Ergastolo ostativo o pena di morte sociale? di Davide Varì Il Dubbio, 15 aprile 2021 Oggi la Consulta decide sull’ergastolo ostativo: qualcuno pensa che i condannati di mafia debbano morire in carcere. La parola fine - o almeno così speriamo - al surreale dibattito sull’ergastolo ostativo l’ha messa Valerio Onida sul Corriere delle Sera di ieri. Onida elenca e spiega tre cose che dovrebbero convincere anche i più scettici. La prima: la pena dell’ergastolo è di per sé incostituzionale perché “esclude la possibilità di porre fine alla detenzione” e nega il “diritto alla speranza”; la seconda: subordinando la “liberazione dall’ergastolo” alla collaborazione con la giustizia viene tolta di fatto la possibilità della “libera scelta”; la terza: supporre che i vincoli con le mafie siano perpetui - spiega Onida - “contraddice la natura e la dignità dell’essere umano”. Peraltro, tanto per complicare le cose, il Domani ha introdotto una nuova forma di dissociazione: “la dissociazione morbida” (sic). Una trovata dei boss - o forse dei giornalisti - per evitare il carcere facendo finta di dissociarsi dal clan. Chi poi debba valutare se la dissociazione sia morbida o dura non è dato sapere, forse i giornalisti stessi. Insomma, come vedete il dibattito ha preso una piega surreale. Ma le contorsioni giuridiche messe in scena dall’ala dura del no all’eliminazione del carcere ostativo, in fondo in fondo hanno una sola ragione: lor signori pensano che non tutte le persone hanno uguali diritti. Certo, non lo ammetteranno mai, ma è chiaro che alla base di quella posizione vi è l’idea che per alcuni cittadini - boss e mafiosi vari - i diritti costituzionali valgono, sì, ma fino a un certo punto. Qualcuno di loro chiede, senza ammetterlo esplicitamente, una sorta di “pena di morte sociale” cercando vanamente di rimanere dentro i limiti della nostra Costituzione. Ma - come ricorda Onida - “se si crede nell’essere umano, nella sua libertà e nella sua dignità, non si può ammettere né la pena di morte, né una pena senza fine come l’ergastolo ostativo”. Stop alle vaccinazioni in carcere “di massa”: ecco il documento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 aprile 2021 Diversi Regioni hanno interrotto la campagna di vaccinazioni in carcere, recependo la direttiva del generale Figliuolo. Saranno vaccinati solamente i reclusi rientranti nelle fasce di età come nel “mondo libero”. Il Dubbio, grazie alla segnalazione dei sindacati di polizia penitenziaria, ha potuto prendere visione della sospensione delle vaccinazioni in carcere della regione Liguria. In realtà, il blocco delle vaccinazioni in carcere è avvenuto anche in Sicilia, Toscana ed Emilia Romagna. Il Piemonte, invece, ha mantenuto il punto criticato dai garanti: interviene con i vaccini solo dove scoppiano i focolai. Interrotta la vaccinazione in carcere per detenuti e agenti che non rientrano nelle fasce d’età. Ma veniamo al documento dove la Asl sospende la vaccinazione “di massa” nelle carceri per ordine dell’autorità sanitaria regionale che, a sua volta, ha recepito l’ordinanza del commissario straordinario Figliuolo. Il Dubbio rende nota la missiva della direzione penitenziaria del carcere ligure di Pontedecimo indirizzata alla Asl. Annuncia che “in riferimento alla nota 0054668 odierna, di recepimento delle direttive centrali, si prende atto di quanto in essa contenuto e delle nuove modalità di prenotazione del vaccino Covid-19, per le classi di età, come stabilito dall’Ordinanza del Commissario Straordinario all’Emergenza. Ne consegue pertanto, per questa sede penitenziaria ed il personale dipendente, una interruzione della campagna vaccinale in atto”. Quindi sia per i detenuti che per gli agenti penitenziari, la vaccinazione si interrompe se non rientrano nella fascia di età indicata dalla direttiva. Nel carcere di Pontedecimo, i dipendenti che intendevano sottoporsi a vaccinazione sono 29 agenti donne e 25 agenti uomini, oltre a 8 civili donne. “La maggior parte di questi - si legge nella nota rivolta alla Asl -, non rientra nelle fasce di età ricomprese nelle disposizioni di cui sopra, in quanto aventi età inferiore ad anni 40”. Per il direttore di Pontedecimo il carcere è una struttura “sociosanitaria” - Il Direttore del carcere, però, nello stesso tempo ritiene che la struttura penitenziaria possa essere del tutto assimilata, - per le peculiarità residenziali (di utenti ed operatori) - a una struttura “sociosanitaria”, con conseguente adozione dei provvedimenti di salute ed igiene pubblica, che impongono le “priorità” di cui all’Ordinanza commissariale n. 06/2021. “Al momento presso questa sede - si legge sempre nella missiva del direttore del carcere ligure -, contro l’infezione Covid-19, si continuano ad adottare come unici strumenti a difesa della salute dal contagio, sia per la popolazione detenuta che per il personale operante, i soli D.P.I. forniti dalla Direzione, anziché una diffusa e completa azione di immunizzazione generata dal vaccino come originariamente previsto”. Per questo chiede urgentissime e diverse indicazioni sanitarie, con preghiera di farsi portatore della presente presso gli Organi di Sanità Regionali. La Asl locale, in risposta alla missiva, comunica che l’autorità sanitaria regionale in adesione alle disposizioni pervenute dal ministero della Salute e dal Commissario Straordinario all’Emergenza “ha sospeso tutte le prenotazioni vaccinali per le varie categorie inizialmente considerate prioritarie, tra cui il Personale di Polizia Penitenziaria”. Quindi, come oramai sta avvenendo in tutte le altre carceri, la Asl annuncia di procedere a vaccinare secondo classi anagrafiche. Il direttore del carcere, però, non ci sta e chiede al provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte, della Liguria e della Valle d’Aosta di far procedere al completamento dell’azione di immunizzazione cosi come originariamente previsto. La questione comincia a diventare seria. A causa dei contagi e l’inevitabile quarantena, i detenuti e detenute sono stremati. All’interno delle carceri sovraffollate ciò diventa una doppia, se non tripla pena. Fare una quarantena in quelle condizioni, non è la stessa cosa per chi è a casa. La tensione cresce, la disperazione anche e tutto potrebbe nuovamente sfuggire di mano. Giustizia, vendette incrociate in Parlamento di Liana Milella La Repubblica, 15 aprile 2021 Forza Italia e Azione stoppano la riforma del Csm secondo Bonafede. Alla Camera intesa tra il sottosegretario azzurro Sisto e l’ex forzista Costa passato con Calenda: la nuova legge dell’ex Guardasigilli per ora non diventerà il testo base su cui innestare i futuri emendamenti della ministra Cartabia. La mossa dopo che Pd e M5S si sono messi di traverso sulla commissione d’inchiesta (voluta da centrodestra e renziani) che avrebbe dovuto rileggere l’operato della magistratura. Sulla giustizia vendette incrociate alla Camera. Mentre l’ex pm Luca Palamara sotto inchiesta a Perugia - a breve sarà sentito dall’Antimafia - plaude alla commissione d’inchiesta sulla magistratura, Pd e M5S bloccano la commissione sulle toghe. Forza Italia e Azione 24 ore dopo rendono la pariglia stoppando la riforma del Csm dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede che, per ora, non diventerà il testo base su cui innestare i futuri emendamenti della ministra Marta Cartabia. Come sempre, quando si gioca sul campo della giustizia, i colpi bassi volano. Stavolta l’uno-due riguarda temi caldissimi. Sul tavolo due questioni. La richiesta del centrodestra di governo (Forza Italia, Lega e Azione) e d’opposizione (Fratelli d’Italia), nonché di Italia viva, di dar vita a una commissione d’inchiesta che rilegga trent’anni di operato della magistratura per scoprire se dietro c’è stato un input politico. Dall’altra le riforme della giustizia, quella del processo penale e quella dell’ordinamento giudiziario inclusa la nuova legge del Csm e le regole sull’ingresso dei magistrati in politica. Su entrambe Bonafede ha presentato i suoi testi sin dal governo gialloverde. Sono in Parlamento. Alla Camera. Sono gli stessi testi su cui i gruppi di lavoro istituiti a via Arenula dalla ministra Marta Cartabia stanno preparando gli emendamenti che la stessa Guardasigilli ha promesso per la fine di aprile. È fin troppo ovvio che proprio i testi di Bonafede non possono che diventare i testi base su cui radicare il dibattito legislativo. Ma se la procedura è ovvia, il banco salta quando di mezzo c’è quello che viene considerato dal centrodestra uno “sgarbo istituzionale”, e cioè lo stop sulla richiesta di mettere in calendario il testo di Lega, Forza Italia, Azione e FdI sulla commissione d’inchiesta sulla magistratura, che ha l’appoggio anche dei renziani. Il calendiano Enrico Costa non ha fatto mistero delle sue accuse: i presidenti delle due commissioni Affari costituzionali e Giustizia, Giuseppe Brescia e Mario Perantoni, entrambi di M5S, avrebbero volutamente bloccato la messa in calendario per un’evidente contrarietà politica. Passano 24 ore e che fa Costa? Eccolo in commissione Giustizia mettere a segno la ritorsione. Chiede di bloccare il voto sulla legge Bonafede sul Csm come testo base per la futura discussione. Esattamente, del resto, com’è avvenuto per il processo penale, altra legge varata dall’ex ministro di M5S ed ex capo delegazione a palazzo Chigi. E che oggi è tornato alla Camera e si muove come semplice parlamentare. Attimi di smarrimento politico dopo l’intervento di Costa. Con savoir faire, anziché arrabbiarsi, interviene anche Bonafede che fa parte della commissione. Ma a questo punto arriva la sorpresa nella sorpresa. Perché Francesco Paolo Sisto - il sottosegretario alla Giustizia di Forza Italia, avvocato barese anche di Berlusconi, ex responsabile Giustizia di Fi da quando, ad agosto dell’anno scorso, Costa è passato con Calenda - di certo non contrario alla commissione d’inchiesta sulle toghe e sui loro processi, fornisce una giustificazione “politica” al rinvio dell’azione del testo Bonafede come testo base. Sisto spiega che il rinvio sarebbe utile “per allineare il lavoro della commissione a quello del gruppo di studio diretto dal costituzionalista Massimo Luciani che per la fine del mese presenterà gli emendamenti”. A che cosa? Ma ovviamente al testo Bonafede che quel gruppo di lavoro ha già adottato come testo base per i suoi lavori. Costa gongola. Il presidente della commissione Perantoni di M5S deve fare buon viso a cattiva sorte. La vendetta è andata a segno. Giusi Bartolozzi, la giudice eletta con Forza Italia, tutta soddisfatta può andare in aula per lanciare la sua maratona per ottenere di mettere in calendario la commissione d’inchiesta. Avrà come sostenitore anche Vittorio Sgarbi, proprio quello che tempo addietro l’apostrofò con un epiteto poco delicato. Ma tant’è. Per ottenere la commissione d’inchiesta si può anche passare sopra a un “sei una str...” detto in aula il 20 giugno dell’anno scorso. Anm, il presidente Santalucia: “La magistratura italiana non merita la commissione d’inchiesta” di Liana Milella La Repubblica, 15 aprile 2021 Il leader dell’associazione nazionale delle toghe contro il pressing di centrodestra e Iv. Per evitare il giudizio dei probiviri alcuni magistrati starebbero lasciando il sindacato. Presidente Santalucia buon pomeriggio. Alla Camera si discute di una commissione d’inchiesta sulla magistratura. Con un testo dai toni durissimi. E Giusi Bartolozzi di Forza Italia, giudice nella vita, ha iniziato alla Camera anche una maratona in aula per sostenerla. Nelle stesse ore Giuliano Castiglia, gip a Palermo, del gruppo Articolo Centouno, all’opposizione della sua giunta, la accusa di “insabbiare” le chat di Palamara. Le chiedo: ma le toghe si stanno facendo male da sole con le loro divisioni? “Le divisioni certo non aiutano. Sarebbe necessario che i magistrati prestassero molta attenzione al dibattito esterno sui temi della giustizia per poter portare lì la loro voce autorevole di esperienza e di professionalità. Il che non significa minimamente abbassare la guardia sul rispetto del codice etico e sulle conseguenti ricadute di tipo disciplinare”. Ma di questa commissione cosa pensa? “L’Anm con ogni probabilità darà un giudizio. Per quanto mi riguarda sono contrario, perché tutto quello che emerge dal caso Palamara non giustifica l’istituzione di una commissione d’inchiesta che è sempre stata riservata a ben altri fenomeni. Le pur necessarie riforme del mondo della giustizia non richiedono certamente un’inchiesta perché il Parlamento già dispone di elementi di conoscenza per intervenire e agire di conseguenza”. Scusi ma quella proposta di legge non l’ha colpita e non ci ha visto l’ingerenza di un potere dello Stato su un altro potere? “Indubbiamente mi colpisce perché rappresenta il grado di sfiducia che oggi la magistratura sconta rispetto a una parte della politica”. Secondo lei il Parlamento può entrare nel merito delle indagini con l’obiettivo di dimostrare che sono state persecutorie? “Sono convinto che il dibattito parlamentare che si svilupperà sulla proposta di legge farà giustizia di alcuni eccessi che sicuramente quella proposta contiene”. Ma veniamo a voi, ai giudici. E a questa accusa rivolta a lei di essere un “insabbiatore”. La sua corrente, la sinistra di Area, la difende. Ma i Centouno - Castiglia, Reale, Angioni, Moretti, 4 su 36 componenti del comitato direttivo dell’Anm, all’opposizione della sua giunta - non lesinano accuse. Secondo loro lei avrebbe ritardato l’analisi delle chat e, in un caso, avrebbe omissato la posizione di una toga che nel frattempo si è dimessa dall’Anm e ha anche chiesto a Perugia di distruggere le sue conversazioni... “L’accusa di insabbiamento è del tutto infondata e gratuita. E anche molto offensiva. Chiariamo i fatti: sono presidente dal 5 dicembre 2020. In questo periodo, insieme alla giunta, ho fatto di tutto per agevolare il lavoro del collegio dei probiviri, assicurando ogni tipo di sostegno organizzativo. So che il collegio sta lavorando e siamo in attesa delle sue conclusioni. Quindi io che cosa avrei insabbiato?”