Ergastolo. Quando la vendetta si maschera da giustizia di Sergio Segio vita.it, 19 aprile 2021 La pena perpetua è questione che divide opinione pubblica, partiti, Parlamento, “addetti ai lavori”. Lo riconfermano i commenti alla sentenza della Corte costituzionale sull’ergastolo cosiddetto ostativo, ma è storia di sempre. Il referendum abrogativo del 1981, promosso dal Partito Radicale, ottenne il 22,63% dei consensi. In 7.114.719 votarono contro la permanenza dell’ergastolo, allora non aggravato dalla “ostatività”. Molti di più (24.330.954) votarono a favore della sua permanenza, ma il numero significativo di abolizionisti mostrava un paese comunque più civile e avanzato dei suoi rappresentanti e delle forze politiche, in maggioranza schierate per la permanenza del “fine pena mai”, tentennati o silenti. A quel tempo gli ergastolani erano 318. In quegli anni Ottanta esistette un movimento dal nome programmatico: “Liberarsi dalla necessità del carcere”, sorto tra Parma e Trieste ma presto divenuto nazionale. Nacque per iniziativa non già di terribili sovversivi (che in quegli anni erano a migliaia perlopiù e giustappunto in carcere, sepolti da leggi di emergenza e secoli di galera) ma da amministratori locali e operatori come Mario Tommasini e Franco Rotelli, con una forte sensibilità sociale ed eredi delle utopie concrete di Franco Basaglia. Fu così che, dal basso, vale a dire dalla capacità di proporre riflessione, confronto, sensibilizzazione e iniziativa sia all’interno delle carceri sia nella società libera, ancora ricca di fermenti associativi e di culture critiche, si arrivò alla riforma penitenziaria, varata nel 1986 da un Parlamento ancora irrigidito dagli anni della lotta armata, delle carceri e delle leggi speciali, ma, evidentemente, pure aperto alla sollecitazione e al cambiamento, grazie anche alla presenza della Sinistra indipendente nella quale era stato eletto il senatore Mario Gozzini che diede il nome alla riforma. Beninteso: non fu una passeggiata, perché anche allora furono forti le pressioni conservative di una componente potente e organizzata della magistratura e delle procure antiterrorismo (definita, in altra occasione, la “Loggia dei 36” da Rossana Rossanda e dal quotidiano “il manifesto”), molto capace di farsi ascoltare dai legislatori e dai media, condizionando spesso i primi e godendo di una assidua presenza e amplificazione sui secondi. Il movimento del pendolo - Nella storia delle carceri riforme e controriforme mostrano l’andamento del pendolo: dopo ogni apertura, presto o tardi (in genere assai presto), inesorabilmente si fa strada una rinnovata, e spesso ancor più rigida, chiusura. Così successe anche allora, sull’onda emotiva delle stragi di mafia dei primi anni Novanta. Anche se va detto e ricordato - poiché indicativo della strumentalità di certe posizioni e argomenti - che l’introduzione dell’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, che esclude dall’applicabilità dei benefici penitenziari gli autori di taluni reati particolarmente gravi e da cui discende la cosiddetta ostatività, è del 1991, vale a dire prima delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, a seguito delle quali venne inasprito, ma essendo già esistente. Da lì prese piede e velocità la nuova emergenza e si produsse un nuovo e stringente apparato di norme che neppure la sentenza odierna della Consulta ha osato mettere in discussione nella sua intrinseca coerenza. E che, anzi, parrebbe voler confermare, laddove scrive: “Tuttavia, l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. In effetti, è l’intero edificio di quelle norme e della logica “combattente” a esse sottesa, è l’interdipendenza tra 4 bis, 416 bis, 41 bis, è la presunzione di pericolosità a prescindere, fondata unicamente sul titolo di reato commesso, è l’inversione dell’onere della prova quanto al perdurare di appartenenze criminali, è quel sistema basato sul sostanzialismo giuridico, sul sentimento dell’occhio per occhio e sulla convinzione che il fine giustifichi i mezzi, che andrebbero rivisti e in buona parte smantellati. La Costituzione violata da trent’anni - Da allora, sono passati esattamente trent’anni. Aspetto sul quale nessuno pare soffermarsi nelle valutazioni della sentenza costituzionale del 15 aprile 2021. Una sentenza che alcuni definiscono pilatesca altri coraggiosa, ma che certo non si può definire tempestiva. Ci sono voluti cioè trent’anni per acclarare e dichiarare, pur ancora timidamente e con proroga di un anno, che il nostro sistema delle pene è costituzionalmente illegittimo in una sua parte significativa, che riguarda un numero ristretto di persone ma che - altro elemento che pochi sembrano cogliere - trascina inevitabilmente verso l’alto tutte le pene e irrigidisce l’intero sistema. Un numero relativamente piccolo, ma vistosamente crescente. Alla pena perpetua erano condannate circa 400 persone il 30 aprile 1998, data in cui il Senato della Repubblica approvò l’abolizione della pena dell’ergastolo “semplice”, con 107 voti favorevoli, 51 contrari e 8 astenuti. Un coraggio politico e civile che oggi può sembrare incredibile, ma è un fatto che fa parte della storia rimossa di questo paese. Una delle figure più autorevoli che a quel tempo si oppose all’abrogazione, il ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, è in seguito divenuto abolizionista. Anche allora, nell’annoso e accidentato percorso di umanizzazione delle carceri e delle pene, ci fu una repentina inversione di marcia: meno di un anno dopo, il ministro di Giustizia Oliviero Diliberto defenestrò da capo dell’Amministrazione penitenziaria Alessandro Margara, già giudice e magistrato di sorveglianza, tra i padri della riforma, di una umanità e competenza senza pari. Era di nuovo cambiata la fase: Margara, inviso ai potenti sindacati corporativi della polizia penitenziaria, di cui aveva osato mettere in discussione i privilegi, venne estromesso dal Guardasigilli comunista per fare posto a uno dei magistrati protagonisti prima dell’emergenza antiterrorismo, poi di quella antimafia e oggi, dalla pensione ma sempre mediaticamente assai attivo, ancora vibrante e preventivo censore della Consulta e della Corte europea dei diritti umani riguardo la possibilità di incrinare la norma dell’ergastolo integrale e perpetuo. La riforma dolosamente archiviata - La lettera, pacata ma amara, che Margara scrisse al ministro defenestratore si concludeva così: “Per le mie idee, che sono quelle della legge penitenziaria, l’orizzonte mi sembra molto fosco”. Si vide presto quanto avesse ragione. Era cambiata non solo la fase, ma addirittura il secolo e la luce della riforma era stata dolosamente prima abbassata e poi spenta. Il pendolo era stato bloccato, una volta per tutte. Nella primavera del 2000 arrivò a sancirlo vistosamente il massacro nel carcere di Sassari, preceduto dall’arrivo di un nuovo comandante, che così, secondo la stampa dell’epoca si presentò: “Io sono il vostro Dio. In quindici giorni diventerete come degli agnellini. Il lager in confronto è un paradiso: qui comincia l’inferno”. Mantenne subito la parola, quanto meno riguardo l’inferno. Da allora, nelle carceri italiane sono stati pochi ed evanescenti i segnali controcorrente e la condizione dei reclusi non è migliorata. Per alcuni di loro, poi, l’inferno è rimasto condizione quotidiana, anche senza la violenza fisica. Quella delle norme può essere ancor più feroce, perché duratura e quasi sempre indiscussa; può essere esercitata apertamente anziché nel remoto delle segrete e consente prestigio e carriera (il che, per la verità, vale anche spesso per quella fisica, come Genova 2001 ci ricorda), è sostenuta da un consenso diffuso e trasversale e dal plauso di media e commentatori. A chi si trova, spesso appunto da trent’anni, in quella condizione, oltre alla libertà e alla dignità si vorrebbe togliere ogni speranza. E quando non la si toglie, come ieri la Consulta, la si diluisce e prolunga nell’ennesima attesa. Gli ostaggi della vendetta - Oggi, a fine 2020, gli ergastolani in carcere sono diventati 1.784, nel 2015 erano 1.633, dieci anni prima erano 1.224. Circa i due terzi sono “ostativi”, non possono cioè ottenere alcun beneficio se non “collaborano” con i magistrati, ovvero non denunciano altri, anche se non hanno più nessuno da denunciare. Si tratta di un numero in costante crescita, in forte controtendenza rispetto al calo della criminalità, mafiosa e non, e degli omicidi. Questi i dati, questo il quadro. Mistificati dalla propaganda e rifiutati dal sentimento di vendetta. Comprensibile se riguarda il singolo, barbaro e ingiustificabile se promana dalle istituzioni. Ora la Consulta ha gettato la palla nel campo della politica, del governo e del Parlamento. È difficile essere ottimisti su come verrà usato l’anno di tempo per tradurre la sentenza costituzionale. Mentre è doveroso pensare a come vivranno questo ulteriore anno di attesa i murati vivi nelle celle. Papa Francesco, con il coraggio della verità che in pochi mostrano di avere, ha definito l’ergastolo ostativo “pena di morte mascherata”. Nel 1981, mentre gli italiani in maggioranza bocciavano la proposta di abolire l’ergastolo non ancora incattivito dall’ostatività, la Francia abbandonava la pena di morte. Decisione certo tardiva ma indubbiamente presa contro la pubblica opinione. Il ministro della Giustizia Robert Badinter, che con determinazione impose quella scelta, affermò: “Sacrilegio contro la vita, la pena di morte è per giunta inutile. Mai, da nessuna parte, ha ridotto la criminalità cruenta. Reazione e non dissuasione, non è altro che l’espressione legalizzata dell’istinto di morte. Ci abbassa senza proteggerci. È vendetta, non giustizia”. L’identico ragionamento vale per la pena di morte mascherata che tanti vorrebbero conservare in Italia e che ha ora guadagnato un altro anno di tempo. Il tempo, quello che nelle celle di quei sepolti vivi si è imparato a non contare, perché scorrendo non avvicina la libertà ma solo la morte. Ergastolo ostativo, Meloni chiama a raccolta. Ma risponde il Pd: “Basta propaganda” di Davide Varì Il Riformista, 19 aprile 2021 Si apre lo scontro Pd-FdI. La senatrice dem Rossomando: “È più forte di loro, provare a cambiare le tutele costituzionali sembra un chiodo fisso della destra”. “Fratelli d’Italia rivolge un appello a tutte le forze politiche: difendiamo insieme la legittimità dell’ergastolo ostativo, una norma sacrosanta e fondamentale per combattere la criminalità organizzata. Siamo già al lavoro per presentare una proposta di legge, senza escludere la possibilità di una modifica costituzionale, per mantenere intatto uno dei pilastri della normativa antimafia, da sempre combattuto e osteggiato dai boss. Il Parlamento deve parlare con una voce sola e condurre unito questa battaglia di legalità e civiltà”. A lanciare l’appello è la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, dopo la decisione della Corte Costituzionale che ha dichiarato “illegittimo” l’ergastolo ostativo e ha dato dato tempo un anno al Parlamento per legiferare. “Non possiamo cedere e consegnare alla mafia la vittoria su quella che da sempre considera la madre di tutte le battaglie che consentirebbe ai peggiori boss di usufruire di diversi benefici penitenziari o di