Le parole dell’ergastolo ostativo: speranza, attesa, illusione, delusione, disperazione di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 18 aprile 2021 Scrive Salvatore, ergastolano ostativo: “E alla mia età di 67 anni, di cui 33 di carcere, non ho più la forza e neanche la voglia di farmi ulteriormente logorare da attese senza fine. Per cui non chiedo niente così non dovrò aspettare niente”. Ecco, Salvatore non sarà deluso dall’ultimo pronunciamento della Corte Costituzionale, che definisce l’ergastolo ostativo “incompatibile con la Costituzione”, ma dà alla politica un anno di tempo per cambiare la legge relativa alla ostatività, perché Salvatore ha rinunciato a sperare. Ma per tutti gli altri ergastolani ostativi, e le loro famiglie consumate dall’attesa, pensate davvero che un altro anno ad aspettare che qualcosa cambi sia cosa di poco conto? Nella mia lunga storia di volontariato in carcere mi hanno insegnato che “per il colpevole la vittima è ‘cosificata’, resa un oggetto. Fino a quando non riuscirà a vedere nella sua vittima una persona, a capire il suo dolore, non riuscirà a sentirsi responsabile del suo crimine (parole di Adolfo Ceretti, criminologo)”. Ho l’impressione che in qualche modo il meccanismo sia lo stesso anche da parte di tanti rappresentanti delle Istituzioni nei confronti dei “mafiosi”: ridurli a mostri per poter giustificare qualsiasi procedura, anche in violazione della Costituzione, che permetta di punirli in modo sicuro, esemplare, feroce. Perché per loro la storia è sempre la stessa, “tanto i mafiosi non cambiano mai”. Io non voglio commentare questo ulteriore, lungo anno di attesa che si prospetta per chi in carcere già vive da decenni con poca speranza e tanta disperazione, voglio solo restituire a qualcuno di loro, e dei loro cari, la possibilità di ricordarci com’è la vita da ergastolani ostativi. Eva, figlia di un ergastolano ostativo: “La detenzione di mio papà dura da ben 26 anni, io ne ho 28, e da tutto questo tempo io lo attendo. Da quando ne ho ricordo, io sto aspettando che papà torni a casa. Non ho ricordi di lui in casa, non ho ricordi di lui fuori casa, ma ho tanti ricordi di me che lo aspetto. Ho accumulato in soffitta giochi, disegni, piccoli ricordi speciali, tutto al fine di mostrarglieli quando lui sarebbe tornato a casa. Ora ho una soffitta piena di tante cose da mostrargli, di cui nemmeno ricordo più io stessa; potrei gettarle tutte, ma ormai sono il ricordo della mia infanzia, adolescenza e maturità legato all’attesa del rientro di papà. Gli anni sono passati e lo stiamo attendendo ancora, tant’è che questa attesa è diventata parte di noi. Papà ha avuto regimi carcerari duri, e in 7 anni l’ho vissuto solo per ben 84 ore”. Claudio C., ergastolano ostativo: “Sono stato arrestato all’età di diciannove anni e non sono più uscito. Era il 22 dicembre 1989. Sono in carcere da 32 anni ininterrottamente. Non cerco attenuanti, non ne ho mai cercate. (…) Nella tarda adolescenza, sono rimasto coinvolto in una “guerra” tra gruppi criminali e ho commesso molti reati. In molti sono morti; troppi, amici e nemici. (…) Mi faceva paura l’idea di una “pena senza fine” ma non abbastanza da farmi scappare lontano dal caos in cui ero caduto e che alimentavo”. Antonio L., ergastolano ostativo: “Da bambino andavo a trovare mio padre in carcere. Ricordo ancora quei momenti e quei viaggi così stancanti che mi hanno segnato per sempre. (…) Il dolore di me bambino si è riprodotto nei miei figli, e questo mi devasta, considerato che non dimentico la durezza di quel dolore e non riesco a perdonarmi per aver costretto loro alla stessa sofferenza. L’unica cosa che mi dà un po’ di conforto, è il fatto che i miei ragazzi non hanno seguito l’esempio negativo del nonno e del padre. Riesco a pensare che il futuro non sarà così triste e che forse anche io, che vivo in stretto rapporto con il carcere sin da piccolo, potrò un giorno vivere lontano da questo mondo”. Tommaso R., ergastolano ostativo: “Nasco e cresco in un quartiere della città di Reggio Calabria dove è situato il carcere San Pietro, per la maggior parte noi del quartiere fin da piccoli conoscevamo bene il carcere perché avevamo un parente detenuto, mi ricordo che quando frequentavo le scuole medie il preside ogni martedì ci faceva uscire un’ora prima in quanto quasi tutti in classe dovevamo andare a colloquio dai nostri parenti. Quindi il carcere lo conosco da sempre. Ma non sono stati certo i molti anni di detenzione cattiva, senza speranza, quanto piuttosto l’esperienza di carcere più umano fatta qui a Padova, a spingermi a maturare la consapevolezza di come, con le mie scelte di vita, ho pesantemente condizionato quelle di mia moglie e delle mie figlie. Egoisticamente le ho incatenate a me e trascinate nel baratro più profondo, l’ergastolo ostativo”. Francesca, figlia di un ergastolano ostativo: “Il carcere secondo me deve essere una struttura che aiuti il detenuto a prendere coscienza dei propri errori e a essere reinserito al meglio nella società, e non come hanno fatto con mio padre che è entrato a causa dei suoi errori, ma poi hanno gettato la chiave. Per forza sono arrabbiata con il mondo intero, perché crescere con un padre in carcere non è stato facile, affrontare ogni mio problema da sola non è stato per niente facile, se sei la figlia di un detenuto la gente ti giudica, ti discrimina, ti emargina e ti addita come se essere figlia di un detenuto, e ancora peggio di un ergastolano ostativo, fosse colpa mia, quindi sì ce l’ho con il mondo intero”. Per finire, voglio rubare le parole ad Agnese Moro, che spiega perfettamente il senso del suo incontro con tanti ergastolani e il valore della parola ‘cambiamento’: “Incontrare quelle persone mi ha aiutato moltissimo. Nella mia mente vorticavano solo immagini mostruose, pensavo a qualcosa di onnipotente, di enorme. Invece ho capito che avevano un volto e avevano delle storie. Che erano esseri umani. E che sarei stata più felice se fossero riusciti a cambiare e a fare qualcosa di buono per la società”. Vorrei che una come lei, con la sua forza e la sua straordinaria capacità di far venire fuori il meglio dalle persone, potesse sostenere, di fronte a quei politici che dovrebbero cambiare la legge entro un anno, le ragioni per cui l’ergastolo deve essere definitivamente “condannato”, se davvero vogliamo restare umani. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti L’ergastolo ostativo è incostituzionale di Franco Corleone L’Espresso, 18 aprile 2021 Per Aldo Moro l’ergastolo senza aggettivi era peggio della pena di morte. La Consulta ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo. È una pronuncia netta che ha un carattere dirompente dopo anni di leggi d’emergenza e speciali, anche se le conseguenze non sono immediate perché è stato dato un anno di tempo al Parlamento per intervenire con norme appropriate. La Società della Ragione è impegnata dalla sua fondazione per la cancellazione della pena perpetua e nel 2009 pubblicò il volume “Contro l’ergastolo”, con gli scritti di Aldo Moro che si schierava con nettezza contro un diritto vendicativo. Nei prossimi mesi uscirà un nuovo volume “Contro gli ergastoli” sempre nella collana della SdR edita da Ediesse, che aiuterà la discussione pubblica per rispondere alla decisione della Consulta. Nelle prossime settimane sarà pubblicata la sentenza e conosceremo le indicazioni che saranno date e scopriremo se si tratta di una via larga o stretta. In ogni caso è bene che la parola torni alla politica. Per un diritto che riparta dalle fondamenta dei valori inalienabili. Sarebbe una buona occasione per riconsiderare come priorità la riforma del Codice Rocco che festeggia i suoi novanta anni di vita. Sarebbe assai riduttivo se il Parlamento si occupasse solo della questione dei mafiosi, che per altro nel regime del 41bis, definito come carcere duro, hanno solo la prospettiva di morire reclusi, come è accaduto a Riina e Provenzano e a tanti altri meno noti. L’occasione per la politica, se desse un segno di vita, sarebbe quello di affrontare la questione di un nuovo Codice Penale e a cascata il nodo dell’ergastolo e della sua abolizione e di immaginare quali alternative. Gli esempi in Europa non mancano, dalla Spagna al Portogallo e alla Norvegia. Può essere il momento magico di tornare alla ispirazione del diritto penale minimo e alla riserva di codice. Chissà se la ministra Cartabia abbia l’ambizione di restare nella storia. Dall’ergastolo al 41 bis, norme antimafia in bilico di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2021 Le pronunce della Corte costituzionale e della Cassazione che rivedono elementi significativi del regime detentivo dei condannati per criminalità organizzata sono sempre di più. Ora, affermare che la legislazione forse più avanzata di contrasto alla criminalità organizzata, per riconoscimento condiviso anche da agenzie investigative estere, rischia di essere spazzata via sarebbe troppo. Certo è che una serie di indizi costituiscono prova almeno di un progressivo cambio di stagione. È di giovedì l’intervento della Corte costituzionale che considera illegittima per chi è condannato all’ergastolo per reati di mafia la previsione della collaborazione come unica strada per avere accesso alla libertà condizionale. Ma, in precedenza, la stessa Consulta, era la fine del 2019, era arrivata alle medesime conclusioni per quanto riguarda i permessi premio. La differenza è che adesso, a differenza di allora, la Corte lascia 12 mesi al legislatore per intervenire, nella consapevolezza della rilevanza delle ripercussioni della propria pronuncia. Ma i dati giurisprudenziali che possono contribuire a corroborare l’attenuazione, anche nel Paese, della consapevolezza dell’emergenza organizzazioni criminali, almeno sul versante del trattamento penitenziario, non finiscono qui. Infatti, si sono succeduti, di recente, gli interventi su uno degli altri capisaldi della legislazione antimafia, il 41 bis. Da una parte confermandone, certo, l’impianto e avvalorandone implicitamente l’efficacia come strumento di deterrenza, dall’altro, però, nei fatti, contribuendo ad attenuarne alcune delle maggiori criticità. Dove il riferimento, oltre che ai recenti dubbi di costituzionalità adombrati dalla Cassazione per effetto dell’applicazione del 41 bis a chi è già soggetto a misura di sicurezza detentiva (come nel caso di specie, un internato in casa lavoro), è, per esempio, alla sentenza, sempre della Corte costituzionale, n. 97 del 2020, che ha giudicato illegittimo il divieto assoluto allo scambio di oggetti tra i detenuti al 41 bis appartenenti allo stesso gruppo di socialità. Oppure, la sentenza della Cassazione n. 35216 di fine 2020, con la quale la Corte ha ritenuto che il saluto di altri detenuti al regime di “carcere duro” non giustifica l’applicazione di una sanzione disciplinare perché non si tratta di una significativa forma di comunicazione. O, ancora, incorrenti ricorsi alla Cassazione del boss Salvatore Madonia che; poco meno di un anno fa, hanno ottenuto con due distinte pronunce della Cassazione sia il riconoscimento del diritto all’informazione e, quindi, alla lettura dei quotidiani, sia il diritto a colloqui via video (sentenza 23819 del 2020). E ancora, il no alla riduzione delle ore d’aria anche in 41 bis (Cassazione 17579 del 2019), il riconoscimento del carattere inumano della detenzione se è negata la fisioterapia al boss (si trattava di Pasquale Zagaria, sentenza 52526 del 2018). Aspetti che, presi uno per uno, possono apparire anche marginali, ma che in un mondo assai attento ai segnali di cedimento come quello mafioso assumono tutt’altro valore. Difficile capire se l’anno di tempo sarà utilizzato dalle forze politiche o trascorrerà invano, come avvenuto nel recente passato lasciando inevasa la sollecitazione della Consulta a intervenire sul fine vita. I primi segnali non sono incoraggianti, con il ricostituirsi di un asse Lega-5 Stelle, drasticamente ostile a qualsiasi cambiamento che incrini valore e necessità della collaborazione come condizione necessaria per l’accesso ai benefici. Detto che la drammatizzazione sul punto pare, numeri alla mano, almeno fuori luogo, visto che, dopo la sentenza del 2019, i condannati all’ergastolo, non collaboranti, che hanno beneficiato di permessi premio non arrivano in doppia cifra, a porsi il problema è stata però la commissione Antimafia. Che, pochi mesi fa, con un accordo, questo sì ampio, ha avanzato una serie di proposte che potrebbe rappresentare un importante punto di partenza. Centrale la necessità di un più rigoroso procedimento di accertamento da parte della magistratura di sorveglianza dei presupposti per la concessione del beneficio e una scansione più rigida delle fasi della verifica sul venir meno dei legami con l’organizzazione criminale. La richiesta quindi dovrà escludere, a monte delle verifiche che saranno fatte a valle, la persistenza di collegamenti con organizzazioni criminali, fornendo elementi a sostegno, mentre a venire valorizzata sarà la competenza del Tribunale di sorveglianza di Roma per assicurare giurisprudenza uniforme. Ergastolo ostativo, perché la Consulta dice che è incostituzionale ma ha concesso un rinvio? di Vittorio De Vecchi Lajolo* Il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2021 Il coraggioso comunicato stampa della Corte Costituzionale del 15 aprile scorso è fonte di grande soddisfazione per chiunque sia un cultore della materia o anche solo curioso di comprendere il funzionamento di questa venerabile istituzione. Molti pensavano che una legge potesse essere costituzionale o incostituzionale, ovvero compatibile o incompatibile con i principi della Costituzione. Invece no, tertium datur: esistono anche leggi, come quella sul cosiddetto “ergastolo ostativo”, che pur essendo incostituzionali sono meglio del vuoto normativo. Sono incostituzionali, ma non troppo: un po’ come andare in motorino senza casco. Sappiamo che può essere molto rischioso, addirittura mortale - ma vuoi mettere il senso di libertà? Poi scopriamo che la Corte, oltre alla pacifica competenza a decretare in via definitiva (con sentenza) l’illegittimità di una norma, ha anche la peculiare facoltà di limitarsi ad esternare moniti perentori - in forma di comunicato stampa, forse di ordinanza (ma in futuro - perché no - magari anche un tweet potrebbe essere sufficiente?). Così manda a dire che una determinata norma è chiaramente illegittima, però concede graziosamente un rinvio della decisione definitiva, onde permettere al legislatore di rimediare. E questa è un’altra grossa novità: la Corte ha facoltà di impartire direttive al Parlamento, affinché questo approvi determinate leggi, fornendogli pure una sorta di vademecum delle condizioni che devono essere rispettate. Ma questo è uno straordinario servizio di pubblica utilità, da parte della Corte! Molti di noi erano ancora ancorati a quell’antiquata concezione del Parlamento quale unico organo rappresentativo della volontà popolare e dunque deputato a legiferare. Ma oggi scopriamo che il vero burattinaio è proprio la Corte Costituzionale, che con la saggezza e la perizia del buon padre di famiglia (o della patria?) orienta l’attività del legislatore. Viene quasi la tentazione di mandare a casa deputati e senatori e mettere il paese in mano alla Corte Costituzionale. Immaginate che enorme risparmio sarebbe? Quanto ne beneficerebbe l’attività legislativa in termini di efficienza? Infine, c’è un ultimo punto fondamentale: la Corte Costituzionale, grazie alla sua infaticabile e poliedrica capacità di adattamento, sa addirittura farsi Corte “Incostituzionale”, quando ritiene che sia giusto ed opportuno mantenere in vigore una disposizione incostituzionale. In tali casi, come abbiamo visto in apertura, dichiara l’incostituzionalità-ma-non-troppo della norma, regalando alla nazione quella stabilità di cui ha tanto bisogno. Allora, prima che vengano ristampati i manuali di diritto costituzionale per dare conto delle gloriose novità appena esposte, vorrei ricordare che la nostra Costituzione dà alla Corte Costituzionale il potere di giudicare se una norma è costituzionale o incostituzionale (art. 134). Se una norma è incostituzionale, a partire dal giorno successivo alla pronuncia (art. 136) essa cessa di avere effetto ex tunc: cioè, è come se non fosse mai esistita. Non è prevista né la dichiarazione di incostituzionalità-ma-non-troppo, né l’impartizione di istruzioni al Parlamento. E il motivo è fin troppo evidente: la Corte Costituzionale non solo è organo giudiziario e non legislativo, ma è anche un organo contro le cui decisioni non è ammessa impugnazione (art. 137). È proprio l’Abc della separazione dei poteri ad esigere che non abbia il potere di dettar legge, perché altrimenti il controllante coinciderebbe con il controllato. Visto che, come è già stato osservato, in molteplici altre occasioni la Corte non si è fatta problemi a dichiarare incostituzionale (a più riprese) la negazione a priori dei benefici penitenziari ai detenuti che non collaborano, perché abbandonare la sana tradizione di seguire il dettato costituzionale? Dopotutto, se si chiama Corte Costituzionale ci sarà un motivo. *Avvocato Ergastolo ostativo, la sfida è non spostare indietro il baricentro della lotta alla mafia di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2021 La Corte Costituzionale con la sentenza sull’ergastolo ostativo ha fatto cinque cose. Le prime quattro sono chiare: ha dichiarato la incostituzionalità della norma nella parte in cui lega indissolubilmente la possibilità per il mafioso di accedere ai benefici carcerari alla scelta di aver collaborato utilmente con la Giustizia; ha però riconosciuto la specifica gravità del fenomeno mafioso; ha quindi ribadito il valore della collaborazione per contrastarlo; ha infine apprezzato l’organica sistematicità delle norme che negli anni l’Italia ha prodotto per prevenire e contrastare le mafie, e proprio per quest’ultima considerazione si è fermata sulla soglia di una dichiarazione di illegittimità costituzionale immediatamente operativa. Come per la “vicenda Cappato” ha rimandato la palla nel campo del Parlamento, affinché sulla base di queste indicazioni, legiferi entro un anno. Una scelta, quest’ultima, coerente e saggia, che la Corte aveva sperimentato proprio quando a presiederla c’era Marta Cartabia, oggi ministra della Giustizia. Ma c’è una quinta cosa che la Corte ha probabilmente fatto e che rappresenterà il cuore delle decisioni che verranno prese da qui in avanti, al di là di ogni retorica. Il diritto non è una scienza esatta, non procede per formule matematiche (anche se a qualcuno piacerebbe assai): le norme, nelle loro interpretazioni giudiziarie e dottrinali, nella loro forma sono “soltanto” la temporanea e convenzionale cristallizzazione di rapporti di forza, portatori ciascuno di visioni ed interessi. Ogni norma, così come ogni sentenza, rappresenta il punto di equilibrio possibile in un certo momento storico tra beni giuridicamente degni di tutela: ora questo punto di equilibrio si cerca tenendo il baricentro in avanti, col rischio di cadere, ora il punto di equilibrio si cerca tenendo il baricentro indietro, col rischio di finire sdraiati. È la cultura che si respira il fattore che decide quale tipo di rischio il Legislatore o il Magistrato correrà: il rischio c’è sempre, la materia è viva e magmatica. Di quale cultura, cioè di quali convinzioni, sono figlie le norme che tra gli anni 80 e 90 hanno fatto dell’Italia il paese al mondo con la legislatura antimafia più coraggiosa ed efficace? L’idea che la qualità stessa della democrazia italiana, la libertà stessa dei suoi cittadini, fossero radicalmente messe in discussione dalla violenza e dalla capacità eversiva delle mafie, allacciate a segmenti di potere, anche istituzionale, che rendevano impellente reagire con tutte le bocche di fuoco possibili. Possibili all’interno di un perimetro che era quello della Costituzione, ovviamente. Ecco, oggi, tutto considerato, sembra che sia venuta meno questa idea, che prevalga la tesi dello scampato