Cartabia rivoluziona le carceri: 130 milioni per spazi più umani di Francesco Grignetti La Stampa, 20 aprile 2021 Il piano con i soldi del Recovery: otto nuovi padiglioni e quattro istituti per minori ristrutturati. “Il carcere deve avere finestre aperte su un futuro, deve essere un tempo volto a un futuro di reinserimento sociale, come esige la Costituzione. Ma le modalità debbono diversificarsi, debbono tenere in considerazione le specificità di ogni situazione”. Sa usare parole alte e nobili, ma anche concrete, la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, parlando dei penitenziari. Che si trovi a Bergamo a commemorare la scomparsa di un cappellano indomito quale era Fausto Resmini, morto un anno fa per Covid, oppure a Roma in audizioni parlamentari, la ministra ripete sempre il suo impegno per un carcere diverso. E ora, grazie ai soldi del Recovery, ha l’occasione di mettere la prima pietra del carcere che verrà. C’è un capitolo nel Piano che il Governo Draghi sta per sottomettere all’attenzione delle Camere e di Bruxelles. Titolo: “Miglioramento degli spazi e della qualità della vita nei penitenziari per adulti e minori”. Spesa prevista, 132,9 milioni di euro, di cui un terzo servirà per ammodernare quattro istituti per minorenni (a Roma, Benevento, Torino e Bologna) e due terzi per costruire otto nuovi padiglioni e per una campagna di manutenzione straordinaria in altri. Saranno padiglioni di nuova concezione, prototipi di un carcere che vuole imboccare una strada diversa. Non mera detenzione, ma rieducazione alla vita sociale. E perciò avranno celle per dormirvi la notte, ma civili, quasi dei monolocali per uno o due detenuti, e poi spazi adeguati per studio, lavoro, tempo libero e sport. Il principio è scolpito nelle righe di accompagnamento: “Definire un’architettura penitenziaria di nuova concezione, che riveda le strutture carcerarie con l’obiettivo di aumentare gli spazi comuni intramurali, per ottenere e accrescere l’esperienza di una reale prospettiva del reintegro nella società e nel recupero della persona”. In pratica, la ministra Cartabia ha fatto sua un’esperienza avviata dall’ex sottosegretario alla Giustizia, Andrea Giorgis, Pd, che come ultimo atto del precedente governo aveva insediato una commissione con a capo un famoso architetto, Luca Zevi, vicepresidente nazionale, impegnato nel restauro degli edifici e dei centri storici, progettista del Museo della Shoah a Roma. Zevi ha spiegato la sua visione del carcere del futuro in un articolo su Il giornale dell’architettura: “Un modello di istituto di dimensioni contenute, inserito e permeabile ai contesti urbani, piuttosto che segregato in “lande desolate” e occultato da un imponente muro di recinzione. Un organismo complesso, nel quale tutti i requisiti che caratterizzano la vita libera (a eccezione, naturalmente, della libertà di muoversi all’esterno) - ovvero il diritto al lavoro, alla formazione, alla creatività, al tempo libero, allo sport, alla socialità, a una residenza in gruppi/appartamento anziché in celle allineate lungo corridoi che formano bracci e raggi - venissero garantiti, attraverso una riproduzione quanto più fedele possibile delle condizioni di un’esistenza normale, alla quale il trattamento penitenziario è chiamato a riabilitare”. E infatti sembra cestinato il vecchio modello di padiglione, che a parità di dimensioni ha celle per 120 detenuti e minimi spazi comuni. Nulla per il lavoro. I nuovi 8 padiglioni che il Dap si prepara a costruire, in carceri già esistenti, avranno celle per 80 detenuti al massimo, ma con adeguati spazi per il lavoro e il tempo libero. La struttura stessa del padiglione dovrà ricordare una civile abitazione perché l’obiettivo è rieducare il detenuto alla vita normale, non “infantilizzarlo”, come ha ben detto il Garante peri diritti dei detenuti, Mauro Palma, che partecipa anch’egli ai lavori della commissione. Oltre che in tanti Paesi europei, un modello di questo carcere nuovo in Italia esiste già. Si trova a Bollate, fuori Milano, dove i detenuti lavorano e studiano tutto il giorno e poi rientrano in cella per le 8 ore della notte. Si preparano così al ritorno nella società. Ed è dimostrato dalle statistiche che qui la recidiva è minima rispetto alle medie. E non è un caso se a Bollate la vita quotidiana scorre senza particolari tensioni, come non manca di segnalare la polizia penitenziaria. I nuovi padiglioni saranno sostenibili ecologicamente, cablati e digitalizzati. La cablatura servirà per tenere corsi a distanza, ma anche per la telemedicina, e per la videosorveglianza. La scommessa è questa, ovviamente per detenuti a basso rischio. “Il carcere - ha concluso infatti la ministra a Bergamo - non è una realtà omogenea. Chi conosce il carcere da vicino sa bene che è una realtà che ha tanti volti diversi e ha bisogno di strumenti adeguati ad ogni condizione: la risposta che l’ordinamento deve approntare di fronte al crimine commesso da un ragazzo che si è fatto intrappolare nella rete della tossicodipendenza non può essere la stessa di chi ha commesso una violenza sessuale o di chi partecipa al crimine organizzato”. Cartabia: rieducare tutti i detenuti, sull’ergastolo legge necessaria di Errico Novi Il Dubbio, 20 aprile 2021 Messaggio sulla necessità di conciliare “diritto alla speranza” e “valore dell’educazione” Poi la guardasigilli assicura: “Riprese le vaccinazioni in cella, col Dap chiediamo rapidità”. “Il carcere deve avere, per tutti, finestre aperte su un futuro, deve essere un tempo volto a un futuro di reinserimento sociale, come esige la Costituzione. Ma le modalità debbono diversificarsi, tenere in conto le specificità di ogni situazione”. È la frase chiave di un intervento pronunciato, ieri a Bergamo, dalla guardasigilli Marta Cartabia destinato a essere l’architrave di tutto il futuro dibattito politico sull’ergastolo ostativo. La ministra della Giustizia interviene pochi giorni dopo la sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la preclusione, prevista per i mafiosi condannati al fine pena mai, del beneficio più importante, la liberazione condizionale. E se ha appunto ricordato che, per la Consulta, quella ostatività è “in contrasto con la Costituzione”, ha tenuto a segnalare anche l’altro risvolto: la preclusione andrà rimossa “nel rispetto di regole specifiche e adeguate”. Un discorso che rivela come nella visione di Cartabia, l’umanità della pena non separi mai il diritto alla speranza dal rigore. Marta Cartabia parla spesso di carcere. Ne ha parlato tante volte da giudice e presidente della Consulta. Lo ha fatto nei primi 60 giorni da ministra della Giustizia. Ma le parole pronunciate ieri a Bergamo durante la visita per l’intitolazione del carcere a don Fausto Resmini pesano di più, perché arrivano pochi giorni dopo la sentenza sull’ergastolo ostativo. E l’investitura conferita dalla Corte costituzionale al legislatore è una prova che la guardasigilli non elude. Lo lascia intendere in un ampio intervento sul valore del “reinserimento sociale”, non scindibile dalla “forte educazione” di cui ha dato un magistrale esempio proprio don Resmini, capellano nel carcere di Bergamo per trent’anni, prima di morire per Covid nel marzo 2020. Il passaggio chiave, per la ministra, è nell’accostamento fra il percorso sofferto da giovani “intrappolati” in attività illegali e chi è a pieno titolo coinvolto in organizzazioni mafiose: “Il carcere non è una realtà omogenea: chi lo conosce il da vicino sa bene che ha tanti volti diversi e ha bisogno di strumenti adeguati ad ogni condizione”. E appunto, “la risposta da approntare di fronte al crimine commesso da un ragazzo che si è fatto intrappolare nella rete della tossicodipendenza non può essere la stessa di chi ha commesso una violenza sessuale o di chi partecipa al crimine organizzato”. È il cuore della riflessione. Diritto alla speranza per tutti non vuol che il trattamento non debba prevedere differenze. Certo, ricorda Cartabia, “per tutti il carcere deve avere finestre aperte su un futuro, deve essere un tempo volto a un futuro di reinserimento sociale, come esige la Costituzione. Ma le modalità debbono diversificarsi, tenere in conto le specificità di ogni situazione”. Da qui la guardasigilli trae lo spunto per il passaggio sulla sentenza della Consulta: “Mi pare sin da ora si possa ritenere che la Corte ha già individuato nell’attuale regime dell’ergastolo ostativo elementi di contrasto con la Costituzione, ma chiede al legislatore di approntare interventi che permettano di rimuovere l’ostatività tenendo conto della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e quindi nel rispetto di regole specifiche e adeguate”. Rilievo non didascalico. Sembra piuttosto un’anticipazione della linea che Cartabia terrà sulla “attuazione” della sentenza. Di cui, dice, si dovranno “leggere con attenzione le motivazioni”. Rigore nella diversità dei reati oggetto della pronuncia, ma in ultima analisi nessuna possibilità di opporsi al dettato della Corte, come invece nello scorso fine settimana ha proposto la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. Si ha insomma una prima idea del messaggio con cui la ministra si impegnerà affinché l’ergastolo non si trasformi in una mina per la maggioranza. Lo spirito del rigore che non preclude la speranza è nelle parole rivolte, sempre ieri, da Cartabia agli ospiti della comunità educativa per minori di Sorisole, in provincia di Bergamo, intitolata a don Milani. Don Resmini ne è stato direttore, e di lui, spiega la ministra, “mi rimane innanzitutto questa completezza con cui affrontava il problema della giustizia: mentre aveva grande attenzione ai detenuti, al loro disagio, nel frattempo ha costruito una grande opera educativa. Il binomio educazione e giustizia è quello che mi colpisce, sia perché la giustizia deve mirare alla rieducazione sia perché credo che nello spirito di don Fausto la forte educazione possa anche prevenire tanti guai con la giustizia e con la società”. Discorso che sembra voler rivelare un’ispirazione non “buonista”, ma imperniata sull’idea della vera carità. D’altra parte Cartabia, nel carcere della città martoriata dal Covid, non può sottrarsi neppure dal ricordare come “abbiamo attraversato tutti, la città di Bergamo ancora di più ma tutti, un periodo che potrebbe deprimere la voglia di ricostruire”. Ora “abbiamo bisogno di incontrare realtà in cui scocchi quella scintilla di fiducia tra le persone, la società e le istituzioni che ci facciano mettere tutti all’opera”. Però il carcere è un luogo diverso, “isolato”, e lì il disagio “può rischiare di spegnere del tutto la fiducia e la speranza, come provano i drammatici suicidi tra agenti, personale e detenuti”. E ieri si è tolto la vita un altro recluso, stavolta al 41 bis di Avellino. In un penitenziario, ricorda la guardasigilli, “tante problematiche connesse alla salute si amplificano”, e anche per questo “ci auguriamo che il vaccino possa dare sollievo a tutti e speriamo possa essere, oltre che una fondamentale protezione sanitaria dal virus, anche una luce capace di alleviare le non meno faticose sofferenze psicologiche che la pandemia ha portato con sé”. Ed è proprio sulle somministrazioni negli istituti di pena che la ministra della Giustizia dà un’informazione importante: “Ho appena ricevuto dal commissario Figliuolo la comunicazione che sono riprese le vaccinazioni in carcere”. E si deve andare avanti così, “procedere con le vaccinazioni”, e a questo scopo, assicura Cartabia, “il capo del Dap Bernardo Petralia e io stessa siamo in continuo contatto con le autorità competenti perché il piano vaccinale non subisca interruzioni fino al suo completamento”. I numeri dicono che “ad oggi, a livello nazionale sono risultati positivi al Covid 737 detenuti, 478 agenti di polizia penitenziaria e 41 addetti alle funzioni centrali, mentre sono stati coinvolti nel piano vaccinale 9.624 detenuti, 16.819 agenti e 1.780 addetti”. Attenzione. Carità. Diritto alla speranza. Educazione intesa nel rigore del suo significato. Cartabia non pretende di scrivere da sola la “legge attuativa” della sentenza sull’ergastolo. Ma mette sul tavolo una prospettiva forte. E anche chi si dice contrario alla decisione della Consulta, al punto da illudersi di poterla contrastare, con quella prospettiva dovrà fare i conti. Ricordati delle carceri, Figliuolo di Annarita Digiorgio Il Foglio, 20 aprile 2021 Il generale Figliuolo la vaccinazione nelle carceri non la voleva proprio fare. È da febbraio che, fosse stato per lui, l’avrebbe sospesa, eliminandola dalle priorità in cui era stata inserita sin dal piano Speranza/Arcuri di dicembre scorso. L’avvicendamento col nuovo governo aveva rafforzato questa priorità, prima con le parole del ministro Cartabia poi, inaspettatamente, con quelle del presidente Draghi che aveva sottolineato l’importanza di vaccinare i detenuti addirittura durante il discorso di fiducia (votata anche da Salvini). Fino all’ordinanza scaccia-furbetti del 9 aprile. Dopo tre mesi di campagna vaccinale, quando si sono accorti che anziani e fragili attendevano ancora la loro dose, e molte regioni continuavano a far passare avanti a loro corporazioni in base al potere contrattuale, il generale ha pensato bene di ristabilire l’ordine bloccando categorie e comunità in favore di fragilità e coorti anagrafiche. Il guaio è che da questo ordine sono saltate le carceri. Che secondo Figliuolo sono equiparate al mondo esterno, e quindi da vaccinare per età. Ma come si fa a considerare i reclusi dei furbetti come i dipendenti pubblici siciliani o i magistrati toscani? Dai dati del monitoraggio settimanale Covid nelle carceri, fermi a lunedì 12 aprile, su 52.466 detenuti 821 sono positivi e 8.485 vaccinati, Mentre per 36.939 agenti penitenziari ci sono 573 positivi su 15.998 vaccinati; e tra i 4.021 del personale amministrativo, 41 positivi con 1.683 vaccinati, Per la prima volta i presidenti di regione hanno mostrato più senso di responsabilità del generale: “Ma come si fa a vaccinare in un carcere secondo le fasce d’età?”. Celle che in Italia oltre a essere le più sovraffollate d’Europa, sono anche quelle con più anziani: il 26 per cento di detenuti ha più di 50 anni a fronte di una media europea del 14 per cento. Ieri è arrivato il dietrofront ufficiale con una nuova ordinanza annunciata dal ministro Cartabia: “Ci auguriamo che il vaccino possa dare sollievo a tutti e speriamo possa essere, oltre che una fondamentale protezione sanitaria da un virus così insidioso, anche in carcere una luce capace di alleviare le non meno faticose sofferenze psicologiche”. “Questo, se da un lato ci rincuora - ha detto la Uil Penitenziaria - dall’altro ci conferma che la sospensione era stata effettivamente disposta e ciò è indice di un complessivo approccio alle tematiche carcerarie ancora superficiale ed estemporaneo”. L’ergastolo ostativo è incostituzionale: non ricompaia sotto mentite spoglie di Stefano Anastasìa Il Domani, 20 aprile 2021 La decisione era attesa quanto contrastata, e così la Corte costituzionale ha tirato fuori dal suo cilindro l’ultimo dei suoi ritrovati: la sentenza a efficacia differita. Era stato così nel caso Cappato, del suicidio assistito di Dj Fabo, ed è stato così nel caso del reato di diffamazione a mezzo stampa. La Corte ha dato al legislatore un anno di tempo per sanare “per via politica” le violazioni della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti umani insite nel cosiddetto “ergastolo ostativo”, l’ergastolo senza possibilità di revisione, se non nel caso della collaborazione con l’autorità giudiziaria. Le premesse di questa decisione erano nella sentenza della Corte europea sui diritti umani nel caso Viola e in quella della stessa Corte costituzionale sulla possibilità per gli ergastolani ostativi di accedere ai permessi-premio. Nell’uno come nell’altro caso, le Corti hanno ritenuto che la collaborazione con la giustizia non possa essere una condizione insuperabile per l’accesso a benefici e alternative al carcere e che i giudici dovessero avere la possibilità di valutare ogni altro elemento emergente da una lunga detenzione, dalla partecipazione del condannato all’offerta trattamentale e alla vita in carcere, così come dall’attualità delle sue relazioni con l’associazione criminale di provenienza. Anche in questo caso, dunque, è facile immaginare che la Corte motiverà la sua decisione con l’opportunità di restituire al giudice la possibilità di valutare tutti gli elementi utili alla concessione o meno della liberazione condizionale dell’ergastolano. Non è un “liberi tutti” - Nessun liberi tutti, quindi, come qualcuno ha detto, dice e dirà, ma piena responsabilità al giudice di sorveglianza di valutare il percorso umano e detentivo di ogni singola persona, senza che essa sia inchiodata al passato o a un atteggiamento processuale che non sempre dice la verità di una persona, che potrebbe