Ergastolo ostativo incostituzionale. Un anno di tempo per la riforma di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 16 aprile 2021 La Consulta sul doppio binario per i mafiosi condannati e non pentiti. “Una nuova legge”. La Corte ha voluto evitare di cancellare in un solo giorno anni di legislazione antimafia. Il cosiddetto “ergastolo ostativo” è incompatibile con la Costituzione, ma la Corte costituzionale non se l’è sentita di cancellare con un tratto di penna un pezzo di legislazione antimafia scritto con il sangue delle stragi che nel 1992 uccisero Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “L’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità”, fanno sapere dal palazzo della Consulta in attesa dell’ordinanza che spiegherà i motivi di questa decisione dilatoria: tra un anno la Corte tornerà a riunirsi, e se nel frattempo il Parlamento non avrà modificato i divieti assoluti che impediscono a boss e gregari non pentiti di accedere ai benefici penitenziari previsti per gli altri detenuti, quella norma sarà cancellata. Al legislatore è stato concesso il tempo di intervenire tenendo conto “sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. Nel rispetto della Costituzione, però. La decisione - È stata una decisione difficile, quella della Consulta. Arrivata dopo una camera di consiglio cominciata prima di Pasqua e rinviata alla ripresa dei lavori proprio perché i giudici potessero valutare ogni aspetto di una questione che fuori dal palazzo aveva già animato dibattiti anche aspri tra giuristi, magistrati e “opinionisti antimafia”. E l’ulteriore rinvio è un altro segnale di difficoltà. La Corte aveva davanti a sé una strada per certi versi segnata da una precedente sentenza, la numero 253 del 2019, che aveva rotto l’argine. In quell’occasione si discuteva dell’impossibilità di concedere i permessi premio ai condannati per mafia che non collaborano con la giustizia, e fu dichiarato incostituzionale l’automatismo tra il “non pentimento” davanti ai magistrati, accusando se stessi e altri, e il mancato accesso ai benefici. Ma con una maggioranza ridotta all’osso (8 a 7), sintomo di una lacerazione interna che rispecchiava la consapevolezza di aprire una breccia nel muro della risposta dello Stato alla tracotanza mafiosa esplosa con le bombe del ‘92 e del ‘93. Ed era pronta, annunciata e in parte già dichiarata, l’accusa di cedimento alle pretese dei capimafia e addirittura alla “trattativa” avviata al tempo delle stragi. La Corte non ha eluso il problema perché la dichiarazione di incostituzionalità dell’automatismo tra mancata collaborazione e negazione dei benefici (nel caso specifico la liberazione condizionale, cioè la possibilità di lasciare il carcere anche per gli ergastolani dopo almeno 26 anni di pena scontata) è netta ed è stata decisa all’unanimità. Ma all’unanimità si è anche preso atto che la legislazione antimafia - compreso il cosiddetto “doppio binario” che giustifica alcune durezze altrimenti ingiustificabili, anche nel percorso penitenziario, fondato sulla particolare pericolosità del legame tra l’organizzazione criminale e i suoi affiliati - non è fondata sul nulla, bensì figlia di una realtà tanto peculiare quanto deleteria. Assimilare i reclusi per mafia a tutti gli altri, senza più dare peso a differenze e specificità, significherebbe di fatto abolirla. Con immaginabili conseguenze, sul piano reale e su quello mediatico. Di qui la decisione di investire il Parlamento, prima di procedere all’abolizione della norma. Il segnale - Con un segnale chiaro: così com’è l’ergastolo ostativo non può reggere. Perché la “assoluta pericolosità presunta” di chi non s’è pentito ha “conseguenze afflittive ulteriori e impedisce il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena”; inoltre “si basa su una generalizzazione che può essere invece contraddetta, a determinate e rigorose condizioni”, da elementi diversi dalla collaborazione, che devono essere valutati dai magistrati di sorveglianza. Se il Parlamento (e prima ancora il governo) vuole mantenere le differenze ha il tempo di farlo, ma a partire da questi principi sanciti dalla Corte nel 2019 e da quelli che saranno illustrati nella nuova ordinanza. La decisione di ieri richiama quella con cui, nel 2018, la Consulta rinviò di un anno la sentenza sul “suicidio assistito” nella vicenda Cappato-dj Fabo. Anche in quel caso si trattava di una questione divisiva, sul piano etico; il Parlamento rimase inerte nell’anno di tempo concesso dai giudici, e nel 2019 arrivò la bocciatura della norma. Stavolta ci sono di mezzo questioni politico-sociali ugualmente rilevanti. Il fronte parlamentare ha già mostrato le prime spaccature all’interno della maggioranza, con Lega e Cinque Stelle indispettiti dai richiami della Corte mentre il Pd invita a prenderne atto, al pari di associazioni come Antigone e Nessuno tocchi Caino. Nel frattempo al ministero della Giustizia è arrivata Marta Cartabia, ex giudice costituzionale tra i protagonisti della sentenza del 2019. La verifica è fissata a maggio 2022, trentesimo anniversario della strage di Capaci da cui tutto prese le mosse. Il compito onorevole. Ergastolo ostativo da cancellare di Danilo Paolini Avvenire, 16 aprile 2021 Le parole hanno sempre un peso, se poi trovano posto in una decisione della Corte costituzionale sono in grado di lasciare il segno: il “fine pena mai” non è compatibile con gli articoli 3 e 27 della Costituzione italiana, oltre che con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Non garantisce, infatti, l’uguaglianza di tutti davanti alla legge, né tanto meno è in grado di realizzare la finalità rieducativa della pena. Si parla qui dell’ergastolo cosiddetto ostativo, ovvero dell’impedimento previsto dall’articolo 4bis dell’Ordinamento penitenziario alla concessione dei benefici (possibili per gli altri ergastolani) ai condannati per reati molto gravi, quali quelli di matrice mafiosa e terroristica, che non abbiano “utilmente collaborato” con la giustizia. Ebbene, dopo averlo sostenuto su questo giornale - in sparuta compagnia di altre voci - adesso possiamo affermare con il conforto dei giudici costituzionali che quella norma viola la Carta. I quali giudici avevano cominciato a trattare la spinosa e indubbiamente delicata materia prima di Pasqua, ma l’hanno poi lasciata decantare fino a ieri, quando hanno scelto di adottare uno schema ormai piuttosto consolidato nella giurisprudenza della Consulta: non una sentenza d’illegittimità, bensì una sorta di ‘avviso’ al Parlamento, che avrà poco più di un anno per provvedere con una legge a ripristinare la legalità infranta dalla “pena di morte nascosta”, come l’ha chiamata papa Francesco. In caso di inerzia del legislatore, sarà la Corte a decidere. È bene perciò che le Camere comincino a lavorare al più presto, anche perché la questione non è nuova e non è inattesa. C’erano state avvisaglie precise due anni fa, con una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e con un pronunciamento della stessa Consulta sulla concessione dei permessi premio agli ergastolani ostativi. Mentre nella trattazione di quest’ultima questione di legittimità (sollevata dalla Cassazione), anche l’Avvocatura dello Stato - che rappresenta in giudizio il Governo - aveva aperto uno spiraglio, ipotizzando che la decisione sui benefici possa essere lasciata alla discrezionalità del magistrato di sorveglianza, in base all’esame dei singoli casi. Nessun automatismo, insomma. Perché dietro ogni condanna, dietro ogni numero di matricola, anche dietro quella terribile scritta, “Fine pena: mai”, c’è una diversa storia umana. Sicuramente c’è chi non ha collaborato perché non è cambiato e si considera ancora ‘uomo d’onore’, dell’onore più malinteso che possa esserci. Ma c’è pure chi non ha parlato perché è stato arrestato a 20 anni e sapeva ben poco dei segreti della cosca che lo aveva arruolato. C’è chi potrebbe riferire soltanto cose risapute, di gente già in cella o al cimitero. E c’è chi ha una famiglia, fuori, che potrebbe subire conseguenze letali. Eppure stare ‘dentro’ può cambiarti dentro, molti ergastolani (ostativi e no) non sono più le stesse persone che entrarono in carcere tanti anni fa. Le prigioni sono un grande spaccato di umanità, hanno tante storie da raccontare. Storie di conversioni religiose, di lauree, di amicizie, di perdono, perfino di matrimoni. Una norma che metta riparo all’evidente contraddizione costituzionale rappresentata dall’ergastolo ostativo sarebbe, perciò, già tardiva. Ma il percorso sarà duro e accidentato, almeno a giudicare dalle reazioni registrate ieri dopo il comunicato dell’Alta Corte: da una parte accuse ai giudici di non aver avuto abbastanza coraggio; dall’altra proteste per l’”ormai finita lotta alle mafie”. Entrambe le fazioni sono fuori strada. È comprensibile, infatti, lo scrupolo della Consulta di non inserirsi “in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Mentre non si riesce a capire come il ripristino della legalità costituzionale possa sancire la vittoria della peggiore illegalità. Deve esserci il modo per tornare a onorare lo Stato di diritto senza abbassare la guardia nella battaglia contro l’anti-Stato. Basta trovarlo, basta volerlo. C’è tempo fino a maggio del prossimo anno. Ergastolo ostativo incostituzionale, ma decida il Parlamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 aprile 2021 La Consulta non decide sulla liberazione condizionale, senza aver collaborato con la giustizia, per chi è detenuto all’ergastolo ostativo. L’ergastolo ostativo è incostituzionale, ma ci dovrà pensare il Parlamento a varare una legge. La Corte costituzionale non decide sulle questioni di legittimità sollevate dalla Cassazione in merito all’ergastolo ostativo, in particolare a chi chiede l’accesso alla liberazione condizionale senza aver collaborato con la giustizia. A differenza della sentenza del 2019 che ha dichiarato incostituzionale la preclusione assoluta del permesso premio a chi non collabora, questa volta i giudici delle leggi hanno preferito attendere un intervento legislativo nel merito. Per la Consulta la disciplina ostativa è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Cedu - Nel contempo, però, la Corte ha osservato che tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tuttavia, sottolinea la Consulta, “l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Quindi, nonostante che le questioni sollevate trovino accoglimento, la Corte preferisce rinviare la trattazione a maggio 2022 per consentire al legislatore “gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. Quello che appare, a differenza della decisione di un anno e mezzo fa, è la prevalenza della ragione politica sulla ragione giuridica. Dopo due settimane di attesa, alla fine la Consulta ha preferito dare un altro anno di tempo al Parlamento. Eppure, ricordiamo, c’è stata già una chiara condanna di quasi due anni fa da parte della Cedu proprio sulla preclusione assoluta della libertà condizionale per chi non collabora con la giustizia. Ma il Parlamento ha preferito non assumersi la responsabilità per adeguare la legge secondo l’indicazione dettata della Corte europea. L’ergastolo ostativo impedisce di beneficiare della liberazione condizionale a meno che non si collabori - Ricordiamo di cosa si tratta. L’ergastolo ostativo, di cui all’art. 4 bis ordinamento penitenziario, impedisce al condannato in via definitiva per reati particolarmente gravi (tra i quali associazione mafiosa) di beneficiare della liberazione condizionale e degli altri istituti “premiali” penitenziari e delle misure alternative alla detenzione, a meno che lo stesso - oltre ad avere buona condotta, partecipare a programmi di reinserimento, dare prova di resipiscenza - non collabori per prevenire la commissione di ulteriori reati ovvero facilitare l’accertamento e la identificazione degli autori di quelli già commessi, salvo che tale collaborazione non sia impossibile o inesigibile. La Corte Europea dei diritti dell’uomo si è occupata della tematica dell’ergastolo ostativo in riferimento al caso Viola contro Italia. Marcello Viola è stato un boss di ‘ndrangheta condannato all’ergastolo ostativo fin dagli anni 2000 che aveva presentato al Tribunale di sorveglianza, almeno in due occasioni la concessione di permessi premio, entrambi rigettati per la mancanza del requisito della collaborazione. Nel marzo 2015 il ricorrente chiedeva la concessione della liberazione condizionale, che veniva rigettata sia dal Tribunale di Sorveglianza che dalla Corte di Cassazione perché, secondo il Tribunale, la condizione specifica della cessazione dei vincoli con l’organizzazione di appartenenza si doveva necessariamente esprimere attraverso una attività di collaborazione con la giustizia; in particolare, la sentenza della Suprema Corte evidenziava l’irrilevanza della dichiarazione di innocenza del ricorrente, che avrebbe potuto essere valutata solo in sede di revisione. Nei sei mesi dal rigetto della condizionale, Viola ha proposto ricorso alla Corte europea lamentando plurime violazioni: violazione dell’art. 3 della Convenzione, in quanto l’ergastolo ostativo sarebbe pena non comprimibile, con violazione del principio di proporzionalità e del principio di reinserimento sociale; violazione dell’art. 3 della Convenzione sotto il profilo procedurale in quanto la sola dichiarazione di inammissibilità dell’istanza ha impedito una vera valutazione del merito della stessa e per il mancato accesso a generiche “risultanze istruttorie” alle quali le pronunce interne avevano fatto riferimento; violazione dell’art. 5 par. 4 della Convenzione perché l’ordinamento interno non garantirebbe il ricorso finalizzato alla verifica delle condizioni procedurali e sostanziali di legittimità della misura restrittiva; violazione dell’art. 6 par. 2 in materia di presunzione di innocenza e del principio del nemo tenetur se detegere anche in fase esecutiva; violazione dell’art. 8 intesa come coercizione alla collaborazione di chi si proclama innocente, con esposizione a grave rischio del ricorrente e dei propri familiari. Per la Cedu serve una riforma dell’ergastolo - La Corte Europea, esaminando la richiesta solo sotto l’aspetto dell’art 3, con sentenza del 13 giugno 2019 ha condannato l’Italia, specificando che l’ergastolo ostativo limita la prospettiva di un mutamento futuro dell’interessato e la possibilità di revisione della pena, in violazione dell’art. 3 Cedu: “La Corte considera che la pena perpetua alla quale è soggetto il ricorrente, in virtù dell’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario, ossia il cd. “ergastolo ostativo”, limita eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità di riesame della pena. Pertanto, questa pena perpetua non può essere qualificata come comprimibile ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione. La Corte rigetta in tal modo l’eccezione del governo, riguardante la qualificazione di vittima del ricorrente e conclude che in questo ambito le esigenze dell’articolo 3 della Convenzione non sono state rispettate”. Ed ancora: “La natura della violazione accertata ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione impone allo Stato di attuare, di preferenza per iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione dell’ergastolo, che garantisca la possibilità di riesame della pena; cosa che permetterebbe alle autorità di determinare se, nel corso dell’esecuzione della pena, vi è stata una evoluzione del detenuto e se è progredito nel percorso di cambiamento, al punto che nessun motivo legittimo di ordine penologico giustifichi più la detenzione. Inoltre, la riforma deve garantire la possibilità per il condannato di beneficiare del diritto di sapere cosa deve fare perché la sua liberazione sia possibile e quali siano le condizioni applicabili. La Corte, pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della “dissociazione” dall’ambiente mafioso, considera che questa rottura possa esprimersi con strumenti diversi dalla collaborazione con la giustizia e dall’automatismo legislativo attualmente in vigore”. Nonostante la condanna della Corte Europea sulla preclusione della libertà condizionale e la successiva sentenza della Consulta sul solo permesso premio, il Parlamento ha preferito non adeguarsi al dettato di diritto internazionale. Ricordiamo che i giudici delle leggi avrebbero dovuto trattare la questione di illegittimità costituzionale sollevata dalla Cassazione per la libertà condizionale dell’ergastolano ostativo Francesco Pezzino. Ora se ne parla a maggio del 2022, in attesa che il Parlamento intervenga con una legge. Quindi, tra la condanna della Cedu e la trattazione della questione rinviata a maggio dell’anno prossimo, c’è il rischio che passino tre anni di limbo giuridico. Flick: “Scelta inedita: il giudice delle leggi si è spinto oltre i limiti, più che sul fine vita” di Errico Novi Il Dubbio, 16 aprile 2021 “Guardi, mi trovo in una duplice difficoltà, di fronte alla scelta compiuta dalla Corte costituzionale. Da una parte la Corte dichiara l’incostituzionalità della norma che, per gli ergastolani ostativi, consente la liberazione condizionale solo se collaborano, ma lo dichiara senza perfezionare la decisione perché ritiene che il Parlamento debba predisporre una legge ordinaria in modo da non compromettere contrasto alla mafia e premialità per chi si pente. E già qui si tratta di una pronuncia senza precedenti, solo in parte assimilabile alla decisione sul fine vita. Dall’altra parte, è veramente problematico commentare non un’ordinanza ma un comunicato stampa. Che per forza di cose deve essere sintetico. E che dunque non può soddisfare tutti gli interrogativi né eliminare alcune perplessità”. Giovanni Maria Flick è schietto nell’esprimere una valutazione non del tutto entusiastica della notizia venuta da Palazzo della Consulta. L’ergastolo ostativo senza possibilità di liberazione, neppure di fronte alla certezza del ravvedimento, è giudicato chiaramente illegittimo, eppure la Corte ritiene di non poter rendere, almeno per un anno, efficace tale pronuncia prima che il legislatore abbia preparato una pista d’atterraggio sicura. È una sentenza inedita? È solo in parte assimilabile alla scelta con cui nell’ottobre 2018 la Corte concesse un anno di tempo al Parlamento per disciplinare il fine vita. Scelta che, vista l’inerzia legislativa, fu seguita dalla declaratoria di parziale illegittimità arrivata esattamente un anno dopo. C’è l’analogia del termine imposto al legislatore ma, come chiarì definitivamente la sentenza del 2019, in quel caso la pur complessa opzione era legata alla necessità di dichiarare non punibile l’aiuto al suicidio in determinati casi senza negare, nello stesso tempo, la tutela di soggetti più deboli in generale. Allora si disse che la Corte si era spinta un po’ oltre i propri confini. Nella decisione appena sintetizzata dal comunicato, sembra si vada ancora un po’ più oltre. Soprattutto perché viene indicato un necessario intervento per legge ordinaria, un precauzionale argine normativo a possibili ricadute sulla lotta alla mafia e sulle