. I Centouno sostengono che le chat sarebbero state chieste con ritardo a Perugia e che una volta trasmesse lei avrebbe censurato una posizione... “No, questo è assolutamente falso. Intanto il collegio dei probiviri lavora con riservatezza e non dà certo conto a me della sua attività. Per quanto mi risulta comunque il gip di Perugia ha autorizzato la materiale acquisizione delle chat e il collegio sta provvedendo a questa complessa attività di estrazione delle stesse chat avendo cura di selezionare soltanto quelle che riguardano magistrati iscritti all’associazione. E questo avviene per espressa indicazione dell’autorità giudiziaria”. Scusi ma i giornali stanno pubblicando le chat dal maggio 2020. È mai possibile che dopo un anno l’Anm sia ancora a questo punto? “Il collegio dei probiviri sta usando in questa fase istruttoria anche le cosiddette fonti aperte e ciò su espressa indicazione del Comitato direttivo centrale. Ciò vuol dire che la pur obiettiva complessità di acquisizione della chat da Perugia non sta ostacolando il lavoro del collegio”. Perché ha coperto con omissis le chat di questo suo collega? “È falso affermare che io abbia tolto delle chat. Per la semplice ragione che nelle mie mani non c’è nessuna chat. Io ho solo oscurato, in un documento di Perugia, la parte in cui si rispondeva a una domanda autonomamente avanzata da un magistrato non più iscritto all’associazione che aveva chiesto di distruggere le sue chat. A questo punto l’Anm non ha più alcun diritto di leggere e quindi esprimere un giudizio su questo caso. Non siamo il Csm che invece, al contrario di noi, esercita la vigilanza su tutti i magistrati”. Santalucia, ma sono in atto, pur di evitare i probiviri, fughe dall’Anm? “Devo ammettere che qualche dimissione c’è. Ma faccio presente che le dimissioni vengono presentate e poi accettate dalle sezioni periferiche dell’Associazione e non dalla sede centrale, che viene solo in seguito messa al corrente”. Se valesse questo principio, allora per evitare gli accertamenti della procura generale della Cassazione e del Csm, chi sta nelle chat dovrebbe addirittura lasciare la magistratura... “Lasciare l’ordine giudiziario sarebbe comunque una decisione molto pesante, e di certo ben più impegnativa che lasciare l’Anm”. E sarebbe anche una fuga dalle proprie responsabilità... “Infatti nei casi più gravi il Csm può impedire le dimissioni per far proseguire il giudizio disciplinare e una disposizione simile è contenuta anche nel nostro Statuto”. E lei pensa di applicarla? “Si tratta di una decisione che spetta al Comitato direttivo centrale e di certo ne discuteremo”. Lei ha le sue ragioni, anche tecniche, però accuse come quelle dei Centouno, e non da oggi ma già dalla loro campagna elettorale, danno l’idea di una magistratura che, dopo aver cacciato Palamara, vorrebbe coprire le altre responsabilità... “È una sfiducia corrosiva. Che nessun argomento, fino a oggi, è riuscito a scalfire. Posso solo sperare, non per la mia persona, ma per il bene della magistratura, che essa possa venir meno quando questa complessa attività di accertamento di eventuali responsabilità, di certo non facile - perché l’Anm non è strutturata come una procura della Repubblica né ha i mezzi di un grande ufficio inquirente - giunga a conclusione. Sono certo che questo traguardo temporale non sarà così lontano”. “Un regolamento di conti”: il no dei pm all’indagine parlamentare di Simona Musco Il Dubbio, 15 aprile 2021 “C’è un’esigenza di conoscere come sono andate realmente le cose nei rapporti fra politica e magistratura, e ogni sede istituzionale deputata a fare chiarezza lo deve fare con l’unico obiettivo della verità, senza che vi siano timori di regolamenti di conti”. Luca Palamara non ha paura. E anzi si schiera dalla parte di coloro che oggi chiedono una Commissione d’inchiesta sull’uso politico della Giustizia, invocata a gran voce da Forza Italia e Italia Viva. Era stato lo stesso Palamara, subito dopo la propria radiazione, a lanciare la proposta dalla sede del Partito Radicale. E ora che la richiesta è sul tavolo della politica, la maggioranza si spacca. Pd e M5S sono già sulle barricate: nessun avallo a proposte del genere. Parole che hanno spinto Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia di Azione, a denunciare un comportamento antidemocratico. “Chi non condivide la proposta di una commissione d’inchiesta sulle criticità del sistema giustizia può legittimamente respingerla o emendarla: non può pretendere che l’atto parlamentare sia escluso “a forza” dall’ordine del giorno. Pd e M5S pretendono invece di costringere il Parlamento a non discutere le proposte sgradite, grazie ai Presidenti delle commissioni Giustizia e Affari Costituzionali abilissimi a buttare la palla in tribuna. Ci batteremo sempre per il diritto delle forze politiche di calendarizzare le loro proposte, pronti a discutere e, ove non le condividessimo, a respingerle”, ha dichiarato. Nel suo libro, scritto a quattro mani con Alessandro Sallusti, è proprio l’ex capo dell’Anm a sollevare più di un interrogativo, in particolare sul processo per frode sui diritti Mediaset a carico di Silvio Berlusconi, conclusosi con una condanna a quattro anni, di cui tre coperti da indulto. “Io sono stato sempre consapevole che all’interno della magistratura ci fosse un determinato clima che riguardava il livello politico - si legge nel libro. Ma non prendiamoci in giro, tutti dentro la magistratura sapevano che il clima era quello, e tutti si adeguavano. Può essere che la sentenza su Berlusconi fosse stata condizionata da questa logica oppure no, fosse frutto di una libera volontà. Ma le volontà sono anche libere di seguire il percorso che si ritiene più utile o conveniente di altri”. Da questa base, sin da subito, il centrodestra ha invocato a gran voce una Commissione per chiarire se la magistratura si sia piegata a logiche diverse da quelle della Giustizia. Richiesta alla quale, nei giorni scorsi, si è accodata Italia Viva. Per Pd e M5S, invece, sarebbe inaccettabile interferire nel campo della magistratura, sul cui lavoro, hanno evidenziato, la parola tocca al Consiglio superiore della magistratura. Parole ribadite ieri da Nino Di Matteo, consigliere del Csm, non contrario, in via di principio, a inchieste e approfondimenti, ma convinto che la sede naturale di discussione sia Palazzo dei Marescialli, onde evitare che la stessa Commissione diventi “terreno di scontro tra fazioni o, ancor peggio, strumento per limitare le prerogative costituzionali di autonomia e indipendenza della magistratura dal potere politico”. Che si possa trattare di un regolamento di conti è anche il timore di Gian Carlo Caselli, secondo cui l’unica soluzione alla crisi della magistratura è fatta di “riforme serie con una strategia di vasto respiro, riforme che investano il Csm e il funzionamento del processo sono sempre più necessarie ed urgenti”. Identico ragionamento fatto dall’ex pm e attuale sindaco di Napoli Luigi De Magistris, che propone però un’alternativa: “Una commissione conoscitiva, con poteri anche straordinari, composta non in maniera prevalente da parlamentari ma da esperti di indiscussa competenza professionale e di alto profilo etico”. Ciò per verificare gli intrecci tra magistratura e politica e indagare sulle degenerazioni correntizie. Ma le dichiarazioni degli addetti ai lavori non sono piaciute alla politica. Così Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione Giustizia a Montecitorio ed ex consigliere Csm, si è scagliato contro Di Matteo, giudicando le sue esternazioni come “un maldestro tentativo di interferire sulla libera attività del Parlamento. Mi pare inutile sottolineare che il Csm applica sanzioni disciplinari, sulla base di illeciti tipici. Il Parlamento è chiamato invece ad un democratico giudizio politico, come da sue prerogative costituzionali”. La splendida arringa di Woodcock sulla separazione delle carriere di Errico Novi Il Dubbio, 15 aprile 2021 “Dopo il terremoto Palamara, diventino trasparenti sia le nostre promozioni che la genesi delle inchieste”. Così il magistrato napoletano ridicolizza il dogma dell’unità indissolubile. Poche volte capita di leggere articoli che con geniale nonchalance travolgono gli schemi immutabili della giustizia. Ancor più raramente capita che a una lettura del genere segua pure una doverosa richiesta di scuse. Nel senso che ieri Henry John Woodcock, pm noto (ai penalisti napoletani) per essere tanto brillante quanto sfrontato nello sfidare la difficoltà delle indagini, ha firmato sul Fatto quotidiano un articolo di tale intelligenza e tale coraggio che dalle colonne del Dubbio è necessario chiedergli perdono per tutte le volte in cui le critiche rivoltegli non siano state accompagnate dalla seguente postilla: “Ciò detto, Woodcock è uno di quei giuristi che la politica dovrebbe ascoltare come un oracolo, quando mette in cantiere riforme”. Ebbene sì, perché ieri l’inquirente Woodcock ha firmato non una requisitoria contro gli “impuniti”, ma una splendida arringa a favore della separazione delle carriere. E certo non si può negare l’onore delle armi a un giornale come il Fatto, che ha avuto la correttezza di ospitare idee così diverse da quelle proposte di solito. Non a caso Woodcock ha scritto innanzitutto in replica a una precedente analisi pubblicata, sul giornale di Marco Travaglio, da Gian Carlo Caselli. Alcuni passaggi vanno riportati alla lettera. A proposito di un’eventuale futura relazione fra priorità indicate dalla politica e indagini giudiziarie (ingranaggio prefigurato, udite udite, nella riforma per la separazione delle carriere proposta dalle Camere penali), Woodcock, anziché lanciare un anatema, scrive: “Una soluzione del genere” sarebbe “quantomeno più trasparente del nostro attuale sistema, che ‘nasconde’ genesi e gestione delle inchieste sotto l’impenetrabile coltre dell’indipendenza del pm e dell’obbligatorietà dell’azione penale”. Lo dice da anni il meglio dell’accademia processual penalistica italiana. Il pm della Procura di Napoli sostiene che tenere nel fascicolo quanto meno traccia della genesi di un’indagine potrebbe “avvicinare di più il sistema ai valori di trasparenza e di responsabilità che connotano un regime democratico”. Ancora: la tradizionale critica con cui le toghe stroncano la separazione delle carriere, ricorda Woodcock, riguarda la necessità che il pm condivida la “cultura della giurisdizione”; ma l’argomento, scrive il magistrato napoletano, “è un po’ double face, a ben vedere”, giacché lo si potrebbe “rovesciare agitando lo spettro che la permanenza del pm nell’unico ordine giudiziario possa mettere a rischio la cultura del giudice, trascinandola verso una deriva poliziesca”. Più che riflessioni, sono tuoni che scuotono le certezze della magistratura. Pensate sia finita qui? Macché. “Si potrebbe citare come spia e segnale di pericolo di una simile colonizzazione culturale del giudice da parte del pm la tendenza di alcuni giudici al ‘ copia/ incolla’ delle richieste del pm - pratica recentemente ‘approvata’ perfino dalla Suprema Corte”. Altro pilastro delle tesi avanzate dall’avvocatura. Fino alla riflessione più acuta: dopo il “terremoto Palamara” è ancora più urgente che le “decisioni” diventino “conoscibili e trasparenti”, sia quando riguardano “la carriera dei magistrati” sia quando si tratta di “genesi e gestione delle inchieste”. E qui siamo al cuore di quella che alcuni definiscono “egemonia del partito delle Procure”. “Io personalmente, in quanto pm, non vivrei in modo traumatico una separazione delle carriere, la considererei piuttosto come una nuova sfida positiva, anche sul piano della formazione e della professionalità”. Woodcock è tanto nitido quanto esplicito. Da ultimo, non si può tacere un passaggio del suo articolo, sempre relativo alla “circostanza ostativa” abitualmente scagliata dai magistrati contro la separazione: Woodcock la sintetizza come “l’esigenza che il pm continui a coltivare come il giudice, pur nella diversità del ruolo, quella cultura del dubbio, che è un elemento essenziale della funzione giudiziaria”. Non perché ce ne si voglia approfittare: ma sentire evocata la cultura del “Dubbio” sul “Fatto quotidiano” suscita persino un sorriso di speranza. E, di sicuro, ammirazione per un magistrato, come Woodcock, capace di un discorso al limite del rivoluzionario. Riforma della giustizia civile: perché torna di moda la “mediazione” di Isidoro Trovato Corriere della Sera, 15 aprile 2021 La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, è stata chiara nelle sue linee programmatiche: per affrontare il gigantesco ritardo della giustizia civile sarà fondamentale rafforzare gli strumenti di mediazione dei conflitti. Un’apertura di credito che riapre vecchi dibattiti in seno all’avvocatura italiana in passato tutt’altro che favorevole alla mediazione obbligatoria. “Partiamo da un aspetto di comunicazione - afferma Leonardo D’Urso, presidente di Adr center, un organismo di mediazione tra i più importanti in Italia. Non esiste un obbligo di mediazione: per il 15% delle materie della giustizia civile, c’è l’obbligo solo di partecipare ad un primo incontro tra le parti per capire se ci sono margini di accordo tramite mediazione. La decisione di proseguire oltre al primo incontro è sempre effetto della volontà delle parti”. n compenso però sono impressionanti i numeri della mediazione, nelle discipline in cui c’è l’obbligo di un primo incontro conoscitivo. “I numeri - continua