collaborare strumentalmente con l’autorità giudiziaria così come potrebbe non collaborare per timore di ritorsioni nei confronti suoi o dei suoi cari, perché non ha nulla di nuovo da dire all’autorità giudiziaria o perché - dopo tanti anni - professa ancora la sua innocenza. La questione di fondo era e resta la funzione della pena e se il potere punitivo abbia dei limiti. Non a caso, ricordiamolo, la Costituzione non si limita a orientare l’esecuzione penale al reinserimento sociale dei condannati, ma afferma categoricamente che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, così come la Convenzione europea dei diritti umani vieta espressamente le pene o i trattamenti inumani o degradanti. Il potere punitivo - E la questione dell’ergastolo ostativo, dell’ergastolo senza possibilità di revisione, dell’ergastolo effettivamente scontato fino alla morte (lo scorso anno sono morti in carcere undici ergastolani), comporta per l’appunto questo: l’annichilimento del condannato, la sua riduzione a cosa per fini altrui, fossero pure i più nobili o i più urgenti, come quello di una efficace lotta alle organizzazioni criminali (che, sia detto per inciso, chi scrive non pensa possa compiersi né esclusivamente, né principalmente con gli strumenti della repressione e del diritto penale). Quanto questo annichilimento contrasti l’idea della dignità umana (quella stessa che ci fa condannare così severamente le organizzazioni mafiose e i loro crimini) lo disse in maniera insuperabile il filosofo Aldo Masullo nella discussione dell’ultimo disegno di legge per l’abolizione dell’ergastolo che sia riuscito ad arrivare in un’aula parlamentare, correva l’anno 1997: “di fronte al problema dell’ergastolo la domanda che ci dobbiamo porre non è se esso violi o non violi il sacrosanto diritto alla vita, ma se violi il sacrosanto diritto dell’uomo all’esistenza, che è cosa distinta. Vita è quella di tutti gli animali, ma l’esistenza è cosa squisitamente umana, perché esistere designa la condizione che noi sperimentiamo momento per momento, dell’incessante nostro perdere parte di noi stessi, del nostro essere scacciati dall’identità nella quale stavamo al riparo e il nostro essere sbalzati verso un’altra identità. L’accidente del mio perdere ogni volta qualcosa di me si accompagna inevitabilmente all’apertura di una nuova possibilità. Nel momento in cui perdo qualcosa, nel momento in cui la foglia che sto guardando cade, si apre la possibilità di una nuova fioritura. L’ergastolo è la negazione di tutta la vita residuale dell’uomo. Esso è la negazione all’uomo di ciò che lo caratterizza più profondamente nel suo esistere. L’ergastolano, nella sua condizione, di momento in momento, di ora in ora, vede morire parte di se stesso senza che nasca alcuna possibilità nuova”. Un anno di tempo - Non sappiamo e non possiamo prevedere cosa riuscirà a fare il Parlamento in quest’anno che la Corte gli ha dato. Probabilmente nulla. Del resto il tema era in agenda da tempo, così come quello del suicidio assistito o quello della diffamazione a mezzo stampa, e quando la Corte costituzionale adotta decisioni a efficacia differita, sostanzialmente denuncia l’inazione del legislatore e la sua delega alla giurisdizione di questioni che non è stato capace di dirimere. Certo è che il Parlamento non potrà decidere contro quello che la Corte ha già detto e che leggeremo nelle motivazioni della sentenza: l’ergastolo ostativo è incostituzionale, e dunque non potrà ricomparire sotto altre spoglie, come qualcuno già si affretta ad affermare, ignorando i poteri e gli equilibri della nostra democrazia costituzionale. Nel frattempo, sarebbe ora che i giudici di sorveglianza comincino a valutare le richieste di permessi-premio degli ergastolani ostativi, in modo che magari, tra un anno, quando la nuova decisione della Corte sarà efficace, qualcuno di essi possa presentare una domanda di liberazione condizionale con speranza di successo. La deriva della Corte costituzionale di Vincenzo Vitale L’Opinione, 20 aprile 2021 Per capire come e quanto la Corte costituzionale sia ormai preda di una pericolosa deriva - e noi tutti vi siamo trascinati - basti considerare ciò che essa ha fatto pochi giorni or sono. Chiamata a valutare la eventuale illegittimità costituzionale di una norma, che esclude dal beneficio della liberazione condizionale gli ergastolani condannati per reati di mafia che non abbiano collaborato con gli investigatori, la Corte ha dichiarato illegittima la norma, ma ha evitato di cassarla - come avrebbe dovuto per semplice rispetto delle norme costituzionali e delle leggi che gliene fanno specifico obbligo - dando al Parlamento oltre un anno di tempo per modificarla. Sicché, oggi, abbiamo un esito sconcertante per uno Stato di diritto, quale il nostro dovrebbe essere, ma non è: una norma già dichiarata incostituzionale dalla Corte per contrasto con l’articolo 3 e con l’articolo 27 della Costituzione, ma che invece continua tranquillamente dentro l’ordinamento a sopravvivere come nulla fosse. Insomma, una vera follia istituzionale, spacciata per normalità. Si tratta invece di una gravissima ferita costituzionale inferta al nostro ordinamento, costretto a far permanere la vigenza di una norma che tutti sappiamo contraria alla Costituzione - cioè alla legge fondativa della nostra comunità politica - e che invece continua ad espletare i propri effetti. E che diremo allora a quegli ergastolani - pochi o molti che siano - i quali, se la Corte avesse cassato la norma già valutata illegittima, come era suo preciso dovere fare, avrebbero potuto giovarsi di questa pronuncia, beneficiando della liberazione condizionale? Diremo, con evidente e grande imbarazzo, di aver pazienza, di attendere un annetto e che poi si vedrà. Una figura a dir poco imbarazzante in termini di semplici rapporti umani. Una gravissima lesione dell’ordinamento giuridico in termini istituzionali. E per di più consumata nientemeno che dalla Consulta, cioè dall’organo che avrebbe lo specifico compito di tutelare la Costituzione da possibili violazioni, da qualunque parte provengano. Cosa si direbbe se, a titolo d’esempio, un giudice di un qualunque Tribunale prima dichiarasse pubblicamente che un certo imputato è colpevole del reato ascrittogli, perché le prove sono certe e inoppugnabili. Ma, subito dopo, invece di condannarlo alla pena di spettanza, gli dicesse solennemente all’incirca quanto segue: per ora, benché tu sia colpevole, non ti condanno; ti assegno un anno di tempo, vedi tu che ti riesce di combinare nel frattempo. Magari riesci a risarcire il danno alla vittima del reato… magari ti riesce di far rimettere la querela… così ti guadagni almeno una attenuante… vedi un po’ e fra un anno ci rivediamo. Ebbene, se davvero un giudice facesse questo, tutti lo prenderebbero per matto e ne chiederebbero subito l’esclusione dalla magistratura, per il semplice motivo che costui cercherebbe di sostituire alla logica del diritto - che egli dovrebbe custodire - la logica della politica, dell’opportunità, della circostanza. Il che è esattamente ciò che ha fatto la Corte costituzionale, proponendosi quale terza Camera, accanto alle altre due tradizionali. Infatti, valutare e dichiarare una norma illegittima; evitare di abrogarla; rinviare di oltre un anno; dare un termine al Parlamento, invitandolo ad intervenire sulla norma già dichiarata incostituzionale: sono tutti comportamenti tipici dell’azione politica e non certo di quella giurisdizionale quale dovrebbe invece essere quella della Consulta. Per questa ragione dobbiamo, con grande preoccupazione, registrare una pericolosa deriva da cui essa è afflitta, una deriva che appare devastante per la nostra povera Italia, dal momento che non si sentiva il bisogno di una Terza Camera quale la Corte è diventata. Una Corte che si macchia, dunque, di una pericolosa invasione di campo nei confronti del Parlamento. E Sergio Mattarella? Infranto il teorema: o pentito o mafioso di Alberto Cisterna* Il Riformista, 20 aprile 2021 La decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo ha suscitato contrapposte prese di posizione, e prevale tra quanti si attendevano una decisione definitiva l’impressione che la Consulta abbia voluto guadagnare tempo e riservarsi l’ultima parola sul punto solo se costretta (chiare le parole di V. Zagrebelsky, “Se la Corte sceglie di non decidere”, su La Stampa del 16 aprile). Dar tempo al Legislatore, come insegna la vicenda Cappato, è in gran parte inutile in questo paese e l’ostinazione con cui la Corte applica un rigido self-restraint in casi come questo è il segno che anche questa partizione della Costituzione dovrebbe essere ampiamente rimaneggiata per conferire all’Alto consesso i poteri di intervento che la modernità e il consolidarsi di una legislazione multilivello (regionale, nazionale, europea, sovranazionale) esigerebbero ormai. Certo la presenza di un ministro della Giustizia di altissimo spessore induce, questa volta, a qualche speranza. Se non fosse che l’oculato e misurato comunicato stampa della Consulta evoca scenari tutt’altro che rassicuranti circa la possibilità di una reale riforma; soprattutto in presenza di una legislatura al suo secondo quadrante e con una maggioranza eterogenea e fortemente contrapposta sui temi della giustizia. Veniamo al pronunciamento della Corte, o meglio, all’anticipazione delle motivazioni a sostegno della dilazione temporale concessa al Parlamento (maggio 2022). Poche righe che, per un verso, hanno dato forza alle tesi abolizioniste e, per altro, hanno lasciato un barlume di speranza ai teorici dell’oltranzismo sanzionatorio. Una scelta, certo, non casuale che concede al legislatore poche opzioni sul versante dell’ergastolo ostativo, ma che gli lascia mano ampia sul crinale della collaborazione di giustizia. Il regime attuale è chiaro: se sei mafioso e non collabori non puoi accedere alla liberazione condizionale. Questo regime è, secondo il giudizio già anticipato dalla Corte, incostituzionale perché “...tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. Punto e a capo. Sennonché la Consulta non si è limitata a questo rilievo sulla singola norma - con un contegno per così dire ortodosso e in linea con le sue funzioni - ma è andata oltre constatando che “... l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Ragione per cui si deve “consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. Qui la questione si complica, e non di poco. Si prefigura una sorta horror vacui, ossia il timore che - rimuovendo il divieto per i condannati per mafia - si possa aprire una falla nell’intero sistema di contrasto alla criminalità organizzata. Una valutazione di scenario certamente politica, anche se non irrituale nella giurisprudenza della Corte. Veniamo alle parole. Il tema della “peculiare natura” del delitto di mafia introduce argomenti e suggerisce riflessioni molto ampie che, in questa sede, possono essere solo menzionate. È chiaro che, negli ultimi tre decenni, si è costruito non solo un binario sanzionatorio, processuale e penitenziario alternativo a quello applicato ai reati ordinari, ma si sono anche poste le basi per una più profonda classificazione dei detenuti distinguendoli non sulla scorta della loro personalità, ma delle condotte di cui rispondono. Un approccio antropologico radicale ed esclusivo fondato su una sorta di teorema per cui il mafioso non si deduca mai, almeno che non diventi un pentito. Secondo questo pensiero solo la collaborazione di giustizia può smentire la presunzione assoluta che avvinghia il condannato per mafia, poiché l’umanità del mafioso non è emendabile in alcun modo e ogni atteggiamento remissivo durante la sua detenzione è una mera finzione. Libri di basso conio, film, serie televisive, interviste, dichiarazioni di asseriti esperti hanno alimentato e sostenuto questa presunzione conseguendone la inevitabile implementazione normativa; proprio quel radicamento legislativo con cui le Corti nazionali ed europea sono ora chiamate a fare in conti tra mille dubbi e cautele. Per sviluppare un dibattito sul punto che coinvolge l’etica del legislatore, la sua capacità di costruire un sistema normativa scevro da suggestioni, campagne di stampa e connessi carrierismi, occorrerebbe trovare un punto di riflessione in comune. Punto di riflessione che, al momento, semplicemente non esiste. Talmente sedimentata è la convinzione che il mafioso sia sempre mafioso - ossia che la mafia sia innanzitutto una scelta esistenziale e interiore irretrattabile e non uno dei modi (neppure il più conveniente) per arricchirsi illecitamente - che in questa impostazione è impossibile ritenere che il carcere possa davvero emendare, correggere, purgare, risollevare. Solo se ti penti e collabori, solo allora lo Stato può fidarsi di te, perché compi una scelta incompatibile con il tuo status interiore, rinnegandolo. Uno stereotipo vetero-antropologico, ovviamente, ma ampiamente e agguerritamente sostenuto da un manipolo di agitatori più o meno interessati. Ecco la Corte, con le poche parole di quel comunicato, sembra voler infrangere definitivamente il muro di questo teorema e riportare al centro della discussione l’idea, democratica e costituzionale, che non si possono creare correlazioni tra pena e pentimento o generalizzazioni tra mafia e collaborazione di giustizia. Eppure il punto di crisi dell’assolutismo carcerario sarebbe abbastanza evidente se la detenzione non corregge e non rieduca di per sé, ci si dovrebbe chiedere il pentimento cosi auspicato da quali pulsioni interiori deriva. Se il trattamento non aiuta l’emenda interiore, perché la delazione dovrebbe meritare una così decisa considerazione. In fondo sono, sono state quasi sempre, scelte di mero interesse. L’ergastolano collabora, quasi sempre, perché soffre la detenzione e la sua durezza. Ma questo cosa abbia a che vedere con la Costituzione e con la funzione rieducativa della pena, non è chiaro. Certo si può e si deve conservare l’importanza della collaborazione di giustizia in tema di mafia che, però, già l’ordinamento (dal 1991) favorisce e incoraggia. Impedire la concessione personalizzata e motivata dei benefici carcerari da parte del giudice di sorveglianza sino a quando non si collabori è un modo per ammettere che il carcere è uno strumento di pressione e di coercizione e non il luogo della rieducazione. Ecco chi sostiene le ragioni infrante dalla Corte costituzionale dovrebbe uscire dalla penombra dei giudizi morali e delle valutazioni antropologiche e dire la verità sul punto. Certo non guasterebbe prima aver letto qualcosa di serio e proveniente da ambienti scientifici non contaminati dal sospetto, a esempio Frederick Schauer, “Di ogni erba un fascio. Generalizzazioni, profili, stereotipi nel mondo della giustizia”, Cambridge Mass., 2003, d’alt. 2008. Ma per troppi è chiedere troppo. *Magistrato Abbiate il coraggio di ammetterlo: siete per la pena di morte di Tiziana Maiolo Il Riformista, 20 aprile 2021 Abbiate il coraggio di dirlo, se volete seppellire in un buco nero quel vecchio che un giorno fu ragazzo crudele. Se volete condannarlo alla morte sociale senza tenere in nessun conto il suo cambiamento, allora siete per la pena di morte. E’ così. In Italia c’è una parte della classe politica e della magistratura favorevole alla pena capitale. Non lo dicono, ma lo pensano. Vogliono eliminare dalla società civile coloro che hanno commesso gravi delitti o che comunque per reati di mafia o terrorismo siano stati condannati. Li vogliono togliere di mezzo, nasconderli dietro l’ergastolo ostativo e non vederli più, cancellarli, annientarli. Esprimono una forma di ferocia vendicativa, anche se ben nascosta, nel momento in cui negano alla persona l’esistenza come individuo e fanno coincidere il reo con il reato. Per questi soggetti - esponenti politici o pubblici ministeri che siano - non esistono il mafioso o il terrorista, ma solo la mafia e il terrorismo. Chiudendo le porte del carcere con il “fine pena mai”, hanno così chiuso la vita stessa del condannato. Mi ha colpito l’intervista (Sole 24 ore, 18 aprile) alla dottoressa Alessandra Dolci, coordinatrice della Dda di Milano da quando è andata in pensione Ilda Boccassini. Un magistrato che, ne sono certa, si considera di sicura fede democratica e contraria alla pena di morte. E anche, persino, a un eccessivo uso delle manette. Tanto da dire che “in un inondo ideale sarei pure d’accordo nel destinare il carcere solo a pochi criminali a elevatissimo tasso di pericolosità. Purtroppo però non viviamo in un inondo ideale”. Anche perché, in un inondo “ideale”, o forse anche soltanto in rum società liberale, dovrebbe essere soprattutto il concetto di prigione come unica forma di pena, a essere messa in discussione, prima ancora che il numero di persone da catturare. E tralasciamo una questioncina piccola piccola, che è quella del carcere preventivo, cioè quella