collaborazioni. Sembra si vada al di là del perimetro che la Costituzione alla Consulta. La valutazione della Corte sui necessari interventi per legge ordinaria complica le cose? Può complicarle nella misura in cui non sappiamo cosa accade se il Parlamento, come avvenne per il fine vita, resta inerte. Dato che la Corte ritiene necessario preservare sia ogni forma di contrasto della criminalità sia l’efficacia dei meccanismi premiali per chi collabora, quale sarà la strada percorribile se il Parlamento non dovesse piantare quei paletti? Se negare il diritto alla liberazione condizionale è illegittimo, vuol dire che la Corte, nel riconoscere tale illegittimità, accetta anche che quel diritto resti sospeso per un altro anno ancora: è così? È una delle ragioni che mi inducono a dirmi perplesso. Una norma o è incostituzionale o non lo è. Oltretutto, dal comunicato la Corte sembra chiarissima nell’indicare quali principi sono violati: l’articolo 3 della Costituzione, dunque l’uguaglianza e la ragionevolezza, e l’articolo 27, secondo cui fine della pena deve essere rieducativo ed esiste perciò un diritto alla speranza per qualsiasi condannato. Subordinare la liberazione condizionale ad unico presupposto immodificabile, salvo eccezioni, vale a dire la collaborazione, è inoltre, secondo la Corte, in contrasto con l’articolo 3 della Convenzione europea. Eppure, di fronte a una illegittimità così chiara e cosi chiaramente affermata, non si perfeziona la decisione. O almeno così sembra. Parliamo pur sempre di un comunicato stampa, non di un’ordinanza. Qualora un ergastolano ostativo che non si è pentito, ma del quale il giudice abbia già apprezzato l’effettivo e sicuro ravvedimento, nell’attesa che il legislatore eventualmente introduca le precauzioni invocate dovesse morire, ci troveremmo di fronte a una persona che non ha potuto beneficiare di un diritto nonostante la stessa Corte ne avesse accertato l’intangibilità. Come la mettiamo? È una situazione che non piace. Nelle poche parole che inevitabilmente la Corte poteva affidare a un comunicato, si ricorda come detto la necessità di non compromettere gli effetti premiali della collaborazione. Il che è giustissimo. Si inserisce esattamente nel discorso già proposto dalla Corte stessa secondo cui è necessario premiare chi collabora, ma non è possibile punire chi non collabora. Ripeto, oltre a tutte le conseguenze problematiche che possono derivare da un regime di sospensione, da una pronuncia che congela gli effetti di quanto afferma, c’è quell’interrogativo molto pratico: cosa avviene se il Parlamento non agisce, o se ribadisce la propria contrarietà all’abolizione o alla modifica dell’ergastolo? Ne sapremo di più, forse, quando leggeremo l’ordinanza. La sospensione è tanto più problematica se si pensa alla rilevanza del pregiudizio di cui si discute. Come è stato più volte detto in passato, l’ergastolo è da considerarsi una “pena di morte” civile. E in quanto tale, nella sua definizione, è una pena in contrasto con la Carta. Non lo è nella sua attuazione soltanto perché la liberazione condizionale fa in modo che quella morte civile, a determinate condizioni, possa essere scongiurata. L’ostatività è un’eccezione evidentemente non sopportabile. La Corte lo dice con estrema chiarezza. Sul merito, la valutazione della Consulta è coerente con i principi appena richiamati. Solo che la Corte fa un passo in più e almeno per un anno non se ne avranno conseguenze. Non c’è una contraddizione in tutto questo? La Corte è chiamata a giudicare sulla legittimità costituzionale delle leggi, non sul loro inserimento in modo adeguato nel sistema di contrasto alla criminalità. Presidente, la Corte legittima lo stato d’eccezione di fronte ai reati di mafia? No, per la chiarezza sopra ricordata con cui afferma che è incostituzionale subordinare alla collaborazione la liberazione condizionale dell’ergastolano ostativo. Non vedo un pericolo di sdoganamento dello stato d’eccezione. Casomai c’è un ulteriore piccolo passo oltre i confini della Consulta quando si parla di compatibilità con il quadro delle leggi ordinarie in materia. È del tutto inconsueto. La Corte non può entrare nel campo d’azione del legislatore. Già la maggioranza è divisa, sulla giustizia. Adesso il quadro sarà ancora più complicato, anche per la guardasigilli Cartabia... Non riesco a immaginare uno sconvolgimento politico considerato anche il tempo ormai breve che separa il Parlamento dalla fine della legislatura. Ma a me le valutazioni politiche non interessano e soprattutto non competono. Sta di fatto che con la decisione appena comunicata, la Corte costituzionale ha compiuto un passo inedito, perché nel passato ha più volte ripetuto i cosiddetti moniti al legislatore, ma non li ha collegati a una affermazione esplicita di incostituzionalità nei casi in cui ha ritenuto inammissibile la domanda che le si rivolgeva, ancorché fondata nel merito. La speranza oltre la pena di Luigi Manconi La Repubblica, 16 aprile 2021 Il verdetto della Consulta sull’ergastolo ostativo. Il cuore dell’ordinanza emessa dalla Corte Costituzionale a proposito dell’ergastolo ostativo risiede nelle seguenti affermazioni: la norma in questione è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione italiana e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Ciò perché l’attuale disciplina, fa della collaborazione con la magistratura l’unico modo per il condannato di ottenere la liberazione condizionale, “anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro”. Dunque, per la Consulta il regime di ergastolo ostativo, confligge corda lettera e con lo spirito della Costituzione. Tuttavia, rinvia la decisione ultima - da cui discende la dichiarazione definitiva di incostituzionalità, con conseguente inapplicabilità - a un momento successivo (maggio 2022). E questo per consentire al Parlamento di intervenire sulla materia, prima che si pronunci la Corte. La scelta del rinvio è analoga a quella assunta relativamente al tema dell’aiuto al suicidio e a quello della diffamazione. È un metodo adottato nei casi in cui l’intervento della Consulta rischia di sfiorare l’ambito proprio della discrezionalità politica. L’ordinanza prospetta un itinerario equilibrato, raccomandando al legislatore di tenere conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata, sia della necessità di confermare l’utilità della collaborazione con la giustizia. Una simile prudenza della Consulta, che lascia molti insoddisfatti, si spiega non solo con la grande delicatezza del tema, ma anche con l’ostilità che la probabile dichiarazione di incostituzionalità già aveva suscitato: in qualche caso, con argomenti seri e meditati, assai più spesso, con motivazioni pretestuose e, talvolta, schiettamente strumentali. Ma chi coltiva un’idea garanti sta e liberal-democratica del diritto e del sistema delle pene non può che leggere con soddisfazione quelle parole inequivocabili: l’ergastolo ostativo è in contrasto con norme fondamentali della Costituzione. Una delle ragioni dell’importanza di questa pronuncia, consiste nel fatto che è assai diffusa un’opinione così riassumibile: “In Italia, in realtà, nessuno sconta davvero la sua pena fino in fondo”. Si tratta di una delle tante, anche inconsapevoli, manifestazioni di ferocia quotidiana. Come altre espressioni del più pigro senso comune, anche questa è falsa. Ecco i dati: al primo settembre del 2020, nel sistema penitenziario italiano, si trovavano recluse 1800 persone condannate al carcere a vita e, tra esse, 1271 a quella pena che, appunto, prende il nome di ergastolo ostativo. Quest’ultimo non ammette la liberazione condizionale dopo 26 anni di detenzione e quel “ravvedimento” di cui parla l’ordinanza della Consulta. Ne consegue una condanna al carcere perpetuo: ovvero al “fine pena mai”. In altre e forbite parole, perinde ac cadaver (l’espressione è di Sant’Ignazio di Loyola). Si consideri che, negli ultimi quindici anni, il numero dei condannati all’ergastolo è cresciuto costantemente; e che l’incremento è dovuto principalmente all’aumento del numero di quelli ostativi. Eppure, la nostra Costituzione legittima la pena in quanto tenda alla “rieducazione”. E questo termine - proprio della cultura e del linguaggio dei costituenti degli anni Quaranta - si riferisce alla possibilità del condannato di emanciparsi dal proprio crimine e di “ritornare” all’interno della comunità civile. All’opposto, una pena infinita, senza tempo e senza scampo, quale appunto l’ergastolo, non può che essere incompatibile con la finalità di inserimento sociale della pena. Per questo la Consulta con una sentenza de11974 ha ritenuto ammissibile la reclusione perpetua solo in quanto non sia effettivamente tale, ma ammetta almeno una possibilità, con la liberazione condizionale, di ritorno all’interno del sistema delle relazioni sociali. E, invece, per gli ergastolani condannati per reati “ostativi” e non collaboranti è precluso quel diritto alla speranza spesso richiamato dalla Corte europea dei diritti umani. Il tema riguarda un punto nevralgico del nostro ordinamento: il rapporto tra pena e speranza. E chiama in causa quell’“incomprimibile possibilità di recupero” in cui - secondo le parole del cardinale Carlo Maria Martini - si esprime la dignità umana. Un comunicato tira l’altro. Non ci resta che… attendere di Davide Galliani giustiziainsieme.it, 16 aprile 2021 Non è facile commentare un comunicato. Viene da domandarsi se in camera di consiglio si voti anche sui comunicati. Ora, se nel comunicato si capisce bene che è trasposto il dispositivo, sul quale si vota, i problemi potrebbero essere anche messi da parte. Il punto è quando il comunicato assomiglia a una sorta di agenzia di stampa. In questi casi, forse, meglio lasciar perdere o essere didascalici: “si comunica che la Corte depositerà la decisione sulla questione X il giorno Y”. Punto. Invece no. E abbiamo due possibilità: stare zitti e aspettare la decisione, possibilità validissima; oppure scrivere due righe oggi, magari per non scriverle più domani. Cosa significa, giuridicamente, che l’accoglimento immediato “rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”? Soprattutto, la Corte si è dimenticata che la sorveglianza, caduta la presunzione assoluta sui permessi, è tornata a fare il proprio mestiere, e non solo quello di dichiarare inammissibile qualsiasi richiesta di beneficio senza utile collaborazione con la giustizia? Pensate a chi è in carcere da più di venti anni, la stragrande maggioranza dei 1.200 e passa ergastolani ostativi italiani: se fossi uno di loro, la prima domanda che mi porrei è come sia possibile lasciarmi nel limbo per un anno. La Corte accerta la violazione di eguaglianza, rieducazione, dignità umana, ma dice che per un anno possiamo convivere con la violazione. Ancora. Richiamare nel comunicato l’art. 3 Cedu non è stata una genialata. Questo perché i diritti che garantisce sono inderogabili, da testo della Cedu e da giurisprudenza granitica di Strasburgo. Mai e poi mai si possono derogare. Nemmeno in tempo di guerra e nemmeno a fronte del più tremendo, grave e ripugnante dei reati. Figuriamoci per dare tempo al Parlamento di sistemare le cose. E anche il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa più sensibile al margine di apprezzamento potrebbe storcere il naso: dato che stiamo parlando di art. 3, una volta accertata la violazione, non dichiararla subito è una faccenda complicata. Vi sarebbe altro. Se la Corte avesse deciso anche in riferimento alla semilibertà, usando la illegittimità consequenziale, nel comunicato lo avrebbe detto. Ma ha un qualche senso dichiarare incostituzionale il regime ostativo applicato al permesso premio, accertarlo incostituzionale ma non dichiararlo applicato alla liberazione condizionale, e non dire una parola sulla semilibertà? Certo, dopodomani arriverà una questione di costituzionalità sulla semilibertà. Ma dato che la Corte ha tra i suoi poteri, questo ben scritto, la illegittimità costituzionale consequenziale, non sarebbe stato male usarla. Si dirà: ma i requisiti della semilibertà sono diversi. Ovvio che sono diversi, ma la presunzione assoluta è identica: incostituzionale verso i permessi, incostituzionale accertata non dichiarata verso la liberazione condizionale, che facciamo la teniamo in piedi per la semilibertà? Lo so bene. Cinque anni fa quanto accaduto sui permessi e oggi sulla liberazione condizionale era inimmaginabile. Il bicchiere è anche mezzo pieno. Va bene, ma resta una sensazione strana. Cosa dovrebbe fare il legislatore in questo anno e passa di tempo? Dice la Corte: “preservare il valore della collaborazione con la giustizia”. Si tratta di una affermazione carica di significato. Tanto è vero che dopo la 235/2019 la sorveglianza ha fatto di tutto proprio per “preservare il valore della collaborazione con la giustizia”. Sinceramente, alla Consulta non sembra se ne siano accorti: la sorveglianza sta cercando in molti modi di valorizzare comunque il mancato apporto collaborativo. Un cortocircuito: la 253/2019 dice che esiste la libertà di non collaborare, la sorveglianza post 253 sembra non voler considerare “neutro” il mancato apporto collaborativo, e ora il comunicato della Consulta dice “preservare il valore della collaborazione con la giustizia”. Sarebbe stato molto meglio se la Consulta avesse detto: la presunzione da assoluta diventa relativa, ovviamente ora al Parlamento compete il compito di “preservare il valore della collaborazione”. Se accerti la violazione, ma non la dichiari, ti tiri la zappa sui piedi: se è incostituzionale la presunzione assoluta, e se la presunzione assoluta è assoluta, che senso ha non dichiararlo ma solo accertarlo? Vale a dire: il Parlamento può fare solo meglio, non può peggiorare la situazione, visto che peggio della prova legale assoluta non esiste nulla, se non abolire la liberazione condizionale per gli ergastolani, che non mi pare sia possibile. Infine, le buonissime ragioni di chi contesta la Consulta, quando accerta ma non dichiara una violazione costituzionale, nel caso dell’ergastolo ostativo si moltiplicano. Staremo a vedere l’ordinanza, la quale, a differenza del caso Cappato, non deve evitare che delle persone finiscano in carcere, ma che possano uscire dal carcere…anche se il “no” della sorveglianza all’uscita è incostituzionale. Non si può scrivere un libro su un comunicato. Nemmeno un articolo. Al massimo poche righe. Che voglio concludere domandandomi se abbiano ancora un senso questi comunicati. Non tutti i comunicati, ma questi che assomigliano ad agenzie di stampa. Si rinvia a maggio 2022 per consentire al legislatore gli interventi “che tengano conto (…) della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata”. Ma il legislatore del 1992 ha introdotto l’ergastolo ostativo proprio per la peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata, e quelli successivi non lo hanno modificato nemmeno di una virgola. Non riesco a comprendere perché distinguere i compiti tra Corte e Parlamento debba significare anche non fare ciascuno i rispettivi compiti. Il Parlamento ha fatto il suo. Un attimo meno oggi la Corte, anzi ha detto a tutti: io sono la Corte, accerto la incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, ma non la dichiaro perché voglio vedere cosa combina il Parlamento. Non è invadere le sfere del Parlamento? Saranno maggiorenni i nostri parlamentari, o no? Ognuno faccia il suo mestiere. La Corte dichiara incostituzionale l’ergastolo ostativo. Il Parlamento, se lo ritiene, interviene per preservare il valore della collaborazione con la giustizia e tenere conto della peculiare natura dei reati di criminalità organizzata. Perché in Italia per unire due puntini non si tira mai una linea retta? Anche chi dice che questo passa il convento, altrimenti sarebbe andata peggio, non è granché persuasivo. Intanto, non era in camera di consiglio. Ma mettiamo sia andata così: alcuni erano per la infondatezza, altri per la incostituzionalità, ha vinto la incostituzionalità accertata ma non dichiarata. A me sembra che chi dice che sarebbe potuta andare peggio debba rivolgersi a chi sosteneva l’infondatezza della questione di costituzionalità. Come si possa sostenere che l’ergastolo ostativo sia compatibile con la Costituzione e la Cedu sinceramente non riesco a comprenderlo. E a conti fatti non è compatibile né con la prima né con la seconda…ma evidentemente per dichiararlo oltre che per accertarlo serve ancora un altro anno. La Corte si è messa in testa di riscrivere la disciplina dell’ergastolo ostativo. Così ha fatto con il permesso, aggiungendo il pericolo di ripristino. Così farà con la liberazione condizionale, poiché lecito aspettarsi qualche paletto per il legislatore nella ordinanza che verrà pubblicata “nelle prossime settimane”. E vedremo la sorte della semilibertà, sulla quale per ora tutto tace. Non vi è niente di male in questo attivismo della Consulta. Che sia un legislatore non solo negativo ma anche positivo lo sanno pure i sassi. Solo una cosa non si deve dimenticare: che i destinatari delle sue pronunce sono persone che non sono in carcere da qualche giorno, nemmeno da qualche mese, e nemmeno da qualche anno. Parliamo di decenni di carcere. Non vorrei mai che finissimo col domandarci se le aggiunte fatte dalla Corte debbano avere valenza solo per il futuro. Del resto, il divieto di retroattività di pronunce che aggravano i requisiti per chiedere un beneficio o una misura è un tema che prima o poi esploderà…caduta la presunzione assoluta per i permessi non abbiamo più solo l’attualità dei collegamenti, che esisteva dal 1991, ma anche il pericolo di ripristino, che esiste dal 2019. Staremo a vedere sulla liberazione condizionale, ma caduta la presunzione assoluta non è che si possa mettere dentro di tutto per preservare il valore della collaborazione con la giustizia e per tenere conto della peculiare natura dei reati di criminalità organizzata. Sembra una scena kafkiana: la Consulta tiene per il guinzaglio il Parlamento, al quale fornisce un assist per mettere il guinzaglio alla sorveglianza, la quale, se andiamo avanti così, non si muoverà più neppure di un millimetro…e non è che i permessi concessi dopo la 253 ad ergastolani siano centinaia: io ne ho contati come le Cime di Lavaredo. Se la Corte sceglie di non decidere di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 16 aprile 2021 La Corte costituzionale, nel caso della disciplina del c.d. ergastolo ostativo, ha annunciato in un comunicato che nuovamente intende procedere affermando che la legge in vigore è incostituzionale, ma che la materia richiede l’intervento del Parlamento legislatore. Sospeso il giudizio per permettere al Parlamento di provvedere, la Corte deciderà con sentenza dopo intervenuta la nuova legislazione o in mancanza di essa. Non si può non essere sorpresi dalla soluzione scelta dalla Corte. Essa ricorre al metodo utilizzato nel recente caso dell’aiuto al suicidio, in una ipotesi però in cui la necessità dell’intervento legislativo sembra inesistente. Come recentemente avvenuto per il caso dei c.d. permessi premio, che la