D’Urso - evidenziano che su materie come locazione, successione, usucapione l’utilizzo della mediazione diminuisce il ricorso ai Tribunali dal 35 al 65% dei casi. Un incentivo alle mediazioni darebbe un impulso allo smaltimento delle cause in corso che è il vero problema che genera lentezza nel nostro sistema giudiziario”. Servono incentivi o esistono settori di espansione della mediazione? “Per estendere l’efficacia della procedura - suggerisce il co fondatore di Adr center - ci sono varie opzioni: a cominciare dalla possibile estensione dell’obbligatorietà del primo incontro a tutta l’area della contrattualistica”. E poi c’è il tema dei costi: di recente l’Unione camere civili ha espresso “preoccupazione per l’ipotesi di introdurre oneri aggiuntivi per l’accesso alla giustizia, che non deve diventare un privilegio per pochi e, soprattutto, per ricchi”. Un chiaro riferimento a costi aggiuntivi della mediazione. “Intendiamoci su un punto - chiarisce D’Urso. Quel primo incontro obbligatorio costa circa 40 euro. Se invece parliamo dei costi di un’intera mediazione, si dovrebbe dare attuazione al credito d’imposta per le spese fino a 250 euro per le mediazioni che non hanno avuto buon esito e 500 per quelle andate a buon fine. È una norma che già esiste, bisognerebbe solo finanziarla”. Ma c’è una parte di avvocatura pronta a dialogare e a trovare un accordo. “Gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie- afferma il segretario generale dell’Associazione nazionale forense Luigi Pansini - impongono un approccio collaborativo e implicano una competenza del mediatore e dell’avvocato in mediazione che non può prescindere da una costante formazione e da un elevato tasso di specializzazione. È necessario armonizzare e coordinare i diversi strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, con particolare riferimento ai rapporti tra la negoziazione assistita e la mediazione. Infine, è necessario ribadire il ruolo dell’avvocato in mediazione che deve essere di assistenza, anche per intervenire sul regime di responsabilità, distinguendo la fase giurisdizionale da quella stragiudiziale” Veneto. Vaccinato un detenuto ogni dieci e 741 agenti penitenziari. Ma non a Treviso Laura Berlinghieri Il Mattino di Padova, 15 aprile 2021 Nella Marca l’Usl ha dimenticato il penitenziario. L’epidemia circola nelle celle, specie a Padova. Da una parte, la diffusione del contagio che continua a fare paura, come dimostra il maxi focolaio tuttora attivo al Due palazzi di Padova (82 positivi, di cui 74 detenuti). Dall’altro, la campagna vaccinale iniziata e bloccata sul nascere. Oppure, nelle carceri di Treviso, nemmeno iniziata: “Ce ne siamo dimenticati” ammette candidamente il direttore generale dell’Usl 2, Francesco Benazzi, riferendosi al personale penitenziario. “Ma non hanno vaccinato nemmeno i detenuti” tuona Gianpietro Pegoraro di Cgil. Nel mezzo, 2.500 persone la cui unica finestra sul mondo è nei ritagli tra le inferriate. Bloccate le visite, la concessione è una video chiamata in più a settimana: lo chiamano “bonus Covid”. Finora, nelle carceri venete sono state vaccinate poco più di un migliaio di persone: 741 appartengono alla polizia penitenziaria e 289 sono detenuti. “Tra il personale, l’adesione è stata molto alta, pari al 75%. Ma qualche rifiuto è dovuto all’utilizzo esclusivo di AstraZeneca” spiega Pegoraro. Peccato che le iniezioni, appena iniziate, siano anche state bloccate, visto il cambio di priorità deciso dalla Regione, che ha seguito l’anagrafe. Pensando a una vaccinazione a tappeto, non è stato adottato alcun criterio nel dare una precedenza agli uni o agli altri detenuti, un po’ come era avvenuto per il personale scolastico, escludendo giusto i negativizzati da meno di tre mesi e i contrari alla vaccinazione. È un mondo a parte Treviso dove, appunto, il direttore generale ha dimenticato di organizzare le vaccinazioni. E pronta è arrivata la denuncia della Funzione pubblica di Cgil, che ha scritto al governatore Zaia, all’assessora Lanzarin, al prefetto di Treviso e allo stesso Benazzi. “Il direttore generale afferma di essersi dimenticato di far vaccinare i servizi penitenziari e la polizia penitenziaria, ma si ritiene sereno sul campo vaccinale” scrivono Pegoraro e Franca Vanto, dicendosi al contrario allarmati, temendo che la situazione possa degenerare, come già avvenuto alcuni mesi fa nel carcere di Venezia, con l’esasperazione dei detenuti esternata in una veemente protesta. La campagna vaccinale, comunque, è iniziata in diverse regioni italiane. Lombardia compresa, come ha scoperto un paio di giorni fa Matteo Salvini, informato dal governatore del Lazio Nicola Zingaretti, a sua volta accusato dal leader del Carroccio di avere “privilegiato” i detenuti nella campagna vaccinale. Iniziata, sì, ma appena abbozzata. La campagna vaccinale nelle carceri venete per il momento ha coinvolto poco più di un decimo dei detenuti: meno di 300 su 2.500. Certo, alcuni erano stati esclusi perché già positivi, altri ancora hanno rifiutato la dose. Rimane una situazione che definire allarmante è un eufemismo. E allora è probabilmente anche a causa di questa situazione tanto precaria che nelle celle della nostra regione i contagi fanno ancora paura. Sta rientrando, ma rimane di dimensioni impressionanti, il focolaio divampato al Due Palazzi di Padova, con 74 detenuti positivi. Ora sono tutti asintomatici, ma nei giorni scorsi si erano registrati un paio di ricoveri. Ma il contagio riguarda anche otto persone del comparto sicurezza, due delle quali con sintomi. Si contano poi due casi nella casa circondariale di Padova, cinque nel carcere maschile di Venezia, due al femminile e al Prap, uno a Treviso, quattro a Rovigo e a Verona, uno a Vicenza. In questo scenario, le visite rimangono bloccate nelle carceri (praticamente tutte) in cui ci sia anche un solo contagio. I tamponi continuano a essere effettuati e, per le strutture, il ritorno “Covid free” è poco meno di un miraggio. “Dove non ci sono contagi, le visite stanno ricominciando, ma sempre attraverso un vetro. Non c’è alcun contatto fisico tra il detenuto e il parente” spiega Pegoraro. Le attività lavorative sono sospese. Il “bonus Covid” consiste invece in una video-chiamata in più a settimana. “I detenuti sono prossimi al limite e la tensione è alta anche tra il personale. Bisogna cambiare qualcosa, perché così sta diventando insostenibile”. È un carcere nel carcere. Melfi (Pz). “I nostri cari abbandonati in carcere-focolaio, aiutateli” di Rossella Grasso Il Riformista, 15 aprile 2021 L’appello dei familiari dei detenuti. “La situazione nel carcere di Melfi è davvero drammatica, aumentano i contagi Covid e noi non sappiamo nulla dei nostri padri, fratelli e mariti che sono lì detenuti”. È questo uno dei messaggi che le donne dei detenuti ristretti nel penitenziario della provincia di Potenza hanno inviato da Sicilia, Calabria e Puglia al garante dei detenuti del Comune di Napoli Pietro Ioia. Perché proprio a lui? Perché in Basilicata non esiste nessun garante dei detenuti a cui rivolgersi ma le pochissime notizie che arrivano dal carcere sono allarmanti e preoccupano moltissimo il gruppo di donne che ha deciso di chiedere a lui aiuto. Il numero dei detenuti contagiati è salito a 53 su una popolazione di 150, aumentano anche i contagi tra le guardie penitenziarie che sono state colpite dal virus in 5. Ma tra i parenti dei detenuti si parla di numeri ancora più alti, tra gli 80 e i 100 contagiati. “Abbiamo pochissime notizie dal carcere - dice la moglie di un detenuto - mio marito è stato contagiato e può videochiamarmi solo una volta a settimana, so pochissimo di cosa succede lì e di come sta e dal carcere non mi danno notizie”. “Non hanno assistenza adeguata, mancano medici e infermieri, non hanno nemmeno bombole d’ossigeno a sufficienza. I detenuti lì non hanno diritto a nulla, solo una doccia al giorno nemmeno troppo calda, non c’è un garante a cui possiamo rivolgerci e la direttrice è già cambiata 4 o 5 volte”, dice un’altra moglie. “Vi chiediamo aiuto perché alla parola ‘detenuto’ il diritto muore e non è giusto - dice la figlia di un detenuto siciliano - sono abbandonati e abbiamo paura che possano scoppiare nuove rivolte”. “Mio marito è risultato positivo al Covid e sta malissimo - dice un’altra donna - quando ha chiesto le medicine gli hanno detto che senza soldi non si cantano messe. Tutto ciò per il ritardo di un bonifico, cosa assurda. I nostri familiari non devono essere trattati come bestie, devono pagare ma non con la vita”. “La situazione è critica e nessuno ne parla - dice la sorella di un detenuto - Noi fratelli, sorelle, figli e mogli non vediamo i nostri cari da novembre, non sappiamo come sia stato possibile che il virus sia entrato in quel carcere ma nessuno aiuta i detenuti ammassati lì dentro”. Ogni donna racconta negli audio inviati a Pietro Ioia il suo dramma di sapere il proprio amato in pericolo senza poter fare nulla. “Spero che le nostre testimonianze servano a far sì che si faccia una verifica in quella casa circondariale e che i nostri detenuti abbiano i loro diritti”, dice un’altra figlia. “Mio zio è in carcere a Melfi positivo al Covid - continua una nipote - mi ha raccontato che non ci sono nemmeno tamponi per cui quando ha iniziato ad avere i sintomi gli hanno detto di assaggiare il dentifricio per sentire se aveva perso i sapori. E non può nemmeno chiamarci per dirci come sta. Credo che tutto questo sia ingiusto”. In questa situazione così pericolosamente esplosiva i familiari dei detenuti non sanno a chi appellarsi. “Queste donne non parlano di libertà, ma solo di diritti, di dignità dell’uomo recluso ed è questa che sta venendo meno nei nostri carceri. È questo il male puro del carcere - commenta Pietro Ioia - In un momento così drammatico in cui imperversa la pandemia, i detenuti possono essere lasciati così soli?”. E lancia l’appello al garante nazionale dei detenuti Mauro Palma affinché vada personalmente a controllare cosa sta succedendo a Melfi o che dia incarico a qualcuno di farlo. “Faccio appello alle istituzioni, anche al ministro Cartabia - continua Ioia - questo è un carcere abbandonato da Dio, tutti noi garanti dobbiamo fare rete e intervenire. Il consiglio regionale della Basilicata aveva approvato all’unanimità l’istituzione di un garante regionale in Basilicata ma attualmente ancora non esiste. Aiutiamo queste donne, aiutiamo i loro uomini, diamo dignità ai detenuti facciamo sì che possano scontare le loro pene non dignità”. A lanciare l’allarme sulla situazione del carcere di Melfi è anche l’Uil-Pa, sindacato di polizia penitenziaria che già nei giorni scorsi aveva denunciato lo stato in cui versa il penitenziario, afflitto dal Covid e senza copertura medica e dispositivi di protezione adeguati. Il segretario regionale Uil-Pa, Donato Sabia, racconta che nonostante il focolaio Covid, i medici sono presenti solo per parte della giornata e gli infermieri sono in grave affanno a cercare di assistere tutti al meglio facendo turni praticamente continuativi. Sul fronte Amministrazione Penitenziaria, la situazione non va meglio di quella sanitaria. “Il personale si sente abbandonato e frustrato, ancora privo di un Comandante nonostante le sollecitazioni delle OO.SS - scrive in una nota il segretario regionale Donato Sabia - Sia l’amministrazione Regionale sia quella Nazionale sono consapevoli della grave situazione gestionale a Melfi, ma nessuno prende di petto questa criticità”. “L’Amministrazione Penitenziaria regionale con sede a Bari, aveva tamponato la grave carenza di comando a Melfi, inviando in missione con autovettura di servizio, il Comandante della Casa Circondariale di Potenza per due volte a settimana. Da 10gg è assente per motivi personali e l’amministrazione non ha provveduto a una temporanea sostituzione - continua la nota - questo dimostra quanto attenzione hanno i nostri Dirigenti Generali, che occupano un posto manageriale e di responsabilità ma solo sulla carta”. “Forse è arrivato il momento di lasciare la poltrona a coloro che non scappano di fronte alla realtà e alle responsabilità - conclude la nota di Sabia - La Direzione della CC di Melfi, ha richiesto un minimo di sfollamento di detenuti al fine di avere degli spazi necessari per far fronte alle esigenze organizzative, al fine di separare i negativi dai positivi e da coloro che hanno la necessità di stare in quarantena per essere stato a contatto diretto con un positivo. Ancora oggi nulla di fatto! Così, sarà difficile spegnere questo focolaio tra le 4mura del carcere. Nessun segnale è giunto dalla classe politica”. Treviso. Tensione in carcere: “Immunizzate agenti e detenuti” di Serena De Salvador Il Gazzettino, 15 aprile 2021 “Abbiamo paura per la salute, nostra e dei detenuti, ma anche per il clima sempre più teso. L’universo carcerario ha bisogno dei vaccini, eppure Treviso sembra essere stata dimenticata da tutti”. Tra gli effetti dei ritardi della campagna vaccinale nella Marca vi è anche la crescente preoccupazione all’interno del carcere. Fra la Casa circondariale e l’istituto minorile sono circa 350 le persone che attendono ancora la prima dose: 160 tra agenti della Polizia penitenziaria e personale e almeno 200 detenuti. Il tutto a fronte di una situazione critica dal punto di vista dell’affollamento e della qualità delle strutture nota da decenni, che il Covid rischia di rendere esplosiva. Un solo caso di positività potrebbe far deflagrare un focolaio e l’attesa frustrata rischia di alimentare possibili rivolte. Per questo la segreteria locale di Sinappe (Sindacato nazionale autonomo di polizia penitenziaria), di concerto con la direzione della casa circondariale e quella del minorile, ha deciso di rivolgere un appello alla Prefettura e alla Usi. “In