custodia cautelare che riempie le carceri del 40% del totale dei detenuti e che è semplicemente una forma di pena anticipata, nei confronti di colpevoli e innocenti. Ma guardiamo alla qualità della detenzione. Non è ammissibile che magistrati ed esponenti politici ignorino due riforme essenziali dell’ordinamento penitenziario del passato, quella del 1975 e la Gozzini del 1986. Cui andrebbe aggiunta quella che ha cambiato radicalmente nel 1989 il codice di procedura penale. Stiamo parlando di cose del secolo scorso, certo. Ma se hai vinto un concorso per entrare in magistratura o se hai vinto le elezioni e sei entrato in Parlamento non puoi ignorarle. Proprio come siamo tutti obbligati, dal momento che abbiamo almeno il diploma della scuola dell’obbligo, a saper leggere scrivere e far di conio. Ma pare non essere così. È vero che nel corso degli anni nessun Parlamento ha avuto il coraggio di abolire l’ergastolo come era stata abolita (per due volte, dopo che il fascismo l’aveva ripristinata) la pena di morte, ma l’insieme delle riforme del secolo scorso l’aveva nei fatti reso inoffensivo, fissando allo scadere dei 26 anni di carcere il momento per poter chiedere l’accesso alla liberazione condizionale. E le mura dei penitenziari erano state rese valicabili anche dalle misure alternative. Questi importanti cambi di passo erano stati una vera rivoluzione copernicana, che metteva al centro il detenuto, prima del reato. Il “trattamento” è l’apriscatole per il percorso di cambiamento della persona. Il reato è lì, fermo e immutabile, fa parte della storia da cui non si può tornare indietro. Ma l’individuo cambia. Nel suo discorso programmatico alle Commissioni giustizia di Camera e Senato la ministra Marta Cartabia ha messo t’accento con particolare passione sulla necessità che nel processo penale entri la “giustizia riparativa”, punto di incontro tra chi ha rotto il patto con la comunità e chi ne è rimasto vittima. L’opposto del concetto di pena eterna, di carcere senza speranza. Un inno al cambiamento. Vorrei chiedere ai vari Salvini o Meloni (tralasciamo per un attimo la banda dei Cinque Stelle) o Grasso, o ad altri di sinistra, piuttosto che alla dottoressa Dolci e a tutti i suoi colleghi “antimafia”, se riescono a volgere i propri occhi all’indietro per un attimo e a guardare se stessi come erano dieci o venti o trent’anni fa. Che cosa vedete, quale persona vedete rispetto a quel che siete oggi? Rispondete con sincerità e poi riflettete. Quando nel nostro ordinamento furono introdotti l’ergastolo ostativo e l’articolo 41bis, erano appena stati ammazzati dalla mafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il che determinò (cosa dm non dovrebbe mai accadere) una reazione emotiva da parte del Parlamento e la conseguente approvazione di norme incostituzionali. Cosa che l’Alta Corte non ha mai fino a poco tempo fa voluto constatare. Ma i tanti piccoli passi cui ci sta conducendo oggi, insieme a una se rie di sentenze della corte di cassazione, dovrebbero servire a far aprire gli occhi anche a chi finora non ha voluto vedere. Per esempio, quando vengono sbloccati il divieto di saluto tra detenuti, o l’impossibilità di tenere cibo o di leggere un giornale o di sottoporsi alla fisioterapia se si è gravemente malati, mi domando, quanti leader politici che straparlano di buttare la chiave, conoscevano l’esistenza di questi divieti vessatori? O c’è ancora qualcuno che pensa che il carcere speciale, o anche quello normale, siano hotel di lusso? La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato più volte l’Italia per i suoi trattamenti inumani e degradanti nelle carceri. Tra questi c’è il “fine pena mai” dell’ergastolo ostativo. Oso dire che la gran parte dei detenuti al carcere a vita è profondamente cambiato. Non è l’intuizione di un’ottimista sognatrice, è la realtà scritta nero su bianco da decine e decine di operatori e volontari che ogni giorno si dedicano al “trattamento” dei detenuti. E anche da tanti giudici di sorveglianza, categoria di magistrati spesso sottovalutata. Vede, dottoressa Dolci (e con lei i tanti suoi colleghi “antimafia”), quando lei dice “in assenza di elementi di collaborazione, come è possibile arrivare a dire con esattezza che il detenuto ha rescisso i legami con l’associazione criminale di provenienza?” è a questo inondo carcerario che dovrebbe chiedere. A persone che trattano con altre persone. Con quei detenuti che non sono la fotografia di quel che ciascuno di loro era alla data in cui hanno commesso il delitto, ma che sono i protagonisti di un film che si è evoluto nel corso del tempo. Se lei, se voi, guardate solo quell’immagine fissa, se volete seppellire in un buco nero quel vecchio che un giorno fu ragazzo crudele, allora dite chiaramente che volete la condanna a morte. Siate sinceri e ditelo, almeno. Giustizia, il processo breve in quattro anni cancella la prescrizione di Liana Milella La Repubblica, 20 aprile 2021 Venerdì 23 aprile, nella commissione Giustizia della Camera, scade il termine per presentare gli emendamenti alla riforma del processo penale. Tutto il centrodestra e Italia viva vanno all’assalto della “odiata” riforma Bonafede. Il caso Grillo acuisce i contrasti. In via Arenula gli esperti di Cartabia sono al lavoro per le modifiche proporrà la ministra. Si avvicina l’ora del destino della prescrizione dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. E non solo, ma anche quella dei futuri tempi del processo, la cui rapidità figura come una promessa nel piano per ottenere i miliardi del Recovery plan. Ma il destino coinvolge anche il processo di Appello, con quali limiti continuerà ad esistere. E le azioni disciplinari contro il pm “colpevole” di impiegare troppo tempo nelle sue indagini e che non deposita rapidamente, e con i dovuti omissis, le carte per garantire un congruo diritto di difesa. E ovviamente anche le intercettazioni, il loro uso (e per i nemici dello strumento “l’abuso”). E la sorte che avranno il rito abbreviato e il patteggiamento, antichi fiori all’occhiello del nuovo codice del 1989. Venerdì 23 aprile, ore 12. È la data segnata in rosso sul calendario della commissione Giustizia della Camera. Scadenza rossa soprattutto per il centrodestra di governo, Lega, Forza Italia, Azione, e all’opposizione, Fratelli d’Italia. Data rossa anche per Italia viva. Mentre il M5S gioca in difesa per salvare il più possibile della riforma Bonafede. Il Pd punta soprattutto sulla giurista Marta Cartabia, la ministra che in via Arenula ha messo al lavoro il gruppo presieduto da Giorgio Lattanzi, l’ex presidente della Consulta che l’ha preceduta nello stesso incarico, giurista ed ex presidente della prima sezione penale della Cassazione, quella deputata ad affrontare e risolvere i casi giuridicamente più difficili. Sarà una partita difficilissima, sulla quale da ieri incombe anche il caso di Beppe Grillo, il suo video a difesa del figlio, le polemiche durissime che ne sono scaturite. Un giustizialista divenuto improvvisamente garantista se a finire nelle mani dei pm è un parente strettissimo. Una partita sicuramente ricca di colpi di scena. Sulla quale, almeno fino a ieri sera, tutti giocavano a carte molto coperte. Nessuna indiscrezione ancora sulle richieste di emendamento. “Sicuramente saranno molte...” ammette Pierantonio Zanettin di Forza Italia ed ex laico del Csm che se ne sta occupando. E che aggiunge: “Anche se la Cartabia ci ha raccomandato di limitarci...”. Prescrizione processuale, il progetto di Leu e Pd di Giulia Merlo Il Domani, 20 aprile 2021 Di rinvio in rinvio, il termine per gli emendamenti al disegno di legge di riforma del processo penale sta per scadere. Tutti i gruppi parlamentari sono al lavoro per presentare le loro proposte entro venerdì 23 aprile alle 17 e il testo rischia di essere l’ennesimo campo di battaglia in commissione Giustizia alla Camera, che ha visto contrapporsi due schieramenti all’interno della maggioranza. Da una parte il centrodestra di Lega e Forza Italia insieme a Italia viva, dall’altro Partito democratico con Leu e Movimento 5 stelle. Il fronte politicamente più caldo è quello della modifica della prescrizione, che è stato il cuore della riforma Bonafede e uno dei baluardi dei grillini. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, sta vigilando per evitare scontri e, al momento del suo insediamento, ha ottenuto la fiducia di tutta la maggioranza con il ritiro degli emendamenti che avrebbero potuto far esplodere una crisi. Il patto, però, era che comunque la norma che stoppa la prescrizione dopo il primo grado sarebbe stata modificata. Ora il tentativo di Pd e Leu è quello di proporre una modifica che non sconfessi interamente il progetto di Bonafede ma che ne corregga alcuni effetti, offrendo garanzie maggiori agli assolti. Obiettivo: “smitizzare” la prescrizione e riportarla nell’alveo del più ampio meccanismo processuale penale e nello sforzo di ridurre la durata dei processi. Sul fronte di Leu il più impegnato è il deputato Federico Conte, da cui ha preso il nome il cosiddetto lodo Conte bis, redatto durante il governo Conte II e che aveva trovato l’accordo anche dei Cinque stelle, che doveva modificare la norma Bonafede differenziando i condannati in primo grado dagli assolti, ripristinando per questi ultimi il decorso della prescrizione. La proposta - Proprio a partire dall’accordo politico su questo testo, Conte sta redigendo un emendamento che recepisca il lodo Conte bis, a cui aggiungere anche un meccanismo di prescrizione processuale per il secondo grado. L’emendamento prevedrà l’introduzione di una sanzione processuale: in caso di condanna in primo grado la prescrizione si stoppa ma se l’appello dura più di due anni (tempo considerato nel ddl penale come congruo per la durata di questo grado di giudizio), il condannato in secondo grado ottiene uno sconto di pena, fissato in 45 giorni per ogni 6 mesi di durata del processo in più rispetto ai due anni previsti. Nel caso di assoluzione in primo grado in cui la sentenza sia stata impugnata, se il processo di appello non si svolge entro due anni, la conseguenza processuale dovrebbe essere l’estinzione del processo (ferme restando le azioni civili), traducendo l’inerzia dello stato in perdita di interesse all’azione penale. “Questa proposta muove dallo schema del lodo Conte bis, di cui rappresenta uno sviluppo e interviene nella fase di appello per introdurre presidi processuali ai termini di fase già individuati nel disegno di legge delega. In piena coerenza con l’impostazione sul tema data dalla ministra Cartabia”, ha detto Conte. Se ogni gruppo presenterà propri emendamenti, l’impostazione di Conte è coerente anche con le intenzioni del Pd. I dem stanno lavorando alle loro proposte ed “è ragionevole pensare anche al tema del rispetto dei tempi e dei termini dei gradi processuali, oltre i quali - se sussistono determinate condizioni - si potrebbe lavorare a una sorta di prescrizione processuale. Ma con una drastica riduzione dei tempi del processo il tema della prescrizione si ridimensiona drasticamente”, ha detto Water Verini, membro della commissione Giustizia. L’obiettivo di Pd e Leu sarebbe quello di trovare una soluzione condivisa di compromesso che non tagli fuori il Movimento 5 stelle ma che si muova in coerenza con le richieste di Cartabia e soprattutto non presti il fianco agli attacchi di quella parte di maggioranza - Enrico Costa di Azione, Italia viva e Forza Italia in testa - che punta a cancellare la riforma grillina. Riforma penale, la gara degli emendamenti tra Cartabia e Montecitorio di Liana Milella La Repubblica, 20 aprile 2021 Ma come trattenersi se in ballo c’è l’odiata/amata prescrizione? Amata dai 5S che l’hanno proposta con Bonafede. Per dire che i tempi della prescrizione si fermano dopo la sentenza, ma solo di condanna, di primo grado. Anche quella volta - era novembre del 2018 - con un emendamento che cambiava a sorpresa pure il titolo della legge penale inserendo in un articolo di poche righe la nuova prescrizione, e che scatenò subito una bufera perché a presentarlo non fu il Guardasigilli, ma la relatrice Francesca Businarolo di M5S. C’era il governo gialloverde, e subito la Lega con la ministra per la Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno protestò parlando di “bomba atomica sul processo penale”. Adesso l’ora della prescrizione è arrivata. La Lega, come allora, fa parte del governo. La Bongiorno muove le pedine della giustizia con i suoi parlamentari. Come si è visto nel caso delle intercettazioni. Fioccheranno le richieste per buttare giù la prescrizione di Bonafede perché anche il compromesso raggiunto con la mediazione dell’ex premier Giuseppe Conte - il lodo Conte-bis - non piace a nessuno. Perché le Camere penali con il loro leader Gian Domenico Caiazza martellano ogni giorno. E questo sarà certamente il punto più sofferto dell’intero disegno di legge. L’unica via d’uscita, il compromesso possibile, adombrato dallo stesso Bonafede nelle ultime ore del suo governo, quando il precipitare degli eventi gli impedirono - il 27 marzo al Senato, il 29 all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, il 30 in Calabria, dov’era riuscito a realizzare l’aula bunker di Lamezia Terme per il processo Rinascita Scott del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri - di spiegare quale fosse la sua soluzione. E cioè un processo penale talmente breve e celere - due anni in primo grado, uno in appello e uno in Cassazione per 4 anni complessivi - tale da annullare per ciò stesso la prescrizione. Una formula che vedrebbe d’accordo sia M5S che Pd e che sarebbe difficile da contestare da parte delle opposizioni. “Stiamo predisponendo gli emendamenti. Certo. Ma non so dire quanti saranno alla fine. Certo i punti da modificare della legge sono tanti per noi...” ammette Lucia Annibali, la responsabile Giustizia di Italia viva che proprio sulla prescrizione ha fatto una battaglia nel precedente governo cercando di spostare il termine di entrata in vigore il più avanti possibile. La stessa battaglia di Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione, che già dalle fila di Forza Italia aveva cannoneggiato contro la prescrizione di Bonafede in tutte le occasioni possibili cercando di far cadere il governo in un tranello parlamentare. Anche lui non vuole rivelare nulla degli emendamenti: “Ci sito lavorando - dice -. Saranno molti. La legge va cambiata in tantissimi punti. Non soltanto sulla prescrizione”. C’è da scommettere che da lui arriveranno richieste sulle responsabilità del pm quando le indagini durano troppo. Il Pd cerca di fare da pontiere tra l’ansia della destra per una giustizia del tutto garantista e il giustizialismo di M5S. Il capogruppo in commissione Giustizia Alfredo Bazoli dice che “sì, gli emendamenti non saranno moltissimi, ma non saranno neppure pochi”. E quel fascicolo, sul tavolo di Cartabia, rivelerà il necessario compromesso tecnico da raggiungere per non spaccare la maggioranza. Non sarà una sfida facile. Neppure per una mediatrice nata come Marta Cartabia. “Chi sono i magistrati che mi fanno paura” di Pietro Senaldi Libero, 20 aprile 2021 Franco Coppi: “La verità è che la politica ignora i problemi della giustizia, che si abbattono soprattutto sui cittadini comuni, e che ai magistrati interessa più la loro politica interna, correntizia, piuttosto che quella del Palazzo. E la prova è che tutti parlano dei mali dell’amministrazione dei tribunali, però sono discorsi che sento da più di cinquant’ anni senza che sia mai stata trovata una soluzione. Anzi, ho l’impressione che, più se ne parla, meno si fa e più i mali della giustizia si aggravano. Prenda la lunghezza dei processi: sembravano eterni già negli anni Settanta, oggi durano ancora di più La ragione di tutto questo? Sciatteria, è la prima parola che mi viene in mente”. C’è un uomo solo che può parlare delle relazioni tra magistratura e politica senza essere accusato di imparzialità, perché ha difeso da pesantissime accuse dei pm i due leader più longevi della storia della Repubblica, Andreotti e Berlusconi, e li ha fatti assolvere, ma non ha mai ceduto alle lusinghe del Parlamento, che pure lo ha corteggiato. La sua toga è immacolata, il suo nome è Franco Coppi. L’avvocato più famoso d’Italia è disincantato, la passione per il diritto è la stessa di un ragazzino, malgrado gli 82 anni, la disamina è amorevolmente spietata, la diagnosi lascia poche speranze perché non si intravede volontà di ravvedimento operoso. “Riforme ne sono state fatte negli anni”, per una volta il tono è quello della requisitoria e non dell’arringa, “ma stando ai risultati sono state quasi tutte inutili, non ho visto miglioramenti”. Devo dedurne che la giustizia italiana è irriformabile? “Nulla lo è, a patto che ci sia la volontà. Riformare davvero richiede il coraggio delle proprie decisioni e la disponibilità a esporsi a critiche anche feroci. Se pensi a quanti voti perdi se separi pm e giudici o se togli l’abuso d’ufficio, non vai da nessuna parte. Devi fare quel che ritieni giusto, senza curarti delle conseguenze”. I politici dicono che riformare la giustizia è impossibile perché i giudici non vogliono… “Io penso invece che temano di perdere il consenso se toccano la magistratura”. Ma la magistratura non ha perso credibilità negli ultimi anni? “Comunque meno della politica”. I politici dicono di temere la reazione dei pm, pronti a indagarli se smantellano il suo potere… “Io non credo che ci sia una guerra della magistratura contro la politica tout court. Non creiamo falsi problemi: la magistratura ha un potere enorme ma quello del legislatore è ancora più grande. Se il Parlamento avesse la forza di cambiare la legge, alla fine Procure e Tribunali sarebbero costretti ad assoggettarsi”. Secondo lei quindi è stata la politica a cavalcare la magistratura più che la magistratura a tenere sotto scacco la politica? “Questa è un’analisi che contiene della verità: certo alcune parti politiche hanno speculato sulle disavventure giudiziarie degli avversari. Sgradevole che quasi sempre sia avvenuto prima della sentenza definitiva, che spesso è stata di assoluzione, come nei processi che ho seguito per Andreotti e Berlusconi. Però, se intendo il senso provocatorio della sua domanda, il fatto che una giustizia così screditata sia in un certo senso funzionale agli interessi della politica è una tesi suggestiva e non infondata”. Ma se la politica non è ferma per timore della reazione della magistratura, perché allora la subisce? “Sudditanza psicologica? O piuttosto anche una forma strana di indifferenza rispetto ai problemi. Il Parlamento oggi sembra avere dimenticato il motto latino “Iustitia fondamentum regni”: con istruzione e sanità, il funzionamento dei tribunali è il cardine di un Paese civile. Noi invece abbiamo messo anche la giustizia in lockdown, ma i danni sono irreparabili”. È così difficile apportare queste modifiche? “Basterebbero 24 ore. Però temo che uno dei grandi problemi sia il deficit di competenza. La politica in realtà non sa dove mettere le mani per migliorare il diritto. Non ha gli uomini, dovrebbe appaltare la riforma della giustizia a una commissione di una dozzina di giuristi”. I giudici insorgerebbero subito… “Se le proposte fossero concrete e ragionevoli, non potrebbero opporvisi. E anche se lo facessero, chi se ne importa?”