Ergastolo ostativo incostituzionale. È un punto di non ritorno ma un anno passerà invano di Andrea Pugiotto Il Riformista, 17 aprile 2021 Ora la palla è nel campo di un legislatore fino ad oggi riluttante a intervenire e che tale si confermerà anche in futuro, come già accaduto nel “caso Cappato”. Toccherà allora ai giudici costituzionali dichiarare formalmente ciò che già oggi avrebbero potuto dichiarare, se solo avessero scelto di anteporre a tutto la funzione contro-maggioritaria cui è chiamato il Giudice delle leggi. 1. Troppo, per alcuni. Non abbastanza, per altri. Si dividono così le reazioni al comunicato stampa di ieri che anticipa la decisione della Consulta sull’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale. Ne suggerirei un’analisi sine ira et studio in attesa di leggere, nelle prossime settimane, la sola cosa che conti davvero: il testo dell’ordinanza votata dai giudici costituzionali all’unanimità (stando ai si dice del Corriere della Sera). 2. Il dato di fondo da cui partire è nell’incipit del comunicato: “Ergastolo ostativo incompatibile con la Costituzione”. Il fi ne (rieducativo) della pena, infatti, esige la fine della pena. Perché un diritto penale liberale - come recita l’omonimo manifesto redatto dall’Unione delle Camere penali - “non ammette pene perpetue, trattamenti inumani o degradanti, presunzioni di pericolosità ostative della funzione risocializzante della pena”. Sono principi scolpiti nella giurisprudenza della Corte costituzionale che, fedele a sé stessa, applica oggi a un ergastolo altrimenti senza scampo. Si riconosce così un diritto alla speranza che non può negarsi a nessun condannato a vita, se non se ne vuole negare la dignità. Il diritto, cioè, di domandare l’accesso alla liberazione condizionale, dopo almeno 26 anni di detenzione, “quando il suo ravvedimento risulti sicuro” (così il comunicato stampa). Si badi: domandare, non è sinonimo di ottenere. La concessione del beneficio, infatti, resterà condizionata ad un’approfondita e prudente valutazione giurisdizionale di tutti i presupposti che la legge richiede (o richiederà). Stracciarsi le vesti come sacerdoti nel sinedrio, perché così si minerebbero le sacrosante esigenze di difesa sociale, equivale a una mozione di sfiducia verso i giudici di sorveglianza, già chiamati quotidianamente a decisioni altrettanto difficili e pericolose. Significa anche ignorare che - dati alla mano - un percorso trattamentale aperto a misure alternative alla detenzione mira, in ultima analisi, ad impedire la recidiva e così a proteggere davvero la società. L’alternativa di un carcere a vita, cioè fino alla morte, può animare indispettiti tweet di politici adusi al bullismo penale. Può abitare il risentimento di alcuni familiari di vittime illustri, che meritano rispetto e comprensione fino a quando non pretendono di farsi fonte normativa. Ma una pena perpetua - ci ricorda oggi la Consulta - non ha cittadinanza in Costituzione. 3. L’incostituzionalità così accertata, però, non si traduce in un “accoglimento immediato”. La Corte, infatti, ha pronunciato un’ordinanza interlocutoria, non una sentenza di annullamento delle norme impugnate, preferendo differirne al maggio 2022 la formale dichiarazione. È la tecnica della c.d. incostituzionalità prospettata, forgiata per la prima volta nel noto “caso Cappato”: ora come allora, impossibile non acclarare l’illegittimità della normativa in vigore ma, nel contempo, difficile rimettere in equilibrio tutti gli interessi costituzionali in gioco attraverso l’intervento autonomo della Consulta. “Occorre un intervento legislativo”. Da qui l’escamotage di rinviare la questione di un anno, chiamando il Parlamento a intervenire nel rispetto della Costituzione. Un Parlamento messo però in mora: se non lo farà nel termine indicato, sarà la Corte a rimuovere l’incostituzionalità cui non è stato posto legislativamente rimedio. Il comunicato riassume - cripticamente - le ragioni che hanno indotto la Consulta a optare per una simile tecnica, riconducibili al timore, esplicitato, che un accoglimento immediato della quaestio rischierebbe di inserirsi “in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. 4. Per quanto solo prospettata, l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo segna, comunque, un punto di non ritorno. La sua disciplina - si legge - “è in contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione e con l’art. 3 della CEDU”. L’uso verbale del modo indicativo (“è in contrasto”) non lascia adito a dubbi di sorta. Non si equivochi il passaggio successivo, circa la decisione della Consulta di “rinviare la trattazione delle questioni” ad altra udienza da convocarsi nel maggio 2022. Non ci sarà, allora, spazio alcuno per rimettere in discussione quanto ora già accertato e già comunicato. Semmai, in quell’occasione, potranno essere trattate altre questioni rimaste in sospeso. Ad esempio, l’incostituzionalità dell’attuale preclusione alla liberazione condizionale (anche) per tutti gli altri reati ostativi, come pure l’incostituzionalità della preclusione (anche) alle misure extra-murarie del lavoro all’esterno e della semilibertà. È nei poteri della Corte dichiararne l’incostituzionalità, a seguito dell’accoglimento della questione principale esaminata. Anche questa tecnica ha un nome: incostituzionalità consequenziale. La Corte ne ha fatto uso nella nota sent. n. 253/2019, generalizzando l’accesso ai permessi premio a chiunque abbia subito una condanna (perpetua o temporanea) per uno qualunque dei reati ostativi inclusi nella blacklist dell’art. 4-bis, 1° comma, dell’ordinamento penitenziario. È una tecnica che però presuppone una formale sentenza d’accoglimento, non un’ordinanza interlocutoria come quella odierna. Ma, una volta scaduti inutilmente i tempi supplementari concessi al legislatore, per i giudici costituzionali ne sarà fattibile la “trattazione”. 5. Avevo già segnalato su queste pagine (Il Riformista, 20 marzo 2021) perché la Corte avrebbe fatto bene a non cedere alla tentazione di rinviare la decisione richiesta ad altra udienza lontana nel tempo: Salvatore Pezzino, e tutti gli altri ergastolani ostativi in condizione di chiedere (e magari ottenere) la fine di una pena senza fine, sono in galera da decenni. L’anno supplementare concesso a un legislatore accidioso ne allungherà indebitamente la reclusione. È la contraddizione segnalata da molti: la Consulta tiene in vita, sia pure artificialmente, una disciplina incostituzionale. In termini di principio, il rilievo è di spessore. Inviterei, tuttavia, a non perdere di vista il momento dell’applicazione normativa, dove Pezzino e gli altri - da qui al maggio 2022 - non avrebbero mai riacquistato la libertà. Sulla base della costante giurisprudenza di legittimità, infatti, la liberazione condizionale sarebbe stata comunque in concreto loro negata, in ragione dell’assenza di previe positive esperienze extramurali. Il percorso trattamentale, infatti, ha una sua gradualità che, come in natura, non ammette salti. Il permesso premio è la sua prima tappa, la liberazione condizionale è l’ultima. Non è da escludere che, di ciò, i giudici costituzionali abbiano realisticamente tenuto conto. 6. Resta, invece, il nodo della violazione dell’art. 3 CEDU: come già la Corte di Strasburgo nel 2019, così oggi la Corte costituzionale ne accerta l’incompatibilità con l’ergastolo ostativo. Ma, evitando di rimuoverlo con effetti generali immediati, non vi pone rimedio. Persiste, così, il problema della conformità del comportamento del nostro Stato rispetto alla doverosa esecuzione della sentenza Viola c. Italia n°2, ancora inevasa. Problema grave, perché l’art. 3 CEDU proibisce in termini assoluti e incondizionati pene inumane e degradanti, indipendentemente dalla natura dei reati così sanzionati. Secondo la Corte europea, è vero, la soluzione al problema impone una riforma dell’ergastolo ostativo “di preferenza per iniziativa legislativa”. Trattandosi però di un dovere gravante su tutti i poteri statali (Corte costituzionale compresa), la quaestio in esame poteva essere l’occasione giusta per rimediare alla persistente condizione di illegalità. Così non è stato. 7. Ora la palla è nel campo di un legislatore fino ad oggi riluttante a intervenire e che tale si confermerà anche in futuro, come già accaduto nel “caso Cappato”. Accetto scommesse. Toccherà allora ai giudici costituzionali dichiarare formalmente ciò che già oggi avrebbero potuto dichiarare, se solo avessero scelto di anteporre a tutto la funzione contromaggioritaria cui è chiamato il Giudice delle leggi, specialmente quando in gioco è la libertà personale. Io dico: brava Consulta. Ora riduciamo le pene e il numero dei detenuti: non più di 15 mila di Guido Neppi Modona Il Riformista, 17 aprile 2021 La Corte ha dichiarato che il Fine Pena Mai non è costituzionale e giustamente ha lasciato al legislatore un anno di tempo per realizzare tutte le modifiche di legge che sono necessarie. Con un comunicato stampa del 15 aprile la Corte costituzionale ci ha messo al corrente che sta esaminando una delicatissima questione relativa ai condannati all’ergastolo per reati di mafia; in particolare quei condannati che, non avendo collaborato con la giustizia, non possono usufruire della liberazione condizionale, cioè della possibilità di essere messi in libertà dopo avere scontato 26 anni di pena. Più in generale il divieto vale anche per l’ammissione agli altri benefici penitenziari, quali semilibertà, lavoro all’esterno, liberazione anticipata. Quanto ai permessi premio, il divieto era già stato dichiarato illegittimo dalla sentenza della Corte n. 253 del 2019, nel caso in cui, sia pure in assenza della collaborazione con la giustizia, fossero stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti del condannato con la criminalità organizzata. Come si vede, la disciplina in materia è tutt’altro che semplice, anzi direi che è piuttosto contorta. Il tema è quello del cosiddetto ergastolo “ostativo”, frutto velenoso delle varie stagioni dell’emergenza vissute dal diritto penale a partire dai primi anni Novanta. Frutto velenoso perché, in assenza di collaborazione con la giustizia, impediva ai condannati all’ergastolo di accedere ai benefici penitenziari, anche se avevano dato prova di sicuro ravvedimento. Ma soprattutto per la ragione di fondo che i divieti di accesso ai benefici penitenziari erano collegati alla pericolosità astratta di reati particolarmente gravi, senza prendere in considerazione la situazione personale dei condannati. Poteva cioè accadere che l’accesso ai benefici penitenziari venisse rifiutato a un condannato all’ergastolo che aveva già scontato 20 o 30 anni di pena sulla sola base della astratta pericolosità dei reati commessi, anche se ormai era persona completamente diversa rispetto al momento in cui aveva commesso il reato, se non era più socialmente pericoloso, se era più che meritevole di essere riammesso nella società libera. L’ergastolo “ostativo” era dunque l’unica pena perpetua, “a vita”, esistente nel sistema penale, mentre il condannato all’ergastolo “ordinario” dopo avere scontato almeno 26 anni di pena può esser ammesso alla liberazione condizionale quando abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento. Ebbene, nel suo comunicato la Corte preannuncia che la disciplina dell’ergastolo ostativo è costituzionalmente illegittima, perché in contrasto, tra l’altro, con i principi costituzionali secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbono tendere alla rieducazione del condannato”, e con l’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, che pone il divieto di “pene o trattamenti inumani o degradanti”. L’abolizione dell’ergastolo, propugnata e attesa da decenni dalla stragrande maggioranza degli studiosi e degli operatori di diritto penale e di diritto penitenziario, è una svolta di grande rilievo, che comporta incisive ricadute sull’intero sistema delle pene e sulla stessa organizzazione penitenziaria. La Corte ha opportunamente avvertito l’esigenza di rinviare per un anno, sino a maggio 2022, la decisione ufficiale sulla incostituzionalità dell’ergastolo, per consentire al legislatore di predisporre i necessari interventi legislativi che tengano conto “della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso e delle relative regole penitenziarie”, ed anche per “preservare” gli eccezionali vantaggi processuali in tema di contrasto e di repressione della criminalità organizzata conseguiti grazie ai collaboratori di giustizia. Vari commentatori hanno sollevato critiche e manifestato insoddisfazione per la dilazione della decisione della Corte, rilevando che in altre occasioni la stessa Corte aveva insistito sugli ampi poteri del magistrato di sorveglianza di valutare in concreto il percorso di rieducazione e risocializzazione dei condannati all’ergastolo ai fini della concessione dei benefici penitenziari. Ritengo che la Corte abbia agito saggiamente manifestando il proposito di coinvolgere il Parlamento negli interventi legislativi conseguenti all’abolizione dell’ergastolo, senza scaricare unicamente sui magistrati di sorveglianza la responsabilità di concedere o rifiutare l’accesso ai benefici penitenziari. Al riguardo si deve tenere presente che i condannati all’ergastolo sono attualmente circa 1.750, concentrati in pochi istituti penitenziari, per cui la competenza a esaminare le loro posizioni risulterebbe concentrata su un numero ristretto di sedi della magistratura di sorveglianza, insufficienti per valutare in tempi brevi la situazione giuridica di centinaia di ex ergastolani. Ma i motivi della dilazione della Corte non si esauriscono in questi tutt’altro che marginali profili organizzativi. L’abolizione dell’ergastolo avrà ricadute sull’intero sistema sanzionatorio, che dovrà essere sottoposto ad una profonda revisione per rendere l’attuale misura delle pene dei singoli reati proporzionata ad un tetto massimo che per i reati più gravi non sarà più l’ergastolo, ma trenta anni di reclusione. Lavoro di revisione di grande complessità, che spetta necessariamente al potere legislativo e che potrebbe essere l’occasione per riservare la pena carceraria ad una ristretta categoria di reati di particolare gravità e di condannati socialmente molto pericolosi, prevedendo nella legge penale una vasta gamma di sanzioni alternative alla pena detentiva. Nello stesso tempo si conseguirebbe l’obiettivo, che i cultori di diritto penale invano predicano da decenni, di un carcere popolato da non più di 10-15.000 detenuti, destinatari di programmi e percorsi di effettivo recupero e risocializzazione. Sull’ergastolo la Corte ha letto la Costituzione, ora non si perda tempo di Adriano Sofri Il Foglio, 17 aprile 2021 Nessuno poteva dubitare che l’ergastolo cosiddetto ostativo fosse incostituzionale. Nessuno che sia capace di leggere l’articolo 27 della