altri penitenziari le vaccinazioni sono cominciate. La maggior parte delle forze di polizia ha già avuto anche la seconda dose - spiega Roberto Greco. Noi invece aspettiamo ancora un incontro per capire come procedere. Internamente ci siamo organizzati in modo che, se anche ci fossero degli effetti collaterali, il servizio venga sempre garantito. Ma fino a quando non ci metteranno in lista è tutto inutile. Anche i solleciti da parte delle direzioni - che collaborano al massimo in questa fase- sono stati finora inutili. I detenuti sono soggetti fragili, tanti sono malati, le strutture sono vetuste e nonostante gli sforzi la promiscuità è inevitabile. Hanno paura che noi poliziotti possiamo portare all’interno il virus, il clima è sempre più pesante. Sono inoltre privati dei colloqui con i parenti, altro elemento che aumenta il malcontento. Rischiamo disordini e rivolte come quelli visti Io scorso anno in tante altre carceri. Potrebbe svilupparsi un focolaio pericolosissimo. Il problema è sia di gestione che sanitario. Per questo stiamo lavorando insieme per trovare una soluzione al più presto. Il via libera però deve venire dalle autorità, ma al momento non vediamo la luce in fondo al tunnel”. Sassari. Carcere, nel 2020 erogate solo sei ore di assistenza psichiatrica invece di quaranta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 aprile 2021 La denuncia della consigliera della Regione Sardegna del M5S Desirè Manca che, in una mozione ha riportato le criticità emerse nel sopralluogo a Bancali. Secondo le Linee Guida regionali, i detenuti con patologie psichiatriche hanno diritto di poter usufruire del servizio Psichiatria per quaranta ore a settimana. Ma attualmente, il monte ore effettivamente erogato si discosta notevolmente da quello indicato dalla Regione Sardegna. Basti pensare che nella Casa Circondariale di Bancali “G. Bacchiddu”: le ore prestate dai medici psichiatri nel 2018 ammontavano a diciotto e, nel 2020, soltanto a sei. Parliamo di una problematica che interessa particolarmente circa una quarantina di detenuti del carcere sassarese. A denunciare ciò è la consigliera del M5S Desirè Manca che, in una mozione ha riportato tutte le criticità emerse durante il sopralluogo effettuato dal Presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, Mario Perantoni, nell’istituto penitenziario di Bancali. “Ma la carenza di assistenza specialistica - sottolinea la pentastellata Desirè Manca - non è l’unica problematica riscontrata nel carcere sassarese. Infatti, ancor più grave e preoccupante appare la mancata attivazione delle Articolazioni di Tutela della Salute Mentale e dei Reparti Detentivi Ospedalieri presso i nosocomi, in particolare quelli turritani, con le immaginabili e particolarmente allarmanti conseguenze per la tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico”. La mozione a prima firma Manca impegna il Presidente Solinas, la Giunta e l’assessore alla Sanità Nieddu a adottare tutti i provvedimenti necessari ad assicurare l’attivazione delle Articolazioni di Tutela della Salute Mentale e dei Reparti Detentivi Ospedalieri, e la corretta applicazione delle Linee Guida della Regione Autonoma Sardegna sulla Sanità Penitenziaria. “La Regione ha il dovere di garantire il diritto alla salute anche ai detenuti - continua la consigliera - e allo stesso tempo di garantire a tutti coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari di poterlo fare in totale sicurezza. A questo proposito sono state numerose le segnalazioni e i solleciti da parte del Provveditorato, e delle Prefetture, tuttavia, non ci risulta siano stati adottati provvedimenti finalizzati a porre rimedio a questa grave carenza, né da parte della Regione né da parte di ATS”. La consigliera Manca, aggiunge che bisogna considerare il fatto che nella regione Sardegna sono presenti detenuti appartenenti ai circuiti di Alta Sicurezza e 41bis. “Appare evidente come l’assenza di una adeguata cura e di una adeguata assistenza sanitaria, psicologica e psichiatrica, comporti inevitabilmente dei rischi per l’incolumità degli stessi detenuti e di quanti lavorano nelle carceri. Rischi - conclude Desirè Manca - che non possono continuare ad essere ignorati”. Ricordiamo che tutte queste criticità, e altre ancora, sono state più volte segnalate dal garante nazionale delle persone private della libertà tramite le sue osservazioni inviate al Dap e ministero della giustizia. Già nel 2017, in un Rapporto inviato all’Amministrazione penitenziaria dopo una visita regionale in Sardegna e successivamente pubblicato sul sito, il Garante aveva evidenziato “l’esigenza di avere nella Regione almeno un servizio di assistenza intensiva (Sai) in grado, in base alle caratteristiche strutturali, di proporre assistenza sanitaria ospedalizzata, seppure per brevi periodi, alle persone detenute in regime di alta sicurezza o in regime speciale ex articolo 41bis o.p.”. Bologna. Rivolta al carcere della Dozza: 49 detenuti rinviati a giudizio bolognatoday.it, 15 aprile 2021 Sono accusati di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, danneggiamento aggravato e tentata evasione. Su richiesta del sostituto procuratore, Elena Caruso, 49 detenuti del carcere della Dozza, coinvolti nella rivolta del marzo del 2020, sono accusati, a vario titolo, di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, danneggiamento aggravato e tentata evasione e sono stati rinviati a giudizio. Come riferisce Adnkronos, otto sono ritenuti responsabili di essere stati gli istigatori dei disordini perché “Incitavano i detenuti, non identificati, che hanno distrutto le plafoniere dei neon nel corridoio della sezione 3D” - scrive la Procura - “urlando frasi come ‘Libertà, ora distruggiamo tutto, siete tutti pezzi di m...’. Tutti sono accusati anche di distruzione di mobili e altri oggetti e di violenze e aggressioni nei confronti degli agenti di Polizia penitenziaria. Due agenti sono indicati come parti offese per i traumi. Seguendo a ruota Salerno, Modena, Poggio Reale e Foggia, alla Dozza la “miccia” si accese il 9 marzo del 2020, quando erano stati bruciati dei materassi, mentre alcuni detenuti erano riusciti a occupare alcune sezioni della struttura. Alla base delle mobilitazioni, le restrizioni adottate per cercare di evitare la diffusione del Coronavirus. Un 29enne perse la vita. Genova. Continua la protesta rumorosa dei detenuti nel carcere di Marassi Il Secolo XIX, 15 aprile 2021 I detenuti chiedono più ore d’aria al giorno e più telefonate. Non si placa la protesta dei detenuti del carcere di Marassi. Alle 18:30 hanno iniziato a manifestare sbattendo contro le inferriate e facendo rumore. I detenuti, secondo quanto si apprende, chiedono più ore d’aria al giorno e più telefonate. “La protesta è stata sospesa quando il direttore ha cercato una mediazione - spiega Michele Lorenzo del sindacato di polizia Sappe - ma verso le 20.30 i detenuti hanno ripreso la manifestazione”. Lorenzo conclude: “Come sindacato continuiamo a ribadire il concetto che la forza di polizia, che opera all’interno delle carceri di tutta la Liguria, deve essere con un organico sufficiente per arginare qualsiasi forma di intervento che destabilizzi la sicurezza. È il compito della polizia penitenziaria e non può essere sottovalutato”. Foggia. Suicidio in carcere, Tarantino il giorno prima della morte aveva cambiato cella immediato.net, 15 aprile 2021 Sodrio, avvocato della famiglia del detenuto presunto morto suicida: “Com’è possibile che una persona sotto sorveglianza h24 abbia avuto il tempo di impiccarsi?”. Si è svolta martedì 13 aprile l’autopsia sul cadavere di Gerardo Tarantino, il presunto assassino di Tiziana Gentile, morto suicida nel carcere di Foggia il 3 aprile scorso, alla vigilia di Pasqua. Per gli indagati non c’erano consulenti medico-legali, mentre hanno proceduto agli esami Luigi Cipolloni nominato dalla pm Laura Simeone e Antonio Caricato, nominato dai parenti di Tarantino. I risultati definitivi si conosceranno solo tra sessanta giorni, ma abbiamo sentito l’avvocato Michele Sodrio, che difende i familiari del detenuto suicida, per sapere se già ora vi sono emersi elementi interessanti: “Con le indagini in corso posso solo dire che dai primi accertamenti i nostri dubbi sulla morte di Gerardo Tarantino sono addirittura aumentati. Nei prossimi giorni i consulenti si rivedranno per analizzare i reperti istologici e solo così potremo avere una conferma definitiva che il detenuto sia morto soffocato. Ma anche in tal caso, restano al momento senza risposta tutte le nostre domande. In particolare: com’è possibile che una persona sotto sorveglianza h24 abbia avuto il tempo di impiccarsi? Con cosa si sarebbe impiccato? Perché proprio il giorno prima era stato spostato da una cella dove si trovava con altri detenuti ad una cella senza nessun altro? Vi sono poi altri particolari a mio parere inquietanti che potrebbero emergere da quanto visionato dai due medici legali, ma al momento non posso dire altro per rispetto del segreto istruttorio. Posso solo aggiungere che ho chiesto espressamente al pm di consentire al suo ed al nostro consulente di visionare l’oggetto con il quale Tarantino si sarebbe impiccato, oggetto al momento per noi sconosciuto. Questo per dare la possibilità ai consulenti di confrontare la struttura di questa corda o lenzuolo o cos’altro, con i segni rinvenuti sul collo del cadavere. Al momento restano molti dubbi e nessuna risposta certa. Ma i miei clienti sono assolutamente determinati ad andare fino in fondo ed io sarò al loro fianco con tutto l’impegno possibile”. Modena. Carcere, il nuovo “Clepa” al lavoro per il reinserimento comune.modena.it, 15 aprile 2021 “Attivi i Tavoli tematici e tante le associazioni disponibili a collaborare ad attività per i detenuti”: l’assessora Pinelli ha risposto a un’interrogazione di Reggiani del Pd. La nuova composizione del Clepa di Modena, il Comitato Locale per l’area dell’esecuzione penale adulti, è già stata attuata in base al nuovo Protocollo tra Ministero della Giustizia e Regione, con attività diversificate funzionalmente per il carcere di Modena e la casa lavoro di Castelfranco Emilia. Da gennaio sono stati istituiti inoltre i Tavoli tematici, recependo pure le istanze provenienti dal mondo del volontariato, anche se la pandemia ha imposto un rallentamento generale delle attività per i detenuti all’interno delle strutture. Lo ha spiegato l’assessora alle Politiche sociali Roberta Pinelli rispondendo nel Consiglio comunale di lunedì 12 aprile a un’interrogazione di Vittorio Reggiani del Pd. Il consigliere ha sottolineato che la nuova composizione del Clepa ha lo scopo di “migliorare le attività di supporto a formazione, orientamento e reinserimento lavorativo; inoltre, la costituzione dei tavoli tematici a cui potranno partecipare diversi settori dell’amministrazione è il proseguimento di un lavoro che cerca di riportare il carcere e l’esecuzione penale tra i temi di interesse per proporre il carcere come soggetto che fa parte del tessuto cittadino”. L’istanza chiedeva quindi informazioni sul percorso e sui programmi del 2021; su iniziative per sensibilizzare la cittadinanza sui temi della pena e per trovare nuovi partner nelle attività; chiedeva inoltre come siano i rapporti con la casa circondariale di Modena e quali attività siano svolte o in programma per il personale che opera in carcere. L’assessora Pinelli ha precisato che “oggi a Sant’Anna sono presenti 182 detenuti a fronte di una capienza di oltre 400; a Castelfranco gli internati sono 78 per una capienza di 206. A Modena, in particolare, dopo la rivolta si stanno rimettendo in sesto le strutture e non tutte le attività sono potute ripartire, come il laboratorio di cucina per le detenute donne. Altre attività sono riprese, come lo Sportello informativo, lo Sportello dimittendi, Sportello nuovi giunti e i Progetti finalizzati al miglioramento della vita negli istituti. Nei mesi scorsi, sono stati aperti due sportelli nuovi: recependo una richiesta proveniente dal carcere, col supporto dei Caf locali è stato attivato appunto un Caf, disponibile una volta a settimana grazie all’impegno delle organizzazioni sindacali; inoltre, vista l’assenza di uno sportello anagrafico, di concerto con l’assessorato ai Servizi demografici, sono state definite le modalità attraverso cui i volontari in carcere possano ottenere i documenti per conto dei detenuti. L’assessora ha poi definito “ottimi” i rapporti di collaborazione del Comune di Modena, che gestisce le risorse regionali destinate ad attività rivolte ai detenuti, col carcere di Modena (così come con quello di Castelfranco) facendo però presente che negli ultimi due anni la struttura ha visto succedersi tre direttori. Ed ha ricordato le tante associazioni disponibili a collaborare, come il gruppo Carcere-città, l’associazione Milinda che lavora con gli stranieri, l’associazione Porta aperta al carcere, il Teatro dei venti e associazioni sportive. “Anche attraverso queste associazioni - ha sottolineato l’assessora - si opera a favore dei detenuti, senza dimenticare che da anni all’interno della struttura è presente una sezione dell’istituto professionale Corni e una scuola di alfabetizzazione”. Inoltre, con un avviso pubblico regionale per la selezione di partner del Terzo settore per la co-progettazione di azioni tese a favorire il reinserimento socio-lavorativo prenderà il via anche il coordinamento dell’Equipe esecuzione penale, prevista dal progetto Territori per il reinserimento. Il progetto in questione, a cui il Settore Politiche sociali parteciperà, ha tra gli obiettivi la ricerca di partner in grado di sostenere, anche attraverso finanziamenti dedicati, i percorsi di rientro e reinserimento sociale. In sede di replica, il consigliere Reggiani ha precisato