E adesso riducete le pene a tutti i detenuti di Stefano Anastasia* Il Riformista, 1 aprile 2021 Questo anno molto più afflittivo degli altri è una ferita. Merita un atto di giustizia che solo il Parlamento può compiere. Grandi speranze ha suscitato l’arrivo di Marta Cartabia al Ministero della Giustizia. Grandi quanto grande è stata la sofferenza di questi mesi di pandemia in carcere. La vita quotidiana, le relazioni con i familiari, la prospettiva del reinserimento, tutto si è fatto più difficile. I rapporti con i figli sopra ogni altro: come si può mantenere una relazione significativa con bambini di pochi anni attraverso venti minuti di videochiamata alla settimana da condividere con tutti gli altri familiari? La tecnologia, certo, un po’ ha aiutato, ma se non ha risolto i problemi della nostra vita sociale dimidiata fuori, è mai possibile che risolva i problemi di chi a quella tecnologia ha potuto far accesso per pochi minuti alla settimana, a turno, secondo gli orari stabiliti dall’Amministrazione? Poi, quando arriva il focolaio, tutto precipita nell’isolamento, di chi ha contratto il virus e di chi no. La “chiusura” delle sezioni rimane la soluzione più semplice e sbrigativa. anche se talvolta viene fatta senza vera prevenzione, lasciando nella stessa stanza persone in attesa del risultato di tamponi che potrebbero metterli su binari diversi, dei positivi e dei negativi. Si chiama “isolamento di coorte” e va molto di moda in carcere. Del resto, nonostante la riduzione del numero dei detenuti, gli spazi sono quelli che sono, e come si fa a rispettare le norme generali di prevenzione che vorrebbero non solo separati i positivi dai negativi, ma soprattutto isolati quelli di cui ancora non si sa se siano tra gli uni o tra gli altri? La speranza, dunque, non è solo nella Ministra, ma anche nel vaccino. Non a caso la prima importante presa di posizione della professoressa Cartabia è stata proprio sulla priorità vaccinale delle comunità penitenziarie, e da allora - nonostante gli stop & go su questo o quel vaccino, nonostante qualche improvvida voce istituzionale dal sen sfuggita, ma tempestivamente autocorrettasi - la campagna vaccinale in carcere è partita: lunedì sera erano 4.540 i detenuti “vaccinati”, 15.000 le unità di personale “avviate alla vaccinazione” (qualunque cosa questa differenza terminologica significhi nel linguaggio ministeriale). All’appello ne mancano circa 80mila (al netto dei richiami). Roba che, forniture permettendo, si può smaltire in una settimana o poco più di impegno serio e coordinato da parte di Asl e Istituti penitenziari. Speriamo, dunque, che nel corso del mese di aprile tutti i detenuti e tutto il personale possa avere almeno la prima somministrazione del vaccino. Poi, lentamente, si potrà tornare alla normale vita del carcere (se “normale” si può chiamare la vita in un carcere): potranno riprendere le attività, e prima di tutto la scuola, i colloqui in presenza e i contatti umani. Resteranno, però, quelle ferite profonde che i detenuti di Rebibbia ci raccontano. Ferite che medierebbero un atto di giustizia, che solo il Parlamento può compiere, nella sua piena responsabilità e nella consapevolezza di quello che è stato. Questo anno di pena in carcere non è stato un anno come gli altri, ma molto più afflittivo. Per ragioni di prevenzione, si sarebbe dovuto drasticamente ridurre la popolazione detenuta un anno fa. Non lo si è fatto come si sarebbe dovuto e non vale la pena di tornare a discutere di errori e passi falsi. Ma ora che vediamo la fine di questo calvario, non vediamo anche quanta sofferenza tutto ciò ha causato nei detenuti? Non è il caso di riconoscerla questa sofferenza e ridurre a tutti loro la pena ancora da scontare nella misura che il Parlamento riterrà più equa? La giustizia, dopo la pandemia. Chiamatela così, se vi piace. *Portavoce dei Garanti territoriali delle persone private della libertà Covid, il ritorno dei focolai nelle carceri, pochi i vaccini e c’è anche chi li rifiuta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 aprile 2021 Risultano positivi 683 detenuti e 853 agenti. I focolai nelle carceri sono scoppiati in istituti dove il virus si era già diffuso nei mesi scorsi. Nuovi focolai nelle carceri già “vittime” del contagio, il Covid attraversa le sbarre del 41 bis del carcere di Parma e di Cuneo come già denunciato da Il Dubbio, ma la vaccinazione della popolazione penitenziaria va a rilento. In particolare la regione Piemonte è in gran ritardo per l’equivoco scaturito durante la conferenza Stato-Regioni, nella quale il commissario straordinario Figliuolo avrebbe indicato di intervenire dopo che si siano registrati focolai. Una strategia ovviamente sbagliata, visto che in quel modo si insegue il contagio senza prevenirlo. Ma, com’è detto, ci sarebbe stato un errore di interpretazione. Per questo ora si è in attesa che il commissario invii le linee guida precise e stringenti per le immunizzazioni nella popolazione carceraria. Ricordiamo che in Piemonte sono scoppiati nuovo focolai nelle carceri di Cuneo (13 casi, diversi al 41 bis), di Asti (51) e di Saluzzo (28). Secondo i dati risalenti a lunedì scorso alle ore 19, risultano 683 detenuti e 853 agenti penitenziari infettati dal Covid. Numeri che ovviamente non contemplano i nuovi focolai nelle carceri, quindi sono destinati a crescere. Finora vaccinati 4.540 detenuti e 13.592 agenti penitenziari - Per quanto riguarda la campagna per l’immunizzazione, risulta che finora sono stati vaccinati 4540 detenuti e 13.592 agenti penitenziari. Ricordiamo al 28 febbraio scorso c’era una popolazione penitenziaria di 53.697 detenuti. Come hanno recentemente osservato i garanti territoriali durante la loro assemblea, c’è una situazione a macchia di leopardo. In alcune regioni, come la Lombardia, la campagna vaccinale è iniziata sia tra le persone detenute sia tra il personale della polizia penitenziaria, in altre ancora no. Nel Lazio, l’assessorato alla Sanità ha scelto di utilizzare il vaccino della Johnson & Johnson, disponibile da aprile, per semplificare le procedure, in quanto non è necessaria la seconda somministrazione. In Veneto un terzo della popolazione carceraria non vorrebbe vaccinarsi. Anche in Sicilia la percentuale di astensioni sarebbe intorno al trenta per cento. Ma intanto divampano nuovi focolai nelle carceri. C’è il caso dell’istituto femminile di Rebibbia, dove la garante locale Gabriella Stramaccioni ha confermato che sono 48 le donne attualmente positive, fra cui una mamma del nido con un bambino di appena un mese. I reparti sono chiusi di nuovo, e - come sottolinea la garante - “tutto avviene nonostante gli ingressi siano molto ridotti e tutte le attività ferme”. Anche al penale, dove le attività sono ferme da tempo, si registrano diversi casi di positività. “E sempre più urgente - denuncia Stramaccioni - programmare le vaccinazioni all’interno degli istituti del Lazio. Le chiusure non bastano. Lo sconforto è sempre più diffuso e di date certe non si hanno conferme”. C’è anche il carcere di Melfi (Potenza) sono state riscontrati 36 casi di Covid, come annunciato da sindaco, che ha sottolineato: “Non c’è alcuna ragione di allarmarsi, nel senso che si tratta di un focolaio circoscritto all’interno del carcere che richiede attenzioni specifiche”. A Parma rifatti i tamponi a tutti i detenuti - Nel frattempo al carcere di Parma, istituto ad alta complessità sanitaria, sono stati rifatti i tamponi a tutti i detenuti. In particolare a quelli reclusi al 41 bis. Risultano 18 i detenuti al carcere duro positivi al Covid, uno dei quali è in ospedale. Ricordiamo che nel 41 bis sono allocati soggetti con importanti vulnerabilità per età o per patologie e che un’eventuale infezione potrebbe portare a complicanze non prevedibili. Il Covid ritorna a farsi sentire anche al carcere Due Palazzi di Padova, dove risultano una cinquantina i detenuti positivi (1 ricoverato) e 11 agenti. Focolai nelle carceri che si riattivano nonostante la chiusura delle attività, che hanno come risultato quello di interrompere le opere trattamentali utili per ridare speranza e occupazione a chi è confinato dietro le sbarre. Il vaccino aiuta a ridurre il danno e prevenire nuovi focolai. Ma ancora siamo in alto mare, sia per la lentezza, sia per i tanti che rifiutano di farlo. Carcere e sovraffollamento, il Covid fa paura: “Tanti focolai, i nodi vengono al pettine” di David Allegranti La Nazione, 1 aprile 2021 Il panorama del contagio negli istituti penitenziari è allarmante. Le parole di Sofia Ciuffoletti, direttrice dell’Altro Diritto. Un (nuovo) focolaio a Rebibbia, Roma, con oltre 40 detenute e 4 agenti di polizia penitenziaria positive Covid-19. Focolai nelle carceri a Saluzzo (27 detenuti, raddoppiati in 48 ore, 3 agenti e un impiegato) e Cuneo (11 detenuti e 6 agenti). Focolaio nel reparto 41 bis del carcere di Parma, con 11 detenuti, 30 agenti del gruppo operativo mobile e quattro agenti di polizia penitenziaria contagiati. A Melfi, altro focolaio: 36 positivi. E poi la Toscana: 63 positivi a Volterra su circa 170 detenuti totali. Sono solo alcuni dei tanti casi in giro per l’Italia. Con buona pace di quelli che dicevano, qualche mese fa, che in carcere si sta meglio che fuori. Ma che cosa sta succedendo nelle carceri italiane? Quello che era ampiamente previsto. La deflazione del tasso di sovraffollamento non è stata sufficiente a garantire un adeguato distanziamento sociale, quello che a chi sta fuori è imposto, e la campagna di vaccinazione procede lentamente. “Le notizie dei focolai che sono giunte alla cronaca, e che probabilmente nascondono altri cluster meno famosi, inducono a una riflessione”, dice alla Nazione Sofia Ciuffoletti, filosofa del diritto e direttrice dell’Altro diritto. “L’andamento del contagio di un virus, di un’epidemia dunque o addirittura di una pandemia, all’interno del contesto di istituzione totale qual è un carcere avviene per l’appunto per cluster, per focolai. Nelle carceri il contagio si propaga all’interno di focolai piccoli e medi. L’ipotesi è che ciò che si è verificato nelle Rsa nella prima ondata oggi si stia verificando nelle istituzioni penitenziarie, la cui unica risposta efficace nel fronteggiare l’emergenza sanitaria per ora è stata la chiusura ermetica a ogni attività esterna. Le carceri sono già un luogo chiuso di per sé, ma a causa della pandemia lo sono diventate ancora di più. È una misura che non può reggere un intero anno. L’altra risposta efficace sarebbe stata - e dico sarebbe perché è rimasta una strada inesplorata - la riduzione drastica del sovraffollamento”. Le misure prese dopo l’inizio dell’emergenza sanitaria, a legislazione invariata, “hanno inciso poco sul sovraffollamento mentre ha inciso molto di più l’impegno della magistratura di sorveglianza che, nonostante il clamore mediatico, ha ridotto la popolazione carceraria secondo i requisiti di legge già presenti prima dell’inizio della pandemia. In Italia il sovraffollamento è endemico, non è risolto da decenni. Si è fatto in un anno quello che non si è fatto in decenni. Ora però lo zoccolo duro dei detenuti che avrebbe già potuto uscire perché ne aveva i requisiti, a prescindere dall’emergenza sanitaria, si è esaurito. Nelle carceri ci sono sempre 54 mila persone a fronte di una capienza massima regolamentare di 57 mila. Nelle carceri italiane ci sono 7 mila detenuti in più”. E di solito, spiega Ciuffoletti la maggior parte degli istituti medi e grandi sono sovraffollati. Pensiamo al caso della Toscana, Regione che Ciuffoletti conosce bene essendo anche Garante dei diritti delle persone private della libertà personali a San Gimignano. Sollicciano ha una capienza regolamentare di 490 posti a fronte di circa 670 persone detenute attualmente. In più c’è stato un problema con la campagna di vaccinazione. “C’è stato un tira e molla morale, un ricatto emotivo nei confronti dei detenuti: c’è l’idea che chi è dentro un carcere non possa essere trattato alla stessa maniera di chi è fuori. Peraltro, nelle carceri ci son in larga parte persone non condannate in via definitiva, con buona pace del principio della presunzione di innocenza, e che sono in attesa di condanna definitiva. Questo ricatto morale, questo tira e molla sui diritti, induce a pensare che ci sia un livello minore di tutela sanitaria nei confronti di chi è in carcere. È tempo di dire che così non è e che la tutela del diritto alla salute delle persone in carcere è rilevante tanto quella delle persone fuori”. A San Gimignano, dove Ciuffoletti è Garante e dove ci sono 300 detenuti, la campagna vaccinale è stata fatta efficacemente. Lì sono stati vaccinati subito operatori e operatrici. Ma altrove procede a rilento. A Sollicciano non sono stati vaccinati né operatori né volontari delle associazioni come quella di Altro diritto. Dopo lo stop del vaccino AstraZeneca, che nel frattempo ha cambiato nome, si è diffusa la paura in carcere. Ciuffoletti l’ha verificato di persona. “Se già noi abbiamo paura, con tutte le possibilità di informarci che abbiamo, anche grazie a fonti dirette, in carcere, dove c’è accesso solo a tv e alcuni giornali, ma non c’è Internet, le persone scontano un deficit informatico e conoscitivo. Anche quello diretto. Io posso chiamare mio zio medico, la mia migliore amica medico, o il mio medico di famiglia. Ma questo meccanismo in carcere non funziona e dopo il caso di Astrazeneca i detenuti a San Gimignano erano tutti spaventati. La situazione si è sanata in larghissima parte perché l’area sanitaria e la direzione sono andate a parlare e a informare le persone che non erano convinte, dando l’esempio e vaccinandosi loro per primi davanti ai detenuti. Le campagne vaccinali vanno seguite bene, dando informazioni alle persone che hanno legittimamente dei dubbi, specialmente in carcere. Quando manca la cura, come sanno gli agronomi, si muore. Anche perché stare male in carcere è diverso dallo stare male fuori”. “Il contagio spaventa, ma la paura più grande è essere dimenticati” di Andrea Ponzano Il Riformista, 1 aprile 2021 Mario, Luca, Abdul e tanti altri. Abbiamo raccolto le voci dei reclusi di Rebibbia per raccontare questi lunghi mesi di pandemia in prigione, dove il virus ha insegnato una lezione già nota: tra quelle mura la Costituzione è solo un miraggio. “Vorrei dormire per giorni, mesi interi e svegliarmi quando tutto sarà finito. A volte penso che se ci fosse una medicina per dormire un anno pagherei per averla, risparmierei tutta questa inutile sofferenza che non farà di me un uomo migliore, non uscirò da qui meglio di come sono entrato ma solo più cattivo”. Mario è italiano, ha 58 anni ed è un detenuto di Rebibbia. Nel suo reparto c’è Luciano che di anni ne ha 64 ed è risultato positivo al Covid: “Sono stato portato in una sezione isolata, chiuso in una cella con altri detenuti contagiati. Mi controllavano temperatura e ossigeno. Ho preso cortisone e altri farmaci perché sono peggiorato, la saturazione era scesa sotto il 90, pensavo di morire”. Gino ha 83 anni, è dentro per fatti che risalgono a 34 anni prima: “Non mi ha mai chiamato nessun operatore, nessuno psicologo, nessun educatore, né prima né durante l’emergenza sanitaria. Pensa che nessuno si è mai preoccupato anche solo di chiedermi come stessi considerata la mia età e il rischio concreto di morte in caso di contagio”. Dopo un anno di pandemia, per la prima volta, le drammatiche e personali testimonianze dei detenuti di Rebibbia superano le sbarre e raggiungono il mondo fuori. Sono grida di sofferenza. sono storie di solitudine e isolamento. Arrivano dopo l’appello che i detenuti del carcere romano avevano già rivolto alla nuova Guardasigilli Marta Cartabia qualche settimana fa, successivamente all’irrigidimento delle restrizioni adottate all’interno dell’istituto a seguito di un focolaio scoppiato a fine gennaio tra le mura del penitenziario. La neo ministra, già presidente della Corte costituzionale da sempre sensibile al tema rieducativo della pena, era entrata negli istituti di pena con il Viaggio in Italia, la Corte costituzionale nelle carceri, il documentario presentato alla Mostra del cinema di Venezia due anni fa, prima che tutto accadesse. Oggi alla professoressa Cartabia, Mario chiederebbe di ritornare in carcere, “ma senza dare preavviso” scrive, “se no, le farebbero vedere la parte meno malata”. Abdul è un marocchino di 54 anni. E stato in carcere anche in Marocco e in Spagna: “Li, i detenuti pagano la loro pena con dignità a differenza dell’Italia. Qui, prima dell’epidemia, non potevi abbracciare i tuoi cari o fare una telefonata alla tua famiglia in caso di emergenza. Tutto è vietato per non parlare delle condizioni di detenzione con celle sovraffollate ben oltre i limiti consentiti dai parametri europei “. Silvio è un rumeno di 35 anni: “Al di là del virus, ci sentiamo calpestati dalla mancanza di un vero percorso rieducativo, dall’assenza di operatori, dal sovraffollamento, dal totale abbandono in cui stiamo vivendo”. La pandemia all’interno delle carceri ha dimostrato come il problema endemico del sovraffollamento sia ancora un capitolo aperto anche se la popolazione carceraria è notevolmente diminuita. Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, sono 7.533 i detenuti in meno rispetto al pre pandemia cioè un calo del 12,3 per cento. Ma non basta. Il nuovo complesso di Rebibbia si compone di diversi reparti. Ognuno è come fosse un carcere a sé con circa 350 posti. I reparti sono denominati G8, G9, G11 e G12. C’è l’infermeria centrale e c’è il G6, quello per l’accoglienza dei detenuti con acuzie psichiatriche. Tutte le sezioni hanno le zone di passeggio per l’ora d’aria, una biblioteca, un’infermeria, gli uffici direttivi e di sorveglianza e una piccola chiesa. Poi ci sono le aree comuni a tutti i settori come il teatro, la grande chiesa, l’area verde per colloqui con i familiari, le sale per gli avvocati e quelle per i visitatori. L’istituto penitenziario ha un direttore e un comandante, ma ogni reparto ha un suo responsabile che è anche vice direttore di tutto l’istituto penitenziario. Ogni blocco è indipendente, opera come fosse un singolo istituto di pena sotto la sovrintendenza della direzione centrale. Luca ha 44 anni, è italiano. Scrive da Rebibbia: “Oggi siamo oltre 1.500 detenuti ma i posti disponibili penso siano intorno ai 1.200. Le celle più comuni hanno 6 posti letto e misurano circa 20 metri quadri ma la metratura calpestabile, togliendo letti e mobilio, è di circa la metà: 10 metri quadri per 6 persone”. Il tasso medio di affollamento delle carceri italiane è arrivato al 115 per cento. Un terreno fertile per la diffusione del virus che in carcere ha un’incidenza più alta rispetto a fuori. Al 29 marzo, erano 683 i detenuti positivi, gli agenti contagiati 797, 56 nello staff dell’amministrazione. Dall’inizio della pandemia, secondo i dati di Antigone 18 detenuti sono morti per Covid. 11 i decessi nella polizia penitenziaria, 3 il mese scorso solo nel carcere di Carinola. Ci sono anche i 13 morti dopo le rivolte negli istituti di pena dello scorso anno, un numero tragico che non ha precedenti nella storia repubblicana. Fu il primo e il più terribile effetto collaterale della pandemia, il blocco dei colloqui, le ore d’aria cancellate, lo stop alle attività trattamentali. Luca pensa a sua figlia di 7 anni: “Sì, ho paura del Covid. Qui la situazione non sembra sotto controllo, c’è tanta improvvisazione senza alcuna strategia. Ma la paura più grande è quella di essere dimenticati dalle persone che ti vogliono bene. I legami si recidono se non vengono curati, soprattutto quando ci sono i minori bisognerebbe adoperarsi nel loro interesse primario. I colloqui consentiti, un’ora al mese con vetro separatore e citofono, aggravano la nostra sofferenza perché non sono tollerabili da bambini in tenera età. Da oltre un anno non incontro i miei cari, mio padre, la mia convivente e soprattutto mia figlia”. Anche Paolo ha scelto di non vedere i suoi figli di 10 e 15 anni per evitargli la tortura del colloquio: “Vedo mia moglie un’ora al mese dietro il plexiglas. Gli incontri si svolgono in sale con divisori e telefoni a filo ma non si sente nulla perché l’ambiente è piccolo, mettono 4 o 5 detenuti uno di fianco all’altro, il citofono è di pessima qualità e occorre urlare per comunicare”. Per la stessa ragione, Silvio non vede la sua bambina da un anno. Anche Mario che ha tre figli adulti ha preferito non vederli: “So che i più piccoli potrebbero entrare ma nessuno dei detenuti che conosco ha voluto fargli vivere questa esperienza”. Il Coronavirus ha “rotto il tabù del digitale in carcere” scrive Antigone sul report. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha autorizzato limitatamente alla fase dell’emergenza, l’uso delle videochiamate con i propri familiari. Smartphone, tablet e pc che prima erano strumenti demonizzati dentro le carceri, oggi vengono incentivati dallo stesso Dap. Una telefonata a settimana della durata di venti minuti. L’uso delle tecnologie potrebbe restare nell’organico del Sistema ad emergenza passata. Un passo importante per i diritti dei reclusi ma non possono bastare pochi minuti di conversazione audio video per tenere in piedi i legami affettivi scrivono i detenuti di Rebibbia. Ci sono tante difficoltà racconta Mario: “La linea è troppo spesso disturbata dalle chiamate che entrano mentre parli e che interrompono il collegamento. Anche l’impossibilità di scegliere l’orario della videochiamata è un disagio perché i familiari lavorano o i figli vanno a scuola”. Abdul ha un padre anziano molto malato, non riesce a parlarci perché vive in un’altra città rispetto a sua moglie e non si può chiamare più di un’utenza. Silvio è stato contagiato ma non ha avuto problemi di salute: “Sono stato completamente isolato. Non ho potuto fare nulla per circa 20 giorni. Niente ora d’aria, niente camminate, niente socialità. Niente di niente. Sono a Rebibbia da due anni e non mi ha mai chiamato nessuno, solo l’infermeria quando sono stato contagiato”. Abdul ha paura di infettarsi: “Vedo che i casi all’interno dell’istituto aumentano sempre di più e non mi sembra che le precauzioni adottate portino risultati soddisfacenti. L’unico intervento che viene predisposto è quello di chiudere tutto, in cella 24 su 24 senza contatti con nessuno. Anche per giorni e giorni neanche fossimo animali. Non ricordo di essere mai stato chiamato in 4 anni che sono a Rebibbia”. Manca il personale. Secondo i dati raccolti dall’associazione per i diritti dei detenuti, gli agenti di polizia penitenziaria sono il 12,5 per cento in meno di quello che dovrebbero essere seppur in aumento rispetto al 2019. Gli educatori la cui funzione è centrale nella lotta alla recidiva e al recupero del detenuto, dovrebbero essere 896 ma se ne contano 733 su tutto il territorio nazionale. “Per parecchio tempo tutte le attività sono state sospese” racconta Paolo, “dal lavoro allo studio, dalle attività come il teatro che in carcere è molto importante fino alla possibilità di fare attività fisica. Tutto ciò ha creato grandi problemi soprattutto sull’equilibrio psichico. Sono aumentati gli episodi di autolesionismo e di litigi tra i detenuti anche per futili motivi”. Lo confermano i numeri. Nell’anno del Covid, su 100 detenuti, si è registrata una media di 24 casi di autolesionismo e il tasso aumenta per le carceri più affollate. Nel 2020 sono stati 61 i suicidi, un record negli ultimi vent’anni. Marco è italiano, ha 35 anni: “Ho visto tantissime persone compiere gesti autolesionisti, persone che prima non avevano mai manifestato segni di disagio ma che non hanno retto questa situazione soprattutto l’attesa dei colloqui con i familiari”. I detenuti guardano con fiducia la professoressa Marta Cartabia che dopo la nomina a ministro della Giustizia ha inserito le carceri tra le priorità del programma vaccinale. Il 2 marzo la nuova Guardasigilli ha incontrato i vertici dell’Amministrazione penitenziaria dichiarando già iniziate le vaccinazioni negli istituti. Al 29 marzo, i detenuti vaccinati erano 4.540. Si deve fare in fretta ma non c’è una sanità penitenziaria. Bisogna rimettersi alle scelte e alle disponibilità delle singole regioni con una tempistica di intervento non omogenea. Luciano ha sconfitto il virus: “Adesso. cerco di non sforzarmi troppo, sono ancora debole, mi concedo solo delle brevi camminate. Voglio solo lasciarmi alle spalle questa terribile esperienza che mi ha sconvolto la vita”. Gino si distrae con qualche lavoretto artigianale ma per lo più passa il tempo a letto: “Mi sento depresso e non ho più l’età né la forza mentale per reagire”. Abdul trascorre le giornate guardando la tv o leggendo un libro, una cosa complicata perché la biblioteca della sezione è chiusa: “Se penso a come passo i miei giorni mi viene da piangere, mi rendo conto che è tutto tempo buttato”. Paolo è riuscito a trovare qualche libro, legge in attesa di riprendere gli studi. Mario si occupava della biblioteca del reparto. Aiutava i compagni a scegliere un libro, prima. Soffre di diabete. È imprigionato nelle le sabbie mobili del a burocrazia. Avrebbe diritto alla detenzione domiciliare perché non ha commesso un reato ostativo e finisce di scontare la pena tra un anno: “Questo sistema così come è, porta i detenuti alla esasperazione e non ha alcuna finalità rieducativa. Chi sopravvive esce peggio di come è entrato. Qualcuno non riesce a sopportare la sofferenza e decide di farla finita. Quanti uomini tra queste mura se ne sono voluti andare per fuggire da questo inferno”. L’esperienza della pandemia all’interno delle carceri ha insegnato una lezione che i detenuti conoscevano già. Il Covid ha solo aggravato le carenze di un sistema che tarda a modernizzarsi, che fatica a garantire una pena umana e riabilitativa come previsto dalla Costituzione. Non a caso Antigone ha battezzato il suo ultimo report Oltre il virus perché il contagio è solo l’ultimo dei problemi con cui il mondo dietro le sbarre deve fare i conti. Le storie dei detenuti di Rebibbia si somigliano tutte. Navigano al buio in attesa che la stella polare della Costituzione torni a illuminare la Galassia penitenziaria perché la parola “rieducazione” diventi un principio dal significato umano prima ancora che costituzionale. Appello alla Cartabia: la Magistratura di Sorveglianza non va dimenticata di Samuele Ciambriello* Il Riformista, 1 aprile 2021 Mi sono più volte espresso sia sui ritardi di funzionamento dell’Ufficio di Sorveglianza, in termini di tempi e di efficacia delle risposte da garantire ai detenuti, sia in termini di carenza di personale, condividendo le mie preoccupazioni in tal senso, nel febbraio del 2020, attraverso una lettera indirizzata all’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. In quella mia comunicazione si evidenziava come la carenza di personale rischiasse di mettere in ginocchio il funzionamento di un settore strategico della giustizia, quello deputato all’esecuzione della pena, ben prima che emergessero le difficoltà organizzative e gestionali legate al Covid. Inoltre il continuo rinvio degli appuntamenti già calendarizzati con i responsabili dell’Ufficio di Sorveglianza e il mancato incremento del personale amministrativo e dei magistrati di sorveglianza da parte del Ministero, apparivano come una sorta di “politica dello struzzo”. Quella tanto bistrattata esecuzione della pena non interessa a nessuno, se non a parole ed esclusivamente in funzione di slogan usati per invocare la famosa certezza della pena che, in conseguenza di tale carenza di mezzi, non può essere assicurata. La polemica scatenatasi tra la Camera penale e il Tribunale di Sorveglianza di Napoli, dunque, non è di certo una novità. Gli ultimi governi hanno mostrato opinioni divergenti circa l’operatività e l’organizzazione della giustizia. Anche l’ex presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Adriana Pangia, ha denunciato la mancanza di una risposta risolutiva da parte del Ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Quanto evidenziato dalla Camera Penale sui ritardi disfunzionali non può non essere condiviso. Circa un anno fa i numeri della sofferenza degli uffici del Tribunale di Sorveglianza erano così riassunti: mancavano il 42% del personale amministrativo a Napoli e Avellino, il 37% a Santa Maria Capua Vetere e contestualmente aumentava il carico di lavoro con 17mila procedure in più dinanzi al Tribunale e addirittura 39mila in più da evadere per il solo Ufficio di Sorveglianza. Quello che mi preoccupa, in questo caso, sono i toni polemici a discapito della qualità della pena e dell’accesso alle misure alternative alla detenzione che, a mio parere, rappresentano gli elementi fondanti del reinserimento sociale. Non intendo rinfocolare una polemica che rischia di essere dannosa e non rendere giustizia al lavoro dei magistrati di sorveglianza e degli avvocati, ma voglio fare il punto dell’attuale situazione giudiziaria, concentrandomi sugli elementi del trattamento che per legge devono essere garantiti alle persone ristrette sulla scorta dell’ordinamento penitenziario. Nella mia relazione annuale 2020 ho evidenziato che su 1.292 colloqui effettuati con i detenuti, la prima criticità è risultata essere quella sanitaria, seguita con 601 richieste da quella relativa ai ritardi di risposta e all’impossibilità di svolgere colloqui con la Magistratura di Sorveglianza. La pandemia ha amplificato ancora di più l’emergenza della giustizia sul versante dell’esecuzione penale. In tale scenario è auspicabile ristabilire un dialogo che tenda a unire le forze in funzione del mandato istituzionale e professionale così da affrontare e superare lo scenario di paralisi che vive attualmente il pianeta carcere. *Garante dei detenuti della Campania Leggere il carcere da dentro per imparare a conoscerlo di Fabiano Massimi Il Domani, 1 aprile 2021 Dei carcerati non si sa niente. Un anno fa, nelle stesse ore in cui il governo Conte decideva di rinchiudere in casa tutti i cittadini per salvarli dalla pandemia, in decine di prigioni italiane - Modena, Ascoli, Lecce, Foggia - scattò una rivolta con pochi precedenti e molti morti di cui ancora si discute. I detenuti incendiarono le celle, distrussero ali intere, fuggirono in massa. A un anno di distanza parecchi istituti devono ancora riprendersi dalle ferite di quel giorno, eppure una cosa è tornata come prima: l’ignoranza generale su cosa sia e come funzioni il carcere in Italia. Un’idea approssimativa - Si può iniziare dai numeri: 60mila detenuti, la popolazione di Viareggio; una capienza ufficiale di 47mila, che si traduce in celle stipate all’inverosimile; il 70 per cento degli scarcerati che torna dietro le sbarre entro un anno (la famosa “recidiva”); un terzo di detenuti stranieri; un quarto di tossicodipendenti; decine di bambini rinchiusi fino ai sei anni... Quante volte abbiamo sentito questi numeri? Non poche, eppure conoscerli non ci ha spinto a chiedere un intervento radicale su un sistema ormai degradato, nonostante la legislazione italiana in materia sia tra le più illuminate al mondo. Il fatto è che attuarla è molto difficile, tra problemi di budget e incertezze politiche. Ma soprattutto, il carcere è così lontano dall’esperienza della stragrande maggioranza dei cittadini da venire continuamente dimenticato. Ed ecco perché il primo passo per migliorarlo è conoscerlo. Alla fine dei conti, la nostra idea della vita dietro le sbarre si riduce a ciò che vediamo al cinema o in tv. “Le ali della libertà”, “Il miglio verde”, “Prison Break”, “Orange is the New Black”. Il carcere nel nostro immaginario parla inglese, ed è ben più avventuroso e patinato della realtà raccontata dai pochi giornalisti che periodicamente ottengono il permesso di entrare nei 191 istituti di pena sparsi per la penisola. Una realtà fatta di celle con tre metri quadri per detenuto, di servizi igienici aperti a una spanna dalle brande, di muri gelidi in inverno e roventi in estate, di ore d’aria consumate in cortili chiusi dove l’orizzonte non supera i trenta metri (e difatti la vista dei detenuti si deteriora rapidamente). Una realtà in cui, nonostante lo scopo della pena non sia penare ma riformarsi, possibilmente imparando un mestiere, i carcerati hanno pochissimo da fare. Solo una piccola frazione accede a qualche forma di lavoro, ed è un peccato, perché i numeri della recidiva sono chiari: dal 70 per cento si scende al 20 se una volta fuori l’ex detenuto trova lavoro, e addirittura all’1 per cento se un lavoro l’aveva già dentro. (Statistiche prese da “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia”, Laterza 2020). Sono cose che sanno solo gli specialisti, e non dovrebbe essere così. Tutti dovrebbero vedere il carcere da dentro almeno una volta. In Italia si fanno visite guidate a ogni genere di istituto, ma mai a quelli penitenziari, e forse sarebbe il caso. Nel frattempo, per fortuna, esiste almeno un modo efficace di organizzare visite virtuali alle carceri: la letteratura. La letteratura si occupa di questi argomenti dall’alba dei tempi - dal conte Ugolino al Conte di Montecristo - e con il Novecento, secolo di lotte politiche e guerre civili, ha prestato sempre più attenzione e voce al racconto di ciò che accade nelle patrie galere, fino a diventarne un mezzo conoscitivo prioritario. In Italia, negli ultimi vent’anni, sono usciti libri eccezionali come quello di Sandro Bonvissuto, che in “Dentro” racconta un’esperienza dietro le sbarre che diventa ritratto corale: il detenuto che non si fa lavare i panni a casa perché il cane sentirebbe il suo odore e impazzirebbe; quello che una volta uscito non riesce più a mangiare con posate di ferro e deve usare le mani nude; quello che non lascia mai la sua cella tranne, ogni tanto, per uscire in cortile a piantare il naso a un centimetro dal muro, l’unico modo per non vederlo più (“Il muro è il più spaventoso strumento di violenza. Non si è mai evoluto, perché è nato perfetto”). Ma anche Rosella Postorino nel romanzo “Il corpo docile” affronta con occhio impietoso un aspetto tra i più vergognosi del nostro sistema: la presenza nelle carceri di neonati e bambini, costretti da una legge lacunosa a vivere rinchiusi con le madri condannate, cui vengono poi tolti quando raggiungono i sei anni. Milena, la protagonista, ha vissuto sulla propria pelle questo dramma, e una volta cresciuta è entrata in un’associazione di volontari che a quei bambini cerca di portare un po’ di luce (perché il carcere è un luogo buissimo, dentro e fuor di metafora). Ma come evitare che i muri che li rinchiudono negli anni più importanti per la crescita diventino muri interiori? “Se la prigione è il posto di chi è stato cattivo, basta essere cattivi per tornarci” si ripete Milena bambina. “Comportarsi male, per tornare nel nido delle suore, e dormire di nuovo con la mamma”. Forme di vita inferiori - Valeria Parrella, in quell’Almarina già finalista al premio Strega 2020, racconta un’altra forma di volontariato romanzando la sua esperienza come insegnante nel carcere minorile di Nisida, l’incantevole isola alla fonda nel mare di Posillipo. Peccato che l’incanto manchi del tutto nella vita dei minori che vi sono rinchiusi, condannati a “un dolore che non finisce, da cui non puoi mai distrarti. Perché “chiunque varchi la porta di un carcere lo sa (e se non lo sa, lo sente) che sta passando da un’altra parte inconciliabile con la promessa che ci fecero da bambini: che la vita non avrebbe fatto paura, e non saremmo mai rimasti soli. Il carcere invece è paura e solitudine. In carcere ti addormenti e quando ti svegli sei in carcere. In carcere impari presto che meno fai meglio è”. Proprio il contrario di ciò che dovremmo insegnare a quei ragazzi per evitare che i cancelli della prigione si trasformino in porte girevoli. A descrivere e divulgare questa emergenza civile perenne si è impegnata anche la narrativa criminale, i cui autori spesso l’hanno conosciuta personalmente. Massimo Carlotto, maestro del noir mediterraneo e a suo tempo celebre caso giudiziario, ha raccontato il carcere in molti modi nelle avventure dell’Alligatore, ex detenuto che lavora come investigatore privato senza dimenticare il suo passato criminale, né le violenze subite dietro le sbarre, rievocate in uno degli episodi più riusciti della serie, “Il maestro di nodi”. Igor De Amicis, invece, il carcere lo ha frequentato dal versante opposto, come commissario capo di polizia penitenziaria, e nel thriller La settima lapide mette in scena un protagonista che dopo vent’anni al gabbio ha ottenuto la libertà anticipata ed è deciso a ripartire con una vita differente. Ma una volta fuori è molto difficile liberarsi dalle abitudini del passato, e l’autore si interroga sulla reale capacità dell’istituzione di restituire al mondo uomini e donne riformati, pronti a reintegrarsi nella società. Ad alleggerire i toni - ridere sì, ma sul serio, diceva Umberto Eco - ci ha provato da ultimo Marco Malvaldi, il giallista toscano padre del BarLume, che insieme a un detenuto vero, Glay Ghammouri, ha scritto una commedia penitenziaria sulla quotidianità dei condannati. A tratti Vento in scatola sembra quasi un manuale in cui apprendere il meccanismo che regola le varie mansioni (lo scopino, lo spesino), il comportamento da tenere con gli agenti (mai chiamarli secondini!), il modo corretto di compilare una richiesta (la domandina). E tra un sorriso e l’altro viene un po’ di amarezza nell’accorgersi che tutto, dietro le sbarre, è rimpicciolito, ribattezzato con diminutivi dal sapore infantile che sembrano voler ridurre i carcerati a forme di vita inferiore. Figli di un dio minore, recitava il titolo di un film famoso, ma se un giorno fossimo noi, quelli rinchiusi dietro le sbarre? Se fossero i nostri figli? Forse dovremmo iniziare a pensarci adesso. Forse dovremmo invocare subito l’intervento di un dio maggiore. Laurearsi dietro le sbarre: uno spiraglio di luce per i detenuti di Marina Di Cagno traileoni.it, 1 aprile 2021 Negli ultimi anni sempre più atenei hanno svolto un ruolo cruciale nella promozione dello studio universitario dei detenuti, facendo di un “diritto fantasma” una concreta e fruibile possibilità per i condannati alla pena carceraria. È in questo modo che si realizza pienamente il tanto auspicato fine della detenzione: il recupero della persona e il suo reinserimento nel tessuto sociale. Quello dell’istruzione universitaria nelle carceri non è un tema che campeggia solitamente sulle prime pagine dei quotidiani. Le sue profonde criticità solo in tempi recenti sono divenute oggetto di una maggiore attenzione che potrebbe auspicabilmente condurre a una loro soluzione. Un piccolo passo in avanti, questo, perfettamente sintetizzato nella nascita del Cnupp (Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari) nell’aprile 2018, che costituisce la formalizzazione del coordinamento dei responsabili dell’attività di formazione universitaria in carcere. Infatti, negli ultimi anni sempre più atenei hanno svolto un ruolo cruciale nella promozione dello studio universitario dei detenuti. Le facoltà più gettonate sono quelle politico-sociologiche, che vedono iscritto circa un quarto dei carcerati. Le materie umanistiche si aggiudicano il secondo posto. Seguono, poi, Giurisprudenza, Scienze, Agraria, Storia, Psicologia, Economia, Ingegneria e Matematica. In Italia gli studenti detenuti sono 796 (Associazione Antigone, 2019), distribuiti tra 70 istituti penitenziari e 30 atenei. Sono numeri che potrebbero trarre in inganno e sembrare eccezionalmente elevati. Tuttavia, potrebbe essere deludente constatare che si tratta del solo 1% del totale dei carcerati. È un dato alquanto curioso se si osserva che quello all’istruzione è (o dovrebbe essere) un diritto e, in quanto tale, dovrebbe essere garantito a quanti abbiano voglia di esercitarlo. Purtroppo, a quanto pare, è un diritto “fantasma”, valido solo su carta. L’art 19 della legge n. 354 del 26 luglio 1975, approvata nel contesto della riforma dell’ordinamento carcerario, recita, infatti: “È agevolato il compimento degli studi dei corsi universitari ed equiparati”. L’inconsistenza di tale norma è tutta qui: il termine “agevolato”, più che a un diritto pienamente esigibile, rimanda ad una sorta di concessione nei confronti dei carcerati che avanzano la pretenziosa richiesta di ricevere un’istruzione universitaria. A ciò si aggiunga che ogni istituto si è dotato di ordinamenti interni che declinano la legge in maniera del tutto disallineata rispetto agli altri. Si tratta di un risultato contrastante con quello che dovrebbe essere l’obiettivo ultimo della reclusione, ovvero la “rieducazione del condannato”, come evidenzia anche l’art. 27 della Costituzione Italiana. Difatti, lo studio nelle carceri potrebbe esercitare un nobile compito: facilitare il reinserimento sociale dell’individuo una volta scontata la pena, creare, cioè, un “ponte immaginario tra dentro e fuori” che possa concretizzarsi in un reale investimento per il futuro. A partire dal 2016 la nostra Università ha profuso un notevole impegno in questa direzione, avviando il progetto “Bocconi in Opera”, in accordo con l’Amministrazione Penitenziaria della Lombardia. Obiettivo dell’iniziativa è favorire la mobilità sociale e la rieducazione dei detenuti nella Casa di Reclusione di Opera, offrendo ogni anno a dieci tra loro l’opportunità di intraprendere il percorso di laurea triennale in Economia Aziendale e Management (Cleam). Il corso viene erogato in forma totalmente gratuita, grazie soprattutto alle generose offerte di donatori che finanziano il progetto. In particolare, grazie al contributo di Luca Mignini, Alumnus Bocconi 1986, quest’anno l’ammontare raggiunto verrà raddoppiato. La sessione di laurea di aprile 2020 ha visto maturare il primo frutto di questa iniziativa: il quarantacinquenne Pasquale Genovese è stato il primo detenuto a concludere il percorso, con la sua tesi intitolata “Dall’idea alla realizzazione: come sviluppare un progetto di accoglienza integrando arte, cultura, tecnologia e turismo”. Qui di seguito un suo pensiero tratto da una lettera scritta alla Bocconi: “Sono più di dieci anni che mi dedico agli studi universitari