uscire di prigione. Sarebbe la resa totale dello Stato”, ha aggiunto Meloni. “Le forze politiche raccolgano l’appello di Giorgia Meloni affinché l’ergastolo ostativo non sia cancellato dal nostro Ordinamento”, scrivono in una nota il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato e componente della Commissione Antimafia, Luca Ciriani, il capogruppo di FdI in Commissione Antimafia, Antonio Iannone e il segretario della Commissione Antimafia, Wanda Ferro, deputato di FdI. “La recente decisione della Consulta impone al Parlamento di intervenire ma questo va fatto rispettando quei tantissimi servitori dello Stato che hanno sacrificato la loro vita nella lotta alla mafia. Infatti, l’ergastolo ostativo è un baluardo nell’azione di contrasto alla mafia, uno strumento decisivo nelle mani dei magistrati e adesso sarebbe assurdo e inaccettabile che questo fosse messo da parte. Senza considerare che rappresenterebbe un pessimo segnale, se non di resa ma senza dubbio di minore intensità, nell’azione di contrasto alla mafia. Una mafia, e i recenti arresti lo confermano, che continua ad essere una minaccia per la nostra Nazione. Per questo non si può rimanere a guardare, l’istituto dell’ergastolo ostativo va sostenuto e difeso nella sua legittimità”, concludono i deputati di FdI. “È più forte di loro, provare a cambiare le tutele costituzionali sembra un chiodo fisso della destra. Su ergastolo ostativo assicuriamo a Giorgia Meloni che il Parlamento sarà in grado di difendere la legalità ma coerentemente con i principi costituzionali”, replica su Twitter la senatrice Pd e vicepresidente del Senato, Anna Rossomando. “La proposta della Meloni è irricevibile. Per noi non devono essere contrapposti il rispetto dei principi costituzionali e la lotta alla mafia”, aggiunge il senatore Franco Mirabelli, vicepresidente dei senatori dem e capogruppo del Pd nella Commissione Antimafia. “La stessa Corte Costituzionale invita il Parlamento a pensare a una nuova norma, che escluda la possibilità per i mafiosi condannati di tornare ad avere rapporti con le organizzazioni criminali, senza violare i principi costituzionali sulle finalità delle pene. È possibile farlo e il Parlamento deve impegnarsi per questo”, scrive Mirabelli. “Meloni - conclude il senatore - preferisce fare propaganda e addirittura prefigurare pericolose modifiche costituzionali, ma non è così che troveremo le soluzioni per continuare a combattere le mafie”. “Quando la Corte Costituzionale accerta l’illegittimità del carcere ostativo e la ministra della Giustizia riconduce alla Costituzione i principi di giustizia e brevità della funzione giurisdizionale, i tempi sono maturi per fare un passo avanti verso una società orizzontale in cui lo Stato garantisce diritti, doveri e libertà di tutti”, scrivono invece Massimiliano Iervolino e Giulia Crivellini, segretario e tesoriera di Radicali Italiani. “A chi, spesso fregiandosi del tricolore, rivendica il fine pena mai e l’assoggettabilità a indagini e processi sempiterni, rispondiamo con i principi che da sempre fanno parte del nostro patrimonio costituzionale. È arrivato il momento di rompere gli indugi e rendere vivi quei principi. Lo Stato che uccide di carcere colpisce una persona diversa da quella che ha commesso un reato e quindi è anch’esso un omicida. Lo Stato che non si preoccupa di conformare l’amministrazione della giustizia al concetto di giustizia tratta i suoi cittadini da sudditi. Uno Stato così deve essere cambiato. Bisogna farlo oggi in un momento in cui gli equilibri sociali sono tanto instabili. È necessario edificare sui valori di una società più giusta in cui chi nessuno è perduto per sempre e la divisione tra buoni e cattivi è una semplificazione irresponsabile che prima o poi colpisce tutti. Siamo con Cartabia se avrà il coraggio di andare fino in fondo”, concludono i Radicali. Ritorna il dibattito sull’ergastolo ostativo. E i processi senza fine? di Riccardo Mazzoni Il Tempo, 19 aprile 2021 La Corte Costituzionale ha definito l’ergastolo ostativo “incompatibile” con i principi di uguaglianza e di funzione rieducativa dettati dagli articoli 3 e 27 della Costituzione, oltre che con il divieto di pene degradanti sancito dalla Convenzione europea dei diritti umani: un pronunciamento che boccia in modo inequivocabile la disciplina che preclude in modo assoluto, per chi è condannato all’ergastolo per delitti di mafia e non abbia collaborato con la giustizia, la facoltà di accedere al beneficio della liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro. Ora il Parlamento ha un anno di tempo per intervenire, e ieri la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha lanciato un appello a tutte le forze politiche per difendere la legittimità dell’ergastolo ostativo, “una norma sacrosanta e fondamentale per combattere la criminalità organizzata”, baluardo della normativa antimafia per impedire ai boss di usufruire dei benefici di legge e di riprendere a pieno titolo, con il via libera della legge, il comando delle cosche. FdI non ha dubbi: sarebbe una resa dello Stato. Una posizione subito definita aberrante dal Pd, e il dibattito in Parlamento si annuncia dunque infuocato, nonostante che la sorella del giudice Falcone sia già insorta chiedendo al legislatore di non pregiudicare l’efficacia di una normativa antimafia costata la vita a tanti uomini delle istituzioni. Una questione giuridica che ha già mobilitato fior di costituzionalisti pronti a disquisire sulla illegittimità della pretesa dello Stato di legare i benefici se non al pentimento, almeno alla collaborazione. Ma se il carcere “senza fine” - che è circoscritto a limitatissime fattispecie di reato - è incompatibile con il nostro Stato di diritto, a maggior ragione dovrebbe esserlo il processo “senza fine” a cui la legge Bonafede condanna chiunque sia accusato di reati infinitamente meno gravi dal punto di vista dell’allarme sociale. L’Italia, peraltro, è il Paese in cui mandare un indagato a giudizio è diventata ormai una prassi: quando il quadro accusatorio non è chiaro, non viene approfondito durante le indagini, ma direttamente in sede di processo. E dunque sarebbe urgente che la Consulta si esprimesse su una riforma - autorevolmente definita da Carlo Nordio “un mostro giuridico” - palesemente in contrasto con l’articolo 111 della Costituzione che sancisce il principio della durata ragionevole del processo. Pensare che allungando i tempi di prescrizione si riducano quelli delle indagini e dei dibattimenti è solo demagogia giacobina. E infatti vero il contrario, perché la lentezza dei processi non dipende dalle tattiche dilatorie delle difese, ma dall’obbligatorietà dell’azione penale diventata il paravento della più spregiudicata discrezionalità, con troppe inchieste aperte senza plausibili motivi. Ora lo Stato accolla sulle spalle degli imputati - presunti innocenti - le conseguenze dell’inefficienza del sistema giudiziario, considerandoli, appunto “imputati a vita”. A quando l’intervento della Corte? La riforma penale apre a tutela delle vittime e riparazione del danno di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2021 La ministra Cartabia vuole rendere la giustizia riparativa accessibile in ogni stato e grado di procedimento. La giustizia riparativa entrerà nella riforma del processo penale. L’obiettivo è accrescere la tutela delle vittime di reato attraverso percorsi che coinvolgano anche gli autori dei crimini e riescano a “ricucire” le lacerazioni dei legami sociali e a farsi carico delle conseguenze negative delle violazioni. Si tratta di un tema cui la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, tiene molto, e che ha espressamente indicato durante il discorso programmatico alle commissioni Giustizia di Camera e Senato. La giustizia riparativa farà quindi parte degli emendamenti al disegno di legge delega di riforma del processo penale cui sta lavorando la commissione nominata dalla ministra (all’interno della quale è stata creata una sottocommissione ad hoc) e che dovrebbero vedere la luce a fine aprile. Di che si tratta Nata nell’ambito minorile, la giustizia riparativa è prevista dalla normativa comunitaria e in particolar modo dalla direttiva 2012/29 sulla tutela delle vittime, cui ora la ministra intende dare piena attuazione. La direttiva la definisce come un procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente e liberamente alla risoluzione delle conseguenze determinate dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale. Un percorso finalizzato ad alleviare la sofferenza delle vittime, a recuperare gli autori dei reati e a evitandole recidive, di cui la mediazione penale costituisce lo strumento più conosciuto, ma non l’unico. Nel sistema penale italiano non c’è una norma a carattere generale che la disciplini, ma la giustizia riparativa non è comunque una novità assoluta. È infatti applicata nella giustizia minorile e, per gli adulti, può essere usata nella “messa alla prova”: un istituto introdotto nel 2014 che consente agli indagati e agli imputati per i reati meno gravi (puniti con pena pecuniaria o reclusione fino a quattro anni) che ne fanno richiesta di evitare il processo e arrivare alla cancellazione del reato, se accettano di seguire un “programma di trattamento”. È in questo programma che, oltre alle attività obbligatorie come lavoro di pubblica utilità, risarcimento del danno ed eliminazione delle conseguenze dannose del reato, può entrare, se possibile, la mediazione con la vittima. Ma quest’ultima chance - rilevano gli operatori - è stata finora molto poco utilizzata. Ora l’intento del ministero è quello di rendere i programmi di giustizia riparativa accessibili in ogni stato e grado del procedimento penale, sin dalla fase di cognizione, come ha affermato Cartabia in Parlamento. I contenuti della riforma sono in via di definizione e prendono le mosse dagli studi e dalle pubblicazioni dei componenti della commissione. Sul tavolo ci sono l’accessibilità alla giustizia riparativa senza limiti legati alla gravità del reato, sia prima del processo che nella fase di esecuzione della pena, con percorsi volontari, consensuali e gratuiti. Si pensa anche a rinforzare l’utilizzo di questi strumenti nell’ambito della messa alla prova. Perché l’accessibilità ai programmi sia reale andranno definiti gli standard formativi dei mediatori e un sistema di accreditamento dei centri di giustizia riparativa esistenti e di quelli futuri. Tra le ipotesi di lavoro anche il fatto di non legare all’esito del programma, effetti giuridici negativi per chi vi partecipa. Da indicare anche la procedura: a decidere sull’ammissione ai percorsi sarà probabilmente l’autorità giudiziaria, come avviene per la messa alla prova. L’utilizzo nel campo minorile e nei programmi di messa alla prova ha aperto la strada alla nascita di centri di giustizia riparativa e ad alcune sperimentazioni. Come il progetto Contatto, che dal 2017 allo scorso dicembre ha coinvolto il territorio di Como e i dintorni per lavorare alla costruzione della prima “comunità riparativa” d’Italia. Promosso da Comune, diverse associazione due Università, e finanziato dalla Fondazione Cariplo, il progetto ha operato sia in ambito sociale, per la prevenzione e la gestione dei conflitti nei contesti a