che “l’obiettivo dell’interrogazione era quello di riportare il carcere di Sant’Anna all’attenzione del Consiglio comunale e della città: è un pezzo importante di Modena che, se non viene tenuto nella giusta considerazione, rischia di rimanere ai margini della società”, ha sottolineando, inoltre “il valore di uno strumento come il Clepa che ha la potenzialità per mettere a sistema i diversi soggetti che operano a favore del carcere e con lo stesso istituto penitenziario, anche col supporto del tessuto cittadino. Le proposte di costituire, all’interno del Clepa, tre tavoli tematici che parlano della vita all’interno del carcere, del lavoro e della formazione e della ‘Città sicura’ sono appunto finalizzate a incrementare l’inclusività”. Catania. “Work Center”. Protocollo d’intesa fra carcere piazza Lanza, Udepe e Apimic La Sicilia, 15 aprile 2021 Così si garantisce un futuro a detenuti ed ex reclusi Vede la luce il protocollo d’intesa che attiva il “Work Center” e che è stato sottoscritto fra il direttore della casa circondariale di piazza Lanza, Elisabetta Zito, il direttore reggente dell’Udepe (Ufficio distrettuale esecuzione penale esterna) di Catania, Antonio Gelardi, e l’Agenzia Lavoro Sicilia Apimic, diretta da Santo Milici. Lo sportello in questione, perché di questo si tratta, si occuperà di redigere curriculum vitae e bilancio di competenze; ricercare un lavoro e quindi un’alternativa alla popolazione detenuta ed ex-detenuta; fornire ai reclusi la possibilità di apprendere un’attività lavorativa (tirocini, etc.); garantire informazione e formazione per la creazione di imprese e attività formative; informare e sensibilizzare le aziende e piccole medie e imprese degli sgravi fiscali previsti per le assunzioni. L’iniziativa, in particolar modo, intende tutelare il diritto al lavoro dei detenuti e coloro i quali sono sottoposti a misure cautelari con particolare attenzione al mondo femminile. Il lavoro, del resto, è fondamentale come mezzo di risocializzazione, oltre che come fonte di sostegno lecito: rappresenta un forte punto di partenza per un detenuto ed ex-detenuto, che laddove fallisce nella ricerca viene a trovarsi nella condizione di commettere nuovi reati. II Work Center intende colmare il gap tra domanda e offerta di lavoro per un efficace reinserimento in società dei detenuti. Allo stesso tempo, gli utenti potranno contare sul sostegno degli educatori ed orientatori nella redazione dei curriculum e nella ricerca dell’attività lavorativa più idonea. Da parte delle aziende invece, i vantaggi risiedono nella possibilità di formare direttamente i potenziali dipendenti e di beneficiare di sgravi fiscali non indifferenti. In tal modo, si ridurrebbero i tempi di ricerca all’esterno del carcere e il rischio di reiterazione di azioni illegali. In particolar modo, sono stati individuati alcuni settori che soffrono particolarmente la carenza di domanda di lavoro. La cultura al lavoro è leva fondamentale per la riabilitazione di persone detenute, e va sostenuta con iniziative a diversi livelli: in primo luogo fornendo informazioni, quindi coinvolgendolo nella riprogettazione del sé in un’ottica della legalità. Lo Sportello è il primo “caso” nelle aree del Mezzogiorno. II progetto, interamente autofinanziato dall’Associazione no-profit Apimic, è stata fortemente seguito da Giuseppe Avelli (Casa Circondariale) e Barbara Murabito (Udepe Catania) Per contattare il Work center si può scrivere ad agenzialavorosicilia@gmail.com oppure tel. 095434310. Sondrio. Dante in carcere, i detenuti studiano il Sommo Poeta valnews.it, 15 aprile 2021 Nel 700esimo anniversario dalla morte di Dante Alighieri, su impulso della direttrice del carcere di Sondrio Carla Santandrea, i detenuti stanno partecipando ad un’attività laboratoriale dedicata proprio al Sommo Poeta. “Ho ritenuto importante riattivare - sostiene Santandrea - anche se non in presenza, alcuni percorsi destinati ai detenuti per evitare di aggravare una situazione di isolamento e solitudine cui si è costretti per la pandemia”. In particolare la professoressa Fausta Messa ha tenuto una serie di incontri sulla conoscenza nel laboratorio di letteratura che per la pandemia si è svolto on line. Il primo modulo del laboratorio è stato dedicato a Dante Alighieri. È stata privilegiata la lettura di alcuni passi della Divina Commedia, con qualche excursus ne La vita nova e nel Convivio. “Siamo partiti dall’esperienza umanissima di Dante - aggiunge Messa - smarrito nella selva oscura, disperato e depresso, nei suoi 35 anni, un’età molto vicina a quella dei partecipanti al laboratorio. La condizione di Dante uomo ha stimolato la riflessione e un confronto di esperienze. L’incontro con Virgilio ha permesso di ragionare sul valore salvifico della cultura, sulla fiducia e sulla speranza nella possibilità di riscatto. La lettura del V canto dell’Inferno ha stimolato la discussione sul tema dell’amore-passione, della fedeltà agli impegni, del rapporto uomo-donna e del femminicidio”. Tutti i partecipanti hanno collaborato attivamente alla discussione con apporti personali, dimostrando grande interesse per il significato profondamente umano sotteso all’allegoria del racconto dantesco. “Ha colpito molto - conclude la professoressa - la comprensione di Dante per le fragilità umane, ma anche la sua fermezza nella condanna del male e nella convinzione che il destino dell’uomo sia il raggiungimento della felicità, cioè della conoscenza del bene”. Andrea Soldi, ucciso durante un Tso: il suo diario è diventato un libro di Tommaso Pellizzari Corriere della Sera, 15 aprile 2021 Prezioso, non solo per chi gli ha voluto bene. L’uomo di 45 anni, morto a Torino nel 2015 per l’eccesso di violenza durante un intervento per un Trattamento sanitario obbligatorio, aveva scritto della sua schizofrenia. Il padre Renato ha ritrovato i fogli, un giornalista li ha fatti pubblicare. E anche gli psichiatri hanno scoperto un mondo. Piazza Umbria, Torino, 5 agosto 2015. Il barelliere-autista di un’ambulanza chiama la centrale del 118 per spiegare che cosa è successo con Andrea Soldi, un uomo di 45 anni che doveva essere prelevato e trasferito in ospedale, dove sarebbe stato sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio. Ma in ospedale arriverà morto. Questo però il barelliere che sta chiamando il 118 non lo sa. Sa però che l’intervento di medici e forze dell’ordine è stato troppo violento, contro una persona che di violento non aveva nulla. Andrea Soldi era seduto su una panchina e ogni tanto ululava per colpa della sua schizofrenia e perché da qualche giorno si rifiutava di prendere i farmaci che la tenevano a bada. Ieri, quasi sei anni dopo quel giorno, a questa storia che ci racconterà Giusi Fasano, si è aggiunta una nuova puntata: l’uscita di un libro (“Noi due siamo uno”, scritto dal giornalista Matteo Spicuglia e pubblicato da Add) che raccoglie gli scritti di Andrea, ritrovati dal padre Renato e che per alcuni psichiatri sono di grande importanza per la comprensione della schizofrenia. Oltre, naturalmente, al valore affettivo per il papà e la sorella Cristina. La nuova e inattesa sovranità: così torna lo Stato nazionale di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 15 aprile 2021 La pandemia ha reso evidente la crisi della globalizzazione e ha rilegittimato l’organizzazione dei poteri pubblici e il loro intervento nella sfera sociale. Con gli effetti che produce nella realtà delle cose e nelle mentalità delle persone la pandemia, che da tempo imperversa nel mondo, sta contribuendo potentemente a rendere evidente anche la crisi della globalizzazione. La crisi cioè - se non forse la fine - di quella fase storica che per almeno un trentennio ha dominato la realtà economica e ideologica del nostro pianeta. Sono almeno tre i fattori che stanno segnando la probabile fine del ciclo storico apertosi negli anni 80 del secolo scorso. Il primo fattore è la definitiva frantumazione dell’ordine internazionale uscito dalla fine “guerra fredda” (1991). Nel declino dell’egemonia americana che allora raggiunse il suo culmine, nuove potenze mondiali e regionali si sono fatte prepotentemente avanti dappertutto - Cina, Russia, Turchia, Iran, India - e altre minori premono in cerca di spazio. Tutte mirano a crearsi zone d’influenza, cercano di espandersi, suscitano conflitti, alterano equilibri, sempre seguendo il proprio esclusivo interesse e infischiandosene di ogni norma, accordo o status quo precedenti. Né d’altro canto la globalizzazione sembra avere prodotto alcuna apprezzabile diffusione della democrazia, mentre il mito della pace - tanto più se “mondiale” - si rivela sempre più un mito. Anche il secondo fondamento della globalizzazione, il libero scambio - che ebbe il suo simbolo nell’ammissione della Cina comunista nell’ Organizzazione del Commercio Mondiale nel 2001 - ha perduto buona parte del suo consenso. Il libero scambio, infatti, ha determinato sì la crescita economica di alcuni Paesi (molto probabilmente però a scapito di quella di altri), ma ha mostrato un drammatico punto debole. Anzi due. Innanzi tutto dietro il suo schermo e grazie ad esso ha potuto prendere forma l’inquietante progetto di Pechino volto a impadronirsi di punti geografici chiave, di risorse e di tecnologia strategiche dell’economia mondiale, al fine di costruire la propria egemonia planetaria. Così come del resto, bisogna aggiungere, ogni Paese ha cercato in realtà di far girare le cose a proprio esclusivo vantaggio. In secondo luogo, proprio durante la pandemia si è visto quanto aleatorio sia quell’assioma a fondamento del libero scambio secondo il quale la proprietà e la localizzazione geografica delle produzioni sarebbe del tutto irrilevante perché a contare sarebbe solo il loro costo. Ma oggi ci accorgiamo che proprio su questo punto è lecito nutrire più di un dubbio: davvero non ha alcuna importanza, ad esempio, che una fabbrica, mettiamo di vaccini o di mascherine, si trovi in Italia o chissà dove? Che essere in grado o no di produrre in casa propria certi dispositivi elettronici sia indifferente? Il terzo elemento che induce a pensare che stia finendo il tempo della globalizzazione riguarda il ruolo dello Stato, che la globalizzazione stessa prevedeva e auspicava avviato al declino. Discutibile o meno che sia l’auspicio quel che è certo è che almeno la previsione non si sta rivelando azzeccata. Infatti l’arrivo dei tempi difficili portati dall’epidemia ha obbligato tutti a rivolgersi allo Stato: per sperare di essere curati, per avere indicazioni su che cosa fare, per ottenere aiuti di ogni tipo, per immaginare un rilancio dello sviluppo economico. Sotto gli occhi increduli di molti lo Stato, l’organizzazione dei pubblici poteri, il loro intervento nella sfera sociale, stanno oggi ricevendo in Occidente una fortissima rilegittimazione ideologica da cui sembra assai difficile che domani si possa tornare indietro. Tanto più che, sopraggiunta l’emergenza, l’intera trama del multilateralismo e delle organizzazioni internazionali - in particolare quella di nostro maggiore interesse, l’Unione Europea - non hanno mostrato certo né una grande efficienza né un alto tasso di compattezza e di solidarietà. Come punto di riferimento è rimasto in piedi bene o male solo lo Stato: e non dispiaccia a nessuno se per Stato s’intende ovviamente lo Stato nazionale. Se le cose fin qui dette sono vere esse significano un fatto molto importante: la riproposizione con forza del tema della sovranità e del suo ovvio intreccio con la politica. Il tema cioè della capacità propria dello Stato di esercitare il potere al servizio di un progetto collettivo. Un potere che può trovare un limite solo in forza di una propria autonoma decisione: un potere sovrano dello Stato nazionale che nei regimi democratici come il nostro equivale alla sovranità del popolo, fonte attraverso i suoi rappresentanti di tutte le decisioni e azioni dello Stato stesso. Un tale cambiamento di prospettiva non può che avere conseguenze positive sulla discussione politica italiana, negli ultimi anni avvitatasi in maniera in buona parte surrettizia proprio intorno al tema della sovranità. Con il centro-sinistra rivolto a sottolineare la positività di qualunque cessione o esercizio attenuato della sovranità da parte dell’Italia - quasi si trattasse di chissà quale manifestazione di una superiore civiltà - e la destra invece belluinamente contro, intendendosela con i peggiori impresentabili della scena europea e perciò attirandosi l’accusa di “sovranismo”: che ormai nel lessico del perbenismo ideologico suona più o meno come sinonimo di nazismo. Ma i tempi suggeriscono di convincersi che ormai non è più questione di sovranismo no o sovranismo sì. È questione solo di sovranità. Che oggi più che mai appare necessario riformulare per gli anni che abbiamo davanti un ruolo attivo e propulsivo a tutto campo dello Stato nazionale e della sua volontà politica. Ciò che per un verso rende urgentissima la riforma di tutte le sue amministrazioni e l’opposizione più decisa alla frantumazione regionalistica, e per un altro ci deve spingere a mantenere saldamente tutti i nostri legami europei e atlantici ma mantenendo fermo un presupposto che non sempre in passato abbiamo tenuto presente. E cioè che venga rispettata in maniera rigorosa una condizione di eguaglianza e di reciprocità: senza puntigliosità ragionieristiche ma con un’avveduta risolutezza. Poeti, santi, navigatori e complottisti. Italiani sempre affascinati dall’intrigo di Paolo Delgado Il Dubbio, 15 aprile 2021 L’ultima boutade riguarda la fine del Conte bis. Ma teorie creative accompagnano la storia d’Italia da decenni: da Piazza Fontana a via D’Amelio, passando per il caso Moro. La caduta del governo Conte? Interessi internazionali. L’impennata dello