pericolo. Oggi sembra che la sentenza della Corte faccia anche questa quinta cosa, faccia propria questa nuova convinzione che innerva un certo dibattito culturale: missione compiuta, le mafie - se non ancora completamente sconfitte - sono un fenomeno criminale residuale, gestibile. Che ha perso sia quella pericolosità che generava tanto allarme sociale (niente più tritolo, niente più morti eccellenti), tanto quella connessione con altri poteri compreso quello istituzionale, che la rendeva eversiva dell’Ordine democratico. Oppure no. Io credo che esista il modo per rispettare la sentenza della Corte Costituzionale senza spostare indietro il baricentro, senza rischiare di finire sdraiati. Ma servirà grande rigore per trovarlo e non imboccare strade pericolose. La ministra Cartabia è la persona giusta al posto giusto e c’entra eccome, perché con la scadenza fissata dalla Corte di un anno, c’è un solo modo per legiferare in Parlamento: partire da un disegno di legge proposto dalla ministra, su cui tutto il Governo abbia dato il suo placet. *Ex deputato e attivista antimafia “Noi, ragazzi dentro scontiamo in cella una doppia pena” di Pietro Mecarozzi L’Espresso, 18 aprile 2021 Con il Covid-19 il numero dei detenuti è calato ma due terzi sono in attesa di giudizio, la metà stranieri. Manca il personale e cresce la tensione. È stata come una seconda pena. All’inizio la paura era davvero molta ed era impossibile avere contatti con l’esterno per la mancanza di dispositivi e connessione. Poi è subentrata la sensazione di essere dimenticati, isolati nell’isolamento generale”. A metà febbraio Gaetano è uscito da uno dei due Ipm (Istituti penali per minorenni) della Campania, dopo aver scontato circa sei mesi di detenzione per furto a mano armata. Poco più che maggiorenne, Giovanni ha già commesso altri reati e ha scontato altre condanne ma mai come in questo periodo il carcere minorile lo ha segnato. Una piccola stanza, una brandina e intorno mura che con la pandemia sembrano essersi ispessite. All’ombra dei problemi degli istituti penitenziari per adulti, in questo periodo di emergenza sanitaria, anche la vita nelle carceri minorili ha subito un cambiamento traumatico. Gli Ipm ospitavano al febbraio scorso poco più di 370 ragazzi, a fronte dei circa 13.000 che sono in carico al sistema. Un minimo storico. Oggi il numero dei ragazzi detenuti è ulteriormente sceso a meno di 300 a causa dell’emergenza sanitaria in corso. Secondo i dati raccolti dal rapporto Antigone, però, il 72 per cento di minorenni o giovani adulti entrati in Ipm è in custodia cautelare. Solo il 17 per cento dei detenuti ha compiuto reati contro la persona, i più gravi, mentre il 62 per cento ha commesso illeciti contro il patrimonio: furti, rapine, estorsioni, riciclaggio. Come Gaetano, molti giovani si trovano dentro “perché nei quartieri da dove veniamo, se vuoi mangiare, o rubi o ti vendi alla criminalità organizzata”, spiega il ragazzo. Il decreto legislativo n. 250/2018 che disciplina l’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni ha comunque portato ottimi risultati: il principio di residualità su cui si basa ha come obiettivo limitare la carcerazione, e così molto spesso accade. Insomma, il sistema cerca sempre di trovare alternative (tra cui la messa alla prova e il sistema delle comunità), e la permanenza media nelle carceri è di soli 102 giorni. Perciò dovremmo “andare fieri del nostro sistema di giustizia minorile, che risulta essere tra i migliori d’Europa”, puntualizza Susanna Marietti, coordinatrice dell’osservatorio minori dell’associazione Antigone. Purtroppo nulla è perfetto. E la pandemia da Covid-19 ha acutizzato tutte le criticità che le mura degli Ipm avevano celato fino ad oggi. Manca un’equità nei trattamenti dei detenuti, in primo luogo. Nelle carceri minorili non ci si va solamente a causa della gravità del reato commesso, ma anche e soprattutto a causa della debolezza sociale e dell’assenza di legami sul territorio, che impediscono l’individuazione di percorsi alternativi per i ragazzi. A conferma di ciò, l’alta percentuale di detenuti stranieri, che si aggira intorno al 50 per cento del totale. Mentre Gaetano verrà infatti reindirizzato verso una comunità di recupero, nei mesi di emergenza da Covid-19 il numero di detenuti stranieri è aumentato, dimostrando come, anche di fronte alla crisi sanitaria, questi ragazzi hanno potuto beneficiare in misura inferiore di collocazioni alternative al carcere. “Si tratta di una falla del sistema, perché anche un solo ragazzo in più in carcere è dí troppo”, continua Marietti. Un altro dato che penalizza i giovani detenuti, e in particolare quelli stranieri, è il numero delle strutture: sono 17 gli Ipm sparsi per tutta Italia, da Caltanissetta a Treviso. Troppo pochi se si pensa che “per il detenuto minorenne la detenzione si traduce in un allontanamento coatto anche per migliaia di chilometri dal proprio territorio e dal nucleo familiare”, precisa Elena Mattioli, psicologa e psicoterapeuta esperta di disturbi in età adolescenziale e dell’universo giovanile. I minorenni che delinquono “provengono da situazioni di grave disagio economico, i parenti spesso non hanno la possibilità di far loro visita o di accompagnarli lungo il processo rieducativo”, continua Mattioli. Una separazione forzata può quindi influire negativamente sul reinserimento in società e sulla vita dentro il carcere. “È difficile interagire con i detenuti stranieri: non conoscono la lingua, si coalizzano tra di loro e spesso sono protagonisti di risse con altre bande”, spiega un poliziotto penitenziario in servizio a Milano. “Durante questi mesi di emergenza, però, ho visto solo dei ragazzi spaventati, ignari di quello stesse accadendo in quanto mancavano i mediatori culturali”, continua il poliziotto. La condizione degli istituti varia poi di regione in regione. Soltanto due le situazioni di sovraffollamento, seppure lieve, a Bologna e a Milano, mentre in questi primi mesi dell’armo, per esempio, non c’è stata acqua calda nel carcere minorile di Airola, che ha 17 camere di detenzione e attualmente ospita 23 ragazzi. “Gli spazi non sono adeguatamente attrezzati e mancano suppellettili. I materassi sono vecchi e in condizioni igieniche pessime, i problemi di gestione delle videochiamate rendono difficili i colloqui con i familiari. E così vengono meno i diritti dei ragazzi”, svela il garante dei detenuti della regione Campania, Samuele Ciambriello. La pandemia ha creato “un totale isolamento per i ragazzi, accentuando problematiche già esistenti. E così i tempi lunghi per interventi e decisioni sono diventati tempi biblici e il personale già insufficiente si è ulteriormente ridimensionato”, continua Ciambriello. Capita spesso: negli istituti penitenziari manca il personale. Fortunatamente il basso numero di detenuti consente una copertura equilibrata per la maggior parte degli Ipm. Ma il vero problema è un altro: cioè l’età dei poliziotti in servizio. Gli agenti nelle carceri minorili devono imparare a essere anche un po’ psicologi ed educatori, e “a causa dell’invecchiamento delle forze dell’ordine, è difficile non avere un rapporto conflittuale con i detenuti quando come a Firenze, per esempio, l’intero personale è over 50”, chiosa il poliziotto. Il risultato di questo gap generazionale? In questo periodo di emergenza le violenze all’interno delle carceri sono aumentate. L’istituto penale per minorenni Ferrante Aporti di Torino, a fine 2020, è stato teatro di continue aggressioni ai danni di agenti di polizia penitenziaria. “Un collega è stato preso a pugni per il semplice fatto di svolgere il suo dovere richiamando all’ordine i detenuti”, mentre nel carcere minorile Casal del Marmo di Roma e nel Beccaria di Milano “sono quattro gli agenti aggrediti senza motivo dai detenuti”, aggiunge il poliziotto. Controllare non è così facile. Anche quando si tratta della salute dei detenuti. La pandemia si è abbattuta sugli istituti penali minorili con effetti ancor più deleteri dal punto di vista psicologico. Le proteste sono aumentate, così come la messa in isolamento dei detenuti. In molti Ipm sono aumentati anche “i casi di autolesionismo, di tentato suicidio e di scioperi della fame”, avverte Ciambriello. Dal primo lockdown i “detenuti non hanno mai smesso di avere paura”, dice la psicologa Mattioli. E considerato il rischio che “l’ambiente carcerario abbia influssi negativi sulla psiche di chi vi è detenuto, farvi stazionare chi non è ancora stato condannato è un rischio troppo alto per dei ragazzi in un’età così delicata”. Complicazioni che si sono riscontrate anche nell’assistenza medica, sia per i detenuti sia per il personale. A mancare sono le visite specialistiche: “Molti ragazzi hanno dovuto attendere mesi prima poter vedere un dermatologo, un oculista, un chirurgo. Nelle carceri minorili della Campania si sono riscontrati una quindicina di casi di tossicodipendenza, che si sono rivelati molto difficili da gestire sotto l’aspetto clinico”, chiosa ancora Ciambriello. La possibilità di accedere facilmente ai medicinali è, quindi, indispensabile. Così come è prioritaria la vaccinazione anti-Covid-19 per personale e detenuti (al momento prevista per i primi ma non per i secondi). A pesare sulla vita nelle carceri è stata anche l’interruzione dei laboratori e delle lezioni scolastiche. La privazione dello spazio ricreativo e di socialità ha penalizzato gli istituti con minori spazi e disponibilità di servizi, dando vita a forme di ghettizzazione nei confronti dei detenuti stranieri. Almeno in un caso, però, si è riusciti a correre velocemente ai ripari. “A parte le prime fasi iniziali, il nostro istituto ad oggi ha ripreso la formazione dei detenuti attraverso la Dad e abbiamo riattivato anche alcuni laboratori creativi”, racconta Antonia Bianco, direttrice del carcere minorile di Firenze, una delle realtà più virtuose del Paese dove al momento sono presenti 15 detenuti. Dopo una prima fase di attuazione delle procedure di distanziamento e di protezione del personale e dei detenuti, “le attività sono riprese grazie a una suddivisione in piccoli gruppi dei ragazzi e all’utilizzo contingentato degli spazi. E nel 2021 l’anno scolastico è ricominciato in presenza”, continua la direttrice. L’obiettivo del reinserimento, detto ciò, si raggiunge comunque meglio fuori dal carcere. L’ultimo report tracciato dal Dipartimento per la giustizia minorile sottolinea che più tempestiva è la presa in carico da parte dei servizi sociali, tanto più diminuisce il rischio di recidiva. In generale, il 69 per cento dei minori non commette altri reati. Invece il 31 per cento dei ragazzi torna a delinquere. Significativo sembra essere il peso psicologico della condanna: un minore condannato cade in recidiva molto di più (63 per cento) di un minore con la misura della sospensione del processo e messa alla prova (22 per cento). Minori in carcere. Chi si è lasciato la galera alle spalle ora corre il rischio di tornare tra le sbarre di Sabrina Pisu L’Espresso, 18 aprile 2021 Il reinserimento sconta lo stop al lavoro. E senza occasioni il pericolo recidiva è concreto. Il cappellano di Nisida: “Hanno perso tutto, sono disperati e la malavita è in agguato”. “Tanti giovani hanno perso il lavoro e sono finiti di nuovo nelle reti criminali”: Luca, nome di fantasia, 27 anni, per “un bel po’“ è stato nell’Istituto penale minorile Malaspina di Palermo. Ora è aiuto cuoco, si è messo alle spalle quel “brutto sogno” che è la sua vita di ieri. “A salvarmi è stata una formazione in carcere che poi è diventata un lavoro all’esterno che per fortuna ho ancora”, racconta. Se è vero che il Covid-19 ha aperto una crisi epocale, distrutto imprese e reso più fragili e disorientati i giovani, per quelli usciti dal carcere l’impatto è stato ancora più drammatico. Durante il periodo pandemico gli ingressi negli istituti penali minorili italiani “hanno subito un’apprezzabile diminuzione, considerata anche l’impossibilità di movimento”, dice Claudio Giovanni Scorza, vice capo dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia. La dinamica è quella di un arco che si tende indietro per poi tirare con più violenza le sue frecce. Lo conferma Clara Pangaro, direttrice dell’Istituto minorile del capoluogo siciliano: “A Palermo in questi primi mesi del 2021 è aumentato il numero dei ragazzi nei centri di prima accoglienza”. Si teme una recrudescenza dei reati: “Il rischio recidiva ora è più elevato. Sono tanti ad aver perso un impiego e a chiederci sostegno. Servono più risorse per offrire opportunità adeguate a questi giovani che sono soprattutto maggiorenni e spesso già con figli. Una borsa di formazione-lavoro di 400 euro al mese non basta”. Con la pandemia c’è stata, e c’è ancora, difficoltà nello strutturare progetti di tirocinio, formazione e lavoro: “Molte aziende hanno chiuso, molte altre hanno dovuto mettere i dipendenti in cassa integrazione, è complicato inserire i ragazzi in percorsi lavorativi”, continua Pangaro. È più che mai necessario intensificare le politiche giovanili e creare progetti virtuosi di formazione e lavoro come “Cotti in fragranza”, un laboratorio per la preparazione di prodotti da forno, nato nel 2016, senza fondi pubblici, all’interno del carcere Malaspina. “Nel 2019 è nato anche Al Fresco, un bistrot nel cuore di Palermo”, racconta Lucia Lauro, responsabile del progetto con Nadia Lodato. Un’impresa civile che ha inserito oltre trenta ragazzi. “La nostra cooperativa, che fa parte dell’Istituto Don Calabria, è stata costretta a mettere in cassa integrazione metà del personale. Siamo riusciti con grandi sacrifici a garantire un sostengo economico a tutti, ma per tanti altri con un’esperienza penale alle spalle l’impatto è stato terribile, avevano dei lavori stagionali, molti in nero, e quindi sono stati mandati a casa senza nulla in tasca. Siamo molto preoccupati”. A Napoli la storia si ripete. “In tanti hanno perso un lavoro che era in nero, altri avevano un contratto di lavoro per poche ore a settimana, quando invece lavoravano tutto il giorno. Sono disperati, mi cercano costantemente per chiedermi un lavoro, un aiuto, cerco di fare quello che posso, gli pago le bollette. Sono ragazzi che vivono in famiglie segnate dalla malavita”, dice Don Gennaro Pagano, cappellano di Nisida dal settembre del 2019. Ragazzi che oltre alla diffidenza delle imprese, subiscono anche l’indifferenza della politica: “Gli operatori sono soli, in trincea, a combattere, anche con i politici”, dice Don Gennaro. A questi giovani ha consacrato la vita Maria Franco, per 35 anni insegnante di italiano a Nisida. Per loro è ancora un punto di riferimento: “In tanti mi scrivono per dirmi che stanno vivendo un momento estremamente duro, è una tragedia che si consuma nel silenzio”. L’inerzia delle istituzioni rischia ora di riconsegnare le storie di tanti giovani alla penna criminale. Lo stesso grido di allarme si leva dal carcere minorile di Torino. “C’è ora un aumento di arresti, un’importante recrudescenza della delinquenza minorile con derive inquietanti. C’è tanta rabbia sociale”, dice Simona Vernaglione, direttrice del Ferrante Aporti. “Questi giovani sono i più colpiti e penalizzati, prima riuscivamo a trovare delle opportunità di lavoro in cooperative o associazioni, ora è molto più difficile”. Tante voci a chiedere ascolto, a partire da quelle di questi ragazzi a cui il Covid-19 sta togliendo le parole della loro nuova storia, a fatica conquistate. Ipotesi di reato e gogna mediatica possono uccidere di Gian Domenico Caiazza Il Dubbio, 18 aprile 2021 Il dramma di Giovanna Boda e l’ipocrisia della libertà di stampa. Una stimata funzionaria del Miur apprende di essere indagata dalla Procura della Repubblica di Roma per una ipotesi di corruzione. Avrebbe intascato più di 600mila euro per una serie di appalti. Va ad incontrare l’avvocato ma, nell’attesa, cede alla disperazione e si lancia giù dalla finestra. Ora lotta tra la vita e la morte. Non so nulla, ovviamente, di questa signora e della sua vicenda. Conosco invece perfettamente, come ogni avvocato penalista, le dinamiche sempre drammatiche che si innestano nella mente di una persona che, d’improvviso, raggiunta da un grave sospetto, diventa preda del branco. Perché di questo si tratta. In nome di un malinteso, anzi di un pretesto: il diritto-dovere di informare i cittadini, dicono. Io invece dico che qui l’informazione non c’entra nulla. Come fai a dare informazione di qualcosa che non conosci? Come puoi rivendicare il diritto di diffondere una notizia geneticamente parziale e unilaterale, che non sei in grado di verificare nella sua fondatezza? Un avviso di garanzia non fornisce informazioni sufficienti nemmeno all’indagato, figuriamoci a chi non sa nulla della vicenda. Per non dire che, di per sé, quella notizia è (non a caso) coperta dal segreto investigativo. Non è divulgabile la notizia della pendenza di una indagine su qualcuno, non dovrebbe. Ma le sanzioni sono ridicole, anzi inesistenti. Ovviamente, se divulghi la notizia di una indagine in corso, non potrà che essere una notizia tutta modellata sulla ipotesi accusatoria. Una notizia parziale rispetto alla quale le persone coinvolte sono disarmate, prive di un qualsivoglia diritto di replica. Cosa dovrebbero dire? Sono innocente? Certo, come no, pensa che notiziona. L’ipocrisia e la viltà intellettuale che ruota intorno a questa malposta rivendicazione del diritto-dovere di informazione mi è davvero intollerabile. Cosa urge, intorno alla apertura di una indagine? Cosa sottrarremmo alla conoscenza pubblica, vietando la diffusione di quella che è in realtà una non-notizia? Un pm riceve notizia di un fatto che egli reputa potrebbe avere rilievo penale, iscrive l’indagato nell’apposito registro e inizia la sua attività di verifica e di approfondimento investigativo. In nome di quale diritto, e del diritto di chi soprattutto, deve essere lecito rendere pubblico questo fatto, che per sua natura è lontanissimo dall’aver raggiunto connotazioni non dico di certezza, ma nemmeno di ragionevole plausibilità? Si tratta di una ipotesi, ripeto, unilaterale, che ancora non si è nemmeno misurata con una seppur sommaria confutazione difensiva. L’ipocrisia e la viltà intellettuale di cui dicevo si inverano nella dolosa indifferenza ai costi enormi, ingiustificabili e del tutto sproporzionati, che la pubblicazione della non-notizia qualcuno pagherà inesorabilmente. Sappiamo tutti perfettamente come la notizia di una incriminazione, ma anche solo di un’ipotesi investigativa, è dotata di una forza devastante e già invincibile. L’interesse della pubblica opinione è ovviamente attratto dal disvelamento di un reato, non certo dalla infondatezza della ipotizzata accusa. E l’ipotesi accusatoria, promanando da soggetti assistiti da una presunzione assoluta di affidabilità, attendibilità e imparzialità, si presuppone fondata. Vi è poi una fortissima prevalenza culturale, nella politica e nella informazione, del più becero populismo giustizialista, secondo cui se un personaggio pubblico -politico, pubblico amministratore- viene raggiunto dal sospetto, ciò merita perciò stesso la massima diffusione notiziale, ovviamente accompagnata dalla presunzione di fondatezza della ipotesi accusatoria. Il costo che la persona raggiunta da una ipotesi accusatoria -questo è l’indagato, null’altro- dovrà pagare è incongruamente sproporzionato rispetto al preteso diritto di informazione che vorrebbe giustificalo. Vita professionale, politica, familiare travolte spesso in modo irreparabile, reputazione personale inesorabilmente compromessa. Solo chi vive sulla propria pelle -insieme alle persone che gli sono vicine- i morsi feroci della pubblica gogna che inopinatamente irrompe nella sua vita, è in grado di comprendere la furia devastatrice e la brutale violenza di una simile esperienza. Anche perché le vicende penali - come ogni vicenda umana, d’altronde-non sono quasi mai segnate da una linea di demarcazione netta che separa il bianco dal nero, la colpevolezza dalla innocenza. Nessuna vicenda umana può affidarsi a simili semplificazioni. Tra