. Ritiene che le toghe siano troppo politicizzate? “Di magistrati ne ho conosciuti tanti. Sono una piccola parte quelli condizionati dalla politica”. Captatio benevolentiae… “Guardi, ho visto molti più giudici influenzati dall’opinione pubblica, dai giornali o dalle mode che dalla politica. C’è chi mi ha confessato, prima dell’udienza, di essersi fatto un’opinione guardando i talkshow”. Le intercettazioni di Palamara però hanno rivelato che Salvini è a processo perché ritenuto un avversario politico e non un sequestratore di immigrati... “Sarebbe una cosa spregevole”. Cosa pensa di quello che sta venendo fuori sulla magistratura? “Non tutto è una novità, di certe cose si parlava da tempo. La cosa più sgradevole è il sistema di nomine, tutte raccomandazioni, dispute, calcoli: se fosse davvero così, sarebbe sconcertante”. Che quadro ne emerge della magistratura? “Un potere autoreferenziale concentrato su se stesso, più interessato alla politica interna che a quella nazionale”. Vede segnali di pentimento nella casta in toga? “Vedo imbarazzo nei molti magistrati onesti. È auspicabile che l’intera categoria si senta ferita”. Cambierà qualcosa? “Per cambiare serve volontà. Quel che vedo non mi fa essere ottimista”. Bisognerebbe abolire l’Associazione Nazionale Magistrati? “L’abolizione del parlamentino delle toghe è un problema che non mi sono mai posto. La sua esistenza mi lascia indifferente: se c’è, è naturale che si divida in correnti, ma i problemi veri della magistratura sono altri”. Quali, secondo lei? “Vedo troppa anarchia nei tribunali, ogni giudice fa quel che gli pare e i processi hanno spesso sviluppi cervellotici, sfociano in sentenze imprevedibili. Avrei paura a essere giudicato da questa magistratura”. Colpa del Consiglio Superiore della Magistratura? “Il Csm non può intervenire sui processi ma sui comportamenti deontologici dei giudici. È il capo degli uffici, il Procuratore o il Presidente del Tribunale che deve far lavorare i suoi sottoposti e mettere un argine a decisioni e comportamenti stravaganti. Solo che, appena lo fa, si parla di attentato all’indipendenza del giudice. Invece secondo me è indispensabile un capo che riprenda e metta ordine”. La sua ex collaboratrice, Giulia Bongiorno, ha detto che nell’esame di magistratura bisognerebbe inserire un test psicologico. Lei sarebbe d’accordo? “Sono d’accordo che servirebbero mezzi di selezione più rigorosi. Non è ammissibile che si diventi magistrati, acquistando diritto di vita e di morte sugli italiani, dopo due o tre compitini di legge. Ci vorrebbero esami più articolati attraverso i quali saggiare anche la preparazione morale e spirituale e l’equilibrio psicologico e politico del candidato”. Ipotizza anche verifiche nel corso della carriera? “Queste dovrebbero farle i capi dei giudici. In realtà credo che bisognerebbe dare più importanza alla produzione di un giudice per valutarne gli avanzamenti di carriera. Oggi si procede solo per anzianità, ma questo ti porta in processi importanti, magari in Cassazione, a trovarti davanti a giudici che mai avresti immaginato a certi livelli. Dovrebbero contare anche i processi vinti o persi e le sentenze impugnate o cassate. Come in tutti i lavori, il risultato deve avere un peso nella carriera. Trovo molte diversità nei livelli di preparazione di una toga rispetto a un’altra”. Si dice che i giudici non pagano mai per i loro errori... “Lavorare sotto il timore di uno sbaglio che può costare caro toglie serenità e distacco”. Però lei se sbaglia, paga... “Io non ho mai desiderato fare il giudice perché mi angoscerebbe l’idea di decidere sulla sorte di un uomo. Pensi che ci sono certi processi, dove non sono riuscito a far assolvere imputati che ritenevo innocenti, per i quali ancora non dormo la notte a distanza di anni”. Che qualità dovrebbero essere indispensabili per un giudice? “A parte la preparazione tecnica, che non sempre riscontro, un giudice deve avere equilibrio e umanità, per ricostruire i fatti e valutarli. Deve essere dotato di un alto valore morale e sociale, perché diventa interprete della realtà che sta vivendo”. Si ha l’impressione che certe sentenze vogliano cambiare la società anziché seguirne l’evoluzione... “Talvolta nelle motivazioni dei verdetti c’è la volontà di impartire qualche lezioncina. Però quando parlo di valore morale non voglio dire intento moralizzatore, che è una cosa dalla quale il giudice dovrebbe sempre rifuggire”. Le mutazioni della società hanno portato anche a una proliferazione delle fattispecie di reato... “Alcuni nuovi reati sono inevitabili, come quello che punisce le comunicazioni sociali che manipolano il mercato. Altri sono gratuiti”. Tipo il femminicidio o i reati della legge Zan? “Talvolta introdurre un nuovo reato serve al legislatore per levarsi il pensiero. C’è un problema sociale? Creo un reato e sparo una condanna, così ho la coscienza a posto e mi mostro sensibile. La realtà è che bisognerebbe depenalizzare, non creare nuovi reati; oggi abbiamo liti di condominio che finiscono in Cassazione”. Com’ è cambiata la giustizia da che ha iniziato lei? “Essendo anziano non vorrei passare per un laudator temporis acti, ma non posso evitare di constatare un degrado generale, nella magistratura quanto nell’avvocatura. Ricordo che un tempo, quando andavo ad ascoltare i grandi per imparare, c’erano livelli di discussione giuridica ben più alti. Oggi, a causa anche del carico di lavoro eccessivo, i tribunali sono diventati delle fabbriche del diritto, le sentenze vengono scritte in fretta. Ma sono nostalgico anche anche per quanto riguarda la cifra stilistica: girando per le aule mi sembra che manchino l’eleganza e il decoro di un tempo”. È stato più facile far assolvere Andreotti o Berlusconi? “Quello di Andreotti è un processo che non si sarebbe dovuto tenere”. E quello di Berlusconi, l’ha vinto in punta di diritto? “No, l’ho vinto sui fatti: quelli contestati non configuravano un reato”. Però si era messa male ... Per vincere non ho dovuto scalare le montagne, molto lavoro era stato fatto dai miei predecessori, io ho dovuto solo convincere i giudici che la qualificazione giuridica dei fatti portava necessariamente all’assoluzione”. Fortuna che quella volta non si è imbattuto in un giudice moralista? “Non sono un mondano, la sera preferisco stare a casa con mia moglie e le mie figlie, abitiamo tutti vicini. Però alle cene di Arcore ci sarei andato, e mi sarei pure divertito”. Perché ha chiamato il suo cane Ghedini? “Perché me l’ha regalato proprio Niccolò. Io sono un grande cinofilo. Il cane si chiama Rocki, io gli ho dato un cognome, ma è un gesto d’affetto verso chi me l’ha donato. Mi ha fatto un regalo che mi ha commosso e del quale gli sarò sempre grato”. Procura di Roma, il Csm difende il capo Prestipino: “Più esperto di mafia di Lo Voi” di Liana Milella La Repubblica, 20 aprile 2021 Palazzo dei Marescialli si rivolge al Consiglio di Stato contro la decisione del Tar del Lazio che aveva annullato la nomina di Prestipino a favore di quelle del Pg di Firenze e del procuratore di Palermo. Per il Csm Michele Prestipino deve restare procuratore di Roma. Tant’è che oggi pomeriggio - come Repubblica ha scoperto - la commissione per gli incarichi direttivi, con 5 voti contro uno, ha deciso di ricorrere al Consiglio di Stato contro la decisione del Tar del Lazio che invece il 22 febbraio aveva accolto i ricorsi del procuratore generale di Firenze Marcello Viola e del procuratore di Palermo Franco Lo Voi. È ancora una storia senza una fine certa quella della procura di Roma. Il cui vertice era divenuto nel 2019 un “pezzo” del caso Palamara per via dell’incontro dell’8 maggio all’hotel Champagne in cui Luca Palamara, con i deputati Luca Lotti (Pd) e Cosimo Maria Ferri (allora Pd, oggi renziano), e cinque consiglieri in carica del Csm poi dimessisi, faceva strategie per far vincere il Pg di Firenze Viola. Ma un anno dopo, il 4 marzo del 2020, il Csm ha scelto Michele Prestipino, già procuratore aggiunto a piazzale Clodio quando al vertice c’era Giuseppe Pignatone, andato in pensione a maggio del 2019. I concorrenti della prima votazione del 23 maggio 2019 - Viola, Lo Voi, il capo della procura di Firenze Giuseppe Creazzo - hanno fatto ricorso al Tar del Lazio. Che ha riconosciuto in parte le ragioni di Viola e di Lo Voi, mentre ha bocciato il ricorso di Creazzo, nel frattempo finito sotto azione disciplinare per via di alcune sue presunte avance nei confronti della collega di Palermo Alessia Sinatra. Storia complicata questa della procura di Roma, uno degli uffici giudiziari più importanti d’Italia. Ma che oggi vede una nuova puntata. Importante. Perché la commissione che decide i capi degli uffici e i loro vice (direttivi e semi-direttivi) ha deciso di confermare indirettamente la nomina di Prestipino ricorrendo al Consiglio di Stato contro il Tar. Lo aveva già fatto nel caso di Viola, sostenendo che i giudici amministrativi non avevano ragione nel sostenere che la bocciatura del Pg di Firenze - che invece nel 2019, sponsorizzato a sua insaputa (perché non c’è alcuna chat o intercettazione che lo coinvolge) da Palamara e soci, era stato designato come vincitore dalla commissione - non era stata motivata adeguatamente. Invece il Csm adesso ha sostenuto che proprio i fatti dell’hotel Champagne, nonché le dimissione di due dei 6 componenti della commissione dell’epoca, potevano ben giustificare la mutata decisione. Infatti, a prescindere dalle responsabilità di Viola, comunque la proposta che lo vedeva vincitore era inquinata da comportamenti illeciti altrui. Stavolta invece, nel caso di Lo Voi, la motivazione del Csm punta su un altro argomento del tutto tecnico e professionale. Che ha convinto cinque dei 6 componenti, il presidente di Autonomia e indipendenza (la corrente di Davigo) Giuseppe Marra, il vice di Area Giuseppe Cascini, nonché il laico di Forza Italia Alessio Lanzi, Michele Ciambellini di Unicost, Filippo Donati laico indicato da M5S. Si è astenuta invece Loredana Micciché, toga di Magistratura indipendente, che quel 4 marzo aveva votato per Lo Voi. La motivazione della commissione è semplice, anche se contenuta in un lungo parere che sarà votato mercoledì in plenum e poi sarà presentato al Consiglio di Stato. Michele Prestipino “batte” Lo Voi per la sua esperienza più lunga e più variegata nel contrasto alle mafie, poiché per più di vent’anni tra Palermo, Reggio Calabria e Roma - procure dove ha sempre rivestito il ruolo di procuratore aggiunto - ha acquisito più “punti” rispetto a Franco Lo Voi che ha lavorato alla procura di Palermo come pm, ma poi è stato al Csm e giudice di Eurojust. Adesso la partita decisiva la giocherà il Consiglio di Stato dove si è già svolta l’udienza per il ricorso di Viola, e la cui decisione dovrebbe essere depositata tra un mese, e che poi a seguire si pronuncerà su Lo Voi. Avellino. Detenuto suicida in carcere: s’è impiccato al termosifone della cella di Rossella Grasso Il Riformista, 20 aprile 2021 Una nuova tragedia si abbatte nelle carceri campane. Domenico, 55enne, si è tolto la vita nel carcere di Bellizzi Irpino. Era arrivato il primo aprile. Il suo è il terzo suicidio in pochi giorni. Padre di tre figli, la prima figlia oggi festeggiava il suo 28esimo compleanno. Pugliese di nascita, arrestato nel novembre dello scorso anno era giunto da Foggia da poco. L’ultimo suicidio nel carcere di Bellizzi risale al 2018. Durante la notte Domenico approfittando del sonno dei compagni di cella si è tolto la vita impiccandosi a un termosifone. A darne notizia è stato Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania. “In Italia dall’inizio dell’anno ci sono stati 15 suicidi nelle carceri - ha detto il Garante - Nei primi mesi dell’anno si sono già registrati due suicidi in Campania: un sedicenne che si è tolto la vita in una comunità del? Casertano? e un detenuto del carcere di? Santa Maria Capua Vetere che si è ucciso dopo appena tre giorni dal suo ingresso in cella. Domenico, che si è suicidato oggi era giunto il primo aprile nel carcere di Bellizzi Irpino, è il terzo”. “Anche se i suicidi sono ascrivibili a diverse motivazioni - continua Ciambriello - il carcere continua ad uccidere. Continuo a ribadire la necessita di implementare progetti rieducativi e umanizzanti, distribuendoli su tutto il corso della giornata, al fine di combattere l’isolamento. E poi più figure sociali di accompagnamento (Psicologi, psichiatri, pedagogisti, educatori), più attività di inclusione, di lavoro, di studio e formazione”. “In questo periodo di distanziamento sociale dovuto all’emergenza sanitaria sono ancor più venuti a mancare i contatti con i propri affetti, la comunicazione, l’ascolto e la presenza di figure sociali”, conclude Ciambriello. Parma. Bomba sanitaria al carcere. L’Asl: “Non siamo in grado di assistere 220 detenuti gravi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 aprile 2021 È la risposta dell’azienda locale, sollecitata dal Garante nazionale sul caso di Vincenzino Iannazzo, detenuto al 41 bis al carcere di Parma. La pena, recita la nostra Costituzione, non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Vale per tutti, anche per chi si è macchiato di delitti mafiosi. In più aggiunge che non è ammessa la pena di morte. Eppure in questo momento è in atto un grave problema che rischia di disattendere tali principi, compreso il preservare la vita dei reclusi. Nel carcere di Parma, in particolar modo il centro clinico, non si è più in grado di dare assistenza ai detenuti che hanno gravi patologie fisiche. Lo scrive nero su bianco la Asl locale tramite una segnalazione alle autorità. Accade così che Vincenzino Iannazzo detenuto al 41 bis nel carcere di Parma, con gravi patologie fisiche e psichiche, necessiti di assistenza intensiva, ma l’autorità sanitaria scrive nero su bianco che “l’assidua assistenza nello svolgimento delle attività quotidiane (H24), così come la corretta assunzione sopraindicata (terapia e alimentazione, ndr), non sono garantite in questi istituti”. Non solo. La Asl approfitta per segnalare un problema generale. Vale la pena riportare il passaggio del documento che Il Dubbio ha potuto visionare. “Si approfitta dell’occasione per segnalare che tali assegnazioni senza preavviso presso i nostri Istituti al fine di avvalersi del Sai per soggetti con patologie - si legge nella missiva - , necessitanti in ogni caso assistenza sanitaria intensiva, sta mettendo in seria difficoltà lo standard assistenziale di questa Unità Operativa: ad oggi si contano in Istituto circa n. 220 persone malate e con età avanzata, per la maggior parte allocate presso le Sezioni Ordinarie comprensibilmente inadeguate per la loro assistenza”. La relazione della Asl dopo la richiesta del garante sulle condizioni di un recluso - Tale relazione sul carcere di Parma nasce su richiesta del Garante nazionale delle persone private della libertà, per accertare le problematiche segnalate dall’associazione Yairaiha Onlus in merito alla vicenda del recluso Vincenzino Iannazzo. Il responsabile sanitario infatti, dopo aver illustrato la modalità di trasferimento (senza preavviso e privo dei farmaci necessari, condizione questa già segnalata dal dirigente sanitario al direttore che a sua volta informava il Gip, il ministero, il provveditorato regionale e l’ufficio di sorveglianza e anche dall’associazione Yairaiha all’ufficio del Garante) riassume le patologie di cui è affetto Iannazzo: insufficienza renale cronica in paziente trapiantato di rene e fistola arterovenosa arto sup. sn.; demenza a corpi di Lewy con deterioramento cognitivo grave e Vasculopatia cerebrale cronica; cardiopatia ipertensiva; calcolosi della colecisti; sindrome ansioso-depressiva; spondiloartrosi diffusa. Una volta giunto al centro clinico, i medici hanno potuto accertare non solo tutte queste malattie, ma anche un aggravio. Soprattutto quello mentale. Iannazzo, che ricordiamo è al 41 bis, presenta allucinazioni visive e uditive. Si apprende che dal punto di vista cognitivo è presente un deterioramento cognitivo di grado grave caratterizzato da “una compromissione multi-dominio con gravi deficit di tutte le funzioni cognitive (memoria, funzioni esecutive, attenzione, prassi, ragionamento e linguaggio)”. Viene da pensare perché sia al 41 bis, visto che tale regime nasce non per torturare o per estorcere confessioni, ma per evitare che un boss dia ordini al proprio gruppo mafioso di appartenenza. Nonostante tutte queste patologie, su richiesta dell’Ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia, è stata prodotta una relazione medico legale nella quale il dottore si è espresso, nel complesso, per una situazione gestibile anche in ambiente carcerario, nonostante le criticità neurologiche, ma solo a patto “che al detenuto venga garantita un’assidua assistenza nello svolgimento delle attività quotidiane in merito alla corretta assunzione sia della terapia che dell’alimentazione”. Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha: “Questa è la rieducazione?” - Ma, com’è detto, la Asl dice chiaramente che al carcere di Parma non sono in grado di poter garantire un’assidua assistenza sanitaria. Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha, spiega a Il Dubbio che la prevalenza delle loro segnalazioni sono relative a gravi, se non gravissime, problematiche di salute che all’interno delle strutture penitenziarie non riescono ad essere affrontate e ciò vanno a “configurare quel trattamento inumano e degradante che la nostra Costituzione, e prima ancora la nostra umanità, vietano espressamente”. Berardi denuncia con forza: “Mi chiedo che senso abbia la detenzione per una persona come Iannazzo e per tutti quelli si trovano in condizioni simili. Qual è la funzione che esercita su di loro? Questa è la rieducazione? È così che si realizza la sicurezza dell’Italia? Qual è il pericolo che corre la società da questa persona tanto da dovergli continuare ad applicare il regime di 41 bis?”. E conclude: “La scorsa estate, per Iannazzo è stato rinnovato il decreto applicativo del 41 bis ed è stata presentata opposizione dai suoi legali (ad oggi il ricorso risulta ancora pendente al Tribunale di Sorveglianza); un caso in cui mi sembra corra l’obbligo del differimento della pena, come da Costituzione e leggi attualmente in vigore”. Una situazione critica già segnalata in un documento del marzo 2020 Il carcere di Parma è una casa di reclusione che al suo interno è suddivisa in quattro strutture: una per i detenuti in alta sicurezza (AS3), un’altra per i detenuti comuni di media sicurezza, un’altra ancora per l’alta sicurezza per gli ex 41 bis (AS1) e infine il 41 bis. Oggi risultano 14 detenuti positivi al covid, 10 solo al 41 bis. Fortunatamente non hanno condizioni preoccupanti. A prescindere dall’emergenza covid, la questione sanitaria è in difficoltà. Il centro clinico del carcere di Parma - adibito per un massimo di 29 posti - è diventato un punto di riferimento anche per gli altri penitenziari: inviano i loro detenuti (anche comuni) malati che, una volta superata la fase diagnostica, rimangono però nel carcere. Il risultato è quello denunciato dalla relazione della Asl che Il Dubbio ha reso pubblico oggi: 220 persone malate e con età avanzata, per la maggior parte allocate presso le Sezioni Ordinarie comprensibilmente inadeguate per la loro assistenza. Questo fa il paio con l’altro documento, sempre reso pubblico da Il Dubbio, che uscì nel pieno della prima ondata. Vale la pena ricordarlo, anche perché - paragonato con la relazione attuale - sembrerebbe che la situazione sia rimasta invariata. Il centro clinico ospita detenuti con trapianti, immunodepressi, diabetici scompensati, carcinomi, lesioni ossee. A tutto questo si aggiunge un altro elemento critico. “Preme segnalare - si legge nel documento risalente a marzo del 2020 - che sono state disposte allocazioni inappropriate direttamente dall’amministrazione penitenziaria, senza alcuna certificazione o parere medico”. Non solo. La Asl parte dal presupposto che il centro clinico - secondo l’accordo Stato- Regioni del 2015 - ospita in ambienti penitenziari detenuti che, per situazioni di rischio sanitario, possono richiedere un maggiore e più specifico intervento clinico non effettuabili nelle sezioni comuni, restando comunque candidabili per una misura alternativa o per il differimento o la sospensione della pena per motivi di salute. Quindi l’inserimento in tali strutture risponde a valutazioni strettamente sanitarie e il venir meno delle motivazioni cliniche che giustificano la presenza nel centro clinico, dovrebbero essere sufficienti di per sé a portare la direzione degli Istituti penitenziari alla tempestiva ritraduzione del paziente all’istituto di provenienza. Invece accadrebbe il contrario. È stato preso in considerazione ciò che si denunciava già a marzo del 2020? Napoli. Vaccini in carcere, ecco le categorie fragili di Ciro Cuozzo Il Riformista, 20 aprile 2021 A Secondigliano e Poggioreale adesioni e rinunce: “Troppe fake news”. Due ultra ottantenni nel carcere di Secondigliano e altri due nella casa circondariale di Poggioreale si sono registrati per la vaccinazione anti-covid. È quanto fa sapere il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello al Riformista che nei giorni scorsi ha inviato una lettera ai vertici dell’Unità di Crisi regionale e ai direttori delle Asl delle cinque province campane ringraziandoli per la sensibilità mostrata verso i “diversamente liberi che non devono subire una doppia pena: carcere ed esclusione sociale” suggerendo di accompagnare la campagna vaccinale con “provvedimenti incisivi per coloro che decidono volontariamente di essere vaccinati”. Oltre agli over 80, sempre tra Secondigliano e Poggioreale sono 39 i detenuti nella fascia d’età 70-79 che hanno deciso di vaccinarsi mentre un gruppetto ha deciso invece di non farlo. A tal proposito “ho potuto constatare dalle mie visite presso gli istituti penitenziari - ricorda Ciambriello ai vertici della sanità campana - che c’è necessità di incrementare la campagna informativa in maniera incisiva circa l’importanza dei vaccini, essenziale in un momento come questo caratterizzato da una forte disinformazione e da fake news che determinano una particolare riduzione di coloro che risultano predisposti alla somministrazione vaccinale”. Figliuolo annuncia ripresa campagna - Sulla campagna vaccinale nelle carceri, il commissario per l’emergenza Francesco Figliuolo, d’intesa con il ministero della Salute, ha disposto la ripresa delle vaccinazioni “per mettere in sicurezza il comparto”. Somministrazioni che procederanno “parallelamente” a quelle delle categorie prioritarie, vale a dire over 80, fragili, fasce d’età 70-79 e 60-69. Le vaccinazioni interesseranno “il personale della Polizia Penitenziaria e i detenuti negli istituti penitenziari non ancora sottoposti alla prima somministrazione tenendo in considerazione anche il personale amministrativo che opera in presenza”. Riguardo le fasce fragili, ecco l’elenco dei soggetti che possono richiedere la vaccinazione: diabetici, cirrotici, trapiantati, gravi obesi, oncologici, ematologici, affetti da patologie gravi e croniche a carico dell’apparato respiratorio, dializzati, immunodepressi, riconosciuti portatori di legge 104/ 90 con connotato di gravità. Cartabia: “Oltre 9600 detenuti vaccinati, ora si procederà senza interruzione” - “Ho avuto la comunicazione dal generale Figliuolo che si procederà senza interruzione nel completamento delle vaccinazioni in carcere” ha dichiarato il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, in un passaggio del suo intervento alla cerimonia di intitolazione del carcere di Bergamo a don Fausto Resmini. “Ad oggi, a livello nazionale sono risultati positivi al Covid 737 detenuti, 478 agenti di Polizia Penitenziaria e 41 addetti alle funzioni centrali - ha ricordato Cartabia - mentre sono stati coinvolti nel piano vaccinale 9.624 detenuti, 16.819 agenti di Polizia Penitenziaria e 1.780 addetti alle funzioni centrali”. “Ci auguriamo che il vaccino possa dare sollievo a tutti e speriamo possa essere, oltre che una fondamentale protezione sanitaria da un virus cosi insidioso, anche una luce capace di alleviare le non meno faticose sofferenze psicologiche che la pandemia ha portato con sé”, ha aggiunto. Padova. Garante dei detenuti, eletto Bincoletto di Giorgio Barbieri Il Mattino di Padova, 20 aprile 2021 Al terzo tentativo fumata bianca in Consiglio comunale. Il professore designato: “Metto a disposizione la mia esperienza”. Per il garante dei detenuti è finalmente arrivata l’attesa fumata bianca. Dopo due sedute andate a vuoto, la prima con il voto a Messina Denaro che ha fatto scandalo e la seconda nella quale non si è raggiunta la maggioranza di due terzi, ieri finalmente il Consiglio comunale è riuscito a eleggere Antonio Bincoletto grazie a 20 voti, ossia la maggioranza semplice e non quella assoluta del Consiglio. Nove le schede nulle, una scheda bianca e un voto a Maria Pia Piva. La settimana scorsa era stato anche il sindaco Sergio Giordani a chiedere all’aula un gesto di serietà. Parole attaccate da Ubaldo Lonardi, vicepresidente del Consiglio comunale a nome dei gruppi consiliari di centrodestra. “Questa brutta figura”, ha detto Lonardi, “è ascrivibile solo a lei e alla maggioranza che rappresenta, evidentemente capace di ragionare solo con la logica dei numeri, per cui quando gliene manca uno, per regolamento, si trova incapace a favorire quel percorso di dialogo sostanziale e non ricattatorio, compito che almeno la figura del sindaco dovrebbe garantire per il bene di tutta la città”. Ma indipendentemente da assenze e “mal di pancia” nella maggioranza, si è finalmente riusciti a eleggere il garante dei detenuti. Ma per farlo è stato necessario arrivare alla terza votazione, dopo che lunedì scorso erano stati raccolti 19 voti sui 22 necessari. Il caso era scoppiato dopo che nella prima votazione, lo scorso 3 marzo, era emerso un voto dato segretamente al superlatitante Matteo Messina Denaro. Una vicenda che ha fatto molto discutere. Una scelta non troppo opportuna (coperta dal segreto del voto) che ha scatenato le reazioni di mezzo consiglio comunale, e in pochi giorni è finito anche sui tavoli delle ministre di Giustizia e Interno, dopo una pioggia di interrogazioni portate a Roma dai parlamentari di Pd e Fratelli d’Italia. “Certo non posso negare che mi aspettavo maggiore linearità in questa vicenda”, ha detto Bincoletto che ieri non è andato in Consiglio comunale attendendo da casa l’esito della votazione, “sarà un impegno importante che dovrà garantire il dettato costituzionale. Quella carceraria è una realtà che conosco bene”. Antonio Bincoletto, il candidato che è stato eletto della maggioranza, è nato a Noventa di Piave (nel Veneziano) ma vive a Padova ormai da molti anni. Nella città del Santo si è laureato e specializzato in filosofia. Dagli anni Ottanta insegna letteratura e storia negli Istituti superiori. Ha frequentato anche corsi di Perfezionamento e di Alta formazione presso il Centro Diritti umani del Bo. Bergamo. Cartabia in visita al carcere: “Le vaccinazioni proseguiranno” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 aprile 2021 Giustizia riparativa ed ergastolo ostativo, il discorso della guardasigilli in occasione della cerimonia d’intitolazione della Casa circondariale di Bergamo a don Fausto Resmini. Il ministro della Giustizia, Marta Carabia, ha iniziato la sua prima visita ufficiale in Lombardia con un incontro alla comunità educativa per minori don Lorenzo Milani di Sorisole, in provincia di Bergamo. La ministra ha incontrato i giovani ospiti della comunità che è stata diretta da don Fausto Resmini fino alla sua morte per Covid, avvenuta il 23 marzo del 2020, e ha ascoltato le storie dei ragazzi prima di raggiungere la Casa circondariale. Dopo la visita “mi rimane innanzitutto questa completezza con cui” don Resmini “affrontava il problema della giustizia”, ha detto la ministra intervenendo alla cerimonia di intitolazione del carcere di Bergamo di cui il Don Resmini è stato a lungo cappellano. Don Resmini, “mentre aveva grande attenzione ai detenuti - aggiunge Cartabia - al loro disagio, nel frattempo, ha costruito una grande opera educativa. Il binomio educazione e giustizia è quello che mi colpisce, sia perché la giustizia deve mirare alla rieducazione sia perché credo che nello spirito di don Fausto la forte educazione possa anche prevenire tanti guai con la giustizia e con la società”. “Un uomo che praticava la giustizia, un uomo teso a rigenerare, senza facili assoluzioni, il percorso di vita di tutti”, ricorda la ministra nel suo discorso. “Ciascuno di coloro che ha incrociato il suo cammino, dentro e fuori il carcere, ha un suo ricordo particolare, un episodio che fissa in lui la sua memoria” ha aggiunto, spiegando che da don Resmini arrivava “una proposta esigente e nient’affatto buonista come si è tentati di pensare di fronte a testimoni come lui. Ripeteva spesso che per il recupero di chi deve fare i conti con il male commesso occorre un un cammino spesso lungo e sempre segnato da tre momenti: il riconoscimento dell’errore, la richiesta di perdono e la riconciliazione con le vittime”. “All’interno del carcere, così isolato da tutto e da tutti in questo lungo anno, il disagio può rischiare a volte di spegnere del tutto la fiducia e la speranza, come provano i drammatici suicidi tra agenti della polizia penitenziaria, tra il personale e tra detenuti. Sono già 16 dall’inizio dell’anno, l’ultimo ieri”, ha spiegato la guardasigilli. “Sono fatti a cui non possiamo abituarci - ha aggiunto -. Sono richiami forti, gridi di aiuto. Questo tempo di pandemia ha acceso un faro sulle tante problematiche connesse alla salute fisica e psichica che in carcere si amplificano e attendono risposte più adeguate di quelle attualmente esistenti. Sono drammi che non possono essere ignorati - ha concluso -. La memoria di don Fausto che oggi consegniamo alla città sia sempre stimolo all’impegno di tutti, soprattutto in questa direzione”. “Il carcere ha molti volti e occorre conoscerli da vicino. Oggi abbiamo dovuto conoscere il carcere della pandemia - pandemia che ha colpito così duramente la città di Bergamo, sin dagli inizi e da cui la città ha saputo riscattarsi grazie alla generosità di tanti. Il carcere della pandemia ha portato in primo piano i problemi della salute. Oggi, siamo chiamati a farci carico prioritariamente della salute di chi opera nel carcere e di chi nel carcere è ospitato, per proteggere tutta la comunità carceraria”, ha affermato Cartabia, assicurando di aver “avuto la comunicazione dal generale Figliuolo che si procederà senza interruzione nel completamento delle vaccinazioni in carcere”. “Occorre procedere con le vaccinazioni - ha aggiunto - e a questo scopo io e il Capo del dipartimento penitenziario, Bernardo Petralia siamo in continuo contatto con le autorità competenti perché il piano vaccinale non subisca interruzioni fino al suo completamento. Desidero rassicurare tutti su questo punto, anche quanti negli ultimi giorni avevano nutrito preoccupazioni a riguardo”. Cartabia ha precisato che “a oggi, a livello nazionale sono risultati positivi al Covid 737 detenuti, 478 agenti di polizia penitenziaria e 41 addetti alle funzioni centrali, mentre sono stati coinvolti