rischio, che giuridico, grazie alla collaborazione del Tribunale di Como. “Abbiamo elaborato percorsi individuali per il recupero dell’autore del reato e la riparazione del danno”, spiega Maria Luisa Lo Gatto, che al Tribunale di Como è il magistrato di collegamento con il territorio e con le istituzioni: “Sono stati soprattutto utilizzati gli istituti della messa alla prova e del lavoro di pubblica utilità, declinati dal giudice in chiave riparativa, ad esempio prevedendo attività a favore della vittima o della comunità colpita dal reato”. A Milano, il Centro di giustizia riparativa fa capo al Comune e segue diversi progetti destinati sia ai minori che agli adulti come la mediazione fra detenuto e vittima o, nell’ambito della messa alla prova, il progetto writers che riguarda il reato di imbrattamento e ha coinvolto writer. “La mediazione penale è molto utile soprattutto quando le persone sono destinate a reincontrarsi, come nei luoghi di lavoro, nei contesti familiari e di vicinato”, spiega Federica Brunetti, socio fondatore della cooperativa Dike che gestisce l’attività di mediazione per il Centro di Milano. “Il processo accerta il reato ma non chiude il conflitto che rimane aperto e provoca nella vittima incertezza e sfiducia”. Carcerazione preventiva, l’Anm chiede la riforma contro i processi lumaca di Viviana Lanza Il Riformista, 19 aprile 2021 “L’ingiusta detenzione è sempre una vicenda lacerante per l’individuo il quale, almeno nei casi di ingiustizia cosiddetta sostanziale, subisce una restrizione della libertà personale pur essendo innocente. Ma il messaggio secondo cui ciò accade sempre perché i giudici compiono valutazioni errate, poco prudenti o poco approfondite rappresenta una inaccettabile semplificazione delle dinamiche processuali”. Così il presidente della giunta napoletana dell’Associazione nazionale magistrati, Marcello De Chiara, interviene sul complesso tema delle ingiuste detenzioni e degli errori giudiziari. Difende la categoria, ma ammette che c’è tra i suoi colleghi un ricorso talvolta eccessivo alla custodia cautelare e punta l’indice soprattutto sui tempi troppo lunghi dei processi. “L’assoluzione dell’imputato, anche se precedentemente sottoposto a custodia cautelare, è una vicenda del tutto fisiologica nel nostro sistema in quanto gli standard probatori della custodia cautelare e quelli della condanna sono diversi: per la prima bastano i gravi indizi di colpevolezza, quindi anche la sola denuncia della persona offesa che superi il vaglio di intrinseca attendibilità, mentre per una condanna sono necessarie prove da cui emerga la colpevolezza dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio - spiega De Chiara. Nel processo penale può accadere che il difensore sia abile a far emergere ulteriori e inediti aspetti che attribuiscono all’episodio denunciato un differente significato o che il testimone ritratti le proprie precedenti dichiarazioni”. Dunque, per il leader locale dell’Anm un peso sui numeri napoletani sempre molti alti di ingiuste detenzioni lo hanno, oltre che l’elevato numero di procedimenti legati al fatto che sul nostro territorio il fenomeno criminale è fortemente radicato, le dinamiche processuali che riflettono la natura del nostro sistema giustizia. “L’ingiusta detenzione - afferma - significa che l’imputato è stato assolto ed è quindi intervenuta una sentenza che ha riconosciuto la fondatezza delle ragioni difensive e confutato gli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari. La nostra legge processuale prevede che, sulla base di elementi unilateralmente raccolti dal pubblico ministero e fuori da ogni forma di contraddittorio, sia possibile procedere all’applicazione di misure restrittive, sempre che ciò sia necessario per salvaguardare le esigenze cautelari. Se avessimo un sistema nel quale i giudici si appiattiscono acriticamente sulle valutazioni operate dai pubblici ministeri - sostiene De Chiara - avremmo un numero di casi di ingiusta detenzione molto inferiore rispetto a quello registrato perché gli imputati già sottoposti a custodia cautelare immancabilmente verrebbero condannati. Sotto questo profilo è la prova che il sistema comunque funziona”. Eppure un innocente in carcere è sempre un dramma e cento innocenti in carcere ogni anno forse vogliono dire che si ricorre un po’ troppo spesso alle manette. “Certamente l’ingiusta detenzione ripropone la questione del ricorso eccessivo alla custodia cautelare, che però rappresenta una conseguenza indubbiamente deprecabile di un sistema complessivamente incapace di pervenire ad accertamenti aventi il crisma della certezza entro tempi ragionevoli - precisa De Chiara. Per cui il tema principale, a mio avviso, resta sempre quello della ragionevole durata del processo penale”. Urge quindi una riforma? “Sì. Le cause di tale situazioni sono complesse e imporrebbero una complessiva riforma del sistema penale, invocata da magistrati e avvocati ma fino ad oggi solo annunciata dalla politica”. “Negli venti ultimi anni si sono registrati numerosi interventi che però hanno modificato singoli istituti processuali al di fuori di qualsiasi visione progettuale, adottati per assecondare logiche di mero consenso elettorale mentre viceversa sarebbe necessario un intervento organico che consenta di ottenere risultati efficaci, ovviamente nel rispetto delle garanzie”. L’obiettivo è ridurre i tempi del processo: “Se si lavora per ridurre i tempi dei processi penali - conclude il presidente dell’Anm napoletana - conseguentemente si ridurranno anche i casi in cui è necessario adottare misure restrittive in attesa della sentenza di merito”. Obbligatorietà dell’azione penale e separazione delle carriere: ora rileggiamo Falcone di Bartolomeo Romano* Il Dubbio, 19 aprile 2021 Forse il caso Palamara inizia a determinare riflessioni concrete, anche se non produce ancora decisioni conseguenti. Qualche giorno fa, su Il Fatto Quotidiano, Henry John Woodcock, pubblico ministero assai noto e talvolta discusso, ha posto due temi seri sul tappeto: la questione dell’obbligatorietà dell’azione penale e quella della separazione delle carriere, nell’ottica della crisi di credibilità della magistratura alla luce di quello che lui stesso ha definito il “terremoto Palamara”. Si tratta di una presa di posizione quasi “scandalosa”, anche per la sede nella quale ha formulato le sue osservazioni, finalmente aperta a posizioni eterodosse. Tuttavia, per chi, come me, ritiene che è importante ciò che si dice o si scrive, piuttosto che la persona che sostiene certe opinioni o il luogo dove le esprime, conta soprattutto la sostanza. Rileva, cioè, un approfondimento libero da pregiudizi ed aperto a visioni prospettiche non asfittiche o miopi. Ora, occorre ammettere che il modello di processo penale esistente è solo in parte in linea con il complesso delle attuali norme costituzionali. Infatti, non ci si può certo limitare ad una analisi della Costituzione così come delineata nel 1948, la quale aveva come stella polare il processo inquisitorio; occorre, infatti, sviluppare i successivi dettati costituzionali, sulla scia del riformato articolo 111, ad opera della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, che, con la formazione della prova in dibattimento, nel pieno contraddittorio delle parti, ha effettuato una scelta univoca, nel senso del modello accusatorio, del resto ormai decisamente prevalente nelle democrazie più mature ed evolute. Tale modello richiede la presenza di un giudice realmente terzo, di un pubblico ministero che svolga pienamente il compito dell’accusa e di un difensore in grado di controbilanciare, con la propria attività, quella del pubblico ministero. Non vi è dubbio, poi, che è necessario ragionare anche sul principio dell’obbligatorietà dell’azione penale (di cui all’art. 112 Cost.). Del resto, scriveva già Giovanni Falcone (allora, come oggi): tutto è “riservato alle decisioni assolutamente irresponsabili dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti… mi sento di condividere l’analisi secondo cui, in mancanza di controlli istituzionali sull’attività del pubblico ministero, saranno sempre più gravi i pericoli che influenze informali e collegamenti occulti con centri occulti di potere possano influenzare l’esercizio di tale attività. Mi sembra giunto, quindi, il momento di razionalizzare e di coordinare l’attività del pubblico ministero finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell’obbligatorietà dell’azione penale e della mancanza di efficaci controlli sulla sua attività” (Fondazione Giovanni e Francesca Falcone, Giovanni Falcone, interventi e proposte 1982/ 1992, Firenze, Sansoni, 1994, pp. 173 e 174). Pertanto, non è affatto pleonastico stabilire chi debba scegliere le notitiae criminis: se debba esserci una indicazione “politica” (parlamentare?); o se debba essere il vertice dell’ufficio a fissare i criteri (si pensi alle opinabili circolari di alcuni procuratori della Repubblica); oppure se debba agire, come oggi prevalentemente avviene, in assoluta autonomia ogni singolo pubblico ministero con una totale discrezionalità che rischia di tramutarsi in arbitrio. E sono a tutti note recenti vicende-limite nelle quali si ha il sospetto che il pubblico ministero abbia esercitato il proprio delicato potere scegliendo più “le persone da colpire piuttosto che i casi su cui indagare” (R. H. Jackson, The Federal Prosecutor, “Journal of the American Judicature Society”, 1940). Ma, forse ancora di più, occorre interrogarsi sui rapporti tra giudici e pubblici ministeri, e tra questi e i difensori, nella cornice del processo accusatorio. Ancora Giovanni Falcone (alcuni decenni fa): “Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’anacronistico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza ed autonomia della magistratura” (Giovanni Falcone, interventi e proposte, cit., p. 179). Ed invece, quasi solo in Italia, ed in Francia - ove, però, il pubblico ministero è sottoposto gerarchicamente al Ministro della Giustizia, soluzione che io credo si debba evitare - pubblici ministeri e giudici sono reclutati con lo stesso concorso e possono passare da una funzione all’altra. Invece, nei Paesi nei quali si è affermato il sistema processuale accusatorio il pubblico ministero non appartiene allo stesso corpo dei giudici. A compiti e funzioni separate corrispondono, linearmente e coerentemente, carriere e ruoli distinti. Si tratta, mi rendo conto, di questioni delicatissime e complesse. Ma non c’è più tempo per lasciare tutto immutato, come da decenni: occorre fare riforme di sistema, prima che “il sistema” faccia sprofondare, ancora di più, la nostra giustizia penale e, in definitiva, la nostra stessa democrazia. *Ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo Ex componente Consiglio Superiore della Magistratura Stalking, basta una doppia molestia o l’invio di alcuni sms minacciosi di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2021 Due episodi di molestie, anche concentrati in un arco di tempo breve. O uno scambio di sms minacciosi, per quanto non seguito da un incontro fisico. Si tratta di fatti che, se spaventano la vittima o la costringono a cambiare abitudini, possono integrare il reato di stalking. È quanto emerge dall’analisi delle recenti