Costituzione, nella frase che dice: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. (La Corte costituzionale le ha aggiunto l’art. 3, dove dichiara tutti i cittadini uguali davanti alla legge). Pronunciamenti precedenti della stessa Corte, sui permessi agli ergastolani “ostativi”, e della Corte europea dei diritti dell’uomo avevano già segnato la strada. Alla vigilia - lunga, protratta - della decisione della Corte, si erano accanitamente spese fame meritate o usurpate di nemici della mafia, forti soprattutto dell’argomento che fa dei fedeli alla Costituzione, e soprattutto alla concezione che la ispira, altrettanti complici della mafia. Piuttosto spiritosamente, un giurista di peculiare competenza aveva segnalato, giorni fa, lo zelo che attribuiva una “disinvolta inconsapevolezza dell’estrema insidiosità del fenomeno mafioso, da cui sarebbero affette, secondo una certa vulgata, Corte europea dei diritti dell’uomo, Corte di cassazione, Corte costituzionale, Avvocatura dello stato, nonché magistratura di sorveglianza e accademia”. Dunque la Corte costituzionale, dichiarando incostituzionale l’ergastolo detto ostativo, non ha fatto che leggere la Costituzione. Il cuore della sua pronuncia investe la condizione esclusiva che la legislazione di emergenza fissa alla inesorabilità dell’ergastolo: la “collaborazione”. La “collaborazione”, anche se la memoria dei suoi significati sembra essersi perduta, può essere uno strumento sporco e prezioso per combattere e punire il crimine, ma non è affatto il criterio del “ravvedimento” né della “rieducazione” né della “risocializzazione”. L’eredità sciagurata della categoria del “pentimento” pesa su questa norma che si vuole tassativa. Il “collaboratore” può avere un’anima di criminale ancora più falso e indurito, e il non collaboratore può avere oltre che motivazioni esteriori cogenti - la difesa dei propri dalle rappresaglie, o la mancanza di cose da svelare e così via - il rifiuto di accusare quando non ci sia più una minaccia da sventare. La “collaborazione” obbligatoria è una lusinga e un abuso della coscienza. Sono altri, e ben più impegnativi, i modi di valutare il cambiamento delle persone, e i ripari dagli inganni. Ed ecco che, nel momento in cui dichiara ciò che era evidente, l’incostituzionalità dell’ergastolo senza scampo, la Corte proroga di un altro anno la pratica incostituzionale e passa la mano al Parlamento. Voglio immaginare che non si tratti di pusillanimità, di una concessione fatta agli anatemi dei professionisti e all’opinione incattivita. Né alla dolorosa sensibilità dei prossimi delle vittime dei reati implicati (non sempre e solo di mafia), consacrata e stravolta nella frase: “L’hanno ucciso un’altra volta”. Penso che nella Corte abbia prevalso, a differenza che nel “caso Cappato”, del suicidio assistito, solo apparentemente simile, una scelta filosofica, per così dire, di filosofia morale: il gradualismo. L’attenzione, cioè, a raggiungere un traguardo, che pure si è fissato senza incertezze, dolcemente, così da evitare il contraccolpo di una rottura brusca. Di temporeggiare e accompagnare l’attuazione, come si fa in una premurosa e paziente riabilitazione dopo una frattura. Magnanima scelta, non vile. Adeguata, efficace? La Corte è fatta di persone che conoscono il mondo, basta vedere con quale libertà e saggezza si esprimono quando emeritamente ne escono. Non cade dalle nuvole. Non quando il partito maggioritario nei sondaggi commenta la sua ordinanza proclamando che non se ne parla nemmeno, “di mafiosi e assassini” (sic!), così proclamando nullo e destituito il massimo organo di controllo della legittimità democratica. La stessa svelta decisione di ignorare la raccomandazione della Corte esprimono i notabili del primo partito del parlamento vigente, con la competenza che è loro peculiare e che ha messo nelle loro mani destre e sinistre il governo della giustizia negli ultimi anni. Quanto al principale partito d’opposizione del vigente governo, non occorre dire. La Corte ha passato a un Parlamento affollato alla rinfusa sui ponti di un naufragio una patata bollente, una bomba a orologeria, o qualunque altra formula convenga al gergo corrente, sapendo che il parlamento: o non ne farà niente, e l’anno che sarà trascorso non avrà anestetizzato l’operazione da completare; o ne farà qualcosa di grottescamente cavilloso, ridicolizzando sé e la Corte; o semplicemente si scioglierà prima che l’anno scada. In tutto ciò, l’attenzione è stata ancora una volta deviata sull’eccezione italiana, la criminalità organizzata, le mafie, la mafia. In Italia la legge è uguale per tutti, tranne i mafiosi. La Costituzione, ha detto ieri un notorio magistrato, non poteva prevedere che si sarebbe dovuto fronteggiare la mafia. I padri e le madri costituenti, infatti, erano reduci da una vacanza al mare di una ventina d’anni, genocidi guerra mondiale e guerra civile compresi. La questione vera, l’insopportabilità di una pena legale che pretende di dire l’ultima parola, è semplicemente elusa. Perfino nella situazione paradossale italiana in cui gli ergastoli detti ostativi sono la maggioranza, dunque la norma e non l’eccezione. Ci sono paesi dall’orribile pratica penale e penitenziaria, come gli Stati Uniti, in cui è in vigore la pena di morte, e un ergastolo che esclude ogni attenuazione - tombale. Là, la degradazione all’ergastolo senza condizionale può essere un passo verso la riduzione o la moratoria o il ripudio della pena di morte: tutto è prezioso sulla soglia della camera della morte. Questo non può impedire di vedere l’affinità fra la pena capitale e l’ergastolo senza scampo, la pena di morte differita e distillata. Quando un ergastolano implora per sé la morte piuttosto che l’agonia interminabile - il fine pena mai, il fine vita protratto, la tortura perpetua - sta testimoniando di una spietatezza che contagia i suoi simili che si sono voluti così irreparabilmente dissimili. Di questo si tratta, non di “mettere in libertà i boss stragisti” (un titolo di ieri). La Consulta decide di non decidere e gli ergastolani “ostativi” finiscono in un buco nero di Tiziana Maiolo Il Riformista, 17 aprile 2021 L’ergastolo ostativo, cioè l’unica forma vera di carcere a vita esistente nel nostro ordinamento, è sicuramente in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione, oltre che con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Lo afferma senza ombra di dubbio la Corte Costituzionale, riunita ieri per decidere su stimolo della cassazione. Un’incostituzionalità palese di cui sono convinti i giudici dell’Alta Corte e quelli della Corte suprema, cioè i vertici massimi della giustizia. Ne sono convinti però non emettono una sentenza, ma rimbalzano al Parlamento, dando un anno di tempo per decidere di sbloccare con una legge la situazione di 1.271 detenuti che stanno scontando nel frattempo la pena di morte sociale. Cacciati come sono in fondo a un buco nero da cui non possono uscire, benché abbiano spesso scontato la pena massima, se non si trasformano in “pentiti”. Non pentiti nel senso letterale, cioè prigionieri di quel moto dell’animo che induce a prendere le distanze da un comportamento del passato, ma delatori sui comportamenti altrui. Succede così che molti di questi detenuti non siano in grado di raccontare niente di nuovo al magistrato, magari perché sono innocenti (capita persino questo) o perché degli episodi di cui sono stati protagonisti gli inquirenti sanno già tutto, o semplicemente perché nel percorso di cambiamento che hanno vissuto in tanti anni di carcere non rientrano la delazione e magari la calunnia. Ma ai magistrati pare non interessare molto dei progressi fatti dal detenuto attraverso il famoso “trattamento” individuale in carcere, vogliono solo la collaborazione processuale. E questo benché la storia di qualche decennio, da Contorno a Scarantino, mostri quanto poco attendibili siano spesso i famosi “pentiti”. Ma il problema è che chi non collabora è sempre considerato mafioso, tutta la vita, anche quando il cambiamento lo ha dimostrato giorno dopo giorno. Il punto è che, come ha ben ricordato nei giorni scorsi Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, è proprio il concetto stesso di ergastolo, cioè di pena a vita, a essere contrario ai principi costituzionali. È vero che ci sono state due importanti riforme, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, quella del 1975 e la legge Gozzini del 1986, che avevano demolito il principio del “fine pena mai”, aprendo numerosi spiragli su permessi premio, semilibertà, lavoro esterno, liberazione anticipata e libertà condizionale, prevista per tutti i detenuti che avessero scontato 26 anni di pena. L’introduzione del “trattamento penitenziario” con al centro la personalità e il progetto di cambiamento del detenuto condannato (riforma del 1975), e la conquista delle misure alternative al carcere (legge Gozzini), avevano portato l’Italia a un clima culturale di grande civiltà giuridica. Dopo essersi liberato per la seconda volta dopo il fascismo della pena di morte (che nell’ordinamento militare rimase però fino al 1994), il nostro Paese eliminava nei fatti anche la condanna alla morte sociale. Consentendo a chiunque avesse spezzato il patto con la comunità, di attuare in seguito un percorso diverso, con la speranza di poter ricostruire il patto sociale. Saranno poi l’aggressione feroce della mafia e in particolare l’assassinio di Giovanni Falcone (e subito dopo quello di Paolo Borsellino) a far perdere il lume della ragione e i principi dello stato di diritto a governi imbelli ormai agli sgoccioli della prima repubblica. L’ergastolo ostativo, insieme all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, l’inversione dell’onere della prova sulla persistenza dei rapporti tra il detenuto e la criminalità organizzata, nascono di lì. Non dalla mente di Falcone, ma dopo la morte del magistrato. La legge numero 306 del 1992 ebbe un’accelerazione improvvisa dopo il 19 luglio, quando la mafia fece saltare in aria l’auto di Paolo Borsellino. Sono passati trent’anni, e almeno se ne discute. Ma ci saremmo aspettati più coraggio dalla Corte Costituzionale. Si tratta di sanare un’ingiustizia. Ergastolo ostativo, permesso premio solo per 5 ergastolani “ostativi” su 1.271 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 aprile 2021 I numeri sul permesso premio sull’ergastolo ostativo sconfessano quanti, dopo la precedente sentenza della Consulta, hanno gridato al “libera tutti”. Ergastolo ostativo: la Consulta ha rimandato a maggio dell’anno prossimo la trattazione della questione di legittimità costituzionale della preclusione assoluta della liberazione condizionale per chi non collabora con la giustizia. Nel frattempo ha auspicato che sia il legislatore ad intervenire, tenendo ben presente che quella parte del 4 bis è incostituzionale. Quindi sì, la preclusione assoluta è illegittima. Ma veniamo al punto. Non si parla di alcun automatismo nel concederla. Attualmente, per chi è in ergastolo ostativo, il magistrato di sorveglianza non può valutare se il detenuto abbia o meno i requisiti per ottenere questo beneficio penitenziario. Questione importante, perché si continua a disinformare sul punto. A distanza di due anni dalla decisione della Cedu Marcello Viola non ha ottenuto alcun beneficio - Nel 2019 si è fatto fuoco e fiamme per la decisione della Consulta (sentenza n. 253 del 2019 dove in quel caso ha deciso, senza scaricare la patata bollente al parlamento) in merito alla illegittimità costituzionale sulla preclusione assoluta del permesso premio per i non collaboranti. La disinformazione in atto, ha dato la percezione che si trattasse di indebolimento della lotta alla mafia. Ancora peggio, all’indomani della decisione della Corte Europea dei diritti dell’uomo sul caso Viola contro Italia, è passata la fake news che si fosse trattato di “tana libera” tutti. Niente di più falso. Basti pensare che, a distanza di due anni dalla sentenza europea, Marcello Viola (ergastolo ostativo fin dal 2000) è tuttora in carcere e non è riuscito ad ottenere alcun beneficio. Così come c’è l’ergastolano Sebastiano Cannizzaro, colui che è stato oggetto della tanto criticata sentenza della Consulta, che non ha ancora ottenuto il permesso premio. Anzi ha subito anche una difficoltà per avere la scheda di sintesi necessaria per l’ottenimento del beneficio. Questo a causa del trasferimento dal carcere di Sulmona a quello di San Gimignano. In un anno e mezzo solo 5 detenuti hanno ottenuto il permesso premio - Per quanto riguarda la sentenza della Consulta sul permesso premio per l’ergastolo ostativo, scopriamo che in un anno e mezzo pochi hanno ottenuto tale beneficio che, ricordiamo, si tratta di ottenere qualche ora di libera uscita con tanto di scorta al seguito. Secondo i dati elaborati da Il Dubbio, in un anno e mezzo soltanto cinque ergastolani hanno ottenuto il permesso premio. Solo cinque detenuti su 1.271 ergastolani ostativi. Numeri da prefisso telefonico. I paletti rigidi previsti dalla sentenza della Corte costituzionale - Come mai questa difficoltà nell’ottenere tale beneficio? Semplice: la Consulta ha messo rigidi paletti. Da una parte c’è una apertura perché si dà al giudice di sorveglianza un margine di valutazione che fin qui non aveva; dall’altra però ci sono dei paletti: va provata la “non attualità della partecipazione all’associazione criminale” e va “escluso il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata”. Questa affermazione viene articolata più ampiamente nella sentenza stessa e si arricchisce di ulteriori precisazioni. Si parte da un assunto: quando si tratta “del reato di affiliazione a una associazione mafiosa (e dei reati a questa collegati) (…) la valutazione in concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata - da parte di tutte le autorità coinvolte, e in primo luogo ad opera del magistrato di sorveglianza - deve rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo”, e - continua la Consulta - “ciò giustifica che la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora, pur non più assoluta, sia superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione, ma soprattutto in forza dell’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi”. Per la Consulta la sola dissociazione annunciata non vale - Si badi bene, i giudici delle leggi fanno cenno anche alla dichiarazione di dissociazione: checché ne dicano taluni giornali che evidentemente non sanno di cosa parlano, la Consulta ha scritto nero su bianco che non vale nulla la sola dissociazione annunciata dai presunti ex boss della mafia. L’essenza della decisione della Consulta sui permessi premio, la ritroviamo in questa sua affermazione: “La collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario (la mancata collaborazione) non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento o “emenda”, secondo una lettura “correzionalistica” della rieducazione (…). La condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione”. Quindi, la sentenza del 2019, è stata sicuramente coraggiosa, ma piena di cautele. Tutto il resto è propaganda. Perché è anacronistico il “fine pena mai” nato durante l’emergenza mafiosa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 aprile 2021 Dopo la strage di Capaci è stato inasprito il 4 bis, mettendo la preclusione ai benefici per chi non collabora con la giustizia. L’ergastolo, pena perpetua, fu introdotto nell’ordinamento italiano con il Codice Zanardelli nel 1890 che, all’art. 12, prevedeva per i condannati a tale sanzione, la segregazione cellulare continua con obbligo di lavoro per i primi 7 anni, successivamente l’ammissione al lavoro insieme ad altri condannati, con obbligo del silenzio, pur sussistendo la misura della segregazione cellulare notturna. In seguito, con il Codice Rocco, venne riformata la disciplina dell’ergastolo che fu spogliato del carattere intensamente afflittivo previsto dal precedente Codice mediante l’abolizione della segregazione cellulare continua. Prevedeva che i condannati scontassero la pena in uno stabilimento ad hoc, l’obbligo del lavoro, l’isolamento notturno e solo dopo l’espiazione di almeno 3 anni di pena l’accesso al lavoro all’aperto. Con la legge n. 1634/1962 venne introdotta una modifica mediante l’inclusione dei condannati all’ergastolo tra i soggetti ammissibili alla liberazione condizionale, qualora avessero effettivamente scontato 28 anni di pena, in seguito ridotti a 26 anni con la legge n. 663/1986, nota come legge Gozzini. La stessa legge ha introdotto delle ipotesi in cui il detenuto potesse uscire temporaneamente dal carcere, tenuto conto dell’andamento del percorso rieducativo, per lo svolgimento di lavoro all’esterno e per permessi premio dopo aver espiato 10 anni di pena mentre, trascorsi 20 anni, poteva essere disposto l’accesso alla semilibertà. Sempre la Legge Gozzini ha ammesso che l’ergastolano che avesse dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione potesse fruire, come riconoscimento di detta partecipazione, di una detrazione di pena di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata con conseguente riduzione dei termini per l’ammissione ai benefici penitenziari. Ma poi arriva l’emergenza mafiosa che oggi non esiste più. I corleonesi trucidarono carabinieri, magistrati, gente comune, figli piccoli dei mafiosi per vendetta. Grazie a Falcone, nel 1991 il legislatore ha introdotto l’art. 4 bis, norma che detta la disciplina di accesso ai benefici penitenziari, con la quale si sono individuate due categorie di detenuti: quelli di prima fascia, condannati per delitti particolarmente gravi quali quelli di associazione di tipo mafioso, terrorismo ed eversione; quelli di seconda fascia, invece, rientravano gli autori di delitti che facevano presumere una minore pericolosità sociale del condannato, per i quali era richiesta l’assenza di elementi che facessero ritenere ancora sussistente il collegamento con la criminalità organizzata. Per entrambi le fasce, non c’era alcuna preclusione assoluta ai benefici penitenziari. A seguito della strage di Capaci, hanno inasprito il 4 bis, mettendo la preclusione ai benefici per chi non collabora con la giustizia. Venne fato in nome dell’emergenza stragista. Lo Stato vinse, l’emergenza finì, ma la legge è rimasta. C’è voluto l’intervento della Consulta affinché si ritorni sui binari dettati dalla Costituzione. “Nessuna pena abbia il termine finale ‘mai’, perché altrimenti è inutile cercare di rieducare” di Giulio Meazzini Città Nuova, 17 aprile 2021 Elvio Fassone è stato magistrato e senatore della Repubblica. Nel corso della sua carriera di giudice, un giorno ha incontrato Salvatore, mafioso, autore di 15 omicidi. Dopo averlo condannato all’ergastolo, ha iniziato con lui uno scambio epistolare durato oltre 30 anni, grazie al quale Salvatore ha iniziato in carcere un lento ma progressivo cammino per cambiare vita. Nel momento in cui finalmente aveva la possibilità di essere ammesso alla semi-libertà, però, una banale infrazione lo ha ricacciato nella pena senza fine, nell’eternità senza sbocco. Per cui a un certo punto ha tentato il suicidio. Un agente è intervenuto in tempo e lo ha salvato, ma la porta del carcere potrebbe non riaprirsi più per lui. La corrispondenza tra il magistrato e l’ergastolano è descritta nel libro “Fine pena: ora” (Sellerio). Come è iniziato questo rapporto con Salvatore? Nel 1985 a Torino si celebrava un maxi-processo alla mafia catanese. Un processo particolare, perché per il numero degli imputati è durato quasi due anni. Di solito, in un processo normale il giudice vede e parla con gli imputati per un’ora, due ore, un giorno, non di più, per cui non c’è tempo per instaurare un rapporto. Invece in quel caso siamo stati di fronte per 20 mesi. In più, essendo io responsabile della gestione di ben 242 persone e relativi familiari, mi sentivo responsabile anche sul piano delle relazioni umane: ero una specie di sindaco di un piccolo paese. Per esempio se un detenuto doveva farsi estrarre un dente e non sapeva come fare perché il carcere non gli procurava l’intervento, o se una convivente, arrivata da lontano proprio nel giorno in cui non c’erano colloqui, chiedeva di non tornare a casa a mani vuote, ero io che dovevo cercare di rimediare. Piccole cose che però costituivano lo sfondo umano della piccola comunità che si era venuta a costituire. Il momento storico non era dei più sereni… Esatto. C’era un fortissimo clima di antagonismo. Il processo riguardava la più sanguinaria delinquenza della Sicilia orientale, quindi Catania e dintorni. C’era il gotha della criminalità e si giudicava qualcosa come 60 omicidi. Il clima era di guerra dichiarata, soprattutto agli “infami” che collaboravano con la giustizia e alle loro famiglie: infatti nel corso del processo si verificarono 7 episodi di sangue. Sia per svelenire questa atmosfera, sia per una qualche empatia con queste persone che mi erano affidate, introdussi una prassi anomala: dichiarai in pubblica udienza che dopo la fine dell’udienza mi sarei trattenuto 15 o 20 minuti, insieme al giudice togato, per eventuali problemi e istanze di quel genere, purché non avessero nulla a che vedere col processo. Un gesto distensivo… Questo svelenì moltissimo l’atmosfera e indusse in particolare Salvatore, che era il capo dei capi, a instaurare un rapporto non più antagonista con la Corte, in particolare con me. Rapporto che culminò, in una delle ultime udienze, nella sua richiesta di venirmi a parlare proprio in quei 15 minuti. Tra le altre cose mi chiese: “Presidente, lei ce l’ha un figlio?”. Risposi che ne avevo tre, e che il più grande aveva più o meno la sua età. “Lo so. Volevo dirle che se suo figlio nasceva dove sono nato io, magari a quest’ora lui era nella gabbia al posto mio, e se io ero nato dove è nato suo figlio a quest’ora facevo l’avvocato”. In questa frase lessi quasi una nostalgia di non essere mio figlio. A quel punto prese l’iniziativa? La corte lo condannò, come era inevitabile in base agli atti, all’ergastolo. Ma mi rimase dentro una domanda: come farà un giovane di 27 anni come lui a passare tutta la vita in una cella, come potrà resistere? D’impulso gli mandai una lettera facendogli coraggio. Fu un gesto un poco temerario, perché avrebbe potuto mandarmi a quel paese, invece mi rispose con affetto e di lì nacque la corrispondenza descritta nel libro. Una corrispondenza durata 30 anni. Come l’ha vissuta? Non posso dire di essere cambiato radicalmente lungo gli anni della corrispondenza, ma mi ha cambiato la stesura e poi l’uscita del libro. Da tempo avevo una sensazione di solidarietà umana, chiamiamola pietà, verso i condannati, e soprattutto i condannati a pene molto lunghe. Intuivo che doveva essere una sofferenza terribile, soprattutto perché con l’ergastolo ti è tolta la speranza. Dieci anni di carcere sono lunghi, ma sai che ogni giorno togli un pezzettino di pena, per cui prima o poi uscirai. Ma quando sulla tua cartella c’è scritto “fine pena: mai”, sei portato alla disperazione. Si diventa pazzi? Gli studiosi di psicologia affermano che la sofferenza senza speranza innesca una sorta di processo di autodifesa che toglie la ragione ai cervelli più vulnerabili. Diventa una vera e propria patologia. Infatti sono molti i detenuti che si tolgono la vita o tentano di togliersela. Se togli la speranza a un carcerato, gli togli la ragione di vivere. Ritorniamo all’uscita del libro… Il libro è uscito nel 2015 e ha avuto un’accoglienza incredibile: 13 edizioni. Ho girato l’Italia perché mi chiamavano da tutte le parti, università, associazioni, scuole. Sono passati tre anni e ancora ricevo inviti ad andare, non tanto a presentare il libro, quanto ad illustrare la situazione carceraria, soprattutto quella degli ergastolani. Questo mi ha cambiato, mi ha coinvolto enormemente nel problema. Sono diventato, in qualche modo, un punto di riferimento per questa problematica. C’è anche gente che la accusa di non essere obiettivo perché si lascia prendere dall’empatia per il detenuto? È accaduto molto raramente e non con atteggiamento polemico. Mi hanno detto soprattutto questo: nessuno uccida Caino, va bene, ma ricordiamoci anche di Abele, cioè delle vittime. Ho risposto che nel processo la Corte ha condannato gli imputati all’ergastolo, non si è limitata a pochi anni per pietà. Abbiamo applicato la legge senza sconti. Poi però subentra un altro campo di azione, in cui si può moderare la durezza della legge con un accompagnamento di tipo umano. Nessuno mi ha potuto rimproverare per aver fatto questo. Nel libro lei ricorda che anni fa è stato bocciato un referendum sull’ergastolo. È stato bocciato fragorosamente, con il 78% di “no”. Ma il referendum era più radicale di quel che sostengo io, che sono contrario al solo ergastolo “ostativo”, perché la domanda era: “Volete abolire l’ergastolo?”. Io stesso ho votato “no”. Secondo me, di fronte a casi di estrema gravità, come una strage o l’omicidio di un bambino, non possiamo subito dire: “Beh, siamo buoni, anche lui è un uomo, chissà quali condizionamenti ha subìto”. Oltre alla vittima e ai familiari della vittima, tutta la comunità è profondamente ferita dal crimine nei suoi sentimenti più profondi e deve avere il tempo di elaborare il lutto. Una sentenza di condanna “giusta” aiuta a elaborare il lutto, perché conferma la comunità nella fiducia in certi valori: non si ammazza, non si stupra, non si deruba, non si spaccia. Ecco perché ritengo che a caldo sia sbagliato andare dai parenti della vittima e chiedere: “Lei è disposto a perdonare?”. Lasciamo che elaborino il loro lutto. C’è un tempo per tutto… C’è il tempo del delitto, che esige una elaborazione da parte di tutti, del reo e della comunità. E poi c’è il tempo dell’espiazione, quello che comincia dopo che le luci si sono spente. Purtroppo il processo interessa solo fino alla sentenza, poi l’attenzione dei media finisce. Invece lì comincia il vero dramma. È lì che la comunità deve, con equilibrio e prudenza, ma anche con generosità, accompagnare il detenuto. Accompagnare non vuol dire metterlo fuori dalla prigione, ma aiutarlo nel percorso di maturazione. Quindi esattamente cosa propone? Propongo che nessuna pena abbia il termine finale “mai”, perché altrimenti è inutile cercare di rieducare. Cosa mi rieduco a fare se tanto marcirò qui per sempre? Quindi lei dice: diamo l’ergastolo, ma durante il tempo della detenzione controlliamo se la rieducazione sta funzionando. È così? È già così, a parte l’ergastolo ostativo. Il nostro ordinamento non è sordo e non è reazionario. Ha recepito, a partire dalla legge Gozzini dell’86, l’istanza del cosiddetto “regime progressivo”: tu condannato mi dai qualcosa in termini di maturazione nel modo di guardare il mondo e rapportarti con gli altri, e io-Stato, io-ordinamento dopo un certo numero di anni ti concedo dei permessi, se li hai guadagnati. Dopo un numero ulteriore di anni, se continua la rieducazione, ti do la semilibertà: esci durante il giorno per lavorare e poi rientri. Dopo altro tempo ti do i benefici ancora più estesi: la liberazione condizionale, una sorta di libertà vigilata. Infine, ti do la libertà piena, se hai sempre camminato nella stessa direzione. Per Salvatore questo progresso si è interrotto… Purtroppo Salvatore ha avuto qualche deviazione di percorso: i permessi li aveva avuti, il lavoro all’esterno l’aveva avuto, era stato dichiarato idoneo per la semilibertà, poi ha fatto una sciocchezza e ha dovuto rinunciarvi. Ma gli psicologi sono in grado di capire se effettivamente il detenuto si è rieducato? Leggere nell’anima non è possibile. Ma la competenza, la sequenza dei rapporti periodici sulla personalità, e l’esperienza offrono una buona probabilità di capire. Con la rieducazione migliora la sicurezza della società? Sì, perché il detenuto che esce, poi raramente delinque. Il 97% dei detenuti rientra migliore, perché ha visto la compagna o la moglie, i figli, il mondo. La semilibertà è preziosa perché esci per lavorare, cioè esci per assumere in pieno la qualità di cittadino. Il cittadino è tale proprio perché è immerso in una serie di relazioni sociali positive, tra le quali primeggia il lavoro. Poi se ci sono degli abusi bisogna sanzionarli. L’importante è non sbarrare mai la porta in modo definitivo. Invece l’ergastolo ostativo? Questo è il problema che rimane da affrontare. È stato introdotto nel ‘92, dopo gli assassini Falcone e Borsellino. Lo Stato non poteva non dare un giro di vite alla criminalità di tipo mafioso. Per i condannati a causa di delitti di questo tipo i benefici non sono più ammissibili, a meno che i detenuti accettino di diventare collaboratori di giustizia. Questo ha permesso formalmente alla Corte costituzionale, quando fu investita della questione sulla base dell’articolo 27 della Costituzione (che recita che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato), di dire che anche nel caso di “ergastolo ostativo” il condannato ha comunque una via di uscita, quella di diventare un collaborante con lo Stato. La Corte ritenne allora di non poter smantellare quello che lo Stato aveva fatto sotto l’onda dell’emozione di quei due episodi tragici del ‘92. E quindi sentenziò: una via di uscita c’è ed è la collaborazione. Sta al detenuto guadagnarsela. Funziona? No. Quasi nessuno dei condannati ha accettato di farsi “pentito”, quindi gli ergastolani in larga parte sono di nuovo diventati “fine pena: mai”. Al momento gli ergastolani ostativi in Italia sono circa 1600. Queste persone vivono con il “fine pena: mai”. La mia riserva sulla legislazione attuale è solo su questo punto, ma su questo è forte e netta. Cosa mi dice delle vittime? Quando vado in giro a raccontare la mia esperienza, incontro molte persone