nel piano vaccinale 9.624 detenuti, 16.819 agenti di polizia penitenziaria e 1.780 addetti alle funzioni centrali. Ci auguriamo - è il suo auspicio - che il vaccino possa dare sollievo a tutti e speriamo possa essere, oltre che una fondamentale protezione sanitaria da un virus così insidioso, anche una luce capace di alleviare le non meno faticose sofferenze psicologiche che la pandemia ha portato con sé”. “Per tutti, il carcere deve avere finestre aperte su un futuro, deve essere un tempo volto a un futuro di reinserimento sociale, come esige la Costituzione. Ma le modalità debbono diversificarsi, debbono tenere in considerazione le specificità di ogni situazione”, ha spiegato quindi la ministra. “Credo che debba essere letta in questa chiave anche la pronuncia della Corte costituzionale, annunciata dal comunicato stampa dello scorso 15 aprile, sull’ergastolo ostativo - ha aggiunto Cartabia. Bisognerà leggere con attenzione le motivazioni che chiariranno l’esatto significato della decisione. Mi pare che sin da ora si possa ritenere che la Corte ha già individuato nell’attuale regime dell’ergastolo ostativo elementi di contrasto con la Costituzione, ma chiede al legislatore di approntare gli interventi che permettano di rimuovere l’ostatività tenendo conto della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e quindi nel rispetto di regole specifiche e adeguate”. Nel corso della cerimonia la ministra ha quindi ricordato l’importanza della “giustizia riparativa”, come “aspetto della nostra giustizia ancora tutto da sviluppare - ha aggiunto - e che, come ho avuto modo di dire anche in Parlamento, mi sta molto a cuore e desidero sostenere attraverso l’azione di governo, per quanto sarà nelle mie possibilità”. Bergamo. Il carcere intitolato a Don Fausto Resmini di Antonella Barone gnewsonline.it, 20 aprile 2021 Il carcere di Bergamo porta ufficialmente il nome di Don Fausto Resmini, lo storico e amato cappellano della struttura penitenziaria deceduto poco più di un anno fa a causa del Covid. Nell’ambiente, ma anche in città c’era già chi si riferiva all’Istituto come al “Don Resmini” ma l’intitolazione ufficiale avvenuta oggi, fortemente voluta dalla direttrice Teresa Mazzotta, interpreta il desiderio di tutta la comunità carceraria. “È stato un gesto tutt’altro che formale” - ha precisato la ministra Marta Cartabia, presente alla cerimonia insieme al Capo Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria Bernardo Petralia - “Il nome esprime un’identità. Intitolare il carcere di Bergamo a Don Fausto Resmini significa fare propri i suoi insegnamenti, farne tesoro, custodirli e mantenerli vivi”. A causa delle regole imposte dalla pandemia, all’evento non hanno potuto essere presenti tutti quelli che avrebbero voluto raccontare chi era Don Fausto. A cominciare dai ragazzi della Casa Don Milani di Sorisole, fondata dal sacerdote 43 anni fa per accogliere giovani in condizioni di vulnerabilità. La ministra Cartabia ha voluto per questo fare tappa, prima della cerimonia, nella struttura divenuta nel tempo il laboratorio e il simbolo dell’idea educativa in cui don Fausto credeva. “Di Don Resmini - ha detto la Guardasigilli - resterà la completezza con cui ha affrontato il tema della giustizia. Il binomio educazione e giustizia è quello che mi colpisce di più: sia perché la giustizia deve mirare alla rieducazione, sia perché credo che una forte educazione possa anche prevenire tanti guai con la giustizia”. Presenti alla cerimonia rappresentanze della polizia penitenziaria, del personale amministrativo e i familiari del sacerdote, che hanno scelto di sedere accanto ai sei detenuti presenti. Tra loro anche Vincenza Leone, che, dopo i saluti della direttrice Teresa Mazzotta e dell’intervento del Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Bernardo Petralia, ha ricordato il “Don” che passava ogni giorno nell’ufficio dove lei lavorava, sempre indaffarato e con la sua agenda sotto il braccio, ma che non mancava mai di chiederle come stava. L’intervento della Ministra è stato incentrato sull’attualità del messaggio di Don Resmini, sull’idea di una giustizia non distruttiva ma generativa che comprenda “Il travaglio di un cammino spesso lungo e sempre segnato da tre momenti: il riconoscimento dell’errore, la richiesta di perdono e la riconciliazione con le vittime”. “Quello riparativo è un aspetto della nostra giustizia ancora tutto da sviluppare - ha aggiunto la ministra Cartabia - “Come ho avuto modo di dire anche in Parlamento, mi sta molto a cuore e desidero sostenere attraverso l’azione di governo, per quanto sarà nelle mie possibilità”. Nel corso del suo intervento la Guardasigilli ha inoltre comunicato di aver appreso dal generale Figliuolo della ripresa della campagna vaccinale in carcere “Oggi siamo chiamati a farci carico prioritariamente della salute di chi opera negli istituti penitenziari e di chi ne è ospitato per proteggere tutta la comunità carceraria - ha concluso la ministra - “Ci auguriamo che il vaccino possa dare sollievo a tutti nella speranza possa costituire sia protezione da un virus così insidioso e luce capace di alleviare le non meno faticose sofferenze psicologiche che la pandemia ha portato con sé”. Dopo la cerimonia di intitolazione, Marta Cartabia ha visitato il reparto femminile della casa circondariale e si è intrattenuta con le detenute. Trapani. Il vescovo ai detenuti di A.S.: “Fermare alluvione della mafia e delle mistificazioni” telesudweb.it, 20 aprile 2021 Monsignor Fragnelli ha concelebrato l’eucarestia in occasione del pellegrinaggio della “Croce della misericordia”. “Mi hanno raccontato che dopo il terribile alluvione del 1976 che a Trapani provocò 16 vittime travolte dall’acqua e dal fango, si pianificò la costruzione di un invaso. Anche il carcere rappresenta un invaso per proteggere la città dal potere della mafia ma sappiamo che non basta. Tutti dobbiamo lavorare, anche voi, per creare le condizioni per proteggere la società dall’allagamento del male e delle mistificazioni”. Così il vescovo di Trapani Pietro Maria Fragnelli ai detenuti della sezione alta sicurezza “Jonio” del carcere di Trapani dove ha concelebrato l’eucarestia in occasione del pellegrinaggio della “Croce della misericordia” benedetta da Papa Francesco nel 2019 e pellegrina nelle carceri italiane. La croce, proveniente dal carcere di Sciacca, è rimasta in città un paio di giorni dal 14 al 16 aprile. Sabato scorso, prima di essere consegnata al Carcere Ucciardone di Palermo, è stata accolta nella parrocchia Cristo Re di Valderice, dove, nella Casa Canonica con il parroco e cappellano del carcere don Francesco Pirrera, vivono degli ospiti in misura alternativa. La presenza della croce, dal forte significato simbolico, è stata occasione per brevi momenti di confronto e riflessione con operatori impegnati nel mondo carcerario, la comunità parrocchiale e il vescovo Fragnelli. Il 13 aprile 2017 papa Francesco fece visita ai detenuti di Paliano, in provincia di Frosinone. Dopo di allora i detenuti pensarono di realizzare una grande croce, guidati dalla volontaria Luigia Aragozzini, maestra iconografa, nel laboratorio promosso in carcere dalla Comunità di Sant’Egidio. Il 14 settembre 2019, nel giorno dell’Esaltazione della croce, gli stessi detenuti di Paliano presentano al papa l’icona di un crocifisso sul cui sfondo si vedono scene della Scrittura che riguardano i prigionieri. L’icona hanno voluto chiamarla ‘Croce della Misericordia’ ed è stata portata all’udienza del Papa in piazza San Pietro dalla Polizia penitenziaria, dal personale dell’Amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile e di comunità. Dopo la benedizione del Papa, essa ora fa il giro delle carceri italiane: un pellegrinaggio della speranza. Il 9 ottobre 2019 don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, spiega il significato del pellegrinaggio, che comincia il 15 ottobre 2019 proprio da Paliano: “La Croce che entra nella carceri non deve interpretarsi come messaggio di buonismo, ma deve invece essere percepita come un importante simbolo di fede che accompagna il detenuto nel riconoscere le sue responsabilità, attraverso una revisione critica del passato, ripetutamente compromesso con il male, cercando di vivere la carcerazione come un’opportunità di conversione e di pentimento. Il Cristo, che varca le porte delle carceri, vuole portare nel cuore dei reclusi la vera libertà, affinché si convertano nel bene, e il bene possa vincere sul male. Entra bussando alla porta del cuore dei ristretti e con amore e tenerezza li ammonisce, invitandoli alla conversione. Cristo non tace di fronte al male, il suo è uno sguardo che ama e corregge. Questa Peregrinatio Crucis che varcherà i molti luoghi di solitudine e di sofferenza, accompagnata dai cappellani, religiose e volontari, vuole anche ricordare a tutti noi, come viene riportato nel libro dei Proverbi, che anche ‘il giusto cade sette volte’ e a nessuno è consentito di giudicare solo con la logica umana, perché tutti siamo deboli e peccatori. Cristo Crocifisso, per noi che lo porteremo all’interno degli istituti di pena, è l’icona che ci rammenta il grande amore di Dio per l’umanità e, allo stesso tempo, ci vuole anche far riflettere sui molti innocenti ancora rinchiusi nelle celle che attendono una risposta dalla giustizia umana. Entra nelle carceri per liberare l’uomo dal suo ergastolo interiore, invitando alla speranza e al diritto di ricominciare”. Sul legno sono state dipinte scene bibliche: la Liberazione di Pietro e di Paolo dalle prigioni, il buon ladrone, e i Protettori, San Basilide (Patrono della Polizia Penitenziaria) e San Giuseppe Cafasso (Patrono dei Cappellani delle carceri). Sul fondo della Croce immagini di bambini con le loro madri in carcere. Questa raffigurazione vuole rappresentare il desiderio e la speranza di tante madri di poter scontare in luoghi alternativi al carcere la loro pena. Al Papa furono offerte anche una casula e una stola realizzata dai detenuti del carcere di Larino, in Molise, impegnati in un percorso sartoriale e seguiti dall’area trattamentale dell’istituto e dalle sarte volontarie. Sulla casula emergono le immagini delle mani protese come messaggio di speranza e di fiducia per il futuro. Milano. I “B.Liver” incontrano i detenuti di Opera di Sofia Segre Reinach* Corriere della Sera, 20 aprile 2021 Oltre la chemio e le sbarre nel segno della speranza. I ragazzi affetti da patologie gravi che realizzano Il Bullone si sono confrontati con i reclusi del carcere milanese. Le paure del dopo Covid e una certezza: “Insieme imperiamo sempre qualcosa”. I B.Liver, ragazzi affetti da patologie gravi e croniche che realizzano il giornale mensile Il Bullone (nella foto la copertina dell’ultimo numero), e i reclusi del carcere di Opera. Non è la prima volta. Era già successo due volte, prima del lockdown, un confronto in presenza duro e sincero, sulla libertà, il senso della giustizia, la malattia e il confronto, chissà perché inevitabile, tra chemio e sbarre. Anche sabato 10 aprile il bisogno di incrociarsi tra due comunità così diverse ma con tratti simili ha spinto Bill Niada, il fondatore del Bullone e Giovanna Musco, responsabile dell’Associazione In Opera, a mettere insieme ragazzi e detenuti. Un incontro in remoto, come si dice adesso quando uno sta a casa sua e gli altri tutti insieme in una stanza. In una bolla del carcere. Il Covid ha diviso i raggi in bolle, i detenuti 30-40 stanno insieme dalla mattina alla sera, sempre loro, senza contatti con altri reclusi per ridurre al minimo eventuali contagi. La tecnologia ha aiutato tutti a dimenticare la sofferenza che si aggiunge ad altra sofferenza che ci ha colpito da più di un anno. Prima domanda: abbiamo davanti a noi ragioni di speranza? Ci sono ragioni che possono preservarci dalla disperazione? Che servono a mantenerci in cammino? E si apre il dibattito tra speranza “che in carcere è forse solo una parola, ma non la perdiamo mai”, come ha detto Giuseppe, e la bolla. Bolla tra le celle, negli ospedali, a casa propria, sul lavoro. “Prigioni diverse” ha aggiunto Giulia, una B.Liver stanca di aspettare che tutto finisca. Carlo, un altro recluso, ha preferito andare oltre: “Io sono oltre la bolla. Che cosa succederà dopo? Come mi adatterò al nuovo corso? Come quando uscirò da qui: riuscirò a reinserirmi in una vita sociale normale?”. Mattia: “La bolla? Un modo come un altro per riscoprire se stessi, capiti gli errori che ci hanno portato qua dentro”. La B.Liver Oriana accarezza: “Quanto coraggio che avete, mi piace parlate con voi s’impara sempre”. Alex, un altro detenuto, accetta la carezza in remoto e rilancia: “Siamo noi che impariamo da voi, stiamo bene insieme quando ci confrontiamo”. Mai nessuno ha chiesto: qual è il tuo reato? Come mai nessuno ha chiesto: qual è la tua malattia? Due citazioni, invece. Un recluso ha parlato di Saramago, Cecità: “Se dovessimo tutti insieme perdere la vista... provate ad immaginare che cosa succederebbe...”. Un B.Liver è andato su Kierkegaard che ha definito la speranza “la passione del possibile”. E tre ore sono volate via, è mancato solo l’abbraccio finale. Con Andrea, come Carlo, Giuseppe, Alex, Alessio, Mattia, che saluta tutti e dice: “Torniamo nella nostra bolla, a presto”. Sarah saluta anche lei da casa con il suo iPad: le parole sono creature viventi. Si sta bene anche così. *Operatrice de “Il Bullone” Migranti. Lamorgese in Libia per fermare le partenze dei barconi di Carlo Lania Il Manifesto, 20 aprile 2021 In programma un vertice in Italia con esponenti libici e le agenzie Onu sui diritti umani. Con un occhio al prossimo decreto missioni. L’impegno a organizzare a Roma un incontro tra esponenti del governo libico e le agenzie dell’Onu, Unhcr e Oim, che si occupano di rifugiati e migranti. Ma anche le (ormai) consuete pressioni perché Tripoli eserciti maggiori controlli sulle sue frontiere meridionali dalle quali passano decine di migliaia di migranti, e lungo le coste per arginare le partenze dei barconi. In cambio, l’impegno dell’Italia a sostenere progetti di collaborazione allo sviluppo coinvolgendo anche l’Unione europea. Nonostante le trasferte già avvenute del premier Mario Draghi e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, al Viminale preferiscono ancora considerare il viaggio compiuto ieri in Libia dalla ministra Luciana Lamorgese come un “primo approccio”, l’avvio di una collaborazione tra Italia e il nuovo governo di unità nazionale guidato al premier Abdlamid Dabaiba che ieri la ministra ha incontrato insieme al presidente del Consiglio presidenziale dello Stato Mohames Younis Ahmed al-Menfi e al ministro dell’Interno Khaled Tijani Mazen. La missione libica ha però anche una forte valenza politica interna, specie dopo che gli apprezzamenti rivolti da Draghi alla Libia per i “salvataggi” compiuti dalla cosiddetta Guardia costiera libica, hanno di nuovo riaperto la questione della sistematica violazione dei diritti umani nel Paese nordafricano. Per questo Lamorgese è tornata a chiedere una risposta alle osservazioni presentate a luglio dello scorso anno da Roma al Memorandum Italia-Libia con le quali si sollecitava un maggior coinvolgimento proprio di Unhcr e Oim nel controllare le condizioni di vita dei migranti nei centri di detenzione libici, condizioni che saranno anche oggetto del futuro vertice romano. Ottenere rassicurazioni in tal senso, è quindi importante per il governo in vista dell’imminente discussione in parlamento del decreto missioni per provare a disinnescare possibili contestazioni a un nuovo finanziamento alla Marina libica tra le forze della maggioranza che sostiene Draghi. E poco importa se analoghe rassicurazioni erano state fornite anche nel 2020 dal precedente esecutivo guidato a Fayez al-Sarraj senza che nel frattempo nulla sia cambiato. Il viaggio di ieri è stato preceduto da una telefonata tra Lamorgese e Mazen ed avviene in un momento in cui in Libia l’Italia deve ritrovare il suo spazio. Oltre alla Turchia e alla Russia, che si dividono il Paese, il mese scorso la Francia ha riaperto la sua ambasciata e Macron, insieme alla promessa di finanziamenti per la formazione della polizia di frontiera cerca, per ora senza successo, di assumere il controllo della frontiera con il Niger per arginare i flussi dei migranti ed eventuali infiltrazioni da parte di terroristi. L’Unione europea, invece, si prepara a inviare entro la fine di aprile un proprio ambasciatore a Tripoli. In questo scenario ci sono i dati dell’agenzia europea Frontex che segnalano come il numero dei migranti che a marzo hanno attraversato il Mediterraneo centrale sia quadruplicato (1.800) rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, quando la pandemia era appena cominciata. Numeri che fanno temere al Viminale un’impennata degli arrivi non appena le condizioni del tempo lo permetteranno. Intervenire nella gestione