pronunce dei giudici. Il reato di stalking, previsto dall’articolo 612-bis del Codice penale, punisce (con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi) chi, con condotte reiterate, minacci o molesti una persona in modo da causare un continuo e grave stato di ansia o paura o un fondato timore per l’incolumità propria o dei suoi cari, tanto da farle cambiare routine. Pena più alta se si bersaglia il coniuge, anche separato o divorziato, una persona con cui si è osi è stati legati sentimentalmente, minori, donne incinte, disabili o se si usino mezzi informatici, telematici, oppure armi o travisamenti. A segnare i confini del reato di stalking è la giurisprudenza. Il punto chiave è la prova di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma. Quando ricorre il reato Scattalo stalking per chi consapevolmente minacci di morte la donna con cui aveva interrotto i rapporti inviandole sms quotidiani e lasciandole scritte murali offensive vicino al Sert frequentato (Corte d’appello di Ancona 642/2020). Anche l’ingiuria, una delle forme più frequenti di molestia, può sfociare nello stalking se posta in essere in pubblico o alla presenza di più persone essendo in quelle circostanze idonea a incidere “dolorosamente e fastidiosamente” sulla condizione psichica della vittima (Cassazione 1172/2021). Per la singola offesa come fatto isolato - non inserito in un più ampio contesto di voluta aggressione alla sfera psichica e morale della vittima - si incorre in sanzioni civili. Ma per inchiodare lo stalker può essere sufficiente provare di aver subìto due episodi di minacce, molestie o lesioni idonei a indurre il mutamento di consuetudini. E ciò anche per atti che si siano svolti in un breve lasso di tempo e persino nell’arco della stessa mattinata e nello stesso luogo (Cassazione 6207/2021): non è essenziale che le persecuzioni si snodino in una prolungata sequenza temporale. Lo stalking può essere integrato anche dall’invio di alcuni messaggi minacciosi e da un’unica telefonata proveniente dall’utenza dell’imputato e rimasta senza risposta, nonostante non sia mai avvenuto un incontro fisico con la vittima, se quest’ultima dimostra di essere stata costretta a cambiare abitudini (Cassazione 61/2019). Quando non c’è stalking Si configura invece il reato di minaccia (articolo 660 del Codice penale), meno grave di quello di stalking, se si infastidisce qualcuno male dichiarazioni dell’offeso e i fatti non ne dimostrino il turbamento psicologico (Cassazione, 23375/2020). Assolto dall’accusa di atti persecutori, perché il fatto non sussiste, anche l’ex coniuge incriminato per aver instillato nella moglie un serio stato di preoccupazione, se il medico di base abbia espressamente e categoricamente escluso la condizione ansiosa denunciata dalla signora (Corte d’appello di Trento, 11/2021). Lo stalking, invece, è solo tentato se alla condotta tesa a produrre uno degli eventi tipici (continua ansia o paura, fondato timore per l’incolumità propria o dei cari, cambio d’abitudini) non segua l’effettivo verificarsi di almeno uno di essi (Cassazione, 1943/2021). La tutela Strumento dissuasivo utile a frenare l’escalation delle molestie è l’ammonimento del Questore. Trattandosi di provvedimento che non sancisce la colpevolezza del potenziale stalker (decisione rimessa al giudice), per ottenerlo non serve munirsi di prove rigorose ma basta raccogliere indizi da cui desumere, con un adeguato grado di attendibilità, un comportamento reiterato anomalo, minaccioso o molesto, tale da suscitare ansia e paura (Tar Puglia,1381/2020). Reggio Calabria. La Garante dei detenuti fa il punto sull’importanza della giustizia riparativa ilmetropolitano.it, 19 aprile 2021 In Comune si è tenuta la riunione della Commissione Pace, diritti umani, immigrazione e diritti internazionali. Udita nuovamente la Garante dei detenuti. L’avvocato Russo ha introdotto il suo intervento ringraziando tutta la commissione, la Presidente Lucia Nucera, l’Assessore Mariangela Cama presente in quell’occasione, ed i consiglieri di maggioranza e minoranza che con grande sensibilità complessiva stanno interagendo per la realizzazione di politiche sociali all’altezza delle esigenze della cittadinanza. Ha poi rinsaldato il concetto di quanto oggi più che mai sia necessario ed inderogabile avviare percorsi di formazione professionalizzante. Ce lo dice l’Europa, ce lo chiede l’impianto normativo, ma soprattutto è un’esigenza di chi vuole riscattare la propria vita da un reato commesso. Servono percorsi di reinserimento sociale e lavorativo contemperati alle reali esigenze dei detenuti. Nulla deve essere lasciato al caso. Ulteriore aspetto di non minore rilevanza è stato il tema della giustizia riparativa che ha una radice antichissima. Cita Zagrebelsky: “diciamo che il crimine determina una frattura nelle relazioni sociali. In una società che prenda le distanze dall’idea del capro espiatorio, non dovrebbe il diritto mirare a riparare quella frattura? Da tempo si discute di giustizia riparativa, restaurativa, riconciliativa. Studi sono in corso, promossi anche da raccomandazioni internazionali”. La giustizia penale riparativa - come la intendiamo oggi - è strettamente legata a quest’ultima modalità, ovvero all’esigenza di sanare l’offesa attraverso azioni “utili” alla vittima, sia essa una persona fisica, una collettività più o meno estesa di persone o la comunità in senso lato. Si tratta, dice la Garante, di una prospettiva nuova che potrebbe modificare le coordinate con le quali concepiamo il crimine e il criminale: da fatto solitario a fatto sociale; da individuo rigettato dalla società a individuo che ne fa pur sempre parte, pur rappresentandone il lato d’un rapporto patologico. Qualcosa si muove, nella giustizia minorile, nei reati punibili a querela. Ma molto c’è da fare. Ed è da questo pensiero che l’attenzione della Garante si indirizza verso quel brillante progetto denominato Mandela’s Office, siglato con apposito protocollo nel 2018. Proprio ieri comunica l’Avv. Russo, dall’ Ufficio che oggi rappresento è stata inviata una pec a tutte le Istituzioni coinvolte perché il Mandela’s non può e non deve subire più nessuna battuta d’arresto. Non si guardi al passato, si pensi all’oggi, alle responsabilità di ciascuno di noi ed è questa la linea definita con il Sindaco Falcomatà. In questo contesto, oggi esasperato ancor di più dalla situazione pandemica e da una povertà sociale allarmante, i fenomeni di criminalità e la commissione di reati soprattutto tra i giovani, ci impongono di intervenire e rendere funzionale il Mandela’s Office. Ne ha parlato con il suo predecessore la Garante la quale afferma: “con il Garante regionale dei detenuti, l’avv. Siviglia, c’è assoluta sinergia istituzionale e grande rispetto professionale. Stiamo affrontando assieme molte annose vicende che riguardano il sistema penitenziario e le battaglie se condivise hanno un valore diverso, soprattutto quando si ottengono risultati per la tutela dei detenuti troppo spesso ritenuti soggetti invisibili”. Con questo pensiero ci batteremo tutti per riprendere lì dove si è incagliata la nave. Non guardando la pagliuzza del passato nell’occhio altrui, ma lavorando ad un coerente qui ed ora. Abbiamo tutti la responsabilità del presente e della costruzione di un mondo migliore per le generazioni future. Da questo modo di pensarsi, dalle responsabilità individuali in capo a ciascuno di noi, la Garante auspica in tempi brevi una ripresa delle attività. Torino. Il Salone del libro fa incontrare autori e detenuti, dal Ferrante Aporti a Rebibbia di Manuela Marascio torinoggi.it, 19 aprile 2021 Al via in otto regioni la nuova edizione di “Adotta uno scrittore”, coinvolte 19 scuole. È iniziata in classe e online la XIX edizione di Adotta uno scrittore, iniziativa di promozione della lettura del Salone del Libro sostenuta dall’Associazione delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte, in collaborazione con la Fondazione con il Sud. Coinvolti quest’anno 37 autori, che saranno adottati da 19 scuole (8 secondarie di secondo grado, 6 secondarie di primo grado, 5 primarie), due università e 13 scuole carcerarie di otto regioni italiane. Oltre a Piemonte, Campania, Sicilia, Basilicata, Puglia, Calabria, Sardegna, il progetto approda per la prima volta nel Lazio, alla Casa Circondariale Raffaele Cinotti di Rebibbia Nuovo Complesso a Roma, nel quadro di un’iniziativa che coinvolge gli studenti dei percorsi scolastici interni dell’IIS J. Von Neumann, detenuti universitari o bibliotecari, e detenuti comuni. Aumenta infatti il numero delle scuole carcerarie coinvolte, anche a Torino, Biella, Saluzzo (CN), Alessandria, Novara, Asti, Roma, Pozzuoli (NA), Locri (RC), Gela (CL), Turi (BA), Potenza, Salerno. Già nel 2020 Adotta uno Scrittore ha aperto i suoi contenuti a docenti e studenti non coinvolti nel progetto grazie alla piattaforma digitale SalTo per la Scuola. Anche per questa nuova edizione, online troveranno spazio alcune video-lezioni realizzate dagli autori adottati, nel ciclo Adotta una parola: ciascun autore sceglierà una parola, un modo per mostrare voci diverse, sguardi sul mondo e approcci degli scrittori di questa edizione. Ma anche per fornire a tutte le scuole materiali da affiancare alla didattica tradizionale. Donatella Di Pietrantonio, finalista al Premio Strega 2021 con Borgo Sud (Einaudi), sarà a Rebibbia, in un incontro a più voci con studenti ristretti, studenti delle superiori, bibliotecari e altri detenuti; alla Casa di Reclusione di Asti arriverà Fabio Cantelli, a partire dal libro Sanpa, madre amorosa e crudele (Giunti), nel quale racconta la comunità fondata da Vincenzo Muccioli, soggetto dell’omonima serie di Netflix; Diego De Silva sarà alla Casa Circondariale di Salerno, per incontrare insieme studenti ristretti e delle superiori di Salerno; così come Cathy La Torre, che all’Istituto Penitenziario Cantiello e Gaeta Casa di Reclusione San Michele di Alessandria - Reparto Collaboratori di Giustizia - incontrerà insieme gli studenti reclusi e gli studenti dell’Istituto Istruzione Superiore Saluzzo Plana di Alessandria. All’Istituto Penale Minorile Ferrante Aporti di Torino i ragazzi incontreranno i filosofi Andrea Colamedici e Maura Gancitano, mentre all’Istituto Penale Minorile Emanuele Gianturco di Potenza sarà adottato lo scrittore e attivista Abdullahi Ahmed. All’Università del Piemonte Orientale arriverà poi Emanuele Trevi con Due vite (Neri Pozza), il suo ultimo libro che gli è valso la candidatura al Premio Strega 2021. Anche Antonella Lattanzi, sarà alla Casa Reclusione di Turi (Bari) con Questo giorno che incombe (HarperCollins Italia); mentre Alice Urciuolo, scrittrice e sceneggiatrice, porterà il suo Adorazione (66thand2nd), altro candidato al Premio Strega 2021, all’Istituto Superiore Norberto Bobbio di Carignano. E ancora, sempre tra i candidati allo Strega, Giulia Caminito, all’Istituto Comprensivo di Diano d’Alba (CN). Grazie alle possibilità offerte dal digitale, saranno diversi anche gli autori stranieri che si collegheranno dall’estero con gli studenti italiani, tra questi: Björn Larsson, Bernard Friot, Olivier de Solminihac. Alghero. “Ora d’Arte” in carcere con il Teatro Tragodia rumorscena.com, 19 aprile 2021 Si apre il sipario su Ora