spread che travolse Berlusconi dopo 25 anni di centralità assoluta nella politica italiana? Una manovra orchestrata dall’Europa. Tangentopoli? Una resa dei conti guidata dagli americani che non avevano mai chiuso il conto in sospeso con Craxi e Andreotti per la loro politica filoaraba. La strage di via D’Amelio e l’uccisione di Paolo Borsellino? Un crimine sanguinoso deciso da una parte dello Stato per coprire la trattativa intavolata con qualche corleonese di spicco. Il sequestro Moro? Frutto di un piano diabolico per fermare l’amoroso abbraccio tra Moro e Berlinguer, cambiando così per intero la storia d’Italia da quel momento in poi. La strage di piazza Fontana? L’avvio fragoroso di un progetto che forse mirava al golpe, forse solo al condizionare la politica italiana: comunque tassello centralissimo di un progetto lucido e feroce. Ma anche senza procedere caso per caso, basta sussurrare ‘P2’, per chiarire che niente, nella storia d’Italia nell’ultimo scorcio del secolo scorso, è successo per caso, per coincidenza, per l’intreccio di scelte diverse, nulla è stato quel che sembrava e agli occhi degli ingenuotti ancora sembra. C’era dietro qualcosa, anzi qualcuno ma si commetta l’errore di pensare che quei pupari incappucciati fossero, almeno loro, la causa prima, la fonte delle trame. È evidente che dietro quelli che stavano dietro doveva esserci qualcuno di ancora più misterioso. Non si esaurisce qui, con questa succinta e incompleta rassegna delle trame subodorate dalla sinistra in Italia, il dizionario enciclopedico dei complotti sospettati, presunti, immaginati ma per ciò stesso considerati verità rivelata senza bisogno di prove ulteriori. C’è tutto un versante, di solito in voga più a destra che a sinistra, che quanto a fantasie allucinate supera quello della sinistra e che si è dispiegato con fasto trionfale grazie alla pandemia. Qui i complotti sono più contorti, più surreali ma in un certo senso anche più tradizionali. Che si tratti dell’eterno Soros, ultima incarnazione del ‘ perfido ebreo’, o della congiura pedofila mondiale di cui sono certi i seguaci di QAnon, il modello è sempre quello fissato una volta per tutte all’inizio del secolo scorso dai falsi Protocolli dei savi di Sion, scritti in realtà dalla polizia zarista. Con la sua visione di una ragnatela tessuta intorno all’intero mondo dai cospiratori ebrei decisi a dominarlo, quella fantasia ha fatto danni enormi, ha contribuito a far sbocciare la furia genocida nazista e tuttavia, oggi, è meno subdola. I suoi tratti sono troppo evidentemente irreali per costituire una narrazione credibile per una vasta area della popolazione se non per la maggioranza. La mania ‘dietrologica’ della sinistra italiana è più sobria. Parte di solito da elementi reali o almeno realistici, appare dunque molto meno delirante di quelle modello QAnon. È probabile che Washington, dopo il cambio di amministrazione, fosse davvero preoccupata per le eccessive aperture dell’Italia di Conte a Russia e Cina ed è sicuro che, caduto il Muro, qualche sospeso con l’Italia per Washington era arrivato al saldo. La Ue era davvero stanca di Berlusconi nel 2011 e nella strategia della tensione degli anni ‘70 c’azzecca davvero l’uso che una parte di servizi segreti voleva fare dei neofascisti di allora. Su questi elementi veri o possibili, la mania italiana del complotto costruisce però cattedrali nelle quali l’ipotesi diventa automaticamente certezza, la possibilità prova definitiva, il probabile auspicio regia. I dubbi sul sequestro Moro si trasformano in garanzia dell’esistenza della cospirazione, la possibilità che i servizi segreti abbiano quanto meno cercato di rallentare le ricerche, mai provata ma almeno plausibile, diventa elemento probatorio del loro coinvolgimento diretto, il solo fatto che qualcuno certamente auspicasse la fine del dialogo tra Dc e Pci vale da solo a fare di quel non meglio identificato ‘qualcuno’ il regista dell’operazione. Il modello del caso Moro potrebbe essere riapplicato a tutti i presunti complotti che costellano la storia recente. La costruzione fantastica, infine, è impermeabile alle smentite della realtà. Poco importa che fra tutti i brigatisti rossi implicati nel sequestro Moro Mario Moretti sia l’unico ancora in carcere, dunque non sospettabile di essere stato al soldo di una parte torbida dello Stato. Siccome senza la complicità di Moretti non è immaginabile una eterodirezione del rapimento del leader Dc, Moretti deve essere per forza un uomo dei servizi anche se nulla conferma l’ipotesi e tutto la smentisce All’origine di questa tendenza ormai tracimata non c’è solo l’antica diffidenza italiana, la convinzione sedicente astuta che tutto sia sempre diverso da quel che sembra. Ci sono alcune fonti nobili: la teoria del ‘doppio Stato’ dello storico Franco De Felice, che aveva una sua dignità ben superiore alla vulgata che ne è poi derivata, e la famosa poesia di Pasolini “Io so anche se non ho le prove”. Quella poesia, diventata poi sciagurato senso comune, si basava a propria volta su un dato di realtà: la necessità per ogni Stato di nascondere sempre qualcosa, come nel caso dei riscatti per i sequestrati all’estero che si possono pagare e vengono pagati ma solo negando di averlo fatto, e una serie di manovre grossolane messe in opera agli apparati dello Stato agli albori dell’ondata complottista, all’inizio degli anni 70, quando per nascondere peccati veniali, come l’uso dei fascisti da parte dei servizi segreti, si accreditò il sospetto di ben altri coinvolgimenti. Il danno che ne è derivato è enorme. Un Paese non può fare i conti con la propria storia se è convinto di non conoscere la verità di quella storia e si condanna quindi a non poter mai elaborare e superare il passato. Un Paese non può avere alcuna fiducia in una classe dirigente e in uno Stato che immagina perennemente impegnato in manovre o trame oscure. La potenza esiziale della follia complottista e dietrologica è molto più massiccia di quanto non appaia. Con la trovata del governo Conte abbattuta da un intrigo internazionale Bettini ha aggiunto il suo mattoncino al torvo edificio. Purtroppo non sarà l’ultimo. Quelle morti poco chiare all’interno dei Centri per i rimpatri dei migranti di Gaetano De Monte Il Domani, 15 aprile 2021 Cinque morti sospette negli ultimi due anni. Condizioni materiali e sanitarie indecenti. Numerosi fatti di violenza. Le proteste e le ribellioni degli ospiti. Il Garante dei detenuti accusa, il Viminale rassicura. Cinque persone straniere sono morte in circostanze poco chiare negli ultimi due anni nei Centri di permanenza per i rimpatri. Vakhtang Enukidze era uno di loro, il più vecchio, un cittadino georgiano di 38 anni che è deceduto all’ospedale di Gorizia il 18 gennaio 2020. Come si ricorderà, accadde che l’uomo, in seguito a una rissa scoppiata all’interno della struttura di Gradisca D’Isonzo, era stato portato prima in carcere e, dopo un giorno e mezzo di reclusione di nuovo trasferito all’interno del Centro per i rimpatri. Qui dentro aveva ripreso a star male e, successivamente, era stato trasferito in ospedale, dove il 18 gennaio, poi, era deceduto. Cause da chiarire - L’uomo morirà qualche ora dopo per le conseguenze di un edema polmonare, come stabilì l’autopsia. Su quell’episodio, però, continuano ad addensarsi delle ombre. Così come sulle altre storie di violenza accadute all’interno dei centri per i rimpatri negli ultimi due anni. Sei mesi dopo, il 14 luglio, un altro decesso avviene all’interno di Gradisca d’Isonzo. Stavolta, si tratta di un cittadino albanese che vi era entrato soltanto sei giorni prima, il quale viene trovato riverso in stato di incoscienza all’interno della cella di isolamento. L’estate precedente era stata la volta di Harry, ventenne nigeriano con disturbi psichiatrici che si era tolto la vita impiccandosi all’interno del Cpr di Brindisi-Restinco. E ancora: un cittadino bengalese di 32 anni fu trovato morto negli stessi giorni “per cause naturali” dopo aver trascorso 15 giorni in isolamento nel Cpr di Corso Brunelleschi, a Torino. Infine, Aymen, un cittadino tunisino di 32 anni anche lui morto per cause naturali, come aveva stabilito il medico legale che lo aveva visitato dopo il decesso avvenuto all’interno del Cpr di Caltanissetta il 12 gennaio del 2020. “In relazione a tutte queste vicende, il Garante nazionale ha inviato alla Procura della Repubblica competente una nota di richiesta informazioni in veste di persona offesa; in due casi il Garante ha, altresì, nominato un proprio difensore e un proprio consulente tecnico per gli accertamenti in sede di esame autoptico”, si legge nel report che è stato pubblicato il 12 Aprile dall’ufficio del Garante nazionale per i detenuti, Mauro Palma. Migranti confinati - Il documento è l’esito delle visite che Palma ha condotto per gli anni 2019 e 2020 nei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Bari, Brindisi-Restinco, Caltanissetta-Pian del Lago, Gradisca d’Isonzo, Macomer, Milano, Roma-Ponte Galeria, Torino, Palazzo San Gervasio-Potenza, Trapani-Milo. Al termine delle quali è stato evidenziato, nel complesso: “l’evidente e incontrovertibile scarsa efficacia del sistema che, in linea con le precedenti annualità, anche nel 2019 ha visto realizzarsi l’effettivo rimpatrio di meno del 50 per cento delle persone trattenute”. Basti pensare che nel 2019 su un totale di 6172 persone transitate nei Cpr quelle effettivamente rimpatriate ammontano a 2992. Secondo il Garante: “in spregio ai fini per cui la privazione della libertà dei cittadini stranieri è prevista dai principi fondamentali dell’ordinamento, la detenzione amministrativa assume nella prassi prevalentemente i tratti di un meccanismo di marginalità sociale, confino e sottrazione temporanea allo sguardo della collettività di persone che le Autorità non intendono includere, ma che al tempo stesso non riescono nemmeno ad allontanare”. Parole dure, come pietre, quelle messo nero su bianco da Mauro Palma, suffragate dalla descrizione dei fatti; degli episodi di violenza che si sono succeduti negli ultimi due anni nei Cpr e, dalle condizioni materiali e di sospensione giuridica in cui si trovano i migranti trattenuti al loro interno. Diritti violati - “Manifestazioni di protesta, ribellioni e danneggiamenti alle strutture si sono succeduti senza sosta; inoltre, mai come in passato, si è verificato un numero così elevato di eventi tragici: tra giugno 2019 e luglio 2020, cinque cittadini stranieri hanno perso la vita mentre scontavano una misura di detenzione amministrativa”. Si rileva nel report del Garante: “appare difficile non considerare tale serie di eventi infausti quantomeno il sintomo di realtà detentive gravemente e fisiologicamente problematiche non sempre in grado di proteggere e tutelare la sicurezza e la vita delle persone poste sotto custodia”. L’ultimo fatto di violenza, in ordine cronologico, si è verificato due giorni fa, l’11 aprile, all’interno del Centro di permanenza per i rimpatri di via Corelli, a Milano, dove tre migranti si sono feriti lanciandosi dal tetto per protesta e sono stati soccorsi e portati in ospedale. Tutte le strutture visitate presentano grosse problematiche in relazione alle condizioni igieniche e materiali, secondo Mauro Palma, il quale quando ha visitato il Cpr di Caltanissetta a fine novembre del 2019, ad esempio, ha riferito che i padiglioni abitativi e i bagni erano privi di vetri alle finestre e che a fronte di un totale di 72 persone presenti, gli stessi servizi igienici presentavano due sole docce funzionanti, una per padiglione, sulle otto disponibili. Non solo. “I materassi di gommapiuma erano umidi, oltre che notevolmente usurati, sporchi e recanti tracce di muffa”. Più in generale, ha rilevato ancora Palma: “nei Centri manca ancora un sistema uniforme di registrazione degli eventi critici, cioè degli episodi di autolesionismo, aggressioni, danneggiamenti, tentati o compiuti suicidi, che possa considerarsi affidabile, effettivo e completo”. Nelle 44 pagine del rapporto che è stato consegnato al ministero dell’Interno, inoltre, si fa riferimento a una serie di criticità che sono emerse dalle visite, dal punto di vista delle garanzie giuridiche riconosciute ai migranti trattenuti. In particolare, il Garante ha chiesto che le celle di sicurezza collocate nel livello interrato del Cpr di Torino siano messe fuori uso e ha raccomandato che non sia consentita, in qualsiasi struttura la permanenza, anche per periodi brevi di tempo, in locali non adeguati da un punto di vista dell’apporto di luce e di aria naturali, nonché di riparo da condizioni climatiche esterne difficili. Non soltanto. È stato chiesto di intervenire su quelle che sono state definite “promiscuità delle situazioni giuridiche”. Nei fatti, che sia favorita il più possibile la separazione tra coloro che provengono dal circuito penale e coloro che si trovano solamente in una posizione di irregolarità amministrativa o che sono richiedenti asilo. Di intervenire, più in generale, sulla sostanziale opacità delle strutture di detenzione amministrativa, chiuse al mondo dell’informazione e della società civile organizzata, che anche prima dell’emergenza sanitaria si vedevano regolarmente negare dalle Prefetture le richieste di accesso. Il Viminale promette - E tuttavia la risposta ai rilievi e alle raccomandazioni mosse dal Garante dei detenuti non è tardata ad arrivare da parte del Ministero degli Interni che, attraverso una nota firmata dalla funzionaria del Dipartimento per le Libertà Civili e Immigrazione, Michela Lattarulo, ha riferito che “proseguono gli interventi di miglioramento e ripristino della funzionalità totale o parziale nei centri di Bari, Brindisi, Caltanissetta, Milano, Roma, Torino, Trapani, compresi quelli diretti a realizzare spazi