di questi flussi per Roma diventa quindi fondamentale, anche se la questione migranti più che nelle mani del governo libico è in quelle della Turchia che nella base navale di al Khums, recentemente ricostruita, addestra da mesi la Guardia costiera di Tripoli. Ieri comunque, per non smentirsi, in serata il ministero dell’Interno libico ha ricordato come Mazen abbia tra l’altro chiesto a Lamorgese corsi di formazione per “l’aviazione della polizia, la sicurezza costiera e altri corsi specialistici nel campo della lotta all’immigrazione illegale”. Lamorgese si è impegnata ad alleggerire la pressione in Libia ricominciando a organizzare corridoi umanitari verso l’Italia. Tecnicamente più che corridoi, come spiega l’Unhcr, si tratta di evacuazioni umanitarie dei soggetti più vulnerabili - persone malate, donne sole o incinta, minori e famiglie - e per quanto importanti, finora si tratta ancora di numeri limitati: dal 2017 al 12 settembre 2019 ne sono stati effettuati in tutto appena otto (sei direttamente dalla Libia all’Italia e due passando dal Niger), che hanno permesso il trasferimento in Italia di 913 persone. Il calvario di Sabrina Prioli che l’Italia preferisce ignorare di Luca Attanasio Il Domani, 20 aprile 2021 Nel 2016, quando era cooperante in Sud Sudan, è stata violentata e torturata da un gruppo di militari. Sopravvissuta miracolosamente è stata costretta a combattere da sola la sua battaglia umana e legale. Sabrina Prioli è una lottatrice. A incontrarla oggi, non si conoscesse la sua terribile storia di violenze ripetutamente subite in Sud Sudan mentre era lì come cooperante, resterebbe solo l’impressione di una donna profondamente radicata nelle sue convinzioni umanitarie e determinata a raggiungere obiettivi per sé e per gli altri e riprendersi la vita. Nel lungo percorso di riabilitazione di sé, però, non le è toccato solo affrontare i fantasmi dello stupro, la tortura, la sensazione di essere a un passo dalla morte. Ha dovuto anche fare i conti con la solitudine e l’abbandono da parte di tutte le istituzioni che si sarebbero dovute occupare di lei. A cominciare da quelle italiane. L’arrivo a Juba - Dopo un lungo periodo in Sud America, Sabrina, impiegata dalla ong americana Usaid come esperta di pianificazione di progetti, è stata inviata a Juba, la capitale del Sud Sudan. Il paese più giovane del mondo - indipendente dal Sudan dal 2011 dopo una lunga lotta che univa a cause economiche motivi etnico-religiosi (la maggioranza è cristiana a differenza del Sudan a netta prevalenza islamica) - è entrato da subito in una spirale di violenza che ne ha fatto, a partire dal 2013, una delle peggiori emergenze umanitarie del pianeta assieme a Siria e Congo: su una popolazione di poco più di 11 milioni di abitanti, sono circa 4,5 milioni i profughi esterni e interni e 8 milioni gli individui in emergenza alimentare. Secondo l’Unhcr, 3 bambini su 4 non frequentano la scuola: il tasso più alto al mondo. Ovviamente al drammatico bilancio vanno aggiunte decine di migliaia di morti e molti più feriti. Sabrina si è trovata a Juba in uno dei momenti di maggiore recrudescenza della guerra civile, l’estate del 2016. Per garantire la sua sicurezza e quella dei suoi colleghi, viene fatta alloggiare al compound Terrain, certificato “sicuro” dal dipartimento di Sicurezza dell’Onu, lo stesso che ha dichiarato safe la strada, percorsa dall’ambasciatore Luca Attanasio in Congo il 22 febbraio scorso, dove è stato ucciso. L’attacco - L’8 luglio sono iniziati gli scontri tra le forze governative Spla e le forze di opposizione Spla/io e attorno al compound si udivano rumori di mitragliatrici, mortai e granate. Gli operatori si sono rifugiati all’interno dell’unico edificio in cemento armato e sono rimasti lì per diversi giorni senza che nessuno della missione Onu (Unmiss) né dalle ambasciate, si interessasse di loro: questo sebbene gli operatori umanitari comunichino costantemente con gli uffici Onu e delle Ong di riferimento oltre che con le rispettive ambasciate, inclusa la nostra ad Addis Abeba (non c’è in Sud Sudan, ndr). Poi, dopo 3 giorni di lockdown senza risposte, l’inevitabile orrore. “L’11 luglio i soldati si sono introdotti nell’ala del compound in cui eravamo asserragliati. Subito hanno sparato e hanno ucciso un giornalista sud sudanese, gambizzato un collega americano e si sono dedicati a violentare le donne presenti”. Sabrina è stata stuprata da cinque soldati sotto minaccia di mitra, percossa ferocemente, torturata e quasi soffocata con una bomboletta di Ddt. Ma l’agonia non è finita qui. “Nel pomeriggio dell’11 la National Security ha liberato gli ostaggi ma io e altre due colleghe siamo state inspiegabilmente abbandonate lì per altre 16 ore, accanto al cadavere martoriato del giornalista a cui avevano sparato in testa”. In questo lasso di tempo Sabrina è vittima di altri due stupri e torture. La mattina dopo trova un cellulare per puro caso e riesce a chiamare la sicurezza di Usaid che finalmente invia effettivi dell’esercito a evacuare le cooperanti. “Con tutta probabilità i nostri liberatori sono gli stessi che avevano attaccato il compound”. Istituzioni latitanti - Archiviato un capitolo drammatico della propria vita, però, Sabrina deve aprirne un altro fatto di ulteriori umiliazioni e caratterizzato da una gravissima latitanza da parte della ong per cui lavorava, dell’Onu e, soprattutto, dell’Italia. “Il 12 luglio sono stata evacuata dal Sud Sudan attraverso un aereo americano. Ho ricevuto le prime cure in Kenya e sono tornata in Italia facendo il viaggio da sola, sotto shock e ferita. Al rientro non sono stata ricevuta da nessuno e non mi è stato dato alcun appoggio medico né legale. Ho sporto denuncia alla procura della Repubblica ma il caso è stato archiviato. Fino a novembre 2020 quando per la prima volta, dopo infinite richieste, la Farnesina mi ha contattata e ha deciso di inviare note verbali al governo del Sud Sudan (ma l’iniziativa, per mancanza di un sostegno convinto da parte di Roma, non ha prodotto alcun risultato significativo, nemmeno una risposta da Juba, ndr). Non sono mai stata ricevuta, neanche ascoltata”. In un incredibile precipitare degli eventi, il caso di Sabrina Prioli assume tinte grottesche per quanto attiene alle risposte attese e mai ottenute. Il 6 settembre 2018, la corte marziale sudsudanese ha condannato due soldati all’ergastolo, altri otto a pene dai 7 ai 14 anni di carcere. Ad assicurarsi un risarcimento, però, è stata solo la società inglese proprietaria del compound che ha ottenuto 2,5 milioni di dollari. Alle vittime, un ridicolo rimborso spese di 4mila dollari. Alla beffa si è aggiunto l’oltraggio: non è possibile fare appello, perché fonti ufficiali sudsudanesi dichiarano che il file del processo è andato “perduto”. Se si eccettua l’appoggio logistico fornito dall’ambasciata italiana di Addis Abeba a Sabrina in transito verso Juba nell’agosto del 2017 per testimoniare al processo (unica vittima presente), l’Italia è totalmente assente. Non c’era durante l’attacco e dopo non c’era ad assicurare i costi sanitari, legali, neanche a pagare le spese di viaggio del drammatico ritorno della Prioli sul luogo del delitto. Oltre che moralmente è del tutto inadempiente in termini giuridici agli articoli della Convenzione di Istanbul e della Convenzione contro la tortura che ha ratificato. Tornare a lottare - Inascoltata, abusata ripetutamente nel fisico e nella psiche, annichilita dalle violenze e dall’indifferenza, finita in un gorgo da cui sembra impossibile riaffiorare in superficie, Sabrina, per quanto sia difficile crederlo, è riemersa. La sua lotta, dopo un lungo periodo di psicoterapia, è ripresa e a incontrarla oggi si ha la sensazione di essere di fronte a una solida roccia. In Italia per il suo caso, sono state presentate due interrogazioni parlamentari, una nel 2018 e una nel febbraio scorso. “Ora sono life-coach e aiuto tantissime donne ad affrontare le violenze di cui sono state oggetto e a trovare in sé la forza di ripartire. Ho combattuto sempre da sola, sono vittima di stupro e di tortura non posso accettare il silenzio delle istituzioni. Sono una cittadina italiana, ho testimoniato con coraggio in una corte marziale in Sud Sudan, merito di essere ascoltata e sostenuta nella mia lotta non solo per i miei diritti ma per quelli di tutte noi donne vittime di violenza”. Turchia. Condanna futurista per Hydayet Karaca: 2.500 anni di prigione di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 20 aprile 2021 Il giornalista accusato di appartenere alla rete di Gulen che avrebbe organizzato il golpe del 2016. “Sto scrivendo questa lettera da una cella di prigione, cercando di raggiungere il mondo libero…. Sono vittima di una caccia alle streghe che è stata condotta sui media liberi, indipendenti e critici in Turchia perché il governo sempre più autoritario non ama le critiche e l’esposizione di gravi illeciti all’interno delle agenzie governative”. Solo un brano di una lettera scritta dal giornalista turco Hydayet Karaca nel 2015 dalla prigione di Silivri. La missiva arrivava dopo un anno di carcerazione a seguito di un’incriminazione per attività terroristica. Karaca è stato l’amministratore delegato del gruppo editoriale televisivo, ormai disciolto, Samanyolu Media Group, la porta della cella per lui si è aperta con l’accusa di appartenere a un’organizzazione armata vicina al movimento Gülen (il nemico numero 1 di Erdogan) nonché di aver diffamato il gruppo islamico radicale Tahsiyeciler sospettato di vicinanze con al-Qaeda. La corte comminò 31 anni di reclusione a Karaca che in realtà venne portato in prigione insieme ad altri collaboratori e giornalisti della testata poi successivamente liberati. Tra le accuse rientrava quella di aver trasmesso una soap opera dove sarebbe stato preso di mira un esponente del gruppo islamico religioso. Solo un pretesto per vedersi piombare addosso 6 mesi di carcere e l’inizio di quella che è una vera e propria persecuzione con addebiti ben più gravi. Il calvario infatti non è finito perché ora l’apparato giudiziario, completamente asservito ad Erdogan, si accanisce ancora Karaca in maniera ancora più parossistica. Giovedì scorso, Jailed Journos, una piattaforma online che si occupa dei giornalisti incarcerati in Turchia, ha reso noto che i pubblici ministeri chiedono per Karaca la condanna monstre a 2445 anni di detenzione. Questa volta al giornalista vengono contestati 76 capi d’imputazione che sarebbero relativi ad uno scandalo per alcune partite di calcio truccate emerso nel 2011. Il 2 luglio 2012 un tribunale appositamente autorizzato ha condannato e condannato il presidente della squadra del Fenerbahçe Yildirim a sei anni e tre mesi. Il vicepresidente Mosturoglu a un anno 10 mesi e 10 giorni. Il caso è stato ripresentato nel 2015 e il tribunale ha assolto tutte le persone accusate all’inizio delle indagini in attesa del pronunciamento della Corte suprema d’appello. Una vicenda che sembra non avere nessun riferimento con le precedenti accuse a Karaca ma che rientra nella guerra iniziata fin dal 2013 da Erdogan contro la stampa libera e la lotta senza quartiere contro il movimento Gulen ritenuto responsabile del fallito “golpe” del 2016. In realtà la liberazione solo pochi giorni fa di Mehemet Altan aveva fatto sperare in un’attenuazione della furia repressiva insieme agli annunciati provvedimenti di riforma del sistema giudiziario. Uno specchietto per le allodole evidentemente viste le nuove richieste contro Karaca. Soprattutto perché per il giornalista è difficilissimo potersi difendere. Nel 2018 un ennesimo atto di accusa per cospirazione ha procurato all’ex capo del network televisivo un nuovo ergastolo, nell’inchiesta erano finiti anche gli ex capi dell’intelligence della polizia Ali Fuat Yilmazer ed Erol Demirhan. I due vennero incarcerati a seguito di indagini sulla corruzione alla fine del 2013 che coinvolgevano il governo Erdogan, allora primo ministro. Si parlava di crimini come intercettazioni illegali fino al coinvolgimento nell’omicidio del giornalista turco- armeno Hrant Dink. Proprio la televisione Samanyolu aveva scoperchiato lo scandalo mettendo in luce le responsabilità del premier. Si pensa dunque che l’accanimento giudiziario possa essere ricondotto ad una vendetta personale di Erdogan e al tentativo di eliminare personaggi scomodi per il suo potere, soprattutto se capaci di influenzare il gfrande pubblico come i giornalisti. Ma non solo Karaca è stato seppellito sotto una montagna di anni di una reclusione “futuristica” (sarà un uomo libero nel... 4467!), perché anche gli avvocati e alcuni giudici che avevano tentato di impedire le condanne durante questi anni sono stati arrestati e condannati in modo sommario. Nel 2016 Karaca scriveva queste parole: “Mi sto difendendo in circostanze molto difficili. Alcuni dei miei avvocati se ne sono andati, alcuni sono stati arrestati. Non sono nemmeno riuscito a trovare un avvocato che scrivesse una petizione per me”. Difficile che avessero potuto farlo come dimostra il caso di un legale costretto a testimoniare contro il suo cliente per avere la pena ridotta da 10 anni a cinque. Stati Uniti. Caso Floyd, timori di scontri dopo il verdetto: Biden valuta discorso alla nazione di Laura Zangarini Corriere della Sera, 20 aprile 2021 A Minneapolis giurati riuniti per il verdetto al processo contro Derek Chauvin, l’ex ufficiale di polizia che ha usato il ginocchio per inchiodare a terra l’afroamericano per più di nove minuti lo scorso 25 maggio. Tre settimane di audizioni, 46 testimoni, tra cui una bambina, e la continua riproposizione delle ultime immagini da vivo di George Floyd, l’afroamericano di 46 anni, morto a Minneapolis, in Minnesota, il 25 maggio 2020, nel corso dell’arresto da parte della polizia. Ora l’America aspetta il verdetto con il fiato sospeso. Sul banco degli imputati l’ex poliziotto Derek Chauvin, 44 anni, che deve rispondere di tre capi di imputazione: omicidio di secondo grado, omicidio di terzo grado e omicidio preterintenzionale. Nell’ultima giornata di dibattimento, l’accusa, portata avanti dal procuratore Steve Schleicher, ha concentrato la requisitoria su quegli interminabili 9 minuti e 29 secondi in cui l’agente ha tenuto il suo ginocchio premuto sul collo di Floyd, steso per terra, a faccia in giù, le mani bloccate dietro la schiena con le manette. I giurati dovranno decidere se queste tre settimane di processo hanno stabilito che il poliziotto avesse o no la consapevolezza di uccidere Floyd. Secondo l’accusa, sì. Secondo la difesa, no. Tra omicidio preterintenzionale e omicidio per “negligenza del rispetto per la vita”, i giurati dovranno prendere una posizione. Quando la annunceranno? Potrebbero volerci ore o giorni. L’attesa per la sentenza è molto alta. Minneapolis è blindata. A decine, fuori dal Tribunale, aspettano la sentenza. Le famiglie di Floyd e di Daunte Wright, ucciso “per errore” l’11 aprile, a 20 anni, dall’agente di polizia Kim Potter, convinta di aver estratto il taser - la pistola che rilascia scariche elettriche - e non la pistola, hanno tenuto una veglia di preghiere. Da più parti sono arrivati appelli a lasciare da parte la violenza. C’è il timore che, in caso di assoluzione, possano scoppiare incidenti non solo a Minneapolis ma in altre città degli Stati Uniti. A New York il dipartimento di polizia ha preparato un piano straordinario di intervento; Chicago e Washington si preparano a schierare la Guardia Nazionale; Minneapolis è già blindata. Joe Biden sta valutando la possibilità di un discorso alla nazione, secondo quanto riportano i media americani citando alcune fonti. La Casa Bianca, attraverso la portavoce Jen Psaki, ha preso in considerazione che “possa esserci spazio per proteste pacifiche”, come se nell’aria ci fosse la sensazione che i dodici giurati potrebbero assolvere Chauvin. In un caso o nell’altro, la sentenza creerà tensioni. L’America è in attesa. Il giudice Peter Cahill, nel congedare i giurati, li ha invitati a decidere “senza pensare alle conseguenze del loro verdetto”. “Le sue ultime parole - ha detto il procuratore - sono state “per favore, non respiro”. Floyd non stava facendo del male a nessuno, non voleva fare male a nessuno. Questo - ha aggiunto - non è un processo alla polizia, è il processo a un imputato. E per la buona polizia non c’è niente di peggio di una cattiva polizia”. Il legale di Chauvin, Eric Nelson, ha sostenuto come “la mossa del ginocchio non fosse non autorizzata”, nonostante molti poliziotti e addestratori, chiamati a testimoniare, abbiano detto il contrario. L’avvocato ha puntato sulla dipendenza di Floyd dagli oppioidi, legando la morte a una cattiva condizione dei polmoni, già logorati dalla droga. I dodici giurati, di cui quattro afroamericani, si sono ritirati in camera di consiglio: devono raggiungere l’unanimità su un verdetto: colpevole o innocente. Ogni capo di