e alla cultura in generale, prima con sociologia poi con filosofia e infine con economia. Mi sono reso conto che la cultura è forse l’unica vera ricchezza che l’uomo ha a disposizione. A prescindere ovviamente dai sentimenti, i valori e i principi che ognuno possiede. Ricchezze materiali come auto e soldi sono effimere perché possono sparire da un giorno all’altro. Invece la cultura, una volta ingerita, metabolizzata e sedimentata dentro di noi, niente e nessuno può togliercela. Non la possiamo perdere e non ce la possono rubare. Il lavoro che propongo nella mia tesi non è soltanto un’idea imprenditoriale ma anche la volontà di rimediare al torto che ho fatto alla mia famiglia e la mia terra”. E la sua riflessione è la chiara dimostrazione che il progetto ha centrato l’obiettivo: istruire e rieducare, attraverso un costante lavoro di maieutica che faccia emergere la componente migliore, spesso recondita, della persona. Una visione nuova in materia penale? di Roberto Davide Papini riforma.it, 1 aprile 2021 Alcuni interventi della ministra della Giustizia Cartabia, già presidente della Corte costituzionale, lasciano sperare in un futuro in cui il carcere non sia più l’unica possibilità per scontare una pena. Una ventata nuova al ministero della Giustizia? Sembra di sì, anche se a partire da parole del passato (eppure attualissime e quanto mai urgenti) come quelle del tedesco Gustav Radbruch (filosofo del diritto vissuto tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento) riprese da Aldo Moro in un suo scritto giovanile: “Abbiamo bisogno non tanto di un diritto penale migliore, ma di qualcosa di meglio del diritto penale”. Parole che tornano a risuonare nel dibattito pubblico grazie alla nuova ministra della Giustizia, Marta Cartabia, durante il suo video-intervento al XIV Congresso delle Nazioni Unite a Kyoto, sulla “Prevenzione del crimine”. La ministra (ex presidente della Corte costituzionale) ha confermato la sua grande attenzione al tema del carcere, ribadendo la necessità che il trattamento dei detenuti sia improntato all’idea della giustizia come riconciliazione. Cartabia ha insistito sull’importanza dei progetti di lavori di pubblica utilità, volti al reinserimento dei detenuti, sottolineando un concetto ovvio (secondo logica, ma anche avvalorato dalle statistiche): “A fronte di un trattamento carcerario più costruttivo corrisponde un più basso tasso di recidiva”. Concetto già espresso in Commissione Giustizia della Camera: “La qualità della vita dell’intera comunità penitenziaria, di chi vi opera, con professionalità e dedizione, e di chi vi si trova per scontare la pena, è un fattore direttamente proporzionale al contrasto e alla prevenzione del crimine”. Parole che non sono estemporanee, ma che raccontano di un coerente impegno di Cartabia per l’umanizzazione del carcere. Già da vicepresidente della Corte costituzionale, infatti, Cartabia aveva partecipato all’iniziativa delle visite nelle carceri, passando un’intera giornata con i detenuti di San Vittore: “I vostri problemi mi faranno compagnia nel lavoro e nella vita personale. Mi auguro che gli ideali della Costituzione possano fare compagnia a voi in questo vostro viaggio”. In più (sembra un dettaglio ma non lo è) “come primo atto appena entrata nel governo Draghi, è andata a trovare il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale”, ricorda David Allegranti sul sito web de La Nazione. Facile immaginare come questa sua visione abbia acceso molte speranze all’interno e all’esterno dell’universo carcerario. Secondo Cartabia non si può puntare solo sulla repressione all’interno di un sistema separato dal resto della società, ma occorre garantire i diritti, il rispetto e la dignità della persona umana puntando, nei confronti dei detenuti, sulla “attività riabilitativa necessaria al loro reinserimento nella società”. Così, in quella ventata di aria nuova (fresca, incoraggiante) fa piacere sentire la titolare della Giustizia citare le Mandela Rules (standard minimi per le condizioni delle carceri) e ricordare che il motto della Polizia penitenziaria Despondere spem munus nostrum, significa “garantire la speranza è il nostro compito”. Già, nella visione orientata al futuro (e non ripiegata sul passato) che Cartabia esprime sul diritto penale c’è la parola speranza, per i detenuti e per la società. E non è un caso che “Nessuno tocchi Caino” (il cui motto è il passo di Paolo Spes contra spem) abbia titolato la raccolta degli atti del suo congresso nel carcere di Opera Il viaggio della speranza, mettendo in appendice proprio una lectio magistralis di Cartabia sulle Eumenidi di Eschilo, una idea di giustizia che passa “dalla maledizione al logos”. Proprio perché sopravviva la speranza nel futuro per Cartabia “il tempo trascorso in detenzione non è un momento di mera attesa, ma deve essere un momento di cambiamento, finalizzato al reinserimento sociale dell’autore del reato”. Dunque un carcere e un diritto penale migliori, ma (per tornare a Radbruch) forse si può costruire qualcosa di meglio. Per la ministra, come ricorda Il Dubbio, è necessario orientarsi “verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La “certezza della pena” non è la “certezza del carcere”, che per gli effetti desocializzanti che comporta deve essere invocato quale extrema ratio. Occorre valorizzare piuttosto le alternative al carcere, già quali pene principali”. Aria fresca e un po’ di speranza che fanno risuonare le parole di Luigi Manconi (già ospite del Sinodo valdese e di iniziative della Fcei) in un articolo su La Repubblica del gennaio 2020: “Davvero il carcere, previsto dal diritto penale, è compatibile con il principio di umanità? Forse è ora di trovare soluzioni alternative”. Giustizia, svolta intercettazioni: “No ai tabulati telefonici senza l’assenso del gip” di Liana Milella La Repubblica, 1 aprile 2021 Il governo accoglie la proposta di Costa (Azione): recepire la sentenza della Corte di Lussemburgo. Non basta la richiesta del pm, tranne che per i reati più gravi. Spira un vento decisamente garantista sulla giustizia. Prima l’intesa sul principio europeo della “presunzione d’innocenza” su cui l’interno emiciclo della Camera, martedì pomeriggio, s’è ritrovato d’accordo. E oggi, come Repubblica ha scoperto, ecco un’altra rilevante sorpresa. Sempre a Montecitorio. Per giunta su un tema divisivo come le intercettazioni. La notizia è questa: il governo darà un parere positivo, avendolo letto e valutato in anticipo, a un ordine del giorno di Enrico Costa di Azione, Riccardo Magi di Più Europa e Lucia Annibali di Italia viva che rende obbligatorio il via libera del giudice per ottenere i tabulati del cellulare di un possibile protagonista di un reato. Anche stavolta c’è dietro una decisione dell’Europa che l’Italia deve recepire. Ma c’è di sicuro - ed è questa la svolta politica - la volontà di garantire una “giustizia giusta”. Un mood che segna anche le sentenze della Consulta, come quella sui domiciliari possibili e decisi ogni volta dai giuidici, in assenza di reati gravi, per i settantenni. Venti di garantismo, dunque. Condivisi tra destra e sinistra. Venti di cui la Guardasigilli Marta Cartabia, da giurista europea, non può che essere testimone, promotrice e apripista. Tant’è che quando Enrico Costa - l’ex forzista oggi responsabile giustizia di Azione che maneggia con abilità gli emendamenti dopo anni di vita in Parlamento - propone il suo ordine del giorno sulle intercettazioni nella legge europea che va in aula proprio oggi dal governo gli arriva un “evvai”. Cosa chiede Costa? Lui la spiega così: “L’Italia non può ignorare la decisione lapidaria della Corte del Lussemburgo sui tabulati telefonici. Per la delicatezza dello strumento non può essere solo il pm, la pubblica accusa, a chiedere e ottenere quegli elenchi, ma è necessario il via libera di un giudice terzo, il giudice per le indagini preliminari”. Nell’ordine del giorno Costa descrive gli effetti di un tabulato: “Questo strumento svela la posizione nello spazio e nel tempo di una persona e la sua cerchia di relazioni sociali. Rivela con chi parla, a che ora parla, quanto tempo parla, dove si trova quando parla, con quale frequenza lo fa, chi chiama dopo aver sentito una persona. E così la vita diventa un libro aperto”. Sì, certo, gli obiettiamo, ma il pm non è un guardone che vuole curiosare nell’intimità degli italiani. Chiede i tabulati perché intravvede un reato. Replica Costa: “Certo, ma oggi il pm può chiederlo per qualsiasi reato, anche piccolo. La futura legge dovrà stabilire che per i tabulati dovrà valere la stessa regola delle intercettazioni. Sì ai tabulati per i reati gravi, no per quelli non gravi”. Il tetto, oggi, si attesta sui reati puniti fino a 5 anni. Al di sotto niente microspie. Ma i tabulati non possono servire, nell’immediatezza, anche per scoprire l’autore di un delitto? Certo, risponde Costa, “come per le intercettazioni varrà la regola che le richieste urgenti hanno comunque il via libera, salvo l’autorizzazione posticipata del giudice. Ma serve un elenco dei reati”. Vedremo la reazione delle toghe. Ma il voto unanime sulla presunzione d’innocenza dice che i magistrati dovranno attendersi presto nuove regole di comportamento. Le norme sui tabulati potrebbero rientrare nella riforma del processo penale, mentre quelle sulla presunzione d’innocenza nella legge sull’ordinamento giudiziario con una stretta verso i comportamenti che tendono a dimostrare la colpevolezza di un imputato prima della sentenza definitiva. Visto che la Costituzione parla di “presunto” colpevole. Caro Caselli, quella di Andreotti non fu una assoluzione a metà di Francesco Damato Il Dubbio, 1 aprile 2021 Se fosse vero, come mi auguro, che la direttiva europea appena approvata alla Camera sulla presunzione d’innocenza, già stabilita del resto nella nostra Costituzione almeno a parole, dovrà tradursi, come ha detto il deputato Enrico Costa contestando la versione minimalistica datane dai grillini, segnerà la fine dei processi mediatici, delle conferenze stampa dei pubblici ministeri e dei nomi dati enfaticamente a certe indagini, come le famose “mani pulite” di una trentina d’anni fa contro tutte le mani presuntivamente sporche dei politici che capitavano sotto tiro; se fosse vero tutto questo, ripeto, dovrei tirare finalmente un sospiro di sollievo. E non unirmi allo scetticismo di chi ha già dubitato che la direttiva, per quanti sforzi si possano attendere da una ministra della Giustizia garantista come Marta Cartabia, non si tradurrà mai, o si tradurrà chissà quando, in qualche disposizione concreta che punisca i recidivi. I quali vanno intesi naturalmente come magistrati votati, destinati e quant’altro a proseguire in certe abitudini. Ma temo di non farcela a coltivare l’ottimismo della volontà piuttosto che il pessimismo della ragione, come pure esortava a fare lo sfortunato Antonio Gramsci. Nel mio pessimismo della ragione fatico anche a immaginare, di fronte al voto della Camera e ciò che ne potrà seguire, il rimorso di qualcuno dei magistrati appena glorificati sulle prime pagine di molti giornali nella pregustazione della condanna degli imputati a carico dei quali si è appena aperto un processo santificato anche dalle telecamere della televisione di Stato. Non faccio nomi perché anche in questo caso, come in altri qui lamentati, non è problema di nomi ma di metodo, essendosi già viste e sentite storie del genere di quelle denunciate e ottimisticamente date per finite dal deputato Costa. Un nome però permettetemi di farlo per lamentarmi di certe pratiche non proprio compatibili con la direttiva europea, in particolare con quella parte in cui si vieta di considerare colpevole una persona sulla quale sono state espresse nelle competenti sedi “decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza”. Ne faccio il nome- che è quello di Gian Carlo Caselli- per la grande stima che ne ho, a parte il dissenso su ciò che tornerò fra poco a contestargli, e per il coraggio col quale egli ha trattato nell’esercizio delle sue funzioni fenomeni terribili come il terrorismo prima e la mafia poi. Ebbene, da Caselli mi aspetto prima o poi, proprio per la stima che gli confermo, un po’ di rimorso per l’insistenza con la quale - polemizzando con chiunque parlasse o scrivesse dell’assoluzione definitiva, in Cassazione, di Giulio Andreotti dai reati di mafia contestatigli, a dispetto anche di quel decreto legge a rischio di illegittimità costituzionale con cui aveva rimandato in galera mafiosi che ne erano usciti per cosiddetta decorrenza dei termini della loro custodia “cautelare”- ha tante volte sostenuto la colpevolezza, invece, dell’ex presidente del Consiglio. Il quale sarebbe stato assolto solo per i fatti successivi - se non ricordo male - al 1980, risultando provati, secondo lui, ma prescritti i fatti o i rapporti precedenti con esponenti della mafia. Mi è dispiaciuto, ripeto, per la stima che ho di Caselli e non solo per essere stato fra i giornalisti con i quali lui ha polemizzato, ch’egli abbia continuato a sostenere la tesi dell’assoluzione praticamente a metà anche dopo che gli avvocati difensori dell’ancor vivo ex imputato gli risposero educatamente una volta riportando un virgolettato della voluminosa sentenza della Cassazione. In esso si riconosceva pari credibilità, cioè nulla ai fini di un giudizio finale, sia a una lettura colpevolista dei fatti e rapporti antecedenti il 1980 sia a quella innocentista. Ricordo con rammarico, a dir poco, il rifiuto oppostomi dal direttore del giornale sul quale si era svolta la polemica con l’ex capo della Procura di Palermo alla richiesta di replicare ai suoi ragionamenti con quel richiamo degli avvocati di Andreotti, che erano notoriamente Franco Coppi e Giulia Buongiorno. Quel rifiuto mi fu motivato pressappoco così: non voglio chiudere questa polemica senza lasciare l’ultima parola a Caselli, cui però, negando la mia risposta, egli curiosamente non concedeva neppure la replica. Alla quale certamente io non mi sarei opposto sia per ragioni di stile sia per il rispetto dovuto alle competenze contrattuali e morali del direttore, Ora, a distanza di anni dall’accaduto, grazie alla correttezza, e al nome stesso della testata del Dubbio, e del suo direttore, e infine all’attualità della questione riproposta dalla direttiva europea sulla presunzione di innocenza, voglio sperare di vedere finalmente Caselli smetterla di sostenere l’assoluzione solo a metà della buonanima di Andreotti. Che peraltro, proprio da buonanima non può proprio fisicamente difendersi, temo neppure in una seduta spiritica. Di cui, del resto, non sono un esperto o solo casuale partecipe, come capitò invece a Romano Prodi durante il sequestro di Aldo Moro. Cartabia: “Le donne nella pubblica sicurezza. Dai pregiudizi ai ruoli dirigenziali” di Marta Cartabia Corriere della Sera, 1 aprile 2021 La Guardasigilli: “La sfida sulla parità durante i lavori della Costituente e la svolta con la legge del 1981”. La presenza delle donne nella Polizia di Stato appartiene alla storia recente. Come è accaduto per altre funzioni pubbliche - magistratura, esercito, incarichi politici - la partecipazione delle donne all’esercizio di funzioni della sicurezza pubblica è stata ostacolata dal pregiudizio - veicolato dalla normativa di volta in volta vigente - che determinate attività non fossero adeguate alla natura della donna. Al momento della scrittura dell’articolo 51 della Costituzione, che afferma il diritto di tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso di accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, fu avanzato un emendamento rivelatore della mentalità dell’epoca. Si propose di specificare che l’eguaglianza nell’accesso alle funzioni pubbliche doveva comunque avvenire in conformità alle attitudini dell’uno o dell’altro sesso. La reazione delle donne in Assemblea costituente fu vigorosa e concorde e portò a rimuovere quell’emendamento che relegava di fatto la presenza femminile solo a determinati ambiti. L’eguaglianza fu affermata e scolpita nel testo costituzionale, ma l’attuazione di quel principio richiese tempo e avvenne con uno sviluppo graduale. Il primo passo, compiuto peraltro solo più di dieci anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, fu la creazione del Corpo di Polizia femminile con la legge n. 1.083 del 1959 che, mentre segnava l’ingresso delle donne nell’esercizio delle funzioni di ordine pubblico, circoscriveva i loro compiti in ambiti riguardanti donne e minori, e le costituiva come un corpo separato e distinto dagli altri. Il grande cambiamento avvenne nel 1981, con la legge n. 121 che, nell’istituire la nuova Polizia di Stato, sciolse il Corpo di polizia femminile e lo fece confluire nei ruoli generali con parità di attribuzioni, funzioni, trattamento economico e progressione in carriera. Quella legge rimosse gli ostacoli giuridici alla effettiva parità delle donne nel servizio di polizia e simbolicamente marcò la fine dell’eguaglianza condizionata alle attitudini di genere. A distanza di quarant’anni da quell’importante sviluppo normativo, è significativo notare che, nonostante sia ancora numericamente minoritaria, la presenza femminile nelle forze di polizia è particolarmente qualificata. Molte sono le donne in posizioni di responsabilità: mentre nel contesto di altre funzioni pubbliche, quali la magistratura ad esempio, la presenza femminile può essere descritta attraverso l’immagine della piramide, con grandi numeri nelle posizioni di base e ridotte presenze nelle posizioni apicali, viceversa nelle forze di polizia le percentuali delle donne nelle posizioni dirigenziali sono significativamente più elevate. Questi dati corroborano ciò che l’onorevole Maria Federici in Assemblea costituente aveva affermato con fervore al momento della stesura dell’art. 51 della Costituzione: “Le attitudini non si provano se non con il lavoro”. Caduti gli ostacoli di ordine giuridico, fatto il loro ingresso nella Polizia di Stato a tutti gli effetti, le donne con il loro lavoro, la loro dedizione e la loro professionalità hanno mostrato e continuano a mostrare il contributo che sono in grado di offrire alla vita sociale, anche in questo ambito, che era loro tradizionalmente precluso. Dalla strada a Facebook. La mafia ora spara sui social di Attilio Bolzoni Il Domani, 1 aprile 2021 I mafiosi a Palermo sono profondamente cambiati. E oggi, dopo gli agguati in strada, si fanno la guerra a colpi di post, in pubblico. Intanto sono sempre di più i commercianti che si ribellano al pagamento del pizzo. È proprio vero che “la mafia non è più quella di una volta”, come recita il titolo dell’ultimo film di Franco Maresco. Me ne ero già accorto qualche anno fa osservando le abitudini alimentari dei nuovi boss di Palermo, così lontane da quelle del vecchio Bernardo Provenzano che nel suo casolare di Montagna dei Cavalli si rifocillava con ricotta di pecora. E al vivandiere che favoriva la sua latitanza, con insistenza chiedeva: “Mi devi procurare quella verdura chiamata cicoria”. Pasti frugali, da contadino qual è sempre stato, cresciuto nelle campagne intorno a Corleone. Un mangiare molto diverso dai suoi eredi o presunti tali, che si abbuffano nei ristoranti di Palermo con ostriche e champagne, ordinando solo ciò che è costoso. Sempre un po’ di tempo fa amici carabinieri mi hanno mostrato alcune foto di altri rampolli di Cosa nostra che solcavano il mare del golfo di Mondello sugli acqua scooter, si esibivano rumorosamente, si facevano i selfie. Erano picciotti della famiglia di Porta Nuova, per intenderci quella di Tommaso Buscetta e Pippò Calò. L’apparire non è mai stato un tratto del boss siciliano, sempre discreto, attento a non farsi notare sino all’estremo. Come Tanino Riina, il fratello del capo dei capi, che andava in giro con una malandata Golf che lo lasciava spesso a piedi. Preferiva restare in panne piuttosto che dare l’impressione di potersi permettere un’auto nuova. Tutto il contrario dei napoletani della camorra, chiassosi e vistosi, sempre pronti a ostentare ricchezza. Ma tutto cambia. E se in Sicilia anche i mafiosi sono soggetti a una mutazione antropologica, mai avrei immaginato che i parvenu dei clan palermitani potessero arrivare a tanto e così presto. La notizia l’ho letta sulle cronache siciliane di Repubblica qualche giorno fa, un articolo di Salvo Palazzolo. Una sparatoria che comincia per strada e poi continua virtualmente con minacce incrociate sui social. Cose mai viste. Con feriti veri ricoverati in ospedale e la sfida, dopo le pistolettate, che si trasferisce su Facebook a colpi di messaggi. Ma che fine ha fatto quell’antico detto siciliano “la meglio parola è quella che non dice”? La sparatoria - La prima scena del crimine è lo Zen, Zona espansione nord, il famigerato quartiere che è grande una piazza di spaccio e a quanto pare ormai mercato aperto e senza controllo dopo la cattura dell’ultimo capo, quel Giuseppe Cusimano che distribuiva la spesa durante il primo lockdown. Finito in carcere, liberi tutti e si sentono i botti. Non è ancora il tramonto e, due