che manifestano solidarietà con Salvatore, il quale ha raggiunto il livello di 35 anni in carcere, credo sia un record in Italia. Ne trovo anche qualcuna, però, che mi ricorda che pure i parenti delle vittime hanno il “fine pena: mai”, in compagnia del proprio dolore. Allora rispondo che mi è ben chiaro il problema di Abele, infatti nel mio libro una delle ultime frasi è: “Nessuno tocchi Caino e nessuno dimentichi Abele”. Un’eventuale riforma sarà tanto più accettata se si farà carico anche di Abele, ad esempio con provvidenze a favore dei congiunti delle vittime, a favore di quelli che soffrono a causa del delitto in generale. Non deve trattarsi necessariamente di un omicidio, anche una coppia di anziani depredata in casa andrebbe risarcita. Ci dovrebbe essere un fondo di solidarietà per queste persone. Questo le aiuterebbe ad accettare che nessuno uccida definitivamente Caino. Se una riforma metterà insieme entrambi questi obiettivi, sarà molto più facile farla accettare. Errori giudiziari, come cancellare la vergogna degli innocenti in carcere di Viviana Lanza Il Riformista, 17 aprile 2021 La mancata riforma della giustizia, i tempi eccessivamente lunghi del processo. E poi, il ricorso talvolta eccessivo che alcuni pm fanno della misura cautelare e la gogna mediatica che inesorabilmente scatta ogni volta che un sospetto investigativo si accompagna all’applicazione di una misura cautelare personale. Eccoli i nodi del sistema giudiziario, le origini di molti drammi degli innocenti in carcere. Eccoli i quattro temi da affrontare. Da giorni Il Riformista ha puntato l’attenzione sul fenomeno degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni, raccogliendo opinioni e riflessioni fra esponenti del mondo giudiziario, accademico, ecclesiastico. La somma delle considerazioni ha portato a stilare una sorta di elenco dei punti più critici del sistema giustizia. Che visti da un’altra ottica, quella più riformista, quella più attenta alle proposte per migliorare il futuro che alle lamentele per come si è sempre fatto in passato, possono anche essere viste come quattro possibili aree di intervento per trovare soluzioni al problema, ridurre il numero annuale degli errori giudiziari e fare in modo che sempre meno innocenti finiscano in carcere e alla gogna mediatica prima ancora di subire un processo vero e proprio. Quattro punti, dunque. Per definire lo scenario e trovare una possibile soluzione al dramma di chi finisce in cella senza aver commesso alcun reato. Un primo punto riguarda l’uso della misura cautelare personale. La custodia cautelare è materia sulla quale il legislatore, negli anni, è più volte intervenuto per mettere paletti alle cosiddette “manette facili”, eppure il problema continua ad essere uno dei nodi irrisolti del sistema. Sbaglia chi crede che sia una questione di nicchia, troppo marginale per richiedere una seria attenzione da parte dell’opinione pubblica. L’associazione Errorigiudiziari.com raccoglie da 25 anni i numeri sulle ingiuste detenzioni: i casi sono centinaia ogni anno e tra le città maglia nera Napoli è in cima alle classifiche ormai da anni. La custodia cautelare finisce per essere un’anticipazione della pena e quando al termine del processo si stabilisce che l’imputato è innocente, il periodo in carcere a cui lo si è condannato prima del tempo diventa uno sbaglio al quale è difficile rimediare. Se a questo si aggiungono le lungaggini giudiziarie, cioè i tempi lunghi del processo - che è poi il secondo punto critico del sistema giustizia -, si possono immaginare le proporzioni drammatiche del fenomeno. Immaginate un innocente che finisce in carcere, con la carriera e spesso anche la vita personale irrimediabilmente segnate da questa esperienza. E immaginate che per dimostrare la propria innocenza questa persona dovrà aspettare la fine dell’iter processuale che in media in Italia può arrivare a durare anche dieci e più anni. È palese, come del resto dicono da tempo immemore tutti fra avvocati e magistrati, che un primo serio intervento deve riguardare i tempi del processo, quei tempi che sulla carta dovrebbero essere “ragionevoli” ma nella realtà sono quasi sempre biblici. Occorre dunque una riforma del sistema giustizia: e qui andiamo direttamente al terzo punto critico. La mancata riforma degli ultimi anni è una delle cause all’origine di molti errori giudiziari: ora, guardando al futuro, è la riforma, quella organica della Giustizia, la chiave per snellire la selva di norme, alleggerire la burocrazia delle procedure e definire i casi giudiziari in tempi ragionevoli riducendo arretrati ed errori. Infine c’è la gogna mediatica: è il quarto nodo critico. Non fa parte delle disfunzioni interne al sistema giudiziario, ma ne è una diretta conseguenza. Basti pensare a quanto la presunzione di innocenza sia stato un principio troppo a lungo dimenticato quando, di fronte alla notizia di un arresto, seppure in fase cautelare e seppure sulla base di sospetti ancora non suffragati da alcuna prova, i giornali si sono fiondati a descrivere i dettagli più nascosti scovati tra le righe di intercettazioni trascritte e stralci di testimonianze, sbilanciando l’informazione sempre più a favore delle ricostruzioni investigative iniziali. Occorre dunque uno sforzo collettivo per risollevare le sorti della giustizia e dei diritti di tutti. Intanto, la prossima settimana, sarà discussa alla Camera la proposta di legge presentata dal deputato di Azione Enrico Costa: “Si introduce una nuova e specifica ipotesi di responsabilità disciplinare per chi abbia concorso, per negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione di provvedimenti di restrizione della libertà personale per i quali sia stata disposta la riparazione per ingiusta detenzione”. Si vedrà. Risorto l’asse giallo-verde. La difesa del “fine pena mai” riunisce Salvini e 5 Stelle di Rocco Vazzana Il Dubbio, 17 aprile 2021 L’ergastolo ostativo spacca la maggioranza e ridisegna la geografia delle alleanze. Lega e Movimento 5 Stelle tornano a marciare insieme contro la modifica della norma. La Consulta spacca la maggioranza e ridisegna la geografia delle alleanze. Almeno su un tema, quello dell’ergastolo ostativo, su cui la Corte costituzionale ha concesso al Parlamento un anno di tempo per rimettere mano alle norme in vigore, considerate incostituzionali. E così, nel governo di tutti e di nessuno i partiti si posizionano liberamente sull’argomento in base alle proprie sensibilità: sull’ergastolo ostativo non c’è ragionamento di opportunità politica che tenga. L’alleanza tra Pd e M5S, ad esempio, può anche andare in malora, la differenza tra dem e grillini su argomenti legati alla giustizia è troppo profonda per essere colmata in pochi mesi: convinti della necessità di assecondare la Corte i primi, mossi dalla fede nella pena severa i secondi. Così, potere della Consulta, risbocciano all’improvviso vecchi amori che il rancore sembrava aver sepolto, come quello tra Lega e Movimento, i coniugi del primo governo Conte finiti a scagliarsi l’argenteria addosso dopo il “tradimento” del Papeete. L’ergastolo ostativo potrebbe ridistendere gli animi. O così sembra ad ascoltare il punto di vista intransigente dei vecchi alleati. Anche se con sfumature e toni diversi, salviniani e contiani si schierano sulla stessa parte della barricata: l’ergastolo ostativo non si tocca. “La nostra legislazione antimafia è la migliore al mondo, ed è stata scritta con il contributo di persone che hanno sacrificato la loro vita per servire il Paese”, dice l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, prima di annunciare: “Subito dopo il deposito delle motivazioni della decisione della Corte costituzionale, il Movimento cinque stelle presenterà una proposta di legge per proteggere e salvaguardare quell’impianto normativo che ha consentito di fare passi avanti enormi nella lotta alle mafie”. Bonafede è sicuro che in Parlamento il M5S riuscirà a trovare ampia convergenza sulla proposta pentastellata “in quanto la battaglia contro la criminalità organizzata di stampo mafioso è patrimonio comune a tutte le forze politiche”. L’ampia convergenza auspicata dall’ex Guardasigilli, al momento si esaurisce però alle forze della destra. E neanche tutta, visto che Forza Italia esprime una posizione molto diversa dagli alleati. Salvini in compenso è perentorio: “Per mafiosi e assassini l’ergastolo non si tocca, dicano quello che vogliono. E basta”, twitta senza giri di parole il leader della Lega. La Corte costituzionale, in altre parole, può dire ciò che vuole, con chi non collabora bisogna buttare la chiave, è il messaggio neanche troppo velato dei sostenitori della galera fino alla morte. “Le indicazioni della Consulta vanno tenute nel doveroso conto ma con altrettanta chiarezza va riaffermato che la lotta senza quartiere a mafie e criminalità organizzate non può tradire incertezze o passi indietro”, scrivono in una nota i parlamentari in commissione Antimafia del Carroccio. “Chi sceglie la via dell’illegalità e non sente alcuna necessità di pentimento, non può vedersi riconosciuti benefici”, aggiungono, assicurando il contributo della Lega per rispondere alla Consulta, senza però mettere in discussione le proprie convinzioni: nessuno “spazio o ambiguità verso chi delinque impunemente”. Parole che sembrano rubate di bocca ai colleghi del Movimento impegnati in commissione Giustizia alla Camera, che a loro volta scrivono: “L’unico modo che il mafioso ha per ravvedersi è collaborare con la giustizia”. Dare invece “la possibilità di accedere a benefici penitenziari e liberazione condizionale, in assenza di collaborazione, significa indebolire principi e capisaldi nella lotta alle mafie voluti, tra gli altri, da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”. L’intransigenza pentastellata si scontra però con l’atteggiamento “laico” del Pd, convinto che non si possano ignorare le indicazioni della Corte costituzionale su un tema così delicato. “Il Parlamento non può rimanere ostaggio di chi pensa di dovere affrontare una questione così delicata con frasi superficiali del tipo “l’ergastolo non si tocca” o “la sentenza è una vergogna”, dice il deputato dem Carmelo Miceli, componente delle commissioni Giustizia e Antimafia. Bisogna invece trovare il “giusto bilanciamento tra la funzione emendativa della pena e l’aspettativa di giustizia delle vittime, tra la tutela del principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e la necessità di interrompere la pericolosità sociale che deriva dal carattere permanente del vincolo associativo mafioso”, aggiunge Miceli. Tutto questo si può fare, conclude l’esponente Pd, “basta avere il coraggio e la determinazione di affrontare il dibattito senza cedere alla demagogia spicciola e al populismo sconsiderato”. “Processo giusto e breve”. Cartabia dà la linea sulla riforma penale di Errico Novi Il Dubbio, 17 aprile 2021 Con l’intervento di stamattina al webinar organizzato dall’Unione Camere penali, la guardasigilli ha anticipato la forma che ritiene necessario dare al ddl in discussione alla Camera nei prossimi giorni: la speditezza andrà ottenuta “nel rispetto dell’articolo 111”, il giusto processo appunto, “e dell’articolo 24”, il diritto di difesa. Che non potrà essere la vittima da sacrificare in nome dell’efficienza. Ricordate il dilemma giustizia? “Sia rapida, prima di tutto”, intimano i benpensanti dell’efficientismo. Può quindi non essere innanzitutto giusta? Ieri Marta Cartabia ha rassicurato tutti: “È la Costituzione a richiedere che il processo sia giusto” oltre che “breve”, ha ricordato al webinar intitolato appunto dall’Unione Camere penali “Di ragionevole durata soltanto se giusto”. Cosa se ne può dedurre? Che nella riforma penale destinata a cambiare con gli emendamenti in arrivo la prossima settimana, Cartabia intende fare della rapidità non uno schiacciasassi con cui abbattere le garanzie difensive, ma una effettiva attuazione degli articoli 111 e 24. Perché la guardasigilli ha tenuto a ricordare subito che il processo “breve” in quanto “giusto” è imposto “chiaramente dall’articolo 111 e, non dimentichiamolo, già dell’articolo 24”. E l’articolo 24 della Costituzione riguarda appunto il diritto di difesa. Quindi, processo “di ragionevole durata” vuol dire sì giusto processo, ma a condizione che il diritto di difesa, l’articolo 24 appunto, non venga tradito. Un chiarimento utile alla vigilia della settimana di fuoco, quella che culminerà nel termine degli emendamenti alla riforma, fissato per venerdì prossimo. Cartabia sa cos’attende lei e la maggioranza. E sa che tutto sarà ancora più difficile ora che la Corte costituzionale ha imposto alla politica di occuparsi pure dell’ergastolo ostativo. Allo stesso modo degli articoli 111 e 24, ha ricordato la guardasigilli al webinar dei penalisti, “i principi europei, specie quelli elaborati dalla Corte di Strasburgo, chiedono una tutela giurisdizionale effettiva e allo stesso tempo ragionevole nella sua durata”. Di nuovo: se di irragionevole durata, il processo non può essere giusto. “La Costituzione”, ha aggiunto Cartabia, “letta nella cornice europea, non potrà che essere, in ogni momento, punto di riferimento certo e sicuro per la nostra navigazione verso l’approdo delle necessarie riforme”. Chiarissimo. Anche quando a breve si parlerà di prescrizione, la rotta sarà già indicata dalla Carta: un giudizio d’appello potenzialmente infinito, com’è quello disegnato dalla norma Bonafede, non potrebbe mai essere giusto. “Mettere mano a una macchina tanto complessa quanto delicata come la riforma del processo penale”, ha avvertito la ministra della Giustizia, “richiede pacatezza, approfondimenti, capacità di soppesare ogni proposta senza nascondersi dietro bandiere, slogan, richieste unilaterali. Il dialogo tra tutte le parti è”, dunque, “indispensabile” e “in questo ministero ci sarà sempre un ascolto attento”. Sulla necessità di evitare gli slogan e lasciarsi guidare dal diritto, Cartabia si dice d’accordo con l’Ucpi, che ne ha parlato nel documento con le proposte di modifica sul ddl penale inviato due giorni fa a via Arenula. Ma non tutto può essere risolto dalla procedura. Vale di sicuro per il civile, e il penale non fa eccezione: l’obiettivo di un processo più giusto ma anche più efficiente può essere raggiunto, ricorda la guardasigilli, “solo se si ricorre anzitutto a importanti interventi sul piano organizzativo”. Altra notizia: “Chiederò al futuro capo dell’Ispettorato di essere veicolo di condivisione delle tante buone prassi già in atto in molti uffici giudiziari”. Un preavviso a chi perseverasse, pur a fronte di statistiche favorevoli, nell’ignorare le best practices altrui. Le parole della guardasigilli sono pesanti per i magistrati ma innanzitutto per i partiti. Non le commenta quasi nessuno. Uno dei pochissimi è il presidente della commissione Giustizia di