il neo garante si è già messo al lavoro. “Ho parlato con le assessore Nalin e Benciolini - ha concluso. Prenderò contatti anche con gli altri Garanti, a cominciare dal quello regionale e, poi, naturalmente con tutte le realtà che si occupano di detenuti. Chiaramente la prima emergenza che va affrontata è quella epidemiologica. Mi risulta che all’interno dei Due Palazzi sia presente un focolaio di Covid 19, di conseguenza è assolutamente necessario intervenire per tutelare la salute di tutti e perché la situazione non si aggravi ulteriormente. Ribadisco che la mia intenzione è solo quella di lavorare nell’interesse delle persone detenute e in collaborazione con tutte quelle realtà che sono a stretto contatto con il mondo carcerario”. Napoli. Cura degli animali e murales, così a Secondigliano si sconta la pena di Viviana Lanza Il Riformista, 21 aprile 2021 Dai fatti di cronaca più tristi e più crudi al percorso di rieducazione all’interno del carcere affinché la pena serva a rivedere il proprio comportamento e rivedersi come persona. L’occasione è stata un progetto realizzato con la collaborazione del Comune e della Fondazione Cave Canem che, assieme a La casa di Argo, si occupa di animali maltrattati e abbandonati. I protagonisti sono stati sette detenuti di Secondigliano. Per diversi giorni hanno lavorato per il canile a pochi metri dal carcere, hanno dipinto e decorato gli oltre 100 metri del muro perimetrale e partecipato ad attività di formazione con operatori cinofili. Quei pochi chilometri di strada percorsi da una struttura all’altra sono stati per i sette detenuti una tappa del percorso per l’espiazione della pena, il percorso dalla cella a “fuori dalle gabbie” per dirla con le parole che danno il titolo a un video e a un testo rap scritto da Aniello Mormile e Gianluca Foti, entrambi finiti in carcere per fatti ben noti alle cronache cittadine. Con loro hanno partecipato al progetto i detenuti Gennaro Zampini, Ndreraij Everton, Giovanni Riccio, Diaw Libasse, Maurizio Lamia. “Sono molto grato alla direttrice del carcere Giulia Russo e a tutto il personale dell’area educativa, oltre che ai magistrati di sorveglianza e alla presidente Angelica Di Giovanni - ha commentato il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello - È anche grazie a loro se il progetto Buone prassi di misure alternative al carcere di svolgersi con successo”. Massa Marittima (Gr). Reinserimento lavorativo dei detenuti con il progetto “Orti in carcere” ilgiunco.net, 21 aprile 2021 È iniziata due settimane fa la prima fase del progetto regionale “Orti in carcere”, grazie al quale alcuni detenuti della Casa Circondariale di Massa Marittima avranno l’opportunità di ricevere una formazione non solo teorica sull’attività agricola, in modo da prepararsi per un futuro inserimento lavorativo in un settore cruciale nel territorio circostante. La parte operativa del programma è coordinata dall’agronoma Manuela Nelli con la collaborazione della Cooperativa sociale “Melograno” e già nella scorsa settimana sono stati realizzati vari interventi per la sistemazione delle aree verdi del carcere e la predisposizione di quanto servirà alla prosecuzione del progetto. “Abbiamo iniziato a ripristinare le aree verdi interne al cortile del carcere - spiega il presidente della cooperativa Massimo Iacci - e quelle esterne che circondano la struttura: il primo step è stata la potatura degli alberi da frutto e degli olivi già presenti in quest’area e il secondo la messa a dimora di sedici piante di olivo”. “Nell’arco di questa settimana - prosegue Manuela Nelli- stiamo predisponendo invece nei cortili interni, due distinti orti dove verranno collocate piante aromatiche di vari tipi con la tecnica cosiddetta “in cassone”, che permette di gestire più facilmente la cura delle piante. La prossima settimana predisporremo un impianto di irrigazione basato sul recupero e lo sfruttamento dell’acqua piovana”. L’intento, spiegano i referenti è creare spazi in cui si possa, nei prossimi anni, allestire una vera e propria raccolta delle olive e magari una piccola produzione interna di oli aromatizzati. “Si tratta di un laboratorio di formazione mirata all’ambito agricolo - prosegue Iacci - finalizzata a creare opportunità di lavoro per chi ha bisogno di un rinserimento in società dopo un periodo di isolamento. Come cooperativa abbiamo già sperimentato questo tipo di percorso con altre persone: già decine di ex detenuti hanno lavorato nei terreni che abbiamo recuperato all’esterno del carcere e sette di loro sono riusciti a trovare lavoro in zona e si sono fermate nel nostro territorio.” Il progetto prevede poi una seconda fase di orientamento rivolta a tutti gli ospiti della casa in seguito alla quale, in base all’interesse dimostrato, saranno selezionati quindici detenuti per le attività formative interne; per alcuni di loro sarà anche possibile uno stage pratico, grazie alla collaborazione delle aziende agricole del territorio. Il programma formativo comprenderà l’approfondimento di varie tematiche: la conoscenza delle colture e degli aspetti tipici del paesaggio agricolo locale, la tutela ambientale, la sicurezza sui luoghi di lavoro e la collaborazione con le realtà produttive della zona. “Dal carcere a Netflìx, così mi sono salvato dal buio” di Iris Rocca Il Gazzettino, 21 aprile 2021 “La mia vita sembra la trama di un film”. Sorride Giuseppe, in quello che è il giorno zero per eccellenza, quando trailer e locandine si concretizzeranno nella messa in onda della sua opera prima da protagonista: Zero. Giuseppe Dave Seke ha 25 anni, è di Pontevigodarzere (Pd), nido in cui è cresciuto con la sua famiglia di origine congolese, che lascia per raccontare un’altra periferia, quella milanese. Un giorno, infatti, il suo amico e produttore dei suoi slanci rap, Wairaki De La Cruz, gli gira un post dove si cercano attori professionisti e non per una nuova serie. “Secondo lui potevo farcela. Io non ero convinto, mi vergognavo, ma inviai lo stesso il video di presentazione. Il giorno del mio compleanno arrivò un’e-mail che mi invitava a Milano al provino. Pensai fosse un segno”. La nuova serie è Zero, dalla penna di Antonio Dikele Distefano, in uscita oggi su Netflix in tutte le lingue. E Zero è il soprannome del protagonista Omar, l’alter ego di Giuseppe, appunto, un ragazzo dall’incredibile potere dell’invisibilità, impegnato nella difesa del suo quartiere e del suo futuro. “Ogni tanto sparirei anch’io, quando ho bisogno di spazio, di stare per conto mio, di riordinare le idee”. Tanti i temi trattati: la lotta ai pregiudizi razziali, la condizione dei rider, il rispetto dell’ambiente, la vita nelle periferie. “È dove sono cresciuto. Ho tanti ricordi e non sarei qui se non fosse per il mio quartiere. Crescere in periferia ti costringe costantemente a farti delle domande sulle differenze tra quello che vivi e quello che ti circonda. Mi ha dato la consapevolezza che nessuno ti regala niente e dovrai lavorare il doppio degli altri. Una cosa che un po’ mi ha tolto è la luce. Quella che ti permette di sorridere anche quando tutto va male, di vedere il lato positivo, di andare avanti. Io quella luce l’avevo persa e quando succede vieni risucchiato dal buio”. Il riferimento è ad un passato fatto di guai con la legge, di errori pesanti, dallo spaccio di droga a una rapina ad un benzinaio. Situazioni a fronte delle quali ha pagato il dovuto con due anni di reclusione, per tornare poi a guidare la sua vita in modo diverso, con l’obiettivo espresso nelle sue canzoni: la rinascita. “Nella periferia di Milano, non trovo differenze rispetto a quella di Padova. Le persone vivono le stesse situazioni di difficoltà: i loro occhi hanno quel velo di vissuto che per altri è incomprensibile, ma dove in tanti ci rispecchiamo”. Un luogo in cui qualche volta, può davvero capitare di volersi rendere invisibile. “In particolare da adolescente, quando non mi sentivo capito e stavo malissimo perché le persone tendono a schiacciarti quando mostri debolezza”. Straniscono queste parole dette da un giovane nel pieno delle sue aspirazioni, ai blocchi di partenza di una carriera già stellare. “Il mio è un grandissimo traguardo, che spero renda orgogliosi la mia famiglia e i miei amici. Mi sono circondato di persone che mi conoscono e mi guardano come sempre: questo mi tiene con i piedi per terra. Sto lavorando molto su me stesso, con il mio team, e l’obiettivo è quello di continuare a migliorarmi. Ma non nego la gioia nel sentirmi dire “Mi abbonerò a Netflix solo per vedere la tua serie”. La popolarità è una conseguenza del duro lavoro e la vivo in maniera semplice, perché so da dove vengo. Spero la mia storia possa cambiare le menti e far sì che i ragazzi che sono nell’ultima fila, inseguano e concretizzino i loro sogni. La mia missione è dare voce a chi, come me, non ne ha mai avuta”. A Giuseppe poniamo la domanda di Omar nella serie. È meglio essere scambiato per quello che non sei o non essere visto affatto? “Essere scambiato per ciò che non sei, perché puoi far ricredere le persone sul tuo conto. Un po’ quello che sta capitando a me”. “Il senso della vita”, dialogo tra fede e ragione di Michela Calledda La Nuova Sardegna, 21 aprile 2021 Nel libro in uscita oggi Luigi Manconi e l’arcivescovo Vincenzo Paglia si interrogano intorno alle grandi questioni etiche. Esce oggi “Il senso della vita” (Einaudi, 16,00 euro, 220 pagine), dialogo tra Luigi Manconi e l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita. “Meno di un anno fa - spiega Manconi - ho pubblicato, sempre con Einaudi, “Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale”. In quel libro venivano toccati alcuni temi che l’editore, Paolo Repetti, riteneva necessario approfondire mettendo a confronto due differenti punti di vista intorno a questioni particolarmente controverse. Un approccio, di natura religiosa, fortemente ispirato dalla fede, e un approccio maturato nella ricerca sociale