legge escludeva per i condannati per delitti commessi in contesto di associazione mafiosa, quando il condannato non collabori con le autorità inquirenti, la Corte anche per la liberazione condizionale aveva la possibilità di provvedere dichiarando incostituzionale il divieto assoluto e rinviando la decisione alla valutazione del giudice di sorveglianza. Stanti le precedenti posizioni espresse dalla Corte in materia penitenziaria sembrava certa una simile soluzione. E già si era alzata una preventiva protesta e denunzia di colpevole indebolimento della lotta alla mafia, che certo avrebbe investito anche la Corte. Ma i precedenti della Corte sono inequivoci ed anche, nello stesso senso, quelli della Corte europea dei diritti umani. La Corte costituzionale ha già dichiarato la incostituzionalità del divieto di concessione di permessi premio quando non vi sia collaborazione con l’autorità, a causa della presunzione assoluta e non vincibile da prova contraria di perdurante pericolosità. Entrambe le Corti hanno già affermato che i c.d. benefici penitenziari, concessi o negati dal giudice di sorveglianza in considerazione dei progressi del detenuto, concorrono a rendere concreta e possibile la finalità di rieducazione che è propria della pena sia nella Costituzione, sia nella Convenzione europea dei diritti umani. La Corte costituzionale ha già ritenuto incostituzionale che i permessi premio siano esclusi, senza che al magistrato di sorveglianza sia consentita una valutazione in concreto della condizione del detenuto, dell’effetto del passare del lungo tempo della detenzione e persino delle ragioni che hanno indotto il detenuto a mantenere il silenzio. Secondo la Corte costituzionale il decorso del tempo della esecuzione della pena esige una valutazione, che consideri l’evoluzione della personalità del detenuto e non una presunzione assoluta di pericolosità sociale. E la Corte ha già avuto modo di riconoscere e affermare che “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento”. Come per i permessi, anche per la liberazione condizionale gli argomenti già svolti dalla Corte costituzionale l’avrebbero facilmente condotta a dichiarare l’incostituzionalità del divieto puro e semplice di concessione della liberazione condizionale all’ergastolano non collaborante e a stabilire invece che, con rigorosi criteri probatori, decidesse caso per caso il giudice. La Corte si è invece sottratta alla decisione e ha preferito evitare di provvedere. Affermando la necessità di un coordinamento legislativo della complessiva legislazione antimafia ha rinviato la questione al Parlamento. Se, come è spesso avvenuto, il Parlamento si rivelerà incapace di legiferare, la Corte sarà costretta a dire essa stessa con sentenza ciò che sembrava già ora discendere senza difficoltà dai suoi precedenti e dai principi costituzionali. Nel frattempo una legislazione incostituzionale resta in vigore. La sentenza sull’ergastolo per chiudere gli anni bui di Carlo Nordio Il Messaggero, 16 aprile 2021 La sentenza della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’ergastolo ostativo incompatibile con la nostra Carta fondamentale, può essere letta sotto tre profili: quello giuridico, quello politico e quello storico. Primo profilo. Per il lettore digiuno di giuridichese, detta in termini accessibili, la norma incriminata vieta la concessione di alcuni benefici, come la liberazione condizionale, a persone condannate all’ergastolo per reati di criminalità organizzata che non abbiano collaborato con la giustizia. A prima vista, potrebbe anche sembrare ovvio: se sei un mafioso, finché non collabori dimostri di essere ancora inserito nella consorteria, non ti sei “risocializzato”, e quindi devi scontare la pena per intero. Ma le cose non sono così semplici. Ad esempio un ergastolano, dopo trent’anni di carcere, può benissimo essere pronto a rientrare, magari gradualmente, nella società civile senza essere pericoloso, ma non vuole che, collaborando, questo pericolo lo corrano i suoi familiari, sui quali l’organizzazione potrebbe vendicarsi. Oppure teme che, vuotando il sacco, debba rivelare altri reati commessi a suo tempo, e quindi aggravare, anziché alleggerire, la propria posizione. Insomma si rifiuta di collaborare non per complicità, ma per timore. E poiché la nostra Costituzione dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, e l’ordinamento penitenziario prevede la liberazione condizionale per tutti gli ergastolani che si siano comportati bene, il requisito della “collaborazione” è illogico, iniquo e discriminatorio: la decisione della Consulta è dunque benvenuta. Secondo profilo, quello politico. Dallo stringato comunicato stampa par di capire che la Corte ritiene che l’eliminazione tout court di questa norma potrebbe determinare una “inadeguatezza di contrasto alla criminalità organizzata”, e quindi concede al Parlamento un anno di tempo per provvedere. Da modestissimo giurista ammetto di non comprendere se la sentenza abbia dunque effetto immediato, o se l’ergastolo ostativo resti in vigore - malgrado la sua illegittimità costituzionale - fino allo scader del termine concesso al legislatore: non ci resta che attendere le motivazioni della sentenza. Ma l’aspetto che qui ci interessa è appunto quello politico, che già abbiamo commentato in occasione di una sentenza analoga sulla legge cosiddetta del fine vita. Poiché la Corte non ha il potere di creare una legge (anche se di fatto talvolta si è sostituita al Parlamento) ma soltanto di confermarla o abrogarla, ora si pone il problema di come disciplinare il vuoto di tutela normativo che la sua pronunzia ha provocato: e poiché ci sono materie dove questo vuoto è pericoloso, la Corte accede al compromesso di lavorare, per così dire, a metà. Dice cioè al legislatore: attenzione, io posso andare - come rispose il Signore a Giobbe - sin qui e non oltre. Ma oltre questo limite devi pensarci tu, e devi farlo presto. Il fatto è che il nostro Parlamento fa orecchie da mercante. Non trovando, su queste materie delicatissime, un indirizzo concorde e una soluzione condivisa, traccheggia, indugia e rinvia. In attesa magari che la stessa Corte, vistasi inascoltata e perduta la pazienza, intervenga con la clava là dove sarebbe stato necessario usare il bisturi. Terzo profilo, quello storico. Sarà forse il meno determinante, ma è quello più significativo. Perché dai tempi del terrorismo la nostra legislazione penale, procedurale e penitenziaria è stata caratterizzata da provvedimenti cosiddetti emergenziali, alcuni dei quali germinati sull’onda emotiva di un’opinione pubblica impaurita ed esasperata, ma in stridente conflitto con ogni principio umano e divino di giustizia e di equilibrio: dal fermo di polizia degli anni ‘70 fino, appunto, all’obbrobrio dell’ergastolo ostativo. Da un punto di vista tecnico, la situazione è stata aggravata dall’alternarsi di queste norme di estremo rigore con rare parentesi di irenismo indulgenziale. Con il risultato che il sistema è diventato un enigma avvolto in un indovinello dentro un mistero, dove nessuno capisce più nulla. Ora questa sentenza sembra segnare un indirizzo definitivo. Osando infrangere il tabù della “lotta alla mafia” condotta con qualsiasi mezzo, la Corte sembra privilegiare il diritto inalienabile della dignità e quello umano della speranza rispetto alle vociferanti istanze giustizialiste e forcaiole. È un messaggio forte per chiudere un periodo che dura da mezzo secolo. Sempre che il legislatore non intenda tenerlo ancora aperto, perché non riesce a trovare una soluzione. Fassone: “Io, da giudice ne ho condannati tanti. Ma la pena deve avere fine” di Liana Milella La Repubblica, 16 aprile 2021 Elvio Fassone è il giudice “giusto” per parlare di ergastolo. Da presidente della Corte di Assise di Torino, prima di diventare senatore del Pd per due legislature, ha deciso molti ergastoli per uomini di mafia. In particolare uno - per Salvatore - con cui poi ha intrattenuto per 30 anni una fida corrispondenza. Che dura tuttora. Una storia che Fassone ha raccontato in un libro di Sellerio, un test seller, “Fine pena: ora”. L’ergastolo non potrà più essere “ostativo”. Dopo 26 anni chi ha scontato la pena potrà uscire anche se non collabora. Passo giusto o schiaffo alle vittime? “Un intervento per ora interlocutorio ma giusto e necessario. Non sono io a dirlo, ma la nostra Costituzione, la Corte europea dei diritti dell’uomo, la nostra Corte costituzionale, la quasi totalità degli studiosi di diritto, il Papa. Che appena nominato si affrettò a eliminare l’ergastolo dalla legislazione del Vaticano. Tutti “schiaffeggiatori”?”. L’essere pentiti, fino a oggi, voleva dire un taglio netto con l’esperienza mafiosa. Però le inchieste rivelano anche finte collaborazioni... “È proprio questo il perno della decisione già assunta dalla Corte nel 2019 sui permessi premio: non si può presumere che la collaborazione con la Giustizia costituisca l’unico metro sul quale valutare la rieducazione del detenuto. Certo, il mafioso non è un associato come gli altri: il suo far parte di una società è realmente qualcosa che ha in sé del religioso, una sua perennità. Ma nulla nell’uomo è immutabile. La Corte ha già censurato la presunzione assoluta, esigendo valutazioni caso per caso, sia pure accompagnate dalla prudenza e dalla severità che quella realtà sociale esige”. Però Salvini già dice “l’ergastolo non si tocca”. Il fratello di Borsellino parla di “schiaffo alle vittime”. Dal Csm Ardita vede realizzato “il desiderio dei mafiosi”… “Ma l’ergastolo non viene e non verrà eliminato. Non si spalancheranno i cancelli di nessun carcere, non ci saranno i cortei di ergastolani trionfanti nelle strade, non ci saranno i brindisi dei mafiosi in carcere con lo champagne, come dopo l’assassinio di Falcone. Ci saranno dei giudici che torneranno a fare i giudici e non i burocrati del pollice verso, non impiegati che rispondono alle domande col timbro “inammissibile” senza guardare al merito”. Viviamo nell’Italia di Cosa nostra, della `ndrangheta, della camorra. E delle stragi mafiose. Fino a che punto si può difendere una legislazione d’emergenza che passa sopra al ravvedimento dei singoli? “Una legislazione può dirsi di emergenza quando “emerge”, per poi scomparire. La legge che ha introdotto l’ostatività” dell’ergastolo risale al 1992, cioè a quasi 30 anni fa. È tempo di rifletterci con serenità”. Le polemiche dure di oggi ci sono state nel 2019 quando la Consulta ha deciso che si potevano dare permessi ai detenuti al carcere duro. Si previdero uscite a raffica, ma chi ha beneficiato del permesso si conta sulle dita di una mano... E questo dovrebbe tranquillizzate chi teme il “liberi tutti”. La magistratura di sorveglianza ha fatto il suo dovere con uno scrupolo che taluno ha ritenuto esasperato. Anche perché la Corte aveva collocato dei “paletti” molto minuziosi nella sentenza”. “Fine pena mai” è scritto per la condanna all’ergastolo. “Fine pena: ora” è il titolo del suo libro. Il carcere durissimo da una parte. Il carcere per il recupero dall’altra. Quest’ultimo è buonista o giusto? “Il carcere è sofferenza, sempre. Ma vorrei che quanti si dicono preoccupati riflettessero su cosa vuole dire, nella carne e nello spirito, l’espressione “fine pena: mai”. L’ergastolo ostativo non è solo una pena più lunga delle altre. È la morte della speranza. Questo è ciò che la Corte di Strasburgo ha dichiarato contrario al senso di umanità. La Consulta cammina su questa via”. La criminologia e il coraggio del diritto di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 16 aprile 2021 L’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo è oramai accertata. E se il Parlamento farà finta di nulla, allora sarà la Corte a dover intervenire con una sentenza che a quel punto sarà inevitabile. Tutto ritorna dunque nelle mani delle forze politiche, così come era accaduto nel caso della vicenda Cappato sulla non punibilità dell’aiuto al suicidio. La Corte, ancora una volta quando si tratta di temi delicati e divisivi, lancia un ultimatum al legislatore affinché ascolti le sue ragioni. L’ergastolo senza speranza resterà dunque in vita al massimo fino a maggio 2022, nonostante sia ritenuto illegittimo dalla Consulta che è stata netta, per la seconda volta in due anni, nell’affermare che la collaborazione con la giustizia non può essere l’unica via per riacquistare la libertà. Gli articoli 3 e 27 della Costituzione, nonché l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sono in contraddizione profonda con il carcere a vita senza speranza. La Corte afferma che deve essere sempre concessa al detenuto ergastolano la possibilità di ottenere la liberazione condizionale qualora il ravvedimento sia sicuro. Ma allora perché aspettare un anno e lasciare la palla al Parlamento? Hanno fatto ingresso motivi di politica criminale che poco hanno a che fare con il diritto in senso stretto. La Corte esplicita il rischio che l’accoglimento immediato, seppur sacrosanto, potrebbe avere ripercussioni nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata. Non è certo un argomento giuridico. Il dibattito delle ultime settimane intorno alla specificità della mafia deve avere pesato in qualche modo. Va detto che il legislatore ha avuto già ben due anni per intervenire sulle norme, ossia da quando la Corte europea dei diritti umani nel caso Viola aveva dichiarato che l’ergastolo senza prospettiva di rilascio costituisce un trattamento inumano e degradante. Anche per questo non è facile immaginare che l’attuale Parlamento trovi il coraggio politico per cancellare l’ergastolo senza speranza dalla legge penitenziaria. Ovviamente saremmo felici di essere smentiti. La scarsa fiducia nelle scelte progressiste del Parlamento non fa perdere di vista la valenza della decisione della Corte, nella quale si intravede comunque un punto di non ritorno: non si può condizionare la libertà alla collaborazione con la giustizia. Un messaggio inequivocabile che non ammette scorciatoie o compromessi interpretativi. C’è chi dice che la pena dell’ergastolo in Italia non esiste. Invece esiste ed è ampiamente comminata. Sono 1.784 gli ergastolani in Italia e di questi ben 1.267 sono ergastolani ostativi. Un numero elevatissimo. A partire da maggio 2022 (noi auspicavamo da oggi) potranno sperare di non morire in prigione. *Presidente Associazione Antigone Ergastolo ostativo, senza collaborazione non c’è piena rieducazione di Paolo Maddalena* Il Fatto Quotidiano, 16 aprile 2021 La Corte costituzionale, con ordinanza (che sarà depositata la prossima settimana) relativa al problema del cosiddetto “ergastolo ostativo”, cioè alla disposizione di legge che considera la “collaborazione con la giustizia” l’unica prova certa del ravvedimento del condannato ai fini della concessione della libertà condizionale, ha ritenuto che questa disposizione contrasta con gli articoli 3 e 27 della Costituzione, nonché con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e ha rinviato la trattazione dell’udienza a maggio 2022, “per consentire al legislatore di adottare gli interventi che tengano conto, sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. Mi astengo, per deontologia professionale (essendo stato per nove anni Giudice della Corte costituzionale), da qualsiasi commento su questa decisione e desidero soltanto dare il mio punto di vista su questa difficilissima questione, la cui problematica soluzione è stata giustamente rimessa al Legislatore. A mio avviso i nostri parlamentari dovrebbero avere la mente ben sgombra dall’influenza invasiva e unilaterale dell’imperante pensiero unico dominante del neoliberismo (che sembra abbia addirittura offuscato la stessa Avvocatura dello Stato), tenendo presente che tale pensiero ha cancellato l’idea stessa dello “Stato comunità” e ha incentrato l’attenzione sui singoli soggetti, preoccupandosi degli “individui” (come da tempo fa la Corte dei diritti dell’uomo emettendo sentenze in pieno contrasto con la nostra Costituzione) e ponendo in secondo piano il ben più consistente “diritto di difesa” di tutti i cittadini (il “popolo sovrano”) nei confronti della criminalità organizzata. Inoltre, nella ricerca di un altro elemento di prova dell’avvenuto “ravvedimento” del condannato, ritenendosi che sia illegittimo riferirsi alla sola collaborazione con la giustizia, è a mio avviso da tener presente che, ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione, il “cittadino” (che è titolare di diritti fondamentali, tra i quali primeggia il diritto “dell’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, art. 3 Cost., comma 2), è da considerarsi non solo come “singolo”, ma anche e soprattutto come “parte” del popolo, cioè di un elemento “strutturale” dello “Stato comunità”. E appare invero molto difficile “provare” che un criminale che si sia macchiato di innominabili delitti possa essere considerato pienamente “rieducato” senza aver di fatto collaborato con la giustizia, e che gli si possa, in assenza di tale requisito, restituire lo status di “cittadino” della Repubblica, con tutti i “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2 Cost.) che questo status comporta. Vedremo cosa deciderà il Parlamento e se esso sarà in grado di trovare un altro sicuro elemento di prova del ravvedimento, tale da sostituire la “collaborazione di fatto” con la Giustizia. Da parte mia mi limito a ricordare che il Procuratore della Repubblica Nino Di Matteo ha dichiarato che la cancellazione della collaborazione con la giustizia come condizione per la concessione della libertà condizionale toglierebbe alla magistratura un importantissimo strumento di indagine e darebbe un colpo mortale alla costruzione di un sistema penalistico idoneo a sconfiggere la mafia, come già richiesto da Totò Riina. *Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale La detenzione al femminile: le donne ed il carcere. Intervista con Sandro Libianchi lavocedeimedici.it, 16 aprile 2021 Un approccio radicalmente differente caratterizza la detenzione femminile da quella maschile. La tipologia dei reati commessi dalle donne è espressione chiara del percorso di marginalità che spesso segna le loro vite. Approfondiamo questo tema con Sandro Libianchi, Presidente dell’Associazione “Co.N.O.S.C.I.” (Coordinamento Nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane - www.conosci.org), già dirigente medico nel complesso polipenitenziario di Rebibbia, Roma, specialista in Medicina Interna, Endocrinologia e Farmacotossicologia. Quale condizione vivono le donne detenute? Che numeri ha il fenomeno? Le donne detenute rappresentano una percentuale in tutto il mondo molto bassa rispetto alla popolazione maschile, circa il 5-6%, fino ad un massimo di circa il 10% in USA (World Prison Brief). In Italia siamo attorno a poco più del 4%, gran parte di queste donne sono straniere; nel nostro Paese sono presenti 8 istituti che hanno anche una sezione femminile, oltre ad una cinquantina di piccole sezioni femminili all’interno delle carceri maschili. Questa grande dispersione di sezioni sul territorio dà anche un’idea molto precisa della difficoltà di