imputazione verrà giudicato singolarmente. Chauvin può essere condannato, o assolto, per uno, due o tutti e tre i reati. Rischia da un minimo di dieci anni a un massimo di settanta che, nel suo caso, equivarrebbe a un ergastolo. Cina. L’Europa continuerà a tacere sul genocidio degli uiguri? di Pasquale Annicchino e Knox Thames Il Domani, 20 aprile 2021 Le democrazie occidentali sono chiamate a prendere posizione sulla sconcertante repressione in atto nello Xinjiang contro la minoranza musulmana. Stati Uniti, Canada, Paesi Bassi e altri hanno già segnalato in varie forme la disponibilità a qualificare quello che sta succedendo come un genocidio, ma altri paesi sono orientati a cedere alle pressioni economiche della Cina. La guerra della Cina contro i suoi cittadini musulmani uiguri continua a intensificarsi. Gli abusi sono sconcertanti. Eppure, non è certo se i principali stati europei definiranno come “genocidio” i tentativi della Cina di distruggere l’islam nella provincia occidentale dello Xinjiang. La questione è in esame in diverse capitali e ogni democrazia alla fine sarà chiamata a prendere una decisione importante rispetto alla priorità da attribuire al commercio o ai valori. Pechino non renderà la decisione semplice. Le atrocità cinesi che, nello specifico, prendono di mira gli uiguri e altri gruppi etnici tradizionalmente musulmani sono sempre meglio documentate. Come in un ritorno ai giorni di Mao, la Cina comunista ha costretto un milione di musulmani in campi di internamento chiamati “centri di rieducazione”. È dai tempi del nazismo che la detenzione di massa basata sulla religione e sull’etnia non avveniva a questo livello. Con la scusa della lotta all’estremismo religioso, le autorità accusano di “crimine” chi porta la barba lunga, rifiuta gli alcolici, o digiuna durante il Ramadan. Questi comportamenti sono sufficienti per vedere un padre scomparire. Come ha riportato la Commissione statunitense per la libertà religiosa internazionale, i detenuti subiscono “torture, stupri, sterilizzazione e altri abusi. Inoltre, quasi mezzo milione di bambini musulmani sono stati separati dalle proprie famiglie e messi in collegi”. Un dottore uiguro, recentemente fuggito dalla Cina, ha riferito di ottanta sterilizzazioni forzate al giorno. Una ripresa da drone filtrata fuori dallo Xinjiang ha mostrato file di uiguri legati e imbavagliati come prigionieri di guerra. Non solo i musulmani - La Cina ha anche dichiarato guerra ad altre religioni. Il programma decennale per sradicare il buddismo tibetano continua, così come i tentativi di annientare l’esercizio indipendente della fede cristiana, nonostante l’accordo con la Santa sede. Tuttavia, quello che i musulmani uiguri si trovano ad affrontare è un genocidio. Con un atto di convergenza bipartisan, cosa rara a Washington di questi tempi, la designazione di genocidio contro la Cina, annunciata dall’allora segretario di Stato Mike Pompeo prima di terminare l’incarico, è stata confermata dal segretario di Stato Antony Blinken. Questi fatti hanno un risvolto personale per il segretario Blinken. Durante l’audizione per la sua conferma ha parlato di come il suo padre adottivo sia sopravvissuto all’Olocausto. Comprende bene il rischio che corrono oggi gli uiguri. Questa non è una discussione che inizia oggi. Come evidenziato da Joanne Smith Finley in un articolo recentemente pubblicato sul Journal of Genocide research, molti nella comunità internazionale, inclusi studiosi, diplomatici, politici e attivisti, hanno sostenuto, con interventi sempre più importanti, la definizione di genocidio. A causa di queste preoccupazioni è probabile che il Congresso degli Stati Uniti approvi lo “Uyghur Human Rights Protection Act” (una legge per la protezione dei diritti umani degli uiguri), una possibile via per garantire agli uiguri in fuga - e agli altri gruppi oggetto della repressione - lo status di rifugiati dello Xinjiang negli Stati Uniti. Inoltre, a febbraio il parlamento canadese ha votato all’unanimità la definizione di “genocidio” per qualificare gli eventi in Cina, mozione ancor più apprezzabile visto il caso giudiziario ancora aperto contro il cittadino canadese Michael Kovrig. La risposta dell’Europa - Come risponderà l’Europa? Seguirà gli Stati Uniti e il Canada in un tentativo comune delle democrazie di far fronte a queste violazioni? I Paesi Bassi sono stati il ??primo paese europeo a definire gli eventi contro gli uiguri come genocidio. Altri paesi sono stati lenti nella risposta, affermando in privato la necessità di una decisione delle Nazioni unite. A livello superficiale aspettare una decisione delle Nazioni unite appare ragionevole, ma cela la realtà della crescente influenza cinese sulle agenzie dell’Onu. Inoltre, dimentica il potere di veto della Cina sulle risoluzioni del Consiglio di sicurezza. Di fronte a questi eventi drammatici non ci si può nascondere dietro a una decisione delle Nazioni unite. L’Italia e il Regno Unito daranno presto una risposta: la Commissione esteri del Parlamento italiano voterà probabilmente il 21 aprile e la Camera dei comuni britannica discuterà la questione il 22 aprile. Oltre a considerare gli aspetti tecnici dell’uso del termine “genocidio”, il sottotesto è se Roma e Londra si uniranno ai loro alleati nordamericani e olandesi o metteranno al primo posto i rapporti con la Cina. La Cina non renderà la decisione semplice o priva di conseguenze. Ribatterà con un linguaggio iperbolico e reazioni ingiustificate. Pechino ha già sanzionato i funzionari statunitensi e canadesi, i parlamentari inglesi e olandesi e i membri del Parlamento europeo per essersi espressi contro le atrocità commesse dalla Cina. Tutto questo per mettere a tacere le loro critiche. Farà leva sulla propria potenza economica per aumentare la propria influenza, minacciando il commercio e gli affari, strategia che sta dando risultati. Come riferiscono le cronache di questi giorni, l’Ungheria ha bloccato una dichiarazione dell’Unione europea sugli abusi cinesi a Hong Kong. Nonostante il promesso impegno di Budapest nella lotta alla persecuzione dei cristiani, l’Ungheria non ha ancora lanciato alcun allarme sugli abusi cinesi contro pacifici fedeli cristiani. Non toccheranno mai la questione del genocidio e potrebbero bloccare iniziative più articolare a livello dell’Unione europea. Le aziende occidentali potrebbero anche essere disposte a fare pressioni al fine di usare un linguaggio più morbido nel posizionamento dei paesi europei sulla questione per preservare i loro investimenti nel paese e la loro posizione nel mercato cinese. Le organizzazioni statunitensi come la Nba hanno già sperimentato quanto possa essere difficile. Pechino ha interrotto la trasmissione delle partite dell’Nba a causa di un semplice tweet del direttore generale degli Houston Rocket, Daryl Morey, a sostegno della popolazione di Hong Kong. I valori e gli interessi - Allo stesso modo, nonostante le atrocità di massa contro i musulmani, la Cina è riuscita a a mettere a tacere l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC) e i suoi membri, con alcuni addirittura incredibilmente favorevoli alle cosiddette misure antiterrorismo cinesi. Molti membri dell’OIC si affrettano a denunciare le discriminazioni contro i musulmani in Europa e nel Nord America, ma si voltano dall’altra parte di fronte a un effettivo genocidio e perdono la voce per paura della potenza e della diplomazia economica della Cina. Anche la Turchia, che un tempo alzava la voce, ora ha limitato le proteste a causa delle pressioni cinesi. La Cina ci costringe a chiederci quanto le democrazie europee apprezzino i propri valori. Fanno parte di un’alleanza occidentale basata sui diritti o della nuova Via della seta cinese? Quando si parla dell’espansionismo della Cina, sono finiti i tempi facili della denuncia senza ripercussioni. Non solo gli Stati europei, ma anche Bruxelles, attraverso il ruolo del Servizio europeo per l’azione esterna, è chiamata a prendere una posizione decisa. Tutte le nazioni europee sanno cosa succede quando il mondo tace di fronte a un genocidio. Russia. Navalny, la beffa del ricovero dentro la stessa colonia penale di Michela A.G. Iaccarino Il Fatto Quotidiano, 20 aprile 2021 Il dissidente Aleksej Navalny, che ha iniziato lo sciopero della fame il 31 marzo scorso, è stato trasferito nel reparto ospedaliero della colonia penale dove sconta una pena di quasi tre anni. Ufficialmente il detenuto è stato spostato “per un trattamento vitaminico”, riferiscono le autorità penitenziarie. Non era quello che avevano chiesto familiari e collaboratori: per i suoi medici di fiducia, la vita dell’oppositore è gravemente in pericolo: l’accusa rivolta al Cremlino dalla squadra di Navalny è quella di “omicidio al rallentatore” e di “tortura”. Per questo era stato chiesto il trasferimento in un ospedale civile. Entra in gioco anche la Corte europea dei Diritti dell’uomo: Navalny si è appellato ai giudici di Strasburgo denunciando maltrattamenti, deprivazioni del sonno, violenza psicologica e verbale e mancata nutrizione in cella. I togati chiedono al Cremlino chiarezza sulla salute del blogger, ma Mosca ha invece deciso di secretare ogni documento che lo riguarda. Negli ultimi giorni leader politici, istituzioni e perfino celebrità hanno inviato numerosi appelli al presidente russo Putin affinché permetta al dissidente di curarsi. Ma, ha risposto ieri il portavoce di Putin, Dimitry Peskov, “lo stato di salute dei prigionieri russi non dovrebbe essere di loro interesse, non prendiamo in considerazione queste dichiarazioni in nessun modo”. Domani previste proteste in tutte le città russe: a organizzarle è stato il Fondo anti-corruzione, organizzazione creata dall’oppositore dieci anni fa, che ora i procuratori di Mosca vorrebbero far rientrare nella lista dei gruppi estremisti come Isis e al Qaeda. Un altro fronte si è aperto nella Repubblica Ceca: le autorità di Praga hanno accusato agenti segreti della Federazione - membri dell’agenzia Gru, la stessa ritenuta responsabile dell’avvelenamento di Serghey Skripal in Gran Bretagna - dell’esplosione di un deposito di munizioni nel 2014. Espulsi 18 diplomatici russi dall’ambasciata. In risposta, Mosca ha subito cacciato 20 diplomatici cechi. Qatar. Le donne sottoposte alla legge del guardiano di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 20 aprile 2021 Un rapporto di Human Rights Watch del 29 marzo denuncia le discriminazioni contro le donne a causa delle leggi sulla Wilaya maschile (una sorta di guardiano come in Arabia Saudita), che impone il consenso di un uomo della famiglia su questioni fondamentali come il matrimonio, i viaggi e l’accesso a certi tipi di assistenza sanitaria, come le cure ginecologiche. “Le ragazze vivono in una quarantena perenne - dice Asma, una donna di 40 anni a Hrw - For girls. Quello che il mondo sta subendo ora con la pandemia per le giovani in Qatar è la normalità. Io volevo frequentare un’università all’estero ma non ho potuto, sebbene avessi una borsa di studio”. L’ong con sede a New York, che ha intervistato decine di donne per redigere il suo rapporto, afferma che nonostante alcune iniziative intraprese in favore dei diritti delle donne, inclusa l’istruzione e la protezione sociale, il Qatar resta ancora indietro rispetto ai vicini del Golfo, se si pensa ad esempio all’Arabia Saudita, che nel 2019 ha permesso alle donne adulte di viaggiare senza permesso. Una di loro ha raccontato di vivere in uno stato simile ad una “costante quarantena”. Il rapporto di 94 pagine, dal titolo “Tutto quello che devo fare è legato a un uomo”, analizza le regole e le pratiche del sistema di tutela maschile. Tra le altre cose, le donne non sposate sotto i 25 anni necessitano dell’approvazione di un guardiano per viaggiare all’estero. E possono essere soggette a divieti di viaggio a qualsiasi età da parte di mariti o padri. Il sistema nega inoltre alle donne l’autorità di agire come tutore principale dei loro figli, anche quando sono divorziate e hanno la custodia legale, aggiunge Hrw, secondo cui “la tutela maschile rafforza il potere e il controllo che gli uomini hanno sulle vite e le scelte delle donne e possono favorire o alimentare la violenza, lasciando alle donne poche opzioni praticabili per sfuggire agli abusi delle loro famiglie e dei loro mariti”. L’emirato - già sotto i riflettori internazionali per le condizioni dei migranti che lavorano nei cantieri per i Mondiali di calcio dell’anno prossimo - ha descritto il rapporto di Hrw come “impreciso”, ma ha spiegato che farà delle indagini sui casi segnalati e punirà eventuali abusi. L’Indonesia e la sfida del terrorismo islamico di Andrea Walton L’Osservatore Romano, 20 aprile 2021 La pandemia rischia di aumentare la povertà e alimentare il radicalismo. La piaga del jihadimo è fortemente radicata nel sud-est asiatico. L’Indonesia è il Paese musulmano più popoloso del mondo ed ha dovuto affrontare il radicalismo islamico sin dall’indipendenza, ottenuta dai Paesi Bassi nel 1949. Il fenomeno ha conosciuto un’accelerazione a partire dal 1998, in seguito alla caduta della trentennale autocrazia del presidente Suharto e al ritorno in patria di molti indonesiani che avevano combattuto in Afghanistan contro l’Unione sovietica. Il gruppo terroristico più noto è quello della Jemaah islamiyah (Ji), inizialmente legata ad Al-Quaeda e poi, dal 2014, al sedicente stato islamico (Is). I sanguinosi attentati di Bali, nel 2002 e nel 2005, portano la firma della Ji ma queste tragedie hanno anche provocato una forte risposta da parte del governo centrale, che ha passato una serie di leggi volte a smantellare le attività delle cellule terroristiche. La repressione non ha portato alla scomparsa della Jemaah islamiyah che, nel 2009, ha organizzato la doppia incursione contro gli hotel JW Marriott e Ritz Carlton di Giacarta. Da allora il movimento sta ricostruendo, pazientemente, la propria base ed i propri contatti in Indonesia anche se sembra aver abbandonato il progetto di perseguire la costruzione di un califfato trans-nazionale in Asia Sudorientale. L’obiettivo degli islamisti è l’Indonesia anche se potrebbero cercare di consolidare le proprie posizioni nelle Filippine meridionali, che potrebbero fungere da base logistica. La Jemaah islamiyah non è l’unico elemento che minaccia la stabilità dell’Indonesia. Negli ultimi anni la nazione è stata sconvolta da una serie di attacchi mortali. Tra questi ci sono l’attentato terroristico del 2016 contro lo Starbuck Coffee di Giacarta costato la vita a quattro civili, quello contro una stazione degli autobus della capitale che ha provocato la morte di tre poliziotti, l’attentato contro una chiesa nel Kalimantan che ha portato alla morte di una bambina di due anni ed al ferimento di altri bambini. Un altro episodio di violenza ha avuto luogo nel maggio del 2018 quando due famiglie sono state protagoniste di attentati suicidi nelle chiese di Surabaya ed una dozzina di persone ha perso la vita. Nel corso della Domenica delle Palme del 2021 è stato portato a termine un attentato suicida contro la Chiesa del Sacro Cuore di Gesù di Makassar, nelle isole Sulawesi meridionali. L’esplosione, che ha portato alla morte dei due attentatori ed al ferimento di venti persone, ha suscitato una forte condanna da parte della comunità internazionale e ad una proclamazione di solidarietà verso la Chiesa in Indonesia. Il gruppo terroristico locale denominato Jamaah Ansharut Daulah si è dimostrato particolarmente attivo ed è ritenuto responsabile dell’attentato contro tre chiese di Surabaya del 2018 e di altri episodi terroristici che hanno avuto luogo tra il 2016 ed il 2017. Il gruppo, considerato molto vicino all’Is, è stato designato come organizzazione terroristica dagli Stati Uniti nel 2017, mentre nel 2018 la Corte Distrettuale di Giacarta meridionale ne ha chiesto l’immediato smantellamento ai sensi della legge anti-terrorismo del 2002. La polizia indonesiana ha riferito che almeno uno dei due autori dell’attentato suicida della Cattedrale del Sacro Cuore a Makassar è membro del Jamaah Ansharut Daulah. L’Indonesia, che in passato è stata lodata dalla comunità internazionale per la sua pronta reazione e risposta ad alcuni attentati terroristici, ha di fronte a sé un compito difficile. La pandemia, oltre ad essere una grave emergenza sanitaria, causa danni ai sistemi economici e può aumentare la povertà e l’alienazione sperimentata dalle fasce più fragili della popolazione. Il governo del Presidente Joko Widodo dovrà evitare che questi sviluppi si traducano in maggiori opportunità di reclutamento per i terroristi e per farlo dovrà agire su un doppio fronte. Il contrasto sul campo ai radicali islamici e l’implementazione di programmi di supporto sociale ed economico nei confronti dei più poveri. L’inclusione e il dialogo possono essere molto efficaci nell’arginare la minaccia terroristica.