martedì fa, sull’asfalto di via San Nicola sono rimasti grandi macchie di sangue e un tappeto di bossoli. Qualcuno ha sparato, qualcun altro è rimasto ferito. Dopo un’ora al pronto soccorso dell’ospedale Villa Sofia sono arrivati in tre. Giuseppe Colombo aveva una lacerazione alla spalla, suo figlio Antonino la caviglia frantumata da una pallottola, Letterio Maranzano un taglio alla nuca. Tutti e tre hanno conti in sospeso. Fino a quando il boss che consegnava pacchi alimentari ai poveri è rimasto in libertà, l’hanno fatta franca. Cusimano ufficialmente è un venditore di bombole di gas che percepisce pure il reddito di cittadinanza, in realtà “controlla” lo Zen e mette pace fra i gruppi. Mette pace a modo suo: vuole uccidere “quei quattro fanghi” che si agitano troppo nel quartiere. I Maranzano non vedono l’ora di vendicarsi dei suoi protetti e preparano l’agguato contro i Colombo. Il martedì, la sparatoria. Duello pubblico - Fin qui un film già visto. È ciò che accade dopo che lascia senza fiato: la seconda scena del crimine è Facebook. Dopo il ricovero a Villa Sofia il primo che va al contrattacco è Giuseppe Colombo. Ma non parte per un altro raid, la sua rabbia la scaglia con un post: “Il rispetto, gran bella parola, peccato che non tutti ne conoscano il significato”. E sotto inserisce la foto di Al Pacino, uno dei protagonisti del Padrino, presa dal sito Dna criminale. Passa qualche ora e un parente dei Maranzano risponde: “I leoni stanno solamente riposando, non vi abbatte nessuno”. C’è la foto di due dei Maranzano e pure la musichetta di sottofondo del neomelodico Nello Amato. Contro risposta del Colombo con chiara allusione all’agguato subito dai Maranzano: “Non avere paura di essere solo. I leoni camminano da soli. Le pecore in gruppo”. Il duello è pubblico, non proprio il massimo per un’organizzazione che da che mondo è mondo è segreta. Con un retroscena che smentisce anche ogni luogo comune sull’omertà. Una donna testimone dell’agguato racconta alla polizia: “Letterio Maranzano e suo fratello Pietro avevano entrambi una pistola alla cintola, Pietro l’ha estratta dalla tuta, ma non ho visto se ha sparato. Due ragazzi sono scesi invece da uno scooter Honda di colore bianco”. La vicenda dello Zen si chiarirà in ogni sua piega con la ricostruzione della scientifica e le indagini della squadra mobile, ma quello che sappiamo già basta per capire come la “qualità” criminale delle periferie palermitane sia scesa di livello, contaminata dalla smania del manifestarsi. L’anno scorso c’è stato un altro caso che, per ragioni diverse, mi ha molto colpito. Un esattore della famiglia del Borgo Vecchio, tale Salvatore Guarino, si è presentato all’imprenditore Giuseppe Piraino che stava ristrutturando un appartamento nel centro di Palermo. E gli ha detto le solite parole che accompagnano la richiesta d’estorsione: “Sono qui per un contributo per la festa del patrono”. Voleva 500 euro di pizzo sui lavori. L’esattore non ha fatto in tempo a finire la frase che l’imprenditore ha iniziato a urlare, ha tirato fuori un quotidiano con le foto dei giudici Falcone e Borsellino e lo ha affrontato a brutto muso: “Si vergogni di chiedere il pizzo, queste sono le vittime della mafia”. L’esattore, frastornato, ha balbettato: “Ma è per la festa del patrono”. L’imprenditore: “Gliela faccio vedere io la festa”. E nel frattempo Piraino registrava tutto. Subito dopo l’esattore del racket se ne è andato con la coda fra le gambe. Grande rispetto per l’imprenditore che non paga e caccia via il manutengolo, ma - diciamolo - non è altrettanto rispettabile, criminalmente parlando, lo “spessore” dell’altro. La spiegazione c’è: con gli arresti di massa degli ultimi vent’anni che hanno scompaginato militarmente le cosche di Palermo, le prime file mafiose sono state sostituite dalle seconde, le seconde dalle terze file, le terze dalle quarte e sono rimasti i Guarino, i Colombo, i Maranzano. Da una parte ci sono sempre più commercianti che si ribellano alla “messa a posto” (così si chiama il pizzo a Palermo) e dall’altra esattori sempre più sprovveduti, controfigure dei loro predecessori. Per tornare allo Zen, e alle sue fibrillazioni criminali dopo sparatorie vere e virtuali, è un pianeta in ebollizione da quando, nel 2007, sono stati catturati Salvatore e Sandro Lo Piccolo, padre e figlio, il primo latitante per un quarto di secolo. Nei loro covi sono state trovate armi, quasi duecento “pizzini”, una mappa aggiornata della geografia mafiosa che ha permesso agli investigatori di sviluppare profonde indagini. Ma sorpresa - che in qualche modo anticipa ciò che stiamo scrivendo oggi - è stato sequestrato anche un manuale del “perfetto mafioso”. Tutto nero su bianco. Com’è composta la famiglia, chi è il sottocapo, cos’è il mandamento, il ruolo della Commissione o Cupola. E poi un decalogo sui diritti e sui doveri dell’affiliato. Vale la pena di riportarlo quasi integralmente: “Non si guardano mogli di amici nostri. Non si fanno comparati con gli sbirri. Non si frequentano né taverne né circoli. Si ha il dovere in qualsiasi momento di essere disponibile a Cosa nostra, anche se c’è la moglie che sta per partorire. Si deve portare rispetto alla moglie. Quando si è chiamati a sapere qualcosa si dovrà dire la verità. Non ci si può appropriare di soldi che sono di altri e di altre famiglie. Non può entrare in Cosa nostra chi ha un parente stretto nelle varie forze dell’ordine, chi ha tradimenti sentimentali in famiglia, chi ha un comportamento pessimo e che non tiene ai valori morali”. E per buona educazione: “Si rispettano in maniera categorica gli appuntamenti”. Forse il declino criminale dello Zen è iniziato allora e non ce ne siamo resi conto. Per fare un altro confronto con il passato. Ascoltato dalla Commissione parlamentare Antimafia negli anni Settanta, il boss Luciano Liggio di Corleone aveva fatto capire a tutti l’antifona: “Ho letto i classici. E poi storia, filosofia, pedagogia. Ho letto Dickens, Dostoevskij, Croce. Ma quello che ammiro di più è Socrate. Perché, come me, non ha mai scritto niente”. Consulta, domiciliari agli over 70: la recidiva non è un ostacolo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 aprile 2021 Per la Corte è incostituzionale il divieto assoluto di accedere ai domiciliari per gli ultrasettantenni condannati con l’aggravante della recidiva. Da oggi in poi la recidiva non sarà più un ostacolo per concedere la detenzione domiciliare agli ultrasettantenni reclusi in carcere. La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1 dell’ordinamento penitenziario, limitatamente alle parole “né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’articolo 99 del codice penale”. Ricordiamo che l’articolo 47 ter dell’ordinamento penitenziario prevede che la pena detentiva inflitta a una persona che abbia compiuto i settanta anni di età “può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza”. Sono molti gli anziani in carcere - Questa ipotesi di detenzione domiciliare ha una finalità umanitaria dettata dalla circostanza che il superamento di una certa soglia di età comporta delle difficoltà maggiori per chi si trova in carcere. Non sono pochi, però, gli anziani reclusi in carcere nonostante la norma. Ma questo anche perché la recidiva ne è un ostacolo. Una preclusione assoluta che non permette ai magistrati di sorveglianza di valutare la concessione o meno della detenzione domiciliare. Finalmente il caso è arrivato alla Corte Costituzionale. Con la sentenza n. 56 che ha come redattore il giudice Francesco Viganò, la Corte ha stabilito che è incostituzionale il divieto assoluto di accedere alla detenzione domiciliare stabilito per gli ultrasettantenni condannati in carcere con l’aggravante della recidiva. Per i giudici bisogna ispirarsi al principio di umanità della pena, sancito dall’articolo 27 della Costituzione - Quindi, da ora in poi, gli anziani condannati a una pena detentiva potranno essere ammessi alla detenzione domiciliare anche se dichiarati recidivi. La Corte ha osservato che la detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni è ispirata al principio di umanità della pena, sancito dall’articolo 27 della Costituzione. La preclusione assoluta stabilita dalla norma è stata ritenuta irragionevole, anche in rapporto ai principi di rieducazione e umanità della pena, in conformità alla costante giurisprudenza che considera contrarie agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione le preclusioni assolute all’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione. La decisione della Corte Costituzionale è una grande conquista di civiltà, anche perché - come già detto - non pochi sono gli ultrasettantenni in carcere nonostante non siano socialmente pericolosi. La recidiva è uno degli ostacoli che non ha permesso l’applicazione della detenzione domiciliare. Il caso esaminato dalla Consulta è degno di nota. Utile per capire quanto sia irragionevole (e ora incostituzionale) tale preclusione. Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla magistratura di sorveglianza di Milano - A sollevare le questioni di legittimità costituzionale è la magistratura di sorveglianza di Milano con l’ordinanza del 20 marzo 2020. Il rimettente è stato chiamato a giudicare su un’istanza presentata personalmente da un condannato, che aveva chiesto di essere ammesso alla misura alternativa della detenzione domiciliare presso l’abitazione della moglie. Al momento della presentazione dell’istanza, il condannato aveva settantotto anni ed era detenuto in esecuzione di una pena complessiva di quattordici anni e sette mesi di reclusione - di cui tredici anni e otto mesi ancora da espiare - per una serie di reati fallimentari e tributari accertati in diverse sentenze di condanna, alcune delle quali avevano applicato la circostanza aggravante della recidiva, preclusiva della concedibilità della misura alternativa in forza della disposizione censurata; ciò che comporterebbe il necessario rigetto dell’istanza. Tra le ragioni che hanno portato la Consulta a dichiararne l’incostituzionalità, spiccano in particolare “i cambiamenti avvenuti nella persona del reo, e l’eventuale percorso rieducativo in ipotesi già intrapreso” dal condannato dopo la sentenza, ivi compreso il tempo già trascorso in carcere, nonché la maggiore sofferenza determinata dalla detenzione su una persona di età avanzata. Bari. Detenuto trovato impiccato nella sua cella: aveva già tentato il suicidio di Gianluca Greco brindisireport.it, 1 aprile 2021 Si tratta del 46enne Nicola Nigro, di Ceglie Messapica, condannato per associazione mafiosa. L’avvocato: “Aveva una grave patologia psichiatrica, cronaca di un suicidio annunciato”. È stato trovato impiccato nel bagno della sua cella. Nonostante i soccorsi prestati dal personale di polizia penitenziaria e dagli operatori sanitari, non c’è stato nulla da fare per il 46enne Nicola Nigro, di Ceglie Messapica. L’uomo era recluso nel carcere di Bari, dove stava scontando una condanna per vari reati, fra cui associazione mafiosa. Il suo ultimo arresto risale al gennaio 2017, quando i carabinieri posero fine a un periodo di latitanza che durava dal settembre 2016, quando a suo carico fu emesso un ordine di carcerazione conseguente a una condanna passata in giudicato. Nel 2010 fu coinvolto nell’operazione Calypso, che decapitò i vertici della cosiddetta frangia mesagnese della Scu. Afflitto da problemi di natura psichiatrica, prima del trasferimento nella casa circondariale barese era stato ospitato in una comunità. Da quanto emerso avrebbe utilizzato i lacci delle scarpe per compiere l’estremo gesto. In passato più volte aveva tentato il suicidio. Il pm di turno del tribunale di Bari con ogni probabilità disporrà l’autopsia, per chiarire la dinamica dei fatti. L’avvocato: “Ingiusto e disumano morire così, mi rivolgerò al ministro” - Nigro era assistito dall’avvocato Francesca Conte. Il legale, contattato da Brindisi Report, esprime profondo disappunto per l’accaduto. “È la cronaca - dichiara - di un suicidio annunciato. Nel dicembre 2019 la Cassazione aveva stabilito che era stato ingiusto revocargli la detenzione domiciliare presso una comunità di Alberobello (Bari), annullando con rinvio per nuovo giudizio. Il tribunale di sorveglianza di Bari ha impiegato un anno e 5 mesi per rifissare la camera di consiglio, peraltro dopo alcuni solleciti formali, che era fissata per il 28 aprile di quest’anno. E per farla fissare abbiamo dovuto presentare due istanze. Il Tribunale di Sorveglianza di Lecce, malgrado ci fosse una incompatibilità assoluta e conclamata del Nigro con il regime carcerario, a causa di una patologia psichiatrica gravissima, conclamata da 10 anni a questa parte da numerosi psichiatri delle strutture pubbliche in tutte le carceri d’Italia dove è stato detenuto, ha sostenuto che, siccome non c’erano posti in comunità terapeutica, si doveva aspettare”. “Questo - prosegue l’avvocato Conte - malgrado siano state presentate, con i colleghi che si sono avvicendati con me nella difesa, una serie di istanze in cui, alla luce dei tentativi di suicidi messi in atto, si è rimarcato che quella persona, in carcere, sarebbe morta”. Ma per il legale la vicenda non si chiude qui. “Ci rivolgeremo direttamente al ministro della Giustizia (Marta Cartabia, già presidente della Corte Costituzionale, ndr) - afferma ancora l’avocato Conte - perché uno Stato di diritto non può consentire che una persona muoia in questo modo, in preda alla disperazione, dentro un carcere. A causa del Covid non vedevo il mio assistito da 4 mesi. Ho cercato di rassicurarlo sul fatto che si sarebbe trovata una soluzione, ma lui diceva che sarebbe morto in carcere. E così è stato. Questo non è giusto e non è umano nel XXI secolo. Nessuno si permette di dire che la salvaguardia della collettività non debba essere tutelata, ma qui stiamo parlando di un soggetto che da anni non commetteva reati, che si trovava in una comunità psichiatrica e che per un capriccio si è trovato nuovamente arrestato, nonostante una sentenza della Cassazione”. Il sindacato Osapp: “I soggetti psichiatrici scaricati nelle carceri” - La questione riguardante l’incompatibilità con il regime carcerario dei soggetti psichiatrici, fra l’altro, è stata più volte sollevata dal segretario regionale del sindacato Osapp, Ruggiero D’Amato. “I soggetti psichiatrici - ribadisce D’Amato a Brindisi Report - oggi sono stati scaricati letteralmente nelle carceri, dalla chiusura degli Opg (ospedale psichiatrico giudiziario, ndr). Molti di questi erano davvero dei lager. Ma i detenuti psichiatrici non possono essere gestiti nel carcere perché non ci sono gli spazi, non ci sono le strutture e non è la polizia penitenziaria che può gestirli. Devono essere tolti dal circuito penitenziario e va creato un circuito parallelo in cui possano ricevere le cure e le attenzioni di cui hanno bisogno. Tenerli in carcere è come tenere un fiammifero acceso in una polveriera”. Palermo. Muore a 37 anni in una cella del carcere Pagliarelli, la Procura apre un’inchiesta di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 1 aprile 2021 La comunicazione alla famiglia di Francesco Paolo Chiofalo, originario della Zisa, è arrivata sabato scorso. È stata disposta l’autopsia per chiarire le cause del decesso. Il detenuto era tossicodipendente da tempo e stava scontando un definitivo per furto ed evasione. La madre disperata: “Vogliamo sapere cosa gli è successo”. Una telefonata sabato scorso, in cui con freddezza è stato comunicato dal carcere Pagliarelli che il detenuto Francesco Paolo Chiofalo, 37 anni, era deceduto. Una chiamata che ha gettato nella disperazione i suoi genitori, che lo avevano sentito due giorni prima e avrebbero notato che non stava bene, che faceva fatica a parlare, “farfugliava”. Sul decesso dell’uomo la Procura adesso ha aperto un’inchiesta ed ha disposto l’autopsia. Una vita difficile quella di Chiofalo, originario della Zisa, fatta di dipendenza dalla droga sin da giovanissimo e di piccoli furti per comprarla. Proprio per furto ed evasione era finito al Pagliarelli, per scontare un definitivo. Sarebbe tornato libero dopo aver scontato la sua pena al massimo ad ottobre. Invece è morto in cella per cause da accertare. L’inchiesta è coordinata dal procuratore aggiunto Ennio Petrigni e dal sostituto Anna Battaglia. L’autopsia sarà eseguita oggi e servirà a chiarire i motivi del decesso. La famiglia del detenuto si è rivolta invece all’avvocato Massimiliano Russo, che nel tempo ha assistito varie volte Chiofalo, e chiede giustizia. La madre della vittima, Maria Durante, è distrutta dal dolore: amava profondamente quel figlio difficile da gestire e che le aveva dato molti dispiaceri: “Vogliamo sapere cos’è successo, perché Francesco Paolo è morto”, dice la donna attraverso il legale. Il carcere avrebbe comunicato alla famiglia soltanto il decesso, senza dare dettagli su cause e circostanze. L’avvocato non sarebbe stato neppure avvertito. Certo è che, da tossicodipendente, Chiofalo aveva diritto ha cure particolari e ad essere seguito in maniera adeguata nel carcere. I suoi parenti su questo fronte non sono però pienamente sereni. Sostengono di averlo contattato con una videochiamata il martedì prima del decesso e che Chiofalo non sarebbe stato al massimo della forma. Una sensazione che avrebbero avuto nuovamente due giorni dopo, il giovedì, quando si sarebbero accorti che l’uomo “farfugliava”. Sabato scorso la tragica telefonata per comunicare il decesso. Adesso sarà la Procura, sulla scorta dell’autopsia, a stabilire se vi siano potenziali responsabilità per la morte di Chiofalo. La morte di Sasà nel carcere di Modena raccontata dalle carte giudiziarie di Lorenza Pleuteri giustiziami.it, 1 aprile 2021 NDR e ABS. Alla voce “anamnesi personale”, nella copia sbiadita del diario clinico di Salvatore “Sasà” Piscitelli, sono annotate due sigle. Una sta per “niente da rilevare”. L’altra significa “apparente buona salute”, come spiegano i medici che in carcere lavorano. L’aggettivo BUONO si intravede anche nella casella “esame obiettivo”. Molti altri riquadri sono in bianco, vuoti. Le 21 pagine della prima ricostruzione ufficiale - Un anno dopo le rivolte - e la morte di Sasà e altri dodici detenuti - vengono alla luce gli atti contenuti nel sotto fascicolo aperto dalla procura di Modena, i risultati degli accertamenti effettuati dalla pm Lucia De Santis prima di spogliarsi della competenza e di ripassare l’inchiesta alla procura di Ascoli, da dove le era arrivata. Sono solo 21 pagine, le prime di fonte giudiziaria. Ma forniscono informazioni inedite, offrono spunti, alimentano dubbi. Sulle ultime ore di Sasà raccontano una storia diversa da quella ricostruita e denunciata da almeno sette compagni di viaggio e di detenzione. Sembra un altro uomo, un quarantenne sano e in forze, senza problematiche particolari, senza bisogni urgenti. È morto, qualche ora dopo l’incontro con un medico, la compilazione (parziale) del diario clinico, le sigle e gli aggettivi tranquillizzanti. “Decesso presso il carcere di Ascoli”: lapsus della pm? - Il 23 marzo 2020, due settimane dopo la morte di Sasà Piscitelli, la pm modenese scrive alla direzione del carcere di Ascoli Piceno, dove nella notte tra l’8 e il 9 marzo il quarantenne era stato portato assieme a 41 compagni. Chiede di riferire le condizioni del detenuto all’arrivo in istituto, le circostanze del decesso, le attività di verifica dell’eventuale possesso di psicofarmaci, medicinali o stupefacenti, la documentazione medica sullo stato di salute nel tempo passato nella struttura. Nell’intestazione della richiesta la pm colloca la morte “presso la casa circondariale di Ascoli Piceno”. Non sa che Sasà è deceduto in ospedale, come sostengono nella città marchigiana? O il suo è un banale errore di compilazione oppure un lapsus? Le cose che la direttrice non può sapere - La direttrice, Eleonora Consoli, si prende qualche settimana per raccogliere e comunicare le informazioni richieste. Risponde alla pm il 14 maggio. Precisa che il detenuto Salvatore Piscitelli è morto alle 17.25 presso l’ospedale civile di Ascoli Piceno, non in carcere. Riferisce che era arrivato in istituto alle 00.25 del 9 marzo 2020 assieme ad altri 41 ristretti, “tutti provenienti dalla casa circondariale di Modena, in quanto avevano partecipato ai disordini/rivolta avvenuti all’interno dell’istituto di Modena l’8.3.2020”. Non chiarisce come facesse lei a sapere che i nuovi giunti fossero stati coinvolti nelle azioni di protesta e di devastazione, se non richiamando genericamente il provvedimento con cui il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria ha disposto i trasferimenti e d’urgenza. Lo dà per scontato. Però nel verbale da lei allegato alla relazione, l’ultima pagina del suo rapporto, il compagno di cella di Sasà sostiene una cosa diversa. Il quarantenne, garantisce Mattia, non aveva aderito alla rivolta. Il compagno: “Sasà non ha preso parte alla rivolta” - Mattia Palloni è uno dei cinque ragazzi che a novembre sottoscriveranno un esposto - choc, per denunciare pestaggi, abusi, torture. Sulla