poter sviluppare progetti per le donne detenute, proprio perché sono “disperse” in tanti piccoli gruppi. Uno dei dati che voglio sottolineare, proprio per la maggiore presenza maschile negli istituti penitenziari, è che le carceri sono molto più a “misura d’uomo” piuttosto che a “misura di donna”. Il concetto stesso di detenzione è stato sempre più rivolto alle esigenze di custodia e sicurezza maschili, piuttosto che femminili. Anche gli studi condotti storicamente sulle donne sono in tal senso molto scarsi: inizialmente sono stati inizialmente quasi “monopolizzati” dal fenomeno della prostituzione; oggi sono incentrati sul versante della salute mentale e sul consumo di stupefacenti da parte delle donne. Questo dà l’idea di quanta strada si debba ancora fare per offrire un’assistenza migliore alla donna in carcere, che resta ancora una figura vulnerabile, con esigenze e di bisogni specialistici e differenti da quelli che investono la sfera maschile. Pensiamo ad esempio alla maternità: in genere la donna proviene da un’estrazione sociale bassa, è abituata a stare in casa con i figli e rappresenta il nucleo centrale di sostegno all’intera famiglia. Anche per questo delinque in maniera specifica e minore degli uomini. A proposito di reati: quali sono i più tipici da ascrivere alle donne? Esiste una grande differenza di tipologia di reati a carico delle donne rispetto agli uomini: l’infanticidio è un reato tipico delle donne, perché normalmente si realizza all’interno della famiglia. In questi ultimi anni comincia a prevalere anche il reato del traffico di droga: molto spesso le donne vengono utilizzate come corrieri dal Sud America fino all’Europa e questo si riflette nelle carceri con una rilevante presenza di donne sudamericane. Ci troviamo infatti di fronte a persone completamente sprovvedute, che non hanno percezione della gravità del reato commesso. Sono donne “sfruttate” nella loro ingenuità che per guadagnare una manciata di dollari rischiano anni di prigione in un altro paese, anche molto lontano dalla loro famiglia. Per quanto riguarda l’infanticidio voglio ricordare con orrore un doppio infanticidio di due bambini, uccisi dalla madre in carcere, a Roma, circa due anni fa: da una situazione di assoluta protezione si è invece scatenata una reazione delirante in questa donna, portatrice di una patologia psichiatrica che non era stata evidentemente riconosciuta appieno. Molti studi dimostrano che la donna troppo spesso è inoltre reduce da storie di pregressi abusi fisici e sessuali: la stessa detenuta, prima di delinquere, ha spesso subito a sua volta violenze di questo tipo. Per cui è prima vittima e poi carnefice. Un altro reato tipico delle donne è il furto nei supermercati: questo è un tipo di reato che rappresenta una trasposizione dei problemi familiari legati a situazioni d’indigenza economica. Si delinque per la sopravvivenza dei figli, che non vuol dire giustificare, ma inquadrare il problema in un contesto specifico. Affrontiamo adesso proprio il tema della genitorialità in carcere: che tipo di fotografia si può scattare? L’unico carcere interamente femminile in Italia è la casa circondariale di Rebibbia, una costruzione degli anni ‘40, dunque di concezione abbastanza antica. Ciò che la distingue dagli altri luoghi di detenzione è la presenza di un nido penitenziario, una sezione dove vengono collocate le mamme con bambini al seguito, e quindi parliamo di uno spazio attrezzato per far convivere i minori con le loro madri. Il tema della genitorialità in carcere si sente moltissimo: la legge permette che un bambino segua la madre in carcere, in quanto l’interesse primario è sempre quello del bambino. Al padre non è mai concessa questa possibilità e qui comincia la ‘latitanza’ dei padri detenuti nei confronti dei figli e della famiglia. Nel mondo sono stati calcolati tra i 7 e i 9 milioni di bambini di fatto reclusi, poiché vivono in carcere con le loro madri. Dopo l’arresto generalmente queste donne, trascorso un periodo di 7-15 giorni, vengono inviate agli arresti domiciliari o in detenzione domiciliare speciale, ai sensi della Legge del 2001 che simbolicamente fu pubblicata l’8 marzo. Un altro aspetto cruciale è quello della violenza carceraria in ambito femminile… Dalla mia esperienza professionale, in rapporto agli episodi di violenza nell’ambito della carcerazione maschile, purtroppo devo evidenziare che la violenza non ha un confine, è sempre la stessa, anche in un ambito femminile. Cambiano le modalità, ma esiste allo stesso modo: quando parliamo di donne, è una violenza soprattutto verbale, ma questo non la rende meno difficile, anzi può fare anche più male. È meno episodica e più di lungo periodo, non si conclude in un atto singolo, si prolunga nel tempo. Questo fa sì che il clima di fondo sia più teso e difficile da sopportare. Poi esistono dei gruppi di donne detenute, che hanno rapporti stretti con la criminalità organizzata, le cosiddette “donne di mafia”, che sono in costante aumento, parallelamente alle azioni polizia. Sono donne che dimostrano di avere un’intelligenza superiore alla media, sono perfettamente coscienti di quello che attorno a loro, mantengono un atteggiamento di prevalenza sulle altre donne, talvolta costituiscono un vero e proprio “sportello” nei confronti delle altre detenute e appaiono forti e strutturate nella loro psiche criminale. Un altro piccolissimo gruppo, che ho avuto modo di osservare, è quello delle donne dell’Isis, italiane e straniere: sono molto rare, accusate di terrorismo internazionale e anche in questo caso si tratta di persone molto strutturate. Convinte dei loro pensieri e delle loro credenze, sono gruppi di detenute con le quali è difficilissimo relazionarsi: anche solo per intrattenere un colloquio, si segue una procedura molto rigida, che prevede la presenza di donne medico, infermiere donne, quindi con una presenza femminile che esclude qualsiasi tipo di presenza maschile. Sono casi particolari, ma al contempo preziosi, per comprendere meglio le dinamiche psichiche e sociali di queste persone. Anche la tossicodipendenza è uno dei temi che ricorre più spesso nell’ambito della psicopatologia della donna in detenzione: cosa ha potuto osservare dalla sua esperienza professionale? In carcere alla base di una psicopatologia, specialmente tra le donne, c’è sempre il pregresso uso di sostanze stupefacenti e/o alcol. Una donna che dunque è affetta da una dipendenza patologica, rappresenta una grande sfida per la cura e la riabilitazione perché molto spesso viene ad innescarsi un problema anche di tipo psichiatrico. Proprio questo tipo di problemi può essere una delle radici della dipendenza. Il consumo inappropriato di alcol che rappresenta una vera e propria droga è facile da riscontrare in quanto esso si reperisce facilmente non avendo limitazioni nell’acquisto; lo stesso vale quando la dipendenza è da farmaci normalmente in uso e di facile acquisto diretto in farmacia, come gli ansiolitici. Queste donne in carcere sono persone molto fragili e vulnerabili, soprattutto all’inizio, quando si affronta con loro il periodo della sindrome di astinenza. Hanno delle reazioni di grande rifiuto e disagio profondo, per cui sono preda di agitazione, anche incontrollabile, e rappresentano una grossa sfida per il terapeuta. Quando possono essere mandate in misura alternativa, notiamo che la ricaduta nell’uso è frequentissima. Parlava di “sfide” per i terapeuti. Ma cosa vuol dire per una professionista donna lavorare in carcere? Quello dell’istituto penitenziario non è un ambito professionale desiderato o ambito per la maggioranza delle professioni. La donna professionista medico o infermiere, magari penalizzata sul lavoro all’esterno, proprio per questa carenza riesce più frequentemente ad assumere incarichi in questo contesto e ciò determina che le donne dell’ambito sanitario sono molto rappresentate nelle carceri. Questo, dal mio punto di vista è un bene: riequilibrare il numero di donne lavoratrici significa maggiore sensibilità sia nell’accoglienza sia nella terapia. Svolgono un lavoro secondo me molto apprezzabile perché la donna professionista raramente si mette in competizione. L’uomo tende a competere e questo può generare conflitti a differenza della professionista donna che più facilmente risulta ‘vicina’ ai problemi delle persone in difficoltà o detenute. A questo proposito vorrei accennare ad un argomento che mi affascina quale la visione che si ha dall’esterno della realtà carceraria femminile attraverso la fotografia. Mi hanno sempre molto colpito le raccolte di immagini, che ritraevano le donne-detenute. Ho notato che quasi nella maggioranza dei casi sono fotografi uomini, che immortalavano detenute e nei loro ritratti volevano quasi “concedere” a queste donne una sorta di attenuante, con delle immagini di una grande tristezza di fondo. Le donne vengono spesso ritratte con un sorriso spento, con tatuaggi importanti sulla pelle, trascuratissime: sono spesso foto in bianco e nero, che esprimono con forza il senso dell’isolamento e del poco “colore” degli ambienti. Il vero colpevole è lo Stato, che sequestra centinaia di innocenti di Don Franco Esposito Il Riformista, 16 aprile 2021 Un po’ di tempo fa, papa Francesco, durante la messa a Santa Marta, ha sentito l’esigenza di pregare per tutti coloro che incappano nella malagiustizia e portano addosso ferite che difficilmente guariscono col passare del tempo: “Vorrei pregare per tutte le persone che soffrono una sentenza ingiusta per l’accanimento”. È agli innocenti perseguitati e condannati che il papa ha dedicato la messa celebrata a Santa Marta: “In questi giorni di Quaresima abbiamo visto la persecuzione che ha subito Gesù e come i dottori della legge si sono accaniti contro di lui: è stato giudicato sotto accanimento, con accanimento, essendo innocente”. È vero, Gesù era innocente ma potremmo dire che se l’era cercata, sapeva bene che le sue azioni, le sue parole, le sue denunce contro il potere religioso e politico di allora avrebbero avuto conseguenze tragiche come la condanna a morte per crocifissione: una morte ignobile dopo una condanna “costruita a tavolino”. Sono passati 2mila anni, eppure ci ritroviamo a fare i conti con una giustizia dove sono tanti, troppi gli innocenti condannati, spesso senza aver compiuto nessuna azione tale da determinare un epilogo così tragico come giorni mesi o anni passati da innocente nelle “patrie galere”. Non credo che si possa immaginare la sofferenza di chi, senza colpa, deve scontare un tempo di carcere. Gente che non sa darsi una spiegazione per quello che le è accaduto, che pensa continuamente alla famiglia agli amici e attende - spesso invano - che si faccia chiarezza. Sono centinaia le persone che ogni anno vengono risarcite dallo Stato per essere finite dietro alle sbarre da innocenti: a Napoli, nel 2020, sono state ben 101. Tante altre, però, dopo essere state scarcerate, rimangono così segnate da decidere di non avere niente a che fare con la giustizia e di non chiedere alcuna riparazione per l’ingiusta detenzione. In tutti e due i casi la giustizia ne esce sconfitta, sia perché non è certo con un risarcimento che si ripara un tempo di detenzione ingiusta sia perché la fiducia nell’istituzione ne rimane ferita a morte. Sono tanti i casi che, durante il mio servizio in carcere, ho seguito e tanti sono i colloqui fatti di lacrime e disperazione. Molte volte non mi restava altro da fare che ascoltare e pregare. È vero, tanti detenuti si dichiarano innocenti per il reato che è loro contestato, ma dopo tanti anni s’impara a riconoscere quasi subito, già al primo colloquio, coloro che realmente stanno subendo un’ingiusta condanna, soprattutto quando certe confidenze vengono fatte in confessione. Lì ti rendi conto che davanti a te dovrebbero esserci altri a chiedere perdono. Ricordo un caso emblematico, quello di un tale accusato di un reato ignobile come la pedofilia. A denunciarlo era stata la moglie e le vittime erano i due suoi figli, vittime di presunte molestie sessuali. Ricordo i colloqui fatti durante un anno di detenzione: in quelle conversazioni, fatte più di pianti che di parole, mi rendevo sempre più conto che quell’uomo non avrebbe potuto compiere atti così infamanti. Mi raccontava del suo amore per la famiglia e, anche quando aveva scoperto una relazione extraconiugale della moglie, aveva reagito perdonandola. Purtroppo quest’amore e questo perdono non erano bastati perché la moglie, pur di vivere la sua vita, lo aveva accusato di molestie sessuali ai danni dei figli. Non entro nei particolari, ma posso dire che, dopo il primo grado in cui era stato condannato, quell’uomo è stato assolto perché il fatto contestatogli non si era mai verificato. Ora sono trascorsi vari anni, so che lui si è separato dalla moglie, ma vede con regolarità i suoi figli e provvede alle loro esigenze perché, nel frattempo, ha ritrovato il lavoro che aveva perso a causa della sua odissea giudiziaria. L’ho incontrato in qualche circostanza e la sua ferita è sempre aperta e sanguinante. Questo è un caso certamente dei più dolorosi perché, oltre la vergogna, coinvolge anche il rapporto con gli altri detenuti. Per questo in carcere c’è un reparto destinato ai sex offender dove ci si trova gomito a gomito con persone che hanno violentato e abusato e spesso soffrono di gravi disturbi psichici. Credo che un solo giorno in carcere da innocente con questa colpa sia un marchio indelebile che neppure mille assoluzioni possono cancellare. Ma chi paga per questi errori giudiziari? Quanta ipocrisia in un sistema di giustizia retributiva dove, quando è lo Stato a commettere il reato di “sequestro di persona” (questo è la carcerazione ingiusta), si pensa che tutto si possa risolvere con un risarcimento. L’ipocrisia sta nel fatto che quel risarcimento viene pagato dai proventi delle tasse dei cittadini, cioè di altri innocenti che, con il loro contributo, sopportano il peso gli sbagli commessi dai veri colpevoli. Verità per Mimmo, che è morto da solo in cella di Rita Bernardini Il Riformista, 16 aprile 2021 Lo sappiamo, le morti in carcere non richiamano l’attenzione dei grandi media. Così come siamo coscienti del fatto che se non ci fosse stata la determinazione e il coraggio dei genitori e della sorella di Stefano Cucchi, quella morte sarebbe stata relegata nelle cronache romane, sepolta tra le migliaia di notizie da dimenticare in fretta. Oggi voglio parlarvi della morte di Mimmo D’Innocenzo, un giovane di 32 anni, avvenuta il 27 aprile del 2017 nel carcere di Cassino. Io ne sono venuta a conoscenza perché mi ha scritto la madre del ragazzo, disperata perché recentemente il sostituto procuratore, dott. Roberto Bulgarini Nomi, ha chiesto l’archiviazione di tutta la vicenda perché gli elementi emersi nel corso delle indagini non sono sufficienti per giungere ad una sentenza di condanna nell’ambito di un eventuale dibattimento. E allora vediamoli questi elementi ‘insufficienti”. Mimmo è un ragazzo con un passato di assunzione problematica di sostanze stupefacenti, come ce ne sono a decine di migliaia in Italia. Io ritengo - e non sono sola a fare questa valutazione - che il carcere sia un luogo estremamente pericoloso per questo tipo di persone, le quali dovrebbero essere curate e aiutate ad uscire dalla tossicodipendenza che le porta non di rado a commettere reati collegati con la propria condizione. Accade purtroppo che il carcere sia invece la più probabile destinazione di questi ragazzi, i quali sovente vengono messi in isolamento aggravando così il loro stato psicofisico. Mimmo è morto in una cella di isolamento. Come è morto? Cosa è accaduto nella notte fra il 26 e il 27 aprile di quattro anni fa? Secondo i consulenti del Pubblico Ministero (medico legale e consulente tossicologico) Mimmo è deceduto per “insufficienza cardiorespiratoria conseguente ad intossicazione acuta da sostanze esogene di tipo stupefacente individuata dal tossicologo in Buprenorfina principale principio attivo del farmaco suboxone”. Veniamo ai fatti. Abbiamo un agente di polizia penitenziaria che riferisce di aver accompagnato Mimmo D’Innocenzo in infermeria la sera tardi del 26 aprile in tutte le deposizioni conferma sempre questa circostanza; lo fa nell’imminenza dei fatti, il 27 aprile del 2017; lo fa il 4 giugno del 2019 e il 14 luglio del 2020 quando viene posto a confronto con l’infermiera in servizio quella notte nel carcere. Abbiamo il medico e l’infermiera di turno i quali interrogati nell’imminenza del tragico decesso affermano all’unisono di “non ricordare” che Mimmo quella notte fosse stato condotto dall’agente in infermeria. Un vuoto di memoria a dir poco sospetto considerato il fatto che non debbano essere molti i detenuti che in orario serale vengono portati in ambulatorio. Vuoto di memoria che non può essere colmato dal registro di accesso all’infermeria dove vengono annotati tutti gli ingressi. Perché? Perché - combinazione - è scomparso proprio il registro del mese di aprile 2017! Elemento “suggestivo” secondo il Pubblico Ministero che porterebbe ad “ipotizzare che tale accesso all’infermeria sia effettivamente avvenuto e che il registro sia stato sottratto al fine di eliminare prova documentale del medesimo accesso; ma, appunto, trattasi di meri elementi suggestivi che non consentono - scrive il Pm - in assenza di ulteriori riscontri, di esercitare l’azione penale”. Ma andiamo avanti. Perché ci sono ancora due fatti da rilevare. Il primo: Mimmo aveva un recente buco da iniezione sul braccio, ma la siringa nella sua cella non è mai stata trovata. Il secondo: la telefonata fatta alla madre di Minimo da un detenuto, ristretto nel carcere di Cassino nello stesso periodo. In data 29 gennaio 2021 questo detenuto confermava che quanto riferito nella telefonata fatta a suo tempo alla madre corrispondeva a realtà. Cosa aveva detto? “So come è andata con Mimmo, gli hanno fatto una puntura la sera prima che morisse, da quel momento è stato sempre peggio e poi è morto”. Tutto ciò non meriterebbe un approfondimento in un processo penale? Gli “indizi” non appaiono chiari, precisi e concordanti? E quanto ha chiesto la difesa della madre di Minimo rappresentata dall’avvocato Giancarlo Vitelli opponendosi alla richiesta di archiviazione. La madre di Mimmo non cerca il colpevole ad ogni costo, vuole semplicemente che siano accertate le responsabilità - penali, se ci sono - della morte di suo figlio. Sente di doverglielo anche perché suo figlio da detenuto era nelle mani dello Stato e lei non poteva fare niente per aiutarlo e, magari, salvarlo. Ultima nota. Sono andata a vedere il dossier sulle morti in carcere aggiornato costantemente dalla meritoria associazione Ristretti Orizzonti. Dal 2000 ad oggi nelle carceri italiane sono morti 3.226 detenuti e 1.182 di questi si sono suicidati. Se si va a scorrere l’elenco si scopre che diversi di questi non hanno un nome semplicemente perché il nome non è venuto fuori né dalle istituzioni né dai mezzi di informazione. Nemmeno la morte di Mimino fino ad oggi aveva un nome, c’era scritto così: Italiano. Nome, sconosciuto. Età, 32 anni. Data, 