e nella militanza politica. Abbiamo fatto, Vincenzo Paglia e io, numerosi incontri e conversazioni e poi ognuno ha sviluppato la propria parte di colloquio con riflessioni ulteriori per disegnare i tratti di quello che, secondo l’editore, si potrebbe chiamare un “nuovo umanesimo”. Io per la verità non amo simili etichette ma concordo che questa sia la meno disdicevole”. Un titolo molto impegnativo... “Ho sempre temuto che venisse considerato pretenzioso. Dunque, abbiamo voluto scherzarci un po’ su, spiegando che dopo il film dei Monty Python la formula “il senso della vita” può essere liberata da ogni solennità e acquistare un significato concreto e non metafisico. Ovvero: le ragioni delle nostre scelte che hanno un contenuto morale. Si può parlare quindi di una sorta di morale quotidiana che ispira le nostre opzioni su temi come la vita e la morte, il dolore e la cura, le preferenze sessuali e i riti civili: le grandi questioni di sempre, che la pandemia ha avvicinato e reso più tangibili e urgenti. Muovendo da posizioni spesso lontanissime, trovando l’intesa su alcuni punti e conservando il dissenso su altri, affrontiamo a viso aperto problematiche come unioni civili e matrimonio omosessuale, accanimento terapeutico ed eutanasia, carcere e senso della pena, ecologia e fraternità tra esseri umani. Facciamo ciò, richiamando vicende della cronaca e nomi e cognomi: Alex Langer, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, Camillo Ruini, Ernesto De Martino. Tutto riportato dentro il tempo presente, le condizioni materiali della vita e le scelte individuali, nell’Italia e nell’Europa contemporanee”. Perché si definisce “poco credente”? “Sono patologicamente innamorato delle parole e, ancor più da quando sono cieco, dei loro suoni e delle loro molteplici accezioni. Quindi tengo moltissimo anche alle definizioni. “Laico” è un termine che non amo perché al di là della sua nobile origine mi sembra che oggi corrisponda a un’idea della società dove lo spazio per il fatto religioso sia, se non escluso, ridotto al lumicino e appena sopportato. Non sono ateo e ritengo che essere agnostici rischi di corrispondere a una sorta di pigrizia intellettuale. Sono molto interessato, dunque, a una dimensione extra-mondana, alle “cose che non si vedono”, come diceva Sant’Agostino, allo spirito oltre la materia. Non avendo “il dono della fede”, questo mio interrogarmi ha prodotto finora uno stato di “pococredente”, in ascolto e in attesa, che pure, penso, non evolverà verso una dimensione di fede”. È possibile concepire l’amore slegato dal piacere e non finalizzato alla procreazione? “Ancora una volta il problema è determinato dalle parole: la nostra pigrizia ci induce a interpretare desiderio e piacere in un’accezione estremamente limitata e tutta “genitale”, secondo una lettura - se posso dire - “anatomico-eiaculativa”. Giustamente Paglia sostiene che non è solo questa l’interpretazione possibile del desiderio e dell’amore, e nemmeno dell’eros. Per me, amore, desiderio ed eros, sono strettamente legati - sia pure non in via esclusiva - alla sfera sessuale, ma trovo possibile immaginare l’amore in una dimensione diversa, dove, anche in assenza dell’atto sessuale, ci siano comunque desiderio e piacere. Io ritengo che la sfera sessuale, nell’essere umano, sia un elemento di preziosissima ricchezza emotiva e cognitiva e, per dirla con i termini della morale cattolica, il piacere non sia necessariamente finalizzato alla procreazione. Questo è un punto importante perché segnala la contraddizione, presente anche nelle posizioni più avanzate, del pensiero cattolico sull’omosessualità. Secondo l’attuale pastorale della Chiesa, l’omosessuale deve essere amato e rispettato, ma a patto che non faccia “l’omosessuale”, cioè che rimanga casto. Ecco, a mio avviso, questa disposizione rivela tutta la fatica che fa la Chiesa per accettare pienamente l’identità omosessuale”. Sia Lei che Mons. Paglia sostenete la necessità di accettare, nella società, la compresenza del “bene” e del “male”. Cosa intende con “dare un posto al disordine”? “Pensare a una società che si riconosca come imperfetta e attraversata in profondità da quel male che è parte di ciascuno di noi. Ogni individuo è fatto di virtù e vizi, di attrazione per il male e disponibilità al bene. Se questo è l’essere umano e questa è la società umana nella quale opera, noi dobbiamo trovare il modo di realizzare la convivenza tra i cittadini, senza tentare di mettere al bando il male e chi lo compie (chi devia, chi trasgredisce, chi delinque): e trovare, piuttosto, per queste figure e per queste azioni politiche adeguate. Politiche che non escludano ma includano, che non producano emarginazione ma che reinseriscano nella società e consentano il manifestarsi di quel tanto o poco di consapevolezza e voglia di emancipazione che si trova in qualunque persona”. Dolore, morte, autodeterminazione: quali sono le differenze tra la sua visione e quella di monsignor Paglia? “C’è una differenza culturale, seppure non così evidente. Io pongo la questione del dolore al centro di tutte le idee, le terapie, le politiche della salute perché ritengo che quello sia il grande rimosso della nostra medicina. Il dolore è in genere considerato l’effetto collaterale di un’altra patologia e non una patologia in sé. Prova di questo è lo scarso spazio che hanno in Italia le terapie analgesiche, il numero esiguo di hospice per i malati gravi, in particolare nel Sud, e la scarsa attenzione che le facoltà di medicina dedicano alle cure palliative. La posizione di Mons. Paglia non è troppo diversa, ma in qualche modo risente dell’antica concezione cristiana del dolore come forma di espiazione o come via crucis virtuosa o, infine, come itinerario di avvicinamento a Dio. Questa impronta, che in persone colte e sofisticate come Paglia chiaramente non ricalca gli antichi pregiudizi, comunque ci vede divisi anche sul tema dell’eutanasia. Io ritengo che davanti al dolore non lenibile, in assenza di altre soluzioni, l’eutanasia - in condizioni tassativamente definite - sia una scelta possibile, mentre Paglia la rifiuta incondizionatamente”. Avete una concezione molto diversa anche della speranza. “Sì, qui si manifesta una profonda differenza tra noi due. Ed è anche il punto dove il nostro dialogo si blocca. Essendo egli un uomo di fede è conseguente che si nutra di speranza. All’opposto, chi non ha fede, non è necessariamente disperato: io, per esempio, ho una vita piena e moderatamente felice, ma devo dirmi comunque assai pessimista sulle sorti della nostra società e, se non vi sembra troppo retorico, sul destino dell’uomo. Mi ha molto colpito un brano di Jacques Ellul, dove si parla di “pessimismo della speranza”, perché da una concezione tragica dell’esistenza può discendere non la resa e lo sconforto, bensì una ragione in più per battersi al fine di cambiare le cose”. Eutanasia, depositata in Cassazione la richiesta per il referendum di Caterina Pasolini La Repubblica, 21 aprile 2021 Da luglio ci sarà tempo tre mesi per raccogliere le adesioni di 500mila persone. Marco Cappato e Valeria Imbrugno, compagna di dj Fabo: “Finalmente si colma un vuoto legislativo. Ognuno potrà scegliere”. “Un referendum sull’eutanasia, perché siano gli italiani a decidere, perché ognuno possa scegliere sulla propria vita, sulla propria morte. Un referendum a cui si arriva dopo anni in cui il parlamento, la politica è stata assente nonostante la richiesta della Corte costituzionale di fare una legge in materia. Il mio Fabo oggi sarebbe qui, guerriero come sempre a battersi per i diritti per la libertà di scelte delle persone. Mentre lui per poter andarsene, da quel corpo che sentiva prigione, ha dovuto emigrare di nascosto in Svizzera e chi lo ha aiutato come Marco Cappato, ha rischiato fino a 12 anni di carcere, come prevede ora la legge, prima di essere assolto”. Così dice Valeria Imbrugno, compagna di una vita di Fabiano Antoniani, dj Fabo, il quarantenne milanese tetraplegico morto per suicidio assistito in Svizzera. Ecco il numero bianco sul fine vita - Questa mattina anche lei era in Cassazione assieme ai leader dell Associazione Luca Coscioni, tra cui Marco Cappato, Filomena Gallo, Mina Welby, Marco Perduca e Rocco Berardo, insieme a rappresentanti del Comitato Promotore e ai familiari di chi ha vissuto da come lei il dramma delle scelte di fine vita, come genitori e la sorella di Luca Coscioni - Anna, Rodolfo e Monica. Dj Fabo, assolto Marco Cappato, la legale Gallo: “La battaglia continua” - Insieme hanno presentato la richiesta per un referendum, dal primo luglio ci saranno tre mesi per raccogliere, in banchetti di piazza sparsi in tutta Italia, le cinquecentomila firme necessarie ad arrivare al voto. Al Referendum per l’Eutanasia Legale promosso da Associazione Luca Coscioni al quale hanno comunicato la propria adesione, diventando parte del Comitato Promotore: Radicali Italiani, Partito Socialista Italiano, Eumans, Volt, Più Europa. “Un’iniziativa importante che il MoVimento 5 Stelle appoggia in pieno perché ha il referendum nel suo dna, ma che può essere anche utile a sbloccare la situazione”. Ha detto Giuseppe Brescia (M5s), presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera, annunciando che se ne discuterà a giugno in aula. Si tratta di un referendum parzialmente abrogativo dell’art. 579 c.p., sul cosiddetto omicidio del consenziente, l’unica fattispecie che nel nostro ordinamento assume un ruolo centrale nell’ambito delle scelte di fine vita, poiché non esiste una disciplina penale che proibisca in maniera espressa l’eutanasia. In assenza della menzione stessa del termine “eutanasia” nelle leggi italiane, la realizzazione di ciò che comunemente si intende per eutanasia attiva (sul modello olandese o belga) è impedito dal nostro ordinamento. L’eutanasia attiva è, infatti, vietata sia nella versione diretta, in cui è il medico a somministrare il farmaco eutanasico alla persona