Montecitorio, e deputato M5S, Mario Perantoni, cioè l’arbitro della contesa che sta per iniziare: “Spero che le forze parlamentari soprattutto di maggioranza facciano tesoro delle parole della ministra”, dice. Non ci si deve nascondere “dietro slogan”, servono “approfondimento, ragionamento”, non “provocazioni”. Perciò Perantoni chiede di evitare “un inutile scontro politico”. Incontestabile. Dal monito non potranno sentirsi esentati, d’altronde, i compagni di partito dello stesso Perantoni: il processo potrà essere non solo efficiente ma anche giusto, se con la prescrizione abolita rischia di diventare eterno? Csm in allarme per il “rinnovo parziale”, la soluzione che piace a Cartabia di Liana Milella La Repubblica, 17 aprile 2021 Enrico Costa di Azione propone lo “spazza-correnti”, il voto singolo trasferibile, lo stesso sistema che il costituzionalista Massimo Luciani, al vertice del gruppo di lavoro che in via Arenula studia la riforma, ha già definito come una soluzione “assai adatta”. Al Csm stanno già facendo i conti di chi, tra di loro, potrebbe restare per altri due anni dopo il 2022 quando l’attuale Consiglio dovrebbe andare a casa. Perché da via Arenula giungono spifferi sempre più insistenti sull’ipotesi che la ministra Marta Cartabia faccia sul serio con l’idea del “rinnovo parziale” del Consiglio. Ne aveva parlato - come ipotesi - sia alla Camera che al Senato davanti alle due commissioni Giustizia prima di Pasqua. Ma adesso il tam tam si fa sempre più insistente. Nella ormai prossima riforma del Csm e del suo sistema elettorale - in calendario nell’aula della Camera già a giugno - si potrebbe concretizzare anche la soluzione di rinnovare solo parzialmente il Csm, perché la metà dei consiglieri resterebbe in carica per altri due anni, garantendo in questo modo una continuità rispetto al ricambio totale. E per questo gli attuali consiglieri, già in questi giorni, fanno ipotesi su cosa accadrà l’anno prossimo. Magari un sorteggio potrebbe stabilire chi, tra di loro, resta, e chi invece va via. In un Consiglio che ha visto tre elezioni suppletive dopo le sei dimissioni per via del caso Palamara, potrebbe restare in carica anche chi è stato eletto dopo la votazione principale del 2018 per raggiungere comunque i due anni di permanenza. Certo è che l’argomento del “rinnovo parziale” è - al momento - tra i più gettonati a palazzo dei Marescialli. Proprio perché chi ritiene di essere bene informato garantisce che il gruppo di lavoro istituito da Cartabia al ministero per studiare la riforma e gli emendamenti al testo dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede starebbe lavorando anche in questa direzione. Parliamo della commissione - ma Cartabia l’ha battezzata “gruppo di lavoro” - presieduta dal costituzionalista Massimo Luciani che, nel massimo riserbo, sta studiando le soluzioni possibili. E neanche a farlo apposta, ecco un’altra coincidenza che sta creando scompiglio tra le correnti della magistratura sempre a proposito del Csm. Perché il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, particolarmente vivace nel presentare proposte (suoi gli ordini del giorno sulla presunzione di innocenza, sul via libera del gip per i tabulati, nonché l’emendamento sulle intercettazioni per imporre il decreto di sequestro per agenda, foto e filmati nel cellulare spiato dal Trojan), stavolta ha calato la carta del “voto singolo trasferibile”, un sistema elettorale che ha battezzato “spazzacorrenti”. Perché, come spiega lui, “l’elettore non vota le liste, ma solo i singoli candidati indipendentemente dalla loro appartenenza, e può esprimere più preferenze in ordine di gradimento, ma quei voti non avranno tutti lo stesso valore”. Varrà il primo in senso assoluto, mentre il secondo e il terzo varranno di meno ma potranno saldarsi con quello che resta del primo, scombussolando del tutto il risultato. Sapeva Costa che quella del “voto singolo trasferibile” era proprio la proposta che piace a Massimo Luciani? Infatti, non l’appena l’ha depositata alla Camera, più di un deputato ha avvicinato Costa per dirgli, “ma lo sai che al ministero stanno lavorando proprio su questo?”. Eh già, perché il noto costituzionalista Luciani - che adesso non risponde neppure al telefono e si trincera dietro il più assoluto riserbo - parlò del “voto singolo trasferibile” in un forum di giuristi organizzato da “Quaderni costituzionali” nell’ottobre del 2020, i cui atti sono poi stati pubblicati il 2 gennaio di quest’anno. Dove il giudizio di Luciani è netto: “Trovo che sia una soluzione assai adatta”. Parere che, per esempio, non è affatto condiviso da un magistrato come l’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, uno dei più esperti sui sistemi elettorali per il Csm, come dimostra l’analisi contenuta nel suo libro sulla Storia della magistratura (Laterza). Il suo giudizio è netto: “Intanto non è affatto una proposta nuova. È stata il cavallo di battaglia di Mario Cicala (toga di Magistratura indipendente, ndr.). L’ha proposta la commissione Balboni nel 1996. L’ha rilanciata Luciani. È un’ipotesi interessante. Anche se il sistema è contorto e di difficile prevedibilità. E poi io resto dell’idea che vanno evitati i sistemi che non sono stati sperimentati, perché sortiscono risultati opposti a quelli desiderati”. Bruti spiega che votare per il Csm è come votare in un paese dove ci sono 9mila anime, quanti sono i magistrati in Italia, “in cui tutti si conoscono”. E senza fare una simulazione preventiva non si può prevedere l’esito di una nuova legge. La sua conclusione è netta: “Non si possono trasferire sistemi che valgono per milioni di persone su 9mila”. Secondo Bruti, i tentativi fatti finora per cambiare la legge del Csm, come quello dell’ex ministro leghista Roberto Castelli nel 2002, “hanno sempre prodotto risultati opposti a quelli voluti, per cui anziché eliminare le correnti, di fatto se ne possono creare delle altre”. Costa invece è convinto che la sua proposta “spazza-correnti” potrebbe destrutturare il sistema. Perché, sostiene, è “un meccanismo che fa prevalere la persona e il suo valore e non un voto delle correnti, e fa vincere il candidato più trasversale e più apprezzato”. Le liste potrebbero anche esserci, “ma l’elettore non vota le liste, ma i singoli candidati indipendentemente dalla loro appartenenza. Chi vota può esprimere più preferenze in ordine di gradimento, ma non hanno tutte lo stesso valore”. Infatti solo la prima ha un valore “pieno”, mentre le altre valgono di meno. Costa spiega che ci sarà “un quoziente per vincere che deriva dal rapporto tra numero degli elettori e numero dei seggi”. Ma alla fine è improbabile che un candidato vinca solo in base alla prima preferenza, saranno necessarie anche le seconde e le terze. Costa lo definisce come “un compromesso tra chi vuole il sorteggio e chi invece insiste su un sistema elettorale tradizionale”. La cosa certa è che già le toghe storcono il naso. Ma Luciani la pensa come lui. Caro Caselli, nessun attentato: indagare sulle toghe è doveroso di Giovanni Guzzetta Il Riformista, 17 aprile 2021 Il rapporto tra politica e magistratura è complesso: i costituenti ne erano consapevoli e cercarono un equilibrio, da preservare anche grazie all’art. 82 della Carta. Il legislatore ha il diritto di valutare. E di studiare correttivi. Chissà cosa penserebbero Palmiro Togliatti, Giovanni Leone, Gaspare Ambrosini, Piero Calamandrei, Meuccio Ruini, Giorgio La Pira, Aldo Bozzi, Luigi Einaudi, Tomaso Perassi, Aldo Moro, Ferdinando Targetti, Oscar Luigi Scalfaro, Giuseppe Dossetti, Giuseppe Grassi, Giuseppe Bettiol, Orazio Condorelli, Egidio Tosato, Francesco Dominedò e gli altri costituenti che dibatterono della disciplina della magistratura nella Costituzione italiana se leggessero le preoccupazioni di chi ritiene che il legislatore non possa occuparsi dello stato della giustizia con una commissione d’inchiesta parlamentare. L’argomento autorevolmente sostenuto da ultimo da Gian Carlo Caselli si fonda sull’assunto che un’indagine parlamentare, di per sé solo, costituirebbe un attentato all’indipendenza della magistratura. Una motivazione piuttosto sorprendente, alla quale si sarebbe tentati di rispondere come spesso ci è accaduto di sentire da parte di esimi esponenti del giustizialismo nostrano per giustificare iniziative giudiziarie clamorose: “Male non fare, paura non avere”. In realtà il tema merita un approfondimento, anche per l’indiscussa autorevolezza del suo sostenitore. Il rapporto tra politica e magistratura è naturalmente un rapporto complesso. Una complessità di cui i costituenti, che ho sopra citato, erano assolutamente consapevoli. Le loro scelte, alcune delle quali volutamente provvisorie (come quella relativa alla mancata separazione delle carriere in attesa della trasformazione in senso accusatorio del processo penale), mossero, infatti, dalla constatazione dell’esistenza di una irriducibile tensione tra due obiettivi egualmente fondamentali: da un lato assicurare che la magistratura, in particolare quella giudicante, non fosse condizionata e influenzata da interferenze dell’esecutivo e, più in generale, degli altri poteri; dall’altro, però, evitare che essa divenisse un corpo separato, chiusa in se stessa e autoreferenziale. Tutti i costituenti, dunque, anche se ciascuno a proprio modo, consideravano centrale l’esigenza di assicurare l’indipendenza della giurisdizione, prevedendo allo stesso tempo dei meccanismi di raccordo con gli altri poteri, per evitare che l’ordine giudiziario si estraniasse completamente dalla vita della nazione. Come ebbe a rilevare Giovanni Leone, che fu anche uno dei relatori nella Commissione dei 75 e rappresentante della Commissione stessa nel dibattito in Assemblea costituente, “lo scopo da raggiungere è quello di sganciare il potere giudiziario dagli altri poteri dello Stato, per evitare qualsiasi ingerenza, ma nello stesso tempo di impedire il crearsi di una casta chiusa della Magistratura”. In presenza di tale duplice rischio il dibattito costituente non fu affatto ideologico, ma ispirato a una consapevolezza laica della complessità e all’approccio pragmatico, fatto di approssimazioni progressive. Ad esempio, per la composizione del Csm il progetto di Costituzione prevedeva una composizione paritaria di membri laici e togati (proposta, tra gli altri da Calamandrei e Dossetti) sulla base della motivazione “di sottrarre la carriera dei magistrati all’influenza del Governo, e, poiché non si può farne una casta chiusa, di ammettere un controllo popolare”. Fu solo in Assemblea, in forza di un emendamento di Scalfaro e Nobile, che si introdusse la soluzione attuale, per altro, con una votazione molto risicata. Peraltro, come si sa, a fronte della garanzia di indipendenza della magistratura quegli stessi costituenti previdero un sistema di equilibrio fondato sulla previsione dell’immunità parlamentare. Il sonno del delatore di Concita De Gregorio La Repubblica, 17 aprile 2021 Della tragedia di Giovanna Boda, la dirigente del Miur che si è buttata dalla finestra dell’ufficio in cui stava aspettando il suo avvocato - giù prima di parlare con lui - c’è un dettaglio ripugnante. Gli investigatori, si legge in un inciso, erano “probabilmente ispirati dall’interno del ministero”. Cioè esiste qualcuno, in questo momento, da qualche parte, magari seduto a tre porte dalla stanza vuota della dottoressa Boda, che ha “ispirato” l’indagine sulla dirigente: con una denuncia anonima, una telefonata confidenziale, un passa parola arrivato a chi doveva. Probabilmente, non se ne ha certezza. Ma certo c’è almeno un’altra voce, un’altra mano che ha fatto filtrare ai giornali che le cose potrebbero essere andate così. Indipendentemente dai fatti, che la giustizia accerterà speriamo con maggiore rapidità del consueto, toglie il fiato e leva il sonno sapere che nel luogo dove lavoriamo insieme ci sia qualcuno che lavora contro di noi. Tutti ne abbiamo fatto esperienza, in gravi o minori occasioni: di chi per invidia, antagonismo, antipatia, rivalsa ci tende una trappola. Sorride, incrociandoci, e di nascosto pugnala. Che poi i fatti contestati siano reali, da questa prospettiva, è secondario. Molto spesso non lo sono e la gogna, il processo, il sospetto sono già da soli una condanna - specie per chi è innocente. C’è chi è in grado di sopportare la battaglia, anzi persino si esalta. C’è chi soccombe. La delazione è ignobile, e non basta pensare che chi di soffiata ferisce prima o dopo di dossier perisce. Dopo è sempre tardi. Chissà come sarà, in queste notti, il sonno dell’anonimo che ha pensato, un giorno: ora quella la sistemo io. Omicidio Fortuna. Lo Presto (in sedia a rotelle) torna in carcere, lo chiedono i giornali di Valerio Esposito Il Riformista, 17 aprile 2021 Il Tribunale del Riesame ha accolto l’appello della Procura e ha ripristinato la custodia cautelare in carcere per Vincenzo Lo Presto, ritenuto responsabile in primo grado dell’omicidio di Fortuna Bellisario. L’uomo, costretto sulla sedia a rotelle, dopo due anni di detenzione era stato scarcerato il 23 febbraio scorso e per lui erano scattati i domiciliari. Non abbiamo alcun dubbio che la decisione del Riesame sia stata ponderata e anche sofferta. L’auspicio sincero è che l’eco mediatica che ha avuto la vicenda non abbia inciso più di tanto sulla decisione. Sul punto - e al di là del singolo caso - è indiscutibile che, quando il processo fuoriesce in modo così prepotente dalle aule di giustizia finendo e diventa un “processo popolare”, è difficilissimo per tutti i protagonisti mantenere il distacco e la serenità necessaria che costituiscono la pre-condizione per l’esercizio di ogni attività decisionale. Riteniamo doveroso ribadirlo: parenti e amici di Fortuna sono stati ammirevoli, hanno manifestato il loro dolore con compostezza e sobrietà. Non è certo a loro che ci riferiamo quando parliamo di “processo popolare”, anche perché essi sono evidentemente protagonisti di un processo in cui si accertano le responsabilità per la perdita di una persona da loro amata. Il caso di Fortuna è, per molti versi, particolare e indubbiamente diverso da tanti altri casi in cui, partendo da tragiche vicende processuali, si sono imbastiti cinici show mediatici. In questo caso - è questa la nostra convinzione - i professionisti dei media non hanno cavalcato strumentalmente un’onda. Rispetto a questa vicenda, noi riconosciamo l’onestà intellettuale di chi ha pensato di partire da un tragico caso di cronaca per dar vita a un’operazione di sensibilizzazione dell’opinione pubblica su un tema indubbiamente centrale, quale la condizione della donna nel nostro Paese. Ed è probabilmente per questo che anche taluni protagonisti della giustizia, di solito non adusi alla spettacolarizzazione del processo, si sono lasciati andare ad alcune esternazioni che non abbiamo condiviso perché potenzialmente lesive