d’Arte/eventi culturali per il carcere, il nuovo progetto del Teatro Tragodia di Mogoro e del Teatro d’Inverno di Alghero, con la partecipazione dell’Orchestra da Camera della Sardegna e in collaborazione con Il Miglio Verde OdV. Una rassegna “virtuale” che supera le barriere fisiche e simboliche, per portare il teatro e la musica oltre le sbarre: in cartellone sulla piattaforma Teams due commedie, Just Forever (semplicemente per sempre) di Virginia Garau (sua anche la regia) e Fashion Victims di Giovanni Follesa, e un concerto, con un programma ecclettico che spazia fra Settecento e Novecento. La cultura viaggia in rete tra la Sardegna e la Penisola - tra la Casa di Reclusione Giuseppe Tomasiello di Alghero e la Casa Circondariale San Lazzaro di Piacenza, la Casa Circondariale Ettore Scalas di Uta (Cagliari), la Casa Circondariale di Monza, la Casa di Reclusione di Asti e la Casa Circondariale Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere. Inaugurata lo scorso marzo, l’Ora d’Arte prosegue - a partire da mercoledì 21 aprile - con 13 appuntamenti fino all’8 giugno con un trittico fra prosa e musica in ciascun Istituto di Pena: “L’idea di proseguire l’attività in carcere in questi tempi di pandemia, quando l’isolamento è diventato ancora più duro a causa delle restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria ha suscitato interesse e adesioni oltre le nostre aspettative” spiega Giuseppe Onnis del Teatro Tragodia. “Il teatro rappresenta uno spazio di libertà, la possibilità di far viaggiare la mente e immedesimarsi nei personaggi, vivere altre vite: l’Ora d’Arte è per noi l’occasione di poter ritornare in scena sia pure “a distanza”, ma speriamo di poter offrire anche al pubblico un momento di svago, una temporanea “fuga” dalla routine tra spunti di riflessione e divertimento” sottolinea Giuseppe Ligios del Teatro d’Inverno. Per la psicologa Rosella Floris de Il Miglio Verde OdV, che da diversi anni opera all’interno delle carceri: “La cultura e l’arte sono necessarie come l’aria: questo progetto rompe la monotonia della vita carceraria e porta un messaggio di speranza, uno spiraglio di luce”. Just Forever del Teatro Tragodia, originale commedia musicale in scena (d)a La Fabbrica delle Gazzose di Mogoro disegna un sapido affresco del Belpaese dagli Anni Quaranta ad oggi le chiacchere e i litigi di un “gineceo impazzito” di madri, nonne, zie e amiche della sposa impegnate nei preparativi per un matrimonio: nel cast Nigeria Floris, Daniela Melis, Caterina Peddis e Carmen Porcu, con Siparietti Finali a cura di Marco Nateri e musiche originali di Paolo Congia. Fashion Victims, trasposizione teatrale dell’omonimo “pamphlet” di Giovanni Follesa e Fabrizio Demaria, con la regia di Sonia Borsato, in diretta dal Teatro Civico di Alghero, racconta il tempo del lockdown attraverso i monologhi di quattro personaggi, interpretati da Giuseppe Ligios, dal “dandy” Foffo a Samantah, parrucchiera dei vips, da Monica, un’impiegata ligia alle regole a Gabriele, che ha scelto l’isolamento per sfuggire al contagio. Infine - in diretta dal Teatro di Sanluri - il concerto dell’Orchestra da Camera della Sardegna diretta da Simone Pittau, sulle note della Serenata per Archi in mi minore op.20 di Edward Elgar e del Divertimento per Archi in Re maggiore KV136 di Wolfgang Amadeus Mozart, accanto alla Sinfonia per Archi n.10 di Felix Mendelssohn-Bartholdy e alla celebre Simple Symphony di Benjamin Britten. Pandemia. Sospendere i brevetti non solo è possibile ma è l’unico modo per fermare il virus di Vittorio Agnoletto* Il Dubbio, 19 aprile 2021 Non è soltanto questione di giustizia ma di salute. Big Pharma ha usufruito di molto denaro pubblico per la ricerca. La diffusione del virus Covid-19 ha prodotto, ad oggi, oltre 138 milioni di casi d’infezione nel mondo e 2,9 milioni di decessi. Se in alcune zone del Pianeta non saranno disponibili i vaccini, forte sarà il rischio che si sviluppino delle varianti del virus maggiormente aggressive che non avrebbero difficoltà ad arrivare anche in Europa dove potrebbero risultare resistenti ai vaccini. La disponibilità universale del vaccino, non è quindi “solo” un elemento di giustizia, ma è un elemento di tutela per la salute di ciascuno di noi. I percorsi vaccinali sono in crisi a causa della scarsità dei rifornimenti disponibili. Per vaccinare almeno il 70% dei cittadini di tutto il mondo occorrono circa 11 miliardi e mezzo di dosi, la maggior parte dei vaccini, infatti, richiede anche una seconda somministrazione. La piattaforma dell’Oms, Covax, finora è riuscita a distribuire ai Paesi più poveri solo 38 milioni di dosi e l’obiettivo, già ampiamente insufficiente, di fornirne almeno 2 miliardi entro il 2021 appare ormai irraggiungibile. Questa situazione è dovuta all’esclusività nel possesso del brevetto per vent’anni, garantito alle multinazionali farmaceutiche dagli accordi Trips sulla proprietà intellettuale, approvati dal Wto l’Organizzazione mondiale del commercio, che permettono ai detentori del brevetto di decidere come, quanto, dove produrre, con chi stabilire accordi commerciali e quale prezzo imporre. Tutto questo nonostante le aziende farmaceutiche abbiano beneficiato di ingenti investimenti pubblici da parte dei nostri governi. Sudafrica e India, con l’appoggio di un centinaio di Paesi, hanno proposto al Wto la sospensione dei brevetti per tutta la durata della pandemia, la socializzazione delle conoscenze e un risarcimento alle aziende detentrici del brevetto, ma Usa, Uk, Ue, Australia, Singapore, Svizzera, Giappone e il Brasile di Bolsonaro si sono opposti. Il 15 aprile più di cento capi o ex capi di stato e primi ministri, tra i quali Romano Prodi e premi Nobel hanno rivolto un appello al presidente, Joe Biden, affinché gli Usa appoggino la proposta di India e Sudafrica; un appello importante ma che alcuni sottoscrittori dovrebbero rivolgere prima di tutto al proprio Paese. L’altro percorso possibile è il ricorso alle “licenze obbligatorie”, previste dagli accordi Trips (Art 31 comma b) che consentono agli Stati, in una situazione d’emergenza sanitaria, di difficoltà economica e in mancanza di un accordo con le aziende farmaceutiche sui prezzi e la quantità di vaccini disponibili, di produrre direttamente i vaccini salva-vita scavalcando i brevetti. Il tutto riconoscendo comunque un giusto compenso ai detentori del brevetto. Nel paragrafo 4 della Dichiarazione di Doha, adottata dalla Conferenza ministeriale dell’Omc il 14 novembre 2001, i governi hanno dichiarato: “Siamo d’accordo che l’accordo Trips non impedisce e non deve impedire ai membri (i vari Paesi, ndr) di adottare misure per proteggere la salute pubblica. ….. l’Accordo (Trips, ndr) può e deve essere interpretato e attuato in modo da supportare il diritto dei membri dell’Omc di proteggere la salute pubblica e, in particolare, di promuovere l’accesso ai farmaci per tutti”. Ogni nazione ha recepito questo principio nel suo ordinamento seppure in modo differente: ad es. in Francia il ricorso alla licenza obbligatoria potrebbe essere automatico, in Italia sarebbe necessario un voto parlamentare per rimuovere le restrizioni inserite a suo tempo dal nostro legislatore, ma si tratterebbe di un passaggio veloce, in sintonia con la legislazione internazionale. È solo questione di volontà politica. La necessità di una licenza obbligatoria è particolarmente evidente quando non vi sia alcun trattamento alternativo in commercio. I Paesi più poveri, che non dispongono della tecnologia necessaria per produrre i vaccini, possono fare ricorso all’”Importazione parallela”, l’altra clausola di salvaguardia degli accordi Trips, nella quale è previsto che una nazione, che si trovi nella situazione sopra descritta, abbia la possibilità di acquistare a costo di produzione il vaccino da un Paese che abbia fatto ricorso alla licenza obbligatoria e che, solo in simile caso, avrà la possibilità di venderlo al di fuori dei propri confini. Tutti gli ordinamenti moderni prevedono che il diritto di Vita prevalga sulla Proprietà. Il giurista Luigi Ferraioli ricorda che la nostra Costituzione (art. 42, comma terzo) prevede che la proprietà privata (e quindi anche la proprietà intellettuale) possa essere espropriata in caso d’interesse nazionale e pubblica necessità. Liberate dai brevetti, ogni azienda pubblica e privata, dotata di capacità tecnologica sufficiente, potrebbe da subito produrre i vaccini; gli Stati potrebbero finanziare una riconversione produttiva di altre aziende e anche l’Oms, come dichiarato, potrebbe coordinare uno sforzo globale in questa direzione chiedendo ai vari Paesi di utilizzare a questo scopo i soldi risparmiati sui prezzi dei vaccini. Questi sono gli obiettivi della petizione europea “Diritto alla cura. Nessun profitto sulla pandemia”. https://noprofitonpandemic.eu/it; se riusciremo a raccogliere un milione di firme la Commissione europea, secondo i regolamenti dell’Ue, sarà obbligata a sottoporre le nostre proposte al Parlamento e al Consiglio Europeo. È necessario un solo minuto per firmare e per cercare di sottrarre il destino di 7,8 miliardi di persone agli interessi di un pugno di consigli di amministrazione. *Medico e docente di “Globalizzazione e politiche della salute” all’Università degli Studi di Milano Pandemia. I brevetti sono il motore della ricerca a vantaggio di tutti di Aristide Police* Il Dubbio, 19 aprile 2021 Sospenderne l’esclusiva determinerebbe una sorta di esproprio in danno di chi ne ha la titolarità. Nel recente messaggio pasquale Urbi et Orbi, Papa Francesco è tornato di nuovo a segnalare come “in questo tempo in cui tutti siamo chiamati a combattere la pandemia (…) i vaccini costituiscono uno strumento essenziale per questa lotta” ed ha esortato, nello spirito di un internazionalismo dei vaccini, “l’intera Comunità internazionale a un impegno condiviso per superare i ritardi nella loro distribuzione e favorirne la condivisione, specialmente con i Paesi più poveri”. Questo auspicio e questa esortazione sono molto significativi perché se da un lato ricordano agli egoismi nazionali come la pandemia possa essere efficacemente superata soltanto se la copertura vaccinale sia estesa all’intera popolazione mondiale (e con il ritmo più sostenuto possibile), dall’altro lato non indulgono a proposte semplicistiche, né alimentano scorciatoie pauperistiche, di impossibile realizzazione e con controproducenti effetti. Il riferimento è, in particolare, a quelle proposte avanzate dal Premio Nobel per la pace Mohammad Yunus e da altri autorevoli paladini dei diritti umani volte a caducare i diritti di esclusiva connessi alla titolarità dei brevetti dei vaccini anti Covid. La proposta è stata condivisa da alcuni importanti Paesi in via di sviluppo che l’hanno avanzata a marzo scorso in occasione di una riunione del Consiglio sui Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights (Trips) dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc/Wto). Come ricostruiscono l’emittente britannica Bbc e altre fonti della stampa internazionale, l’iniziativa non ha trovato accoglienza. La maggioranza dei Paesi presenti, infatti, sono convinti che i diritti connessi alla titolarità dei brevetti costituiscano importanti incentivi all’innovazione e le regole in merito