che ne faccia richiesta (art. 579 c.p. omicidio del consenziente), sia nella versione indiretta, in cui il soggetto agente prepara il farmaco che viene assunto in modo autonomo dalla persona (art. 580 c.p. istigazione e aiuto al suicidio), fatte salve le discriminanti introdotte dalla Consulta con la ‘sentenza Cappato’. Con il referendum parzialmente abrogativo dell’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente), dunque si andrebbe da un lato a distinguere l’aiuto al suicidio, e dall’altro a depenalizzare l’eutanasia, attualmente vietata dalla fattispecie di omicidio del consenziente. “È arrivato il momento di far decidere ai cittadini su un tema che i politici si sono rifiutati di affrontare. Sono passati quasi otto anni da quando abbiamo depositato la proposta di legge per l’eutanasia legale, ma il Parlamento non l’ha discussa nemmeno per un minuto, nonostante le ripetute sollecitazioni della Corte costituzionale. Se non si interviene ora con il referendum, il problema sarà spazzato sotto il tappeto ancora per molti anni, e noi non lo vogliamo permettere, per rispetto alle troppe persone costrette a subire condizioni di sofferenza insopportabile imposta dallo Stato italiano”, ha dichiarato Marco Cappato, Tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni. Anche perché c’è voglia di informazione, spiegazioni, tanto che l’associazione Coscioni insieme a Valeria Imbrugno ha attivato un numero bianco, 06-99313409, a cui telefonare per ricevere chiarimenti in materia di fine vita, testamento biologico, eutanasia. Eutanasia legale: se la politica latita, decideranno i cittadini di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 aprile 2021 Legalizzazione del suicidio assistito e depenalizzazione dell’eutanasia. Per ottenerli anche in Italia, bisognerà votare “Sì” ai due quesiti referendari depositati ieri mattina in Corte di Cassazione dall’Associazione Luca Coscioni e da alcuni rappresentanti del Comitato promotore composto da partiti (Radicali italiani, Psi, +Europa, Possibile, Volt), associazioni e un lungo elenco di parlamentari, consiglieri regionali (di Abruzzo, Fvg, Lazio, Lombardia, Marche), medici e giuristi. Occorrono però 500 mila firme da raccogliere in soli tre mesi - luglio, agosto e settembre - affinché nel prossimo autunno si possa svolgere il Referendum per l’Eutanasia Legale. Mesi difficili, per intercettare i possibili sottoscrittori, si sa, ma la scelta del timing è stata condizionata anche dalle prossime elezioni del Presidente della Repubblica. Ieri, dopo aver depositato gli atti in Cassazione, l’avvocata Filomena Gallo e Marco Cappato, rispettivamente segretaria e tesoriere dell’associazione Coscioni, sono stati ricevuti dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia per un colloquio interlocutorio che ha avuto per oggetto soprattutto la sentenza della Consulta sul caso Cappato/Dj Fabo. I due quesiti referendari agiscono sull’abrogazione parziale dell’art. 579 c.p. del cosiddetto “omicidio del consenziente”, “l’unica fattispecie - spiega in una nota l’associazione Coscioni - che nel nostro ordinamento assume un ruolo centrale nell’ambito delle scelte di fine vita, dal momento che non esiste una disciplina penale che proibisca in maniera espressa l’eutanasia”. Il fatto che la parola non venga neppure menzionata nelle leggi italiane non impedisce il divieto all’”eutanasia attiva” nella versione diretta, come accade in Olanda e Belgio, “in cui è il medico a somministrare il farmaco eutanasico alla persona che ne faccia richiesta (art. 579 c.p. omicidio del consenziente)”, e nella versione indiretta, “in cui il soggetto agente prepara il farmaco eutanasico che viene assunto in modo autonomo dalla persona (art. 580 c.p. istigazione e aiuto al suicidio), fatte salve le scriminanti introdotte dalla Consulta”. Con la sentenza Cappato, infatti, la Corte costituzionale ha stabilito la non punibilità di chi “agevola l’esecuzione” del suicidio “di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Condizioni che devono essere prima “verificate da una struttura pubblica del Ssn, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Sentenza alla quale si è attenuta la Corte d’Assise di Massa che nel luglio 2020 ha assolto Cappato e Mina Welby per l’aiuto concesso a Davide Trentini quando nel 2017 raggiunse la Svizzera per il suicidio assistito. Tra pochi giorni, il 28 aprile, si aprirà il processo in Appello a Genova su richiesta dei pm che si sono opposti alla sentenza. Abrogando parti dell’articolo 579 c.p. si otterrebbe una norma che, nel caso di aiuto al suicidio, “evita l’abuso, lasciando la condotta punita come un omicidio”, e al contempo depenelizza l’eutanasia, attualmente vietata dalla fattispecie di omicidio del consenziente, “sempre nell’ambito dell’attuale assetto ordinamentale”. La volontà del paziente (“col consenso di lui”) verrebbe così esaltata, e ancorata direttamente alle Dat e alla stessa sentenza 242/19 della Consulta. L’iniziativa dell’associazione Coscioni ha avuto il plauso, ieri, soprattutto di esponenti del M5S, malgrado il partito non sia entrato nel Comitato promotore. Molti parlamentari 5S però hanno aderito all’intergruppo sull’Eutanasia legale che conta 52 deputati (8%) e 20 senatori (6%) in tutto, compresi i 20 del Pd, i 6 di Leu e 4 di FI. Mentre oltre 140 mila cittadini hanno supportato la pdl di iniziativa popolare depositata nel 2013. Attualmente sono cinque le proposte di legge sull’eutanasia depositate alla Camera ma nessun testo base, perché l’iter, iniziato soltanto il 30 gennaio 2019 dopo l’ordinanza della Consulta, si è arenato sei mesi dopo nelle commissioni Giustizia e Affari sociali. “È arrivato il momento di far decidere ai cittadini su un tema che i politici si sono rifiutati di affrontare”, ha dichiarato Cappato pima di entrare al “Palazzaccio”. Si cercano volontari per organizzare i tavoli in tutta Italia. Nel frattempo chi ha bisogno di conoscere i propri diritti sul fine vita da oggi ha un “Numero Bianco” (06 9931 3409) a disposizione. Muro contro muro su eutanasia e legge Zan: le destre frenano il Parlamento sui diritti di Raffaella Malito La Notizia, 21 aprile 2021 Il referendum per l’eutanasia legale è stato depositato ieri mattina in Corte di Cassazione, alla presenza dei leader dell’Associazione Luca Coscioni, tra cui Marco Cappato, Filomena Gallo, Mina Welby, Marco Perduca e Rocco Berardo. Insieme a rappresentanti del Comitato Promotore e ai familiari di chi ha vissuto da vicino il dramma delle scelte di fine vita, come Valeria Imbrogno, compagna di Fabiano Antoniani, i genitori e la sorella di Luca Coscioni. Muro contro muro eutanasia e legge Zan - Si tratta di un referendum parzialmente abrogativo dell’art. 579 del codice penale sul cosiddetto omicidio del consenziente, l’unica fattispecie che nel nostro ordinamento assume un ruolo centrale nell’ambito delle scelte di fine vita. Presenti anche alcuni parlamentari pentastellati, i socialisti guidati da Enzo Maraio, i leader di +Europa, la segretaria di Possibile, Beatrice Brignone. Una battaglia questa che il M5S sposa all’unanimità. “Farò quanto in mio potere per dare seguito all’iter delle proposte sul fine vita, da troppo tempo in attesa di una soluzione”, dichiara Mario Perantoni, presidente pentastellato della commissione Giustizia della Camera. “È giusto che i cittadini arrivino dove non arriva la politica e questa iniziativa è molto utile per dare una scossa al Parlamento”, dice Giuseppe Brescia (M5S), presidente della commissione Affari Costituzionali di Montecitorio. La discussione è prevista nell’aula della Camera a giugno. Le destre più oscurantiste di sempre frenano il parlamento sui diritti - Ma, a quanto risulta all’Agi, si sta lavorando sotto traccia anche a un piano B. Ovvero sul tema del suicidio assistito. Quando si è in presenza di una malattia terminale e di una sofferenza “intollerabile” il suicidio assistito non è perseguibile: si fonderebbe su questo cardine un testo di legge che l’ex maggioranza giallorossa dovrebbe presentare nei prossimi giorni in Commissione Giustizia e Affari sociali di Montecitorio. E poi su questo si dovrebbe aprire il confronto all’interno della maggioranza. Ma si tratterà di un percorso pieno di insidie. Lega e M5S due anni fa non sono riusciti a mettersi d’accordo su un testo di legge. Il leader Matteo Salvini dichiarò di essere contrario al “suicidio di Stato imposto per legge”: “La vita è sacra e da questo principio non tornerò mai indietro”. Senza considerare che, sempre a suo tempo, la Lega fu il gruppo più accanitamente contrario alla legge sul testamento biologico. Ma sui temi etici e sui diritti il Carroccio non ha mai brillato. Emblematico quanto sta capitando al Senato sul ddl Zan con il presidente della Commissione Giustizia della Lega, Andrea Ostellari, che sta impedendo la calendarizzazione del provvedimento sull’omotransfobia. “Non ha bisogno dell’incontro dei presidenti dei gruppi, come da lui richiesto: basta che svolga il suo lavoro. Ha tutti gli strumenti, agisca”, accusa Simona Malpezzi, capogruppo del Pd a Palazzo Madama. E più senatori si mobilitano chiedendo l’intervento del presidente del Senato. Anche qui i pentastellati si schierano apertamente. La delegazione M5S al Parlamento Ue condivide l’iniziativa assunta dall’integruppo Lgbti. In una lettera inviata a Ostellari, 56 europarlamentari, provenienti da diversi Stati membri, preoccupati chiedono di avviare la discussione del ddl Zan e di metterlo ai voti quanto prima. Migranti. Il Garante: “Serve una legge per regolamentare la vita nei Centri per il rimpatrio” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 aprile 2021 “Mai come in passato, si è verificato un numero così elevato di eventi tragici”, così si legge nel passaggio introduttivo sul rapporto del Garante nazione delle persone private della libertà in merito alle visite effettuate nei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr). Il