l’innocenza e la colpevolezza si dipanano comportamenti del più vario segno (imprudenze, equivoci, coincidenze, gravi azzardi) che ciascuno di noi deve poter avere il diritto di chiarire e spiegare, a sé stesso ed agli altri, prima di essere trascinato nel fango, e nella disperazione; alla quale ha ceduto questa signora. Qualunque cosa possa aver fatto o non fatto, ha semplicemente capito di non avere già più il tempo per spiegare. Ombre e veleni dietro l’inchiesta su Giovanna Boda: invidie, ipotesi e sospetti di Aldo Torchiaro Il Riformista, 18 aprile 2021 Quello che è accaduto a Giovanna Boda, la dirigente Miur indagata che dopo un volo dal secondo piano lotta tra la vita e la morte, “è molto più che un atto scellerato”, ci mette in guardia dagli uffici del terzo piano del Ministero uno dei suoi più stretti collaboratori. È l’atto deliberato che mette inusitatamente in luce, per la gravità del gesto drammatico e inatteso con cui è culminato, un sistema. Un sottofondo che forse nessuno voleva smuovere. Ma che adesso si è smosso e rivela rapporti, relazioni e interessi contrastanti. Giovanna Boda “è sempre stata la persona più in vista di quel Ministero, con la maggiore proiezione esterna. Ma non è stato un attacco ad personam”, ci dice Marco Campione, che era nella segreteria tecnica di Faraone al Miur e conosce i meandri delle segrete stanze. Una dirigente iperattiva, fortemente connessa con il mondo cattolico, impegnatissima sul fronte dell’antimafia (a sua particolare regia le “Navi della Legalità”, e tutte le iniziative dei giovani in memoria di Giovanni Falcone), particolarmente vicina a Maria Stella Gelmini e a Paola Severino ma ancora più in alto, saldamente legata al Quirinale. Prima con Napolitano e poi con Mattarella, ha stretto a doppio filo le agende dei due presidenti della Repubblica con quelle degli impegni Miur a sua firma: le inaugurazioni degli anni scolastici, le visite alle scuole, soprattutto in Sicilia, le manifestazioni antimafia, le scolaresche ricevute nei saloni del Quirinale e ancor più spesso, di recente, l’apertura dei giardini: Giovanna Boda era anche il saldo e costante trait-d’union tra Colle e giovani. Una dedizione appassionata ricambiata negli anni con le due onorificenze quirinalizie assegnatele: Ufficiale all’ordine del merito della Repubblica nel 2010, Commendatore dell’Ordine al merito “di iniziativa del Presidente della Repubblica” nel 2014. Sulle carte, si legge di una inchiesta asimmetrica dai numeri inverosimili, condita sui giornali dai brogliacci passati ad arte: intercettazioni che in verità parlano di innocenti incroci di date per le riunioni con Luca Palamara. Ma le si fanno uscire in un momento in cui il solo citare Palamara mette in difficoltà l’intercettato. Ed ecco che l’operazione-show, con le tre visite degli agenti in divisa che le sequestrano oggetti personali, entrandole in casa, le fanno evidentemente balenare l’idea che sia arrivato da chissà dove un certo input. “Nel palazzo c’era una ostilità forte da parte di alcuni, e una notevole invidia, perché da direttore ha sempre dovuto gestire budget importanti”, ci dicono dal suo staff. Eppure le accuse di cui si è a conoscenza sono fumose, vanno a insistere su due affidamenti sotto soglia: spiccioli che sempre si ritrovano per mille voci di acquisto nella Pubblica amministrazione; quelle cose che se si vogliono far emergere, si possono trovare un po’ ovunque si cerchi. E che per quanto siano legittime, stendono il mattarello sul dubbio fino a farlo diventare sospetto. Dunque la domanda è oggi chi aveva interesse ad attaccare e far cadere un pilastro del Ministero così apprezzato. E c’è da guardare meglio alla rete delle relazioni che riguardano non solo Giovanna Boda ma quella di suo marito Francesco Testa, Procuratore capo a Chieti. Il suo secondo marito. Della cui nomina si era occupato il Csm nel 2016. Pare che della sua promozione si fosse interessato Legnini, pur dietro le quinte. L’ex vice presidente Csm, abruzzese, aveva detto: “Per quella Procura dovete scegliere il migliore, dev’essere una nomina inoppugnabile”. Tant’è. Chi tifava per Testa ha citato i 12 anni che ha passato a Catania come pm tra inchieste di mafia ed esperienza sulla digitalizzazione. Poi la chiamata a Roma, al ministero della Giustizia, ai tempi del Guardasigilli Paola Severino dove tiene i rapporti con il Csm. Infine l’Onu a Vienna. E Testa è arrivato a Chieti, negli stessi anni in cui a Roma Giovanna Boda veniva prestata dal Miur alla Presidenza del Consiglio. Con Renzi, o meglio con Maria Elena Boschi. Tanto che qualcuno attribuisce a quel passaggio la fonte delle inimicizie cresciute negli ultimi tempi. “Al Miur era dirigente di prima fascia, è andata alle Pari Opportunità con Boschi, diventando Capo dipartimento”, ci dettagliano dagli uffici di viale Trastevere. E ha iniziato a essere più che invidiata, invisa inconfessabilmente a molti. Ieri a lei ha dedicato un pensiero Matteo Renzi: “Un Paese civile oggi si farebbe delle domande: come si può permettere che la gogna mediatica stritoli la vita delle persone, indipendentemente dall’accertamento della verità che come sappiamo è sempre lungo e complicato? Non ho letto nessuna riflessione su questo tema, in questi giorni, e me ne dolgo”. Anche Maria Elena Boschi ha reso noto su Facebook il suo dolore: “Quello che è successo è assurdo, violento, ingiusto. Il cuore e la mente sono a fianco di Giovanna”. Che al momento di lanciarsi giù dalla finestra era nello studio legale di Paola Severino, cui era legata e che aveva collaborato a lungo con suo marito. Quali intrecci stavano cercando di ricostruire quando Giovanna Boda ha deciso all’improvviso di tentare di togliersi la vita? Forse è da lì che si può ripartire per capire meglio chi tira i fili. Il Covid spinge l’usura: aumentano arresti, denunce e sequestri di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2021 I numeri Gdf. Da marzo a dicembre 2020 emersi oltre 2mila contesti a rischio. Nei primi sei mesi dell’anno scorso i blocchi di beni sono più che raddoppiati. Con il Covid-19 dilaga l’usura. Dopo gli allarmi, ecco i primi dati: dal 2019 al 2020 i denunciati passano da 100 a 130, gli arrestati da 80 a 100. E nel 2021 si sono già concluse alcune indagini di polizia giudiziaria. I numeri sono della Guardia di Finanza al comando del generale Giuseppe Zafarana. Le denunce sono sempre troppo poche, gli usurai restano nell’ombra di un mondo sommerso. Ma gli investigatori adesso intravedono uno scenario molto più ampio. In base al sistema antiriciclaggio, sotto la lente degli analisti Gdf c’è una massa enorme di segnalazioni di operazioni sospette. Dove balzano all’occhio i cosiddetti “indici di anomalia”. Spunta così un altro dato nella caccia della polizia economica e finanziaria. Da marzo a dicembre 2020 sono emersi oltre 2mila “contesti” già sviluppati o in corso di approfondimento. Obiettivo: accertare i tentativi di infiltrazione della criminalità nell’economia. Secondo i finanzieri in questi “contesti” potrebbero emergere anche pratiche usurarie. Il modello criminale, del resto, è collaudato. Vale a maggior ragione con la crisi di liquidità di migliaia di imprese e famiglie a causa della pandemia. Nei radar dei militari al terzo reparto del Comando generale Gdf, guidati dal generale Pino Arbore, ci sono tracce e segnali ripetuti. “La minaccia è concreta e sempre più attuale - spiega il generale Arbore - vista la capacità delle organizzazioni criminali di fornire liquidità istantanea alle imprese in difficoltà. Salvo poi richiederne la restituzione applicando tassi non sostenibili”. I casi giudiziari, dunque, vanno riletti. Sono indice di fatti più ampi. Documentano l’evoluzione delle strategie malavitose. Più raffinate, più spietate. A Bari, per esempio, i finanzieri hanno scoperto “l’usura di prossimità”. In due procedimenti penali sono emersi oltre ioo soggetti. L’usura e l’estorsione hanno colpito piccoli imprenditori e famiglie in stato di bisogno. Certo, si ritrovano criminali riconducibili ai sodalizi mafiosi storici del capoluogo e dell’area metropolitana pugliese. Ma l’organizzazione malavitosa era più estesa. La Gdf ha scovato soggetti in campo per proporre offerte “porta a porta” di prestiti illegali a persone impossibilitate ad accedere a forme di credito legale. Difficile accada soltanto a Bari. I tassi applicati dagli usurai hanno percentuali che fanno orrore. Il nucleo di polizia economico finanziaria di Napoli l’anno scorso ha messo le manette a tre soggetti indiziati, a vario titolo, di usura ed estorsione ai danni di nove imprenditori in attività tra Campania, Toscana, Lombardia e Veneto. I prestiti usurari raggiungevano il 275% su base mensile. A Firenze, in pieno lockdown, per cifre modeste è arrivata una richiesta di interessi del 300% insieme a minacce e intimidazioni. A Como tre criminali agivano in modalità separata: approfittavano dell’esposizione finanziaria di un imprenditore e prestavano con tassi a strozzo di intensità variabile, dall’8o% fino al 600%. E di nuovo a Bari: un’anziana donna, in gravi difficoltà economiche, ha denunciato alla Guardia di Finanza di essere stata vittima di usura da parte di diversi aguzzini. La ricostruzione del giro di prestiti usurari ha fatto scoprire l’incredibile: gli interessi lievitavano fino al 5000% della somma corrisposta. La lista delle città dove le Fiamme gialle sono intervenute per l’usura non si ferma qui. Sono già segnate Bergamo, Catania, Reggio Calabria, Torino, Palermo, tutte sedi di operazioni di polizia giudiziaria con le procure della Repubblica. Ne spunteranno altre. Non c’è dubbio. L’allerta così ha assunto connotati politici. Paolo Lattanzio, deputato Pd in commissione Antimafia, mette un punto fermo sul fenomeno nella recente relazione intermedia del comitato “per la prevenzione e la repressione delle attività predatorie della criminalità organizzata durante l’emergenza sanitaria”. Lattanzio nota come in base ai dati Gdf “nei primi sei mesi del 2020 il valore dei sequestri è più che raddoppiato rispetto all’analogo arco temporale del 2019 - si legge nel documento - in non pochi casi l’usura è maturata in un contesto molto prossimo se non contiguo ad ambienti di criminalità organizzata”. La relazione di Lattanzio sottolinea “il rischio di vedere accrescere nei confronti delle mafie il consenso sociale da parte delle persone prive di effettive fonti di reddito”. Un pericolo “indotto dal c.d. “welfare criminale” caratterizzato - ricorda il testo parlamentare - da vere e proprie forme dí sostegno materiale ed economico di “prossimità”. Martedì prossimo alla Giornata della Legalità promossa da Confcommercio, presente il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, sarà presentato un nuovo report sull’usura. Sottolinea il generale Arbore: “Stiamo moltiplicando i nostri sforzi. Il pericolo delle infiltrazioni criminali è incombente”. Napoli. Detenuto 38enne morto a Poggioreale, disposta l’autopsia di Ciro Cuozzo Il Riformista, 18 aprile 2021 Sarà l’autopsia a fare chiarezza sulle cause che hanno portato al decesso di Mariano Svetti, il 38enne deceduto venerdì 16 aprile nel carcere di Poggioreale. La salma dell’uomo, malato di Aids e cirrosi epatica, è stata trasferita al Secondo Policlinico di Napoli in attesa dell’esame autoptico. Svetti era ristretto nel padiglione Roma, quello riservato ai tossicodipendenti, e si era costituito presso la casa circondariale Giuseppe Salvia il 16 gennaio scorso. Doveva rispondere di ricettazione e resistenza a pubblico ufficiale e nei prossimi giorni era attesa l’udienza con l’ipotetico trasferimento in comunità. Padre di tre figli di 10, 6 e 3 anni, Svetti era originario di Afragola ma viveva con la moglie a Boscoreale. Il giorno prima del decesso, giovedì 15 aprile, aveva parlato, in videochiamata, con la donna. Mercoledì aveva incontrato il suo avvocato e avuto una consulenza epidemiologica per i problemi al fegato. La famiglia, attraverso l’avvocato Francesco Paolo Chioccarelli, è pronta a nominare un perito di parte. “In carcere non si muore soltanto di suicidio - sottolinea Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti - ma anche a causa delle condizioni delle stesse carceri carcere, dello stato di abbandono in cui si trova la sanità penitenziaria. Poi ci sono le storie di tossicodipendenza come in quest’ultimo caso e sono felice che ci sarà l’autopsia per far luce su questa morte”. Ciambriello poi si dice “amareggiato come garante” per le misure alternative al carcere che non sempre vengono concesse, nonostante la pandemia in corso. “Non voglio limitarmi a dare nomi e a dare numeri. Però proprio i numeri servono a far prendere coscienze anche in questo periodo eccezionale dove credo sia necessario, dove è possibile, adottare misure alternative al carcere”. La vicenda è seguita anche da Pietro Ioia, garante del comune di Napoli, anche lui contattato dalla famiglia del detenuto. Venezia. Carceri, focolaio Covid alla Giudecca e le vaccinazioni si sono bloccate di Laura Berlinghieri La Nuova Venezia, 18 aprile 2021 Il Garante dei detenuti Steffenoni: “Situazione complicata Attività e laboratori sono ormai bloccati da mesi”. La loro unica finestra sul mondo è nei ritagli tra le inferriate. Vivono così, da oltre un mese, gli oltre duecento detenuti del carcere maschile di Venezia e le settanta della Giudecca. Chiusi nelle loro celle, la mascherina da indossare sempre, il sottofondo assordante della televisione come unica compagnia. I libri da leggere, quando il silenzio lo consente, qualche partita a carte, qualche parola, protetta da una mascherina da non togliere mai: nemmeno in cella, in quel microcosmo condiviso con le stelle persone. Di giorno, prima del Covid, le porte all’interno delle sezioni delle due carceri rimanevano sempre aperte. Da quando il virus è penetrato a Santa Maria Maggiore e al femminile, le due strutture si sono trasformate in un carcere nel carcere. In quei quadrati fino a sessanta metri quadri e impermeabili al mondo esterno vivono anche in otto. Lì cucinano, lì mangiano, lì dormono, lì trascorrono giornate che non sono mai state così uguali. Da quando c’è il Covid, tutti i laboratori esterni sono stati interrotti, le porte delle celle sono perennemente chiuse. Immaginate un monolocale condiviso con altre sette persone. Sempre lì: il mattino, il pomeriggio, la sera, la notte, e poi ancora il mattino seguente, e poi il pomeriggio, e così per un mese e più. Sono conviventi a tutti gli effetti, eppure devono indossare la mascherina sempre. Anche in cella, condividendo gli spazi con i compagni che sono sempre gli stessi. Per uscire nel corridoio, i detenuti devono vestirsi come i medici di terapia intensiva: tuta, doppia mascherina, copriscarpe, guanti, visiera. “È una situazione insostenibile, che è giusto venga raccontata”, sintetizza Sergio Steffenoni, garante dei detenuti di Venezia. La situazione sembrava essere rientrata sabato, al carcere femminile, con gli esiti dei tamponi che mostravano a un passo lo spegnimento del focolaio. Le porte delle celle erano state riaperte. Sembrava la fine di incubo. Un nuovo giro di controlli, per prudenza, e poi la batosta: sei positivi tra le detenute e tre tra il personale penitenziario, responsabile della sicurezza. Al maschile, i contagiati sono rispettivamente tre e due. Qui il cluster non si è mai spento, e ai detenuti non resta che contare giorni sempre uguali, in quei quadrati di mondo che si ritrovano a calpestare. Fortunatamente i positivi sono tutti asintomatici. Eppure le vaccinazioni, nelle due carceri, erano iniziate, salvo poi venire interrotte bruscamente, con il cambio di rotta della regione, che ha deciso di puntare sul criterio anagrafico. Al maschile, su oltre duecento detenuti, una cinquantina ha già iniziato la profilassi e altrettanti sono immuni, perché in passato positivi. Alla Giudecca, sono circa quaranta ad avere ricevuto la prima dose di AstraZeneca. Poi, a metà marzo, l’accensione del focolaio, con oltre venti positivi, ha costretto a interrompere tutto. La percentuale di adesione alla vaccinazione, tra i detenuti, era stata elevatissima. E dei buoni numeri si erano registrati anche tra il personale penitenziario. Del resto, nessuno meglio di chi vive le carceri sa cosa voglia dire isolamento. Bloccate le visite, vietato ricevere pacchi dall’esterno, la concessione dovuta al Covid consiste in una video chiamata in più a settimana. Per il resto, è un mondo che si è interrotto. “Al femminile, c’è una persona che va nell’orto a dare da bere alle piante, perché non muoiano. Poi ci sono le detenute che escono per fare le pulizie, per gettare la spazzatura, per fare la spesa, costrette a vestirsi come fossero medici di ospedale. Pochi pomeriggi fa ho visto tantissimi rifiuti speciali, pronti a venire gettati dopo essere stati usati. Nelle carceri ora è tutto bloccato ed è una situazione pesantissima”, spiega Steffenoni. “Prima del Covid, i detenuti erano abituati ad andare a lavorare la mattina, prendevano parte ai laboratori, frequentavano la scuola, facevano volontariato. Le celle delle sezioni erano sempre aperte, dalla mattina al pomeriggio, e i detenuti potevano andare in biblioteca, in chiesa, in profumeria. Ora è un mondo che si è capovolto. Tutto è stato sospeso ed è una situazione molto dura, per i detenuti e per gli agenti. Senza contare che questo è anche periodo di Ramadan”. Con le sue parole, Steffenoni restituisce dignità e una “individualità” a persone altrimenti “accatastate”, private della loro singolarità. “Nel carcere femminile, il comandante è presente tre giorni a settimana, la direttrice praticamente non c’è, le assistenti sociali non ci sono più ed è rimasta una sola educatrice. Non si può più pensare di continuare a queste condizioni”, conclude Steffenoni, dipingendo un quadro di una drammaticità che va oltre il Covid. Macerie a partire dalle quali costruire ciò che verrà dopo. Bologna. Covid e carcere, il Garante: “Vaccini snodo fondamentale per la sicurezza” di Antonella Scarcella bolognatoday.it, 18 aprile 2021 Antonio Ianniello, Garante per i Diritti delle persone private della Libertà personale del Comune di Bologna, lancia un appello: “Fate presto”. Mentre fuori si ricomincia a parlare di riaperture, dentro, nelle carceri, di ritorno alla normalità e vaccini sembra non se ne occupi ancora nessuno. La denuncia arriva per voce del Garante per i Diritti delle persone private della Libertà personale del Comune di Bologna, Antonio Ianniello, che lancia un appello: “Fate presto”. La vaccinazione, infatti, vista la mancanza di spazio e il conseguente sovraffollamento, alla Dozza oltre 200 detenuti in più, è fondamentale per prevenire la diffusione del contagio ma, perché no, propone il Garante, anche valutare di ridurre la pena detentiva in relazione al periodo trascorso in carcere durante la pandemia potrebbe essere una soluzione. “La specificità del locale contesto penitenziario in cui l’emergenza sanitaria ha fatto irruzione è nota: una preesistente e cronica condizione di sovraffollamento (attualmente presenti oltre 700 persone a fronte di una capienza regolamentare di 500) per la quale l’impossibilità strutturale di poter instaurare quel distanziamento fisico necessario alla tutela della salute delle persone può incidere sull’aggravamento del rischio sanitario, anche potendo evidentemente fungere da acceleratore della diffusione del contagio”, scrive il Garante. “Manca quella risorsa essenziale e preziosa che (anche) nella situazione data è lo spazio, e di conseguenza la saturazione degli spazi detentivi può essere all’ordine del giorno proprio perché la disponibilità di spazio è la condizione necessaria per riuscire a garantire l’attivazione degli interventi di prevenzione e contenimento della diffusione del contagio, restando ferma, in questa ottica, la necessità di deflazionare la popolazione detenuta”. “Così - continua - proprio nel momento in cui per la società esterna s’iniziano a intravedere prospettive concrete di riapertura, l’auspicato e graduale ritorno alla normalità in carcere resta per il