dell’indipendenza e dell’autonomia del Gup che aveva assunto la decisione. Tuttavia, riteniamo che una simile operazione - per quanto mossa dalle migliori intenzioni - sia sbagliata. Occorre, infatti, aver chiaro che la risoluzione dei problemi non avverrà mai attraverso il ricorso al diritto penale. Nel processo penale si accerta un singolo fatto, lo si interpreta e poi si condanna o si assolve. Attraverso i processi non si riscrive la storia, non si debellano i fenomeni, difficilmente si cambia la società. Nessuna pena esemplare potrà avere efficacia dissuasiva di condotte spesso irrazionali; solo una nuova struttura materiale e culturale della società consentirà davvero alle donne di allontanarsi in tempo dai propri aguzzini. E allora, fare di un singolo caso un paradigma, illudersi che una pena esemplare salverà altre donne in futuro rischia di produrre solo un’altra colossale ingiustizia; scaricare sulle spalle del malcapitato imputato (parte debole, per antonomasia, qualunque sia il reato contestato) un ulteriore peso: fungere da capro espiatorio, da simbolo di un vasto e stratificato problema che attanaglia la nostra società da secoli. Napoli. Detenuto muore nel carcere di Poggioreale a pochi mesi dall’arresto anteprima24.it, 17 aprile 2021 Un detenuto di 38 anni è deceduto oggi nel carcere di Poggioreale. A renderlo noto è il garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello. Ancora non si conoscono le cause che hanno portato al decesso dell’uomo. “Si continua a morire in carcere e di carcere. Un detenuto di 38 anni è morto oggi a Poggioreale, per cause ancora da accertare. Era ristretto, da gennaio, nel reparto Roma, per tossicodipendenti. Riposa in pace. Condoglianze alla famiglia”, commenta Ciambriello. Reggio Emilia. “Troppi positivi in carcere, serve un garante delle persone detenute” Gazzetta di Reggio, 17 aprile 2021 La situazione della Pulce spinge l’assessore Tria il consigliere regionale Amico e il garante Marighelli a formulare questo appello. “Bisogna istituire una figura che ancora manca sul territorio di Reggio Emilia, il garante delle persone private della libertà personale”. Lo affermano Federico Amico (presidente della commissione regionale Parità e diritti delle persone), Nicola Tria (assessore comunale a Legalità e coesione sociale) e Marcello Marighelli (garante delle persone private della libertà personale per la Regione Emilia-Romagna) in una nota congiunta. A preoccuparli è la situazione nel carcere di Reggio, dove si contano ancora più di cento detenuti positivi, di cui cinque ricoverati in ospedale. “Uno scenario complesso a causa del sovraffollamento e dell’isolamento legato all’epidemia, che mina la dignità delle persone recluse e può diventare esplosivo”, dicono i tre. Ecco perché, sostengono, è necessario intensificare il presidio delle istituzioni: “In questo contesto - spiegano - appare evidente la necessità di pensare all’istituzione di una autorità indipendente a tutela di chi è detenuto, che garantisca la corretta esecuzione della custodia secondo le norme nazionali e internazionali”. Il garante, per come è definito dall’ordinamento nazionale, esercita il potere di visita senza autorizzazione nelle carceri, può effettuare colloqui con i detenuti e ricevere da loro corrispondenza privata. “Un agevolatore di relazioni e di progetti - concludono - e un’opportunità per l’intera provincia, che entrerebbe così a far parte di una rete nazionale e internazionale a tutela della dignità, salute e incolumità delle persone detenute”. Alessandria. Alice Bonivardo nuova Garante comunale dei detenuti ansa.it, 17 aprile 2021 “Con la nomina della nuova garante dei detenuti del Comune di Alessandria torna a completarsi la rete dei garanti comunali piemontesi nelle 12 città sede di carcere”. Lo annuncia il garante regionale Bruno Mellano all’indomani della nomina, da parte del sindaco Gianfranco Cuttica di Revigliasco, di Alice Bonivardo. “Il Comune di Alessandria - continua Mellano, che oggi ha incontrato la neogarante - è l’unica città piemontese ad avere due strutture detentive per reclusi adulti, la Casa circondariale ‘Don Soria’ e la Casa di reclusione ‘San Michele’, recentemente unificate con la denominazione ‘Istituti penali riuniti Cantiello e Gaeta’. Dopo Davide Petrini, garante nel biennio 2017-2018, e Marco Revelli, dimessosi il 26 febbraio scorso, Bonivardo, da tempo tutor del Polo universitario di Torino presso le carceri ‘Lorusso e Cutugno’ di Torino e ‘Rodolfo Morandi’ di Saluzzo (Cuneo), è la terza garante comunale indicata dal Comune di Alessandria, il cui mandato coincide con la durata di quello del sindaco. “Prossimamente - conclude Mellano - si aprirà il bando pubblico per la selezione del nuovo garante per la Città di Cuneo, a seguito delle dimissioni di Mario Tretola, recentemente eletto presidente delle Acli regionali, che sta operando in proroga in attesa dell’avvio delle procedure di sostituzione”. Invasori e qualche terrorista dell’Isis: “sentimenti” d’Italia sui migranti di Roberto Saviano Corriere della Sera, 17 aprile 2021 Minniti, ministro degli Interni di un partito ritenuto di centrosinistra, ipotizzò miliziani del califfato sui barconi. Oggi la rinnega quell’”ipotesi”. Ma ha fatto danni incalcolabili. Invasori e qualche terrorista dell’Isis: “sentimenti” d’Italia sui migranti Un lavoratore stagionale arrivato dal Mali raccoglie mandarini nella piana di Gioia Tauro. La raccolta è in novembre, la paga tra 15 e 25 euro a giornata. Questa foto ci ritrae tutti perché - e forse alcuni tra noi non se ne sono neppure accorti - in un dato momento ci sono state raccontate dinamiche che non corrispondevano a verità, per convincerci che i flussi migratori andassero bloccati, che fossimo vittime di una invasione incontrollata e - addirittura - che tra i disperati che dall’Africa tentavano la traversata per l’Europa, via Italia, ci fossero anche miliziani dell’Isis, terroristi. Ho scelto questa foto perché ci ritrae tutti. Sì, certo, vedete un immigrato che raccoglie mandarini e non riuscite a capire perché io in questa foto ci vedo tutti noi. In Italia la terra la coltivano gli immigrati: sono loro a raccogliere la maggior parte della frutta e degli ortaggi che finisce sui banchi dei supermercati e nelle nostre case. Molti sono senza contratto, vivono in baracche dove capita che muoiano, arsi vivi da incendi divampati da malmesse stufe o bracieri improvvisati. Questa foto ci ritrae tutti perché - e forse alcuni tra noi non se ne sono nemmeno accorti - in un dato momento ci sono state raccontate dinamiche che non corrispondevano a verità, per convincerci che i flussi migratori andassero bloccati, che fossimo vittime di una invasione incontrollata e - addirittura - che tra i disperati che dall’Africa tentavano la traversata per l’Europa, via Italia, ci fossero anche miliziani dell’Isis, terroristi. Bisognava costruire il nemico perfetto con un duplice scopo: da un lato legittimare il finanziamento da parte dell’Italia alla Guardia costiera libica (nel panorama più vasto dei rapporti Italia-Libia con riferimento agli stabilimenti di petrolio di cui bisognava e bisogna garantire la sicurezza) per bloccare migranti in partenza, dall’altro compattare l’elettorato italiano sul tema della paura: ti voto perché prometti di liberarmi da un sentimento di insicurezza e inquietudine. Non dimenticherò mai quando Marco Minniti, da ministro degli Interni, definì la sicurezza “un sentire, qualcosa di vicino al sentimento” e disse che “dove si ragiona con le statistiche non c’è sentimento”. Il sentimento gli fece insinuare una cosa gravissima, che nei barconi dei migranti potevano arrivare anche terroristi: “Un’ipotesi”, disse, “che non possiamo scartare”. Oggi la rinnega quell’”ipotesi”. Ma ha fatto danni incalcolabili. In quella foto ci siamo anche noi, perché quando ci fu detto che i migranti andavano bloccati, che sui barconi potevano arrivare anche terroristi, abbiamo iniziato a guardare con sospetto qualunque straniero, a provare diffidenza e a legittimare la mancanza di diritti nelle loro vite. E così è avvenuto che il ministro degli Interni di un partito ritenuto di centrosinistra abbia dato la stura all’istinto razzista più bieco, pavimentando la strada alla peggiore destra dal secondo dopoguerra. È in questa Italia che avviene quello che io definii un attentato terroristico di matrice fascista. Il 3 febbraio 2018, a Macerata, Luca Traini con una pistola semiautomatica ferì sei persone, tutti immigrati di origine sub-sahariana. Fu un attentato terroristico di matrice fascista, non facendo Traini mistero del suo orientamento politico. Ogni tentativo di edulcorare o rendere neutra la notizia, dissi, è connivenza. E in effetti ci fu chi tentò di edulcorare. Sempre Marco Minniti definì i fatti di Macerata una “iniziativa individuale” e disse anche: “Ho fermato gli sbarchi perché avevo previsto Traini”. Sui media, incredibilmente, prevalse la linea del gesto di un folle motivato dall’invasione di migranti. Fu bloccata ogni possibile empatia quando il sindaco di Macerata, appoggiato da Minniti (e non solo da lui) chiese la sospensione del corteo nazionale antifascista del 10 febbraio 2018. Ci fu comunque, 20 mila persone a sfilare, ma non gli fu data rilevanza mediatica. Di quei fatti si occupano Marcello Maneri e Fabio Quassoli in Un attentato “quasi terroristico”. Macerata 2018, il razzismo e la sfera pubblica al tempo dei social media edito da Carocci, libro che consiglio. Dopo il 3 febbraio 2018, gli immigrati nel nostro Paese, milioni di persone che qui vivono e lavorano da anni, bambini e ragazzi nati e cresciuti in Italia, si sono sentiti in pericolo. Guardiamola bene questa foto perché ci ricorda che, in un attimo, l’azione di qualche politico spregiudicato può farci ripiombare indietro di decenni e perdere diritti che davamo per scontati. “Io, spiato al telefono col mio avvocato e indagato per aver tentato di aiutare i migranti” di Simona Musco Il Dubbio, 17 aprile 2021 Parla Don Mussie Zerai, il parroco che aiuta la gente in fuga. “Il numero di padre Zerai è scritto sui muri delle prigioni libiche, nei capannoni dei trafficanti, sulle pareti dei cassoni dei camion che attraversano il deserto”, si legge nel libro “La frontiera”, dell’indimenticato Alessandro Leogrande. Ed è forse questo il motivo per cui la Procura di Trapani aveva iscritto il nome di don Mussie Zerai - prete cattolico e attivista impegnato a salvare i migranti nel Mediterraneo - nel registro degli indagati nell’inchiesta sulla nave Iuventa, finita nell’occhio del ciclone per le intercettazioni che hanno coinvolto diversi giornalisti e avvocati, questi ultimi “spiati” mentre svolgevano la propria funzione difensiva. Per don Zerai la procura ha chiesto l’archiviazione. L’ipotesi d’accusa, gravissima, era di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Un’ipotesi, a quanto pare, infondata, basata sulle chiamate che don Zerai riceve da anni da parte di persone in situazioni di pericolo. “Ogni volta che qualcuno mi chiama - ha spiegato al Dubbio - avviso le autorità competenti, chiedendo un loro intervento per salvare quelle persone. Sia che si tratti di persone in mare, sia nei casi di centri di detenzione, ho sempre informato l’Unhcr e chiunque potesse intervenire in quella zona”. Zerai, ovviamente, è stato intercettato. Anche quando parlava al telefono con il proprio difensore, Arturo Salerni, o con il senatore Luigi Manconi, all’epoca presidente della Commissione straordinaria diritti umani, al quale si rivolgeva per tutelare i migranti vittime di gravissime violazioni. “Hanno trascritto le intercettazioni con il mio avvocato, conversazioni che non erano utili al processo - ha spiegato. Mi chiedo perché conservarle, perché trascriverle, perché non sono state distrutte”. Nel corso delle indagini, Zerai ha contattato Salerni, chiedendo di prendere contatto con la procura di Trapani, dando la propria disponibilità per essere sentito e chiarire la sua posizione. Ma il punto, spiega il parroco, è un altro: “La funzione difensiva è protetta - ha sottolineato. In quelle telefonate avremmo potuto discutere di come impostare la difesa. Se anche quel momento viene violato è un gioco ad armi impari”. Zerai è stato registrato nell’agosto 2017, quando al telefono tentava una via, assieme al proprio difensore, per dimostrare la propria innocenza. Sottolineava anche la sua convinzione che alcuni media stessero tentando di screditare il lavoro delle Ong nel Mediterraneo. Al telefono con Manconi, invece, Zerai aveva chiesto un intervento per aiutare centinaia di eritrei sfrattati da un edificio a Roma, sui quali la polizia si era accanita anche con gli idranti. “Ho chiesto che intervenisse per tutelare i loro diritti. Quelli di persone che lo Stato italiano, sulla carta, dice di accogliere e alle quali sostiene di riconoscere una protezione internazionale - ha aggiunto -. Ma la protezione non può tradursi in un abbandono totale”. Zerai venne intercettato anche al telefono con Mario Morcone, all’epoca capo gabinetto del ministero dell’Interno, al quale chiedeva aiuto per i migranti lasciati per strada. La richiesta era semplice: trovare un’alternativa per sistemare quelle persone prima di procedere allo sgombero. “C’erano donne e bambini, molte famiglie, persone di una certa età, invalidi. Qando ho visto che venivano cacciati con gli idranti ho mandato un sms, anche quello trascritto, al prefetto, al capo gabinetto del ministro, dicendo: almeno trattateli umanamente”, ha aggiunto. Zerai conosce le condizioni dei migranti in Libia, dove ci sono vari tipi di lager. Luoghi di detenzione e di tortura che rimangono sconosciuti alle delegazioni europee, che una volta sul posto vengono guidate in un tour tra i centri meno degradanti o tirati a lucido per l’occasione. Ma la realtà, spiega il parroco, è molto diversa. Il contesto è chiaro: sia l’Italia sia il resto dell’Ue, secondo l’attivista, si sforzano di impedire l’arrivo di queste persone. E poco importa in quali condizioni si trovino a “casa loro”: i loro diritti “non interessano a nessuno”. Ed è così che le norme internazionali risultano valide solo sulla carta. “Convenzioni e trattati - ha aggiunto - valgono solo per chi è nato da questa parte, non per chi nasce lì. I diritti sono trasformati in privilegi. E allora non dobbiamo più chiamarli diritti: è elemosina”. Gli esempi non mancano e Zerai classifica tra questi anche le parole di Mario Draghi in Libia, nonché la visita del presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e del presidente del Consiglio europeo Charles Michel in Turchia. “Che ci sono andati a fare lì? - si è chiesto Zerai. A chiedere ad Erdogan di continuare a chiudere i confini e trattenere i siriani. Ma come vengono trattenuti, in che condizioni vivono, che futuro ha quella gente? Anche loro hanno diritto alla sicurezza, ad un futuro, a