27 aprile 2017. Cause, da accertare. Carcere. Cassino. Ciao Minimo: forza Alessandra. E che la giustizia sia giusta anche per i dimenticati delle carceri. Nuovo assalto della politica all’indipendenza dei giudici di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 16 aprile 2021 “Quod non fecerunt barbari fecerunt barberini”: è quel che fa venire in mente il progetto di una commissione parlamentare d’inchiesta sulla magistratura di vari deputati (FI, Lega, Iv e Az). C’è infatti un precedente che non ha funzionato ma che ora si ripropone sperando di farcela. Protagonista del precedente (2003) fu il parlamentare di FI Bondi: per verità un politico- poeta, nient’affatto un barbaro, per cui la “pasquinata” gli va stretta. Ma di fatto fu un precursore dei “barberini” di oggi. Bondi, mentre l’alleato leghista discettava sul “costo delle pallottole” per i magistrati, aveva pensato a una Commissione parlamentare “per accertare se ha operato e opera tuttora nel nostro paese un’associazione a delinquere con fini eversivi, costituita da una parte della magistratura, con lo scopo di sovvertire le democratiche istituzioni repubblicane”. Occorreva “sistemare” i magistrati che davano fastidio, non rispettando certi “santuari” tradizionalmente impuniti. Di quel progetto non si fece nulla, ma chi non crede nella giustizia vi trovò una spinta formidabile. Può accadere anche oggi, tanto più che si tratta di colpire un corpo (sia pure con lodevoli eccezioni) culturalmente indebolito e tramortito da crisi non solo di efficienza, ma anche di credibilità. Crisi che da tempo erodono la fiducia nella magistratura, da ultimo con il pingue contributo del caso Palamara (motore di un Sistema di cui ora si proclama vittima) e della pandemia che non ha risparmiato il servizio giustizia. Certo, non è più quella di Bondi la formula oggi usata. Vi si parla di correnti, attribuzioni di incarichi direttivi e funzioni del Csm, di fatto accusato di “far come gli struzzi” a fronte delle sconvolgenti rilevazioni del sullodato Palamara. Ma la sostanza rimane la stessa: indagare sul supposto uso politico della giustizia e sul lavoro delle toghe in generale, compreso il Csm nell’esercizio nelle sue funzioni istituzionali. Si può rigirarlo fin che si vuole, ma resta - come ai tempi di Bondi - un attacco all’indipendenza della magistratura. E se allora l’iniziativa era stata di un “semplice” parlamentare, portavoce di FI, oggi tra i primi promotori troviamo addirittura un esponente dell’esecutivo, la ministra, sempre di FI, Gelmini. Ma certe cose non si possono fare in uno Stato democratico fondato sul principio della separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario): una conquista storica e politica della civiltà occidentale che garantisce l’indipendenza dei giudici. In Italia mai gradita dai poteri (pubblici e privati) restii al controllo di legalità, che in vari modi han sempre cercato di regolare i conti in sospeso, ricacciando i magistrati nel loro “tradizionale” angolo di sottomissione. La voglia di indagini parlamentari sulla magistratura per un verso o per l’altro tende sempre a questo scopo, tipico di chi si sgola per chiedere più giustizia ma in realtà ne vuole sempre meno. L’obiettivo sembra oggi a portata di mano grazie al clima mefitico che incombe. E allora ecco che invece delle serie riforme di ampio respiro assolutamente necessarie (quelle impostate dai ministri Bonafede e poi Cartabia), una certa politica innesca un’indebita ingerenza nell’esercizio di un altro potere dello Stato e quindi un conflitto fra poteri istituzionali le cui conseguenze potrebbero essere devastanti. Prima di tutto per l’indipendenza della magistratura: patrimonio dei cittadini che credono nell’uguaglianza, non della “casta” dei magistrati. Che però devono essere i primi a difenderlo, scacciando “i mercanti dal tempio” per recuperare l’orgoglio e la responsabilità che in momenti ben peggiori (terrorismo e stragi) han saputo esprimere. Sorpresa Woodcock: “Ora separiamo le carriere” di Errico Novi Il Dubbio, 16 aprile 2021 In un articolo a sua firma il magistrato napoletano ridicolizza il dogma dell’unità indissolubile: “Dopo il terremoto Palamara, diventino trasparenti sia le nostre promozioni che la genesi delle inchieste”. Poche volte capita di leggere articoli che con geniale nonchalance travolgono gli schemi immutabili della giustizia. Ancor più raramente capita che a una lettura del genere segua pure una doverosa richiesta di scuse. Nel senso che ieri Henry John Woodcock, pm noto (ai penalisti napoletani) per essere tanto brillante quanto sfrontato nello sfidare la difficoltà delle indagini, ha firmato sul Fatto quotidiano un articolo di tale intelligenza e tale coraggio che dalle colonne del Dubbio è necessario chiedergli perdono per tutte le volte in cui le critiche rivoltegli non siano state accompagnate dalla seguente postilla: “Ciò detto, Woodcock è uno di quei giuristi che la politica dovrebbe ascoltare come un oracolo, quando mette in cantiere riforme”. Ebbene sì, perché ieri l’inquirente Woodcock ha firmato non una requisitoria contro gli “impuniti”, ma una splendida arringa a favore della separazione delle carriere. E certo non si può negare l’onore delle armi a un giornale come il Fatto, che ha avuto la correttezza di ospitare idee così diverse da quelle proposte di solito. Non a caso Woodcock ha scritto innanzitutto in replica a una precedente analisi pubblicata, sul giornale di Marco Travaglio, da Gian Carlo Caselli. Alcuni passaggi vanno riportati alla lettera. A proposito di un’eventuale futura relazione fra priorità indicate dalla politica e indagini giudiziarie (ingranaggio prefigurato, udite udite, nella riforma per la separazione delle carriere proposta dalle Camere penali), Woodcock, anziché lanciare un anatema, scrive: “Una soluzione del genere” sarebbe “quantomeno più trasparente del nostro attuale sistema, che ‘ nasconde’ genesi e gestione delle inchieste sotto l’impenetrabile coltre dell’indipendenza del pm e dell’obbligatorietà dell’azione penale”. Lo dice da anni il meglio dell’accademia processual penalistica italiana. Il pm della Procura di Napoli sostiene che tenere nel fascicolo quanto meno traccia della genesi di un’indagine potrebbe “avvicinare di più il sistema ai valori di trasparenza e di responsabilità che connotano un regime democratico”. Ancora: la tradizionale critica con cui le toghe stroncano la separazione delle carriere, ricorda Woodcock, riguarda la necessità che il pm condivida la “cultura della giurisdizione”; ma l’argomento, scrive il magistrato napoletano, “è un po’ doubleface, a ben vedere”, giacché lo si potrebbe “rovesciare agitando lo spettro che la permanenza del pm nell’unico ordine giudiziario possa mettere a rischio la cultura del giudice, trascinandola verso una deriva poliziesca”. Più che riflessioni, sono tuoni che scuotono le certezze della magistratura. Pensate sia finita qui? Macché. “Si potrebbe citare come spia e segnale di pericolo di una simile colonizzazione culturale del giudice da parte del pm la tendenza di alcuni giudici al ‘ copia/ incolla’ delle richieste del pm - pratica recentemente ‘approvata’ perfino dalla Suprema Corte”. Altro pilastro delle tesi avanzate dall’avvocatura. Fino alla riflessione più acuta: dopo il “terremoto Palamara” è ancora più urgente che le “decisioni” diventino “conoscibili e trasparenti”, sia quando riguardano “la carriera dei magistrati” sia quando si tratta di “genesi e gestione delle inchieste”. E qui siamo al cuore di quella che alcuni definiscono “egemonia del partito delle Procure”. “Io personalmente, in quanto pm, non vivrei in modo traumatico una separazione delle carriere, la considererei piuttosto come una nuova sfida positiva, anche sul piano della formazione e della professionalità”. Woodcock è tanto nitido quanto esplicito. Da ultimo, non si può tacere un passaggio del suo articolo, sempre relativo alla “circostanza ostativa” abitualmente scagliata dai magistrati contro la separazione: Woodcock la sintetizza come “l’esigenza che il pm continui a coltivare come il giudice, pur nella diversità del ruolo, quella cultura del dubbio, che è un elemento essenziale della funzione giudiziaria”. Non perché ce ne si voglia approfittare: ma sentire evocata la cultura del “Dubbio” sul “Fatto quotidiano” suscita persino un sorriso di speranza. E, di sicuro, ammirazione per un magistrato, come Woodcock, capace di un discorso al limite del rivoluzionario. È avvocato del boss, per i magistrati è mafiosa di Angela Stella Il Riformista, 16 aprile 2021 Sempre più spesso nell’immaginario collettivo, ma soprattutto in quello della magistratura requirente, l’avvocato viene percepito e perseguito perché si sostiene che la sua funzione di difensore si trasformi in quella di fiancheggiatore dell’assistito. Da qui spesso anche un uso illegittimo delle intercettazioni tra legale e cliente. Se per l’opinione pubblica il difensore è molto spesso rappresentato come un azzeccagarbugli che vuole farla fare franca al colpevole, per alcune procure diviene il sodale dell’organizzazione criminale. Ogni caso è a sé stante ma esiste comunque un problema culturale nella giurisdizione su tale fenomeno. Oggi vi parliamo della vicenda dell’avvocata Annamaria Marin, condannata in primo grado nell’ambito dell’inchiesta contro il clan dei casalesi di Eraclea che, secondo la Procura di Venezia, avrebbe spadroneggiato per un ventennio nel Veneto orientale. I pm le avevano contestato il favoreggiamento personale con l’aggravante mafiosa per aver aiutato tre membri dell’organizzazione criminale, tra cui il boss Luciano Donadio che ha scelto il rito ordinario, “ad eludere le investigazioni dell’Autorità nei loro confronti fornendogli indebitamente informazioni acquisite in virtù del mandato difensivo esercitato in favore di altri ovvero di informazioni acquisite illegalmente ovvero divulgando informazioni che debbono rimanere riservate” e per aver agevolato l’attività di una associazione mafiosa. Accuse pesantissime per l’avvocata - professionista molto nota ed ex presidente della Camera penale di Venezia - soprattutto per la contestazione del 416bis. Il gup l’ha condannata a 8 mesi, rispetto ai due anni richiesti dell’accusa, per uno solo dei cinque episodi contestati (uno è andato in prescrizione, per gli altri tre è stata assolta perché il fatto non sussiste). Il gip già nel 2009 aveva respinto la richiesta dei pm di sospenderla dalla professione, così come ha fatto il collegio di disciplina del Consiglio dell’Ordine degli avvocati. Per il suo legale, l’avvocato Tommaso Bortoluzzi, la vicenda “mostra il pregiudizio secondo cui il difensore viene assimilato al suo cliente, sovrapponendosi ad esso ed evidenzia una grave lesione del diritto di difesa”. Infatti “leggendo le motivazioni della sentenza ci accorgiamo che in nessun passaggio viene presa in considerazione la documentazione da noi prodotta a difesa della collega Marin che andava perfettamente ad incidere sui profili di responsabilità. Metà delle prove da noi prodotte riguardavano proprio il reato per il quale è stata condannata. Ma dalla sentenza sembrerebbe che io non abbia mai partecipato a questo processo perché quello da me detto e allegato non è stato minimamente affrontato”. Al contrario, “il gup riprende tutte le argomentazioni del pubblico ministero, anche extra probatorie”. L’avvocato Bortoluzzi fa riferimento al fatto che addirittura “il capo di imputazione conteneva anche un episodio verificatosi nell’anno 2002, che, pur se prescritto, è stato inserito a presunta dimostrazione della serialità dei comportamenti illeciti della mia assistita. L’episodio medesimo, peraltro, è riportato nella richiesta di emissione dell’ordinanza cautelare, nell’ordinanza di rigetto della richiesta stessa, nell’invito a rendere interrogatorio e, da ultimo, nella richiesta di rinvio a giudizio”. Nello specifico la Marin è stata condannata per aver rivelato a Donadio che avrebbero fatto una perizia sulle armi sequestrate al suo sodale Furnari. “L’aspetto folle è che qualche ora prima di questa comunicazione era stato pubblicato un articolo su uno dei giornali locali più letti in cui un dirigente della squadra mobile diceva la stessa cosa. Pertanto la notizia era pubblica e la mia assistita non stava comunicando illegalmente nessuna informazione che avrebbe potuto alterare le indagini ancora in corso. Se l’avvocato Marin ha commesso favoreggiamento, allora anche il dirigente della Mobile deve essere accusato dello stesso reato”. Inoltre l’hanno accusata di aver ricevuto il mandato a difendere Furnari da Donadio al di fuori delle norme di legge. “Peccato - dice l’avvocato - che io abbia prodotto il fax ricevuto dalla Procura in cui era il fratello del Furnari a nominare la Marin. Ma anche questo elemento è come se non fosse mai stato prodotto”. Per quanto concerne l’annosa questione delle intercettazioni tra avvocato e cliente, che per legge sono - anzi sarebbero vietate - nel caso dell’avvocato Marin “lei è stata indirettamente intercettata perché erano sotto controllo alcuni dei suoi interlocutori: nella sentenza c’è scritto che siccome formalmente non erano suoi clienti le intercettazioni sono state ritenute legittime. Il gup, per far emergere l’associazione mafiosa, in sentenza ha scritto che Donadio, il boss, si preoccupava di trovare l’avvocato per tutti i sodali, ossia la Marin, per avere un controllo totale sulle investigazioni e tenere a bada i complici. Ma il nostro codice deontologico, prevedendo che la parcella dell’assistito possa essere pagata da un’altra persona, consente a quella stessa persona di conoscere gli sviluppi della causa: in questo caso Donadio era cliente pagante per altri, ma la sentenza non ha messo in luce questo elemento che è importante perché avrebbe potuto avere anche dei risvolti sull’utilizzabilità delle intercettazioni”. In conclusione l’avvocato Bortoluzzi rileva che “sicuramente esiste il problema dell’utilizzo delle intercettazioni tra legale e assistito: cercare in tutti i modi qualche scappatoia per consentirle, dando ad esempio una diversa qualità al difensore, ha alla base una distorsione culturale del ruolo dell’avvocato. I pubblici ministeri primi e i giudici poi dovrebbero rispettare di più la nostra funzione. Probabilmente inserire l’avvocato in Costituzione potrebbe essere un segno importante”. Dirigente del Miur indagata per corruzione si lancia dalla finestra: è in fin di vita di Valentina Errante Il Messaggero, 16 aprile 2021 Era stravolta. Fuori di sé. Il marito, Francesco Testa, procuratore di Chieti, ieri, in lacrime, lo ha raccontato agli agenti: la perquisizione di martedì l’aveva completamente sconvolta. I militari della Guardia di Finanza si erano presentati nel suo appartamento e al Miur, esibendo il decreto, due giorni fa. Avevano anche perquisito una piccola soffitta nella disponibilità della dirigente. Perché Giovanna Boda, 47 anni, capo del dipartimento per le Risorse umane, finanziarie e strumentali del ministero dell’Istruzione, figura irreprensibile, protagonista e artefice di tante iniziative, è indagata per corruzione nell’ambito di un’inchiesta che riguarda il suo ufficio. Probabilmente per questo, ieri, la donna, scossa e sotto choc per l’indagine che la coinvolge, poco prima delle 17, ha tentato di farla finita. Doveva incontrare il suo avvocato. E invece non ce l’ha fatta, ha aperto la finestra e si è buttata nel vuoto da un appartamento al secondo piano di piazza della Libertà. Adesso è ricoverata al Gemelli, dove ha subito un intervento, in gravissime condizioni. L’ipotesi della procura di Roma è che Federico Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta, rappresentante legale dell’istituto italiano di ortofonologia ed amministratore della Come - Comunicazione & editori, ossia l’agenzia Dire, abbia corrotto la Boda. Regali e benefit per 679mila euro. Almeno questo è il calcolo che ha fatto la Guardia di Finanza. All’alto dirigente, Bianchi, avrebbe anche dato una carta di credito per le spese. n cambio avrebbe ottenuto incarichi e affidamenti dal ministero. Contratti da 39mila e 950 euro ciascuno, non è chiaro quanti. E ai militari della Guardia di Finanza, che indagano, non è sfuggito che i decreti, a firma della Boda, a favore dello psicoterapeuta ed editore, non raggiungono per un soffio i 40mila euro, importo a partire dal quale gli affidamenti diretti non sono consentiti dalla legge. Secondo il pm Carlo Villani, che coordina le indagini, fare da “intermediaria” sarebbe stata Valentina Franco, stretta collaboratrice della dirigente, “consapevole del pactum sceleris” e anche lei indagata. Martedì i militari della Guardia di Finanza, nella sede del ministero di viale Trastevere, hanno perquisito anche gli uffici di sei collaboratori della dirigente e la casa e le sedi delle società di Bianchi. Hanno portato via documenti e computer, i cellulari (anche quelli vecchi) alla ricerca del materiale e della documentazione, anche in formato digitale, riguardante i rapporti illeciti tra gli indagati”. L’obiettivo è ricostruire i rapporti di Bianchi con il Miur e con gli istituti scolastici. Le verifiche dei militari si sono estese anche alla Mite (Minori informazione tutela educazione) e alle Edizioni scientifiche Magi, altre due società riconducibili a Bianchi. Una perquisizione disposta in via d’urgenza. Si legge infatti nel decreto che l’atto di indagine si è reso necessario “al fine di evitare che documenti e prove vengano occultati per impedirne il rinvenimento alle forze di polizia”. Il pm, nel decreto, ha disposto che i militari cercassero e portassero via “tracce o cose provenienti dal reato e in particolare materiale o documentazione utile alle indagini, anche conservata in archivi riservati su dispositivi elettronici, la cui acquisizione agli atti appare necessaria in rapporto all’immediata relazione con l’illecito penale. In particolare, documenti relativi agli affidamenti e/o incarichi e/o appalti dati dal Ministero alle società riconducibili a Bianchi di Castelbianco, nonché il denaro e le utilità ricevute dalla Boda”. L’ipotesi è che la dirigente possa non avere utilizzato tutto il denaro soltanto per sé. Giovanna Boda è precipitata nel cortile del palazzo ed è stata trasportata con codice rosso all’ospedale Gemelli di Roma, dove è stata subito operata. Sul posto, oltre agli agenti di polizia del commissariato Prati, è arrivato per un sopralluogo anche il pm di turno, Alberto Galanti. Le condizioni della donna sono apparse subito molto gravi. È stata immediatamente operata, ha fratture multiple, agli arti e al bacino, oltre ad alcuni focolai emorragici. Il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, in una nota ha espresso il suo profondo dolore e ha espresso la vicinanza sua e del ministero a Giovanna Boda e alla sua famiglia. Scarcerata la leader No Tav Dana Lauriola di Mauro Ravarino Il Manifesto, 16 aprile 2021 Dopo sette mesi di detenzione il Tribunale ha concesso gli arresti domiciliari. Nelle settimane precedenti in favore dell’attivista si erano espresse molte figure dell’arte e dello spettacolo. Sette