periodo delle visite risale nel biennio 2019- 2020 e il Garante si riferisce ai cinque cittadini stranieri che hanno perso la vita mentre scontavano una misura di detenzione amministrativa. Sulle specifiche vicende, che differiscono per cause, circostanze e situazioni, spetta chiaramente all’Autorità giudiziaria fare luce ma, al di là dei relativi esiti procedurali, su cui comunque il Garante nazionale fa sapere che manterrà alta la propria attenzione, si osserva che “appare difficile non considerare tale serie di eventi infausti quantomeno il sintomo di realtà detentive gravemente e fisiologicamente problematiche non sempre in grado di proteggere e tutelare la sicurezza e la vita delle persone poste sotto custodia”. I problemi riscontrati dalla delegazione del Garante nazionale sono di varia natura e interpellano vari livelli di responsabilità: vuoti ordinamentali, carenze di regolazione, problemi strutturali, inadeguatezze gestionali; in tal senso, il Rapporto si concentra sugli esiti dell’attività di monitoraggio, ma non rinuncia a uno sguardo d’insieme facendo cenno anche ad alcune questioni che attengono più a un profilo di normazione che di gestione. Infatti, la prima osservazione riguarda l’aspetto normativo che, secondo il Garante, “non offre sufficienti tutele e garanzie per assicurare il pieno (articolo 14 comma 2 T. U. Imm.) e assoluto rispetto della dignità della persona (articolo 19 comma 3 decreto- legge 17 febbraio 2017 n. 13) e rischia di lasciare ampi spazi di discrezionalità ai pubblici poteri e ai soggetti responsabili della loro gestione”. Nel rapporto, il Garante puntualizza che manca una legge organica che regoli la vita all’interno dei Cpr e definisca le modalità del trattenimento favorisce trattamenti differenziati e non omogenei tra le varie strutture del territorio, nonché situazioni di informalità che “rischiano di mettere a repentaglio i diritti fondamentali delle persone trattenute”. Il Garante nazionale è chiaro su questo punto. Riprende ciò che scrisse nella relazione al Parlamento del 2020, per ribadire che a più di venti anni dalla loro introduzione, i Centri di detenzione amministrativa rimangono “luoghi “non pensati” ove “la permanenza in essi segue le sorti di un “effetto collaterale”, che si vorrebbe evitare e che è sostanzialmente sottovalutato”. Nel rapporto, il Garante parla di un vuoto legislativo sul punto, quindi osserva l’urgenza di una legge che regoli i modi di “trattenere”. In sostanza, i migranti sono di fatto privati della libertà come i detenuti, nonostante non abbiano commesso reati. Ecco perché servirebbe una specie di ordinamento come ce l’ha il sistema penitenziario. Il Garante lo spiega bene nel rapporto. Specifica che serve per rendere conforme il dispositivo agli standard europei e internazionali in materia di privazione della libertà ampiamente trascurati nella disciplina della detenzione amministrativa, come dimostra l’enorme differenziale di tutele che da sempre la caratterizza rispetto al mondo dell’esecuzione penale, a cominciare, per esempio, dall’assegnazione all’Autorità giudiziaria di compiti di vigilanza sulle strutture analoghi a quelli della magistratura di sorveglianza. “Emblematiche sono - si legge nel rapporto - altresì, le carenze rispetto al ruolo del sistema di sanità pubblica e alla regolamentazione di strumenti essenziali di garanzia come l’indicazione che la visita di primo ingresso sia anche orientata alla verifica di lesioni e quindi all’emersione di maltrattamenti eventualmente occorsi nelle fasi precedenti all’ingresso in struttura”. Oppure, altro esempio, si pensi alla mancanza di un sistema di registrazione di tutti gli eventi critici e di una disciplina specifica sull’uso della forza e sugli accertamenti sanitari nei confronti di coloro che la subiscono: questo serve al fine di assicurare le necessarie cure mediche e l’acquisizione di elementi per una puntuale ricostruzione dei fatti. Restano poi problemi nelle strutture, “dall’architettura rudimentale”, carenza di spazi di socialità o luoghi di culto, “che peraltro attenuerebbe le tensioni”. Inoltre, il Garante osserva la mancanza dei più basilari elementi di arredo, incluse le porte dei bagni. “Come se l’individuo - osserva il Garante - smettesse di essere persona con una propria totalità umana da preservare nella sua intrinseca dignità, dimensione sociale, culturale relazionale e religiosa per essere ridotta esclusivamente a corpo da trattenere e confinare”. Alcuni esempi. Nella progettazione e realizzazione dei lavori di adeguamento di alcune strutture, come per esempio la sezione maschile del Cpr di Roma- Ponte Galeria, il garante denuncia che non si è tenuto conto di alcuni standard di sicurezza elementari per la privazione della libertà delle persone migranti, elaborati sia dagli organismi internazionali di controllo che dal Garante nazionale stesso. Senza contare - come si legge sempre nel rapporto - alcune inefficienze progettuali presenti, per esempio, nel Cpr di Gradisca d’Isonzo dove il fumo all’interno dei locali detentivi anche di quantità minimale provoca il blocco del sistema di riscaldamento. Il Garante è netto: sotto il profilo delle condizioni materiali dei Cpr, “il cambio di passo è un imperativo”. Al rapporto il garante allega anche la risposta del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, che assicura disponibilità economica e organizzativa per migliorare gli aspetti strutturali segnalati. Migranti. Rifugiati, la protezione è sempre più un miraggio di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 21 aprile 2021 Il rapporto annuale del Centro Astalli. Ottanta milioni di persone nel mondo in fuga da dittature, violenze e povertà. Per loro il virus non è il peggiore dei mali. In aumento gli arrivi da mare in Italia nel 2020, ma crollano le richieste di asilo ostacolate dalla burocrazia. Padre Camillo Ripamonti: “Cresce la precarietà, investire su welfare e integrazione. E a Draghi dico: evacuare subito i centri di detenzione libici”. L’anno della pandemia visto dalla parte dei più indifesi tra gli indifesi: migranti e rifugiati. Il Rapporto annuale del Centro Astalli - sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati - il secondo che esce durante l’emergenza sanitaria, descrive un anno, il 2020, al fianco di oltre 17mila rifugiati e richiedenti asilo, con dati su servizi offerti, nazionalità e status. Ne emerge un quadro in cui l’onda lunga dei decreti sicurezza e le politiche di chiusura - se non addirittura discriminatorie - che hanno caratterizzato la normativa su immigrazione e asilo fino a fine 2020, acuiscono precarietà di vita, esclusione e irregolarità. Il 2020, l’anno segnato dallo scoppio della pandemia da Covid-19, dal lockdown e dalle misure restrittive per arginare la diffusione dei contagi, ha registrato un aumento degli arrivi via mare di migranti in Italia (34mila), dopo due anni di diminuzione (23mila nel 2018 e 11mila nel 2019). Per molti migranti forzati il Covid non è quindi il peggiore dei mali da affrontare. Violenze, dittature, profonde ingiustizie sociali ed economiche costringono quasi 80 milioni di persone nel mondo a mettersi in cammino verso un paese sicuro. Allo stesso tempo però sono diminuite le richieste d’asilo in Italia: 28mila (contro le 43.783 del 2019). Nonostante numeri decisamente bassi di arrivi rispetto al recente passato, il sistema di protezione fatica a rispondere efficacemente ai bisogni delle persone approdate nel 2020 o già presenti sul territorio. In un anno di accompagnamento dei migranti forzati, complice la pandemia, il Centro Astalli ha registrato un aumento degli ostacoli frapposti all’ottenimento di una protezione effettiva, un intensificarsi del disagio sociale e della marginalizzazione dei rifugiati. Molte situazioni, già in equilibrio instabile, si sono trasformate in condizioni di grave povertà. Persone rese fragili da viaggi spesso drammatici che durano mesi o anni, si scontrano con normative e prassi dei singoli uffici non di rado discriminatorie, rendendo spesso le questioni burocratiche un potenziale vicolo cieco. Non pochi davanti all’ennesima difficoltà rinunciano a far valere i loro diritti, convinti di non avere alcuna possibilità di vederli riconosciuti. La richiesta di servizi di bassa soglia (mensa, docce, pacchi alimentari, medicine) è forte su tutti i territori: si calcolano 3.500 utenti alla mensa di Roma (tra cui 2.198 richiedenti o titolari di protezione) di questi più del 30% è senza dimora, in stato di grave bisogno e tra loro, per la prima volta dopo molti anni, hanno chiesto aiuto anche italiani. Più di 2.600 utenti si sono rivolti al centro diurno a Palermo. A Trento si è avuta la necessità di trasformare un dormitorio notturno per l’emergenza freddo in un servizio di accoglienza di bassa soglia con uno sportello di assistenza dedicato ai richiedenti asilo senza dimora. A Bologna è stato dato in gestione al Centro Astalli uno spazio in cui realizzare un dormitorio per richiedenti e rifugiati. I primi esclusi dalla protezione internazionale sono gli sfollati interni che rimangono bloccati nei confini degli Stati da cui scappano, sempre più invisibili, non riescono a raggiungere un Paese sicuro, in cui chiedere protezione. L’aver bloccato gli ingressi a causa della pandemia (durante il primo picco, 90 Paesi hanno chiuso completamente le frontiere anche ai richiedenti asilo), la mancanza di azioni di soccorso e ricerca nel Mediterraneo centrale da parte di governi e Unione europea, l’aver fortemente limitato le azioni delle Ong, finanziando invece attività di ricerca e respingimento da parte della guardia costiera libica, non ha bloccato i flussi irregolari di migranti ma ne ha reso solo meno visibili le conseguenze. Nel 2020 sono stati oltre 11.000 i migranti soccorsi o intercettati nel Mediterraneo, riportati in Libia e li detenuti in condizioni che le Nazioni Unite definiscono inaccettabili. A