momento ancora al palo e incerto. Perché, lo si torna a ricordare, l’emergenza sanitaria ha comportato l’accentuazione del profilo meramente custodiale della detenzione, avendo le attività trattamentali (e gli ingressi della società esterna, compresi i contatti in presenza con i congiunti) risentito di (necessarie) sospensioni e riduzioni, anche connesse all’andamento del contagio all’interno. In tale dimensione anche l’irrigidimento delle condizioni detentive, seppur necessariamente correlato a esigenza sanitarie, ha davvero raggiunto profili piuttosto accentuati”. “In un simile contesto - ragiona Ianniello - avrebbe un significato particolare se nelle sedi competenti s’iniziasse a valutare l’opportunità di concedere una riduzione della pena detentiva correlata al periodo trascorso in carcere durante il tempo dell’emergenza sanitaria, nella misura che si riterrà concretamente più adeguata. La campagna di vaccinazione resta lo snodo fondamentale per mettere in sicurezza la locale comunità penitenziaria così che possa davvero partire un percorso verso un graduale ritorno alla normalità, anche per le persone detenute. Sin dal principio la campagna di vaccinazioni aveva interessato le professionalità sanitarie che operano all’interno del carcere e nei mesi scorsi aveva riguardato anche gli operatori penitenziari (e anche parte dei volontari), in questo caso non ancora completata”. “Le recenti indicazioni della struttura commissariale hanno individuato le attuali priorità vaccinali nelle fasce d’età e nelle categorie fragili (over 80, persone estremamente fragili, disabili gravi). Anche a livello regionale si resta in attesa di ulteriori indicazioni da parte della struttura commissariale per capire come organizzare il piano d’intervento vaccinale per le persone detenute, restando ovviamente ferma la necessità di adeguate forniture di dotazioni vaccinali. L’auspicio - conclude il Garante - in ragione dei profili accennati, è che si possa fare presto”. Torino. Il Tribunale lo condanna a 4 mesi di carcere, ma nessuno sa quale sia il suo nome Il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2021 L’uomo non ha mai declinato le proprie generalità durante i controlli della polizia, al punto che negli atti consegnati al suo avvocato d’ufficio per questo processo, dove era imputato per resistenza a pubblico ufficiale, è stato indicato come “sconosciuto”. È stato condannato a 4 mesi di carcere dal Tribunale di Torino, ma nessuno sa quale sia il suo nome, né quanti anni abbia o dove sia nato: di fatto, un fantasma. L’uomo infatti non ha mai declinato le proprie generalità durante i controlli della polizia, al punto che negli atti consegnati al suo avvocato d’ufficio per questo processo, dove era imputato per resistenza a pubblico ufficiale, è stato indicato come “sconosciuto”. Il “fantasma” è stato arrestato lunedì 15 marzo, in via Cernaia a Torino da una volante della Questura. “Gli avevamo solo chiesto - ha raccontato l’assistente di polizia intervenuto - di mettere la mascherina, visto che non la stava indossando. È diventato aggressivo e violento. Capiva l’italiano, ma ci insultava in francese. Un atteggiamento inspiegabile, perché con sé non aveva armi, droga o cose del genere. In Questura ha dato ancora in escandescenze e non ha voluto dirci chi era. Sembrava che vivesse in un mondo tutto suo e non volesse essere disturbato. Uno arrabbiato con il sistema”. L’uomo non è nuovo a fatti analoghi, come è emerso dalle analisi delle impronte digitali. “Non mi era mai capitato niente del genere - ha commentato il suo avvocato, Paola Giusti - avessi avuto contatti con lui forse avrei gli elementi per chiedere una perizia psichiatrica, ma è un fantasma”. Bergamo. Il carcere intitolato a don Resmini, cappellano morto di Covid di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 18 aprile 2021 “C’è molta trepidazione, ansia, ma anche tanta gioia. Don Fausto era una persona eccezionale. Nella notte tra il 22 e il 23 marzo 2020 è venuto a mancare non solo un uomo, un religioso, limpido esempio di umanità evangelica, ma una risorsa per l’intera istituzione penitenziaria, per l’amministrazione, un punto di riferimento per tutti i soggetti che a vario titolo interagiscono con la nostra comunità”. La voce della direttrice della Casa circondariale di Bergamo, Teresa Mazzotta, è rotta dalla commozione nel ricordare la figura di don Fausto Resmini, cappellano per oltre trent’anni dell’istituto lombardo, scomparso poco più di un anno fa per le complicanze causate dal covid-19, all’età di 67 anni. Al sacerdote, lunedì prossimo, verrà intitolato il carcere alla presenza del ministro della Giustizia, Marta Cartabia, e del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia. “La sua capacità di entrare in empatia con i detenuti non aveva eguali” racconta la direttrice, sottolineando che don Fausto: “Era il padre spirituale con cui rivedere in senso critico una condotta censurabile o consolidare la fede in un momento di difficoltà. L’amico a cui confessare ansie e timori o su cui contare per far fronte a situazioni di indigenza. Diventava supporto anche per le famiglie delle persone private della libertà personale”. Nato a Lurano, un piccolo centro in provincia di Bergamo il 7 aprile del 1952, frequenta il patronato di San Paolo d’Argon fin da piccolo e qui comincia il suo percorso formativo, proseguito poi presso il Centro di Sorisole. Poi la scelta della Cattolica di Milano, frequentando la facoltà di giurisprudenza e dopo circa un anno i corsi di Teologia nel seminario di Bergamo. Ordinato sacerdote nel 1978, fonda la comunità Don Lorenzo Milani grazie all’aiuto di alcuni ragazzi che aveva seguito come assistente educatore e che lo affiancheranno per tutti gli anni successivi. Nel 1987, la prima volta come volontario nel carcere di Bergamo. Entra così in contatto con il mondo penitenziario degli adulti, incontrando persone che avevano sbagliato ma che, al tempo stesso, mostravano fragilità ed erano bisognose di conforto. “Quei poveri di spirito protagonisti del Discorso della montagna ai quali avrebbe dedicato tutta la sua vita” riprende la direttrice. Don Resmini è stato ricordato anche dal presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi, il 18 marzo scorso, in occasione della cerimonia in ricordo delle vittime del Covid tenutasi proprio a Bergamo. Il presidente del Consiglio lo inserì a pieno titolo nelle figure “simbolo di resistenza civile”, definendolo “prete degli ultimi”. “Con lui rendiamo omaggio ai sacerdoti della diocesi bergamasca deceduti per il virus” ha detto Draghi nell’occasione. Cappellano a Bergamo dal 1992, il sacerdote si è molto adoperato nell’accompagnamento dei detenuti, durante la fruizione dei permessi premio con un lavoro, di raccordo con la magistratura di sorveglianza “esplicitando chiaramente gli obiettivi del suo operato, cioè favorire le relazioni tra genitori e figli minori”. In questo, continua Mazzotta “ha lavorato per sostenere i momenti di aggregazione familiare anche all’interno del carcere”. Quanto al rapporto con i ristretti, don Fausto credeva nel recupero individuale e sociale delle persone private della libertà personale. “Attraverso un dialogo costante e prendendo le mosse dal trauma conseguente all’ingresso in istituto, senza voler influire sulla libera scelta dell’individuo, interagiva con lui alla stregua della maieutica socratica, ne sollecitava un’autonoma presa di coscienza di eventuali errori e delle conseguenze pregiudizievoli che ne erano derivate in un’ottica di liberazione dal peso della sofferenza. Trasmetteva valori che partivano dal rispetto verso sé stessi e verso gli altri, alleviando così la sofferenza nella prospettiva del futuro reinserimento sociale”. La sua missione guardava con attenzione anche a chi lavorava in carcere (agenti di Polizia penitenziaria e personale amministrativo): “Costruiva un secondo rapporto di collaborazione fondato sulla fiducia, sul rispetto, sulla stima” rivela Mazzotta. “Era un punto di riferimento anche per progettualità specifiche sul benessere del personale stesso. Una presenza costante in manifestazioni ufficiali. Ricordo, ad esempio le feste della Polizia penitenziaria officiate all’esterno della struttura dove pronunciava sempre parole che davano lustro e prestigio al corpo. Costruiva rapporti con i singoli, oltre che con le loro famiglie. Aveva sempre per tutti parole di conforto ed incoraggiamento”. La direttrice, infine, ricorda il suo rapporto di stretta collaborazione con don Resmini: “All’ingresso in istituto era solito passare sempre dal mio ufficio e oggi ho la sua foto che mi sorride e avverto il suo sostegno e il suo conforto, anche se confesso che mi mancano veramente i suoi saggi consigli. Mi manca l’impossibilità di condividere con lui un’idea, un progetto. Tutti noi oggi condividiamo il ricordo di un grande uomo, di un grande sacerdote. Egli ha voluto massimamente tra queste mura mettere a profitto il suo impegno a favore del prossimo. La prospettiva della realizzazione della dignità della persona è stata la finalità che ha contrassegnato la vita e la sua opera”. Ascoli. Detenuti del carcere di Marino in campo: partite di calcio due volte alla settimana Corriere Adriatico, 18 aprile 2021 Prosegue l’impegno rivolto al sociale da parte della Fondazione Carisap che da sempre si esprime con azioni concrete anche a sostegno dei detenuti dell’Istituto penitenziario Marino del Tronto con il progetto “Il mio campo libero”. L’iniziativa verrà attuata nell’anno in corso, e rientra nelle attività ideate dal CSI (Centro sportivo italiano) del comitato provinciale di Ascoli Piceno, presieduto da Antonio Benigni. Il progetto si svolgerà presso il campo sportivo del carcere e prevede due appuntamenti di calcio settimanali (ognuno della durata di due ore) curati dall’istruttore Valentino D’Isidoro con il coinvolgimento dei detenuti di due sezioni diverse. La sezione “comune” occuperà il campo il giovedì (dalle 13 alle 15) mentre i detenuti della sezione “protetti e articolazione salute mentale” parteciperanno agli appuntamenti il martedì mattino (dalle 9 alle 11). Il sostegno della Fondazione Carisap, si trasforma in una grande opportunità per i detenuti del Marino in modo speciale per i reclusi della sezione “articolazione salute mentale” affetti da malattie di natura psichiatrica, per i quali l’attività fisica svolta all’aperto rappresenta un’occasione che rende migliore e più salutare la qualità della vita quotidiana. Il valore del progetto e della sua realizzazione resa possibile dalla Fondazione incide inoltre sul beneficio singolare e collettivo di tutti i detenuti che aderiscono all’iniziativa, sia per gli aspetti prettamente salutari psicofisici legati allo sport, che per combattere il rischio dell’alienazione sociale dettata dall’interruzione dei vari progetti svolti in presenza, così come nel rispetto delle norme anti-contagio Covid-19. Questo progetto si rende essenziale, in quanto è parte di una proposta molto più ampia che il Centro Sportivo Italiano intende attuare. Magali Bessone, fare giustizia della schiavitù di Jamila Mascat Il Manifesto, 18 aprile 2021 Una intervista con la filosofa politica che insegna all’Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne. “Le riparazioni finora implementate in Francia sono riconducibili a pratiche memoriali, di studio e ricerca. Mentre i crimini coloniali sono più recenti, qui siamo di fronte a crimini di cui siamo eredi. La mia proposta di giustizia politica non è prettamente socio-economica, non è soggettivo-identitaria né giuridico-giudiziaria. Ambisce piuttosto a formulare e mettere in opera dispositivi che consentano oggi alle minoranze marginalizzate, eredi di una specifica storia di dominazione che coinvolge la tratta e la schiavitù, di rivendicare e ottenere diritto di cittadinanza nell’arena del dibattito pubblico. Questa parità partecipativa, che non esiste allo stato attuale, è ciò che permetterebbe una reale riconfigurazione politica del demos”. È possibile riparare i crimini del passato? Ed è giusto risarcire i discendenti di chi quei crimini li ha subiti? Le compensazioni economiche, d’altra parte, assolvono una funzione realmente riparatrice? Magali Bessone, che insegna filosofia politica all’Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne ed è autrice del libro “Faire justice de l’irréparable” (edito da Vrin), suggerisce che la storia, pur non essendo suscettibile di essere effettivamente “riparata”, fornisca valide ragioni per legittimare la necessità di combattere al presente le ingiustizie sociali che di quella storia remota sono eredi. Nel corso degli ultimi anni il dibattito sulle riparazioni postcoloniali ha acquisito una risonanza crescente a livello internazionale. In particolare il dibattito sulle riparazioni della schiavitù e della tratta, a cui è dedicato il suo libro, è un tema di grande attualità negli Stati Uniti, dove nel 2019 è stata creata una commissione apposita, la H.R. 40, per discutere l’implementazione di eventuali politiche di compensazione destinate agli afroamericani discendenti di schiavi. Cosa dicono le coordinate del dibattito statunitense rispetto alla legittimità di queste richieste? Negli Stati Uniti le richieste di riparazione per la schiavitù sono oggetto di un dibattito acceso e tutt’altro che unanime, tanto attraverso lo spettro delle diverse forze politiche, quanto all’interno della comunità afroamericana. La questione delle riparazioni ha una storia molto lunga, che rimonta alla fine della Guerra di Secessione e alla promessa decretata nel 1865 dal generale W.T. Sherman di redistribuire le terre dei latifondisti del Sud agli schiavi liberati in piccoli lotti di 40 acri - “40 acri e un mulo”, questa la proposta originaria di riparazione che dà il nome all’attuale Commissione parlamentare. Nel periodo della Ricostruzione questo provvedimento è stato di fatto revocato. Da allora la presenza del tema delle riparazioni nel dibattito pubblico statunitense è stata altalenante. Il movimento per i diritti civili degli anni Sessanta si è concentrato soprattutto sulla lotta contro la segregazione e sulla battaglia per il diritto di voto, il problema delle riparazioni era praticamente assente. Nel 1973 il libro di Boris Bittker, The Case for Black Reparations, è stato di nuovo un intervento importante sull’argomento. Poi nel 1989 la questione è ritornata in auge quando il deputato democratico John James Conyers Jr. ha presentato al Cogresso la proposta di creare una “Commissione di studio sulle proposte di riparazione per le popolazioni afroamericane”, reiterandola di anno in anno fino a che non fosse accolta. E più recentemente, nel 2014, Ta-Nehisi Coates ha rilanciato la discussione con il suo articolo “The Case for Reparations” pubblicato su The Atlantic, che sviluppa una lunga e dettagliata ricostruzione di come la comunità afroamericana di Chicago sia stata duramente penalizzata nell’accesso alla proprietà immobiliare fin dall’epoca della Ricostruzione, ingenerando una condizione di privazione e indebitamento trasmessa progressivamente alle generazioni future. Ma il dibattito francese è molto diverso da quello statunitense almeno per due ragioni principali: da un lato il rapporto alla schiavitù, che negli Stati Uniti riguarda direttamente il territorio nazionale, mentre non riguarda la Francia “metropolitana”, piuttosto le ex-colonie e i territori d’Oltremare; dall’altro, per il fatto che la Francia, a differenza degli Stati Uniti non riconosce l’esistenza di minoranze etnico-razziali, le quali non vengono censite e quindi in un certo senso non esistono. Questo potrebbe preludere, sul versante francese, a una conversazione sul razzismo e sulle riparazioni - sulle politiche memoriali, come anche sulla ricerca e l’insegnamento a proposito di questi temi - concepiti come questioni riguardanti la cittadinanza tutta intera e non solo singoli gruppi e comunità. Parliamo allora dello stato dell’arte del dibattito sulle riparazioni per la schiavitù in Francia, che è all’origine della sua ricerca. Quali sono le caratteristiche e i limiti del dibattito francese? Quali le principali implicazioni politiche e ripercussioni giuridiche? In Francia la questione delle riparazioni per la schiavitù ha una cronologia ben specifica, distinta per esempio dalla questione delle riparazioni dei crimini coloniali molto più recenti, che risale al 1848, data dell’abolizione della schiavitù dopo la proclamazione della Seconda Repubblica. Considerando che i crimini coloniali sono più recenti, e alcune delle vittime tuttora in vita, in questi casi è possibile contemplare provvedimenti penali o misure di compensazione immediate. Invece nel caso della schiavitù il problema è totalmente diverso: qui siamo di fronte a crimini di cui siamo “eredi”, pur non essendone noi i colpevoli. E quindi in che misura ne siamo responsabili? In Francia il dibattito sulle riparazioni è emerso nel 1998 in occasione del 150° anniversario dell’abolizione della schiavitù. In quell’anno si sono tenute una serie di manifestazioni e commemorazioni, in particolare nei territori d’Oltremare, ma non solo. E in concomitanza con queste celebrazioni è apparso per la prima volta il tema delle riparazioni, con la costituzione di varie associazioni nate con lo scopo di sollevare pubblicamente la questione e portare avanti delle iniziative giudiziarie. Con la legge Taubira del 2001, che qualifica la tratta e la schiavitù di crimini contro l’umanità, la Francia sembrava essere all’avanguardia sul fronte delle riparazioni. A settembre dello stesso anno il dibattito sulle riparazioni è stato inaugurato su scala internazionale alla Conferenza di Durban contro il razzismo, dove razzismo e discriminazioni per la prima volta sono stati esplicitamente associati alla possibilità di essere “riparati” sulla base del riconoscimento dell’esistenza di disuguaglianze sociali importanti all’interno delle nostre società che rinviano a una lunga storia di dominazione coloniale, di sfruttamento e di schiavitù. La riparazione è intesa quindi come una politica d’intervento al presente che però sottintende la comprensione del presente come un effetto del passato. E sono proprio gli effetti persistenti del passato che meritano di essere riparati. La Conferenza di Durban avvia una discussione piuttosto accesa tra le delegazioni dei diversi paesi che partecipano, le ngo, gli attivisti per i diritti umani: vengono formulate le prime rivendicazioni, ma vengono verbalizzate altrettante obiezioni e contestazioni del principio stesso di riparazione. La legge Taubira del 2001, nata con lo scopo di sollevare la questione delle riparazioni tanto sul piano materiale che su quello simbolico, ha incontrato resistenze su più fronti nel corso del suo iter parlamentare. La discussione della legge in parlamento ha finito per rimuovere il tema delle riparazioni dalla versione definitiva, eliminandone la portata originaria e dirottandola sul versante memoriale. I pareri contrari a una politica delle riparazioni in Francia sono tanti. Tra le obiezioni ricorrenti ritorna l’argomento che, se si ammette il principio, si apre uno scenario assurdo in cui un’infinità di gruppi sarebbero suscettibili di costituirsi per chiedere di essere riparati delle ingiustizie subite storicamente: dalle donne agli ugonotti vittime della strage della Notte di San Bartolomeo nel 1572. Ora, per esempio, c’è chi sostiene che le donne in quanto tali non rappresentino un gruppo, e perché si parli di riparazioni c’è bisogno della costituzione di gruppi che producano una certa narrazione della propria storia e dei crimini subiti rivendicando l’esigenza di interventi riparatori nei confronti delle ingiustizie persistenti che derivano da quei crimini - è la posizione del filosofo statunitense Jeff Spinner-Halev, autore di Enduring Injustice (2012). Catherine Lu, autrice di Justice and Reconciliation in World Politics (2017), sostiene invece che quando si tratta di ingiustizie strutturali - e non interazionali, ovvero legate a interazioni puntuali tra individui o comunità - non è necessario