lunghi mesi. Tanto è durata la detenzione in carcere di Dana Lauriola, attivista No Tav, che deve scontare due anni per un episodio avvenuto nel 2012, quando, durante un’azione dimostrativa sulla A32, spiegava al megafono le ragioni della manifestazione. Finalmente, Dana, ha lasciato le Vallette. Nonostante non sia ancora libera. Il Tribunale di Sorveglianza di Torino ha disposto per lei la detenzione domiciliare, con una serie di prescrizioni. Una decisione che aspettavano in tanti, tutto il movimento, che si trova oggi impegnato in una nuova lotta, questa volta contro l’autoporto di San Didero. Ma non solo. Lo testimonia quanto è diventato virale il video appello “Liberate Dana”, a cui avevano aderito Sabina Guzzanti, Elio Germano, Zerocalcare, Bebo (Alberto Guidetti) de Lo Stato Sociale, Giovanna Marini e Rita Pelusio. “Finalmente una parte di questa ingiustizia termina, ma non ci possiamo accontentare, vogliamo Dana completamente libera, così come Fabiola e tutti e tutte le No Tav che hanno qualsiasi limitazione della libertà”, dichiara il movimento valsusino. Gli avvocati di Dana Lauriola, Claudio Novaro e Valentina Colletta, non sono del tutto soddisfatti del provvedimento del Tribunale: “Si tratta di una decisione che arriva sette mesi in ritardo e che, nonostante l’ottima relazione dell’equipe interna al carcere, che è il pilastro su cui si dovrebbe fondare la valutazione dei magistrati, concede solo la misura più restrittiva, quella della detenzione domiciliare, corredata da una serie di prescrizioni e divieti fortemente limitativi. L’apparato motivazionale del provvedimento, poi, stigmatizza l’appartenenza ideologica di Dana e la corrispondenza da lei inviata dal carcere, che considera foriera di nuovi reati, in contrasto, a nostro parere, con il diritto costituzionalmente tutelato di esprimere le proprie opinioni. Del resto tutta la recente storia giudiziaria di Dana ci sembra sintomatica dell’atteggiamento, fortemente censurabile, che, sul piano giudiziario, connota i procedimenti a carico dei No Tav”. Proprio al proposito, è bene ricordare come all’epoca fossero state respinte misure alternative al carcere, richieste dalla difesa, con la motivazione di non aver abiurato il movimento e di risiedere in Val di Susa. Qualcosa di irricevibile per Dana Lauriola, che ieri, poco dopo l’uscita dal carcere, ha scritto sul suo profilo Facebook: “Vi dico che sto bene e che il mio cuore è nell’unico posto dove può stare, a fianco di chi da giorni lotta per difendere la valle. Siate saldi, io sono con voi e con il vento delle nostre montagne che non ha mai smesso di accarezzarmi il volto”. I giorni a cavallo tra febbraio e marzo 2012 erano stati molto concitati. Il movimento manifestava contro gli espropri dei terreni che sarebbero diventati parte del già avviato cantiere del tunnel geognostico di Chiomonte. Il 27 febbraio, durante un’iniziativa di protesta, Luca Abbà era caduto dal traliccio, mentre gli agenti delle forze dell’ordine cercavano di raggiungerlo in cima. Erano seguite cariche e scontri. Il 3 marzo i No Tav, in un’iniziativa dal titolo “Oggi paga Monti”, avevano bloccato con il nastro adesivo l’accesso ad alcuni tornelli del casello dell’autostrada A32 nei pressi di Chianocco, facendo passare le auto senza pagare. Dana Lauriola spiegava al megafono le ragioni. Nicoletta Dosio, finita in carcere per la stessa vicenda, era dietro lo striscione. Sappiamo com’è andata a finire. Sulla carcerazione di Lauriola (condannata con le accuse di violenza privata e interruzione di servizio di pubblica necessità) è intervenuta, negli scorsi mesi, Amnesty: “Esprimere dissenso pacificamente non può essere punito con il carcere”. Dice “stai zitto” al pm durante un processo in videoconferenza, detenuto scagionato di Giustino Parisse Il Centro, 16 aprile 2021 La Corte di Cassazione annulla la punizione all’uomo che apostrofò il magistrato in un processo in videoconferenza. Durante la celebrazione di un processo, collegato in videoconferenza dal carcere dell’Aquila, un detenuto al 41 bis aveva “intimato” al pubblico ministero di “stare zitto”. Nonostante le successive scuse formali, la direzione del carcere di località Le Costarelle di Preturo aveva punito il detenuto protagonista dell’episodio con “l’esclusione dalle attività in comune”. La decisione, confermata dal tribunale di sorveglianza dell’Aquila, era stata presa in quanto “si ritenevano esistenti gli estremi del comportamento offensivo nei confronti di chi accede alla struttura penitenziaria”. Ma la Corte di Cassazione ha annullato la “punizione”. Questo un passaggio delle motivazioni: “La lettura estensiva operata nel caso in esame finisce per recuperare al piano sanzionatorio una violazione non prevista come illecito disciplinare e che non è stata sanzionata come reato. Né si rivela risolutivo il richiamo al comportamento offensivo nei confronti di chi accede alla struttura penitenziaria, facendone discendere una portata lesiva da cui trarrebbe scaturigine l’infrazione disciplinare di cui si discute. Pur dovendo equipararsi il video-collegamento a uno strumento che può indurre ad assimilare l’aula d’udienza a quella in cui il soggetto è ristretto, essa equiparazione avviene ai soli fini processuali e in funzione dell’attuazione del contraddittorio tra le parti”. “Nella fattispecie, pertanto”, secondo i giudici della Suprema Corte, “non sussistono le condizioni d’esercizio del relativo potere sanzionatorio. Quanto ai riferimenti alla mancata partecipazione all’opera di rieducazione all’interno della struttura penitenziaria, da parte del detenuto, si tratta egualmente di aspetti non risolutivi per la questione posta all’esame di questa Corte. Nel merito, l’invito a stare zitto, rivolto in udienza al Pubblico Ministero, non può escludersi che fosse effettivamente collegato alla scelta di poter prendere la parola da parte del detenuto. L’invito al silenzio, dunque, sia pur tradottosi in un’espressione poco elegante, non dimostra una violazione regolamentare”. “D’altro canto”, concludono gli ermellini, “il fatto non risulta essere stato recuperato al campo del rilievo penale. Anzi, il ricorrente senza indugio avrebbe rivolto le sue scuse al Pubblico Ministero, spiegando che non intendeva recare offesa. Il provvedimento va quindi annullato senza rinvio”. Velletri (Rm). Detenuto 55enne malato di cancro si dà fuoco: salvato dagli agenti di Pierluigi Frattasi fanpage.it, 16 aprile 2021 Un detenuto romano di 55 anni malato di cancro che stava scontando una condanna definitiva nel Carcere di Velletri questa mattina ha cercato di darsi fuoco, approfittando dell’ora d’aria degli altri detenuti. Salvato dall’intervento di due agenti della Polizia Penitenziaria. Ha ustioni sul corpo, ma non rischia la vita. Un detenuto romano di 55 anni malato di cancro che stava scontando una condanna definitiva nel Carcere di Velletri questa mattina ha cercato di darsi fuoco approfittando dell’ora d’aria degli altri detenuti, ma è stato salvato dagli agenti della polizia penitenziaria prima che fosse troppo tardi. L’uomo non sarebbe nuovo a gesti estremi. Già alcuni mesi fa aveva tentato il suicidio come forma di protesta, perché, a suo giudizio, non riceverebbe adeguate cure mediche. A dare notizia dell’episodio, il Sippe (Sindacato di Polizia Penitenziaria), che si è complimentato con i due agenti per il gesto eroico. Ieri mattina, attorno alle 9, approfittando dell’ora d’aria degli altri detenuti nel cortile passeggio, e quindi rimasto solo nella propria cella, il 55enne si è avvolto in un lenzuolo al quale ha appiccato le fiamme. Poi, avvolto dal fuoco, ha cominciato a camminare nel corridoio della sezione. Quando l’agente responsabile della sezione se ne è accorto è subito intervenuto, coadiuvato dall’agente addetto all’infermeria. Assieme sono riusciti a spegnere le fiamme, salvando la vita al detenuto. Trasportato d’urgenza in infermeria, all’uomo sono state riscontrate ustioni su tutto il corpo, ma non è in pericolo di vita. “Come sindacato - sottolineano Carmine Olanda e Ciro Borrelli, del Sippe - ci congratuliamo con gli agenti per avere dimostrato ancora una volta elevata capacità professionale. Ci appelliamo al Ministro della Giustizia affinché prenda provvedimenti immediati sulla riforma della giustizia e soprattutto su come devono essere gestiti i Penitenziari. La Polizia Penitenziaria non può più accettare di lavorare sotto organico”. Isernia. Detenuto morto per ferite in carcere, assolti compagni cella ansa.it, 16 aprile 2021 Assolti perché il fatto non sussiste. Si è concluso così ieri in Corte d’Assise a Campobasso il processo per la morte di Fabio De Luca, il giovane romano che fu trovato in fin di vita nella sua cella del carcere di Isernia il 4 novembre del 2014 e morì poi una settimana dopo in ospedale a Campobasso. Per quella morte sono finiti sotto processo tre detenuti, un molisano e due campani. La tesi della Procura era quella di una aggressione in cella, la difesa invece ha sempre sostenuto che De Luca si ferì alla testa dopo essere caduto da un letto a castello per un malore. Una tesi quest’ultima avvalorata anche da una serie di perizie, tanto che alla fine oggi, durante l’ultima udienza del processo, anche il sostituto procuratore di Isernia, Alessandro Ianniti, ha chiesto l’assoluzione per l’agnonese Elia Tatangelo e per il napoletano Francesco Formigli (entrambi ancora oggi detenuti ma per altri reati). Il terzo detenuto coinvolto nella vicenda era già stato assolto a Isernia dove era stato processato a parte perché aveva scelto il rito abbreviato. La famiglia della vittima si era costituita parte civile nei due processi. Sassari. “Carcere di Bancali, situazione sanitaria a rischio” di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 16 aprile 2021 Sopralluogo del presidente della Commissione Giustizia Perantoni. Mozione in Regione di Desirè Manca. Diciotto ore nel 2018 e appena sei nel 2020: è il totale delle ore erogate dal servizio di Psichiatria nel carcere di Bancali dove - secondo le linee guida regionali - i detenuti con patologie psichiatriche hanno diritto di poter usufruire del servizio per quaranta ore la settimana. Una situazione grave quella più volte denunciata nella Casa circondariale “G. Bacchiddu” di Bancali e che sembra destinata ad aggravarsi ulteriormente se non interverranno correttivi. Attualmente i detenuti che hanno necessità del servizio sanitario specifico sono una quarantina, ma la condizione della popolazione carceraria è in continuo aggiornamento. E quella dell’assistenza psichiatrica non è la sola criticità rilevata nel carcere sassarese nel corso del sopralluogo effettuato dal presidente della commissione Giustizia della Camera, il parlamentare sassarese Mario Perantoni. I problemi evidenziati nel corso della visita, sono stati racchiusi in una mozione che è stata presentata dalla consigliera regionale del Movimento 5 Stelle Desirè Manca. “La carenza di assistenza specialistica - sottolinea Desirè Manca - non è l’unica riscontrata nel carcere di Bancali. Ancora più grave e preoccupante appare la mancata attivazione delle Articolazioni di Tutela della salute mentale e dei Reparti detentivi ospedalieri presso i nosocomi, in particolare quelli sassaresi, con le immaginabili e allarmanti conseguenze per la tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico”. La mozione - prima firmataria Manca - impegna il presidente Solinas e l’assessore alla Sanità Nieddu “ad adottare tutti i provvedimenti necessari per assicurare l’attivazione delle Articolazioni di Tutela della salute mentale e dei Reparti detentivi ospedalieri, e la corretta applicazione delle Linee guida della Regione sulla Sanità penitenziaria”. La consigliera M5S sottolinea che la Regione ha il dovere di garantire il diritto alla salute anche ai detenuti, e allo stesso tempo “di assicurare a tutti coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari di poterlo fare in totale sicurezza. A questo proposito sono state numerose le segnalazioni e i solleciti da parte del Provveditorato, e delle Prefetture, tuttavia, non ci risulta siano stati adottati provvedimenti finalizzati a porre rimedio a questa grave carenza, né da parte della Regione né da parte di Ats. La situazione non può essere ulteriormente ignorata, perché i rischi sono elevati”. Messina. Disabilità e detenuti, M5Stelle: “Avremo finalmente i Garanti” messinatoday.it, 16 aprile 2021 Emanati i due avvisi pubblici dopo le svariate richieste e interrogazioni da parte del gruppo consiliare: “Due figure importantissime per la promozione e la salvaguardia dei diritti dei cittadini in condizioni di disagio”. “Finalmente, dopo anni di attesa e svariate richieste e interrogazioni da parte del nostro gruppo consiliare, la città di Messina avrà un Garante della Persona con disabilità e un Garante dei diritti per le persone private della libertà”: due figure importantissime per la promozione e la salvaguardia dei diritti dei cittadini in condizioni di disagio, cosi come previsto dalla normativa di riferimento e dagli appositi regolamenti approvati dal consiglio comunale (rispettivamente a Aprile 2018 e a Settembre del 2016). I Garanti svolgeranno il proprio ruolo a titolo gratuito, in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e valutazione, resteranno in carica cinque anni e saranno rieleggibili una sola volta”. A darne notizia è la capogruppo del M5s Cristina Cannistrà, che a nome dei colleghi esprime la propria soddisfazione per il proseguo dell’iter e la pubblicazione dei relativi bandi da parte del dirigente responsabile. “Nel corso del mio mandato ho più volte rappresentato varie criticità per quanto concerne i disabili ed in particolare i soggetti che soffrono di disturbo dello spettro autistico, ma fino ad ora non si era arrivati a nulla di concreto”, prosegue la consigliera, che lo scorso luglio era intervenuta sull’argomento con una lettera indirizzata al Prefetto Carmela Librizzi, al sindaco Cateno De Luca, all’allora Assessore Regionale alla Sanità Ruggero Razza, all’ex Direttore Generale dell’Asp Paolo La Paglia e al Garante per l’infanzia e l’adolescenza Fabio Costantino, per sollevare l’attenzione sulla disabilità e sull’autismo in particolare. “Una missiva - spiega l’ex presidente della VII Commissione consiliare - con la quale mi sono fatta portavoce di tutte le associazioni dei familiari che ogni giorno sono costrette ad affrontare numerosi problemi e che chiedono a gran voce una conferenza dei servizi per trovare insieme alle Istituzioni le soluzioni necessarie per dare supporto e sostegno ai bambini e ragazzi affetti da autismo”. “Non meno importante è la figura del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive delle libertà personali o a trattamento sanitario obbligatorio, così come sarebbe auspicabile l’attivazione di uno sportello presso la Casa Circondariale di Gazzi, ancora non prevista malgrado sia praticamente a costo zero. Si tratta di un servizio che darebbe la possibilità ai detenuti di risolvere con cadenza periodica tutte le problematiche inerenti i rinnovi delle carte d’identità, certificati di residenza, autentiche firme, problematiche di mediazione culturale e in generale tutte quelle necessarie procedute burocratiche che è fondamentale espletare in tempi celeri”, conclude la consigliera, che già a febbraio del 2019 aveva presentato all’Amministrazione una proposta per l’impiego di detenuti ed ex detenuti nella raccolta dei rifiuti porta a porta, con l’obiettivo di venire incontro alle esigenze di disabili gravi e anziani non deambulanti. Reggio Emilia. “Si istituisca la figura del Garante dei detenuti” nextstopreggio.it, 16 aprile 2021 “Guardiamo con preoccupazione alla diffusione del Covid-19 all’interno del carcere di Reggio Emilia. Sono ancora più di 100 i detenuti positivi e 5 quelli ricoverati. Uno scenario complesso a causa del sovraffollamento e dell’isolamento legato all’epidemia, che mina la dignità delle persone recluse e può diventare esplosivo. Occorre quindi intensificare il presidio delle istituzioni. In questo contesto appare evidente la necessità di pensare all’istituzione di una figura che ancora manca sul territorio di Reggio Emilia, il Garante delle persone private della libertà personale. Un’autorità indipendente a tutela di chi è detenuto in carcere o internato che garantisce la corretta esecuzione della custodia secondo le norme nazionali e internazionali. Il Garante, per come è definito dall’ordinamento nazionale, esercita il potere di visita senza autorizzazione nelle carceri così come nelle camere di sicurezza, nei centri di espulsione per stranieri, presso i centri di diagnosi e cura o nelle residenze sanitarie assistenziali. Può effettuare colloqui con i detenuti e gli internati e ricevere da loro corrispondenza privata. Un agevolatore di relazioni e un facilitatore di progetti: figura chiave per la partecipazione dell’intera comunità all’attività di rieducazione, prevista dall’articolo 27 della nostra Costituzione. Se riusciamo a rafforzare il dialogo tra il dentro e il fuori c’è più sicurezza per tutti. L’emergenza sanitaria ha reso evidente la necessità di un Garante eletto dal consiglio comunale di Reggio Emilia, ma la sua utilità va ben oltre il momento contingente. Un’opportunità per l’intera provincia, che entrerebbe così a far parte di una rete nazionale e internazionale a tutela della dignità, della salute e dell’incolumità delle persone detenute, con l’obiettivo di migliorare il trattamento penitenziario e di rendere la giustizia più equa e accessibile. Federico A. Amico - Presidente Commissione Parità e Diritti delle Persone, Regione Emilia-Romagna Nicola Tria - Assessore a Legalità e Coesione Sociale, Comune di Reggio Emilia Marcello Marighelli - Garante delle Persone Private della Libertà Personale, Regione Emilia-Romagna Alba (Cn). Svolta per il carcere “Montalto”: via i detenuti, arriva la Casa Lavoro di Cristina Borgogno La Stampa, 16 aprile 2021 Dalla visita del Provveditore di Piemonte e Valle d’Aosta la conferma alle voci sul futuro della Casa circondariale in attesa della ristrutturazione. Lavori in autunno, ma prima un cambio radicale. Si preparano a essere trasferiti i detenuti del carcere di Alba per fare del “Giuseppe Montalto” - almeno temporaneamente - la Casa Lavoro piemontese. A spiegare quanto deciso dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è stato il provveditore di Piemonte e Valle d’Aosta, Pierpaolo d’Andria, in visita ad Alba per incontrare in Comune il sindaco Carlo Bo. Durante la riunione, a cui hanno partecipato anche l’assessore alle Politiche sociali, Elisa Boschiazzo, e i Garanti dei detenuti regionale, Bruno Mellano, e comunale Alessandro Prandi, d’Andria ha confermato le voci che si rincorrevano da mesi circa la scelta della casa di reclusione albese per istituire almeno una parte della Casa Lavoro finora gestita dal carcere di Biella, con l’arrivo di una trentina di internati (ovvero persone che hanno terminato la pena, ma per cui è stata sancita la “pericolosità sociale”). Per fare questo, occorrerà però trovare una nuova sistemazione ai