sarebbero state rese già sufficientemente flessibili durante la pandemia. Ed è proprio questo aspetto che non può essere trascurato nella ricerca di una soluzione al problema: nel medio periodo, misure straordinarie sui brevetti determinerebbero un grave disincentivo per le imprese farmaceutiche nell’investire in ricerca, laboratori e personale. La ideologica demonizzazione del giusto profitto delle imprese farmaceutiche e la magica soluzione di sospendere i diritti di esclusiva connessi ai brevetti sono frutto di una valutazione quantomeno superficiale della complessità dei problemi. Il tema vero è che la generazione del profitto è la ragione stessa del fatto che, per nostra fortuna, in tempi estremamente brevi diverse imprese o consorzi di imprese abbiano approntato e reso disponibili rimedi vaccinali. Se non ci fosse stata prospettiva legittima di un profitto, non ci sarebbe stata impresa privata disponibile ad investire nella ricerca e, se non ci fosse stata una massiccia iniziativa privata ad investire nella ricerca e nella sperimentazione, oggi neppure avremmo dei vaccini (e dei brevetti). I brevetti, in una prospettiva tecnica e non ideologizzata, costituiscono il motore che alimenta l’iniziativa (e l’investimento) privati a vantaggio della collettività. È infatti la prospettiva del profitto garantito dall’uso esclusivo di invenzioni e prodotti dell’ingegno (nella specie farmaceutici) ad alimentare la innovazione tecnica e scientifica. È un dato di fatto che oggi la innovazione venga largamente stimolata e finanziata dal sistema delle imprese private e sia indirizzata alla sua applicazione industriale. Se venissero meno i diritti di esclusiva connessi ai brevetti, l’iniziativa e gli investimenti privati smetterebbero di alimentare la ricerca scientifica e le sue applicazioni industriali. Ciò senza dire dei problemi giuridici: sospendere l’esclusiva propria dei brevetti determinerebbe - quantomeno temporaneamente- un vero e proprio esproprio in danno di chi legittimamente ne vanta la titolarità. Si porrebbe quindi, alla stregua delle garanzie costituzionali dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri (così come di quelle di molte altre Nazioni), un tema di compensazione dei costi sostenuto dalle imprese che hanno sviluppato i vaccini e di indennizzo per le perdite prodotte in termini di minori profitti. In sostanza, sia l’ordinamento giuridico italiano, sia l’ordinamento giuridico europeo non consentirebbero in nessun caso che l’esercizio di poteri ablatori (di esproprio) sui brevetti non si accompagni ad un serio indennizzo. Peraltro, il costo dei vaccini (ed in questo costo della componente di profitto connessa ai diritti di uso esclusivo dei brevetti) è solo uno e non certo il maggiore degli ostacoli che si pongono per assicurare una copertura vaccinale estesa anche nei Paesi meno sviluppati. Come dimostrano le gravi difficoltà delle campagne vaccinali dei Paesi più sviluppati, i problemi più significativi riguardano l’approvvigionamento dei vaccini e non il loro costo. A prescindere dai diritti (e dai profitti) derivanti dall’utilizzazione dei brevetti, infatti, è oramai ben evidente che bisogna aumentare il numero degli stabilimenti produttivi e la produttività di quelli già esistenti. Se quindi il problema principale è connesso alla produzione dei vaccini ed alla loro distribuzione, la domanda di giustizia sociale che viene dai Paesi meno sviluppati può trovare una risposta efficace soltanto attraverso gli strumenti della cooperazione internazionale e avvalendosi delle Istituzioni sovranazionali che di tale cooperazione sono gli alfieri, a cominciare dalle Nazioni Unite e dalla Organizzazione Mondiale della Sanità. Si rende necessario, infatti, il concorso di tutti gli Stati che a tali Istituzioni aderiscono per supportare lo straordinario sforzo finanziario, industriale ed organizzativo necessario per assicurare la diffusione del vaccino anche ai Paesi meno sviluppati. Questo sforzo comune e condiviso, peraltro, produrrebbe anche l’utile effetto di porre fine a quella distonica “diplomazia dei vaccini” che alcuni Paesi (si pensi alla Federazione Russa o alla Cina) hanno già avviato in ragione dei loro più complessivi interessi geopolitici. *Ordinario di diritto amministrativo Luiss “Guido Carli” Migranti. Lamorgese a Tripoli per negoziare un accordo di Alessandra Ziniti La Repubblica, 19 aprile 2021 La ministra vuole garanzie sui diritti umani, i libici chiedono più mezzi. Dodici giorni dopo la visita di Mario Draghi a Tripoli tocca a Luciana Lamorgese cominciare a scendere sul piano operativo di una partnership rinnovata che l’Italia giudica strategica per gli equilibri nel Mediterraneo. Avere un ruolo concreto nella stabilizzazione di un governo che possa essere un interlocutore affidabile anche nella gestione dei flussi migratori dalla Libia (più che raddoppiati rispetto al 2020) la cui ripresa preoccupa il Viminale: è la missione della ministra dell’Interno che oggi vola a Tripoli per incontrare il suo omologo Khaled Mazen. La carne al fuoco è tanta. Lamorgese sa di dover portare a casa il più presto possibile le condizioni alle quali l’Italia aveva accettato l’anno scorso di rinnovare il contestatissimo memorandum Italia-Libia: la garanzia del rispetto dei diritti umani dei migranti, il libero accesso delle organizzazioni umanitarie nei centri di detenzione e la ripresa dei corridoi umanitari per i rifugiati, così come promesso pochi giorni fa all’alto commissario dell’Unhcr Filippo Grandi. Oltre, naturalmente, al controllo delle frontiere per cercare di fermare i flussi nel Mediterraneo. Ma il governo libico anche questa volta è pronto a battere cassa: sull’altro piatto della bilancia chiede ancora sostegno economico, addestramento delle forze militari, mezzi. Non solo motovedette, ma anche mezzi terrestri per controllare la frontiera sud del Paese, quella attraverso la quale decine di migliaia di migranti continuano ad entrare nel Paese. È questo che interessa di più al governo libico: il programma europeo Sibmil (Support to Integrated border and migration management in Libya) che prevede formazione e fornitura di strutture sul campo. È un campo minato quello in cui è chiamata a muoversi Luciana Lamorgese. Con la Turchia che ormai da mesi allarga la sua influenza sul controllo dei flussi migratori addestrando il personale della guardia costiera libica e i segnali contraddittori che continuano ad arrivare da Tripoli: dalla recentissima liberazione e contestuale promozione, con tanto di festeggiamenti in strada, di Abdel-Rahman Milad, noto come “Bija”, ufficiale della Guardia costiera libica accusato di traffico di esseri umani, ai nuovi avvertimenti ad alcuni pescherecci italiani impegnati in una battuta in acque internazionali, a 35 miglia dalla costa, che la Libia ritiene invece unilateralmente di sua competenza. Lamorgese e Mazen si conoscono da tempo. Il nuovo ministro dell’Intemo libico era già a capo della Polizia e viceministro nel governo di Al Serraj. La prima presa di contatto dovrebbe servire dunque a mettere sul tavolo le rispettive richieste. Per l’Italia anche il controllo delle milizie che fino ad ora hanno giocato un ruolo di assoluto protagonista nel traffico dei migranti. “La disarticolazione dei sodalizi criminali che portano alla perdita di vite umane è il nostro primo obiettivo, con un approccio condiviso con i paesi terzi che vanno sostenuti nel controllo delle frontiere oltre che con uno sforzo straordinario dell’Europa per gli accordi di partenariato”, ha detto Luciana Lamorgese in Senato. In cima all’agenda del Viminale c’è la rinegoziazione del memorandum che l’Italia aveva accettato di prorogare solo con delle modifiche sostanziali, dal rispetto dei diritti umani al progressivo alleggerimento dei centri di detenzione. L’Italia aveva già presentato una bozza di modifiche e attendeva le controdeduzioni del governo di Al Serraj, poi la crisi libica ha fatto arenare la trattativa. Oggi sarà il momento della verifica delle reali intenzioni del nuovo esecutivo di Tripoli. Il ringraziamento di Draghi alla Libia per quelli che il premier ha definito i “salvataggi” in mare ha suscitato sconcerto anche nei rappresentanti delle agenzie dell’Onu che ribadiscono come riportare indietro i migranti in Libia, porto non sicuro, sia illegittimo: 50.000 nei quattro anni dall’approvazione del memorandum, 11.000 solo nel 2020, la maggior parte dei quali (dopo essere transitati nei centri di detenzione ufficiali) sono rimessi nelle mani delle milizie. Migranti. Un corridoio sanitario per Amir Labbaf, dall’Iran alla Bosnia dramma senza fine di Luigi Manconi La Stampa, 19 aprile 2021 La “pazienza di Giobbe” è un’espressione che non si ritrova quasi più nel discorso pubblico, e sembra scomparsa anche dalla conversazione domestica: dileguatasi forse perché intimidita dalle tonalità a dir poco spazientite, quando non rabbiose, che accompagnano, ormai abitualmente, sia la discussione politica sia le relazioni interpersonali. Eppure, la figura di Giobbe, così come la sua vicenda e la sua lezione, appaiono tuttora dotate di una rara potenza e di una tenace attualità. Salvatore Mannuzzu, grande scrittore morale, deceduto un anno e mezzo fa, vi rintracciava l’idea di un essere umano che “protesta il suo dolore” e questa “è la sua vera forza”; e concludeva: “Giobbe è il suo dolore” (così in Giobbe, il dolore e il desiderio, edito da Della Torre nel 2007). Anche per Amir Labbaf, del quale qui si racconterà la storia, si può dire che la sua identità è la sua stessa sventura. Accade, talvolta, di formulare un simile ingiusto pensiero di fronte a storie di sconfinata sofferenza, che oggi maggiormente ci turbano: e non perché più frequenti, bensì in quanto più agevolmente e immediatamente conoscibili. Per capirci, l’incendio nel campo profughi di Lipa, nei pressi della città bosniaca di Bihac, ci viene ammannito all’ora di cena, dopo l’aperitivo nel terrazzo condominiale (“Sai, c’è il coprifuoco”) e prima della partita dell’Europa League. “Designare un inferno non significa, ovviamente, dirci come liberare la gente da quell’inferno, come moderarne le fiamme”: così Susan Sontag in un magnifico saggio, Davanti al dolore degli altri (appena ripubblicato da Nottetempo). Non c’è da fare, su questo, alcun moralismo: l’assuefazione alla mediatizzazione della sofferenza riguarda tutti, e porvi rimedio è fatica improba. È necessario, piuttosto, sapere e dirsi che la promiscuità con l’orrore come con qualcosa di ordinario e familiare è tale da mitridatizzarci. Poi, ci sono le storie di vita, i corpi in carne e ossa che corrispondono a nomi e cognomi, le avventure umane che richiamano biografie e geografie, date di nascita, mappe di naufragi, di centri di detenzione, caserme, ospedali e carceri: e tutto ciò introduce in quel processo di immunizzazione possibili fattori di rottura. Andiamo a Trieste, per esempio, in un ambulatorio improvvisato (ma attivo da molto tempo), nei pressi della stazione ferroviaria. Qui, nell’anno di grazia 2021, vengono disinfettate e ricucite le ferite ai piedi, sanate le infezioni, e curate le piaghe sulle piante di chi si trascina fin là. Questo avviene grazie all’attività di una coppia, Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi e ai medici e agli infermieri di StradaSiCura. E i piedi sono di coloro che - appunto, senza scarpe o con calzature disastrate o di fortuna - hanno percorso centinaia di chilometri per arrivare in Italia. In altre parole, migliaia di arti inferiori che hanno raggiunto faticosamente il nostro Paese, tormentati da un percorso che taglia i boschi e affonda nella neve, per cercare infine un qualche sollievo nella cura di quei volontari e poi, spesso, riprendere il cammino. Può accadere, così, di avvertire la tentazione di formulare una malinconica classifica delle pene e dei patimenti, una gerarchia delle vittime, pensando a qualcuno come l’ultimo tra gli ultimi. È una sensazione, evidentemente, errata e perfino futile. Ma è difficile non provarla quando si ascoltano, in particolare, le storie di profughi che, proprio perché tali, portano lo strazio del proprio corpo e del proprio animo lungo le vie del mondo. Come è il caso di Amir Labbaf, nato il 23 settembre 1979, a Qom, in Iran. Nel suo Paese Amir si batteva per i diritti della minoranza religiosa Gonabadi Dervish. Per questo motivo, in quattordici anni, è stato perseguitato, imprigionato e torturato otto volte. Nel 2018 riesce a fuggire, costretto a lasciare in Iran i suoi quattro figli. Il primo Paese a negargli l’asilo politico è la Turchia, dove Amir rimarrà fino a quando non potrà raggiungere l’isola di Lesbo, con altri compagni, su un gommone. In Grecia resta nove mesi, recluso nel campo di Moira. Una volta fuggito da qui, raggiunge Atene dove sopravvive lavorando per tre mesi nei frutteti. Con i soldi risparmiati attraversa numerosi Paesi nel tentativo di presentare la richiesta di asilo politico. Dall’Albania al Montenegro, dalla Croazia alla Bosnia, dove si trova tuttora. In Croazia è stato lui stesso a consegnarsi alle forze di polizia, ma queste, anziché verificare la validità della richiesta di asilo, lo hanno espulso in Bosnia. Da qui ha provato un altro “game” - così è chiamato il tentativo di attraversare i confini - per arrivare in Slovenia. È in questa occasione che, costeggiando i boschi, per evitare una macchina, ha finito con il precipitare in un avvallamento riportando una grave lesione alla spina dorsale, che lo ha semiparalizzato. Impossibilitato a muoversi, è stato salvato da alcuni profughi pakistani che, accortisi dell’accaduto, hanno chiamato la polizia. La conseguenza è stata che i pakistani sono stati arrestati e Amir è stato ricoverato in un ospedale croato. Il giorno dopo, il 29 giugno 2019, la polizia lo ha prelevato e lo ha abbandonato nella foresta di Velika Kladusa, ai confini della Bosnia, dopo averlo picchiato, privato di acqua e cibo e del farmaco per le crisi asmatiche. Amir resta nella foresta, praticamente nudo e solo dopo ventiquattr’ore, strisciando sul terreno, riuscirà a raggiungere la strada più vicina. Qui un camionista lo soccorrerà e lo accompagnerà fino al campo di Bihac. Da qui a un altro centro, quello di Ostrozac, in mezzo alle montagne bosniache. Ora si trova a Sarajevo su una sedia a rotelle. Lo scorso 28 febbraio ha iniziato lo sciopero della fame (concluso 1’8 aprile); quattro giorni dopo, quello dei farmaci. I123 marzo ha presentato la richiesta di visto presso l’Ambasciata italiana di Sarajevo. Difficile prevedere se quella domanda verrà accolta e quando. Ciò che serve - viene da dire, come il pane e le scarpe - è un vero e proprio corridoio sanitario. Un percorso umanitario protetto per le persone particolarmente vulnerabili. Un salvacondotto speciale, ottenuto presso le sedi diplomatiche di quella regione. L’Ambasciata italiana a Sarajevo e il suo titolare, Nicola Minasi, mostrano grande disponibilità e intelligenza. Ma manca la volontà politica da parte dell’Italia e ancor più dell’Europa. Tanto più che, non dimentichiamolo, quanto qui raccontato si svolge, in gran parte, all’interno di una regione dell’Unione Europea, alla quale appartengono Slovenia e Croazia. Finora non si è mossa foglia e i tre europarlamentari italiani che più si sono impegnati su questo fronte, Alessandra Moretti, Pierfrancesco Majorino e Pietro Bartolo - insieme con Croce Rossa, Ipsia e Caritas - devono misurarsi con le lentezze e le resistenze di macchine politico-burocratiche torpide e sorde. Sarebbe dunque necessaria e urgente una decisione politica da parte dei nostri ministeri dell’Interno e degli Esteri. Affinché le tragedie di Amir Labbaff e di tanti come lui non siano ridotte a immagini del consumo quotidiano della pornografia del dolore. “Non soffrire a causa di queste immagini, non indietreggiare inorriditi dinanzi a esse, non sforzarsi di abolire ciò che provoca una simile devastazione, una simile carneficina - queste sarebbero le reazioni di un mostro, dice Virginia Woolf”, citata da Sontag in quel saggio. La conclusione di quest’ultima è condivisibile: se ci limitassimo a questo sentimento, non saremmo riusciti “a fare nostra questa realtà”. Francia. Droghe e carceri, la svolta “law and order” di Macron di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 19 aprile 2021 “Un grande dibattito nazionale sul consumo di droga e i suoi effetti deleteri” è uno degli annunci fatti dal presidente francese Emmanuel Macron nel corso di una lunga intervista sul tema della sicurezza rilasciata al Figaro in edicola oggi, e intitolata “Mi batto per il diritto a una vita tranquilla”. A un anno dall’elezione presidenziale della primavera 2022, Macron sceglie un dossier cavalcato tradizionalmente dalla destra, come fece a suo tempo Nicolas Sarkozy che è diventato uno dei suoi consiglieri ufficiosi. Il capo dello Stato promette 15 mila posti in carcere in più (sono all’incirca 7000 da anni), ribadisce l’obiettivo di io mila poliziotti e gendarmi supplementari entro la fine del suo mandato, annuncia la creazione di una “specie di scuola di guerra” per poliziotti, e il rinnovo di metà del parco auto delle forze dell’ordine, in modo che abbiamo gli strumenti per combattere “l’aumento delle violenze quotidiane” al quale contribuiscono secondo lui i social media e “la cultura dell’anonimato”. Macron usa toni molto duri contro il consumo degli stupefacenti e l’ipotesi di una depenalizzazione delle droghe leggere, di fatto molto diffuse. “Al contrario di coloro che auspicano una depenalizzazione generalizzata, io penso che gli stupefacenti abbiano bisogno di una frenata e non di pubblicità. Dire che l’hascisc è innocente è più di una menzogna. La Francia è diventata un Paese di consumo e bisogna rompere questo tabù. Ci si fa una canna in salotto, e si finisce con l’alimentare la più importante delle fonti di insicurezza”. Il presidente poi interviene nelle polemiche seguite al mancato processo contro l’assassinio antisemita della signora Sarah Halimi. L’omicida, in preda a una crisi psicotica per il consumo di stupefacenti, è stato dichiarato incapace di intendere e di volere. “Decidere di prendere stupefacenti e diventare quindi “come pazzi” non dovrebbe sopprimere la responsabilità penale. Chiederò al ministro della Giustizia di cambiare la legge al più presto”. Stati Uniti. Roosevelt, Trump e le radici del razzismo anti asiatico di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 19 aprile 2021 In pochi mesi più di 3.000 gesti violenti verso gli orientali. La difficile ricerca di solidarietà da Black lives matter. È l’ingrato compito che Biden ha dato a Kamala Harris. Quando, un anno fa, Donald Trump lanciò invettive contro la Cina che aveva generato, sottovalutato e mascherato la pandemia, gli chiesero di smetterla: rischiava di alimentare un’onda di odio contro gli americani di origine asiatica. Consapevole di piacere a milioni di fan proprio per la sua tracotanza, il presidente non solo non abbassò i toni ma si divertì a coniare epiteti memorabili, da Chinese virus a Kung flu, sparati a raffica in ogni comizio. Facile, quindi, attribuire alla sua retorica incendiaria l’onda di violenze che da allora si è abbattuta sugli Asian Americans. Facile e in gran parte fondato. Ma c’è anche altro. Nell’ultimo mezzo secolo chi arrivava negli Stati Uniti da Cina, Vietnam, Corea, India e dal resto dell’Asia, pensava di essere al riparo da dispute razziali grazie al mito della minoranza modello: gruppi sociali fatti di gente operosa, con molti professionisti e pochi clandestini, che non creavano problemi e, anzi, contribuivano alla crescita del Paese. Questo stereotipo ha fatto dimenticare conflitti come quelli degli anni Novanta tra minoranze etniche svantaggiate, soprattutto i neri, e la nuova immigrazione asiatica a caccia di posti di lavoro anche di bassa qualità e mal pagati. E ha fatto cadere nell’oblio anche la lunga storia di pregiudizi dell’America: dal Chinese Exclusion Act del 1882che vietò agli immigrati dalla Cina di diventare cittadini Usa alla decisione di rinchiudere in campi d’internamento tutti i nippo-americani, presa dal presidente Roosevelt nel 1942, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor. In anni più recenti, poi, il mito della model minority è diventato un’arma a doppio taglio quando i figli dell’immigrazione asiatica, spesso molto studiosi e portati per la matematica, hanno cominciato a conquistare, sulla base di test meritocratici, gran parte delle ambitissime ammissioni a scuole e università scientifiche d’eccellenza. Le élite bianche, ferite dall’esclusione dei loro figli, hanno reagito chiedendo limiti all’afflusso di studenti asiatici. Ma tutto questo non spiega di certo le violenze degli ultimi mesi: Stop AAPI Hate, l’associazione che le combatte, ha censito, dal marzo al dicembre 2020, circa tremila attacchi d’odio contro gli asiatici d’America: assalti verbali, soprusi ma anche aggressioni per uccidere o ferire. Con anziani attaccati senza motivo mentre camminavano: un 84enne ucciso nelle strade di San Francisco, una donna cinese di 89 anni schiaffeggiata da due ragazzi che poi le hanno dato fuoco a Brooklyn (lasciandola con ustioni per fortuna non mortali) o la filippina 65enne presa a calci e gravemente ferita in piena Manhattan pochi giorni fa da un uomo di colore davanti a passanti e portieri dei palazzi che non sono intervenuti. L’episodio è stato subito usato a destra per contestare la tesi dell’attacco agli asiatici come effetto-Trump, un altro frutto avvelenato del suprematismo bianco. Mentre la strage dei centri di massaggio di Atlanta viene attribuita solo alle ossessioni sessuali del ragazzo bianco che ne è stato protagonista. Sul suo blog Andrew Sullivan, che ama andare controcorrente, ha sostenuto (dati 2019 del ministero della Giustizia) che le violenze contro asiatici sono state commesse per il 24% da bianchi, per il 24% da altri asiatici, per il 7% da ispanici e per il 27,5% da afroamericani. Mentre Voice of America ha scritto che l’anno scorso solo due delle venti persone arrestate a New York per crimini d’odio contro asiatici erano bianche: 11 i neri e 7 gli ispanici. Le questioni razziali, insomma, sono complesse, sfuggono a facili generalizzazioni. Riaffiorano storie come la rivolta del 1991 a Los Angeles quando l’attivista nero Rodney King fu picchiato selvaggiamente dalla polizia: città in fiamme con la metà dei negozi incendiati di proprietà di coreani. Lo sfogo di un vecchio rancore: gli immigrati dalla Corea, scolarizzati ma non