partire dalla costituzione di soggetti di gruppo come fondamento delle riparazioni, nella misura in cui queste ultime riguardano le infrastrutture di una società e non specifiche comunità. L’altra peculiarità del contesto francese è la dimensione giuridica della faccenda. Dopo la legge Taubira, associazioni come il Mir (Mouvement International pour les Réparations) Martinique, il MIR Guadeloupe o il Cran (Conseil Représentatif des Associations Noires de France) hanno presentato richieste di riparazione in tribunale. Il primo caso, quello portato avanti dal Mir Martinique, ha avuto un iter giudiziario complicato al termine del quale le richieste di compensazione delle vittime e di fondi per la creazione di un’organizzazione dedicata a lavorare sul tema delle riparazioni, sono state respinte in prima istanza per prescrizione dei fatti e non retroattività della legge attuale. Poi ci sono stati altri casi presentati dal Cran, ad esempio, rispetto alla schiavitù a Haïti e al lavoro forzato, ma sono stati tutti respinti inizialmente. Il problema è che il diritto civile francese, per com’è strutturato, non consente di accogliere queste richieste. Le uniche riparazioni finora implementate in Francia sono riconducibili alle pratiche memoriali, di studio e di ricerca: la commemorazione del 10 maggio, anniversario della proclamazione della legge Taubira, con cui si celebra l’abolizione della schiavitù; la creazione della Fondazione per la Memoria della Schiavitù nel 2019, del cui comitato scientifico faccio parte, che finanzia ricerche sull’argomento, lavora al rinnovamento e alla diversificazione dei programmi d’insegnamento della storia nelle scuole superiori e promuove la produzione di conoscenze sul tema. Diciamo quindi che in Francia le politiche riparatrici sono finora state esclusivamente implementate sul piano simbolico e memoriale, ma non giudiziario. “Faire justice de l’irréparable” si confronta con i principali paradigmi della giustizia tradizionalmente mobilitati a sostegno delle domande di riparazione. I due paradigmi della giustizia correttiva e della giustizia distributiva sono entrambi ritenuti insufficienti dal suo punto di vista. Per quali ragioni? Si parla di giustizia correttiva e distributiva facendo riferimento ai modelli aristotelici classici. La prima interviene per ristabilire l’uguaglianza violata da un’ingiustizia e rinvia attualmente alla sfera del diritto della responsabilità civile. Questo è il paradigma entro cui si collocano giuridicamente le domande di riparazione presentate in Francia dalle associazioni che menzionavo prima. Si tratta di un diritto individualista che si dimostra incapace di rispondere all’esigenza di riparare crimini come la schiavitù e la tratta in quanto crimini strutturali e collettivi, non riconducibili a colpevoli singoli e identificabili. La schiavitù e l’insieme delle disuguaglianze razziali che ne derivano, per la loro natura sistematica e globale, chiamano in causa un complesso economico-politico-giuridico inestricabile di fronte al quale lo schema individuale vittima/carnefice si rivela inappropriato. In primo luogo, secondo questo schema, quando parliamo di riparazioni per la schiavitù dovrebbe essere ristabilita una catena causale non facilmente rintracciabile. Poi c’è il problema di determinare come interviene la compensazione finanziaria che non può riparare il danno materiale perpetrato alle vittime, ma soltanto gli “eredi” del trauma psichico, di cui si deve poter dimostrare la trasmissibilità, e delle sue conseguenze materiali. E qui si apre un’altra voragine: Chi stabilisce il trauma? Non si rischia in questo modo di patologizzare chi è in realtà alla ricerca di un riscatto? Cosa possono davvero riparare i soldi rispetto a trascorsi di dominazione, sfruttamento, violenza ed espropriazione culturale? Ultimo ma fondamentale, un ostacolo giuridico preliminare consiste nel sottolineare che la giustizia retributiva non può intervenire per correggere un’ingiustizia ritenuta tale retrospettivamente. Ora secondo questa logica la schiavitù, oggi considerata un crimine contro l’umanità, non lo era all’epoca e quindi non è suscettibile di essere considerata ex post come una violazione della legge. Se facciamo invece riferimento al paradigma distributivo, incontriamo un altro tipo di ostacoli. Per prima cosa bisogna essere in grado di identificare i gruppi svantaggiati quali destinatari delle politiche riparatrici. Quel che è difficile, in particolare, è stabilire se gli svantaggi e le disuguaglianze che colpiscono questi gruppi siano causalmente imputabili alla schiavitù e alla tratta; e il legame di causalità non è facile da provare in maniera irrefutabile. Quindi dal punto di vista della giustizia distributiva sarebbe piuttosto opportuno riformulare la questione in un’altra maniera: si tratterebbe di riparare le disuguaglianze sociali, posto che se si parla di povertà, per esempio in un contesto come quello statunitense, si parla soprattutto, ovviamente, di comunità afroamericane. Secondo una tale prospettiva, peraltro, evocare le disuguaglianze permetterebbe di occuparsi del problema senza utilizzare categorie etnico-razziali che possono avere effetti socialmente divisivi, dal momento che sembrano chiedere ad alcuni di pagare il prezzo per le riparazioni che spettano ad altri. Nel suo libro sviluppi una teoria della giustizia che pensa la questione delle riparazioni oltre il prisma delle politiche del riconoscimento. Al centro della sua proposta c’è il concetto di “responsabilità” opposto a quello di “colpa”. Cosa vuol dire avere la responsabilità di riparare il passato? Le teorie del riconoscimento à la Axel Honneth non funzionano quando si tratta di porsi il problema delle riparazioni, perché il riconoscimento è concepito in chiave identitaria e soggettiva. Invece l’approccio di Nancy Fraser mi sembra più vicino a quel che propongo. Per Fraser il riconoscimento è fondamentale quando è pensato come diritto alla parità partecipativa. L’idea di una parità di partecipazione rinvia alla necessità di acquisire per tutti uno status politico paritario, ma anche all’esigenza di partecipare all’elaborazione di una narrazione pubblica della storia dei gruppi, delle comunità e delle minoranze di cui facciamo parte. La mia proposta di giustizia politica non è prettamente socio-economica, non è soggettivo-identitaria né giuridico-giudiziaria. Ambisce piuttosto a formulare e mettere in opera dispositivi che consentano oggi alle minoranze marginalizzate, eredi di una specifica storia di dominazione che coinvolge la tratta e la schiavitù, di rivendicare e ottenere diritto di cittadinanza nell’arena del dibattito pubblico. Questa parità partecipativa, che non esiste allo stato attuale, è ciò che permetterebbe una reale riconfigurazione politica del demos. Il concetto di parità partecipativa in Fraser e il concetto di “responsabilità per la giustizia” della fenomenologa femminista Iris Marion Young mi sembra funzionino bene insieme. E soprattutto permettono di rispondere alle obiezioni più classiche che vengono avanzate contro le richieste di riparazione e che fanno riferimento alla nozione di colpa: perché noi che siamo innocenti e non colpevoli dovremmo sacrificarci per loro, che non sono spesso neanche le vittime dirette dei crimini che necessitano di essere riparati? Con Young possiamo distinguere colpa e responsabilità e liberarci della colpa e del pentimento che non servono a molto. Così possiamo dire che siamo responsabili delle riparazioni, pur non essendo colpevoli e pur non essendo responsabili causalmente né moralmente dei crimini all’origine delle conseguenze sociali e degli effetti materiali che oggi esigono di essere riparati. Ciò di cui siamo responsabili è la trasformazione delle strutture esistenti, delle istituzioni comuni di cui possiamo beneficiare tutti in quanto cittadini, fermo restando che di fatto non ne beneficiamo tutti allo stesso modo, ma solo in funzione dei vari privilegi di cui disponiamo o non disponiamo. In ogni caso siamo tutti e tutte responsabili delle strutture sociali e politiche dentro le quali esistiamo. Questa responsabilità può e deve essere condivisa. Per cui, ancora una volta, non è questione di mea culpa o pentimento, ma di responsabilità per il cambiamento, per l’azione e la trasformazione delle misure giuridiche, dei dispositivi sociali e delle politiche pubbliche che strutturano la nostra esistenza. Dal punto di vista di una teoria normativa della giustizia, qual è il ruolo specifico che spetta alla storia? Perché, insomma, abbiamo bisogno di mobilitare la storia per “riparare” il presente? Fare giustizia al presente spesso significa porsi il problema di come correggere un’ingiustizia storica, un’ingiustizia che ha una storia che non si può fare finta che non sia mai esistita. C’è, come dicevo, un problema relativo all’impossibilità di dimostrare dei nessi causali incontestabili tra gruppi svantaggiati e ingiustizie storicamente subite. E c’è anche un problema supplementare che riguarda la difficoltà di stabilire in che cosa consiste questa eredità dei torti, i cui eredi non è facile definire. Però ritengo che la storia abbia un ruolo cruciale, che rende necessario parlare di riparazioni anziché semplicemente di disuguaglianze. Non possiamo accontentarci di dire che il problema sono le disuguaglianze perché, da un certo punto di vista non tutte le disuguaglianze sono ingiuste, e quindi l’appello all’uguaglianza può essere respinto. Invece è importante concepire le disuguaglianze come ingiuste, e perciò si tratta appunto di identificarle come ingiustizie. Ora qui comincia il dissenso: quando si tratta di identificare e classificare le disuguaglianze in base al loro livello d’ingiustizia. Ma potremmo dire che una disuguaglianza è ingiusta se è il frutto di una storia ingiusta. Per questo, perché le disuguaglianze siano considerate ingiuste, abbiamo bisogno della storia, che ci consente di dimostrare che c’è un’eredità, una trasmissione, e una persistenza delle strutture della dominazione del passato. Così, è proprio alla luce della storia che la disuguaglianza appare come un’ingiustizia contro cui lottare al presente. Come dice Iris Marion Young abbiamo bisogno della storia per capire come siamo arrivati a questo punto, passando in rassegna i mutamenti, le oscillazioni e le contraddizioni. La storia serve ad additare la fonte e l’origine dei problemi. Senza far ricorso alla storia ci priviamo di strumenti fondamentali per capire quel che oggi deve essere trasformato e per determinare come farlo efficacemente. Le sfide della pandemia, il potere e il trionfo dell’avidità di Marco Revelli Il Manifesto, 18 aprile 2021 Di avidità parla tutta la vicenda del pessimo andamento della campagna vaccinale europea. Avidità dei signori di Big Pharma, che lautamente finanziati dai poteri pubblici privatizzano spudoratamente i profitti, riservando dosi ai migliori offerenti anche a borsa nera, e tradiscono impunemente impegni contrattuali selezionando ad arbitrio i sommersi e i salvati. “Greed is good!”. Ricordate l’esclamazione di Michael Douglas alias Gekko in quel grande film di Oliver Stone, Wall Street, sul “denaro che non dorme mai”: “L’avidità è buona!”? È tornata a risuonare in questi giorni, in una video-conferenza riservata per i parlamentari inglesi, per bocca di Boris Johnson che si è lasciato andare a proclamare che la vittoria sul Covid, ottenuta col vaccino, la si deve a “capitalismo e avidità”. Non ha detto, il premier inglese, che a quella stessa avidità è dovuto il record di morti da lui collezionato in Europa nella fase precedente in cui il virus era lasciato correre a briglia sciolta pur di non sacrificare il business. E poi ha anche dovuto invocare la cancellazione di quella voce dal sen fuggita, quando gli hanno fatto notare che l’Europa avrebbe potuto prenderla male, imputando appunto all’avidità britannica il proprio deficit di Astra Zeneca, che pure aveva finanziato abbondantemente (pare per il 95%) e che si è vista accaparrare dall’avidità d’oltremanica. E tuttavia, falsificante sulla questione della vittoria sul virus, l’avidità la dice lunga piuttosto sull’ideologia dei ceti dirigenti attuali, anche di quelli che se ne vergognano a nominarla. Di avidità parla in realtà tutta la vicenda del pessimo andamento della campagna vaccinale europea. Avidità dei signori di Big Pharma, che lautamente finanziati dai poteri pubblici privatizzano spudoratamente i profitti, riservando dosi ai migliori offerenti anche a borsa nera, e tradiscono impunemente impegni contrattuali selezionando ad arbitrio i sommersi e i salvati. Avidità degli stati più forti nel tentativo di avviare trattative separate con i fornitori a scapito degli altri. E poi - allargando il campo - avidità dei Paesi ricchi, Europa in testa (che al Wto si è macchiata dell’imperdonabile crimine di votare contro la proposta dei paesi svantaggiati di sospendere il copyright dei farmaci antivirus) nei confronti di quelli poveri. Basta guardare la graduatoria globale delle coperture vaccinali, con in testa Stati Uniti e Gran Bretagna (con circa il 60% di popolazione vaccinata almeno con una dose) e al fondo la Nabibia (con lo 0,1) e lo Zambia (con lo 0%). Eppure tutti gli epidemiologi con un po’ di sale in zucca dicono che se non si eradica il virus in tutto il mondo, non si sarà mai sicuri, rischiando che le varianti prosperino nelle periferie del globo. Ma come si sa l’avidità è cattiva consigliera, sorella gemella del masochismo. Né si può dimenticare, infine, l’avidità dei Signori della terra, quello sparuto gruppetto di miliardari che mentre buona parte della popolazione mondiale arretrava, hanno continuato ad arricchirsi a dismisura: secondo l’ultimo rapporto Oxfam dedicato a Il virus della diseguaglianza, dal marzo 2020 la ricchezza dei 36 miliardari italiani classificati come tali è cresciuta di oltre 45,7 miliardi di euro, e quella dei miliardari mondiali ha raggiunto il record storico di 11.950 miliardi. Sempre secondo l’Agenzia i 540 miliardi accumulati dai primi 10 super-ricchi nel mondo nell’anno della pandemia sarebbero sufficienti a “garantire un accesso universale al vaccino e assicurare che nessuno cada in povertà per il virus”. Se poi dal campo largo del pianeta si scende alla scala minore di casa nostra, la musica non cambia. Non solo e non tanto per l’indecente spettacolo dell’arlecchinata regionale, ogni Governatore a sgomitare per contendersi i favori del generale logistico. Ma anche, e soprattutto, per il rischio mal calcolato delle riaperture e per la vicenda del Recovery Plan o, come si dice in politichese, del PNRR, ovvero di quel “piano nazionale” che nell’ostentare nella propria denominazione il tema della Resilienza (ovvero del ritorno di un oggetto contuso alla sua precedente forma) non promette niente di buono quanto a cambio di paradigma e di rimedio ai tanti precedenti errori che disseminano la vicenda del trionfo della logica d’impresa applicata al bene pubblico. Vicenda grottesca nella sua opacità, se ancora oggi, a dieci giorni dalla scadenza, si sa poco o nulla dei suoi contenuti, sigillati nelle stanze di Palazzo Chigi e nei cassetti del ministro Franco, dopo che si era crocifisso il povero Giuseppe Conte perché non condivideva, quattro mesi fa, urbi et orbi, il proprio “plan”. E dopo che l’unico materiale fornito al Parlamento (che l’opposizione di ieri, oggi in maggioranza, intimava di coinvolgere nella discussione) sono le schede elaborate da quell’Esecutivo dinamitato con l’accusa di reticenza sui progetti. Bene, a guardare dentro la scatola nera custodita da Draghi, o meglio a tentare di interpretare i flebili messaggi che ne fuoriescono, s’intuisce che anche qui l’avidità abbia una parte consistente. Che quel “tesoretto” per assicurarsi il quale la Confindustria di Bonomi e tutto l’esercito dei vecchi e nuovi depredatori del Paese aveva scatenato da subito la guerriglia contro il governo giallo-rosso, sembra ora molto, ma molto a loro portata di mano. Vorrà dire qualcosa che il primo atto, fulmineo, sia stato l’avvio di 57 grandi opere con annessi Commissari speciali, che sono lo strumento madre di tutte le speculazioni (qui si tratta di 83 miliardi). O che si parli di revisione delle procedure d’appalto?O che ancora si attivi la retorica degli “investimenti” in contrapposizione con i sussidi e o sostegni (unica forma per garantire la sopravvivenza alla galassia molecolare dei piccoli falcidiati da un anno di quaresima)? Vedremo cosa ne viene fuori quando l’uomo della provvidenza aprirà il suo tabernacolo. Ma che ne esca fuori un qualche spirito santo è lecito dubitare. Fiammetta Borsellino: “Riapriamo le scuole, stiamo perdendo i nostri ragazzi” di Fiammetta Borsellino L’Espresso, 18 aprile 2021 La lettera della figlia del giudice ucciso dalla mafia nel 1992 al presidente del Consiglio: “I giovani in strada prede della criminalità, anche Tar e Consiglio di Stato hanno detto che senza dati non si può prevedere solo la Dad”. Scrivo questa lettera per esprimere il dolore di mamma e cittadina di questo Paese per il grave danno che la compressione del diritto allo studio provocata da una didattica a distanza, da troppo tempo prolungata, sta determinando nella salute psicofisica dei bambini, delle bambine, dei preadolescenti e adolescenti del nostro Paese. ll sacrificio a cui li stiamo sottoponendo evolverà inevitabilmente, se non prontamente risolto con soluzioni adeguate, in danni irreparabili. È oramai evidente come i ragazzi, ogni giorno di più, stiano perdendo entusiasmo e stimoli ma, soprattutto, il sentimento dell’amore verso ciò che studiano, perché imparare non vuol dire solo seguire dei programmi ministeriali ma anche crescere nella capacità di gestire relazioni, scambi, emozioni e ciò può avvenire principalmente a scuola. Oggi la vita dei giovani si svolge principalmente dietro ad uno schermo che, al pari delle droghe e delle nuove dipendenze, provoca solo l’illusione di riempire le giornate caratterizzate invece da un vuoto assoluto. È importante difendersi dal virus ma è altrettanto importante è curare la salute dell’anima. Oggi i nostri bambini e ragazzi sono dei fiori che appassiscono ogni giorno di più, sepolti nelle loro stanze e noi adulti stiamo diventando i principali complici di tale situazione. Stiamo insegnando ai nostri figli che in tempo di crisi la prima cosa ad essere sacrificata è l’istituzione della scuola, della cultura, ovvero di quei valori che mio padre ha sempre considerato come la prima vera forma di contrasto alle mafie e che sono gli unici capaci di togliere alle stesse il consenso giovanile di cui si nutrono. Oggi, il perdurare della chiusura totale o parziale delle scuole di ogni ordine e grado, nonché la eliminazione pressoché totale dell’attività sportiva, musicale e teatrale, sta consegnando centinaia di ragazzi alla rete delle organizzazioni criminali. Mi chiedo perché queste scelte si stiano portando avanti nonostante le recenti pronunce giurisdizionali del Tar vadano in una direzione completamente opposta, avendo accolto nel merito il ricorso di cittadini nei confronti dei Dpcm che disponevano la chiusura delle scuole. Il Tar, infatti, ha ribadito che la scuola non è un luogo privilegiato di contagio ma anzi, in caso di picchi di contagi, deve essere l’ultimo presidio a chiudere. Ha stabilito che l’uso prolungato della didattica a distanza è lesivo del diritto allo studio e del diritto alla salute, perché la scuola è salute che, ricordo, sono entrambi diritti costituzionalmente garantiti. Ha stabilito che le scuole di ogni ordine e grado devono rimanere aperte. Oggi tutto questo viene ignorato. La ripresa delle scuole fino alla prima media è un segnale importante da parte del Governo a tutela degli alunni e delle alunne, ma insufficiente per la salvaguardia del benessere psicofisico dei preadolescenti e dei ragazzi delle scuole superiori, moltissimi dei quali in didattica a distanza da oltre un anno con conseguenze disastrose, come confermato dall’Associazione degli ospedali pediatrici italiani e dalle Associazioni che