detenuti - circa una quarantina - oggi reclusi nell’unico spazio operativo dell’istituto di località Toppino, in attesa che partano i lavori di ristrutturazione dell’intero edificio evacuato nel 2016 a causa di un’epidemia di legionella. Lavori già finanziati per circa 4 milioni e 500 mila euro dal ministero della Giustizia, che dovrebbero partire entro l’autunno. “L’intervento sarà realizzato in due fasi - spiegano dal Dap -. La prima sul corpo attualmente chiuso, per poterlo riconsegnare all’uso di destinazione in via prioritaria. L’altra sulla parte oggi operativa (ad eccezione della caserma agenti e del reparto semi-liberi), meno degradata e che necessita di un intervento meno impegnativo”. “Ringraziamo il provveditore D’Andria per aver accolto il nostro invito e per l’attenzione dimostrata - commentano il sindaco Bo e l’assessore Boschiazzo -. La priorità oggi è la completa riapertura della casa di reclusione, a ormai più di cinque anni dai casi di legionella. Intervenire significa evitare l’abbandono di una struttura pubblica fino ad allora ben funzionante, migliorare le condizioni dei detenuti presenti oggi nel piccolo settore riaperto e, infine, poter andare avanti con i progetti che hanno fatto del nostro istituto penitenziario una realtà esemplare”. Nei piani del Dap, il cambio tra detenuti dovrebbe avvenire entro giugno. Il Provveditorato intende coinvolgere il territorio per creare opportunità di inclusione sociale, culturale e lavorativa per i nuovi ospiti, dalle istituzioni, l’Asl e il Consorzio socio-assistenziale al terzo settore e il mondo delle imprese profit. “La responsabilità delle decisioni spetta all’Amministrazione penitenziaria - spiega il garante comunale Prandi. Se è importante concentrarsi sulle attività che coinvolgeranno gli internati della Casa Lavoro, lo è altrettanto pensare al futuro degli attuali ospiti della casa di reclusione, ponendo attenzione al loro radicamento territoriale, visto che un numero importante è residente nell’Albese e nel Cuneese, ai percorsi trattamentali in atto e le singole situazioni sanitarie e psico-fisiche”. Per il Garante regionale Mellano “si è finalmente a una svolta”. “L’Amministrazione penitenziaria - dice - ha annunciato un progetto d’istituto ampio per la ripartenza della casa di reclusione albese. Auspico che l’intera comunità possa essere protagonista attiva di un percorso che porti presto il “Montalto” a una nuova e piena funzionalità”. Firenze. Le donne nell’arte: mostra interattiva dei ragazzi detenuti Cultura di Cecilia Chiavistelli stamptoscana.it, 16 aprile 2021 L’iniziativa fa parte di un percorso che i ragazzi detenuti dell’Istituto Penale Minorile di Firenze G.P. Meucci hanno intrapreso nello scorso anno e che si è concluso con una mostra virtuale, visibile fino al 15 maggio 2021 sul sito associazioneprogress.org/mostra-interattiva-le-donne-nellarte/. Il progetto, ideato dall’Associazione Progress, ospitato all’interno del laboratorio “Arte e Natura”, con la partecipazione di circa cinquanta giovani, ha affrontato tematiche quanto mai attuali, come la violenza, sia fisica che psicologica, perpetrata ai danni delle donne con l’obiettivo di far nascere una coscienza nuova e una cultura basata sul rispetto delle donne. All’interno del sito, il video, le opere e il catalogo compongono una completa documentazione del grande lavoro portato avanti dai ragazzi detenuti. Il video è la sintesi di un anno di attività dei detenuti del Carcere Minorile di Firenze, grazie ai professionisti dell’associazione di arte terapia Progress attiva da oltre 15 anni a Firenze e a Perugia. La seconda sezione mostra le 100 opere prodotte dai ragazzi che, attraverso delle opere, evidenziano il ruolo della donna artista nella storia, la sua rappresentazione nelle diverse culture, indagando in profondità l’universo femminile. Il catalogo è suddiviso in tre volumi, uno per ogni ciclo del progetto: “La rappresentazione delle donne nella storia dell’arte”, “Le tre età della donna” e, ultima parte, “La violenza sulle donne”. Nata per essere esposta in un ambiente fisico e visitabile in presenza, l’interessante collettiva, con il perdurare della pandemia, si è spostata nello spazio virtuale, sul sito dell’associazione. L’associazione Progress opera da tempo nelle carceri e in area penale esterna, sia presso il Carcere Minorile di Firenze, che quello per adulti di Sollicciano e per minori dell’Ufficio di Servizio Sociale per Minorenni. Nel Carcere Minorile di Firenze hanno attivato un laboratorio di arte terapia permanente portando avanti tanti progetti artistici. Dal 2019 hanno iniziato numerosi progetti di riqualificazione di spazi verdi con iniziative come La cura verde, La cura verde in Tribunale e Arte e Natura Atelier, utilizzando l’area verde interna alla struttura e a quella dell’adiacente Tribunale Minorile. Inoltre organizzano corsi formativi, laboratori di artigianato, pittura, teatro ed eventi culturali. Il progetto è realizzato con il contributo del Ministero della Giustizia, della Regione Toscana e del Ministero del lavoro e delle politiche giovanili. Bologna. Il Biografilm festival “arruola” giovani detenuti nella giuria speciale di Sara Forni agenziadire.com, 16 aprile 2021 La kermesse cinematografica che si terrà in presenza a Bologna e online dal 4 al 14 giugno presenta due progetti educativi di inclusione, che coinvolgono l’istituto penale per minorenni Pietro Siciliani e la biblioteca multimediale Fuori Catalogo dell’istituto superiore Aldini Valeriani. In un’epoca storica che, da un lato limita le attività scolastiche e dall’altro rende anche molto difficile vivere isolati in casa, il festival Biografilm di Bologna quest’anno ha deciso di introdurre due ‘giurie speciali’ con i giovani protagonisti. La rassegna cinematografica dedicata ai documentari relativi alle ‘storie di vita’, confermata in presenza a Bologna e online dal 4 al 14 giugno, presenta due progetti educativi di inclusione che coinvolgono l’istituto penale per minorenni Pietro Siciliani e la biblioteca multimediale Fuori Catalogo dell’istituto superiore Aldini Valeriani. Entrambi i progetti partiranno a maggio e formeranno due giurie giovanili che saranno coinvolte nella cerimonia di premiazione del festival. In particolare, il progetto ‘Tutta un’altra storia’, realizzato con il patrocinio del ministero della Giustizia, coinvolge un gruppo di ragazzi detenuti nell’istituto penale per minorenni che sarà parte attiva nel festival. Dopo un ciclo di incontri settimanali in presenza dedicati alla narrazione documentaria e la visione guidata dei film in gara, i ragazzi assegneranno un premio al film che ritengono più significativo. ‘Bring the change’ invece, è il progetto in collaborazione con il ‘Terra Di Tutti Film Festival’ di Bologna che anche in questo caso prevede momenti di formazione anche in presenza con una classe quarta dell’istituto Aldini Valeriani. Anche questa volta, gli studenti saranno guidati alla visione di alcuni film del festival, in particolare su tematiche relative al cambiamento sociale e all’attivismo giovanile. Oltre a queste due giurie ‘speciali’, oggi Biografilm Festival ha reso noti anche i nomi della giuria della sezione competitiva internazionale. A scegliere le migliori pellicole in gara arriveranno a Bologna il regista indiano Rahul Jain, la produttrice italiana Donatella Palermo, nota tra le altre cose anche per aver prodotto il documentario ‘Fuocoammare’ e il curatore ed esperto di nuovi media tedesco, Sebastian Sorg. Biografilm Festival fa parte di Bologna Estate 2021, il cartellone di attività promosso e coordinato dal Comune di Bologna. Ascoli. Sport in carcere nonostante la pandemia Il Resto del Carlino, 16 aprile 2021 Fondazione Cassa di Risparmio e Csi (Centro Sportivo Italiano) di Ascoli, insieme per un progetto a sostegno dei detenuti dell’Istituto penitenziario Marino del Tronto. In un momento di grandi difficoltà legate all’epidemia da Coronavirus, la Fondazione non dimentica ma rafforza la propria funzione sociale, attraverso l’erogazione di un fondo di 2mila euro, destinato a dare vita al progetto riservato ai detenuti, dal titolo “Il mio campo libero”. L’iniziativa rientra nelle attività ideate dal CSI del comitato provinciale di Ascoli, presieduto da Antonio Benigni. Il progetto si svolgerà presso il campo sportivo del carcere e prevede due appuntamenti di calcio settimanali (ognuno della durata di due ore) curati dall’istruttore CSI Valentino D’Isidoro con il coinvolgimento dei detenuti di due sezioni diverse. La sezione “comune” occuperà il campo il giovedì (dalle 13 alle 15) mentre i detenuti della sezione “protetti e articolazione salute mentale” parteciperanno agli appuntamenti il martedì mattino (dalle 9 alle 11). Il sostegno della Fondazione Carisap, si trasforma in una grande opportunità per i detenuti del Marino in modo speciale per i reclusi della sezione “articolazione salute mentale” affetti da malattie di natura psichiatrica, per i quali l’attività fisica svolta all’aperto rappresenta un’occasione che rende migliore e più salutare la qualità della vita quotidiana. Il valore del progetto e della sua realizzazione resa possibile dalla Fondazione incide inoltre sul beneficio singolare e collettivo di tutti i detenuti che aderiscono all’iniziativa, sia per gli aspetti prettamente salutari psicofisici legati allo sport, che per combattere il rischio dell’alienazione sociale dettata dall’interruzione dei vari progetti svolti in presenza, così come nel rispetto delle norme anti-contagio Covid-19. Questo progetto si rende essenziale, poiché è parte di una proposta molto più ampia che il Centro Sportivo Italiano intende attuare, grazie alla collaborazione con la Casa Circondariale di Marino del Tronto e con la Fondazione Carisap, che riguarda la realizzazione di un programma di attività motoria che si sviluppi in 24 mesi di sport educante e rieducante, che proprio grazie alla continuità e periodicità degli allenamenti contribuisca in modo significativo e permanente al benessere psicofisico dei detenuti. “La Conversione”, in un docu-film le storie di un ex-manager e di un ex detenuto Il Riformista, 16 aprile 2021 Il film di Giovanni Meola sarà online su MyMovies dal 24 Aprile. “La Conversione”, in un docu-film le storie di un ex-manager e di un ex detenuto. L’ex-manager bancario Vincenzo Imperatore (ora consulente contro gli abusi delle banche) e l’ex-galeotto Peppe De Vincentis (ora attore e drammaturgo) tra soldi, imbrogli e scrittura catartica. La perdizione, prima, la redenzione, poi, in due libri-verità, due spettacoli teatrali e, ora, in un film documentario, ‘La Conversione’, soggetto e regia di Giovanni Meola. Dopo il Premio del Pubblico quale Miglior Documentario alla XIX edizione del RIFF - Rome Independent Film Festival, nella categoria ‘National Documentary Competition’, il film è ora nella selezione ufficiale della XVI edizione del Los Angeles Italia Film Festival, che avrà luogo dal 18 al 24 aprile, nella categoria ‘Docu Is Beautiful’. Peppe era scassinatore, maestro di rapine e contrabbandiere: 30 anni di galera vissuta. Vincenzo era dirigente bancario, poi prima gola profonda del sistema finanziario italiano. Dopo decenni di imbrogli, illeciti di varia natura, reati e accumuli di danaro più o meno legale, Peppe e Vincenzo si incontrano grazie alla macchina da presa di Giovanni Meola. Nel 2013, Peppe scrive l’autobiografia Il Campo del Male (ed. Pironti), nella quale passa dai ricordi dell’adolescenza al battesimo criminale, alla detenzione in una dozzina di carceri (Poggioreale, Sulmona, Brescia, Rebibbia, Secondigliano, Reggio Emilia … inclusi due ex-Opg), tra confessione drammatica, sete di cocaina e ironia. Nel 2014, Vincenzo pubblica il saggio-memoriale rivelazione Io So e Ho le Prove (ed. Chiarelettere), caso editoriale con decine di migliaia di copie vendute, squarciando il velo su 23 anni spesi al servizio della banca più importante del Paese. Con i suoi libri da anni denuncia irregolarità e pratiche illecite del sistema bancario nazionale ed internazionale. Nel documentario ‘La Conversione’ i due, nel conoscersi e nello scambiarsi domande e racconti delle loro vite, scoprono il modo di accedere ad una loro personale rinascita. Tra universo sub-proletario e apparati borghesi, penitenze e ricordi, il racconto-documentario del regista/drammaturgo/attore napoletano Giovanni Meola si dipana su più livelli, alternando impianto biopic, inchiesta e formula teatrale. Peppe, originario dei Quartieri Spagnoli, poi sfrattato in una baraccopoli del quartiere Fuorigrotta, aveva già scontato diversi anni di cella nell’ex-Carcere minorile Filangieri, oggi centro culturale-sociale occupato, ribattezzato Scugnizzo Liberato, prima di cominciare la sua vera carriera di rapinatore, e nel film si abbandona con purezza e crudele sincerità al racconto di se stesso e dei suoi anni bui. Vincenzo, primo laureato della sua famiglia, affamato e voglioso di una scalata sociale perché proveniente dalla più che popolare zona di San Giovanniello, diventa capo-area di un’importante struttura bancaria, per poi perdersi fra etica negata, bonus, sistema Q48 e bugie, rievocando procedure e indottrinamenti matematico para-malavitosi, fino ad ammettere un patologico desiderio di competizione e supremazia. I due uomini da totali estranei finiscono per sentirsi compagni di strada e di personale riscatto, scoprendosi accomunati, all’inizio del loro percorso di vita, dal desiderio di trovare il loro proprio ascensore sociale. Di qualunque natura: spietato, pericoloso, imprevedibile. Le musiche originali (fisarmonica e voce) di Daniela Esposito evocano malinconia e rimpianto, ma anche volontà di confronto e di cambiamento dei due protagonisti. Senza finzioni e senza rancori. “Sottrarre e ingannare - sostiene il regista Meola - sono state, a lungo, le attività principali delle loro vite. Entrambi, a un certo punto, però, hanno detto basta. Ed entrambi hanno cominciato, fatalmente, a scrivere e a svelare quello che erano stati, quello che avevano fatto e i segreti dei mondi dai quali provengono. Una cena tra loro due, curiosi di conoscersi tra domande e risposte senza remore, è di fatto la spina dorsale del mio racconto. Ciò ha rafforzato la mia intuizione iniziale, cioè che sarebbe stato assai interessante provare a raccontare le storie di Vincenzo e di Peppe in parallelo. Due facce di una Napoli matrigna e da sempre piena di insidie”. Turchia. La lezione di Ahmet liberato: mobilitarsi non è mai inutile di Roberto Saviano Corriere della Sera, 16 aprile 2021 Lo scrittore turco Altan era in carcere dal 2016 Il regime spera che scappi. Oltre alla Corte europea lo ha salvato la solidarietà. Ahmet Altan è uscito di prigione. Non è stato vano raccontare quello che gli stava succedendo, non è stato vano fare appello ai lettori per scrivere all’ambasciata turca l’imperativo #FreeAltan, non è stato vano esserci. Vederlo fuori dalla cella in cui il regime turco l’ha rinchiuso dal 2016 è innanzi tutto la prova che firmare appelli e intervenire con le proprie forze, smonta l’indolenza cinica di credere che nulla valga la pena, che è da anime belle, ingenue e naïf pensare che un regime come quello neo-ottomano di Erdogan potesse smuoversi dinanzi a una catena umana di email o a una pioggia di articoli. Non è così, come Amnesty International sa bene, e infatti è stata protagonista anche in questa vicenda. So che sei rinchiuso, separato dal mondo, ecco perché con ogni mezzo proverò a farti sapere che non sei solo, che parte del tempo della mia vita sarà accanto all’ingiustizia che stai subendo e la testimonierà. Questo è arrivato ad Altan scrittore, questo arriva a chiunque subisce l’infamia dell’ingiusta detenzione, dei processi farsa, della delegittimazione, della repressione, quando la solitudine diventa lo spazio dell’arbitrio in cui possono farti qualsiasi cosa, e testimone non sarà nemmeno il cielo sotto cui il destino ti ha costretto a vivere. E invece interessarsi significa essere testimone, e i testimoni denunciano, e in molti casi costringono un regime, che deve confrontarsi con il mondo, a prendere decisioni. Il regime turco, in modo del tutto inaspettato, ha liberato Ahmet Altan due giorni fa dopo che una sentenza della Corte europea dei diritti umani ha stabilito che la sua detenzione, durata più 4 anni, fosse illegittima e costituisse una violazione dei suoi diritti. Non, dunque, una liberazione avvenuta a seguito di una sentenza della Corte di Cassazione Turca - l’ultima volta che ho parlato con Altan è stato nel 2019, proprio la Cassazione aveva annullato la sentenza di condanna, ma pochi giorni dopo la polizia lo aveva riarrestato. L’intervento della Corte europea per i Diritti Umani ha sancito un precedente importantissimo per la situazione di Altan. La sua vicenda giudiziaria è inverosimile: condannato all’ergastolo con una motivazione assurda (persino comica se non avesse avuto un esito tragico): aver invitato al golpe attraverso messaggi subliminali trasmessi durante una trasmissione televisiva. Poi era intervenuta la Cassazione annullando l’ergastolo, poi un nuovo arresto e una nuova condanna a 10 anni questa volta per aver sostenuto un’organizzazione terroristica. Ora anche questa condanna è annullata. Ma non è finita qui, mentre scrivo e mando ad Altan il mio messaggio di gioia per la sua liberazione, una sua collega e amica che da sempre lo sostiene nella sua battaglia, Yasmine Congar, mi ricorda che su di loro (questa volta quindi su entrambi) grava l’accusa di diffusione di segreti di Stato con la richiesta di condanna a 52 anni di carcere. Non è quindi finita per Ahmet Altan e Yasmine Congar, il regime turco, probabilmente, spera, come nel caso della liberazione episodica del 2019, che Altan scappi in esilio e, lasciando la Turchia, dismetta il suo ruolo di testimone. Solo scegliendo di accogliere le conseguenze della propria lotta è possibile tentare di influenzare il corso delle cose. L’esilio in molti casi è fondamentale per continuare a vivere, per preservare la propria psiche, per salvare i propri familiari o per portare oltre i confini della propria terra le informazioni di ciò che sta accadendo. Ma Ahmet non ha scelto di vivere in esilio, Ahmet ha scelto come il padre, anche lui arrestato negli anni delle giunte militari, come il fratello, anche lui arrestato e poi rilasciato, di vivere il luogo che si vuole cambiare. Se dovesse scegliere di allontanarsi - in molti casi l’ho sperato - la sua lotta non si incrinerebbe e le sue scelte non si comprometterebbero, anzi semplicemente inizierebbe una strada diversa di resistenza. La Turchia di Erdogan ha arrestato centinaia di giornalisti, professori, operatori sociali, l’Europa può aiutare queste vite a riprendere la libertà, ma con più di una contraddizione, viste le commesse militari che continua ad “onorare” (Italia in testa) con la Turchia e l’appalto, dietro compenso, della gestione delle frontiere orientali dell’Unione Europea. Erdogan ha detto che il presidente Draghi si è comportato in modo scortese nel definirlo dittatore; come definire chi arresta