questi si aggiungono le oltre 1.400 vittime accertate di naufragi nel corso del 2020. Anche quest’anno molte delle persone che si sono rivolte al centro SaMiFo (Salute Migranti Forzati) sono state vittime di gravi violenze in Libia. Riferiscono di essere state torturate, ma anche di aver subito percosse e abusi indiscriminati. “Il Rapporto annuale documenta che il numero delle persone che sono arrivate nel 2020 sono aumentate - rimarca a Il Riformista padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli - E questo ci dice come le persone, nonostante la pandemia fuggono lo stesso da situazioni di violenza, pensiamo ad esempio ai centri di detenzione in Libia. La pandemia per loro non è il peggiore dei mali. E uno dei tanti mali che affligge la loro vita. In Italia e nel mondo sono diminuite le richieste d’asilo. La procedura per accedere al riconoscimento della protezione internazionale si é ridotta un po’ in generale, legata appunto alla situazione di difficoltà della pandemia. Ma questo ci dice anche -spiega padre Ripamonti - che c’è, in Europa e nel mondo, una erosione del diritto d’asilo. Si sta perdendo di vista quello è che è la protezione internazionale delle persone. Dal Rapporto emerge la difficoltà sempre maggiore delle persone anche in questo tempo. Quelle persone che abbiamo lasciato ai margini con politiche di esclusione, durante la pandemia sono state ancora più in difficoltà. E questo perché non abbiamo investito sull’integrazione. La prospettiva per i prossimi anni dovrebbe essere, a nostro avviso, quella di un investimento sta una integrazione che sia però anche una integrazione trasversale, perché i problemi dei migranti sono i problemi dei cittadini in generale la salute, il lavoro, la casa. Quindi un investimento generale sul welfare che abbiamo un po’ dimenticato, come Italia ma anche come Europa. Ritengo che l’investimento dei prossimi anni debba essere un investimento sullo Stato sociale in generale, con una attenzione all’integrazione delle fasce più fragili e tra queste quelle dei migranti e dei rifugiati”. Da cosa iniziare, qual è la priorità tra le priorità che lei indicherebbe al presidente Draghi?, chiediamo a padre Ripamonti. “Ce ne sono due fondamentalmente - è la sua risposta. In questo momento, l’evacuazione dei centri di detenzione in Libia. Liberare queste persone da una condizione di detenzione che non conosce i diritti umani. E poi guardare al futuro con l’integrazione. Che è qualcosa che punta sull’amicizia sociale, sulla coesione sociale. In questo momento in cui siamo così tutti in difficoltà, puntare su qualcosa che costruisca comunità. E l’integrazione dei migranti è un elemento che costruisce comunità”. Droghe. Cannabis legale, a New York si può di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 21 aprile 2021 New York, New Mexico e Virginia. In poco più di una settimana 30 milioni di americani hanno visto il proprio Stato legalizzare la cannabis. Questi sono diventati 18, più il Distretto della Capitale Washington, le Isole Marianne Settentrionali e Guam: oltre il 40% della popolazione statunitense vive in uno stato che ha abbandonato il proibizionismo sulla cannabis. Il 30 marzo 2021, esattamente 60 anni dopo la firma, proprio a New York, della Convenzione Unica sugli stupefacenti che aveva introdotto il divieto globale della cannabis, lo Stato della Grande Mela ha legalizzato la cannabis. Il Governatore Cuomo, in difficoltà nei sondaggi ed alla ricerca di una issue popolare ha sfruttato il largo consenso nell’opinione pubblica: il 64% dei newyorchesi è favorevole alla legalizzazione. “Non saremo i primi, ma il nostro programma sarà il migliore” aveva dichiarato, presentando la cannabis come priorità assoluta del suo governo per il 2021 e riuscendo ad approvarla letteralmente dalla mattina alla sera. In effetti il testo tiene conto di luci e ombre di questi primi anni di regolamentazione legale, a partire dal tema della giustizia sociale e della cancellazione dei precedenti penali. Ricordiamo che New York ha storicamente dato la linea alle politiche repressive sulle droghe, a partire dalle Rockfeller Drug Laws degli anni 70, sino alla zero tolerance di Rudolph Giuliani. Secondo l’American Civil Liberties Union, nel 2018, quasi 60.000 newyorkesi sono stati arrestati per violazioni della legge sulla marijuana, di questi, il 95% per solo possesso. Secondo la Legal Aid Society nel 2020 nei cinque distretti di New York City, neri e ispanici rappresentavano oltre il 93% degli arrestati per violazioni per cannabis. Tenendo conto di ciò saranno cancellate automaticamente dalle fedine penali le condanne per condotte rese oggi legali, mentre coloro che consumano cannabis, o lavorano nell’industria saranno protetti contro discriminazioni in materia di alloggi, accesso all’istruzione e diritti genitoriali. La polizia inoltre non potrà più usare l’odore della cannabis come giustificazione per le perquisizioni. Il sistema di licenze impedisce l’integrazione verticale, onde evitare concentrazioni e favorire i piccoli produttori locali, ad eccezione delle micro imprese e degli operatori già esistenti nel programma della cannabis medica. Per quel che riguarda invece l’equità sociale e la riparazione dei danni del proibizionismo, l’obiettivo è di avere almeno il 50% delle licenze commerciali rilasciate a richiedenti provenienti da “comunità colpite in modo sproporzionato dall’applicazione del divieto della cannabis”, nonché imprese di proprietà di minoranze e donne, veterani disabili e agricoltori in difficoltà finanziaria. Le entrate fiscali, oltre a coprire i costi del programma, saranno ripartite in questo modo: il 40% ad un fondo di reinvestimento sulle comunità, il 40% a sostegno delle scuole pubbliche statali e il 20% alle strutture per il trattamento degli usi problematici di droghe e per campagne e programmi di educazione pubblica. La cannabis vola alto anche nel paese: oltre il 75% degli americani è oggi contrario alla sua proibizione e criminalizzazione. Forte anche di questo il leader della maggioranza democratica al Senato Schumer ha ribadito la sua intenzione di andare avanti con la proposta di legalizzazione a livello federale “con o senza l’accordo di Biden”. Se la legalizzazione in California ha rappresentato il punto di non ritorno del processo di riforma negli USA, è evidente che New York rappresenta un passaggio simbolico decisivo nei confronti di tutto il mondo. Ancora di più pensando che nella città saranno anche consentiti luoghi di consumo sociale della cannabis: New York tornerebbe alle origini, un poco New Amsterdam. Francia. “Non restituite gli ex terroristi all’Italia” italiastarmagazine.it, 21 aprile 2021 Un appello degli intellettuali francesi, pubblicato su Le Monde, ribadisce la visione democratica e soprattutto umana la Dottrina Mitterand. Nei giorni scorsi, la ministra Cartabia aveva avuto colloqui con l’omologo francese. Nei giorni scorsi, l’annuncio di un fitto colloquio fra il ministro della giustizia italiana Marta Cartabia e il suo omologo francese Éric Dupont-Moretti aveva riacceso le speranze di una svolta epocale sull’estradizione di terroristi italiani che avevano ottenuto protezione da parte del governo francese, sulla scia della discussa “Dottrina Mitterand”. La guardasigilli italiana ha consegnato l’elenco con i nomi degli 11 terroristi latitanti, 4 dei quali condannati all’ergastolo in contumacia. Tra gli altri Luigi Bergamin, tra gli ideologi dei “Pac” a cui apparteneva anche Cesare Battisti, Ermenegildo Marinelli, accusato di banda armata e omicidio, oggi imprenditore, Maurizio Di Marzio, accusato di assalto e tentativo di sequestro dell’agente Nicola Simone, Enzo Calvitti, con tre condanne per omicidio, Marina Petrella, coinvolta nel sequestro Moro, e ancora Giovanni Alimonti, Raffaele Ventura, Giorgio Pietrostefani, Narcisio Manenti, Roberta Cappelli, Sergio Tornaghi e Paolo Ceriani Sebregondi. Ma ora, in favore degli “esuli politici italiani” è arrivata una levata di scudi sotto forma di lettera firmata da un gruppo di intellettuali francesi. Pubblicata su “le Monde”, la lettera è un appello al governo francese per difendere la dottrina Mitterand, che “non significa dare lezioni all’Italia in materia di giustizia, ma ricordare che in alcuni casi il funzionamento della giustizia italiana faceva temere che non tutte le garanzie di equità sarebbero state rispettate”. La lettera prosegue ricordando che tutti gli “esuli” hanno pubblicamente dichiarato di aver “abbandonato la militanza politica, considerando la loro attività come conclusa, ripudiando la violenza”. “Oggi i militanti italiani esuli arrivati all’inizio degli anni Ottanta hanno 40 anni di più. Sono ormai ampiamente nell’età della pensione. Sono stati giornalisti, ristoratori, medici, grafici, documentaristi, psicologi. Hanno avuto figli e nipoti. Non hanno mai smesso di ripetere che la guerra è finita e sono da molto tempo estranei a quello che erano stati, senza mai rifiutare di ammettere la loro responsabilità. È a queste donne e a questi uomini, 40 anni dopo che si chiedono i conti nel nome di una giustizia secondo cui il perdono equivale all’oblio e che la riconciliazione vale meno della riapertura delle ferite. La Dottrina Mitterrand è un modo di rifiutare la concezione della giustizia come puro strumento di vendetta, anche 40 anni dopo, una norma che noi consideriamo come un passaggio illuminato della democrazia”. Stati Uniti. Processo Floyd, il verdetto: “L’agente Chauvin è colpevole di omicidio” di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 21 aprile 2021 L’agente il 25 maggio 2020 soffocò l’afroamericano di 46 anni. La giuria: “È tre volte colpevole”. Attesa la decisione del giudice sull’entità della pena. Colpevole. Tre volte colpevole. Il poliziotto Derek Chauvin ha ucciso George Floyd. La giuria ha deciso rapidamente, dopo solo dieci ore di discussione e senza chiedere chiarimenti alla Corte di