morte di Piscitelli viene sentito la prima volta, con la formula delle dichiarazioni spontanee, non a ridosso del decesso del compagno, ma a quasi due mesi di distanza. Il 2 maggio, messo di fronte a due assistenti e a un sovrintendente della polizia penitenziaria, non è molto loquace. Pare intimidito. Sostiene che lui e Sasà non presero parte alla sommossa di Modena. All’inizio avevano deciso di rimanere nella loro cella, condivisa. Poi furono costretti a uscire, perché la sezione era stata invasa dal fumo, provocato dall’incendio di suppellettili e arredi. Rassicurato il personale sanitario e un agente rimasti chiusi dentro un ambulatorio, sempre stando alle dichiarazioni spontanee di allora, entrambi raggiunsero il piazzale e altri reclusi. Qui un altro carcerato, sconosciuto, passò a Sasà una bottiglia di metadone (prelevato dall’armadio blindato dell’infermeria, aperto con la chiave e non forzato, o forse presa dal tavolo usato da due infermiere per preparare le dosi da distribuire). Mattia cercò di non farlo bere. Non ci riuscì. E il compagno, inghiottita il liquido, restituì la bottiglia al fornitore. Un medico solo per visitare 42 detenuti? - La direttrice, tornando all’arrivo al carcere di Ascoli, conferma l’avvenuta perquisizione e l’immatricolazione di Sasà. Scrive alla pm che alle 2.30 viene sottoposto alla visita di primo ingresso dal medico di turno del Servizio integrativo assistenza sanitaria, Simone C. In quella notte non ordinaria è presente un solo dottore, lui, posto di fronte a una impresa titanica: sottoporre ad accertamenti sanitari di base 42 detenuti e non detenuti qualunque, bensì i ragazzi e gli uomini in arrivo da un carcere devastato da una sommossa, dopo una razzia di litri di metadone e di una gran quantità di psicofarmaci. “A molti di noi - renderanno poi noto gli autori dell’esposto di novembre - non fu neanche chiesto di togliersi gli indumenti per constatare se avessimo lesioni corporee”. Per verificare le condizioni di Sasà, con trascorsi di tossicodipendenza e un fisico provato, il medico ci mette 15 minuti: dalle 2.30 alle 2.45, almeno stando all’appunto sul diario clinico. Alle 3.00 il detenuto in “apparente buona salute” viene collocato nella cella 52 del secondo piano, lato sinistro, reparto marino. Per 10 ore nessuna notizia del detenuto in agonia - Per più di 10 ore su Sasà non ci sono annotazioni della direttrice. È come se sparisse, da notte fonda al primo pomeriggio. La colazione non gli è stata portata? E le sue medicine, le benzodiazepine richiamate nel diario clinico alla voce “terapia in corso”? Gli agenti del turno 8/14 e il personale sanitario non hanno mai guardato dentro la cella 52? La relazione della direttrice riprende il filo, dopo questo vuoto totale, alle 13.20. A quell’ora, scrive alla pm, “il ristretto non risponde agli stimoli del personale di polizia penitenziaria addetto alla vigilanza”. Viene chiamato il medico di guardia Sias, Cristiano M.D.V, in servizio dalla prima mattinata. La chiamata al 118 e l’arrivo dell’ambulanza - Il dottore capisce che la situazione è gravissima, sollecita l’intervento del 118 e gli inietta una fiala di Narcan (indicato poi con Naloxone) per “sospetta overdose di metadone”. Arriva l’equipe esterna, con il dottor Ihaab A. L’ambulanza con a bordo Sasà, diretta d’urgenza all’ospedale civile di Ascoli, lascia il carcere alle 15.15. Una seconda lettiga carica un altro recluso “modenese” che ha bisogno di assistenza specializzata. Alle 17.25 il dottor Guido G. constatata e certifica la morte del detenuto Piscitelli, giunto e trattenuto al pronto soccorso in “stato di coma avanzato da verosimile intossicazione da farmaci”. La testimonianza del medico del carcere - “Mi sono attivato subito - dice adesso il dottor M.D.V, al telefono - appena gli agenti mi hanno chiamato in sezione. No, Piscitelli non avevo avuto modo di vederlo prima. Erano arrivati in più di 40, da Modena. Quando sono entrato in cella - riferisce - sembrava che dormisse. Ho provato a svegliarlo, ma non ha riaperto gli occhi. L’overdose di metadone non è così semplice da diagnosticare e su di lui non avevo informazioni. Gli ho fatto una iniezione di Narcan, poi l’ho affidato al personale del 118. Non è morto in carcere. Il detenuto - ripete - è uscito dall’istituto ancora vivo. So che è deceduto in ospedale, dopo. Sono stato convocato dal magistrato, come testimone. Ho raccontato tutto questo, documentato. Non c’è un’altra verità”. Mai scritti - e non distrutti - i nulla osta ai trasferimenti - La direttrice Consoli mette nero su bianco un’altra informazione. Piscitelli e i 41 compagni sono stati trasferiti d’urgenza nel suo istituto, “senza essere accompagnati da nessun fascicolo e/o altro documento”. Perché? Lei, ecco il punto, non può avere contezza diretta del motivo. Però, senza dichiarare la fonte, scrive che “è andato tutto distrutto” nella rivolta. È vero per le carte redatte a Modena prima della sommossa. Non vale per gli atti successivi. All’arrivo ad Ascoli mancano altri documenti, quelli che per legge i medici avrebbero dovuto compilare dopo le violente azioni di protesta e prima delle traduzioni: i certificati delle visite effettuate a Modena e i nulla osta sanitari con l’ok al viaggio dall’Emilia alle Marche. Questi attestazioni non sono mai state scritte. I medici tenuti a redarle si sono giustificati dicendo che è mancato loro il tempo di provvedere, vista la situazione drammatica e l’alto numero di persone da assistere. Ordine e sicurezza prima della salute - Non si fa riferimento ai nulla osta sanitari mancati nemmeno nel provvedimento con cui il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria ha disposto lo sfollamento dei 42 detenuti “modenesi” destinati ad Ascoli. A firmare l’ordine di trasferimento - il pomeriggio o la sera dell’8 marzo, in un orario non indicato - è Silvia Della Branca. Il carcere emiliano è in gran parte distrutto, inagibile. Decine e decine di reclusi devono avere una sistemazione alternativa e in fretta, visto che sta facendo notte. La funzionaria motiva la disposizione con esigenze di ordine e sicurezza. Il poliziotto penitenziario a capo della scorta, quello che dovrebbe avere con sé i nulla osta sanitari al viaggio, per iscritto viene invitato a sorvegliare in modo adeguato i detenuti per impedire tentativi di evasione, anche con appoggi esterni, e “altri inconvenienti di qualsiasi natura che possano compromettere il regolare svolgimento della traduzione”. Dalla casa di reclusione di Modena sono usciti parecchi detenuti in overdose e a tarda sera si sono contati tre morti, i primi di nove. Però in queste disposizioni non c’è alcun riferimento alle possibili condizioni di salute dei trasportati, né all’opportunità di avere medici al seguito e neppure alla necessità di dotarsi almeno di farmaci antagonisti salvavita. Come stava davvero Sasà? - Sasà durante il viaggio cade in uno “stato di torpore”, come dirà il 2 maggio il compagno di cella, Mattia. Il dottor Simone C., il medico che lo visita nel carcere di Ascoli o che attesta di averlo visitato, non lo rileva o non lo annota. Nel diario clinico sono più le parti in bianco di quelle compilate. NDR, ABS e BUONO certificano condizioni di salute non preoccupanti. Le carte non spiegano se sia o no al corrente del furto di metadone e di psicofarmaci e delle overdosi in serie, nel carcere di provenienza. Quello che si vede è che non ha riempito lo spazio per registrare eventuali “lesioni all’ingresso” né le caselle riservate a “sintomi fisici e psichici di intossicazione in atto da sostanze stupefacenti” e “sindrome di astinenza in atto”. Le ha barrate con una riga, senza compilare altri campi né registrare parametri di base (ad esempio pressione, frequenza cardiaca, temperatura, auscultazione dei polmoni). In compenso, dopo la visita lampo, per Sasà ha valutato come “alto” il rischio di suicidio. Versioni opposte sulle ultime ore di vita - Il vuoto dalle 3.00 alle 13.20 nella relazione inviata dalla direttrice alla pm di Modena verrà colmato dalle lettere denuncia spedite in estate da due detenuti e dall’esposto di fine novembre 2020 firmato da Mattia Palloni e altri quattro compagni, ascoltati dalla procura emiliana a dicembre. “Sasà - concordano, con accuse tutte da dimostrare, diventate oggetto di indagine - è stato picchiato prima, durante e dopo il viaggio. Stava malissimo ed era debole, non riusciva a reggersi in piedi. Ad Ascoli è stato trascinato fino alla sua cella e buttato dentro come un sacco di patate. La mattina del 9 marzo il compagno di stanza ha chiesto inutilmente aiuto e più volte. Nessuno è accorso ad aiutare Sasà. Si è sentito un agente pronunciare: “fatelo morire”“. Sempre secondo i reclusi - testimoni, che non hanno competenze mediche e che non disponevano di strumenti diagnostici, il quarantenne sarebbe “morto in cella, portato via con un lenzuolo quando era già freddo”. I medici con cui Piscitelli è stato a contatto, come detto, raccontano e certificano altro: il decesso in ospedale. L’inchiesta è tornata nelle Marche - L’inchiesta è tornata nelle Marche, con i magistrati chiamati ad esaminare anche un esposto firmato dall’associazione Antigone, già presente nell’inchiesta modenese come persona offesa. Dagli uffici giudiziari interessati - procura di Ascoli e procura generale di Ancona - non escono notizie né aggiornamenti. La sola indicazione fatta filtrare un paio di settimane fa, veicolata da un criptico servizio del tg Rai regionale, allude a una autopsia bis (sulle carte e sui campioni e gli organi prelevati, poiché la salma di Sasà è stata fatta cremare “causa Covid”) oppure alla rilettura degli accertamenti post mortem alla luce delle omissioni, dei pestaggi e degli abusi denunciati dai compagni di viaggio e di cella. Reggio Calabria. Garante comunale dei detenuti audito in Commissione Pari opportunità strill.it, 1 aprile 2021 focus su vaccinazioni nelle carceri. L’VIII Commissione pari opportunità, pace, diritti umani, relazioni internazionali e immigrazione del comune di Reggio Calabria, ha audito l’avv. Giovanna Russo Garante dei detenuti dell’amministrazione comunale sulla situazione nelle carceri per la vaccinazione, ma anche sulle possibili azioni per favorire il reinserimento lavorativo. “In questo momento-afferma Lucia Anita Nucera presidente Commissione-la campagna vaccinazione nella nostra regione ha diverse difficoltà, tuttavia, è necessario che anche i detenuti siano al più presto vaccinati al fine di scongiurare focolai e tutelarne la salute. Da assessore, ho ascoltato tantissimi ex detenuti, padri di famiglia, che non riuscivano a trovare lavoro perché le aziende avevano difficoltà ad assumerli, temendo la chiusura. Per questo, è necessario l’inserimento di una norma che consenta a queste persone di poter avere un’altra possibilità “. La Garante Russo ha evidenziato le priorità e le azioni che si stanno portando avanti per tutelare i diritti dei detenuti: “La situazione Covid - dice l’avvocato - è monitorata in maniera ferrea ed egregia nelle nostre carceri. Ovviamente, la pandemia ha portato ad una contrazione delle attività all’interno degli istituti penitenziari, ma è stato necessario al fine di scongiurare un danno maggiore e tutelare il diritto alla salute dei detenuti. La campagna vaccinazione in Calabria è un problema non irrilevante, e colpisce maggiormente le persone che noi garanti definiamo deboli e particolarmente vulnerabili. Per fortuna - prosegue la Garante - nei giorni scorsi il dott. Lucania si è coordinato con il commissario Scaffidi per l’avvio della programmazione tecnica per la vaccinazione dei detenuti che hanno dato il loro consenso e la procedura partirà a breve. Ci sono tante esigenze che riguardano i detenuti, tra queste la formazione per consentire un effettivo reinserimento lavorativo e quindi, la rimodulazione di tutto ciò che vogliamo portare avanti. Serve una formazione - spiega l’avv. Russo - che consenta di inserire i detenuti concretamente nel mondo del lavoro, una volta scontata la pena. È necessario un tavolo istituzionale per individuare i potenziali luoghi di inserimento lavorativo per gli uomini e per le donne. È importante anche riavviare il protocollo per l’impiego degli ex art. 21, prevedendo lo stanziamento di somme”. Per quanto riguarda gli interventi da attuare, la presidente Nucera evidenzia: “Questo protocollo è stato avviato quando ero assessore e i detenuti li abbiamo impiegati più volte anche nei beni confiscati, e c’è già un fondo. Inoltre, c’è anche un altro protocollo che avevo realizzato per l’avvio di corsi di sartoria e di cuoco in un bene confiscato, speriamo che entrambi siano portati avanti. Come spero ci sia anche il ripristino del Mandela’s office che potrebbe essere utilizzato per la messa in prova. Su queste priorità faremo un tavolo tecnico”. Il consigliere metropolitano Giuseppe Marino, delegato alla formazione ha dato la sua disponibilità per l’avvio di corsi che tengano conto delle novità del mondo del lavoro e della tradizione, anche per favorire l’inserimento e il recupero di giovani che intraprendono percorsi di devianza sociale. Il consigliere Saverio Pazzano ha posto l’accento sull’importanza della vaccinazione dei detenuti per tornare ad una vita relazionale, ed ha messo in evidenza le proposte portate avanti. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Dopo 25 anni arriva l’acqua in carcere, al via i lavori di Piero Rossano Corriere del Mezzogiorno, 1 aprile 2021 Il 6 aprile apre il cantiere per il collegamento con la rete idrica cittadina. Il penitenziario era stato teatro anche di rivolte dei detenuti che lamentavano disagi specie in estate. Dopo un quarto di secolo di vita il carcere di Santa Maria Capua Vetere sarà allacciato alla rete idrica della città. I lavori di collegamento con la condotta principale saranno inaugurati subito dopo Pasqua. Una novità che il sindaco Antonio Mirra non ha esitato a definire “momento storico” tanto il problema era avvertito. Storia di disagi - Era il 1996 quando l’amministrazione penitenziaria inaugurava il nuovo carcere di Santa Maria Capua Vetere. Una sede posta al confine con San Tammaro, giusto di fronte allo Stir, e che nelle intenzioni avrebbe dovuto superare le carenze strutturali dello storico penitenziario della città del Foro, ricavato da una ex fortezza borbonica (dopo la dismissione divenuta per qualche anno sede della facoltà di Lettere dell’allora Seconda Università di Napoli), ma che invece, dopo 25 anni, si dibatte ancora tra mancanze e limitatezze. Non ultima, l’assenza di un’adeguata fornitura di acqua corrente. Motivo che ha scatenato negli anni anche moti di rivolta da parte della popolazione carceraria, anche qui in sovrannumero rispetto alla disponibilità di celle, costretta a misurarsi con disagi enormi specie nei mesi più caldi. Apre il cantiere - La svolta, invocata ed attesa anche dal personale dipendente dell’istituto di pena, si compirà entro l’estate. “I lavori alla condotta idrica - spiega una nota della casa comunale - hanno registrato una significativa accelerata con quel percorso amministrativo con la Regione Campania avviato dall’Amministrazione Mirra che ha portato, nel 2018, alla messa a disposizione del Comune delle somme per arrivare alle procedure di gara prima per la progettazione dell’opera e poi per l’aggiudicazione dei lavori”. E così, martedì 6 aprile, alla presenza degli amministratori della città, dei vertici degli uffici giudiziari del posto, di rappresentanti della Regione e dell’amministrazione penitenziaria, saranno avviati i lavori di allacciamento alla rete idrica cittadina. Il cantiere è previsto all’incrocio tra via Napoli e via Mastantuono, nei pressi del liceo scientifico Amaldi. “Raggiungiamo un altro significativo traguardo, che era uno degli obiettivi di questa Amministrazione” ha commentato il sindaco Mirra, avvocato penalista di professione e profondo conoscitore dei problemi del carcere cittadino. La pandemia raccontata dal carcere di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 1 aprile 2021 Storie di detenuti a Rebibbia in un libro di suor Emma Zordan. “Non tutti sanno che in carcere si può anche morire di carcere”. È il cuore di una delle riflessioni più forti contenute nella raccolta di scritti dei detenuti della casa di reclusione di Rebibbia curata da suor Emma Zordan, religiosa delle Adoratrici del sangue di Cristo e volontaria da sei anni nel carcere romano. Nel volumetto di prossima uscita intitolato, non a caso, “Non tutti sanno…”, i “ragazzi” di suor Emma hanno voluto raccontare la loro doppia reclusione evidenziando la difficoltà di sopravvivenza, il desiderio di amore, il difficile cammino di redenzione e di reinserimento nel tessuto sociale. “In questo periodo di lockdown in cui sono impossibilitata a visitare i detenuti, il mio pensiero non riesce a stare a casa”, rivela la religiosa. “Abbattendo muri e inferriate e infrangendo divieti, corro continuamente da loro, persone private di ogni conforto, di tutto ciò che possa rendere meno grigie, fredde e buie le loro giornate, meno pesanti le restrizioni imposte dalla terribile pandemia”. Attraverso questo piccolo sforzo editoriale, suor Emma vuole far conoscere l’emergenza covid-19 in carcere, i conseguenti provvedimenti restrittivi che hanno visto la sospensione temporanea dei colloqui visivi con i propri familiari, l’interruzione di tutte le forme di volontariato, fonte di massimo aiuto per coloro che si trovano ristretti negli istituti. Ci siamo chiesti più volte come spiegare questo evento nefasto epocale a persone già private della libertà e che difficilmente avrebbero compreso ciò che stava accadendo fuori. La risposta è arrivata proprio da loro ed è stata sorprendente. “A volte mi rassicurano”, riprende raccontando che in una recente lettera le hanno scritto: “Mi raccomando, cara Sr Emma, di riguardarti e sappi che tutti noi abbiamo bisogno di te, del tuo sostegno, perché tu sei per gli ultimi la speranza che rende leggero il nostro cuore”. La volontaria racconta nel libro tutta la drammaticità del carcere al tempo del Covid, spiegando nei dettagli una sofferenza che non accenna a diminuire: “Proviamo a immaginare cosa significhi sentir dire che questo coronavirus potrebbe diventare mortale e non avere nessuno che li conforti, li rassicuri; cosa significhi sentirsi cancellati i colloqui fisici e privati, persino i pacchi provenienti dalle loro famiglie; avere una vita povera di relazioni e vedere sparire tutti i volontari, di colpo non più autorizzati a entrare in carcere, e le già poche possibilità di formazione, e improvvisamente dover riempire le giornate con il nulla e la paura”, racconta la religiosa. La prefazione del volume è affidata al cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo di L’Aquila, che più volte ha visitato l’istituto romano e ha conosciuto i protagonisti di questa bella iniziativa: “Le pagine del testo sono come corridoi narrativi - scrive il porporato - che, se seguiti, immettono in “ambienti comunicativi” che non sarebbero stati altrimenti raggiungibili. In questi spazi dialogici troviamo esposte storie ed esperienze che vale la pena di esplorare con attenzione e rispetto. I detenuti si raccontano con franchezza disarmata. I brani da loro composti sono aree popolate da ricordi e da considerazioni, che sembrano distillate attraverso un lungo e spesso penoso itinerario autocritico: si coglie, sotto ogni riga, una sofferenza pervasiva che, in alcuni casi, raggiunge indici di drammaticità”. Secondo Petrocchi, il tono confidenziale con cui gli autori si rivelano rappresenta un attestato di fiducia verso il pubblico che li legge, ma, al tempo stesso, anche un rischio di fraintendimenti, se quanti ricevono i loro diari di vita adottassero un approccio superficiale e prevenuto: “Di qui la responsabilità di accostarsi a questi scritti con atteggiamento vigilante e inclusivo”. La prefazione dell’arcivescovo di L’Aquila ha un titolo eloquente, Sapere, per amare. Amare, per sapere, perché, spiega, “si deve varcare il confine dell’indifferenza e dell’estraneità, così come è fondamentale lasciarsi alle spalle la soglia del sospetto e delle interpretazioni distorsive. Bisogna, inoltre, attivare una disponibilità incondizionata alla verità, motivando evangelicamente la vicinanza partecipe: questo deposito di esperienze, infatti, merita di essere avvicinato con lo sguardo samaritano. Per capire - continua il porporato - occorre sapere, e per sapere, in modo autentico, è importante mobilitare sia la mente che il cuore. Conoscere, specie quando si tratta di visitare il mondo interiore di altri, non è un’impresa solo intellettuale, poiché se manca la luce dell’amore, gli occhi della ragione restano al buio”. Parlando del risultato e della proposta editoriale di suor Emma Zordan, il cardinale sottolinea che “chi legge le pagine di questo libro, con intelligenza altruista e leale empatia, si trova di fronte a sorprese positive e stimolanti. Emergono voci che chiedono solo di essere ascoltate”. Petrocchi invita alla lettura di queste pagine perché “ci aiutano a maturare la convinzione che è meglio porgere una mano amica (capace di offrire un aiuto adeguato) verso chi ha sbagliato, piuttosto che limitarsi a puntare il dito contro”. Seguendo la circolarità relazionale, che contraddistingue la logica evangelica, occorre “sapere per poter amare, ma è solo amando che si impara a capire. Spalancando le porte dell’anima alla Sapienza, che è sempre animata dalla carità, riusciremo gradualmente ad arrivare alla Verità tutta intera”. Infine un appello: “Non lasciamo che, pure per le nostre omissioni, l’universo-carceri resti avvolto dalle nebbie di giudizi sommari e inquinati da un ostinato rifiuto”. Un appello che suor Emma ha accolto fin da quando per la prima volta ha varcato la soglia della casa di reclusione e, da allora, contribuisce, attraverso pubblicazioni come queste, a migliorare la qualità dei servizi, portando un significativo supporto ai detenuti, ascoltando i loro problemi e dando sostegno morale e psicologico. Una piccola rivoluzione culturale sul concetto di detenzione, finalizzata al perseguimento degli obiettivi di rieducazione e reinserimento contenuti anche nella nostra Costituzione e, in tal senso, la sua attività costituisce un concreto punto di riferimento per la buona riuscita dei progetti virtuosi. Anche se sembra poca cosa, il coinvolgimento di persone che hanno rotto il patto sociale serve a molto. Serve a seminare risultati, lavorando sulla prevenzione piuttosto che sulla repressione, che saranno raccolti magari tra cinque o dieci anni. E questo, rievocando il titolo del libro, non tutti lo sanno. Il terrore interno di Adriano Sofri Il Foglio, 1 aprile 2021 È quello condiviso da pm e giudici, descritto nel “sistema” di Palamara. Ho letto il famoso libro-intervista di Palamara e Sallusti su “Il Sistema”. Non corro il rischio di veder peggiorata la mia fiducia nella magistratura, che infatti è uscita intatta da questa “storia segreta”. Sarei bensì curioso di sapere che impressione ne traggano i cittadini presso i quali sta andando a ruba. Immagino che se ne faccia soprattutto una lettura di costume, a partire dal titolo, mutuato dalla camorra. L’altro titolo naturale, “La casta”, era già preso, e presto fuggito di mano ai suoi autori. “Il Sistema” ha in più una connotazione criminale, che non guasta. Ma si tratta di spiccioli, i biglietti omaggio per la partita, il raddoppio per quattro anni al Csm dello stipendio di 6.000 euro e corsia preferenziale al rientro in carriera, la procura di Roma o un ministero, l’ospitalità fissa di qualche rete. Un’antica saggezza insegna a puntare su una modesta corruzione pur di sventare le sciagure della purezza. La questione, cioè, se i migliori magistrati non siano i peggiori. E i politici? “Fino al 2018. Lotti era l’uomo più ricercato anche da tanti magistrati”. Lo sbalordimento per la notizia non impedirà di cogliere l’involontaria comicità di quel “ricercato”. E Piercamillo Davigo, “dato come vicino ai grillini”: ecco che cosa può fare la lingua a un uomo, senza nemmeno accorgersene. L’Anm e il Csm dedicano sessioni a discutere dei calzini del giudice Mesiano, e si sbrigano quanto “all’opportunità di occuparsi dei depistaggi su Borsellino”. “Nel nostro mondo”, dice Palamara, e intende la giustizia. “Nel nostro mondo la corrente di Unità per la Costituzione viene chiamata Unità per la prostituzione”. Le sue roccaforti - i suoi bordelli principali, dunque - “sono Napoli, Catania e Roma”. C’è dello spirito di categoria. C’è invece un’aria loscamente spiacevole nell’insistenza con cui Palamara chiama a correo Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Quirinale di Napolitano e morto di quello. È morto, non risponde. Altri sono vivi. Di alcuni vengono puntigliosamente fatti i nomi. Ma qualcuno dovrà pur riconoscersi in una dichiarazione come: “Negli ultimi dieci anni non c’è un magistrato di Cassazione, un solo procuratore o procuratore aggiunto che non sia arrivato a quel posto attraverso il metodo Palamara”. Lo spodestato titolare del metodo sa che siamo in “un’epoca di grande attenzione alla sfera privata e ai diritti delle donne”. Lui, la cui sfera privata e le cui donne sono state messe in piazza, pubblica conversazioni in cui colleghe e colleghi gli raccomandano: “Ma non lo dire a nessuno, ti prego” (Maria C.), “Non dire a nessuno che ti ho detto questo” (Nicola C.), “Tienilo per te...” (Paolo A.). Non sono solo i pentiti di mafia a mettere da parte le frasi da smerciare in estremi. Appena qualcuno minaccia di scalfire il Sistema, spiega Palamara, viene fuori a farlo secco un cecchino. Il proiettile più micidiale mi pare compendiato in un verbo, “lambire”. Il tal magistrato “è lambito da un’indagine”, e il salto di carriera o la ribellione al Sistema si rompono. Non sono nemmeno sfiorato - lambito - dalla tentazione di dare un gran credito all’effusione di Palamara. Uno che dice: “Nulla accade a caso, c’è sempre un meccanismo, un sistema invisibile che si muove all’unisono”, sacrifica alla paranoia, per vanità o per autoindulgenza. Uno che dice: “La politica - lo ha insegnato un grande intellettuale come Canetti - ha anche un lato oscuro”. Canetti, per dire questo? Si cerchi piuttosto una citazione sul lato chiaro. Palamara dice un’enormità come: “Nella magistratura vige un clima di terrore interno”, ed esagera, probabilmente. Ma esagera tanto che bisogna ridicolizzarlo, o smentirlo. Ho un punto di vista speciale da far valere contro il mondo, i mondi interi. Non è il mio personale. È quello della moltitudine dei dannati che stanno nel fondo del Giudizio Universale, inforcati dai diavoli e arrostiti agli spiedi infernali, dopo essere passati per i tribunali. Là i procuratori e i giudici de “Il Sistema”, terrore interno e sulla Costituzione-Prostituzione, hanno indagato incarcerato giudicato miriadi di disgraziati. Là non sono stati resi più equanimi dalla povertà e dalla infermità degli anonimi pazienti, dalla loro irrilevanza per le carriere. Se esistesse una giustizia, non la divina e celeste, e nemmeno la terrestre dei desideri, ma una appena decente, appena professionale, allora l’ultimo dei condannati dall’ultima delle celle nude di una galera qualunque, il recidivo eroinomane ladruncolo e piccolo spacciatore, farebbe ricorso a una Corte d’onore, per essere stato condannato (o assolto, è quasi lo stesso) da un pubblico accusatore e un giudice che vivono un comune clima di terrore interno, si scambiano un voto e un biglietto per lo stadio, si accaniscono sui calzini turchese e lasciano correre l’opportunità di occuparsi dei depistaggi su Borsellino. Il falso Sud delle serie tv: o sbirri o mafiosi di Gioacchino Criaco Il Riformista, 1 aprile 2021 Raccontarsi per come si è, né cartolina né necrologio, un po’ e po’, una miscela di tragedia, commedia, condita dalla farsa. La vita di ognuno è un misto di tutto, così la vita di una terra: un insieme di tutte le cose che accadono al mondo, in tutti gli angoli del mondo, con prevalenze e mancanze. A tutti dovrebbe essere permesso il racconto sincero, anche solo per lo sfizio di raccontare bugie. Il Sud questo diritto non lo ha, è quello che un narratore onnipotente e onnisciente vuole. Non è un pensiero a se stante, stratificato, complesso; è brandelli di pensate superficiali, in bilico fra quelle da cronaca nera e quelle da fiction. Perciò il Sud non è, resta un pianeta distante, confinato in una galassia lontanissima, di cui arrivano solo le leggende. Il Sud famigerato dei processi di mafia o quello colorato delle serie televisive. Falso uno e falso un altro: due bugie non hanno mai dato corpo a una verità. Una deriva a cui sembra impossibile sottrarsi: quasi nessuno prova a raccontarlo un Sud per come è, lo si racconta per come serve agli altri, a se stessi. Lo si racconta per come poi se ne possa fare pietanza. E non è che non ci siano stati grandi narratori a raccontarlo, passano gli sforzi di Pirandello, di Sciascia, di Alvaro, di Strati, e di una lunga e sacra schiera, come le puntate di un film neorealista non in tono con le tendenze attuali. Il Sud è commissari e procuratori, sbirri e banditi: tutti ora truci ora leggeri; una terra colorata, intrisa di zagare e sole che si sveglia tardi perché c’è sempre poco da fare, e poi finisce al tavolo di un ristorantino vista mare a godersi frittelle di fi ori e pescato freschissimo. Tutto si assonna nella certezza di un andrà tutto bene alla fine. E invece da secoli niente va a finire bene, perché il Sud non è un filmetto americano in cui i marine rimetteranno l’ordine dei giusti, o arriveranno i borghesi illuminati a distribuire carezze. Il Sud è il documentario su una zolfatara, i minatori si dicono l’un l’altro non ti schianterai, non aver paura, senza aspettarsi risoluzioni se non quelle che passeranno attraverso lotte e resistenze durissime. Dopo averlo vestito per decenni dei panni dell’imputato, si pensa di risarcire il Sud per mezzo di un inesauribile gomitolo di soap-fiction che tessono trame unendole a orditi fatti per tranquillizzare chi guarda, invitarlo in location da urlo. Nessuno ci pensa a raccontare il Sud di quelli che il Sud lo vivono, lo abbandonano, lo invocano e lo bestemmiano. Un Sud che sia un Sud vero, non la major di una cospicua stirpe di writer o storyteller, ma con un’aria che a volte sa di gelsomino e altre di cumuli di spazzatura bruciata. Un Sud che non è né arretrato né antimoderno, che semplicemente si sia scontrato con una modernità portata da lontano. Un incidente da cui una cultura ne sia uscita a pezzi, senza che nessuno si sia poi preso la briga di curarla, di sanarne le ferite. C’è un Sud che dovrebbe e vorrebbe raccontarsi da Sud, ma è un fi lm che quelli bravi, di fuori, dicono non potrebbe aver successo. E allora proseguiamo a narrare di camicie a fiori, di ozio creativo e di estati perenni. Proseguiamo a inventare finzioni patinate che lasceranno intonsa la sostanza di un mondo che continuerà a essere altro per chi davvero lo viva o lo abbandoni. Cannabis terapeutica, la lettera dei pazienti a Draghi: “Cure per la nostra sofferenza” di Matteo Grittani e Valeria Pini La Repubblica, 1 aprile 2021 A 15 anni dalla legge che ne disciplina l’uso medico è ancora difficile ottenere queste terapie. L’appello al governo. Sono passati quasi 15 anni dall’introduzione della cannabis a uso medico in Italia, ma per molti pazienti le terapie sono spesso una chimera e non riescono ad avere quei farmaci che potrebbero alleviare dolore o contrastare i sintomi delle loro malattie. Il problema? La legge del 2006 viene disattesa. Quando le Regioni la applicano, lo fanno in modo disomogeneo. A volte la ignorano. Le cose possono cambiare da un ospedale all’altro, da una città all’altra. E quando la ricetta del dottore arriva, c’è il problema della reperibilità di queste sostanze per produzione insufficiente e scarse importazioni. Con problemi burocratici o personale sanitario ancora poco preparato. Al presidente del Consiglio Mario Draghi l’Associazione Luca Coscioni e Forum Droghe, a nome delle oltre 400 persone che hanno digiunato per la cannabis, si sono rivolte chiedendo di convocare la conferenza nazionale sulle droghe, come previsto dall’articolo 15 del Testo Unico sugli stupefacenti. Con l’obiettivo di avviare la valutazione delle politiche più adeguate in materia e tutelare i pazienti come Walter De Benedetto. Oltre a soffrire per l’artrite reumatoide si è trovato a combattere una battaglia legale per ottenere le terapie. Per contrastare i dolori si è fatto aiutare da un amico nella produzione domestica di piante. E si è visto coinvolto in un processo per coltivazione di sostanza stupefacente in concorso. Situazioni difficili che in questi mesi hanno visto la solidarietà di tantissime persone che hanno partecipato al “digiuno per la cannabis” per sensibilizzare le istituzioni sul tema. Inoltre da poco l’Onu ha cancellato la cannabis dalle sostanze dannose. Sempre di più si parla del Cannabidiolo o Cbd come di una ‘molecola multitasking’ per trattare diverse patologie. Dall’epilessia ai balsami, dalla cura del dolore e dell’insonnia agli orsetti gommosi. Abbiamo provato a fare il punto sugli studi più recenti in materia. Storie di pazienti, di persone, che si intrecciano a una terapia che può aiutarli ad affrontare giornate complicate. È emblematica anche la storia di Charlotte, una bimba nata nel 2006 da una famiglia di Colorado Springs, negli Stati Uniti. La prima crisi epilettica arrivò a tre mesi. La diagnosi gelò i genitori Matt e Paige: sindrome di Dravet, una rara e violenta forma di epilessia, che si manifesta con crisi epilettiche, disturbi cognitivi e difficoltà motorie ed è farmaco-resistente. Vennero provate tutte le terapie convenzionali, poi i farmaci sperimentali e la dieta chetogenica, ma la malattia avanzava inesorabile. Tanto che Charlotte, dopo pochi anni, fu costretta ad alimentarsi con un sondino e muoversi in sedia a rotelle, fiaccata da oltre 300 crisi convulsive a settimana. I dottori suggerirono il coma indotto, per dare respiro al suo corpo indebolito. Fu nel 2011 che Paige e Matt Figi, sfiniti dalla lotta della figlia, vennero a sapere di un altro bimbo con la stessa patologia che sembrava beneficiare di un particolare composto della Cannabis e decisero di somministrarlo alla figlia. Ciò che osservarono fu eccezionale: le convulsioni scomparvero quasi completamente dopo trenta giorni. E nel giro di venti mesi, Charlotte non aveva più bisogno di gran parte degli altri farmaci antiepilettici: ricominciò a camminare, andare in bici e giocare con la sua sorella gemella Chase. L’estratto dalla Cannabis che secondo i genitori salvò la vita a Charlotte è il Cannabidiolo (o Cbd), uno degli oltre 100 cannabinoidi finora identificati ed estratti dalla pianta di Cannabis Sativa. A differenza del suo “cugino high” - il Delta-9-tetraidrocannabinolo (o Thc) - non è psicotropo e dal 2017 è considerato dall’Oms “sostanza non stupefacente adatta all’uso medico”. Se la storia della piccola Charlotte Figi ha oltrepassato i confini del Colorado è grazie a un documentario della Cnn pensato nel 2013 dal neurochirurgo Sanjay Gupta. Charlotte purtroppo non c’è più dall’aprile scorso, ma la sua esperienza ha portato molti malati a chiedere il pieno riconoscimento del cannabidiolo come trattamento, rivoluzionando di fatto l’intero panorama della cannabis medica. A distanza di pochi anni, il fitocannabinoide ha conquistato una parte più ampia di consumatori (non solo coloro che l’assumono per necessità) ed è diventato un autentico trend-topic salutistico. Creme, integratori, infusi, e-cig, cristalli, shampoo, oli, orsetti gommosi: il mercato si è sbizzarrito presentando la molecola come un antidoto universale per ogni malanno. Ma si sa: i proclami del marketing e la realtà scientifica viaggiano su strade tanto parallele quanto destinate a non incontrarsi mai. Se sono state infatti dimostrate nel tempo l’azione ansiolitica, analgesica, antiepilettica o sonnifera del Cbd, prima di considerarlo alla stregua di un medicinale per trattare condizioni specifiche servono conferme che solo ricerca e sperimentazione possono dare. Esistono prove millenarie che testimoniano l’uso terapeutico dei derivati della cannabis, ma i primi dati scientificamente rilevanti sul Cbd arrivano nella seconda metà del secolo scorso. Nel 1963 Raphael Mechoulam, un professore di chimica della Hebrew University di Gerusalemme, considerato il padre della ricerca moderna sulla cannabis medica, individuò la struttura molecolare del cannabidiolo. Pochi anni più tardi, nel 1978, il gruppo guidato da Mechoulam pubblicò un trial clinico che dimostrava per la prima volta l’effetto antiepilettico del Cbd. A poco più di quarant’anni dalle prime ricerche di Mechoulam, l’unico medicinale a base di Cbd approvato oggi - sia dall’europea Ema che dalla statunitense Fda - cura proprio l’epilessia: Epidiolex di GW Pharmaceuticals. O meglio, il farmaco mira a ridurre l’insorgenza delle convulsioni associate a due rare forme di epilessia farmaco-resistente che esordiscono in età infantile: la sindrome di Lennox-Gasteaut e quella di Dravet, la patologia che colpì Charlotte Figi. L’epilessia è uno dei disturbi neurologici più diffusi al mondo con 70 milioni di malati, circa un terzo dei quali mostra resistenza alla terapia (principalmente sintomatica) con anticonvulsionanti. Epidiolex ha superato nel 2018 le tre fasi della sperimentazione clinica, forte dei trial del professor Orrin Devinsky, direttore del Comprehensive Epilepsy Center della New York University. Ricerche ispirate anche dalla battaglia di Charlotte - come lo stesso Devinsky ha più volte dichiarato - i cui risultati hanno dimostrato efficacia e sicurezza del cannabidiolo. Nel dettaglio, in un primo studio i soggetti trattati ogni giorno con dosi da 5 a 50 mg per kg di peso, riducevano del 36% gli episodi convulsivi, mentre in una successiva ricerca (a doppio-cieco controllato con placebo, in cui nessuno sa chi assume il placebo e chi il principio attivo), con 10-20 mg la frequenza calava fino al 42%. “In alcuni bambini le convulsioni sono addirittura sparite del tutto”, sottolineava Devinsky dinanzi a risultati tanto eccellenti. Ma in quale modo il cannabidiolo riuscirebbe a placare l’epilessia farmaco-resistente? A spiegarlo è il professor Pasquale Striano, medico epilettologo e neurologo pediatra dell’Istituto Gianna Gaslini di Genova, tra i maggiori esperti italiani sulle encefalopatie epilettiche dell’età evolutiva e sugli effetti terapeutici del Cbd in quest’ambito. “Si tratta di una molecola che ha meccanismi d’azione non convenzionali rispetto alle cure standard - osserva Striano - il Cbd agisce su due recettori specifici: il GPR55, che se inibito ha effetti anticonvulsivi, e il TRPV1, recettore della capsaicina - ingrediente attivo del peperoncino rosso e potente disinfiammante - anch’esso coinvolto nella modulazione delle crisi epilettiche”. A ribadire l’azione antiepilettica del cannabidiolo, c’è un recente studio del gruppo guidato da Striano al Gaslini in cui, dopo un follow-up di 24 settimane, il 73% dei pazienti curati con cbd puro per via sublinguale riportava una significativa riduzione delle convulsioni, mentre il 19% addirittura azzerava gli episodi. Come si spiegano questi dati estremamente incoraggianti? “Il cannabidiolo somministrato per bocca, come nei trial Usa, ha una biodisponibilità dal 4 al 10% (vuol dire che oltre il 90% viene smaltito ndr), mentre per via sublinguale sale all’80-85%”, risponde Striano. E ciò permette dosaggi più generosi. Il primo farmaco a base di Cbd è stato approvato pochi mesi fa da Fda anche per il trattamento dell’epilessia associata alla sclerosi tuberosa complessa (Tsc), una malattia genetica che colpisce 1-2 milioni di persone al mondo e 1 su 6000 nuovi nati. Sintomo principale: le convulsioni, che si presentano nell’80% dei casi e quasi sempre nella prima infanzia. Sono numerose le prove cliniche a supporto della cura per la Tsc. Tra le principali c’è un trial controllato randomizzato messo a punto da Elizabeth Thiele, professoressa di Neurologia alla Harvard Medical School. Dei 224 pazienti trattati con Cbd (25-50 mg per kg di massa corporea al giorno), “il 48-49% ha ridotto significativamente gli episodi nelle 16 settimane di osservazione”, si legge nelle conclusioni. L’epilessia resistente è senza dubbio una delle applicazioni più concrete del cannabidiolo, ma ha solo vantaggi oppure ci sono limiti? “C’è un equivoco che va chiarito - avverte Striano - il Cbd non è il più efficace degli antiepilettici, e soprattutto bisogna combattere l’idea sbagliata che si tratti di un prodotto natural, ‘che fa meno malè. Si tratta al contrario di un farmaco con un alto profilo di sicurezza e tolleranza, che può essere prescritto da uno specialista epilettologo nei casi in cui il paziente abbia provato almeno due antiepilettici senza risultato”. Come è stato ribadito al congresso nazionale della Lega Italiana contro l’Epilessia (Lice), c’è evidenza che farmaci a base di cbd puro possano essere efficaci in forme di epilessia anche diverse da quelle legate alla Lennox-Gasteaut e alla Dravet. “Un discorso che potremmo estendere potenzialmente a tutte quelle malattie in cui c’è un’infiammazione cronica di basso livello come il disturbo del sonno, la sindrome metabolica o l’asma - aggiunge Striano - ma al momento l’indicazione di usarli è limitata alle patologie per cui sono stati approvati”. Insieme all’epilessia, uno dei campi d’azione più interessanti del cannabidiolo, è quello dei disturbi psicotici, in particolare la schizofrenia e le psicosi schizofreniformi. La prima è un disturbo mentale caratterizzato dall’alterazione delle funzioni cognitive, comportamentali, comunicative e percettive. Colpisce 20 milioni di persone ed è trattata anche con psicoterapia. Già nel 1995, Mechoulam descrisse i miglioramenti dei sintomi di un paziente schizofrenico trattato con dosi elevate di Cbd. Allucinazioni, deliri, manie e pensiero disorganizzato sono i sintomi più comuni detti ‘positivi’, ovvero non presenti in individui sani; quelli “negativi” al contrario, includono apatia, deficit dell’attenzione e compromissione dei rapporti interpersonali. Dopo gli studi di Mechoulam, si sono susseguite varie pubblicazioni, quasi tutte case-report (analisi su singoli o pochi casi ndr), mentre sono pochissimi gli studi con placebo, che però confermerebbero una certa azione antipsicotica del cannabidiolo. Due i più rilevanti: il primo, in cui il team di ricerca diretto da Markus Leweke, del Central Institute of Mental Health di Mannheim, ha confrontato lungo 4 settimane gli effetti del Cbd puro con quelli dell’Amisulpride, un potente antipsicotico. “Entrambi i farmaci alleviavano i sintomi - afferma Leweke - ma il Cbd ha mostrato un profilo di tolleranza migliore, minor perdita di peso e sintomi come distonia, tremori e rigidità”. Con questa pubblicazione, definita dalla comunità scientifica ‘rivoluzionaria”, Leweke e colleghi hanno offerto anche una prima spiegazione del meccanismo d’azione del Cbd come antipsicotico: i pazienti trattati mostravano livelli più elevati di anandamide, un endocannabinoide prodotto dal nostro organismo, che in effetti proteggerebbe dalle psicosi. Il secondo vasto studio messo a punto dal professor Philip McGuire dell’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienze del King’s College di Londra, ha testato per la prima volta il fitocannabinoide come coadiuvante delle terapie standard con antipsicotici. “Dopo sei settimane di follow-up - scrivono i ricercatori - il gruppo Cbd ha diminuito i sintomi positivi sulla base della scala Panss (Positive and Negative Syndrome Scale, la scala di valutazione che ne misura la severità, ndr)”. Nonostante i dati incoraggianti di Leweke e McGuire, la comunità scientifica non è ancora convinta fino in fondo dei benefici Cbd contro le psicosi. Uno studio placebo-controllato del 2018 seguì lungo sei settimane pazienti trattati con antipsicotici convenzionali. Il gruppo curato con cannabidiolo in aggiunta (600 mg/giorno) non mostrava miglioramenti significativi secondo la scala Panss o sulla performance cognitiva. L’opinione degli esperti è chiara: da un lato sono ancora pochi i trial controllati, e dall’altro le dosi impiegate negli studi clinici e preclinici sono troppo diverse tra loro e spesso ‘sporcatè da tracce di Thc. In altre parole, le evidenze sull’efficacia del Cbd in campo psichiatrico sono ad oggi incomplete. In cima alla lista degli impieghi terapeutici del cannabidiolo (e della cannabis medica in generale) c’è senza dubbio il trattamento del dolore. Specie il dolore neuropatico, generato da un danno o una patologia del sistema nervoso centrale o periferico, che colpisce tra il 7 e il 10% della popolazione mondiale. Responsabili principali sono neuropatie come quella diabetica, quella periferica causata da trattamenti come radio o chemioterapia, il dolore post-ictus oppure la sclerosi multipla. Le terapie farmacologiche attuali riescono a garantire solo alla metà dei pazienti una riduzione significativa del dolore. Se l’azione analgesica del Cbd non è ancora stata riconosciuta per intero, dopo anni di esperienza clinica, la cannabis medica è senz’altro un’arma in più a disposizione dei terapisti del dolore. Ma come lo allevia? “Il Cbd agisce su recettori che mediano la trasmissione del dolore e l’infiammazione - spiega Gabriella Gobbi, professoressa di Psichiatria alla McGill University di Montreal - così come su almeno uno dei recettori della serotonina, il 5-HT1A”. Con il suo gruppo del Brain Repair and Integrative Neuroscience, Gobbi ha dimostrato che il cannabidiolo esercita sul cervello un effetto fisiologico del tutto simile a quello degli inibitori selettivi del reuptake di serotonina (SSRI), usati per trattare la depressione. “A pochi giorni dall’assunzione, si mette in moto la desensibilizzazione del 5-HT1A e il conseguente aumento della trasmissione serotoninergica, proprio come accade con gli SSRI”. Ma se non ci sono ancora evidenze soddisfacenti a supporto di un vero e proprio effetto antidepressivo del cbd, il team coordinato da Gobbi ha notato in test preclinici che piccole dosi sarebbero in grado di ridurre il dolore neuropatico, così come l’ansia. Il Cbd offrirebbe così un trattamento alternativo ad oppiodi e Thc; “una soluzione non certo egualmente efficace - precisa Gobbi - ma senza quegli effetti collaterali”. Insomma, i riscontri preclinici su dolore e infiammazione cronica sono incoraggianti, anche se sono ancora pochi i trial clinici placebo-controllati. Un’ultima analisi su malati di artrosi ha testato un gel al cannabidiolo. “Chi l’ha ricevuto ha ridotto il dolore di più rispetto al gruppo placebo”, conclude la pubblicazione. In definitiva, le evidenze sembrerebbero sostenere l’uso del fitocannabinoide come attenuante del dolore, ma fino a che punto? “Non sbaglieremmo a dire che il cannabidiolo ha delle potenzialità per trattare il dolore neuropatico, l’infiammazione e tutti quei disturbi dell’umore spesso in comorbidità - replica Gobbi - ma per stabilirlo è necessaria ulteriore sperimentazione”. Ridurre lo stress, rilassarsi e dormire meglio sono le ragioni principali per cui nel mondo ci si affida al cannabidiolo. È così per il 43-65% dei consumatori secondo una recente indagine. E non è un caso: la sua azione sui disturbi dell’ansia, del sonno e del panico è ben documentata, con vari studi, pochi però quelli placebo-controllati. A dare il principale contributo è Antonio Zuardi, professore di Neurologia e Psichiatria all’Università di San Paolo. Con una prima analisi, il suo gruppo ha confrontato diversi dosaggi di cbd su 40 individui senza disturbi d’ansia diagnosticati che a turno dovevano parlare in pubblico di fronte agli altri partecipanti. Dopo il breve discorso, gli scienziati hanno misurato frequenza cardiaca e pressione arteriosa, per poi valutare tramite standard internazionali i livelli di stanchezza e debolezza. “La dose intermedia di 300 mg ha migliorato notevolmente i sintomi soggettivi dell’ansia - conclude la pubblicazione - al contrario di quelle minima e massima (100 e 900 mg), dimostrate meno efficaci”. Nessun dosaggio ha però mostrato benefici sui parametri fisiologici. Risultati analoghi sono stati individuati per pazienti con disturbi d’ansia sociale. Per quanto riguarda invece l’azione sonnifera, uno studio su 72 pazienti adulti di una clinica psichiatrica di Denver ha sperimentato capsule di Cbd da 25 mg in aggiunta ai trattamenti standard per disturbi del sonno e ansia. Nelle conclusioni, il lead-author Scott Shannon del Dipartimento di Psichiatria dell’Università del Colorado, scrive: “il 79% dei partecipanti ha visto ridurre l’ansia nel primo mese, e il 67% ha migliorato la qualità e i parametri del sonno”. Ma in letteratura esistono anche alcuni trial il cui obiettivo finale era dimostrare l’effetto tranquillante del cbd, che hanno però fallito nel loro scopo. Molti ricercatori stanno oggi esplorando la molecola come calmante dell’ansia legata a disturbi dello spettro autistico (ASD). Il professor Devinsky ha condotto un primo studio su 15 suoi pazienti (5 dei quali epilettici), con diagnosi da ASD. Secondo i risultati, il trattamento sarebbe in grado di alleviare aggressività, irritabilità e iperattività associata allo spettro. “I genitori dei bambini spesso chiedevano di continuare con il Cbd anche senza miglioramenti nell’epilessia - nota Devinsky - semplicemente perché dormivano meglio ed erano più calmi”. Un’applicazione forse più giovane del cannabidiolo, è quella in ambito oncologico. Premessa fondamentale: allo stato attuale non esistono studi clinici su larga scala che dimostrino i benefici del Cbd sul cancro. Nonostante ciò, da un lato il fitocannabinoide trova sempre più riscontro nelle terapie come cura palliativa, e dall’altro la medicina ne sta dimostrando - con vari test su animali e cellule umane - l’efficacia anti-tumorale come coadiuvante ai chemioterapici classici. In Italia Massimo Nabissi, professore e ricercatore presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale e Sanità Pubblica dell’Università di Camerino, è tra i maggiori esperti sulla combinazione tra chemioterapici e cannabinoidi e sui benefici che questi potrebbero avere, in particolare nel glioblastoma e mieloma. “Fino al 2019 gli studi erano piccoli e disegnati in maniera diversa (con dosaggi, posologie ed endpoints non omogenei, ndr) - commenta Nabissi - ma dall’anno scorso Australia e Nuova Zelanda hanno aperto un reclutamento per studi clinici larghi”. Una prima sperimentazione su pazienti con mieloma multiplo è cominciata da poco anche in Israele, proprio sulla base dei risultati incoraggianti tratti dal lavoro di Nabissi e colleghi. La ricerca insomma è in moto, ma la pratica clinica ha già fatto qualche (prudente) passo avanti. All’avanguardia nei trattamenti con Cbd e con cannabis terapeutica, sono l’Istituto Europeo di Oncologia, così come la Fondazione Umberto Veronesi, che lo prescrivono sia in fase precoce che avanzata, per alleviare vomito, nausea, inappetenza e dolore senza gli effetti indesiderati degli oppiacei. E non è tutto. “Evidenze preliminari - prosegue Nabissi - ci dicono che in combinazione con i chemioterapici, il Cbd non ha effetti negativi e anzi può esercitare un’azione amplificante della cura classica. Ciò è stato visto sia per il mieloma, che per i tumori al cervello, pancreas ed endometrio”. Alcune analisi hanno anche sondato l’azione di rallentamento della crescita del cancro. “In fase preclinica, sia a livello di cellule tumorali che in modelli animali, c’è forte evidenza che il Cbd, talvolta accoppiato al Thc, possa interagire negativamente sulla crescita dei tumori”, chiarisce Nabissi. In particolare sembra in grado di contrastare processi caratteristici della formazione, che vanno dall’angiogenesi, ovvero la crescita di nuovi vasi sanguigni dai tessuti circostanti, alla formazione di metastasi. Come? “Il meccanismo è ancora poco chiaro, ma si è visto che induce apoptosi (processo di morte cellulare programmata n.d.r.) nel tumore al cervello, così come necrosi nel mieloma”. Alcuni studi portati avanti da Sean McAllister del California Pacific Medical Center di San Francisco hanno dimostrato le stesse dinamiche nel carcinoma della mammella. La sperimentazione, che si è svolta con cellule in vitro, secondo McAllister “offrirebbe evidenze per un uso clinico futuro”. È corretto quindi sostenere che in ambito oncologico, il cannabidiolo abbia mostrato risultati soddisfacenti in fase preclinica e aiuti già oggi - in combinazione con altri fitocannabinoidi - ad alleviare dolore, insonnia, nausea o ansia, conseguenze del cancro e delle sue terapie. “Ma c’è ancora molto da studiare su dosaggi, meccanismi d’azione, formulazioni e modalità di somministrazione, per sfruttarne appieno le potenzialità”, conclude Nabissi. La cannabis viene spesso descritta come porta d’ingresso verso l’abuso di sostanze più pericolose, ma ci sono evidenze preliminari che il cannabidiolo preso singolarmente abbia in realtà l’effetto opposto e aiuti a ridurre le probabilità di sviluppare dipendenze da cocaina e metanfetamine. Yasmin Hurd, direttrice dell’Addition Institute of Mount Sinai - tra i più importanti centri di trattamento delle dipendenze al mondo - ha cominciato a studiare il meccanismo con studi preclinici mirati. Dopo aver mostrato che le cavie murine con dipendenza da eroina cercano oppioidi con meno insistenza se trattate con Cbd, Hurd ha identificato la stessa dinamica nell’uomo. Con il suo team, ha messo a punto una ricerca su 42 consumatori abituali di eroina, con fino a tre mesi di astinenza. Il disegno dello studio è “duro”, ma ha prodotto risultati incoraggianti: i ricercatori hanno esposto i partecipanti a siringhe e altri oggetti per le iniezioni e video che mostravano assunzioni di eroina. “Sono stimoli che provocano forte carving (desiderio irrefrenabile della sostanza n.d.r.)”, spiega la neuroscienziata. Un fenomeno a cui si associano elevati livelli di cortisolo e frequenza cardiaca accelerata. “Rispetto al gruppo placebo, chi ha ricevuto Cbd ha ridotto significativamente il carving, così come gli indicatori fisiologici collegati”, conclude Hurd. L’effetto si protraeva fino a 7 giorni dalla somministrazione. Ma i benefici del cannabidiolo nell’ambito delle dipendenze mitigherebbero anche i rischi legati alla cannabis stessa e in particolare al suo componente psicotropo: il Thc. È dimostrato come - su individui predisposti, specie se adolescenti - il tetraidrocannabinolo induca disturbi psicotici; un’importante analisi del King’s College di Londra ha dimostrato che il Cbd agisce sul cervello in maniera opposta al Thc e ne allevia gli effetti psicotogenici. Non è una panacea La Scienza che sta dietro al cannabidiolo, come visto, esiste e in alcuni ambiti è assodata. Al di fuori di questi, la ricerca è ancora limitata e non ha certezze granitiche. Gli scienziati si sono chiesti se il fitocannabinoide fosse in grado di migliorare la vita ai malati di Parkinson, della malattia di Huntington, del morbo di Crohn e di vari altri disturbi. Per nessuna di queste condizioni sarebbe corretto oggi, sulla base delle evidenze, sostenere che il Cbd sia una valida cura. L’entusiasmo febbrile, che ha investito prima gli Stati Uniti per poi sbarcare in Europa, continua a presentarlo ai consumatori come la panacea di tutti i mali, balzando molto oltre ciò che oggi è scientificamente assodato. E così, il mercato del cannabidiolo ha superato i 2.8 miliardi di dollari nel 2019, ma lieviterà fino a 22-30 miliardi entro la metà di questo decennio secondo le stime più accreditate. Le aziende produttrici di e-cig, prodotti per la cura personale e alimentari cavalcano l’onda: preparati a base di Cbd sono disponibili ovunque. Ma a differenza del Cbd di grado farmacologico - che risponde a standard Gmp (good manufacturing product), viene purificato e poi certificato da enti regolatori come Aifa - gran parte di quello che si trova online o in negozi fisici è poco o per nulla controllato. E di scarsa qualità. Occhio ai preparati Nel 2017, Marcel Bonn-Miller ricercatore alla School of Medicine dell’Università della Pennsylvania ha analizzato gli estratti di cannabidiolo più acquistati. Solo il 31% recava sull’etichetta ciò che effettivamente conteneva, mentre il 21% era contaminato da concentrazioni di Thc ‘intossicanti’. Nelle preparazioni sono state trovate tracce di pesticidi, metalli pesanti e solventi tossici rilasciati dai processi di estrazione. Occhio a ciò che si acquista quindi, specie se lo si fa senza prescrizione medica. Ma soprattutto, attenzione a non farsi sedurre dalle promesse mirabolanti; deprecabili, perché danno false speranze ai malati, o nella migliore delle ipotesi a consumatori poco informati. Per capire davvero tutte le potenzialità del cannabidiolo, alla comunità scientifica serve ulteriore ricerca. Dati che spieghino completamente i meccanismi d’azione, i dosaggi, l’efficacia e la formulazione più adatta a seconda della patologia. Riscontri che secondo tutti gli esperti interpellati, potremo trarre solo da trial randomizzati controllati con placebo: considerati il “gold standard” della sperimentazione clinica, ma anche i più costosi e delicati nella progettazione. In mancanza di questi, i benefici del cbd non ancora dimostrati saranno ostaggio di esperienze personali ed effetti placebo, che poco hanno a che spartire con il metodo scientifico. “L’essere umano diventa incauto quando pensa di vedere un disegno - conclude Orrin Devinsky - se tutti si convincono di qualcosa senza avere dati, la chiamo “religione”. E io non vorrei che il cannabidiolo diventasse una sorta di religione per il consumatore medio”. Stati Uniti. Addio al proibizionismo: cannabis libera a New York di Victor Castaldi Il Dubbio, 1 aprile 2021 Il governatore Cuomo: “Una legge contro la criminalizzazione delle minoranze”. Consentito l’uso ricreativo. Fissato a 85 grammi il limite del possesso La prima conseguenza: cancellate migliaia di condanne penali. Crolla il muro di proibizionismo nella Grande mela. Lo Stato di New York ha infatti adottato una legge che legalizza l’uso della marijuana a scopo ricreativo. Una svolta storica che sottrae dalle mani della criminalità un business da milioni di dollari. Gli adulti di almeno 21 anni, è stabilito dal nuovo quadro normativo, potranno acquistare cannabis e persino coltivarne piante a casa per uso personale. Sarà consentito il consumo di erba in tutti i luoghi pubblici nei quali è permesso fumare tabacco, tranne che nelle scuole, nei posti di lavoro o all’interno delle automobili (come d’altra parte accade con l’alcol). New York si unisce in questo modo ad altri 14 Stati americani e al Distretto di Columbia della capitale Washington dove è già consentito l’uso della marijuana. “Per troppo tempo, il divieto della cannabis ha preso di mira in modo sproporzionato le comunità di colore con pesanti pene detentive”, ha dichiarato in una nota il governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, confermando che firmerà senza dubbio la legge. “Questa legge storica rende giustizia alle comunità a lungo emarginate, abbraccia una nuova industria che farà crescere l’economia”, ha aggiunto. Secondo il New York Times, la nuova legge è infatti destinata anche a migliorare la situazione delle comunità latine e afroamericane, alle quali dovrebbe andare circa il 46 per cento dei proventi della vendita di marijuana. Inoltre, nel 2020 il 94 per cento delle persone arrestate a New York per possesso di cannabis era di colore. Il governatore, sotto pressione in questo periodo per le morti da Covid-19 nelle case di cura e per le accuse di molestie sessuali, ha fatto sapere anche che la legalizzazione della marijuana era una delle sue “prime priorità”. La legge fissa a 85 grammi il nuovo limite per il possesso personale, una quantità molto elevata che dovrebbe tranciare per sempre la distinzione tra spaccio e consumo. Ma, cosa più importante, lo Stato di New York cancellerà automaticamente le condanne penali agli individui sanzionati per reati legati alla marijuana, che da questo momento non saranno più considerati tali. Secondo l’ufficio del governatore, inoltre, il nuovo provvedimento, come è già accaduto in altri Stati, darà un significativo impulso all’economia, al punto che si stima che potrebbe portare fino a 350 milioni di dollari di entrate fiscali annuali e creare decine di migliaia di posti di lavoro in tutta la nuova filiera. La Marijuana Regulation and Taxation Act (Mrta) istituisce contestualmente anche l’Ufficio per la gestione della cannabis (Ocm) e il Consiglio per il controllo della Cannabis, che si occuperanno di regolamentare l’industria della marijuana, Inclusa la sua tassazione che stando alle prime indiscrezioni dovrebbe aggirarsi intorno al 9%. Stati Uniti. La svolta di New York: cannabis legale e redistribuzione dei proventi di Marina Catucci Il Manifesto, 1 aprile 2021 Lo Stato legalizza la marijuana per uso creativo, ripulisce le fedine penali di chi è stato condannato in passato e prevede l’uso dei guadagni per scuola, sanità, comunità svantaggiate. Lo Stato di New York ha legalizzato la marijuana per uso ricreativo e cancellerà i casellari giudiziari delle persone precedentemente condannate per crimini che ai sensi della nuova legge non esistono più. Il governatore Andrew Cuomo ha firmato la legge 12 ore dopo che il Congresso statale l’aveva approvata: New York è ora il 15° Stato a consentire l’uso ricreativo della marijuana. “Questo è un giorno storico per New York - ha detto Cuomo - che raddrizza i torti del passato ponendo fine a dure pene detentive e che abbraccia un’industria che farà crescere l’economia dell’Empire State dando la priorità alle comunità emarginate in modo che quelle che hanno sofferto di più saranno le prime a raccogliere i frutti” La nuova legge potrebbe creare fino a 60.000 posti di lavoro e generare 350 milioni di dollari di entrate fiscali all’anno. I precedenti tentativi di legalizzare la marijuana erano falliti per disaccordi su come distribuire le entrate fiscali provenienti dalle vendite di marijuana. Ora un accordo è stato raggiunto: un’aliquota fiscale del 14% che include il 9% per lo Stato, il 3% per il comune in cui viene effettuata la vendita e l’1% per la contea. Di quel 9%, il 40% è stato stanziato per le comunità colpite in modo sproporzionato dalle precedenti leggi sulla proibizioniste, il 40% andrà alle scuole e il 20% per medicine e istruzione. In base alla legge i newyorkesi potranno possedere tre once (85 grammi) di marijuana e coltivare in casa fino a tre piante, con un limite di sei piante per nucleo familiare. La legge cerca anche di consentire alle persone con condanne passate e a coloro che sono coinvolti nel mercato illecito della cannabis di partecipare al nuovo mercato legale. “A differenza di qualsiasi altro Stato in America, questa legislazione è intenzionale sull’equità - ha detto alla Camera statale Crystal Peoples-Stokes, che ha sponsorizzato il disegno di legge - L’equità non è un secondo pensiero, è il primo e deve esserlo, perché