tutelano infanzia e adolescenza. Il nostro Paese continua non proteggere i suoi cittadini più piccoli e i suoi giovani privandoli del luogo privilegiato della loro crescita: la scuola. È oramai evidente come la didattica a distanza sia uno strumento di insegnamento inefficace, svilente per gli insegnanti, discriminatorio per gli studenti provenienti da famiglie fragili e lesivo nei confronti degli alunni con disabilità o con difficoltà di apprendimento. In ultimo, in molte Regioni si insiste a non bilanciare adeguatamente diritto alla salute e diritto allo studio con continui provvedimenti incongruenti di chiusura delle classi. In queste Regioni, specialmente nel Sud Italia, sono gli stessi Sindaci e Governatori a sbarrare i cancelli delle scuole persino a studenti disabili e con bisogni educativi speciali, attraverso ordinanze restrittive in palese contraddizione con le direttive nazionali. L’Italia non è un paese per giovani e per famiglie se non riconosce che per tutti gli studenti, la scuola è salute, anche e soprattutto in tempo di pandemia. Liti sul lodo Zan: lenti e divisi sui diritti, l’anomalia italiana di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 18 aprile 2021 Il progetto vuole offrire maggiori protezioni a chi viene emarginato, vuoi per inclinazione o scelta sessuale vuoi per fragilità fisica e psicologica. Paesi come la Francia ci sono arrivati nel 2004 (e governava la destra di Chirac), gli Stati Uniti nel 1974. Le metafore vanno tutte in direzione bellica. Guerra al virus. Battaglia sulle ripartenze. E mettiamoci pure la lotta nel fango per un diritto civile che renderebbe meno facile prendersela con chi ha l’unica colpa di non essere eterosessuale, e quindi non “normale”, oppure disabile, e quindi “anormale”. Questo principio è contenuto in un disegno di legge, che si chiama Zan dal cognome del suo relatore e che è rimasto impigliato nel passaggio di governo tra Conte e Draghi. Sul suo contenuto si sta consumando una tensione sotterranea ma crescente nella maggioranza, un braccio di ferro sull’identità dell’esecutivo non così trascurabile. Non è un tempo di pace quello che stiamo faticosamente vivendo. I partiti stentano a resistere alle sirene elettorali, per quanto lontane, e non perdono occasione per marcare il territorio. Eppure è proprio in questa stagione delicatissima che si stabilirà come saremo tra qualche mese, nei prossimi anni. In gioco ci sono decisioni cruciali. La più strategica riguarda i fondi attesi dall’Europa: a vantaggio di quale idea dell’Italia verranno ripartiti? Si punterà ad accorciare le distanze sociali, divaricate dalla pandemia, oppure si investirà di più sulle potenziali locomotive, sperando che trascinino il resto del treno? Due strade opposte, un bivio fatale per la politica, e per i cittadini. Che diritto hanno i diritti umani per infilarsi in una congiuntura tanto complessa? È l’argomento usato da Giorgia Meloni, leader del principale partito d’opposizione, quando dice che il Parlamento dovrebbe occuparsi di cose più importanti dell’omofobia. Sulla stessa linea, anche se con altri argomenti, Matteo Salvini, leader del principale partito di maggioranza (per i sondaggi, non per i voti del 2018): “Ognuno è libero di amare chi vuole e chi aggredisce va punito con forza, come già prevede il codice penale. La legge Zan è solo una battaglia ideologica che rischia di limitare la libertà di parola e di pensiero”. Vero, e ci mancherebbe, che ognuno è libero di amare chi vuole, anche se rischia di fare la fine del cinquantenne picchiato ad Augusta perché gay, dei due ragazzi presi a schiaffi a Roma mentre si baciavano, della ventiduenne Malika di Castelfiorentino cacciata di casa quando ha confessato di essere lesbica (“fai schifo, sei la rovina della famiglia”). Meno vero che una norma contro l’intolleranza possa limitare qualsivoglia libertà. Il deputato Alessandro Zan è del Pd. Il neo segretario del partito Enrico Letta gli ha appena ribadito il pieno sostegno, garantito anche dai 5 Stelle e dalle forze che sostenevano il Conte bis, durante il quale la legge era già passata alla Camera il 4 novembre 2020. Da allora aspetta di approdare al Senato. Ma nel frattempo il governo è cambiato, con la Lega dentro è un’altra cosa, e il caso Zan ha le caratteristiche per diventare una simbolica e insidiosa pietra d’inciampo. In un Paese che ha saputo imboccare strade molto più divisive, per le singole coscienze e per il clima generale dell’epoca (divorzio 1970, aborto 1978), sembrerebbe scontato offrire maggiori protezioni a chi viene emarginato, vuoi per inclinazione o scelta sessuale vuoi per fragilità fisica e psicologica. Paesi come la Francia ci sono arrivati nel 2004 (e governava la destra di Chirac), gli Stati Uniti nel 1974. Secondo uno studio di Vox, Osservatorio italiano sui diritti, le categorie più bersagliate dall’odio sono sei. Prima le donne (che meriterebbero un voluminoso corpo di tutele a parte); a seguire, ebrei e musulmani, migranti, omo e transessuali, disabili. Le minoranze religiose hanno lo scudo, almeno teorico, della legge Mancino del 1993; i migranti neanche quello, tolleranza sotto zero, per quelli che vengono dal mare come per i residenti senza l’onore della residenza. Quanto alle tre ultime fasce, ad altissimo tasso di vulnerabilità, le garanzie di incolumità e di pari trattamento sono generiche e in sostanza assenti, quasi che la relazione tipo, maschio-femmina-eventuali figli (e tutti in salute), fosse l’unica opzione prevista, lecita e benedetta. Nella vita reale non è più così da decenni, ma per il legislatore lo è ancora, con le diversità relegate a storture da sopportare con fastidio, o meglio da correggere, invece di considerarle come differenze da accogliere e rispettare. Il lodo Zan, il disegno di legge rimasto sospeso a metà, prevede più o meno questo: riconoscere l’esistenza di queste differenze, prendere atto della loro condizione di maggiore fragilità, e applicare delle aggravanti a chi ne attenti alla dignità. In aggiunta, consentirebbe un po’ di educazione civica al rispetto, cominciando dalle scuole, rimettendo sulla via della tolleranza un Paese che al momento è al 35° posto in Europa per accettazione della vasta e variegata comunità non eterosessuale, cinque posizioni davanti alla Polonia di Duda, che ha appena vietato l’aborto, o all’Ungheria medievale di Orban. Il Rinascimento da tanti invocato, da ultimo proprio da Salvini (“Stiamo lavorando a un’estate da boom economico, post bellica, l’inizio di un Rinascimento sociale e mentale”), non passa né da Budapest né da Varsavia. Ne siamo stati culla una volta. Peccato sarebbe lasciarlo sbocciare altrove. Del tunnel della pandemia si intravede la fine. Che però non è domani. Siamo terz’ultimi in Europa per vaccinazioni ai settantenni (peggio di Grecia e Portogallo) e con una media di più di 3 mila morti a settimana (contro i 200 della Gran Bretagna). Ma il Paese preme, la parte più rumorosa ha deciso che basta così, la parte più responsabile è angosciata dal dopo che verrà. E il dopo, l’Italia da ricostruire quando il fantasma del Covid sarà davvero alle spalle, passa anche dall’applicazione concreta, e adeguata ai tempi, dell’articolo 3 della nostra Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali”. Un vaccino a copertura totale contro l’odio. L’omofobia, una voce per tutte, è una paura trasformata in aggressione. Una feroce paura verso chi è altro: gay, lesbo, transgender, bisex, disabile. Andrea Camilleri aveva trovato una buona formula per disarmarla: non bisogna mai temere l’altro, perché tu rispetto all’altro sei l’altro. Negli occhi dei pazzi: viaggio nei luoghi della malattia mentale di Daniele Mencarelli Corriere della Sera, 18 aprile 2021 I pazzi fanno paura. Perché colgono i precipizi dell’esistenza, perché li affrontano, per come lo può fare un essere umano, senza armi, difese. I pazzi fanno paura. Da sempre. Per sempre. Guardano quello che gli altri, i normali, non riescono a sostenere con lo sguardo. E alla fine si bruciano. Dal troppo dolore. Ma la malattia mentale non può essere una narrazione sempre uguale a sé stessa. Nulla che appartenga all’umanità è veramente immutabile, figuriamoci i suoi mali, visceralmente intrecciati a tempi e luoghi del vivere. L’arte, quando è vera, sa cristallizzare l’umano all’infinito. Lo eterna. Ognuno di questi scatti vibra di esistenza. Un milione di persone per una Asl - I malati che vedrete vi rimarranno addosso, incastrati negli occhi, continueranno a parlarvi per giorni. Partiamo dall’arena. Asl Roma 1. L’azienda sanitaria locale che copre quasi interamente tutta Roma Nord. Una popolazione residente di oltre un milione di persone, pari al trentasei per cento dell’intera Capitale, quasi duecentomila immigrati regolari, il quaranta per cento e oltre dell’intero bacino dell’area metropolitana. Nel territorio della Asl Roma 1 insistono due carceri, la Casa circondariale di Regina Coeli, con ottocento reclusi e un turn over di circa cinquemila detenuti l’anno, e l’Istituto di pena minorile di Casal del Marmo, settanta detenuti di età compresa tra i 14 e i 25 anni. Ecco la scena di questa perlustrazione per immagini e parole. Nella lotta contemporanea alla malattia mentale gli acronimi la fanno da padroni. Uno per ogni luogo di cura, creato con precise finalità. I luoghi non sono disposti in un ordine orizzontale, non sono tutti uguali. A luogo corrisponde gravità, momento, fase della vita del paziente. Gli acronimi del disagio mentale - Procediamo in ordine di gravità. SPDC. Servizio psichiatrico diagnosi e cura. Sono i reparti ospedalieri, quelli che accolgono i TSO, cioè i pazienti sottoposti a trattamento sanitario obbligatorio. Il TSO, introdotto dalla legge Basaglia, viene comminato con un iter giuridico molto preciso che prevede anche il coinvolgimento del comune di residenza del soggetto. Ma gli SPDC non accolgono solo TSO, più in generale servono come primo contrasto alla fase acuta della malattia, nel momento di crisi, quando un malato può essere pericoloso per sé e per gli altri. Per fortuna, le fasi acute non sono la norma. Il paziente psichiatrico viene preso in cura, attraverso il coinvolgimento della ASL di appartenenza, in quelli che oggi vengono chiamati CSM. Centri di salute mentale. Ex CIM. Centri di igiene mentale. “Spdc, Csm, Rems... nella lotta contemporanea alla malattia mentale gli acronimi la fanno da padroni. Uno per ogni luogo di cura, creato con precise finalità” Nel CSM i pazienti strutturano cure e terapie, attività di reinserimento sociale, di convivenza e relazione con gli altri pazienti e la comunità. In un certo senso, gli SPDC sono una prima linea del conflitto, mentre i CSM rappresentano l’ordinaria attività di cura del paziente. A queste due strutture se ne aggiungono altre, come le comunità, le case-famiglia, strutture che accolgono stabilmente il paziente psichiatrico, a cui offrono oltre al vitto e all’alloggio tutte quelle possibilità di scambio e relazione utili al suo miglioramento terapeutico. In un altro ambito ci sono i REMS, ovvero le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Quelli che una volta erano i manicomi criminali, dunque, i luoghi dove curare i pazienti che stanno scontando una condanna per reati di vario genere. La vita di un malato mentale trascorre dentro questi luoghi. I luoghi di eccellenza e le realtà devastate - E va detta una cosa per amore di verità, che vale per la Asl Roma 1 come per tante altre sparse sul territorio del nostro Paese. Esistono luoghi d’eccellenza, dove il paziente è in primis un individuo, dove l’empatia è la pratica terapeutica fondamentale, il primo farmaco, medici e personale assistenziale dedicati realmente alla loro professione. Di contro, esistono realtà totalmente devastate, nei luoghi e nelle persone che le animano, dove il malato è in buona sostanza il proprio male, non una persona che ha sviluppato una patologia ma che rimane innanzitutto degna d’ascolto e attenzione. Purtroppo, come spesso capita nelle narrazioni dominanti, è il brutto, il malfunzionante, a essere portato come norma, a diventare nell’immaginario collettivo la verità definitiva. Pazzia è restare fedeli a certe narrazioni - Già. Le narrazioni. Spostiamoci dai luoghi alle nuove cause scatenanti, quelle maggiori, che tanto impattano sulla proliferazione delle patologie psichiatriche. Non solo per la malattia mentale, cambiare il racconto di certi fenomeni della nostra vita diventerà fonte di sopravvivenza vera e propria. Perché rimanere fedeli a certi racconti vuol dire, questo sì, essere veramente pazzi. Due sono i temi che hanno oggi enorme influenza nell’esplosione della patologia psichiatrica. Il primo è l’uso di sostanze. Il secondo l’immigrazione. Il rapporto tra uso di sostanze e lo sviluppo di patologie è vicino all’uno su uno. Dipendenze, i pazienti “doppia diagnosi” - I pazienti definiti Doppia diagnosi, quelli che presentano contemporaneamente patologia e dipendenza, sono sempre più numerosi. Chi vive e lotta sul campo della malattia mentale sconta le tante narrazioni mendaci. Novecentesche. Droghe leggere e pesanti. Legali e illegali. Il presente racconta un’altra storia. Una storia di adolescenti che iniziano a frequentare le sostanze rubando magari lo Xanax della madre, per poi passare alla Ketamina, mischiarla con il Viagra per avere la performance sessuale che si vede in rete. “Storie di adolescenti che iniziano a frequentare le sostanze rubando lo Xanax alla madre, per poi passare alla ketamina. Il rapporto fra uso di sostanze e patologie è vicino all’uno a uno” Quel che si dice sugli effetti della droga - Riformulare totalmente la narrazione sulle sostanze. Questo sarà uno dei grandi compiti del prossimo futuro. Mettere al centro il soggetto, partendo da un dato banale per quanto vero. Non esistono sostanze leggere o pesanti. Date una nocciolina a un allergico alle arachidi e rischierà di morire davanti ai vostri occhi. Lo stato dell’arte della malattia mentale oggi fa dell’immigrazione una causa scatenante seconda giusto alle dipendenze. Sembra lo scherzo di un Dio bizzarro. Dopo tanto penare, dopo aver ingoiato ogni genere di sofferenza, arriva la malattia, come una cicatrice sulla pelle che ricorda a queste persone tutto il passato, divenuto patologico presente. Cambiano le cause e cambiano le terapie, gli obiettivi della cura. La moderna psichiatria punta a normalizzare il malato mentale. Per anni il concetto è stato quello della riserva indiana. Costruire aree sostanzialmente isolate, al di fuori delle comunità dei sani, dove far vivere e interagire i pazienti fra loro, una specie di sub-umanità autoriferita, con le proprie regole sociali. Non è più così. Reintrodurre il paziente nel contesto territoriale - Oggi la scommessa è di reintrodurre progressivamente il paziente nel proprio contesto territoriale, farlo vivere in autonomia, in appartamenti creati con queste finalità, non ultimo il reinserimento nel mondo del lavoro. Un lavoro vero, retribuito, non le tante attività, nobilissime ma poco remunerative, che per anni hanno svolto i malati. I “normali” che evitano dolori inutili - Anche in questo caso le narrazioni intervengono eccome. Facile riempire di bisogni un uomo che naviga a vista, privo di una vera relazione con la sua identità. L’uomo normale evita i temi che dal suo punto di vista non solo non troveranno mai risposta, ma che danno come unica certezza la produzione di un dolore al dunque inutile. Facendo questo si convincono di aver debellato il dolore e, cosa ancora più grave, di dominare la propria natura. I pazzi fanno il contrario. Vivono in feroce devozione della propria natura, come falene che non riescono a controllare l’attrazione per la luce, con l’unica certezza di bruciarsi. Ma tra un uomo troppo fedele a sé stesso, al punto d’impazzire, è un altro totalmente distaccato da ciò che è nel profondo chi scegliere? Può esistere una mediazione sana? Sì. Certo. Ma per arrivare a questo compromesso non possiamo pensare che la psichiatria sia l’unica materia da utilizzare, l’unica disciplina possibile. L’uomo contemporaneo ha dismesso lingue fondamentali, che servivano proprio a quell’esercizio mai del tutto realizzato che si chiama conoscenza di sé. La letteratura, in particolare la poesia. La filosofia. Le religioni. Sterminati campi del sapere dove dare sfogo alla propria ricerca esistenziale. Invece di censurarla, negarla, entrare davvero in ascolto della nostra natura, natura come limiti con cui convivere, fragilità da rispettare anziché combattere. Ma per farlo occorre togliere dalla teca della storia le lingue di cui sopra, pompare nelle loro vene sangue fresco. Oggi l’automatismo tra malessere e patologia psichiatrica è diventato assolutamente naturale. Il ricorso alle cure mediche non arriva più dopo aver percorso tutte le altre vie per così dire ordinarie, ma è il primo a cui approdare di fronte al malessere. Il primo e l’unico possibile. A riprova della progressiva patologizzazione delle nostre vite basta dare ascolto alla lingua oggi in uso e alla quantità di termini medici, in particolare psichiatrici, che hanno preso il posto di altre parole totalmente disperse. Passate qualche ora ad ascoltare i vostri figli. Fobia, ansia, paranoia, panico, sono termini che ne hanno soppiantati altri, come paura, timore, preoccupazione. Parliamo per come viviamo. Confondere anche l’amore per disturbo - Anche sotto questo aspetto, non abbiamo altra scelta che tornare alle tante e meravigliose lingue che ci hanno condotto per mano lungo tutta la nostra storia. Senza di esse, l’uomo procederà sempre di più verso una condizione di malattia generalizzata, un malato cronico che confonde anche l’amore per disturbo. Perché un approccio terapeutico, per quanto illuminato, così come il farmaco più giusto, non bastano a fare di un individuo un individuo sano. E nel profondo di ognuno di noi, questa consapevolezza resiste. Basta guardare gli occhi dei pazzi che vivono in queste fotografie. Oltre l’apparente bruttura, l’emarginazione, i corpi segnati dalla sofferenza, ci raccontano un dolore che vive anche dentro di noi. Basta avere il coraggio di guardarlo. La transizione ecologica non è un lavoro per pochi di Dante Caserta* Il Manifesto, 18 aprile 2021 Pnrr, chi l’ha visto? È fondamentale garantire il dibattito pubblico su tutte le opere importanti, comprese quelle della transizione ecologica, attraverso una procedura che permetta di stabilire tempi certi e, al contempo, assicuri il diritto dei cittadini a essere informati, a confrontarsi sui contenuti progettuali, ad avere risposte sulle preoccupazioni ambientali e sanitarie. Da un lato la scarsa trasparenza, l’opacità delle procedure e le carenze dei progetti. Dall’altra la sindrome di “nimby” (not in my backyard, ossia non nel mio giardino) o di “nimto” (not in my terms of office, non nel mio mandato). Questo dualismo micidiale, a volte reciprocamente giustificante, è una delle ragioni del blocco di tante opere nel nostro Paese. E il rischio che ciò si verifichi anche per gli interventi finalizzati alla transizione ecologica è reale. Per evitarlo non occorrono procedure straordinarie o riduzioni di tutele, ma trasparenza delle informazioni, partecipazione e qualità dei progetti, al fine di garantire un confronto serio per affrontare e risolvere i problemi, ridimensionando lo spazio delle conflittualità sterili o di comodo. Con questa consapevolezza Acli, ActionAid, Arci, Casa Comune, Cittadinanzattiva, Fridays for future, Greenpeace, Gruppo Abele, Legambiente, Libera, Link Coordinamento Universitario, Rete della Conoscenza, Unione degli Studenti e Wwf Italia hanno promosso il “Manifesto per il dibattito pubblico sulle opere della transizione”, un segnale chiaro inviato al Presidente Mario Draghi e ai ministri che lavorano al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza a partire da Roberto Cingolani (ministro della transizione ecologica) ed Enrico Giovannini (ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili). È fondamentale garantire il dibattito pubblico su tutte le opere importanti, comprese