dedicati ad attività sociali, mensa e luoghi di culto”. E ha assicurato che “i lavori che verranno programmati, laddove necessario, terranno conto dell’esigenza di assicurare la funzionalità e la riservatezza nell’ utilizzo dei servizi igienici”. Più in generale, hanno promesso dal Viminale: “verrà richiamata l’attenzione dei Prefetti affinché, anche in fase di rilascio dal Cpr, vengano prestate le cure e l’assistenza necessarie a tutelare l’integrità fisica dei migranti, nell’ambito del vigente ordinamento”. Condividendo, infine, con il Dipartimento della Pubblica Sicurezza la raccomandazione circa la necessità di “evitare prassi lesive della dignità della persona come quelle segnalate dal Garante”. Di assicurare i diritti minimi, dunque, nell’inferno dei Centri per i rimpatri dei migranti. Il Senato vota la cittadinanza a Patrick Zaki. Per Regeni nuovi testimoni di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 aprile 2021 Italia-Egitto. Ordine del giorno approvato senza voti contrari. Mentre la procura di Roma deposita gli atti di altri tre testi contro gli 007 cairoti accusati dell’omicidio di Giulio. Interrogazione parlamentare sul militare egiziano (Fremm) accusato di stupro e fuggito da La Spezia. Appello di 72 Ong internazionali per chiedere ad Al-Sisi l’immediato rilascio dello studente e ricercatore (a Vienna) Ahmed Samir Santawy, arrestato al Ciaro con l’infondata accusa di terrorimo. “C’è qualcosa nella storia di Patrick Zaki che prende in modo particolare, ed è ricordare quando un innocente è in prigione. Questo l’ho provato anch’io e sarò sempre presente, almeno spiritualmente, quando si parla di libertà”. La senatrice a vita Liliana Segre ha affrontato il viaggio da Milano a Roma, malgrado “le forze che non sono sempre brillantissime”, per essere presente in Aula e votare l’ordine del giorno - approvato con 208 voti, nessun contrario e 33 astenuti (tra gli altri, i senatori di Fd’I) - che chiede al governo di concedere la cittadinanza italiana al ricercatore egiziano di 29 anni dell’università di Bologna, in detenzione preventiva dal 7 febbraio 2020 nel carcere di massima sicurezza di Tora, alla periferia del Cairo. Un atto simbolico, quello del Senato, ma importante, che cade nello stesso giorno in cui la procura di Roma deposita i verbali di altri tre testimonianze che accusano i quattro appartenenti ai servizi segreti egiziani di aver rapito, torturato e ucciso Giulio Regeni. E nello stesso giorno in cui il deputato di Si Nicola Fratoianni presenta un’interrogazione parlamentare per chiedere ai ministri Lamorgese, Cartabia e Guerini di fare chiarezza sul caso di un militare egiziano accusato di tentata violenza sessuale a La Spezia che è riuscito a fuggire e rimpatriare poco prima di essere arrestato dalle forze dell’ordine italiane. L’uomo si trovava nella città ligure assieme ad altri commilitoni egiziani in attesa della consegna di una delle fregate Fremm vendute dall’Italia all’Egitto. E dunque sono diventati otto, a questo punto, i testimoni attendibili (altri si sono presentati agli inquirenti ma sono stati scartati) che il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco citeranno davanti al Gip nell’udienza preliminare fissata per il 29 aprile per chiedere il processo al generale Tariq Sabir, ad Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e a Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, indicato dai primi testi come il torturatore del ricercatore friulano. Da quanto si apprende dalle agenzie di stampa, i nuovi testimoni avrebbero apportato “nuovi elementi conoscitivi su fatti già acquisiti”. In particolare, la conferma che i depistaggi dei servizi segreti cairoti iniziarono immediatamente, già il 2 febbraio 2016, ossia il giorno prima del ritrovamento del corpo di Giulio sulla strada tra Alessandria e Il Cairo. Quel giorno infatti uno dei testimoni, che sostiene di essere diventato amico di Mohammed Abdallah, il capo del sindacato indipendente degli ambulanti che ha denunciato Regeni, ha riferito ai pm di aver visto Abdallah spaventato che gli confidò di aver appreso della morte di Giulio Regeni da un ufficiale di polizia nell’ufficio del commissariato di Dokki, dove stavano già ipotizzando “la soluzione per deviare l’attenzione da loro”: “quella di inscenare una rapina finita male”. Regeni venne torturato per giorni nella stanza numero 13 di una villetta che secondo i testimoni sarebbe usata dagli 007 egiziani per torturare - e uccidere anche - gli oppositori al regime accusati di “tradimento”. Lì avrebbe potuto finire probabilmente anche Patrick Zaki, l’attivista per i diritti umani detenuto da quasi 15 mesi con l’accusa di terrorismo e diffamazione dello Stato tramite i mass media. Se non è accaduto, come hanno spiegato ripetutamente i suoi migliori amici, è grazie alle pressioni internazionali e all’attenzione richiamata sul suo caso. Motivo per il quale l’ordine del giorno votato dal Senato, sia pur “simbolico e privo di effetti pratici a tutela dell’interessato”, come ha spiegato in Aula la viceministra degli Affari esteri e vice presidente del Pd Marina Sereni, risulta comunque importante, anche perché nel testo si chiede al governo di sollecitare le autorità egiziane per la liberazione del ricercatore, di monitorare l’iter processuale e di attivarsi a livello europeo e in sede G7 sulla tutela dei diritti umani nel mondo. Per Sereni invece “la concessione della cittadinanza a Zaki potrebbe addirittura rivelarsi controproducente”, e l’Italia in ogni caso non potrebbe “fornire protezione consolare al giovane, essendo egli anche cittadino egiziano, visto che prevarrebbe la cittadinanza egiziana”. Per gli autori della petizione “Station to Station” che su Change.org. ha raccolto 200 mila firme dall’inizio dell’anno, “il tempo delle promesse e delle buone intenzioni è scaduto, ora servono passi concreti per Zaki e per il rispetto dei diritti umani”. A supporto della richiesta di accogliere come cittadino il ricercatore che aveva scelto l’Italia come Paese di adozione, ieri ha votato anche l’assemblea Capitolina con una mozione che vincola la sindaca Raggi a mobilitarsi presso il governo in questo senso. Zaki purtroppo però non è l’unico innocente nelle carceri egiziane: 72 Ong internazionali hanno chiesto ieri al governo di Al Sisi il “rilascio immediato e incondizionato” dello studente e ricercatore (a Vienna) Ahmed Samir Santawy, 29 anni, detenuto in Egitto “arbitrariamente dal primo febbraio 2021 per false accuse di terrorismo”. L’Italia non può più far finta di non vedere. Egitto. Zaky è detenuto illegalmente: il nostro Paese lotterà finché non sarà liberato di Valeria Fedeli* Il Dubbio, 15 aprile 2021 Patrick Zaki è illegalmente detenuto in Egitto da oltre 14 mesi. Nei giorni scorsi la sua fidanzata ha espresso forte preoccupazione per la sua tenuta psichica e morale oltre che fisica viste le condizioni e le torture subite. Abbiamo tutti letto il messaggio di dignità e coraggio, scritto in italiano, che Patrick è riuscito a far uscire dal carcere attraverso un libro e da cui traspare anche l’enorme difficoltà a continuare a resistere a un trattamento disumano, incivile, illegale e barbaro. La carcerazione preventiva di Patrick è stata reiterata più e più volte. Ecco perché nella mozione di maggioranza votata al Senato, alla presenza di grande valore e significato di Liliana Segre che ne è firmataria, oltre alla richiesta al governo di attivare le procedure per il riconoscimento della cittadinanza italiana al giovane attivista per i diritti umani (un’iniziativa di forte valore simbolico) c’è anche quella, sostanziale, di ricorrere alla clausola 30 della Convenzione Onu contro la tortura che, con un iter più rapido, consente, laddove non si possa attivare un negoziato sull’applicazione della Convenzione stessa, di avviare un arbitrato internazionale fino alla Corte di giustizia internazionale. Sia l’Italia che l’Egitto hanno ratificato la Convenzione. Ed è questa la ragione per la quale il nostro Paese, come peraltro potrebbe fare ciascuno degli altri Stati firmatari, ha il diritto e il dovere di pretenderne dall’Egitto il rispetto trattandosi di impegno vincolante assunto in sede internazionale. Ma c’è anche un’altra ragione per affiancare questa strada a quella della cittadinanza: al meccanismo dell’articolo 30 si può ricorrere da subito, senza attendere l’eventuale riconoscimento della cittadinanza italiana. Oggetto della Convenzione contro la tortura, le punizioni inumane e degradanti sono infatti i diritti umani che vanno rispettati sempre, indipendentemente dalla cittadinanza. Non esistono dubbi che Patrick, giovane e impegnato attivista, studente e ricercatore presso l’Università di Bologna, sia stato barbaramente picchiato e torturato per la sola colpa di lottare per la democrazia e la libertà nel suo Paese. Per la sola colpa delle sue idee. Incolpato addirittura di essere un terrorista e per questo, con questa assurda accusa, trattenuto dal 7 febbraio 2020 nelle carceri egiziane, senza prove, senza un giusto processo. Le poche righe che è riuscito a consegnarci rappresentano un estremo tentativo di far sentire una voce, di rivendicare un’identità contro il feroce tentativo di repressione di cui egli, come tanti, troppi altri, è vittima e ostaggio. E’ la ragione per cui in questi anni non abbiamo mai smesso, dentro e fuori le istituzioni, in particolare attraverso il lavoro della Commissione straordinaria per i diritti umani, di chiedere con forza verità e giustizia per Giulio Regeni, anch’egli giovane ricercatore, ucciso dallo stesso sistema repressivo, violento, illegale che sta distruggendo la vita di Patrick, della sua famiglia, dei suoi amici, che colpisce al cuore chiunque creda nell’inviolabilità assoluta dei diritti umani fondamentali e che sta trasformando l’Egitto in uno dei Paesi più illiberali e repressivi. Ecco perché questa battaglia, la battaglia per Patrick, per Giulio e per tutte le vittime di aggressioni, violazioni, intimidazioni, torture, non potrà mai cessare finché la battaglia stessa non sarà vinta, finché non saranno condannati i responsabili della morte di Regeni e chi ha tentato di insabbiarne il caso e finché Zaki non sarà liberato. L’Italia non smetterà di far sentire la sua voce e di percorrere tutte le strade possibili come altrettanto devono fare l’Europa, già promotrice di una risoluzione comune approvata nel dicembre scorso dal Parlamento europeo, e la comunità internazionale. Abbiamo il dovere di andare avanti, di agire sul fronte politico, diplomatico e del diritto e di fare presto perché non sappiamo quanto Patrick potrà resistere. Non sappiamo cosa potrebbe ancora accadergli, ma sappiamo che dove stanno i diritti fondamentali delle persone, la libertà, la giustizia là stanno e devono stare le nostre istituzioni democratiche, l’Italia. *Capogruppo Pd Commissione straordinaria diritti umani Egitto. Per Al-Sisi la priorità è la repressione: con lui carceri quasi raddoppiate di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2021 In Egitto 65mila prigionieri politici e tanti arrestati scomparsi. Quando al-Sisi ha dato il suo placet all’edificazione dell’imponente numero di prigioni, il bisogno nasceva in previsione di un’azione repressiva senza precedenti. Secondo l’ultimo report di ‘Arab Network for Human Rights Information’ su 120mila detenuti, 65mila sono, oltre ai politici di formazioni ostili al regime, sono giornalisti, avvocati, medici, professionisti in genere e cittadini che hanno manifestato il loro dissenso. Per costruire una casa solida ci vogliono fondamenta forti. Ad ognuno la scelta sul tipo di edificio su misura e il presidente dell’Egitto, Abdel Fattah al-Sisi, evidentemente, nello stilare le priorità dello Stato, le sue fondamenta appunto, ha scelto di partire dalla repressione. Solo così si può spiegare la mossa strategica: nel 2011 le prigioni egiziane attive di ampie dimensioni erano 43, in meno di dieci anni sono lievitate a 78. Si tratta di istituti di pena di grandi dimensioni (Central prisons), come l’enorme Borg al-Arab ad Alessandria d’Egitto (12mila detenuti, il più grande in Egitto) o il famigerato Tora al Cairo; a questi si devono aggiungere altre più piccole (General prisons), con dotazioni di sicurezza inferiori dove sono ospitati prigionieri per reati minori con il numero complessivo degli istituti che supera la soglia dei 130. Nella statistica non figurano le stazioni di polizia, luoghi filtro tra la libertà e la cella, non di rado usate come prigioni vere e proprie. Insomma, un mastodontico apparato attraverso cui il regime mostra i muscoli e affievolisce qualsiasi forma d’opposizione. Ciò che re e predecessori hanno realizzato in decenni se non in secoli di storia, ad al-Sisi è riuscito in una manciata di anni. Questo dato, davvero impressionante, emerge da un report presentato nei giorni scorsi dall’Anhri (Arab Network for Human Rights Information), una delle principali organizzazioni per la tutela dei diritti umani del Paese dei Faraoni. È vero, fino alla primavera del 2013 l’attuale presidente era ‘soltanto’ il Ministro della Difesa, alla guida del Paese c’erano i Fratelli Musulmani, rovesciati poi da un colpo di Stato, ma sono proprio gli otto anni successivi alla cacciata di Mohamed Morsi in cui le prigioni sono proliferate. Come in un disegno predefinito, il regime del Cairo ha scelto e applicato alcune linee guida ben precise: mettere a tacere il dissenso, se necessario anche con la forza, pianificare la capitale del futuro, un Eden artificiale per pochi in mezzo al deserto, e isolarsi dal resto della popolazione. In attesa dell’inaugurazione della New Capital, 70 chilometri a sud-est del Nilo, il regime si gode il numero impressionante di edifici costruiti o trasformati in altrettanti istituti