le persone che hanno pagato il prezzo di questa guerra alla droga hanno perso tanto”. Russia. L’oppositore Navalnyj annuncia lo sciopero della fame in carcere di Rosalba Castelletti La Repubblica, 1 aprile 2021 L’attivista anti-corruzione chiede cure e la visita di un medico esterno alla prigione. La scorsa settimana aveva lamentato dolori alla schiena e a una gamba e aveva denunciato di venire “torturato” con la privazione del sonno. L’oppositore russo Aleksej Navalnyj, detenuto in una colonia penale, ha annunciato uno sciopero della fame chiedendo l’accesso ad assistenza sanitaria e denunciando la “tortura” di cui soffre a causa della privazione del sonno. “Dichiaro lo sciopero della fame per domandare l’applicazione della legge e perché lascino che mi visiti un medico esterno”, ha scritto Navalnyj sul suo profilo Instagram. “La Russia del 2021: per ricevere le cure mediche che ti spettano per legge devi indire uno sciopero della fame”, ha commentato su Twitter la portavoce Kira Jarmish, agli arresti domiciliari e ufficialmente senza accesso a Internet. Nei giorni scorsi i collaboratori e i legali dell’attivista anti-corruzione avevano lanciato l’allarme dicendo di temere per il suo stato di salute e la sua vita. “Per me il suo stato di salute è ovviamente estremamente problematico”, aveva detto alla tv indipendente Dozhd l’avvocata Olga Mikhailova. I dolori alla schiena e alla gamba - L’oppositore soffrirebbe di “forti dolori” alla schiena e alla gamba destra e la scorsa settimana sarebbe stato sottoposto a una risonanza magnetica presso un “ospedale pubblico” senza però ricevere una diagnosi. Un neurologo gli avrebbe prescritto il solo ibuprofene, un comune antinfiammatorio. “Il mal di schiena si è spostato alla gamba. Aree della mia gamba destra e ora la mia gamba sinistra hanno perso sensibilità. Scherzi a parte, è noioso”, continua Navalnyj oggi nella sua dichiarazione, aggiungendo di passare il suo tempo sdraiato sul letto. Le autorità, denuncia inoltre, si rifiutano di dargli altri libri a parte la Bibbia. “Gli altri detenuti dicono solo: Aleksej, mi dispiace, ma abbiamo solo paura (...) La vita di un prigioniero vale meno di un pacchetto di sigarette”, scrive Navalnyj. “Mi privano del sonno, è un uso de facto della privazione del sonno come tortura”, aveva scritto Navalnyj nei giorni scorsi, precisando di essere svegliato “otto volte a notte” dai suoi carcerieri e chiedendo di “ricevere cure”. Il Servizio penitenziario federale (Fsin) della regione di Vladimir, vicino a Mosca, dove è imprigionato Navalnyj, aveva smentito problemi di salute assicurando che erano state effettuate visite mediche e che le condizioni di Navalnyj erano state “considerate stabili e soddisfacenti”. “Non seguiamo il caso, il monitoraggio della salute dei prigionieri è di competenza delle autorità penitenziarie”, aveva dichiarato il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov. La colonia penale di Pokrov - Navalnyj è detenuto nella colonia penale di Pokrov, 100 chilometri a Est di Mosca, una delle carceri più dure della Federazione. L’oppositore lo aveva paragonato a un “campo di concentramento” e la sua vita quotidiana a quella di uno Stormtrooper nel “remake russo di Guerre Stellari”. Lunedì Navalnyj aveva anche affermato di aver ricevuto otto ammonizioni in solo due settimane di detenzione per essersi “alzato dal letto 10 minuti” troppo presto o per essersi “rifiutato di partecipare” agli esercizi fisici mattutini obbligatori e che perciò rischia di essere trasferito in una cella d’isolamento. L’avvelenamento da Novichok - Il quarantaquattrenne Navalnyj è sopravvissuto ad un avvelenamento da Novichok nell’agosto scorso. Finito in coma e trasferito in Germania, dopo cinque mesi di convalescenza, lo scorso gennaio era rientrato a Mosca, ma era stato arrestato non appena atterrato. Condannato in febbraio a due anni e mezzo di carcere per un caso di frode risalente al 2014 giudicato “motivato politicamente” dalla Corte europea per i diritti umani, è detenuto dall’inizio di marzo nella colonia penale Pokrovskaya Ik-2, a 100 chilometri dalla capitale russa. Cina. Le lettere dal carcere dell’uighura Gulbahar di Alessandro Michelucci Avvenire, 1 aprile 2021 Nata nel Xinjiang ed emigrata in Francia nel 2006, dopo dieci anni la donna ha ricevuto una lettera che le chiedeva di tornare in Cina per firmare alcuni documenti. Ma era una trappola. La Cina odierna è molto diversa da quella maoista che riscuoteva ampi consensi e dure condanne nella seconda metà del secolo scorso. L’adesione all’economia di mercato ha trasformato il Paese asiatico in una potenza economica di dimensioni planetarie. La necessità di convivere con questo nuovo attore ha ridotto al minimo l’attenzione per le violazioni dei diritti individuali e collettivi, che sono rimaste comunque la norma. Molti media si occupano sulla Cina soprattutto per motivi economici e geopolitici, ma esistono anche numerose questioni etniche e territoriali che preoccupano Pechino: da Hong Kong al Tibet, da Taiwan alla questione degli uighuri. Questi ultimi sono una minoranza turcomanna di religione islamica che conta circa 11 milioni e si concentra prevalentemente nello Xinjiang. Situata nel nordovest del Paese asiatico, questa è la più estesa divisione amministrativa della Repubblica Popolare Cinese (1.660.000 kmq, tre volte la Francia). Secondo le stime più recenti, gli uighuri costituiscono il 46% dei 24.000.000 di abitanti della regione, seguiti a ruota dagli han (i cinesi propriamente detti), che toccano il 40%. La minoranza islamica è tuttora oggetto di una repressione feroce. Fortunatamente, però, negli ultimi anni stanno uscendo vari libri che permettono di conoscere questa realtà tragica ma dimenticata. Uno dei più recenti è Rescapée du goulag chinois: Premier témoignage d’une survivante ouïghoure (Editions des Equateurs), da puco pubblicata in Francia. Il volume, curato dalla giornalista Rozenn Morgat, contiene la preziosa testimonianza di Gulbahar Haitiwaji, una donna uighura che ha conosciuto i campi di concentramento. Nata nel Xinjiang, Gulbahar Haitiwaji era emigrata in Francia con la famiglia nel 2006. Dieci anni dopo ha ricevuto una lettera che le chiedeva di tornare in Cina per firmare alcuni documenti necessari per ottenere la pensione. Ma era una trappola: la donna fu arrestata e rinchiusa in un campo di concentramento, dove è rimasta per due anni (2017-2019). In questi campi, attivi da vari anni, sono rinchiusi attualmente oltre un milione di uighuri. Il fatto che questa minoranza sia in larga prevalenza musulmana fornisce a Pechino un motivo ideale per reprimerla nel nome di quella “lotta al terrorismo” che viene praticata contro i dissidenti in varie parti del mondo. ?Con la struttura di un diario, il libro racconta una vita quotidiana fatta di stenti, terrore, fame, umiliazioni: “Convinti che fossimo nemici da abbattere, traditori, terroristi, ci hanno privati della libertà”. Sobria e orgogliosa, mai vittimistica, la testimonianza di Gulbahar Haitiwaji ci riporta ai tempi bui di Solženicyn e di Sacharov. Nel 2019 Haitiwaji è potuta tornare in Francia grazie all’impegno diplomatico francese, dato che il marito e la figlia avevano lo status di rifugiati. Il suo racconto, asciutto ma spaventoso, dovrebbe scuotere dal torpore i milioni di persone che pur conoscendo questa tragedia si voltano dall’altra parte. Ormai la persecuzione operata dalla Cina nei confronti delle minoranze e dei dissidenti è sostanzialmente analoga a quella che veniva praticata nell’Urss. Riemerge il termine gulag, ma soprattutto ne riemerge la sostanza, cioè i campi di concentramento, anche se definiti “campi di rieducazione”. Come ai tempi dell’Urss, riemergono anche i coriacei difensori del sistema repressivo, che negano l’evidenza con fiera ostinazione. Uno di questi è il giornalista francese Maxime Vivas, autore del libro Ouïghours, pour en finir avec les fake news (La Route de la Soie). Del resto, se è vero che la Cina ha realizzato una sintesi inedita di capitalismo e comunismo, è altrettanto vero che le strutture repressive del secondo funzionano sempre a meraviglia. Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso i dissidenti dell’Europa centro-orientale volsero lo sguardo a Ovest per cercare l’aiuto dei propri fratelli europei. In alcuni casi lo trovarono. Oggi gli uighuri della Cina fanno lo stesso: si rivolgono a noi e chiedono di non essere sacrificati nel nome del profitto. Ma noi siamo pronti ad aiutarli? Cile. Il giorno di proteste che ha cambiato la vita di Damián di Elena Basso Il Manifesto, 1 aprile 2021 Storia di un diciassettenne che dopo 5 mesi di duro carcere preventivo scontati per la sua prima partecipazione alle proteste contro il governo Piñera non è più lo stesso. Il senatore Latorre al manifesto: “Ci sono casi di ragazzi detenuti, torturati e abusati sessualmente dalle forze dell’ordine”. Era un lunedì, il 21 ottobre del 2019 e a Santiago del Cile regnava il caos. Le strade erano piene di militari e centinaia di migliaia di persone partecipavano a una protesta all’Alameda, la via principale della città. Cristi stava camminando cercando suo figlio Damián Toro, di 17 anni. Un paio di ore prima si erano incontrati alla metro, lui le aveva detto che sarebbe andato alle proteste contro il governo di Sebastián Piñera. Suo figlio non era mai stato un’attivista, era sempre stata lei quella attenta alla politica in famiglia, quindi credeva che Damián volesse solo vedere quello che accadeva spinto dalla curiosità. I carri idranti lanciavano acqua sulla folla, l’urlo delle sirene sovrastava quello dei manifestanti. Cristi si faceva largo cercando il viso di Damián, la situazione era troppo tesa: voleva solo portare il figlio a casa con lei al sicuro. E poi d’improvviso Cristi si è sentita stringere dal terrore, ha visto suo figlio: stava avanzando verso il centro delle proteste. “Mi sono spaventata tantissimo - ricorda Cristi - non avevo idea che Damián sarebbe andato fra le fila della Primera Linea”, ragazze e ragazzi che dal primo giorno dei disordini si sono frapposti fra le migliaia di manifestanti e gli agenti delle forze dell’ordine, facendo da scudo ai cittadini, lanciando pietre o molotov. “Ho cercato di convincerlo a venire a casa, ma non c’è stato nulla da fare”. Poco prima che scattasse il coprifuoco imposto per le proteste sono dovuta rientrare, lasciando lì mio figlio”, racconta Cristi. Damián è sempre stato un ragazzo molto tranquillo; usciva con gli amici, studiava: come qualsiasi adolescente. Cristi non avrebbe mai immaginato che per un solo giorno di proteste la loro vita sarebbe cambiata per sempre: il 21 ottobre del 2019, mentre lo aspettava a casa, Damián è stato arrestato per aver lanciato una molotov e sottoposto a carcerazione preventiva in attesa del processo. È tornato in libertà solo cinque mesi dopo: il 26 marzo 2020. Come spiega Maria Magdalena Rivera, 63 anni, avvocata del caso: “Damián è stato tenuto in prigione preventiva così a lungo per essere da esempio agli altri adolescenti che partecipavano alle proteste. La prigione preventiva è stata utilizzata per fermare i disordini: per tenere in carcere chi avrebbe partecipato alle manifestazioni e per scoraggiare gli altri”. Rivera è la coordinatrice di Defensa Popular, organismo cileno per i diritti umani attivo dal 2008: “In moltissimi casi i manifestanti arrestati sono già stati picchiati, torturati e minacciati durante il controllo di detenzione. Per quanto riguarda gli adolescenti detenuti abbiamo difeso Damián, Mauricio e Kevin. Kevin è stato minacciato di stupro dai carabineros”. Nel Senato cileno si sta discutendo un progetto di legge d’indulto per i dimostranti detenuti dall’ottobre 2019 presentato dal senatore Juan Ignacio Latorre, 43 anni, che dichiara a il manifesto: “È stata messa in atto una persecuzione politica contro molti manifestanti: cittadini che sono rimasti in carcere per un tempo lunghissimo senza motivo o con prove false. La società cilena continua a basarsi sul concetto del “nemico interno”, su cui si fondava la dittatura di Pinochet, per cui chiunque fosse considerato un pericolo per lo Stato, per le proprie idee o credo politico, veniva fatto sparire. Chiunque sia ritenuto un “nemico interno” è, ancora oggi, fortemente represso e criminalizzato”. Il 14 dicembre scorso il presidente Piñera ha annunciato che se il disegno di legge d’indulto verrà approvato dalle Camere userà il veto presidenziale. Il senatore Latorre, presidente della Commissione del Senato per i diritti umani, spiega: “Uno dei problemi principali che abbiamo riscontrato è stata la mancanza di trasparenza nei dati. Si parla di migliaia di dimostranti detenuti, ma non si sa il numero preciso. Crediamo che i dimostranti arrestati siano più di 5mila e fra 300 e 500 i cittadini che sono ancora in prigione preventiva”. Per lo stesso motivo è difficile stabilire quanti siano stati i minori arrestati durante le proteste; secondo i dati presentati dalla Defensoría Penal Pública dal 18 ottobre 2019 al 31 dicembre 2019 i manifestanti minori in prigione preventiva erano 55. “Ci sono casi di ragazzi detenuti, torturati e abusati sessualmente dalle forze dell’ordine - afferma Latorre -. Quella degli adolescenti e dei bambini è una situazione particolare perché molte proteste sociali derivano dal Sename”. Ovunque nella capitale cilena, sui muri e sui cartelli durante le proteste, si legge “Basta Sename”. Il Servicio Nacional de Menores è da anni al centro di fortissime polemiche: già segnalato da organismi internazionali come Human Rights Watch, nel luglio del 2019 la testata cilena Ciper ha rivelato una sconvolgente inchiesta della Polizia investigativa cilena (PDI) sugli abusi commessi all’interno del Sename. Il rapporto, che non è stato reso pubblico per 7 mesi, riguarda 240 centri gestiti dal Servicio Nacional de Menores, e denuncia che nel 2017 si sono registrati 2.071 abusi (310 di natura sessuale). Nell’inchiesta, di 257 pagine, la PDI conclude che nel 100% dei centri si sono commessi “in modo permanente e sistematico azioni che violano i diritti dei bambini e degli adolescenti” e che nel 50% dei centri si sono verificati abusi sessuali. Negli ultimi giorni nella capitale cilena sono scoppiate forti proteste per un video diffuso il 22 marzo e realizzato da una vicina del centro gestito dal Sename Carlos Antúnez, a Providencia. Nel video si ascoltano le strazianti grida, provenienti dal centro, di un adolescente che chiede aiuto durante un presunto abuso o pestaggio. Sull’accaduto si è aperta un’inchiesta della procura; per quanto emerso fino ad ora i fatti si sarebbero verificati nel corso di un’operazione effettuata dai carabineros all’interno della residenza. Damián per 5 mesi è stato recluso in un centro del Sename insieme a ragazzi accusati di delitti comuni. Per Cristi è stata dura, tutto di lei, come madre, è stato messo in discussione: come si veste, i suoi capelli, l’educazione familiare. Lo shock per Damián è così forte che non vuole più manifestare, non vuole parlare di ciò che gli è accaduto e non vuole essere attivo politicamente. Durante i mesi di carcere ha vissuto esperienze violente e ha scritto lettere lunghissime a sua madre. La scrittura è ordinata e fitta, le parole si riversano sulla carta con tutta la loro forza. “Migliaia e migliaia di persone cercano di racimolare denaro con la stessa disperazione di un naufrago che nel deserto cerca una goccia d’acqua perché non vogliono vivere nella stessa povertà delle loro famiglie”, scrive Damián riflettendo sull’ingiustizia della società in cui è cresciuto. Come cambia la vita di un 17enne che per un giorno di proteste passa mesi in carcere? Damián continua a scrivere e racconta la vita dei suoi compagni di cella, ragazzi di 14 anni, analfabeti, con genitori tossicodipendenti e che sono diventati drogati a loro volta. “Ci credi che questi ragazzi hanno una vita migliore in carcere che fuori?”, scrive Damián. La sua scelta di andare fra le fila della Primera Linea quel 21 ottobre, per Cristi, è stato un atto viscerale. La speranza che si respirava, quando milioni di persone sono scese in piazza, e la violenza che usavano le forze dell’ordine era tale (oltre 8mila manifestanti hanno denunciato abusi e 460 sono stati accecati) che ha deciso di agire. Ma oggi prova solo timore, soprattutto per sua madre, che non si è fermata e vuole urlare con tutta la sua forza ciò che accade in Cile. Cristi oggi si trova nella sede dell’associazione dei familiari dei dimostranti incarcerati e a breve si svolgerà una manifestazione per richiedere la libertà dei detenuti. Cristi parteciperà e, mentre sta per uscire dalla sede, il suo cellulare squilla. È un messaggio di Damián, che legge con voce commossa: “Mamma, per favore, fai attenzione alla manifestazione”. Petrolio e povertà nel nord del Mozambico, mix vincente per l’Isis di Stefano Mauro Il Manifesto, 1 aprile 2021 Jihadisti in espansione. La conquista della città di Palma un colpo eclatante messo a segno dai miliziani. A Maputo governo in grave difficoltà. Anche il Sudafrica invierà truppe nella regione di Cabo Delgado, al centro di un mega investimento internazionale nel settore degli idrocarburi. “Dopo la sua caduta in Iraq e Siria nel 2017, questa è una delle vittorie più eclatanti per lo Stato Islamico con la conquista di un’area strategica importante ricca di petrolio e con il possesso di due città come Mocimboa da Praia e Palma”. Così Rita Katz, direttrice del sito specializzato in jihadismo The Site Intelligence, analizza la rivendicazione fatta dall’Isis e dal suo gruppo affiliato dell’area, “Ansar Al Sunna Al-Shabaab”, legato allo Stato Islamico dell’Africa centrale (Iscap), della conquista di due città nella regione settentrionale di Cabo Delgado in Mozambico. Un chiaro segnale delle difficoltà del governo centrale è il silenzio del presidente Filipe Nyusi contestato dalle opposizioni politiche e da numerose associazioni “per la propria incapacità nel contrastare l’ascesa jihadista nella regione”. La vicenda mette in evidenza anche l’indifferenza del governo centrale per la popolazione locale, priva di servizi essenziali e abbandonata alle violenze dei gruppi jihadisti dal 2017, in una regione ricca di idrocarburi e interessi economici. Povertà estrema per la popolazione locale in contrasto con le ricchezze che sono andate al governo centrale di Maputo e alle multinazionali straniere (Total, Exxonmobil, Eni) che hanno investito in un progetto di esplorazione offshore di 20 miliardi di dollari, il più ricco per il continente africano. “È una regione che ha sofferto di malgoverno e corruzione, dopo la scoperta dei giacimenti non è cambiato nulla, la gente vive nella miseria come prima e questo ha portato molti giovani ad arruolarsi nella milizia jihadista, più che per ideologia per disperazione” spiega all’agenzia Afp Zenaida Machado, ricercatrice di Human Rights Watch, indicando in almeno 4500 i miliziani nelle fila di Al-Shabaab. Secondo Dewa Mavhinga, direttore di Hrw per l’Africa meridionale “la situazione è difficile”, con decine di migliaia di sfollati portati 250 km più a sud nella città di Pemba, che si aggiungono agli oltre 900mila profughi già presenti nella regione e “con decine di persone tra cui residenti locali e stranieri (in prevalenza sudafricani e inglesi), uccisi dai miliziani”. Dei 180 ostaggi intrappolati all’interno dell’hotel Amarula, 80 avrebbero provato a scappare con un convoglio di almeno 17 mezzi, tra auto e pulmini, finiti in un’imboscata dei terroristi con almeno dieci vittime, mentre gli altri si sarebbero messi in salvo via mare, insieme ad altri 1000 civili, grazie a un traghetto utilizzato dalla Total per evacuare i suoi lavoratori, trasportati fino alla città di Pemba. Omar Saranga, portavoce del ministero della difesa del Mozambico, ha confermato in una dichiarazione che “le forze di sicurezza sono impegnate in una vasta operazione per la riconquista della città di Palma, ancora in mano agli al-Shabaab” e che l’attacco dimostra “il livello di preparazione logistica dei terroristi con la presenza anche di miliziani e comandanti mediorientali”. Quello che cambia, in confronto alle stragi del passato, è che per la prima volta sono stati colpiti civili stranieri, cosa che ha provocato numerose reazioni da parte della comunità internazionale. Dopo l’invio di addestratori americani della scorsa settimana, ieri il ministro degli esteri portoghese, Augusto Santos Silva, ha annunciato in un’intervista sul canale televisivo di stato Rtp che “il Portogallo invierà 60 addestratori e sosterrà l’esercito mozambicano nella preparazione delle forze speciali”. Anche il governo sudafricano, lo stato con il maggior numero di vittime nell’attacco a Palma, ha dichiarato che invierà militari per sostenere l’impegno del governo mozambicano per estirpare la presenza jihadista dalla provincia di Cabo Delgado e ha affermato “che favorirà una soluzione simile anche all’interno dei 15 paesi della Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe (Sadc)”, per sostenere il governo di Maputo.