Minneapolis. Toccherà ora al giudice Peter Cahill, fissare l’entità delle pene, entro sei-otto settimane. A carico di Chauvin erano state formulate tre imputazioni. Colpevole in tutti e tre casi: omicidio colposo, ma con il presupposto di un’aggressione o di un assalto contro la persona, senza tenere in conto le possibili conseguenze; omicidio dovuto a una condotta pericolosa e negligente; omicidio preterintenzionale, causato da un comportamento irragionevolmente rischioso. Le punizioni base oscillano tra i 10 e i 15 anni di reclusione per le due prime accuse; cinque anni per la terza. Solo con le aggravanti, per esempio omicidio commesso davanti a testimoni minorenni, si potrà arrivare fino a 40 anni di carcere. È una sentenza storica per l’America. È la condanna attesa da una larga parte del Paese. A cominciare da Joe Biden, che ieri aveva rotto il silenzio prima che arrivasse la notizia: “Prego perché il verdetto sia quello giusto. Per me le prove sono travolgenti. Lo dico solo ora perché la giuria è in ritiro”. Il presidente è poi intervenuto ancora in serata, con un discorso televisivo in cui invitato il Paese ora a restare unito. “Siamo sollevati” ha detto Biden, che fra l’altro ha parlato al telefono con i familiari di George Floyd. Ben Crump, avvocato dei familiari della vittima, ha postato su Twitter un video della telefonata. “Non c’è niente che possa far andare meglio le cose” ha detto il presidente commentando la morte del loro congiunto, “ma almeno c’è giustizia”. “La condanna è un passo gigante nella lotta contro il razzismo” ha aggiunto Biden. I dodici giurati, sei bianchi, quattro afroamericani, due di altra etnia, cinque uomini e sette donne, si erano chiusi in Camera di consiglio da lunedì sera. Hanno ripercorso le prove e soprattutto i filmati di un processo inedito, costruito sulle immagini riprese dalle “body camera” degli agenti, dalle telecamere di sicurezza e dai telefonini dei testimoni. La Procura ha mostrato ancora una volta la sequenza che ha indignato il mondo: Chauvin che preme il suo ginocchio sul collo di George, ammanettato e immobilizzato, pancia a terra.Nove minuti e 29 secondi, in quella sera del 25 maggio 2020. Sono i fotogrammi che lo scorso anno sollevarono un’onda di proteste in tante città degli Stati Uniti, guidate dal movimento di “Black Lives Matter”. I testimoni convocati in aula hanno commentato con angoscia, spesso piangendo, quella scena. Tra loro una bambina di nove anni: “è molto triste”. Davanti al tribunale, una folla di persone ha accolto la sentenza con sollievo, con canti di gioia. Dentro, sul banco degli imputati, Derek Chauvin ha ascoltato il verdetto di condanna ed è stato subito portato in carcere. Un uomo isolato: nessuno dei suoi ex colleghi lo ha difeso. Anzi, tra le deposizioni decisive c’è sicuramente quella del capo della Polizia Medaria Arradondo, anche lui afroamericano. È stato lui a dichiarare che “quella pratica”, cioè quel ginocchio, quel ghigno, quella mano in tasca, “non fanno parte delle regole della polizia di Minneapolis; è stata un’iniziativa, un’improvvisazione di Chauvin”. L’avvocato Eric Nelson, il legale di Chauvin, non ha mai avuto grandi margini. Ha cercato di seminare dubbi, di smontare la ricostruzione dei fatti. Ma è andato a sbattere contro la forza insormontabile delle immagini. Contro l’evidenza del referto medico: George è morto per asfissia, non per overdose di oppioidi. Ora la tensione si scioglierà a Minneapolis, la città del Minnesota in bilico da giorni, con la Guardia nazionale schierata in forze, con i distretti di polizia protetti da alti reticolati. Dovrebbe rientrare l’allarme anche nelle altre città, in particolare a Chicago e a Washington Dc. E la parola adesso passerà alla politica, al Congresso degli Stati Uniti, dove la Camera ha già approvato una legge di riforma della polizia, con standard nazionali per l’addestramento e per l’uso della forza. La sentenza del processo Floyd segnerà la storia del Paese. In tre settimane di dibattimento si sono concentrate le tensioni accumulate da un anno, da quella sera del 25 maggio 2020, quando George, afroamericano di 46 anni, entrò in un negozio per comprare un pacchetto di sigarette, pagò con una banconota contraffatta da 20 dollari, risalì in macchina e poco dopo iniziarono gli ultimi 9 minuti e 29 secondi della sua vita. Ammanettato, sdraiato con il petto contro l’asfalto. Sul collo il ginocchio del poliziotto Derek Chauvin. Le accuse - A carico di Chauvin sono state formulate tre imputazioni. Proviamo a trasporle nelle nostre fattispecie penali con un inevitabile margine di approssimazione: • omicidio colposo, ma con il presupposto di un’aggressione o un assalto contro la persona, senza tenere in conto le possibili conseguenze; • omicidio dovuto a una condotta pericolosa e negligente; • omicidio preterintenzionale, causato da un comportamento irragionevolmente rischioso. Toccherà al giudice Peter Cahill fissare l’entità delle pene, che non si possono cumulare in caso di condanna simultanea per tutti e tre i reati. In questo caso viene comminata la pena più alta. Le punizioni base oscillano tra i 10 e i 15 anni di reclusione per le due prime accuse; e di cinque anni per la terza. Solo con le aggravanti, per esempio omicidio commesso davanti a testimoni minorenni, si potrà arrivare fino a 40 anni di carcere. Il processo 2.0 - È stato un processo inedito, 2.0, costruito sulle immagini girate dalle “body camera” in dotazione agli agenti, dai telefonini dei testimoni, dalle telecamere di sicurezza. Un racconto in presa diretta, crudo e drammatico, dalla periferia di Minneapolis, in Minnesota. Un luogo familiare, perché simile ai quartieri marginali di tante metropoli americane. Le prime sequenze ci mostrano uno sprazzo della vita quotidiana di Floyd. Lo vediamo entrare nell’emporio Cup Food, oggi trasformato in memoriale e in punto di incontro per gli attivisti. Alto, massiccio, in canottiera nera. Farfuglia qualcosa, scherza con i clienti. Alla fine compra le sigarette con 20 dollari falsi. Il referto post mortem rivelerà che era sotto effetto degli oppioidi. Un uomo in lotta con la dipendenza da molto tempo, come ha detto Courtney Ross, la donna che lo frequentava nel 2017. Quella sera di primavera sembra tutto tranquillo. George rientra in auto, dove lo aspetta un conoscente che sarà rapidamente controllato e poi rilasciato dalla pattuglia di agenti. Ecco la clip registrata dalla body camera di Thomas Lane, uno dei primi agenti a entrare in contatto con Floyd. Il poliziotto si avvicina. Picchetta sul vetro, chiede subito a George di scendere. Poi tira fuori la pistola e la punta contro l’uomo ancora fermo nell’auto: “Non sparatemi, sono una brava persona, dite ai miei figli che gli voglio bene”, urla George, spaventato e visibilmente confuso. È un esempio concreto del cosiddetto “razzismo strutturale”: i tutori dell’ordine diffidano a priori dei maschi afroamericani. Temono che siano armati, che facciano parte di una gang di trafficanti e così via. Le norme e l’addestramento dovrebbero servire per distinguere. In un altro video lo stesso agente rimette la pistola nella fondina e urla a Floyd: “Metti quelle c... di mani (your fucking hands) sul volante”. Non: “Per favore signore, metta le mani in vista sul volante”, come prevedono le “regole di ingaggio”. Il ginocchio di Chauvin - Entra in scena Derek Chauvin, 46 anni, da 19 in servizio nel Minneapolis Police Department. Quando arriva altri tre colleghi stanno già cercando di caricare il fermato sulla macchina della polizia. George è ammanettato, protesta, non vuole montare sul sedile posteriore. Si prepara la scena che tutto il mondo ha visto decine e decine di volte. Sono i fotogrammi che lo scorso anno indignarono l’America, sollevarono un’onda di proteste su tutto il territorio degli Stati Uniti, guidate dal movimento di Black Lives Matter. I testimoni hanno commentato con angoscia, spesso piangendo, la scena che abbiamo visto ormai centinaia di volte. Quella sera, su quel marciapiede, ci sono anche una ragazza di 17 anni che riprende tutto con il telefonino. Accanto a lei sua cugina, una bambina di 9 anni: “È triste”, dice ai giurati. La parola del capo - Tra le deposizioni decisive c’è quella di Medaria Arradondo, capo della polizia di Minneapolis, anche lui afroamericano. Dichiara che “quella pratica”, cioè quel ginocchio, quel ghigno, quella mano in tasca, “non fanno parte delle regole della polizia di Minneapolis; è stata un’iniziativa, un’improvvisazione di Chauvin”. Altri ufficiali del Dipartimento di Minneapolis, convinti o meno che fossero, confermano la linea di Arradondo. L’avvocato Eric Nelson, il legale di Chauvin, non sembra avere grandi margini. Cerca di seminare dubbi, di smontare la ricostruzione dei fatti. Sostiene che l’agente abbia agito “in modo ragionevole” e “seguendo le procedure”. Tenta di dimostrare che Floyd non sia morto “per conseguenza diretta” di quella pressione, di quel ginocchio. La versione dei medici, però, è diversa: George è morto per asfissia, non per overdose di oppioidi. L’attesa e la politica - I dodici giurati erano riuniti da lunedì 19 aprile in un hotel di Minneapolis. Nell’ultima giornata hanno fatto il pieno di raccomandazioni. “Giudicate sulla base di quello che avete visto con i vostri occhi”, ha detto il Procuratore Steve Schleider, chiudendo la requisitoria. “Considerate tutti i fatti, non una sola prospettiva”, ha replicato l’avvocato Nelson, Gli attivisti afroamericani e non solo, si sono mobilitati da giorni. A Minneapolis è schierata la Guardia Nazionale. Stato di allerta anche in alcune città già segnate dalle manifestazioni e da qualche scontro con la polizia. In particolare Chicago, Portland e Washington. La tensione era già salita al massimo con l’uccisione di un altro afroamericano, Duante Wright, in un sobborgo di Minneapolis, e con il caso del tredicenne Adam Toledo, colpito a morte da un poliziotto a Chicago. I