accettati in America come professionisti e spinti verso i quartieri poveri, erano diventati commercianti anche nei ghetti neri. E l’anno prima un negoziante aveva sparato a un ragazzino che rubava da uno scaffale, uccidendolo. Una delle tante ferite dolorose di una società multietnica nella quale anche tra i neri, che si sentono nativi americani, crescono bolle di ostilità nei confronti degli immigrati. Per gli intellettuali progressisti questi episodi confermano che in America vige un sistema invisibile di caste nel quale l’élite bianca mantiene la supremazia alimentando conflitti tra le etnie sottostanti. La solidarietà dovrebbe essere la medicina per queste patologie sociali ma quando gli asiatici, vedendo sottovalutate le violenze contro di loro, hanno chiesto un’attenzione come quella che c’è per i neri e, magari, il sostegno di Black Lives Matter, si sono sentiti rispondere che le due questioni vanno tenute separate: gli Asian Americans non possono pretendere di beneficiare della storia secolare di lotte degli afroamericani ed è razzista equiparare le violenze di strada di oggi a secoli di schiavismo e segregazione. Joe Biden ha dato a Kamala Harris l’ingrato compio di gestire la crisi degli immigrati al confine col Messico. Ma, in quanto nera e asiatica, la vicepresidente sarà forse chiamata a svolgere un ruolo ancor più difficile per ricomporre le fratture del mosaico etnico americano. Le donne vere protagoniste di tutto il Vicino Oriente di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 19 aprile 2021 Le eroiche combattenti curde. Le storie di Elif Shafak e Deniz Özdo?an. Il coraggio di Lucia Goracci e Gaja Pellegrini Bettoli. L’esempio della regina Rania e la lezione di Rula Jebreal. Non sono mai stato un femminista accanito, ma ho sempre lottato per riconoscere il merito, senza alcuna distinzione. le paurose disuguaglianze di genere sono una volgare ingiustizia. “ecco perché, finalmente, esulto nel vedere che nel mio vicino oriente, che amo da sempre, le donne sono salite in cattedra dappertutto: esempi fulgenti di coraggio, carattere, serietà. Il primo pensiero va con forte convinzione alle prodi combattenti curde che, armi in pugno, lottano anche per la nostra libertà. le amo infinitamente, perché ci proteggono da dittatori e protettori di genocidi, a cominciare da quello armeno. donne davvero importanti che fanno del coraggio la loro arma e la loro bandiera. Se penso all’amata Turchia, vittima del machismo del dittatore Recep Tayyip Erdogan (quanto le sono grato, presidente del consiglio #mariodraghi, per quello che ha detto!), non posso non mandare un abbraccio alla mia cara amica #elifshafak, donna intrepida e scrittrice coraggiosa, costretta all’esilio a Londra per sfuggire alle grinfie del sultano turco, che disprezza le donne e i diritti umani. Non conto neppure i messaggi che ricevo ogni giorno da donne che lottano per la loro indipendenza in Turchia, nel paese gestito da quello che è diventato un odioso tiranno che mette in galera tutti coloro che si oppongono al suo folle potere. Un’altra cara amica turca, l’artista, regista e scrittrice Deniz Özdo?an, che fu violentata quando non aveva ancora compiuto 12 anni, oggi vive e lavora nei teatri di Genova, la città che più le fa pensare alla sua Istanbul. Deniz racconta le sue sofferenze che sembrano quelle di una moltitudine di sue connazionali che lottano per i diritti delle donne. Per restare al vicino oriente non posso che dichiarare la mia stima e la mia ammirazione per la mia amica Rania, regina di Giordania. Una donna per la quale farei follie per la sua generosità, la sua bontà, il suo cuore aperto ai bisogni dei più deboli. E come non esaltare una collega di grandissimo valore, Gaja Pellegrini Bettoli, che ha trascorso cinque anni da free lance tra Gaza, Tel Aviv, Gerusalemme, e nella mia amata Beirut. Non nel passato, ma nei nostri giorni. Voglio ricordare, amando il vicino oriente come il fulcro della mia anima, tutte le altre donne che stanno lavorando per renderlo migliore in Libia, Tunisia, Israele, Siria, Egitto, Iran, Iraq, e persino nell’Arabia saudita, con il coraggio di opporsi all’erede al trono, il criminale che tanto piace ai superficialoni della nostra politica, come l’assassino crudele di giornalisti e oppositori Mohammed bin Salman. È venuto il momento di parlar chiaro. Le denunce a mezza bocca, o con il silenziatore, non raggiungono più nessuno. Voglio fare un elogio caloroso a Lucia Goracci, che interpreta con estremo coraggio e rigore il ruolo di corrispondente Rai da Istanbul. E voglio mandare un forte abbraccio alla nostra collega Alessandra Galloni, diamante della nostra Italia, che è la prima donna in 170 anni a diventare direttrice della Reuters, l’agenzia che mi ha accompagnato, soprattutto nel Medio Oriente, per tutta la mia vita professionale. La Reuters è la bibbia nella quale ho sempre creduto. Vorrei chiudere queste riflessioni con la donna mediorientale alla quale spesso dedico i miei pensieri e i miei sentimenti. È una giornalista che amo profondamente perché, per me, innamorato del “fratelli tutti” di papa Francesco, rappresenta il massimo assoluto: Rula Jebreal. Rula è mia cara amica da una vita, vive negli Stati Uniti, ha un cuore d’oro e una sensibilità fantastica. Vedete, per me Rula rappresenta il massimo. È araba israeliana, quindi musulmana, ha sposato un ebreo, e ha voluto che sua figlia ricevesse il battesimo cattolico. Rula, come capirete, per me rappresenta tutto. In un mondo che cerca certezze, questa donna, che ha commosso tutti gli italiani al festival di Sanremo, e che sta raccontando anche adesso le sue gravi sofferenze famigliari, quelle che davvero lasciano il segno nella vita di ciascuno. Ho citato e raccontato gli esempi che più mi hanno aiutato a diventare quello che sono. Grido evviva ad un mondo dove trionfano donne straordinarie come la vicepresidente degli stati uniti Kamala Harris, che ci permettono di guardare con più serenità e speranza al futuro. Russia. Navalny, si muovono Usa e Ue: “Mosca responsabile per la sua vita” di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 19 aprile 2021 I russi assicurano che “non è in pericolo”. I seguaci dell’oppositore preparano manifestazioni in diverse città del Paese e si uniscono all’appello della figlia a Putin. Mentre Europa e Stati Uniti ricordano al governo russo che è sua responsabilità mantenere in vita il detenuto Navalny, l’incarico di smentire che la vita del principale oppositore di Putin sia veramente in pericolo viene affidato all’ambasciatore in Gran Bretagna. Andrej Kelin, un diplomatico di carriera, ha rilasciato una intervista alla Bbc per sostenere che Navalny, nella colonia penale dove deve scontare due anni e mezzo, “si comporta come un hooligan; oggi gli fa male una gamba, domani un braccio. Tenta di violare tutte le regole per farsi pubblicità”. Secondo l’ambasciatore a Londra, il detenuto è stato visitato in ospedale e certamente “non morirà in prigione”, nonostante quello che dicono i suoi medici. Poi ci sono due video messi in rete in questi giorni da media certamente non ostili al Cremlino, l’Izvestia e Ren tv. Mostrano un detenuto nella grande camerata dove si trova normalmente Navalny che potrebbe essere l’oppositore e che viene ripreso mentre dorme tranquillamente dall’agente di sorveglianza che lo riprende con una telecamera a raggi infrarossi. Questo per negare che venga svegliato ripetutamente durante la notte dal giro d’ispezione. Nel secondo filmato, un uomo che potrebbe essere il blogger (ma non lo si vede in faccia) viene mostrato in una camera di quello che sarebbe il centro medico mentre esegue senza problemi flessioni a terra. Insomma, il detenuto starebbe benissimo e i dolori alla spina dorsale e alla gamba sarebbero invenzioni. Da giorni però Navalny dice di aver iniziato lo sciopero della fame. I familiari dicono che ha perso 15 chili. I suoi medici sostengono che ora è in condizioni critiche, citando un documento che hanno avuto dagli stessi familiari del dissidente. Su un foglio con l’intestazione della colonia penale di Pokrov si legge che il potassio è a 7,1 (normalmente tra 3,6 e 5,5), la creatinina a 152 (tra 80 e 114 il valore normale) e l’acido urico a 809 (fino a 420 il valore standard). Sembrerebbe una insufficienza renale, secondo i sanitari i quali aggiungono che Navalny potrebbe morire da un momento all’altro se non sottoposto a cure adeguate. Secondo alcune voci, avrebbe rifiutato l’intervento dei sanitari offerti dal centro detentivo i quali potrebbero anche decidere di ricorrere all’alimentazione forzata. Il detenuto però continua a chiedere con forza di essere esaminato da medici di sua fiducia. E questo sarebbe parzialmente consentito dalla legge (la 323 del 2011, articolo 26) che prevede il consulto di specialisti del servizio medico nazionale nel caso in cui non sia disponibile un clinico qualificato nel penitenziario oppure che la situazione renda l’intervento urgente. È chiaro che a questo punto solo la visita di medici e osservatori “neutrali” potrebbe chiarire la situazione. Nel frattempo tanto gli Stati Uniti che l’Europa hanno fortemente richiamato il Cremlino alle sue responsabilità: dalle autorità russe dipende “quello che accadrà al signor Navalny”. E il consigliere della sicurezza nazionale Usa Sullivan ha aggiunto: “Abbiamo comunicato che se Navalny dovesse morire, ci sarebbero delle conseguenze”. I ministri degli Esteri europei discuteranno oggi la questione. Intanto i seguaci dell’oppositore hanno proclamato grandi manifestazioni in varie città per mercoledì prossimo, giorno in cui Putin terrà l’abituale discorso alla nazione. Una settantina di esponenti del mondo della cultura, da premi Nobel a registi e attori, si sono uniti con un loro appello alla figlia di Navalny che si è rivolta a Putin. Bahrein. Nella prigione di Jaw dilaga la pandemia di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2021 Il 9 aprile Mohammed Hassan Jawad, noto anche come Mohammed Jawaz Parveed, uno dei più importanti difensori dei diritti umani del Bahrein, è uscito dalla prigione di Jaw, dove stava scontando una condanna a 15 anni di carcere per aver preso parte alle manifestazioni pacifiche della rivolta del febbraio 2011. Nell’imponente complesso penitenziario dello stato-isola del Golfo restano altri 11 esponenti della società civile insieme a centinaia di altri detenuti ammassati fino a 10 in celle di tre metri per quattro metri e mezzo. Un anno fa, per evitare il contagio da Covid-19, le autorità avevano ordinato la scarcerazione di 1500 detenuti. Non è bastato evidentemente: il 23 marzo, a Jaw il coronavirus ci è entrato di gran carriera. I parenti dei detenuti hanno riferito ad Amnesty International che i casi sono ormai una settantina. Non c’è un monitoraggio costante, non vengono forniti dispositivi di protezione come mascherine o disinfettanti (chi ha soldi può andare a comprarli allo spaccio interno, noto come “la cantina”), le comunicazioni con l’esterno vengono limitate. Dal governo, una nota del 28 marzo secondo la quale i prigionieri risultati positivi erano stati isolati e l’annuncio fatto l’8 aprile che 73 detenuti sarebbero stati scarcerati e affidati a misure alternative. *Portavoce di Amnesty International Italia