vivere in condizioni dignitose”. In questo panorama, si inserisce il lavoro della magistratura. Che, con le proprie inchieste, contribuisce a riscrivere le vicende, assegnando alle Ong il ruolo dei “cattivi”. “Io spero che la magistratura, che si dice indipendente, non abbia tentato di riscrivere la storia e mettersi al servizio della politica, ma abbia agito per indagare seriamente e cercare di colpire chi ha commesso un reato - ha concluso Zerai. Le ong, che io sappia, non assecondano alcun traffico. Hanno salvato migliaia e migliaia di persone. Basta considerare solo che, da quando è stata chiusa l’operazione Mare Nostrum, se non ci fossero state le tante ong oggi i morti non sarebbero solo 40mila ma il doppio, come minimo. Il vuoto che le istituzioni hanno lasciato nel Mediterraneo, sapendo che la gente sarebbe partita comunque, è immenso. Non è colpa delle Ong se le persone partono: lo facevano anche prima. Il problema sono gli incendi, le guerre, la fame e le persecuzioni che ci sono a casa loro. L’Europa, anziché spendere miliardi per bloccare queste persone, avrebbero dovuto spenderli per bloccare le persecuzioni. E chi investiga avrebbe dovuto farlo sulle omissioni di soccorso nel Mediterraneo”. Così la Guardia costiera libica lascia affogare i migranti di Giovanni Tizian e Andrea Palladino Il Domani, 17 aprile 2021 Dal 2017 l’Italia finanzia e addestra i libici per gestire i salvataggi, ma quando Roma prova a coinvolgerli nelle emergenze arrivano risposte come “non so l’inglese” o “oggi non lavoro”. È l’alba del 24 maggio 2017. La giornata appena trascorsa è stata un susseguirsi di chiamate di emergenza dai telefoni satellitari, usati dai migranti in viaggio verso l’Europa, al centro di coordinamento italiano della Guardia costiera (Imrcc): “Siamo partiti da Sabratha su un barchino, 600 persone a bordo”. Cade la linea. L’allarme mette in moto i soccorsi, la posizione satellitare del “barchino” indica che la zona di competenza, secondo gli accordi Italia-Libia siglati pochi mesi prima dal governo Gentiloni, è della Guardia costiera libica, che tuttavia tra il 22 maggio e il 24 mattina non risponde a nessuna delle oltre 50 chiamate effettuate dalla centrale di Roma. Domani, in collaborazione con il quotidiano britannico Guardian e RaiNews, ha ottenuto i brogliacci delle comunicazioni di quel giorno e di molti altri eventi che coincidono con altrettanti naufragi in cui hanno perso la vita centinaia di persone, bambini inclusi. Questi documenti rivelano l’inerzia della Guardia costiera libica, che già all’epoca beneficiava del sostengo italiano ed europeo per la formazione e la fornitura di mezzi, come le motovedette, per bloccare il flusso dei migranti. Oltre alla passività dei militari libici c’è un contorno opaco di relazioni con i trafficanti. È tutto scritto nelle 30mila pagine di atti depositati nell’inchiesta di Trapani sulle navi umanitarie delle ong, accusate dai magistrati siciliani e dalla polizia di aver stretto un accordo con i trafficanti di uomini. La stessa massa di carte nelle quali sono contenute le intercettazioni dei giornalisti e degli avvocati che si occupano di diritti civili e migrazioni. Il ministero della Giustizia sta verificando se sono state commesse violazioni del codice che disciplina le intercettazioni telefoniche. Nessuna risposta - Torniamo al 24 maggio 2017. Alle 5 di mattina cinque chiamate in un’ora e mezzo, dagli uffici libici non rispondono, tranne una volta ma il militare è sbrigativo: “Non parlo inglese” e riattacca. Dall’Italia provano a ricontattare più volte il satellitare dal quale hanno chiamato i migranti, ma non risponde più nessuno. Nelle stesse ora arriva una nuova chiamata di emergenza: 700 persone partite da Sabratha. Anche di questa si perderanno le tracce rapidamente. L’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) nelle giornate successive comunica: “Circa 33 persone hanno perso la vita tra cui 13 donne e 7 bambini. L’incidente è avvenuto la mattina presto del 24 maggio”. Tra il 22 e il 24 la Guardia costiera di Tripoli non ha risposto alle oltre 50 chiamate di Roma. Il giorno libero - Il 16 giugno 2017 accade qualcosa di simile, come mostrano le telefonate intercettate dalla polizia nell’ambito dell’indagine di Trapani sulle ong. L’ufficiale della Guardia costiera libica, Massoud Abdalsamad, ne riceve una alle 8 e 18 da un collega italiano. “Ci sono dieci gommoni alla deriva in difficoltà in acque territoriali libiche”, il comandante di Tripoli non si scompone: “Cercherò di aiutarli ma oggi è giorno libero...forse domani”. Il colonnello italiano insiste, è urgente, e chiede di autorizzare una nave ong a entrare nelle loro acque di competenza. Massoud risponde: “No, loro no, nessun permesso per entrare in acque libiche”. I contatti con Massoud proseguiranno fino alle 12 e 38, per quattro lunghe ore, solo alla fine a Roma ottengono un contatto di Jamal l’ufficiale in servizio quel venerdì. Ecco il bilancio di quel weekend: 126 tra donne, bambini e uomini sono morti annegati nel tratto di mare libico. Agli atti dell’inchiesta di Trapani c’è un documento in cui gli investigatori affermano che Massoud non è collaborativo, riferendosi all’autorizzazione negata alla nave umanitaria nonostante “i gommoni alla deriva”. Il 29 marzo Unhcr ha annunciato altri naufragi avvenuti nei giorni precedenti. La conferma è nelle comunicazioni, tra il 22 e il 28 marzo, tra centro di coordinamento di Roma e le navi ong, Golfo Azzurro e Iuventa (sotto inchiesta a Trapani). Comunicano di aver trovato dei cadaveri in mare al confine della zona libica. Anche in quelle ore i colonnelli libici rispondono a stento alle chiamate e quando finalmente rispondono impiegano ore a coordinare gli interventi, come emerge dalle comunicazioni ufficiali. Contattato da Domani, il colonnello Massoud ha risposto che è “difficile ricordarsi di eventi così passati”. Ha poi confermato che le comunicazioni con la centrale di coordinamento di Roma “sono difficoltose e frequentemente interrotte”. Perché? “La Libia è un paese distrutto dalla guerra”. Dunque l’Europa e l’Italia hanno finanziato la formazione della Guardia costiera libica senza grande successo e hanno legittimato i respingimenti in un territorio in guerra di chi fugge dalla miseria e dai conflitti. I contatti coi trafficanti - I documenti ottenuti svelano anche strani contatti con i trafficanti. In un’informativa su un salvataggio del 23 maggio sono allegate alcune foto di una motovedetta libica che dialoga con i criminali a bordo dei motoscafi, lasciandoli poi andare via. La stessa Guardia costiera libica si avvicina all’imbarcazione dell’ong e inizia a sparare in aria. L’episodio è raccontato anche nei brogliacci della sala di coordinamento. “Motovedetta libica con uomini armati, hanno sparato in aria per spaventare i migranti”, denunciano via radio dalla nave Von Hestia (una delle accusate nell’inchiesta di Trapani) alla sala di coordinamento italiana, che tenta invano di mettersi in contatto con gli omologhi libici. Oltre al danno la beffa: la polizia scriverà che il comandante di Von Hestia non ha riportato l’episodio nel report della missione, omettendo di dire, però, che la Guardia costiera italiana era stata avvertita in diretta. Il comandante Massoud alla nostra domanda ha risposto: “Ci possono essere stati spari in aria perché le persone nelle barche a volte se si muovono possono cadere in acqua. Serve per farli tornare alla tranquillità”. Questo è il metodo libico che l’Europa finanzia. La ministra Dadone e la sfida sui test antidroga: “Mi criticano, ma nessuno ha detto sì” di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 17 aprile 2021 La ministra, a favore della cannabis legale, criticata per la delega contro le dipendenze. A rivedere una sua presentazione del 2012, per quella pratica bizzarra delle graticole video a cui si sottoponevano gli aspiranti 5 Stelle, si capisce già molto. C’è una ragazza di 29 anni davanti a una casa piemontese sobria come si conviene, che parla con piglio deciso e dice cose piuttosto di sinistra. Racconta di aver costretto il comune di Mondovì, con un ricorso al Tar, ad aggiungere una donna in giunta per rispettare le quote rosa. Reclama diritti per gli invisibili: “Se sei clandestino o prostituta non esisti”. Rivendica lo ius soli e parla di “diritto all’eutanasia”: “Voglio uno Stato laico”. Non stupisce dunque, che diventata ministra (ora alle Politiche giovanili) e ottenuta dal premier Mario Draghi la delega per la lotta alla droga, venga attaccata con violenza dalla destra. Anche la foto pubblicata l’8 marzo sui social non poteva piacere: c’è una ministra con i piedi sul tavolo, le scarpe décolleté in vernice rossa (simbolo della lotta contro la violenza alle donne), la felpa dei Nirvana. Il testo era a tono: “Ho 37 anni e sono una “ragazzina” (per questo Paese) ma faccio il Ministro, non sono sposata ma scelgo ogni giorno di stare col mio compagno, ho due figli bellissimi che portano il mio cognome, amo la musica rock pesante ma non mi vesto in maniera “alternativa”, guardo film strappalacrime ma sono emotivamente fredda come il ghiaccio”. Le polemiche - Di recente la ministra metallara - che può fare dirette su Twitch o collegarsi a Palazzo Chigi dall’ospedale dove ha appena partorito - ha firmato una proposta di legge per la legalizzazione della cannabis. Quanto basta per provocare la reazione furibonda di Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Maurizio Gasparri. L’ha stupita? “Sì, non me l’aspettavo. La cosa che mi ha ferito di più - racconta - è che hanno detto che non rappresento un modello positivo per i giovani. Hanno usato argomentazioni bieche, strumentali, vuote”. A Un giorno da pecora le hanno chiesto se si è mai fatta una canna. Non ha risposto. Qualcosa da nascondere, ha chiesto retoricamente il Secolo d’Italia? “No, se avessi risposto, avrei dato ragione alla logica del modello positivo o negativo”. Ha chiesto il test antidroga: “Ma sì, se la mettiamo sui modelli, allora facciamo tutti un bel test dei capelli”. Sa che non tutti ne uscirebbero immacolati? “Ah non so - ride -. Comunque non ho avuto adesioni”. La conferenza sulla droga - Il suo primo atto è stato l’annuncio della convocazione della conferenza sulla droga: “Mi hanno subito attaccato. Ma la conferenza non si riunisce dal 2009. E l’8 maggio 2019 lo stesso annuncio lo diede il ministro leghista Fontana”. Non proprio sulla stessa linea. Dadone non ha visto la serie “Sanpa” e non giudica Muccioli, ma qualcosa la dice sulle politiche che hanno guidato l’Italia: “L’approccio proibizionista è tipico delle destre, che la mettono come droga sì o no, come se fosse un pacchetto completo. Non possiamo non renderci conto che il panorama delle dipendenze è vasto e vario. E poi non c’è solo la droga, ci sono anche l’alcol e la ludopatia”. Antiproibizionismo - Alla domanda se si definisce “antiproibizionista”, risponde sì, ma poi si corregge: “Non è una questione di definizioni, mi piacerebbe che ci si confrontasse. Anche perché oggi la Dadone non deve decidere niente, non deve approvare nessuna legge. Il Parlamento è sovrano, non è una questione che riguarda il governo. La cosa più urgente per me è quella sulla cannabis terapeutica. Ho ricevuto molte chiamate di persone con sclerosi e distrofie che chiedono aiuto perché devono andare a trovare la marijuana per strada, commettendo reato. Non mi sembra una cosa civile. Perché il Parlamento non può affrontare il problema e discuterlo?”. Servirebbe “più solidarietà umana”, spiegava nel vecchio video la ministra dalle scarpe rosse, che non sembra poi così “emotivamente fredda come il ghiaccio”. Perché l’America non sa diminuire le armi in circolazione di Greta Privitera Il Foglio, 17 aprile 2021 Un superstite di Columbine ci racconta la sua battaglia. La proposta di Biden e il rischio del fallimento. Craig Scott conosce la paura che fa stare sdraiati a pancia in giù mentre due compagni sparano alle spalle di altri, senza sosta. Conosce l’odore della polvere da sparo mischiata al sangue, il suono del pianto di decine di madri e padri fuori da un liceo in cui c’è appena stato un massacro. Craig Scott sa tutto e lo racconta ogni giorno nelle scuole d’America perché crede che la sua testimonianza abbia la forza di cambiare un paese che con le leggi fa fatica a cambiare. Mentre Dylan Klebold, 17 anni, e Eric Harris, 18, scaricavano i loro fucili semiautomatici per i corridoi della Columbine High School, il liceo di Littleton, in Colorado, Scott fingeva di essere morto. “Tenevo gli occhi chiusi e cercavo di respirare piano. Accanto a me c’era il mio migliore amico Isaiah, appena ucciso da una pallottola”, dice al Foglio. Il 20 aprile ricorre il ventiduesimo anniversario della strage di Colombine, ieri a Indianapolis, una nuova sparatoria, otto persone sono rimaste uccise. Nel 2021 le vittime da mass shooting sono già 163 e negli Stati Uniti, ogni giorno muoiono circa 100 persone, uccise da armi da fuoco. Craig e la sua famiglia, con l’associazione Value Up, hanno dedicato la vita a sensibilizzare i più giovani contro la violenza e il bullismo. Le cause, dice, sono la cultura individualistica e la solitudine. “Sarei molto contento - aggiunge - se Biden riuscisse a far passare una legge in grado di prevenire stragi. Ma in 20 anni, non ci è riuscito nessuno”. A marzo, dopo le sparatorie in Georgia, Colorado e California, il presidente degli Stati Uniti ha annunciato ordini esecutivi che non hanno bisogno dell’approvazione del Congresso per arginare quella che ha definito “un’epidemia”. Il provvedimento più importante riguarda le ghost gun, le armi non tracciabili perché costruite con pezzi assemblati acquistati sul web e quindi senza matricola. Un passo avanti, ma ancora troppo poco. È difficile capire perché in America nessuna amministrazione sia riuscita ad arginare la violenza armata. Che non riguarda solo le sparatorie di massa: il numero delle vittime da suicidi e litigi familiari è molto più alto. “Avremmo bisogno di politici coraggiosi. Per la maggioranza dei repubblicani al Congresso, il secondo emendamento - che garantisce il diritto di possedere armi - è un dogma”, dice al Foglio Matt Valentine, professore dell’università del Texas e co-autore di “Campus Carry: Confronting a Loaded Issue in Higher Education”. Secondo Gallup, il 60 per cento degli americani è favorevole a leggi più severe sul tema. Ma in alcuni stati, come Texas, Kentucky e Tennessee, il fucile è una religione e il secondo emendamento è la Bibbia. Secondo Small Arms Survey, negli Stati Uniti circolano 393 milioni di armi, più d’una per americano, il 46 per cento di tutte quelle di proprietà civile nel mondo. Come ha spiegato il giornalista German Lopez di Vox: “Secondo i ricercatori, gli alti livelli di possesso di armi sono una delle ragioni per cui in America la percentuale di violenza è