di pena. La Rete Araba per le Informazioni sui Diritti Umani è andata a fondo e ha effettuato una vera e propria radiografia dell’attuale sistema carcerario egiziano. Quando al-Sisi ha dato il suo placet all’edificazione dell’imponente numero di prigioni, il bisogno nasceva in previsione di un’azione repressiva senza precedenti, soprattutto nei confronti dell’opposizione politica e delle organizzazioni non governative. In pochi anni il diabolico sistema messo in pratica dalla Nsa, la National Security Agency, il braccio armato del potere di al-Sisi, ha portato ad un’ondata di arresti senza precedenti; decine di migliaia di detenuti da considerare non ‘criminali comuni’. A parlare oggi sono i numeri: secondo l’Anhri nelle prigioni di Stato sono ospitati complessivamente circa 120mila persone, di queste ben 65mila sono prigionieri politici o di coscienza; 54mila sono invece gli altri i prigionieri per reati comuni. Delle 65mila persone in gabbia abbiamo, oltre ai politici di formazioni ostili al regime, giornalisti, avvocati, medici, professionisti in genere; tra loro anche cittadini ordinari la cui colpa è stata criticare l’operato del governo, magari scendendo in piazza per una manifestazione o lasciando un post su Facebook o Instagram. Manca una piccola, ma comunque nutrita fetta di prigionieri, circa un migliaio, di cui si sono letteralmente perse le tracce. Parliamo dei tantissimi casi di persone, uomini e donne, arrestate e di cui non si hanno più notizie. Ufficialmente risultano tra le mani dell’autorità carceraria, di fatto risultano scomparse. Un ultimo dato numerico racconta meglio di altri l’incubo in cui sono costretti a vivere migliaia di attivisti antiregime come ad esempio il ‘nostro’ Patrick Zaki, arrestato più di quattordici mesi fa e per una dozzina di volte con la detenzione rinnovata per consentire ulteriori indagini-farsa. Dei 119mila incarcerati, 82mila stanno scontando una pena definita, gli altri, ben 37mila, sono nelle stesse condizioni di Zaki. Come abbiamo più volte ricordato, la legge egiziana pone un termine a due anni entro cui arrivare ad una sentenza di non luogo a procedere, e dunque di rilascio, o di avvio al processo. Spesso è successo che i termini di detenzione senza una sentenza non siano stati rispettati. È capitato che le autorità egiziane abbiano optato per un altro sistema, l’inserimento di un singolo detenuto in un altro caso giudiziario, riportando le lancette del tempo al primo giorno di carcere. Nel report dell’Anhri figurano anche due storie. La prima è l’intervista ad un detenuto, Hani Muhannai, del gennaio scorso. Rivela alcuni dettagli sul tipo di detenzione riservato ai figli dell’ex presidente Hosni Mubarak, morto nel febbraio 2020, Alaa e Gamal, in una sezione del carcere di Tora. Ai due, durante la detenzione (sono usciti di prigione lo scorso anno) era stato consentito di trascorrere la detenzione con tutti i confort del caso, tra tavoli da biliardo e di ping-pong, frigorifero e televisore, mentre a migliaia rischiano di morire e vivono in condizioni pessime. Nel secondo caso si parla di una lettera inviata da un prigioniero di coscienza, Hossam al-Arabi, al procuratore generale, sempre a gennaio: “All’ingresso della prigione sono stati spogliato dei vestiti, rasato e picchiato. Ho assistito ad aggressioni nei confronti di altri prigionieri. Siamo stati fino a 40 detenuti in una cella di circa 15 metri quadrati, gente arrivava e spariva di continuo e per dormire facevamo a turno. Per giorni abbiamo mangiato solo pane, ogni tanto consentivano di farci arrivare cibo dei familiari da fuori”. Scene di ordinaria follia a cui non dovranno più assistere, si spera, Solafa Magdy e suo marito Hossam al-Sayyad, rilasciati il 14 aprile all’alba dopo un anno e mezzo di prigione, Solafa a Qanater e Hossam a Tora. Una notizia che è stata accolta con grande gioia da tutta la comunità egiziana che si occupa di tutela dei diritti umani. A colpire sono state le immagini dell’abbraccio tra la coppia e il figlio Khaled. Della loro storia il Fatto si era occupato alcuni mesi fa raccontando l’odissea dei due giornalisti e dell’agonia del bambino. Le condizioni di salute Solafa Magdy, in particolare, erano peggiorate nell’ultimo periodo e gli appelli per la sua liberazione si erano ripetuti. Le buone notizie non finiscono qui. E poi c’è la storia di Khaled Daoud, uno dei prigionieri ‘eccellenti’ messi a tacere dal regime. Noto politico - è stato a capo del partito di opposizione liberale al-Dostour - e giornalista, tra i dissidenti più accesi del presidente al-Sisi, Daoud era stato arrestato più di diciotto mesi fa, ad inizio ottobre del 2019, dopo una protesta antigovernativa. Improvvisa, come un fulmine a ciel sereno, lunedì pomeriggio è arrivata la notizia del rilascio: “Intorno alle 17 un funzionario di polizia ci ha informato che il pubblico ministero aveva deciso di liberarlo e a mezzanotte ha fatto regolare ritorno a casa. Nei suoi confronti non è stato attivato un altro caso giudiziario”, ha commentato l’avvocato e attivista Khaled Ali, in lizza per le ultime presidenziali del 2018 fino al giorno prima della scadenza della presentazione ufficiale della candidatura. Nessuna buona notizia, invece, per Ayman Moussa, 26 anni, arrestato alla vigilia di Ferragosto del 2013 e condannato a 15 anni di carcere. È fortissima negli ultimi giorni la campagna social da parte delle organizzazioni per la tutela dei diritti umani, tesa a convincere il governo del Cairo a concedere la grazia al giovane, entrato in carcere quando non aveva ancora compiuto 18 anni. Moussa aveva partecipato alla manifestazione anti-regime organizzata dalla Fratellanza Musulmana a piazza Nahda conclusa con scontri, vittime, feriti e una raffica di arresti. L’accusa nei suoi confronti, come per altre decine di persone, era stata di tentato omicidio, anche se non sono mai state presentate prove di un suo coinvolgimento diretto nel ferimento di alcun membro delle forze dell’ordine o militare. La legge egiziana consente al Capo dello Stato di emettere un provvedimento di grazia nei confronti dei detenuti che abbiano superato metà della detenzione ed è su questo che le ong stanno facendo pressione. Turchia doppia: libero Altan, mentre Erdogan minaccia l’Italia di Chiara Cruciati Il Manifesto, 15 aprile 2021 La Corte di Cassazione annulla la condanna dello scrittore, dopo l’intervento della Cedu. Il presidente riprende la querelle con l’Italia e con il primo ministro che lo aveva definito un dittatore. Già sospesi alcuni contratti con aziende italiane, già messo il cappello sul neo governo di Tripoli, Ankara tira la corda come fa sempre. La lunga giornata turca si è chiusa con una sorpresa, inattesa: la Corte di Cassazione ha ordinato il rilascio dello scrittore e giornalista 71enne Ahmet Altan, in carcere dal primo settembre 2016 prima con l’accusa di aver preso parte al tentato golpe e poi con quella di appartenenza a organizzazione terroristica. Ad appena 24 ore dalla sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo, che ne chiedeva il rilascio per violazione del diritto a un equo processo e della libertà di espressione, è successo qualcosa che non era mai accaduto prima: Altan ha lasciato il carcere di Silivri, dopo la cancellazione della condanna a 10 anni e sei mesi comminata nel 2019. Poche ore prima era andato in scena un esempio ben diverso dei rapporti tra Turchia ed Europa. Un fiume in piena quello uscito dalla bocca del presidente turco Erdogan ieri alla Biblioteca presidenziale nazionale. Di fronte aveva dei giovani e ha approfittato dell’occasione per mettere i suoi puntini sulle i e spargere un po’ di (in)sano nazionalismo. A partire dal caso Draghi, che la scorsa settimana lo aveva definito “un dittatore” (necessario). “Prima di dire una cosa simile a Tayyip Erdogan devi essere a conoscenza della tua storia”, ha detto il presidente per poi ribadire che il primo ministro italiano - come già sottolineato dal governo di Ankara la scorsa settimana nelle reazioni a caldo - è stato “nominato” e non eletto. E dopo avergli dato dell’impertinente e del maleducato, Erdogan ha sventolato la vera minaccia: “Proprio in un periodo in cui auspichiamo che le relazioni tra Italia e Turchia possano raggiungere un ottimo livello, questo signore di nome Draghi ha purtroppo colpito i nostri rapporti”, facendo presagire rappresaglie, dopo aver già fatto sospendere alcuni contratti in essere con aziende italiane, a partire da Leonardo e la sua fornitura di 10 elicotteri militari. Da temere per il business italiano ce n’è (la bilancia commerciale tra i due paesi si aggira sui 15 miliardi di euro e nel paese operano imprese di ogni tipo, da Unicredit a Piaggio, da Finmeccanica a Barilla), ma dopotutto Erdogan aveva già colpito e affondato invitando ad Ankara il 12 aprile il neo premier libico Dabaiba, appena pochi giorni dopo la visita di Draghi a Tripoli. Su entrambi i tavoli, quello turco e quello italiano, c’è la ricostruzione del paese nordafricano, un affare enorme che si accompagna alla gestione della guerra. Non pago, Erdogan è intervenuto anche su temi che stanno a cuore all’Europa intera, o perlomeno alla sua società civile: la Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere, da cui è uscito il 20 marzo e che ieri ha definito inutile perché “non ha condotto al rispetto dei diritti delle donne”; e la Convenzione di Montreux, messa in dubbio dal progetto del Kanal Istanbul, ma che secondo Erdogan “non ha niente a che vedere” con il suo canale. Ultima notizia (ma che non tocca l’Italia): ieri l’Antitrust turco ha multato Google per 296 milioni di lire turche, circa 36,6 milioni di dollari per violazione della legge nazionale sulla concorrenza: l’accusa è di aver reso meno visibili i contenuti a pagamento dei propri concorrenti nel motore di ricerca. Afghanistan. Biden: “Non passerò questa guerra a un quinto presidente” di Giuliano Battiston Il Manifesto, 15 aprile 2021 La guerra americana in Afghanistan è chiusa. Il ritiro completo e incondizionato avverrà entro l’11 settembre 2021, ventesimo anniversario dell’attacco alle Torri gemelle, preludio della guerra globale al terrore. È l’annuncio del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che ieri - troppo tardi per darne conto in modo esaustivo - ha tenuto una conferenza stampa per spiegare le ragioni della storica decisione. “Sono il quarto presidente a decidere sulla presenza delle truppe americane in Afghanistan. Due Repubblicani. Due Democratici. Non passerò la responsabilità a un quinto”. Così Biden secondo le anticipazioni della Casa Bianca. Le residue truppe statunitensi - 2.500 ufficialmente, 3.500 secondo un’inchiesta del New York Times - verranno dunque ritirate, portando a compimento il disimpegno iniziato da Donald Trump, l’artefice dell’accordo bilaterale tra Stati Uniti e Talebani firmato a Doha nel febbraio 2020. Quell’accordo prevedeva un legame, per quanto equivoco e con margini ampi di interpretazione, sfruttati dai Talebani, tra il completamento del ritiro e l’avanzamento del processo di pace tra i militanti islamisti e il “fronte repubblicano”, iniziato a Doha nel settembre 2020. La decisione di Biden invece è incondizionata. La guerra afghana è chiusa, a dispetto di ciò che avverrà sul campo militare e al tavolo negoziale. Biden, infatti, è convinto che non si possa “continuare il ciclo con cui estendiamo o espandiamo la nostra presenza militare in Afghanistan sperando di creare le condizioni ideali per il nostro ritiro, aspettando un risultato diverso”. Il risultato, Biden non lo dice, è la sconfitta degli Stati Uniti. La vittoria dei Talebani. Ai quali Biden - scegliendo l’11 settembre come data ultima del ritiro - fornisce un’occasione per celebrare la vittoria del loro jihad. I Talebani, a cui proprio Washington ha attribuito una patente di legittimità diplomatica con l’accordo di Doha, sono talmente forti da permettersi di tirare ancora la corda. Sembrava che avessero acconsentito al posticipo di 4 mesi, portando a casa altre concessioni. E invece ieri il portavoce ufficiale ha dichiarato che, fino a quando non si ritirerà l’ultimo soldato straniero, non parteciperanno ad alcuna conferenza di pace. E che una data del ritiro già c’era: l’1 maggio 2021. Se non verrà rispettata, i Talebani saranno liberi di agire coerentemente. Se adottassero una postura militare ancora più aggressiva, a rimetterci non sarebbero le truppe straniere, contro le quali ormai combattono poco o niente. Ma i soldati afghani e i civili. Il presidente afghano Ashraf Ghani ha parlato ieri al telefono con Biden. Dichiara di rispettare la decisione americana. E si dice convinto che le forze di sicurezza locali saranno in grado di “difendere il nostro popolo e il nostro Paese”. I dati resi pubblici ieri da Unama, la missione dell’Onu a Kabul, dicono il contrario: nei primi 3 mesi del 2021, i ricercatori dell’Onu hanno registrato 573 morti e 1210 feriti, per una crescita complessiva del 29% rispetto allo stesso periodo del 2020. Per le donne, l’aumento è del 37%, del 23% per i bambini. “Imploro le parti in conflitto a trovare urgentemente un modo per fermare la violenza”, ha sostenuto Deborah Lyons, la rappresentante speciale per l’Afghanistan del Segretario generale dell’Onu. Mentre ieri a Bruxelles il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, prima dell’incontro con i ministri della Difesa e degli Esteri della Nato, si sono detti concordi: ce ne andremo via tutti insieme dall’Afghanistan. Anche l’Italia. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ieri ha detto di condividere anche lui “la linea del cambio di passo in Afghanistan”. “Si va verso una decisione epocale”, ha sostenuto Di Maio, che meno di 3 settimane fa assicurava “l’impegno dell’Italia in Afghanistan”.