intellettuali, chi chiude i giornali d’opposizione? Come definire chi accusa di terrorismo chiunque difenda la minoranza kurda? Chi lascia morire di fame, in carcere, artisti che scioperano per riottenere la libertà di suonare in pubblico? Erdogan abbia la tempra e finanche l’arroganza - che non gli manca - di accettare la definizione del proprio operato autoritario, e ci risparmi il ridicolo voler apparire come difensore dei valori che non hai mai inteso difendere. Mentre celebro la libertà di Ahmet Altan, voglio con queste righe ringraziare chi dopo l’appello lanciato dalle pagine del Corriere ha scritto all’ambasciata turca, ha letto i suoi libri, ha fatto valere l’invincibile potenza dell’indignazione davanti all’ingiustizia. Grazie. Libia. La scarcerazione di Bija è il simbolo del nuovo equilibrio di Nancy Porsia Il Domani, 16 aprile 2021 Prima di lasciare la presidenza, Serraj ha assicurato alle milizie un posto in prima fila nel nuovo assetto politico-militare. La scarcerazione per insufficienza di prove di Abdul Rahman al Milad, più noto con il nom de guerre Bija, considerato uno dei trafficanti di uomini più ricercati al mondo, avviene a sole due settimane dall’insediamento del nuovo governo unitario guidato dal primo ministro Abdul Hamid Dbeibah. L’ex comandante della Guardia costiera della città di Zawiya, già indicato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite come ufficiale coinvolto nel traffico di esseri umani e diesel nel 2017, è finito nella lista dei cittadini libici sotto sanzioni dello stesso Consiglio di sicurezza nel 2018, tanto che nel 2019 il procuratore generale di Tripoli nel 2019 ha spiccato un mandato d’arresto nei suoi confronti. Per quanto il nome di Bija fosse ingombrante ed imbarazzante a Tripoli già dal 2017, le autorità libiche erano ostaggio di una guerra civile in cui gli stessi palazzi governativi erano sotto assedio. Nell’ottobre del 2019 il ministro dell’Interno Fathi Bashaga ha dichiarato: “Presto assicureremo questo criminale alla giustizia, ma non ora”. Tuttavia non appena i turchi hanno scacciato via le forze del generale dalla Tripolitania, Bashaga ha mantenuto la sua promessa e il 14 ottobre del 2020 ha dato mandato di arrestare l’ex comandante della guardia costiera di Zawiya. L’allora ministro dell’Interno ha sempre fatto della lotta alle milizie e ai trafficanti il proprio bigliettino da visita per la leadership del paese, tanto che nell’estate del 2020 ha lanciato l’operazione “Caccia al serpente” contro i trafficanti. Con l’arresto di Bija, Bashaga ha avviato de facto la sua campagna elettorale per le imminenti votazioni a Ginevra. Il plauso della comunità internazionale è arrivato puntuale. Nel frattempo i suoi rapporti con l’ex primo ministro Ali Fayez al Serraj, con cui aveva fatto asse nei mesi dell’assedio su Tripoli, si sono incrinati. Serraj difendeva l’autorità delle milizie, Bashaga la metteva in discussione. Di fronte alla crescente popolarità di Bashaga in Libia e all’estero, a sorpresa Serraj ha accettato il sostegno di chi avrebbe voluto eliminare l’allora ministro dell’Interno a qualunque costo, cioè la lobby politico-militare che fa capo alla rete dei trafficanti che corre tra Tripoli e Zawiya. Così mentre le Nazioni unite lo scorso gennaio preparavano le elezioni del nuovo governo a Ginevra, il premier uscente Serraj ha creato un nuovo gruppo armato chiamato Autorità di sostegno alla stabilità, che fa capo a Abdul Ghani al Kikli, comandante della milizia di Abu Slim, il più potente gruppo armato cresciuto in forze proprio durante il mandato di Serraj. Suo vice è Hassan Bu Zriba, fratello del parlamentare Ali Bu Zriba, il quale secondo il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite è il più influente membro della tribù a cui appartiene il comandante Bija. L’ex guardacoste Abd Rahaman al Milad per anni si è scagliato contro Bashaga accusandolo di usare la retorica della lotta ai trafficanti per neutralizzare gruppi armati rivali presenti a Tripoli e Zawiya a favore delle milizie di Misurata, la città-stato di cui l’ex ministro dell’Interno è originario. Zawiya, città 50 chilometri a Ovest di Tripoli, è il quartier generale del primo cartello libico dove il traffico di migranti si integra al traffico di esseri umani. Il clan Awlad Bu Hmeira vanta il controllo sul porto locale, la raffineria, la Guardia costiera e il centro di detenzione per migranti. Figura centrale del clan è Mohamed Kashlaf, detto “al Kasab”, comandante della sicurezza della raffineria petrolifera di al Zawiya. Mentre Ahmed controlla il porto dove si concentrano i traffici della milizia al Nasser del clan Awlad Bu Hmeira. Strateghi della rete criminale attiva dal 2015, i cugini Kushlav, Mohamed e Ahmed, hanno assoldato il guardacoste Bija come uomo di riferimento del clan nella Guardia costiera locale. Prima di lasciare la presidenza, l’ex primo ministro Serraj ha assicurato alle milizie che per anni gli hanno garantito protezione un posto in prima fila nel nuovo assetto politico-militare. Con la sconfitta di Bashaga nelle elezioni a Ginevra, la scarcerazione di Bidja è divenuta quasi atto dovuto. L’imbarazzo che ne consegue a livello internazionale è evidentemente il prezzo necessario da pagare per ristabilire il rapporto di forza tra gli schieramenti rivali nel paese. “Il primo ministro Dbeibah è riuscito a pacificare la Cirenaica a est e il Fezzan a sud. Senza entrare nel merito del metodo, è riuscito nella missione” ha detto una fonte diplomatica internazionale a Domani. “La Libia oggi ha un’opportunità di rinascita reale, che però rischia di fallire proprio per la guerra tra potentati locali a ovest di Tripoli” continua la fonte che preferisce rimanere nell’anonimato. “Il clan di Zawiya è un elemento di destabilizzazione importante”. Brasile. Catastrofe umanitaria, Bolsonaro ora rischia grosso di Claudia Fanti Il Manifesto, 16 aprile 2021 Jair Bolsonaro, il “principale responsabile della maggiore catastrofe umanitaria della storia del Brasile”, come lo ha definito il neuroscienziato Miguel Nicolelis, ora rischia davvero grosso: l’apertura della Commissione parlamentare d’inchiesta su azioni e omissioni del governo nella gestione della pandemia, definita anche “Cpi del genocidio”, potrebbe sferrare un colpo decisivo alla sua popolarità già in declino. A confermare la decisione del giudice del Supremo tribunale federale Luís Roberto Barroso, che l’8 marzo aveva ordinato al presidente del Senato Rodrigo Pacheco l’apertura della Cpi, è stata mercoledì la plenaria dello stesso Stf, richiamandosi ai diritti alla vita e alla salute, oltre che a quello “delle minoranze di controllare il potere pubblico nel caso di una pandemia che ha già causato la morte di 360mila persone”. Non è - ancora - impeachement, ma è certo qualcosa che gli somiglia, tanto più considerando che le conclusioni della Cpi potranno essere inviate al pubblico ministero “affinché accerti la responsabilità civile o penale degli infrattori”. Non a caso, Bolsonaro ha reagito ancor più scompostamente del solito, da un lato invocando l’impeachment contro Barroso con l’accusa di aver interferito sulle prerogative dell’organo legislativo - malgrado la richiesta di una Cpi fosse venuta da più di un terzo dei senatori, oltre il quorum previsto - e, dall’altro, premendo affinché fosse estesa a governatori e sindaci. Ma l’unico risultato che ha ottenuto è che il senatore Jorge Kajuru registrasse e divulgasse la conversazione telefonica in cui il presidente lo incitava a operare in tal senso - cioè contro il Stf e le autorità locali - provocandogli l’ennesima caduta di immagine, oltre a nuove possibili accuse per un eventuale processo di impeachment. Neppure il presidente del Senato Pacheco, dando seguito martedì all’ordine di Barroso benché assai critico con la Cpi - che a suo avviso non farà che anticipare la campagna elettorale del 2022 offrendo un palco politico a potenziali candidati - ha potuto accogliere la richiesta di Bolsonaro, limitandosi a includere tra i compiti della Commissione appena quello di indagare sui fondi federali destinati a stati e municipi. La Cpi, la più importante degli ultimi 50 anni secondo il senatore Randolfe Rodrigues, entrerà in funzione con la presentazione del primo ordine del giorno, quando avrà anche luogo l’elezione del presidente e del relatore, non prima però che siano nominati gli undici membri e i sette supplenti che ne faranno parte. Dopodiché, se la Commissione lavorerà “con un minimo di serietà”, come ha auspicato il leader del Psol Guilherme Boulos, “i crimini di Bolsonaro appariranno in tutta la loro gravità”, aprendo “la strada a un processo di destituzione”. E mentre la pandemia non dà tregua, con circa 3.500 morti al giorno e un collasso senza precedenti degli ospedali, dove può persino succedere - secondo la denuncia della Rede Globo - che, a causa della mancanza di sedativi, i pazienti vengano legati al letto e intubati da svegli, Bolsonaro chiama “canaglie” gli scienziati che criticano il “suo” trattamento a base di clorochina: “Se non avete nessun rimedio da indicare, chiudete la bocca e fate lavorare i medici”. E, naturalmente, fa la voce grossa dinanzi ai suoi simpatizzanti - pronti ad “andare in guerra” con lui -, minacciando, ancora una volta, l’autogolpe: “Il Brasile è al limite, la gente dice che devo agire. Sto aspettando un segnale dal popolo perché la fame, la miseria e la disoccupazione sono sotto gli occhi di tutti, non li vede solo chi non vuole”. Afghanistan. Vent’anni persi di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 16 aprile 2021 Biden archivia l’illusione di poter esportare la democrazia arginando con la presenza militare feroci dittature che non rispettano i diritti civili. E gli Usa, non lo scopriamo oggi, rinunciano al ruolo di gendarme di un mondo sempre più frammentato. Ritirando le truppe americane dall’Afghanistan Joe Biden archivia l’illusione - coltivata vent’anni fa dai neoconservatori repubblicani, ma poi diffusa anche tra i democratici - di poter esportare la democrazia arginando con la presenza militare feroci dittature che non rispettano i diritti civili. Buone intenzioni che nel primo scorcio di questo secolo si sono infrante contro realtà storiche difficili da modificare o hanno addirittura fatto saltare precari equilibri, dall’Egitto alla Libia, dallo Yemen alla Siria. La decisione, coraggiosa e controversa, del presidente democratico va vista a due livelli: quello dei rapporti internazionali coi rischi di un Afghanistan di nuovo radicalizzato che può tornare base di gruppi terroristici mentre Washington pensa di sorvegliare e, se necessario, intervenire da lontano usando la tecnologia dell’intelligence digitale e dei droni. Ma è importante anche l’aspetto dei riflessi interni negli Stati Uniti, stremati dall’impegno bellico più lungo della loro storia (il Vietnam, l’altro conflitto “senza fine” durò otto anni). Qui Biden, lontano anni luce da Donald Trump per mille aspetti, assume una posizione simile alla sua: la guerra in Asia Centrale liquidata come total waste, una colossale distruzione di risorse, non solo economiche. C’è di più: Biden si appropria di tre caposaldi di Trump - la fine della guerra, ma anche l’aiuto ai forgotten men, l’America impoverita, e il piano per le infrastrutture - cercando di trasformare in fatti quello che il suo predecessore ha annunciato per anni ma non ha mai realizzato. In termini di proiezione dell’influenza americana nel mondo, questa decisione non rappresenta di certo un momento esaltante, ma contiene una presa d’atto di un mutamento degli scenari internazionali, di errori commessi e anche dei nuovi problemi interni degli Stati Uniti, forse non più rinviabile. Biden lo ha detto con franchezza nel suo messaggio alla nazione quando, da quarto presidente alle prese con questo conflitto, ha sostenuto di non volerlo trasferire al quinto. Del resto lui era convinto già da più di un decennio che, eliminate le basi di Al Qaeda, l’America dovesse disimpegnarsi dall’Afghanistan “cimitero degli imperi” senza pretendere di imporre democrazia e diritti civili. Nelle sue memorie Barack Obama racconta che, appena divenuto presidente, fu incalzato da Biden, suo vice e contrario all’espansione della presenza militare in Afghanistan, che lo invitava a non farsi chiudere in un angolo dai generali. E George Packer in “Our Man”, il suo bel libro sul grande diplomatico Richard Holbrooke, racconta che Biden, incontrando nel 2010 l’allora inviato speciale Usa in Afghanistan, si sfogò in privato, parlando del figlio Beau allora militare a Kabul: “Mio figlio rischia la vita per difendere i diritti delle donne, ma non funzionerà: non li abbiamo mandati lì per questo”. Il ritiro, ovviamente, comporta problemi enormi e di varia natura: intanto il rischio che il governo di Kabul venga spazzato via dai talebani con vendette nei confronti di chi ha collaborato con gli occidentali e il rischio che il Paese torni a offrire riparo a organizzazioni terroriste. Washington promette che continuerà a incidere sulla politica afghana e a proteggere i suoi alleati anche senza una presenza diretta. Un modello analogo agli interventi antiterrorismo effettuati con una certa frequenza in Africa, dalla Somalia alla Libia. Ma anche gli attacchi coi droni hanno bisogno di intelligence sul terreno e non è chiaro se i governativi afghani potranno continuare a fornirla. Così come non è chiaro il destino delle migliaia di contractor civili che operano in Afghanistan nel campo della sicurezza né quello dei mille soldati-ombra che non compaiono nel conteggio del contingente dei 2.500 che verranno ritirati entro l’11 settembre. Si tratta soprattutto di rangers del Pentagono che sono, però, inquadrati in missioni della Cia. Biden ha detto solo che deciderà in futuro come proteggere i diplomatici e la missione Usa che resterà nel Paese. Il ritiro può, poi, ampliare il ruolo della Turchia: ospiterà a Istanbul i negoziati tra le diverse forze afghane e, in virtù del suo ruolo di mediazione, per ora potrebbe non ritirare il suo contingente militare, presente nel Paese nell’ambito del dispositivo della Nato. Potenzialmente un riferimento prezioso per l’intelligence americana. Intanto sembra al crepuscolo la filosofia dell’ingerenza umanitaria e della rimozione di feroci dittatori: idee che si erano rafforzate anche a sinistra con l’intervento militare contro i genocidi nella ex Jugoslavia e, poi, con le illusioni internettiane alimentate dai giovani di piazza Tahir al Cairo. Tutte cose passate attraverso il tritacarne della dittatura militare in Egitto, della devastazione della Libia (con influenze russe e turche) dopo l’eliminazione di Gheddafi e anche di altri episodi come l’umiliante rinuncia di Obama a punire Assad per il suo uso di armi chimiche contro i ribelli e anche contro la popolazione civile. L’America, non lo scopriamo oggi, si sta ritirando dal suo ruolo di gendarme di un mondo sempre più frammentato, mentre, dal Golfo all’Asia meridionale, cresce il ruolo delle potenze regionali. Pesa anche la pandemia che ha cambiato le priorità. E, dopo gli anni della tempesta trumpiana, gli Stati Uniti, più che dare lezioni di democrazia al mondo, devono pensare soprattutto a riparare le ferite interne che qualche mese fa hanno fatto vacillare le sue istituzioni. Myanmar. I medici finiscono nel mirino dell’esercito di Emanuele Giordana Il Manifesto, 16 aprile 2021 Oltre 700 vittime. Denunciati per la loro partecipazione alle proteste e per aver prestato soccorso ai feriti. Anche ieri in Myanamar sono stati aperti nuovi casi giudiziari contro diversi medici colpevoli di aver “partecipato alle attività del Cdm (Movimento di disobbedienza civile ndr) senza eseguire le cure mediche nei nosocomi assegnati, ma fornendo cure presso ospedali o cliniche private”. Dopo le botte, le intimidazioni, le minacce e gli arresti, le corti di giustizia birmane stanno mettendo sotto accusa adesso il personale sanitario - ogni giorno incriminandone diversi nuovi membri - utilizzando la sezione 505-A del codice penale che rende un crimine pubblicare o diffondere qualsiasi “dichiarazione, voce o rapporto… con l’intento di spingere, o che potrebbe spingere, qualsiasi ufficiale, soldato, marinaio o aviatore nell’esercito, nella marina o nell’aviazione, ad ammutinarsi o a ignorare o venir meno al proprio dovere in quanto tale”. Per estensione si colpiscono anche i funzionari pubblici, dunque medici e infermieri - uomini e donne - che minerebbero la sicurezza nazionale prestando altrove la loro opera. Menzogne ovviamente, anche perché i medici - avanguardia e primo settore statale a mobilitarsi dopo il golpe militare del 1 febbraio - hanno sempre stabilito turni per rispondere - pur avendo formalmente incrociato le braccia - alle emergenze ospedaliere. Ma l’occhiuto codice penale fa anche capire che medici e paramedici sono rei di aver soccorso chi era ferito o stava morendo magari in qualche casa privata dopo un attacco del sempre più feroce esercito birmano. Sono storie di ordinaria dittatura quotidiana che si sommano agli eccidi mirati di chi protesta oramai da due mesi e mezzo in un Paese al collasso, dove l’economia è ferma, il sistema sanitario non è più in grado di far fronte alla pandemia (occupato com’è a curare i feriti delle manifestazioni) e dove avanza lo spettro di una guerra diffusa tra il centro e la periferia delle autonomie armate. Anche ieri l’Assistance Association for Political Prisoners documentava un morto e altre dieci vittime dell’altro ieri di cui solo giovedi si è avuta certezza. Il bilancio del 15 aprile dice 726 vittime e 3151 detenuti per aver partecipato alle proteste ma, avverte il sito, sono numeri facilmente per difetto. L’associazione rende anche noto che una nuova tecnica del regime è quella di utilizzare veicoli non registrati con targhe false per sfondare i cortei e arrestare manifestanti pacifici. Tra questi ancora medici o infermieri: A Mandalay ne sono stati ieri arrestati 6 durante una marcia di protesta guidata da operatori sanitari con i loro famigliari mentre, la sera prima, era stata attaccata un’ambulanza cui è seguito il fermo di tre sanitari. Nessun rispetto nemmeno per i luoghi religiosi, buddisti o di altro credo: ieri è stata attaccata la moschea di Sule a Maha Aung Myay (Mandalay). Un morto e diversi feriti tra cui un disabile. Si allunga intanto lo spettro della guerra che interessa soprattutto le aree di confine dove sono attivi gli eserciti delle diverse autonomie regionali. Mercoledì pomeriggio due caccia dell’esercito birmano hanno effettuato attacchi aerei sulla cittadina di Momauk, nello Stato Kachin, costringendo i residenti a nascondersi nei rifugi antiaerei. L’attacco - spiega il magazine birmano Irrrawaddy - è avvenuto mentre si intensificano gli scontri tra Tatmadaw e il Kachin Independence Army (Kia). Scontri iniziati domenica sempre a Momauk, dopo l’occupazione del Kia di una stazione di polizia e di un avamposto militare mentre raid sono segnalati anche sulla base di Alaw Bum, vicino al confine cinese (sempre nell’area di Momauk), che il Kia ha occupato il 25 marzo.