leader di Black Lives Matter hanno stretto un patto con lo stesso Arradondo. Da una parte c’è l’impegno a isolare i vandali e i saccheggiatori. Dall’altra a vigilare sulle manifestazioni senza abusare della forza pubblica. I gestori di Facebook hanno fatto sapere che cancelleranno i post “che incitano alla violenza”. In movimento anche la politica. Il fronte conservatore ha attaccato duramente la deputata democratica e afroamericana Marine Waters che, nel fine settimana, aveva invitato gli attivisti a “non lasciare la piazza, a essere più conflittuali” in caso di “sentenza ingiusta”. La Casa Bianca osserva, per ora in silenzio. Ma Joe Biden sta valutando se tenere un discorso alla Nazione. Russia. Navalny curato in carcere con le vitamine. Gli Usa: intervengano medici indipendenti di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 21 aprile 2021 Il principale oppositore di Putin continua lo sciopero della fame da tre settimane. La Corte europea apre un procedimento sulla detenzione. È stato trasferito in una struttura sanitaria per detenuti, ma le condizioni fisiche di Aleksej Navalny non sono migliorate, secondo il racconto del suo avvocato che ha potuto incontrarlo. Il principale oppositore di Putin, in prigione per scontare una condanna che la Corte europea ha definito ingiusta, continua lo sciopero della fame mentre la stessa Corte ha notificato ieri al governo di Mosca il suo ricorso presentato contro la detenzione in carcere. Le autorità rifiutano di farlo esaminare dai suoi medici di fiducia: secondo loro, lo stato di salute del prigioniero è “soddisfacente” e i sanitari si stanno occupando di lui con una terapia a base di vitamine che sarebbe stata accettata da Navalny. Il punto è che se veramente l’uomo è in pericolo di vita e continua a non alimentarsi, la cura appare insufficiente. Il tutto mentre gli Stati Uniti chiedono che a Navalny sia immediatamente permesso di sottoporsi alle cure di medici indipendenti, secondo quanto richiesto dal Dipartimento di Stato. Intanto ci sono nuove iniziative degli organi pubblici sia contro le manifestazioni di protesta indette per domani che nei confronti dell’intero apparato organizzativo dell’opposizione legata a Navalny. L’elenco delle centinaia di migliaia di persone che avevano indicato su un sito la volontà di partecipare a una protesta di piazza è stato misteriosamente compromesso da hacker non identificati che ora hanno le email di tutti. Poi è stato avviato un procedimento per etichettare come estremista la Fondazione di Navalny contro la corruzione. Gli atti di questa iniziativa sono stati secretati, nel senso che l’avvocato della Fondazione non ha potuto vederli. Se il tribunale accetterà la tesi della Procura, i funzionari potranno essere arrestati. Anche coloro che hanno fatto una semplice donazione (e sono migliaia i russi coinvolti) possono essere denunciati penalmente. Così il direttore della Fondazione e un altro funzionario sono fuggiti all’estero. La stessa Procura ha intimato a tutti di non partecipare alle manifestazioni che non sono state autorizzate (ma avere il via libera delle autorità è impossibile). E ai social network è stato ordinato di rimuovere i post sulle proteste previste in almeno 100 città. Mentre Europa e Stati Uniti rinnovano la richiesta al Cremlino di liberare Navalny e di trattarlo umanamente, una settantina di persone hanno iniziato uno sciopero della fame di solidarietà. Tra queste anche quattro membri del comitato delle madri di Beslan, la cittadina dove centinaia di adulti e bambini morirono nel 2004 durante il sequestro dei terroristi ceceni. “È stato preso in ostaggio e lo stanno finendo. Anche i nostri figli allora non furono salvati. Noi siamo passate tramite centinaia di tribunali e abbiamo capito che in Russia i tribunali non esistono”. Russia. Lo scontro tra generazioni che si consuma sul corpo di Navalnyj di Mara Morini Il Domani, 21 aprile 2021 Quando si tratta di commentare notizie che riguardano la Russia, un analista politico si scontra sempre con contradditorie fonti di informazione. Il “caso Navalnyj” non costituisce un’eccezione. I sostenitori e la figlia del blogger russo hanno lanciato l’allarme sulle gravi condizioni di salute: “Potrebbe morire da un momento all’altro”. Dal 31 marzo Navalnyj è in sciopero della fame per protestare contro le autorità penitenziarie che gli negano la visita dei suoi medici di fiducia pur manifestando un dolore alla schiena, l’intorpidimento delle gambe, febbre e una forte tosse. La perdita di 15 chili (di cui 8 ancor prima del digiuno) e le conseguenze dell’avvelenamento da Novichok hanno accelerato lo stato di malessere. Il bollettino medico diffuso dai famigliari attesta che il potassio di Navalnyj è a 7,1 (normalmente tra 3,6 e 5,5), la creatinina a 152 (tra 80 e 114 il valore normale) e l’acido urico a 809 (fino a 420 il valore standard). Valori che confermerebbero un’imminente aritmia e/o arresto cardiaco. Dall’altro lato, le autorità russe hanno sempre sottolineato che le condizioni del prigioniero “sono soddisfacenti” e minacciato l’ipotesi di sottoporlo a un’alimentazione forzata a dimostrazione della volontà di curarlo per evitare che muoia in carcere. Sono stati anche diffusi video da Ren tv e Izvestija che mostrano il prigioniero mentre dorme tranquillamente, legge ed esegue flessioni a terra. Per il Cremlino Navalnyj è un provocatore sostenuto dalle intelligence straniere per destabilizzare il paese. Ieri il canale Rossija 24 ha mostrato una foto che compara il volto di Navalnyj a quello ubriaco dell’ex presidente Boris Eltsin; un messaggio che affianca l’immagine del dissidente al protagonista del più traumatico periodo storico del paese. I collaboratori dell’attivista hanno convocato la “più grande manifestazione della storia del paese” per oggi alle 19, lanciata dalla piattaforma online Free.Navalny.com a cui hanno aderito sinora 465.000 persone in 106 città. Nello stesso giorno in cui il presidente Vladimir Putin terrà il suo discorso alla nazione si prevede che le forze dell’ordine prenderanno tutte le misure necessarie per fermare queste “illegali” azioni di protesta. Inoltre, sono stati adottati provvedimenti legislativi che inseriscono la Fondazione per la lotta contro la corruzione di Navalnyj tra le “agenzie straniere estremiste” e, come tale, soggetta alla messa in bando e all’incarcerazione sino a dieci anni dei suoi dirigenti, dipendenti e di chiunque abbia condiviso loghi, simboli e contenuti dell’organizzazione. L’istituto di ricerca indipendente Levada ha pubblicato i risultati di un’inchiesta in base alla quale l’82 per cento dei russi è a conoscenza dell’esito del processo di Navalnyj, il 48 per cento ritiene che la condanna sia giusta, il 29 per cento sia ingiusta e il 23 per cento ha difficoltà a rispondere. Tra coloro che ritengono ingiusta la decisione, il 50 per cento è compreso nella fascia d’età 18-24, il 36 per cento tra i 25-39 mentre il 60 per cento degli over 55 condivide la sentenza. La questione generazionale sembra discriminare meglio l’atteggiamento di protesta o di consenso nei confronti del Cremlino. Navalnyj può contare sulla voglia di cambiamento in atto tra i giovani che guardano con interesse alle opportunità che l’occidente può offrire. Navalnyj è considerato il principale oppositore del Cremlino molto più all’estero che dall’opinione pubblica russa. Tuttavia, il “caso Navalnyj” costituisce una delle più significative cause di tensione e deterioramento dei rapporti con l’occidente e Putin ormai non può far finta che questo problema non esista. È probabile che il Cremlino abbia sottovalutato le capacità strategiche e il carattere ostinato e irriducibile di Navalnyj quando gli ha concesso lo scorso agosto di recarsi in Germania: rimanendo in Russia la salute di Navalnyj non avrebbe assunto una “rilevanza internazionale”. Se guardiamo ai precedenti illustri dei dissidenti nella storia della Russia di Putin, come i casi di Michail Chodordovskij e Sergej Magnitskyj, Navalnyj sta usando il proprio corpo come l’unica arma politica che gli è rimasta a disposizione per mantenere viva l’attenzione dei cittadini in vista delle prossime elezioni parlamentari. Cosa potrebbe succedere se Navalnyj dovesse morire? I suoi sostenitori rischierebbero l’oblio e l’opposizione extra-parlamentare rimarrebbe frammentata e inefficace: alcuni dei suoi più stretti collaboratori sono già scappati all’estero. Per l’occidente Navalnyj diventerebbe un martire, ma de facto verrebbe meno uno strumento per sostenere la “promozione dei diritti” in Russia, i leader europei si limiterebbero a dichiarazioni di sconcerto e applicherebbero altre sanzioni. Per Putin si risolverebbe un problema anche di livello internazionale, ma sarebbe indifferente alle accuse di essere un “killer”, come ha già dimostrato in passato. In questo contesto l’occidente non può lasciare solo Navalnyj, ma dovrà rivalutare una più efficace azione persuasiva sostituendo il dialogo e la negoziazione alla politica assertiva che sinora non ha portato risultati. Zimbabwe. Covid, amnistia per frenare i contagi nelle carceri di Luigi Mastrodonato lifegate.it, 21 aprile 2021 Lo Zimbabwe ha rilasciato circa 400 detenuti nell’ambito di un piano governativo volto a ridurre la pressione sulle carceri del paese, note per il loro sovrappopolamento e per le violazioni dei diritti umani. Il paese è in ginocchio per la seconda ondata di Covid-19 e diversi focolai sono esplosi anche negli istituti penitenziari. A beneficiare della misura sono stati i condannati per reati non violenti, ora però le ong chiedono che a essere liberati siano anche i numerosi attivisti politici e oppositori arrestati nei mesi scorsi. Intanto anche altri paesi hanno proclamato amnistie simili e pene alternative per combattere la diffusione del virus nelle carceri. Il piano di amnistia dello Zimbabwe ha origini precedenti alla pandemia. Nel 2018 il presidente Emmerson