quelle della transizione ecologica, attraverso una procedura che permetta di stabilire tempi certi e, al contempo, assicuri il diritto dei cittadini a essere informati, a confrontarsi sui contenuti progettuali, ad avere risposte sulle preoccupazioni ambientali e sanitarie. Per questo va rivista la normativa sul Dibattito pubblico (Dpcm 76/2018, Allegato 1) e sull’Inchiesta pubblica (articolo 24-bis, Decreto Legislativo 152/2016) e, inoltre, va rafforzata la macchina amministrativa di determinati settori per essere in grado di istruire ed esaminare nel dettaglio e con competenza i progetti, nonché di relazionarsi con i portatori di interesse. Oggi in Italia l’informazione dei cittadini e la partecipazione ai processi decisionali per l’approvazione dei progetti non è garantita. Nella scorsa legislatura è stata approvata la procedura di dibattito pubblico per le nuove opere pubbliche, ma l’iter di attuazione, completatosi solo da pochi mesi, prevede soglie dimensionali talmente elevate da escludere persino autostrade, centrali a gas, elettrodotti o gasdotti. Non solo, il Decreto semplificazioni dello scorso anno, con la “scusa” dell’emergenza pandemica (che dovrebbe spingere a rafforzare la tutela ambientale e non certo a ridurla), ha pure introdotto una deroga fino al 2024. Pensare che la partecipazione rallenti l’iter delle opere è sbagliato. I lunghi tempi di approvazione in Italia dipendono spesso dalla scarsa qualità di molti progetti presentati. L’iter di valutazione ambientale è rallentato per l’inadeguatezza tecnica degli elaborati o per la mancanza di analisi costi/benefici anche dal punto di vista ambientale e sociale. I progetti fatti bene hanno tutto da guadagnare da un confronto pubblico che consentirebbe di spiegare le scelte, rispondere a dubbi e domande, approfondire gli aspetti ambientali e paesaggistici. Realizzare questo confronto prima dell’inizio della procedura permetterebbe di affrontare le questioni aperte, chiedere ai proponenti di dare seguito alle richieste di analisi più approfondite o presentare alternative. La sfida va accettata: se il Governo veramente vuole accelerare nella direzione della decarbonizzazione del proprio sistema energetico e della gestione circolare delle risorse naturali, oltre a semplificare l’iter autorizzativo dei progetti realmente sostenibili, dovrà essere in grado di coinvolgere sempre più i territori nelle scelte da compiere. *Vicepresidente Wwf Italia Migranti. Caso Open Arms, il gup ha deciso: Salvini va processato di Alfredo Marsala Il Manifesto, 18 aprile 2021 Processo al via il 15 settembre. Il giudice accoglie le motivazioni dell’accusa. L’avvocato Bongiorno: “Non è una condanna”. Ne avrà di tempo Matteo Salvini per guardare l’orizzonte dalla spiaggia sabbiosa e passeggiare nel lungomare di Mondello. Adora il ‘capitano’ questa borgata, ci va spesso quando si trova a Palermo. Anche ieri, prima di andare nel bunker dell’Ucciardone per l’udienza preliminare, Salvini aveva deciso di fermarsi un po’ per osservare in solitario le onde, godersi il profumo di sale mentre gustava una pizzetta con le acciughe, con il gruppetto di dirigenti di partito che lo guardava da lontano. Il cielo sopra di lui era però cupo, presagio di una giornata storta per il leader del Carroccio. Tre ore di arringa dell’avvocato Giulia Bongiorno, che ha letto le 110 pagine della memoria difensiva, non sono servite a convincere il gup, Lorenzo Jannelli. Salvini va a processo per avere impedito, nell’agosto di due anni fa, l’attracco della Open Arms nel porto di Lampedusa, col suo “carico” di 147 migranti. Il prossimo 15 settembre salirà sul banco degli imputati davanti alla Corte d’assise: dovrà rispondere all’accusa di rifiuto di atti d’ufficio e sequestro di persona. In poco meno di due ore di camera di consiglio, il gup ha accolto la richiesta della Procura di Palermo di rinvio a giudizio dell’ex ministro dell’Interno, respingendo così la tesi della difesa, che aveva chiesto il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste o, in subordine, per insindacabilità del fatto. Un duro colpo per Salvini: il processo, con i suoi tre gradi di giudizio, rischia di minacciare seriamente la sua corsa verso Palazzo Chigi, per il post-Draghi. Ma anche la sua leadership del Carroccio. Lui glissa: “Fortunatamente i giudici non decidono chi vince le elezioni e chi guida i partiti, almeno in Italia funziona così, in Turchia non lo so”. Tenta un affondo: “È una decisione dal sapore politico più che giudiziario”. Ma il suo volto è tirato. “Mi spiace per i miei figli, ma non torno a casa preoccupato”, assicura, anche se “passare per sequestratore proprio no, è ridicola l’idea, stiamo facendo ridere il mondo”. E poi “quanto costerà questo processo politico agli italiani? Chi pagherà il conto? Sono domande che mi faccio da libero cittadino”. Non è il solito show, comunque. Il Gup ha chiarito in aula che lo scopo dell’udienza preliminare non è quello di valutare se sussiste o meno la responsabilità penale dell’imputato, ma se ci sono elementi sufficienti a sostenere l’accusa in giudizio o elementi per decidere un proscioglimento. Per il giudice ci sono tutti, dunque, gli elementi raccolti prima dal Tribunale dei ministri che chiese l’autorizzazione a procedere e poi dalla Procura di Palermo, rappresentata in aula dal procuratore a Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Marzia Sabella e dal pm Gery Ferrara. Usa il tecnicismo legale, per tamponare l’onda d’urto, l’avvocato Bongiorno: “Questa è una udienza filtro, non c’è stata una sentenza di condanna, non c’è stata una valutazione negativa”. “Il gup ha precisato che la sua, come prevede la Corte Costituzionale, non è una valutazione di responsabilità penale”, sottolinea il legale. Che anticipa le prossime mosse difensive: “Io riproporrò in tribunale quanto ho detto in udienza preliminare, ho documentato che ci sono errori oggettivi anche nel capo di imputazione perché nessuna limitazione della libertà c’è stata. La nave poteva andare ovunque. Aveva centomila opzioni”. Per la penalista “ci sarà solo una dilatazione di tempi, ma alla fine emergerà la verità”, annunciando che in giudizio, come ha fatto a Catania nell’udienza per il caso Gregoretti (la Procura in questo caso ha chiesto l’archiviazione), citerà l’ex premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio per dimostrare che il divieto di sbarco fu frutto di una valutazione politica dell’intero governo. “Perché così facendo - osserva - si sta portando a processo una strategia di governo, una linea condivisa nel contratto di programma”. Salvini anticipa l’atmosfera che ci sarà nell’aula di della Corte d’Assise: “La Open Arms ha fatto una battaglia politica sostenuta da alcuni partiti. In tribunale ci confronteremo su questo, perché io i voti li ho presi dagli italiani, il comandante della Open Arms non è stato eletto da nessuno”. “A mio avviso sul banco degli imputati dovrebbe esserci qualcuno che gioca sulla pelle degli esseri umani mettendone veramente a rischio la vita - afferma - Perché se qualcuno gira, non per sei giorni, il tempo del mio presunto sequestro, ma per 13 giorni per il Mediterraneo in attesa di raccogliere altri immigrati, chi è il sequestratore? Chi gioca sulla pelle di questi poveri ragazzi? Sono contento perché al processo sono convinto emergeranno delle verità: ora sopporto cristianamente la decisione”. Fu la procura di Agrigento a sbloccare il caso Open Arms. Dopo avere accertato con un’ispezione a bordo le gravi condizioni di disagio fisico e psichico dei profughi trattenuti sull’imbarcazione, il procuratore Luigi Patronaggio ordinò lo sbarco a Lampedusa. All’udienza preliminare si sono costituite 21 parti civili: oltre a 7 migranti di cui uno minorenne, Asgi (associazione studi giuridici immigrazione), Arci, Ciss, Legambiente, giuristi democratici, cittadinanza attiva, Open Arms, Mediterranea, AccoglieRete, Oscar Camps, comandante della nave e Ana Isabel. Alcuni attivisti e militanti hanno inscenato un piccolo presidio davanti al bunker dell’Ucciardone, tenuti a distanza dalle forze dell’ordine che hanno blindato l’area attorno al penitenziario. “Non ho sequestrato nessuno, anzi ho dissequestrato milioni di italiani lavorando per fare riaprire bar e ristoranti il 26 aprile”, dice Salvini prima di salire in auto. Direzione aeroporto. Tornerà il 15 settembre a Palermo, questo è certo. Nelle fosse comuni della Libia il mattatoio del Nordafrica di Francesca Mannocchi L’Espresso, 18 aprile 2021 Migranti e detenuti hanno scavato 17 sepolcri. Lì sono spariti i nemici delle milizie di Haftar. Un potere costruito sul terrore che ora rappresenta un’ipoteca per la ricostruzione alla quale partecipa l’Italia. Il vortice di vento alza una polvere rossa che copre le case, le strade, la moschea che si affaccia su un pendio. Il lembo di terra che si estende dalla moschea alla fine della piccola valle è della famiglia di Hamza Abdullah. Hamza procede a passi lentissimi, al tramonto, le sue parole si confondono col sibilo del vento, via via più forte, via via più acuto. Ripete sempre le stesse parole, rimestate col vento sembrano una preghiera, ma non lo sono: “Era la sua terra. Era casa sua. Lui voleva essere sepolto qui”, dice Hamza. Lui era suo padre e quel frammento di terra all’estremità della città era il suo angolo di riposo. Oggi è il sepolcro privato di cinque persone. Il padre di Hamza, i suoi tre fratelli e un cugino. Portati via una notte d’inverno e uccisi. La casa di famiglia è diventata una casa di sopravvissuti. Lui si è salvato perché non era in Libia, ma in Scozia per un dottorato di ricerca. Hamza è un ingegnere civile. O almeno lo era. Quando hanno rapito gli altri uomini della sua famiglia è tornato a casa a prendersi cura di quello che restava: le donne e gli interrogativi sulla scomparsa. Mentre varca la porta di ingresso evoca i movimenti di quella notte: le macchine nere ferme all’esterno ad aspettare, un gruppo di uomini armati che si arrampica sul tetto e gli altri che entrano buttando giù le porte di ogni stanza e portando via gli uomini, uno dopo l’altro. I sepolcri della nuova Libia - Hamza conosce ogni dettaglio perché lo raccontano, ogni giorno, la madre e le sorelle che si muovono ancora come fantasmi, tra i panni stesi ad asciugare e i resti di una vita infranta. “Mio padre era un manager al ministero dei Trasporti, un giorno gli hanno chiesto di firmare dei documenti per approvare dei progetti, appalti affidati illegalmente a “loro”. Mio padre si è rifiutato. Gli hanno detto solo: ti facciamo saltare la testa. Ha preso le sue cose, ha lasciato l’ufficio e ha cominciato a temere per la vita di tutti. Li hanno portati via prima che riuscissero a lasciare la città”. Quando dice “loro” Hamza intende la milizia al-Kani, lo spietato gruppo armato che ha gestito ogni aspetto di Tarhouna per anni. “Tutti sapevano cosa accadeva qui, il governo precedente di Sarraj, il governo attuale. È stato sempre noto a tutti eppure nessuno li ha fermati”. Hamza continua ancora oggi a ricevere minacce, anche a distanza. Mostra il telefono: “Ti prenderemo”, gli scrivono utenti anonimi a nome degli al-Kani. Continua a non dormire, come le sue sorelle e i bambini. Come sua madre che da quella notte parla a stento, a stento mangia, a stento esce di casa. “Ci difenderanno dagli assassini prima o poi, o lasceranno per sempre il paese in mano alle milizie?”, lo dice Hamza più a sé stesso che alle persone presenti nella stanza, lo dice pensando alla sua paura degli al-Kani che invece sono in salvo, fuggiti a est, in Cirenaica e lì protetti dalle forze di Haftar. Ad aspettare, forse, che il vento cambi ancora. A capire, forse, come riposizionarsi, per l’ennesima volta. Basterebbe la storia di Tarhouna a raccontare cosa è stata la Libia, cosa è oggi, cos’è il timore di quella che sarà. Basterebbe la storia recente della città e i segreti sepolti nelle fosse comuni, finora diciassette, scoperte dopo la fine dell’ultimo conflitto, la scorsa primavera. Tarhouna è stata dominata dalla tribù al-Kani, sette fratelli - Abdul-Khaliq, Mohammed, Muammar, Abdul-Rahim, Mohsen, Ali e Abdul-Adhim - che per otto anni hanno imposto a migliaia di persone un regime di terrore. Gheddafiani e dunque controrivoluzionari nel 2011, gli al-Kani hanno saputo riposizionarsi ogni volta che è cambiato il vento. Hanno organizzato una potente brigata militare che contava migliaia di combattenti e preso il controllo della città. Come la maggior parte delle milizie hanno beneficiato dell’accesso ai fondi statali e costruito il consenso sul potere delle armi. L’altro volto del potere seguiva le regole della vendetta tribale e dell’estorsione. Hanno sugellato la propria autorità seminando terrore, a Tarhouna ricordano la sfilata di un convoglio dei loro veicoli militari, nel 2017. Un camioncino bianco trasportava sul tetto due leonesse come simbolo della paura che i fratelli al-Kani intendevano ispirare. Raccontano qui, a voce bassa, che per sfamarle i sette fratelli usassero i corpi dei nemici. Gestivano ogni aspetto della vita civile, uno stato nello stato. Controllavano la polizia, hanno rilevato il cementificio e lo stabilimento della fabbrica di acqua minerale di Qasr Ben Ghechir e tutte le altre società situate nel sud di Tripoli fino a Tarhouna, hanno costruito un impero commerciale imponendo ai negozianti di intestare loro ogni attività, e hanno costruito un tesoretto con i rapimenti. Ricevevano segnalazioni dalle filiali delle banche sui titolari di conti correnti e li prelevavano a casa di notte. Tenevano in vita i rapiti per fargli ritirare tutti i risparmi dai conti correnti e poi li uccidevano, lasciando il corpo esposto all’incrocio stradale all’ingresso della città che da allora si chiama “il triangolo della morte”. Si facevano pagare anche dai trafficanti di uomini e dai contrabbandieri di carburante, perché Tarhouna è sul tragitto che dal deserto conduce alla costa. Chi passava per la città doveva pagare il pedaggio, cioè una tangente. Hanno usato i soldi raccolti per rafforzare il loro arsenale militare e per portare mercenari locali e stranieri, anche ciadiani e sudanesi. In questa città-stato ogni fratello ricopriva un ruolo, Abdul Rahim per esempio era a capo dell’apparato di sicurezza, Moshen era il responsabile della milizia armata. È suo il volto che campeggia sul muro di una caserma. Era un murale celebrativo. Oggi è crivellato di colpi. Nel 2016 gli al-Kani hanno sostenuto (e, nei fatti, sono stati sostenuti anche economicamente) il governo di Fayez al Sarraj. Allora Khalifa Haftar li definiva una milizia legata a Lifg, cioè i qaedisti locali, poi, all’inizio della guerra di Tripoli, con l’ennesimo riposizionamento, sono diventati i principali alleati di Khalifa Haftar, hanno cambiato casacca e hanno appoggiato chi fino al giorno prima era stato loro nemico. Sono stati celebrati dai media di Haftar come “forze militari delle unità d’elite” e hanno combattuto la guerra di Tripoli con esecuzioni esemplari, come quella di dodici prigionieri delle truppe di Sarraj, li hanno rapiti, torturati, hanno tagliato loro i genitali, hanno brutalizzato i loro corpi, smembrandoli. Haftar ha trasformato la città, ottanta chilometri a sud est di Tripoli, in un punto strategico per attaccare la capitale, prendere Tarhouna poteva significare lanciare attacchi cruciali per conquistare la capitale, perdere Tarhouna significava perdere la guerra. E infatti quando lo scorso anno i turchi hanno esteso la presenza di uomini e mezzi in difesa del governo di Tripoli, gli al-Kani hanno lasciato la città e sono fuggiti a est, in Cirenaica, dall’alleato Haftar, senza combattere una battaglia che sapevano già persa. Ma dietro di loro hanno lasciato una scia di sangue e morte che porta dritta alle campagne della città, alle diciassette fosse comuni. Ai duecento corpi ritrovati. Ai cinquanta riconosciuti. Alle centinaia che mancano ancora all’appello. Muhammad Ali Kosher, è il sindaco ad interim di Tarhouna. La sua tribù è stata storicamente antagonista degli al-Kani, per questo casa sua è stata distrutta e gli uomini della sua famiglia fatti sparire. Il suo ufficio è un viavai di persone, sono i membri dell’associazione delle persone scomparse, gli sfollati che fanno ritorno a casa, i soldati che tornano dalle campagne a riferire il lavoro delle squadre che lavorano nelle fosse comuni. “Hanno trovato tre corpi anche oggi, per fortuna uomini, adulti”, dice. Si imbarazza per quelle due parole “per fortuna” ma lo dice perché i suoi occhi hanno visto corpi di donne, una incinta, corpi di bambini torturati e “corpi seppelliti con le maschere di ossigeno, i dispositivi medici. Prelevati dagli ospedali e portati in mezzo ai campi, chissà. Forse sepolti vivi”. La maggior parte delle fosse comuni è in un’area chiamata Machrou al Rabt, a una decina di chilometri dalla città, sono state scoperte alla fine della guerra, la scorsa primavera. Gli abitanti di Tarhouna hanno cominciato a chiamare le forze dell’ordine, raccontare cosa avevano udito - il rumore delle scavatrici, di notte - e visto - intere famiglie trascinate via alle prime luci dell’alba e poi scomparse. Così da sette mesi la terra rossastra di Tarhouna ha cominciato a parlare, hanno cominciato a parlare i rettangoli ordinati segnati dal nastro rosso e bianco, hanno cominciato a parlare le donne sole, le superstiti della città fantasma. “Le fosse sono state scavate dai migranti, abbiamo trovato le prove nelle loro prigioni”: Farj Ashgheer è un membro dell’Associazione delle famiglie degli scomparsi, racconta come un miliziano degli al-Kani abbia confessato che i migranti detenuti sono stati usati per scavare le fosse comuni e caricare le munizioni. Ne hanno trovato prova sugli archivi delle prigioni. Gli al-Kani segnavano la data in cui i migranti venivano prelevati e portati via. Il giorno della liberazione ce n’erano decine, chiusi a chiave nel centro di detenzione illegale, terrorizzati, affamati. Non mangiavano da giorni. È passato un anno dalla liberazione della città e i fantasmi continuano a uscire dalle prigioni. Parla l’aria stantia che esce dalle celle. E parlano i sopravvissuti. Tarek Mohammed Dhaw al-Amri è stato detenuto nella struttura militare di Da’am per sette mesi, insieme ad altre settanta persone. Gli al-Kani sospettavano che fosse un traditore, che inviasse informazioni alle truppe di Sarraj. I primi dieci giorni l’hanno torturato, due persone lo tenevano fermo e altre due lo bastonavano con i tubi di plastica o lo frustavano, contemporaneamente. Poi l’hanno chiuso nella cella numero uno. Tre metri per due, la dividevano in dieci, dormivano a turni. Cinque in piedi e cinque stesi. Era buia e fredda ma, avrebbe capito col passare delle settimane, almeno non era la cella dei destinati a morire, la numero 2, quella con niente luce e poca aria. “Ogni giorno prelevavano qualcuno dalla cella n. 2, lo bendavano e dopo due, tre minuti sentivamo uno sparo, in poco tempo abbiamo capito che quella era la cella dei condannati”. Quando gli al-Kani hanno capito che la guerra era persa hanno cominciato a uccidere a caso, senza motivo e brutalmente. “Ogni giorno pensavo che sarebbe arrivato anche il mio turno, ogni volta che aprivano la porta della cella pensavo: tocca a me”. Il suo turno non è arrivato, la città è stata liberata prima. Farj è vivo ma ha visto morire parenti e amici, come Ezzedine Bouzwaida. Quando ricorda le sue ultime parole, “chiedi alle donne rimaste di perdonarmi”, Farj piange, le sue lacrime scorrono sul viso, e cadono sulla divisa. Le asciuga col pudore del sopravvissuto, di chi conserva la memoria. E insieme alla memoria trattiene il desiderio di vendetta. Oggi Farj fa parte delle forze di sicurezza della città. Ma la parte del protagonista, a Tarhouna, oggi, la gioca un’altra milizia. Uscita di scena la brigata al-Kani, non è ancora il turno delle forze governative, ammesso che questa parola abbia un senso, in Libia. È la volta di un’altra milizia, la 444. Sono loro, incappucciati e armati, a presidiare l’entrata e l’uscita dalla città. A marzo i