molto più alta rispetto agli altri paesi occidentali”. A fermare il cambiamento, oltre a problemi strutturali noti, ci sono gli errori dei democratici che da 25 anni fanno le stesse proposte e non affrontano il punto principale del problema: ridurre la circolazione di fucili e pistole. Sempre Lopez sostiene che sarebbe necessario un piano delle dimensioni del Green New Deal: “Si potrebbero vietare più tipi di armi- forse tutte le semiautomatiche o tutte le pistole - e pensare a un programma di riacquisto obbligatorio, come in Australia”. Valentine racconta che negli Stati Uniti c’è una legge che funziona, ed è quella del 1934, il National Firearms Act, nata perché i mafiosi utilizzavano i fucili mitragliatori Thompson per commettere massacri. “Un atto che si applica solo ai fucili a canna corta e alle mitragliatrici automatiche, ma che obbliga il tracciamento di tutti i possessori e che richiede controlli molto più approfonditi. Biden vorrebbe estendere questa legge”, dice. Valentine è fiducioso e pensa che le cose cambieranno. Così come è successo per molti diritti civili, come con i matrimoni gay. “I giovani non sono rappresentati al Congresso, ma sono il futuro”, dice. Intanto, però secondo lui i singoli stati e le città dovrebbero fare il possibile per avere leggi più severe. Quel giorno di 22 anni fa, Craig è riuscito a scappare e arrivare sul piazzale della scuola. Una volta fuori ha preso il telefono e ha chiamato la madre: “Mamma, deve essere successo qualcosa a Rachel”. Se lo sentiva. Rachel era sua sorella, aveva 17 anni ed è stata la prima vittima nella strage di Columbine. Egitto. Patrick Zaki: governo italiano coinvolto negli affari, ma non sui diritti umani di Riccardo Noury* Il Manifesto, 17 aprile 2021 Ricordiamolo: un atto di indirizzo votato dal parlamento obbliga il governo ad agire. Che il capo del governo abbia dichiarato che non è coinvolto lo trovo un fatto grave. Un secchiello di cubetti di ghiaccio. Lanciato contro oltre 200.000 persone che avevano sottoscritto la proposta. Contro i 208 senatori che avevano votato a favore, tra cui Liliana Segre che era venuta appositamente a Roma per proteggere simbolicamente quello che ha chiamato “suo nipote”. Contro quel nome e cognome scritto nell’ordine del giorno e pronunciato tante volte durante il dibattito parlamentare. Che la proposta di conferire la cittadinanza italiana a Patrick Zaki fosse destinata a un cammino lungo e tortuoso lo si sapeva. Le mani avanti le aveva messe lo stesso governo, durante il dibattito parlamentare, manifestando cautela circa il rischio che tale procedura avrebbe potuto avere conseguenze negative sul piano giudiziario per Patrick. Ma che dopo 48 ore il presidente del Consiglio Mario Draghi avrebbe affermato che “è un’iniziativa parlamentare” nella quale “al momento il governo non è coinvolto”, questo non ce lo aspettavano. Ricordiamolo: un atto di indirizzo votato dal parlamento obbliga il governo ad agire. Che il capo del governo abbia dichiarato che non è coinvolto lo trovo un fatto grave. Non che affidare al governo il compito d’istruire la procedura per la cittadinanza italiana avrebbe posto termine come in un incantesimo alla sofferenza di Patrick, che sta languendo in una prigione sovraffollata e sporca in cui il Covid-19 è entrato e ha fatto vittime. Ma quel “non coinvolgimento” rischia di porre fine anche al solo tentativo. Così, il voto del Senato di giovedì rischia di essere una luminosa parentesi, uno sussulto etico circondato da due atti del governo: “coinvolto” sabato 10 nella partenza da La Spezia della seconda fregata militare destinata all’Egitto, “non coinvolto” neanche una settimana dopo su una questione cruciale di diritti umani. Poiché la maggioranza che ha approvato l’ordine del giorno per Patrick Zaki coincide esattamente con la maggioranza che sostiene e compone il governo, c’è ancora da sperare che sia messa fine a questa anomalia: di un parlamento che parla di diritti umani e di un governo, in larghissima parte il suo, che non se ne sente coinvolto. *Portavoce di Amnesty International-Italia Libia. Grandi: “Con la tregua ci sarà una finestra per chiudere i Centri di detenzione” di Paolo Valentino Corriere della Sera, 17 aprile 2021 Intervista a Filippo Grandi, dal 2016 Alto commissario dell’Onu per i rifugiati: “Ci aspettiamo che con l’estate i flussi dalla Libia riprendano e bisogna prepararsi”. “Purtroppo, ci aspettiamo che con l’estate i flussi migratori dalla Libia riprendano e bisogna prepararsi. L’anno scorso è stato un anno relativamente calmo. La pandemia ha bloccato tutto, anche i trafficanti. Per l’Italia, inoltre, la sfida è doppia, perché anche la rotta balcanica ha ripreso ad essere una via d’arrivo in Europa”. È preoccupato Filippo Grandi, l’Alto Commissario dell’Onu per i Rifugiati, in questi giorni a Roma dove ha incontrato i vertici politici e istituzionali. Grandi ha avuto colloqui fra gli altri con il presidente Mattarella, il premier Draghi, i ministri degli Esteri e degli Interni Di Maio e Lamorgese, i presidenti delle Camere. E ieri è stato ricevuto in udienza anche da papa Francesco. Qual è la situazione in Libia? “C’è un fragile spazio di tregua, apertosi con gli ultimi accordi. E nonostante la prudenza sia obbligata, è uno spazio che non c’è mai stato negli anni precedenti e va utilizzato bene. In primo luogo, per appoggiare il processo politico che porta alle elezioni. I rischi sono tanti: la fragilità della classe dirigente e le divisioni internazionali visto che la Libia è uno dei teatri nei quali si combattono le cosiddette guerre per procura, come Siria e Yemen. In tutti gli incontri di questi giorni in Italia, mi è stato ripetuto che se non c’è un entusiasmo generale nella comunità internazionale, non ci sono neppure voci dissenzienti, come se tutti avessero capito che siamo di fronte all’ultima chance per creare maggiore stabilità”. E dal punto di vista dei rifugiati? Cosa può fare l’Onu? “È una fase che potrebbe essere decisiva per consolidare alcuni piccoli progressi che abbiamo fatto: superare i centri di detenzione, riattivare tutti i canali di uscita dei più vulnerabili compresi quelli umanitari oggi sospesi per la pandemia. Parliamo di qualche migliaio di persone, quelle più indifese che non possono essere rimandate nei luoghi d’origine. Ogni Paese ne dovrebbe prendere alcune centinaia. La cosa più importante comunque è usare questo fragile spazio per consentire a tutto il sistema Onu di consolidare la sua presenza e aiutare le decine di migliaia di rifugiati che non possono uscire”. Che succede a chi lascia i campi di detenzione? “Sono prigioni terribili. Chi esce va nelle comunità libiche, cioè in una società prostrata dal conflitto, dove c’è molta presenza criminale e quindi è alto il rischio che vengano rimessi sui barconi o sfruttati in mille modi. Quello che cerchiamo di fare da parecchio tempo è di creare progetti per queste persone in Libia. La differenza è che con il governo precedente questo non era facile, mentre con questo siamo fiduciosi che ci siano più opportunità. Se non si stabilizzano, continueremo ad avere il fenomeno delle migrazioni”. Lei parla anche dei rischi sulla rotta balcanica, ma l’Italia in questo caso non è Paese di primo arrivo... “Certo, ma viene dopo altri Paesi che hanno strutture debolissime e quindi diventa una meta. Fra l’altro tra noi e la rotta balcanica ci sono Paesi della Ue, come Croazia e Slovenia. Esistono denunce di respingimenti brutali e frequenti a tutte le frontiere. Lavorare con questi Paesi può servire a stabilizzare i flussi. Non è il 2016, ma siamo di nuovo di fronte a un contesto complesso. Tutte queste cose, Libia, Balcani, portano alla solita conclusione: o l’Europa si dota di un sistema comune o sarà ancora preda di questi allarmi e torneremo allo psicodramma delle telefonate notturne, alle discussioni concitate tra i premier sui numeri, ai governi che tremano perché le opinioni pubbliche si oppongono ad accogliere anche soltanto una decina di persone”. C’è il patto sulle migrazioni proposto dalla Commissione... “Non è la perfezione, ma è una base di discussione importante. E ho trovato il governo italiano consapevole della necessità di non farlo cadere e di fare uno sforzo. Tutti devono fare un passo avanti. Lo scontro è sempre tra i Paesi del Nord, che vogliono più controlli alle frontiere esterne, e quelli del Sud che chiedono un meccanismo di condivisione degli arrivi più prevedibile e più generoso. Come mi ha detto il ministro Di Maio, il patto non è solo importante per sé, è una delle prove di credibilità della Commissione, insieme al Next Generation Eu”. In Etiopia c’è un conflitto tra governo e forze secessioniste del Tigrai in corso, che sta avendo gravi conseguenze umanitarie. Può avere conseguenze sui flussi? “C’è un’impasse seria. La scelta militare del governo comporta molti rischi: violazione dei diritti umani, presenza di truppe eritree sul territorio etiope, esodo di rifugiati in Sudan, disgregazione del tessuto sociale. Sono pericoli non solo per l’intero Corno d’Africa ma anche globali. L’Etiopia è un Paese di 100 milioni di abitanti nel cuore di una regione fragilissima, da cui partono anche flussi migratori che poi arrivano verso il Mediterraneo. Ho incoraggiato il governo italiano a fare di più, perché ha una forte credibilità, buoni contatti nel Corno d’Africa e deve usare questa influenza”. La preoccupa la situazione in Libano? “Si, molto. E ne ho parlato durante i miei colloqui qui a Roma. In Libano una persona su quattro è un rifugiato. Ma è un Paese ospitante che si trova esso stesso sull’orlo del precipizio. L’incapacità della classe politica non ha permesso di trovare un accordo per governarlo e il Libano sta precipitando in un abisso economico e finanziario. Il tasso di povertà fra i rifugiati siriani è quasi del 90% e tra i libanesi ha già superato il 25%. Di fatto chiediamo a un Paese disastrato di ospitare un milione di rifugiati di un altro Paese ancora più disastrato: è una polveriera nel Mediterraneo. Non si tratta più solo di garantire aiuti umanitari, ma anche di fare un investimento politico della comunità internazionale per cercare di risolvere la crisi. Il Libano è un Paese chiave, ricordiamoci cos’è successo quarant’anni fa”. Hong Kong. Condannato Jimmy Lai, il miliardario oppositore di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 17 aprile 2021 Oltre un anno di carcere per il magnate editore “colpevole” di sostenere i manifestanti pro-democrazia. “Io sono il buon servitore della legge, ma prima di tutto del popolo. Perché la legge deve servire il popolo, non il popolo la legge”. Scriveva così Tommaso Moro prima di venire giustiziato da Enrico VIII nel 1535. Una frase che ha voluto ripetere, mentre sedeva al banco degli imputati, la 73enne Margaret Ng, una degli ex legislatori (deputati) dell’assemblea parlamentare di Hong Kong che ieri è stata giudicata colpevole, insieme a diversi altri attivisti, per la partecipazione alle proteste anti cinesi che hanno segnato l’isola dal 2019. Tommaso Moro è anche il patrono degli avvocati e forse per questo Margaret Ng lo ha voluto citare, essendo lei stessa una legale, così come era un appartenente al foro di Hong Kong, Martin Lee, 82 anni di età, di cui gran parte spesi per la difesa dei diritti politici, condannato per la stessa “colpa” della sua collega. Un veterano, Lee, presidente fondatore del Partito Democratico, conosciuto come il padre della democrazia di Hong Kong. I due avvocati fortunatamente non sconteranno la condanna in prigione perché la loro pena è stata sospesa, ma lo stesso non vale per un altro imputato eccellente. Il magnate dell’ex colonia britannica, Jimmy Lai, infatti è stato riconosciuto colpevole di “manifestazione non autorizzata” e dovrà scontare in carcere 14 mesi. I giudici del tribunale lo hanno ritenuto responsabile per due avvenimenti, relativamente alle grandi manifestazioni del 18 e 31 agosto del 2019. La tesi della difesa è stata completamente rigettata. Secondo gli avvocati che rappresentavano Lai, la libertà di riunione è protetta dalla costituzione di Hong Kong e le autorità avevano approvato manifestazioni che solo successivamente si sono trasformate in marce non autorizzate. Per i pubblici ministeri però la possibilità di riunirsi per protestare, è si garantita dalle leggi. ma non può essere considerata assoluta. Insomma sebbene a Lai non siano stati contestati episodi di violenza, né di aver incitato a violare la legge, il solo fatto di aver aderito ad una manifestazione (sfociata poi in scontri con la polizia) è stata una ragione sufficiente per condannarlo. Una sentenza che può essere definita “politica” e che trova le sue ragioni nella stessa figura del miliardario di Hong Kong, vera e propria spina nel fianco per il governo filocinese. Nato a Guangzhou, una città nel sud della Cina, da una famiglia benestante espropriata dei beni nel 1949 quando i maoisti presero il potere, scappò all’età di 12 anni, da clandestino, sull’isola ancora sotto la dominazionecoloniale britannica. La sua è una storia da vero “self made man” che lo ha visto lavorare giovanissimo in un negozio di abbigliamento fino ad arrivare a fondare un proprio marchio a livello internazionale. Ma a differenza di altri magnati, saliti ai vertici a Hong Kong, Lai è diventato anche uno dei più feroci critici del regime cinese e della sua influenza nella città. In occasione del massacro di Tienanmen nel 1989 Lai ha cominciato a denunciare la repressione dell’esercito contro gli studenti tanto da veder minacciata seriamente la sua catena di negozi. Ancora troppo poco per essere zittito, anzi un’occasione per trasformarsi definitivamente nell’oppositore più importante di Pechino anche grazie agli ingenti mezzi finanziari di cui dispone che per anni ha utilizzato per denunciare la repressione politica cinese. Il suo impero multimilionario infatti si è trasformato abbracciando il campo editoriale. Attualmente la sua casa editrice comprende diverse testate pro democrazia tra cui la rivista digitale Next e il quotidiano Apple Day. Una posizione di prestigio dalla quale influenza migliaia di persone. E quindi per la Cina un pericolo da eliminare. La condanna di Lai infatti rientra nei casi previsti dalla cosiddetta “legge sulla sicurezza”, introdotta a Hong Kong nel 2020. La norma criminalizza la secessione, la sovversione e la collusione con forze straniere, la pena massima prevista per questi reati è l’ergastolo. Secondo la Cina la legge avrebbe preso di mira la ‘ sedizione’ portando instabilità politica. Fino ad ora però la “pax di Pechino” ha fatto finire in carcere almeno un centinaio di persone. E Jimmy Lai rischia ancora di più perché, oltre alla condanna già ricevuta, il magnate deve affrontare altre sei accuse, due delle quali sono state avanzate proprio ai sensi della nuova legge sulla sicurezza nazionale.