Mnangagwa, successore di quel Robert Mugabe al potere dal 1987 al 2017, ha deciso di perdonare 3mila detenuti attraverso un atto di amnistia considerato necessario per decongestionare le sovrappopolate carceri del paese. Ai tempi vi erano circa 22mila detenuti a fronte di 17mila posti e se da una parte migliaia di prigionieri sono stati effettivamente liberati, dall’altra c’è stato un incremento degli arresti negli ultimi tempi. Come denunciato da diverse associazioni per i diritti umani, le autorità hanno usato le restrizioni per il Covid-19 come pretesto per imprigionare diversi oppositori politici e giornalisti. In effetti il paese vive un certo livello di tensione politica e sociale e soprattutto nell’estate scorsa, nella capitale Harare, si sono tenute manifestazioni contro la corruzione e la malagestione dell’emergenza sanitaria. Molte persone sono state arrestate, mentre diversi rapporti recenti, anche dal Dipartimento degli Stati Uniti, hanno accusato le autorità dello Zimbabwe di uccisioni arbitrarie di civili e tortura. Anche nelle carceri del paese la situazione è critica lato diritti umani. In una singola cella si trovano a convivere fino a 25 persone e il distanziamento sociale non esiste, elementi che hanno favorito l’esplosione di focolai di coronavirus al loro interno, mentre il paese vive una seconda ondata pandemica causata dalla diffusione della “variante sudafricana” del virus. Da qui la decisione del presidente Mnangagwa di proseguire sulla strada dell’amnistia. Circa 400 persone, tutte condannate per reati non gravi, sono state liberate nelle scorse ore. La quasi totalità erano detenute nel carcere di massima sicurezza di Chikurubi, noto storicamente per le violazioni dei diritti umani e le condizioni sanitarie precarie. Le associazioni per i diritti umani stanno chiedendo al presidente di proseguire su questa strada, liberando anche le centinaia di attivisti politici e oppositori arrestati negli ultimi tempi. Quello dello Zimbabwe non è l’unico caso di amnistia nel mondo negli ultimi mesi. La pandemia ha trovato nelle carceri un ambiente molto vulnerabile, a causa della prossimità della sua popolazione ma anche del sovraffollamento endemico al sistema. In Myanmar nel 2020 sono stati liberati circa 25mila detenuti in occasione della celebrazione del nuovo anno buddista. Niente di nuovo in realtà, un atto di clemenza che si ripete cronicamente, ma l’emergenza coronavirus ha certamente dato una spinta alla portata delle ultime scarcerazioni, che hanno riguardato il doppio delle persone rispetto alle precedenti occasioni. Sempre nella primavera scorsa, la Turchia di Recep Erdo?an ha annunciato la liberazione di circa 90mila detenuti, condannati per reati comuni, a fronte di una popolazione carceraria totale di 300mila persone. Una misura volta a ridurre la pressione sul sistema più sovrappopolato del continente europeo di fronte alla diffusione del virus e che però, come nel caso dello Zimbabwe, non ha riguardato oppositori e giornalisti, oggetto da tempo di una campagna repressiva da parte del regime turco. Anche Marocco, Algeria, Tunisia e Libia hanno disposto il rilascio di migliaia di detenuti nel corso del 2020 a causa dell’emergenza sanitaria. Un’amnistia che ha riguardato nel complesso circa 15mila persone, ma che anche in questo caso non ha visto coinvolti gli oppositori politici, come il movimento marocchino Hirak. La popolazione carceraria si è poi ridotta anche nell’Occidente, sebbene non attraverso vere e proprie amnistie. Un po’ in tutta Europa, compresa l’Italia, si è cercato di favorire il ricorso alle misure alternative alla pena come i domiciliari, mentre in altri casi si è accorciato il periodo di detenzione per chi si trovasse a scontare gli ultimi mesi di condanna. Lo stesso è avvenuto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dove la popolazione carceraria è crollata di 170mila persone nel 2020 a causa del Covid-19. I dati provenienti dagli Usa mostrano d’altronde la violenza della pandemia all’interno del sistema penitenziario: oltre un terzo dei detenuti americani ha contratto il virus, contro meno di una persona su dieci nel mondo di fuori. Etiopia. La brutale guerra del Tigray sul corpo delle donne di Fabrizio Floris Il Manifesto, 21 aprile 2021 La crisi umanitaria nella regione etiope si allarga. Stupro usato come arma. E mentre il Tplf avanza e guadagna nuove reclute, gli Stati Uniti chiedono il ritiro eritreo e Sudan ed Egitto avvertono sul caso caldissimo della Grande diga. Prima era un’operazione di polizia, poi l’operazione è terminata ed è iniziata una guerra. Poi la guerra è finita, ma i combattimenti proseguono. Prima c’erano gli eritrei, poi gli eritrei se ne sono andati e invece sono ancora lì. È la narrazione che è andata avanti durante questi sei mesi di conflitto nella regione etiope del Tigray e di cui non si vede la fine, anzi le milizie del Tplf sembrano guadagnare vittorie e soprattutto nuove reclute. Tutto è molto complicato fuori dalle città e vi sono denunce di tentativi di manipolazione dei media occidentali. Secondo l’antropologa Natalia Paszkiewicz ai rifugiati del campo di Hitsats il Tplf avrebbe fatto “indossare uniformi dell’esercito eritreo” e li avrebbe obbligati a “tagliare il seno a un gruppo di donne”. Ma gli scontri tra rifugiati e Tplf avrebbero interrotto la scena. Fatto sta che le violenze continuano e i civili ne fanno per primi le spese: il 12 aprile 19 civili feriti gravi sono stati portati all’ospedale Kidane Mehret di Adua. A ferirli sarebbero stati soldati eritrei che indossavano uniformi dell’esercito etiope. Oltre la violenza delle armi sussiste la violenza dei corpi: secondo Mark Lowcock responsabile per gli aiuti umanitari dell’Onu la violenza sessuale è usata come arma di guerra nel Tigray. La crisi umanitaria, continua il funzionario, “si è aggravata nell’ultimo mese per le difficoltà di accesso in diverse aree e le persone muoiono di fame”. I problemi non riguardano solo il Tigray. La settimana è stata segnata da violenze anche nella zona di North Shewa, nella regione Amhara dove sono state uccise almeno 18 persone. Il principale indiziato delle violenze è l’Oromo Liberation Army (Ola) che tuttavia ha dichiarato di non essere presente nell’area dove sono avvenuti gli scontri. A emergere, secondo la Commissione etiope per i diritti umani, “è la brutalità delle violenze. Non sono solo gli omicidi, ma l’entità della brutalità”. Altro problema ancora in essere è la diga della rinascita etiope (Gerd). L’Etiopia intende riempire l’invaso nel prossimo mese di giugno (stagione delle piogge), ma secondo Sudan ed Egitto questo avrebbe conseguenze gravissime. I colloqui di mediazione di Kinshasa sotto l’egida dell’Unione africana sono falliti e ieri il primo ministro sudanese Abdalla Hamdok ha chiesto un vertice urgente ai leader dei tre Paesi. L’inviata del governo americano presso l’Onu Linda Thomas-Greenfield ha chiesto il ritiro delle truppe eritree dall’Etiopia “immediatamente” dopo le denunce di stupri e violenze sessuali. L’Eritrea ha respinto le accuse di abusi e un alto funzionario ha dichiarato alla Bbc che le accuse sono “fabbricate”. Al Consiglio di sicurezza Onu l’ambasciatore eritreo Sophia Tesfamariam ha dichiarato che “il ritiro delle forze eritree è iniziato, poiché la minaccia è stata sventata”, ma per Lowcock “non ci sono prove del ritiro”. Una lunga cicatrice percorre testa e spalla del Paese, come una collana rotta. Ciad. Idriss Déby, il presidente-maresciallo ucciso dai ribelli al nord di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 21 aprile 2021 Ferito negli scontri con i miliziani, è morto appena rieletto per il sesto mandato. L’offensiva puntava a raggiungere la capitale per rovesciarlo. Ora 18 mesi di transizione guidata dal figlio poi il voto, annunciano i generali. I ribelli puntavano a raggiungere la capitale per rovesciarlo. Idriss Déby invece gli è andato incontro: appena rieletto per un sesto mandato, il presidente-maresciallo del Ciad si era recato a visitare le truppe impegnate nella linea del fronte, nel Nord del Paese. Militare di carriera, 68 anni, Déby è morto dopo essere rimasto ferito dai miliziani. L’esercito stava cercando di fermare i ribelli che dalle loro basi libiche sabato scorso avevano lanciato un’offensiva con l’obiettivo di arrivare alla capitale, Ndjamena, e deporlo. Da oltre due anni il Nord del Ciad è teatro della ribellione del Fronte per l’alternanza e la concordia del Ciad (Fact). Il gruppo armato l’11 aprile aveva sferrato un attacco che era stato rivendicato ed espressamente collegato alle elezioni presidenziali, iniziate lo stesso giorno. Il 17 aprile l’esercito si era contrato con i ribelli nel Kanem, provincia che dista soltanto 300 km dalla capitale. Qui potrebbe essere rimasto ferito Déby. In carica dal golpe del 1990, da tempo Déby non aveva più il consenso della popolazione: per impedire ogni alternanza politica democratica e assicurarsi il potere reprimeva le manifestazioni, imbavagliava le opposizioni, compiva arresti arbitrari, diversi candidati dell’opposizione anche in questa tornata elettorale erano stati costretti a farsi da parte. Nel 2019 Déby aveva fatto votare una legge ad hoc alzando a 45 anni l’età per potersi candidare, così da tenere fuori gli oppositori più giovani. L’Occidente, Francia in primis, ha chiuso un occhio sugli abusi del regime e il suo pugno di ferro perché il Ciad è diventata una base strategica nella lotta contro il terrorismo nel Sahel. Ora ci saranno 18 mesi di transizione seguiti da “libere elezioni”, ha annunciato in tv il portavoce dell’esercito. Capo della transizione è uno dei suoi figli: Mahamat Idriss Déby, generale a quattro stelle già a 37 anni e comandante della guardia presidenziale, guiderà il consiglio militare incaricato di sostituire il padre. Le “libere elezioni” previste tra un anno e mezzo sono una difficile scommessa, non ristretta ai confini del Ciad.