ministri degli Esteri dell’Unione Europea hanno imposto sanzioni per gravi violazioni dei diritti umani ai fratelli al-Kani. C’era già il nuovo governo della Libia finalmente unita. Ma l’unità nazionale era ed è ancora solo sulla carta. La Libia resta un paese spezzato, gli al-Kani vivono indisturbati e al sicuro a Bengasi, ancora sotto il controllo di Haftar, e continuano a minacciare anche a distanza chi è rimasto a Tarhouna, aspettando forse di tornare, aspettando di capire in quale direzione cambierà il vento e come posizionarsi. Aspettando di capire come ricompattare il gruppo armato, nel balletto, nella staffetta delle milizie. Farj sull’uscio di quella che è stata la sua cella dice: “La nostra religione ha come obiettivo la pace ma la pace con gli assassini non è possibile. Nessuna riconciliazione con chi ha sterminato Tarhouna. Nessun perdono per gli uomini di Haftar”. Egitto. Zaki, ora il governo si muove: “Avanti sulla cittadinanza” di Andrea Carugati Il Manifesto, 18 aprile 2021 Letta in pressing. Il sottosegretario Della Vedova: saranno avviate le verifiche necessarie. All’assemblea Pd spazio ai militanti. Il segretario: patto sociale come Ciampi nel 1993. Dopo la gaffe del premier Draghi, ieri qualcosa si è mosso sulla vicenda di Patrick Zaki. A palazzo Chigi hanno riconsiderato la posizione di distanza presa venerdì, e dato mandato al sottosegretario agli Esteri (con delega ai diritti umani) Benedetto Della Vedova di dare un segnale: “Il governo darà seguito all’impegno preso in Parlamento, avviando le verifiche necessarie per il conferimento della cittadinanza a Patrick Zaki”. Tradotto, la settimana prossima Della Vedova contatterà il Viminale per dare il via all’iter, che potrebbe non essere breve. Un risultato che piace al Pd. “Parole che sgombrano il campo da freddezze ed equivoci. Ora bisogna andare avanti rapidamente”, twitta Filippo Sensi. “Si lavori con impegno per questo e per ogni altra azione di pressione che porti al più presto alla liberazione di Patrick”, insiste la responsabile esteri Lia Quartapelle. Enrico Letta ieri aprendo l’assemblea nazionale del Pd aveva insistito sul punto: dare seguito alla decisione presa all’unanimità dal Senato. Un’assemblea diversa dal solito: pochissimi big sul palco virtuale di Zoom ma tanti militanti, quasi 60 interventi in 5 ore di discussione. Che ha preso il “la” dal corposo documento che riassume le risposte dei militanti (circa 40mila coinvolti) ai 20 punti presentati a metà marzo da Letta: con una serie di priorità molto chiare, dal lavoro, al sud alla questione femminile che va ben oltre la presenza di donne ai vertici della politica. “Il partito esiste, è vivo ed è molto vivace”, dice Letta nella sua relazione. “Un mese fa abbiamo rischiato di buttare via un partito che ha una grande ricchezza, ma grazie alla nostra base siamo in grado di superare una crisi di vertici”. E ancora: “Non si vincono le elezioni con costose squadre di comunicazione, magari americane, ma con 100mila militanti. Il rapporto centro-base non deve essere di controllo, ma di ascolto e protagonismo”. Risvegliati i militanti, ora Letta punta a andare oltre con l’esperimento delle Agorà che partirà il primo luglio. “Deve essere un processo interno e esterno al Pd, faccio un appello a tutti quelli che ci guardano da fuori o sulla porta e a tutti quelli che hanno un impegno culturale e civico: questo semestre è per voi. Non è per guardarci l’ombelico o per risolvere i nostri problemi interni, quelli li risolveremo solo se guarderemo fuori”. Un concetto che sta diventando un cardine della nuova segreteria: bypassare le faide tra correnti aprendo le porte. L’obiettivo, ambizioso, è quello di creare un nuovo modello di partito: non leaderistico e digitale, senza scivolare nel modello Rousseau, che anche il M5S sta archiviando. Quanto ai temi, il segretario ha ribadito la sua scelta di tenere insieme la lotta alla crisi economica e alle disuguaglianze con le battaglie sui diritti civili. “Dopo questo mese sono ancora più convinto che i diritti e come arrivare alla fine del mese sono temi che si possono tenere insieme”, spiega Letta. Sul Recovery, ha ribadito le priorità illustrate a Draghi: sud, donne, giovani. “Vorrei proporre al governo, alle parti sociali, ai partiti, che si faccia un grande patto per la ricostruzione del Paese, come Ciampi nel luglio del ‘93. Sono convinto che Draghi abbia la legittimazione e la forza per un grande patto europeo che sta dentro il Next Generation Eu”. “Dobbiamo toccare con mano, condividere la disperazione sociale che c’è”, avverte il tesoriere Walter Verini. “Nel rapporto col governo non stare col freno a mano tirato, ma con la nostra identità di sinistra”. “Il rimbalzo che ci sarà non porterà ad una ripresa occupazionale, quindi dovremo respingere il rischio che si possa dire ‘“torniamo a forme di precarizzazione”“, ha avvertito il ministro del lavoro Andrea Orlando. “Saremo misurati su quanto saranno cresciute le diseguaglianze al termine della pandemia. Nel contrasto alla povertà è ora di smetterla con la retorica che colpevolizza i poveri”. Giovanni Crisanti, 21 anni, il delegato più giovane, ha chiesto di fare come Macron: “C’è molta sofferenza tra i ragazzi, bisogna garantire 10 sedute da uno psicoterapeuta gratis”. Il piemontese Raffaele Trudu, citando Letta, ha chiesto: “Perché dobbiamo usare il cacciavite e non la falce e il martello?”. Russia. “Navalny sta morendo, è questione di giorni ormai”. Biden: “È ingiusto” di Carlo Baroni Corriere della Sera, 18 aprile 2021 La portavoce del dissidente russo Alexei Navalny ha scritto che il blogger, detenuto e in sciopero della fame, è ormai in fin di vita: e i suoi medici hanno spiegato che il rischio è quello di un arresto cardiaco, “da un momento all’altro”. “Aleksej Navalny sta morendo. È solo questione di giorni”. Il drammatico allarme è stato lanciato su Facebook da Kira Yarmysh, portavoce del dissidente russo, oppositore del presidente Vladimir Putin. In una lettera al servizio penitenziario federale la dottoressa Anastasia Vasilyeva insieme a tre colleghi, fra cui un cardiologo, hanno spiegato che Navalny rischia l’arresto cardiaco e problemi gravi della funzione renale “in qualsiasi momento”. Dal carcere di Pokrov dove è rinchiuso non sono trapelate informazioni ufficiali sulle sue condizioni di salute. Ma dal 31 marzo Navalny aveva iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le pessime condizioni di detenzione, accusando l’amministrazione carceraria di negargli l’accesso a un medico e alle medicine perché soffre di una doppia ernia discale. L’intervento di Biden - Alla notizia del peggioramento della salute dell’uomo che ha sfidato Putin è immediatamente intervenuto il presidente americano Joe Biden: “È totalmente, totalmente ingiusto. Totalmente inappropriato”, ha dichiarato. La Casa Bianca ha recentemente imposto sanzioni contro Mosca per le interferenze nelle elezioni Usa e i cyber attacchi e guarda con preoccupazione all’escalation in Ucraina. “Ha perso 9 chili” - Navalny, da anni tra i più fieri oppositori del presidente russo Vladimir Putin, è tornato nel suo Paese lo scorso gennaio dopo essersi ripreso dal tentativo di avvelenamento con un agente nervino, il Novichok ed è stato immediatamente arrestato. Condannato a due anni e mezzo di prigione per una vecchia accusa di frode da febbraio si trova in una colonia penale nella città di Pokrov, circa 100 chilometri a est di Mosca. All’inizio della scorsa settimana, la moglie Yulia, che lo ha visitato nella colonia penale, ha detto che suo marito ora pesa 76 chilogrammi: ne ha persi 9 dall’inizio dello sciopero della fame. Secondo i suoi medici, Navalny, che ha 44 anni, rischierebbe un infarto “da un momento all’altro”: la sua salute, sostengono mentre chiedono di avere accesso immediato e continuativo al blogger, si sta rapidamente deteriorando. L’appello - E si sta già mobilitando la comunità internazionale. Più di 70 importanti scrittori, artisti e accademici, tra cui Jude Law, Vanessa Redgrave e Benedict Cumberbatch, hanno invitato Putin a garantire che Navalny riceva immediatamente un trattamento adeguato. Il loro appello è stato pubblicato dal quotidiano francese Le Monde. Un appello in favore del dissidente è stato lanciato anche dalle scrittrici J.K. Rowling ed Herta Müller. E si sta anche organizzando “la più grande manifestazione di protesta della storia moderna della Russia” come hanno dichiarato i sostenitori del dissidente che hanno chiesto ai cittadini di sostenerla registrandosi su un sito internet. Finora sono state 440mila le persone che hanno dichiarato la loro partecipazione. I problemi di salute di Navalny sarebbero anche conseguenza dell’avvelenamento con l’agente nervino Novichok nella scorsa estate. Un tentativo di ucciderlo che il dissidente aveva indicato il Cremlino come mandante. Navalny era stato dimesso dal policlinico di Berlino il 23 settembre, dopo 32 giorni di ricovero, 24 dei quali in terapia intensiva. E proprio il laboratorio specializzato dell’esercito tedesco aveva rilevato la presenza del Novichok nel suo organismo attraverso una sostanza la cui natura non fa che aumentare i sospetti sul Cremlino, era stata confermata anche da tossicologi francesi e svedesi. Un ulteriore giallo si era aggiunto con la morte improvvisa il medico russo che lo aveva curato, la scorsa estate, all’ospedale di Omsk: aveva 55 anni. La causa del decesso del medico non era mai state chiarite, ma anche in questo caso ombre oscure si erano addensate sul Cremlino. Tutti tasselli di una vicenda, che avevano inasprito la tensione fra Mosca e l’Occidente. La situazione dei diritti dell’uomo in Algeria: preoccupazione per i detenuti di Marco Baratto mediterranews.org, 18 aprile 2021 La Lega Algerina per la Difesa dei Diritti Umani (Laddh) è un’associazione nazionale senza scopo di lucro soggetta alle disposizioni della Legge algerina (12/06) del 12 gennaio 2012 relativa alle associazioni. È stata creata nel 1985 da un gruppo di attivisti guidati dal Signor Ali Yahia Abdenour, il suo primo presidente, attualmente presidente onorario. Riconosciuta ufficialmente dalle autorità il 26 luglio 1989, dopo l’apertura politica strappata dagli eventi del 5 ottobre 1988. Dopo la fine del processo elettorale nel gennaio 1992, seguito dallo scoppio della violenza armata, la Laddh ha scelto il campo della dignità umana, della pace e della riconciliazione nazionale Nella prima pagina del suo sito (droits-laddh.org) questa associazione umanitaria” esprime la sua profonda preoccupazione per il destino di 23 prigionieri di coscienza in sciopero della fame dal 6 aprile nel carcere di El Harrach (Algeri), compreso il peggioramento dello stato di salute. Gli scioperanti della fame sono giovani manifestanti arrestati durante una pacifica marcia di Hirak sabato 3 aprile 2021 ad Algeri. Sono stati incarcerati il ??5 aprile 2021 dal giudice istruttore presso il tribunale di Sidi M’Hamed e sono perseguiti per “istigazione a assemblea disarmata”, “assemblea disarmata”, “indebolimento dell’unità nazionale” e “disprezzo del corpo”. Accuse diventate di routine dall’inizio del movimento popolare e pacifico il 22 febbraio 2019, che hanno colpito decine di cittadini. Come quelli che li hanno preceduti, i giovani in sciopero della fame contestano nella forma e nella sostanza le accuse mosse contro di loro. Giustamente ritengono di essere vittime di arbitrarietà quando hanno esercitato solo il loro diritto di esprimersi e di manifestare espressamente riconosciuto dalla Costituzione. La Laddh è tanto più preoccupata che i tragici casi del giornalista Mohamed Tamalt e del dottor Kamel-Eddine Fekhar, morto in carcere, siano ancora ricordati dagli algerini come esempi delle drammatiche conseguenze dell’arbitrarietà e dell’assenza di rispetto per la vita umana. Sono constatazioni drammatiche che se fossero reali farebbero pensare sulla situazione in generale dei diritti dell’uomo in questa Nazione. Come già osservato più volte la società moderna, ed in generale anche gli operatori economici considerano tra le ricchezze di una Nazione non solo i beni che essa produce, le risorse del sottosuolo ma anche il rispetto dei diritti umani. E quella che il definisce “L’economia sociale di mercato” ovvero un modello di sviluppo dell’economia che si propone di garantire sia la libertà di mercato che la giustizia sociale, armonizzandole tra di loro. L’idea di base è che la piena realizzazione dell’individuo non può avere luogo se non vengono garantite la libera iniziativa, la libertà di impresa, la libertà di mercato e la proprietà privata, ma che queste condizioni, da sole, non garantiscono la realizzazione della totalità degli individui (la cosiddetta giustizia sociale) e la loro integrità psicofisica, per cui lo Stato deve intervenire laddove esse presentano i loro limiti. L’intervento non deve però guidare il mercato o interferire con i suoi esiti naturali: deve semplicemente prestare il suo soccorso laddove il mercato stesso fallisce nella sua funzione sociale e deve fare in modo che diminuiscano il più possibile i casi di fallimento https://it.wikipedia.org/wiki/Interventismo_(economia). A questa definizione molti aggiungono che anche il rispetto dei diritti umani sia una ricchezza per una Nazione ed uno dei parametri per poter commerciare con essa. L’Unione Europea ha già sospeso agevolazioni nei commerci con paesi che violavano i diritti umani (ad esempio Cambogia). Quindi sapere quale sia lo stato dei Diritti Umani in Algeria è importante tenuto conto del potenziale economico di questa Nazione e del suo peso nel campo degli idrocarburi. Sarebbe utile che l’Europa approfondisca i temi sollevati dalla Lega Algerina per la Difesa dei Diritti Umani (Laddh) per capire la reale situazione delle carceri, della libertà espressione e di tanti altri settori . Sarebbe un bene anche per la stessa Algeria dissipare gli aspetti grigi da tante organizzazioni sollevate. Gli equivoci non giovano a nessuno e anzi alimentano solo illazioni e sospetti. Un bene perché una nazione che, al pari di tutto il modo arabo, ha basato la sua lotta sacrosanta contro il colonialismo sui diritti dei popoli e del popolo possa in modo trasparente fare conoscere al mondo di essere una Nazione dove non vi è repressione o abuso ma una Nazione al pari di altri. Birmania. La giunta militare scarcera 23mila detenuti La Stampa, 18 aprile 2021 Non è chiaro se tra di loro ci siano anche attivisti e manifestanti pro-democrazia, arrestati in seguito al golpe. La giunta militare, al potere in Birmania dopo il colpo di Stato dello scorso 1° febbraio, ha annunciato di avere graziato e rilasciato più di 23mila detenuti in occasione delle festività del nuovo anno di Thingyan. Tuttavia non è chiaro se tra di loro ci siano anche attivisti e manifestanti pro-democrazia, arrestati in seguito al golpe. La scarcerazione di massa è stata annunciata dall’emittente statale Mrtv, che ha riferito che il generale Min Aung Hlaing ha graziato i 23.047 prigionieri, tra cui 137 stranieri che saranno espulsi dal Paese, oltre ad avere ridotto le pene per altri detenuti. La scarcerazione anticipata dei prigionieri è consuetudine durante le principali festività. Questa è la seconda volta che la giunta al potere lo fa da quando ha rovesciato il governo eletto di Aung San Suu Kyi, innescando proteste quotidiane, arresti e uccisioni da parte delle forze di sicurezza. Secondo l’Associazione di assistenza per i prigionieri politici, che monitora le vittime e gli arresti, le forze governative hanno ucciso almeno 728 manifestanti dalla presa di potere Il gruppo riferisce che 3.141 persone, tra cui Suu Kyi, sono in detenzione. Account non ufficiali ma affidabili, con foto postate sui social, hanno riferito che tre persone sono state uccise sabato dalle forze di sicurezza in una violenta repressione nella città centrale di Mogok, nella regione mineraria di gemme. Tra i detenuti rilasciati sabato dalla prigione Insein di Yangon figurano almeno tre prigionieri politici che sono stati incarcerati nel 2019, stando a quanto riferito da testimoni e dalle notizie della stampa locale. I tre sono membri della compagnia di spettacoli Peacock Generation ed erano arrestati durante i festeggiamenti di Capodanno del 2019 per scenette che prendevano in giro i rappresentanti militari in Parlamento e il coinvolgimento militare negli affari di business. Un altro prigioniero liberato è Ross Dunkley, editore di un quotidiano australiano condannato nel 2019 a 13 anni per possesso di droga. Il suo rilascio è stato confermato dalla sua ex moglie Cynda Johnston, ha riferito il quotidiano The Sydney Morning Herald. Dunkley ha co-fondato il The Myanmar Times, un quotidiano in lingua inglese, ma è stato costretto a rinunciare alla sua quota. Divenne famoso per aver co-fondato o acquisito pubblicazioni in lingua inglese in stati precedentemente socialisti che cercavano investimenti stranieri mentre liberalizzavano le loro economie, ma a volte è stato criticato per aver fatto affari con regimi autoritari. A marzo, più di 600 persone che erano state incarcerate per aver manifestato contro il colpo di stato di febbraio sono state rilasciate dalla prigione di Insein, un raro gesto conciliante dei militari che sembrava mirato a placare il movimento di protesta. L’Eritrea annuncia il ritiro dal Tigray dopo le accuse Onu di atrocità di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 18 aprile 2021 Primo riconoscimento ufficiale da parte di Asmara del ruolo dei propri militari nel conflitto nella regione dell’Etiopia. L’ambasciatrice alle Nazioni Unite respinge le imputazioni su stupri e fame usati come armi di guerra. Ma nuove testimonianze: i soldati eritrei restano, stanno solo cambiando le proprie divise con quelle di Addis Abeba. L’Eritrea ha annunciato ieri al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di aver accettato di ritirare le proprie truppe dal Tigray, in Etiopia. Si tratta del primo riconoscimento ufficiale da parte di Asmara della presenza nella regione dei propri soldati, accusati da Ong e dalle stesse Nazioni Unite di aver perpetrato violenze e massacri. L’ammissione - contenuta in una lettera inviata ai 15 membri del Consiglio e messa online sul sito del ministero dell’Informazione eritreo - arriva dopo che il capo dell’agenzia Onu per gli aiuti Mark Lowcock ha detto che le Nazioni Unite non hanno ancora avuto prove del ritiro delle forze eritree. “Visto che le minacce sono rientrate Eritrea ed Etiopia hanno concordato al loro massimo livello il ritiro delle forze eritree e il simultaneo dispiegamento di soldati dell’Etiopia alla frontiera”, ha scritto l’ambasciatrice eritrea presso le Nazioni Unite Sophia Tesfamariam. Le forze eritree hanno aiutato il governo federale di Addis Abeba a combattere contro l’ex partito al potere in un conflitto esploso a novembre in Etiopia. Finora però Asmara aveva negato la presenza di propri militari nella regione. Il mese scorso il primo ministro dell’Etiopia Abiy Ahmed ha riconosciuto il coinvolgimento sul terreno dei soldati eritrei e le Nazioni Unite ne hanno chiesto il ritiro. Giovedì Lowcock ha però denunciato: “Nessuna agenzia umanitaria ha visto prove di tale ritiro, anzi ci sono racconti su soldati eritrei che si sono semplicemente cambiati divisa vestendo le uniformi dell’Etiopia”. Nel conflitto sono morte migliaia di persone e centinaia di migliaia sono state costrette a lasciare le proprie case in una regione con 5 milioni di abitanti. “Ci sono racconti supportati da prove della colpevolezza eritrea in massacri e uccisioni”, ha continuato Lowcock. Lunedì i soldati eritrei hanno aperto il fuoco uccidendo almeno 9 civili e ferendone decine di altri. Nei briefing al Consiglio di sicurezza sono stati dettagliati numerosi casi di stupri usati come armi di guerra e della diffusa crisi economica che ha portato alla fame la popolazione nel Tigray. “Abbiamo sentito false accuse di stupri e fame usati come armi da guerra”, ha scritto Tesfamariam. “Si tratta di accuse oltraggiose, di un attacco alla cultura e alla storia del nostro popolo”.