Perché l’ergastolo ostativo non è ammissibile di Valerio Onida Corriere della Sera, 14 aprile 2021 La insistente campagna a difesa dell’ergastolo ostativo, che sta proseguendo anche dopo l’udienza della Corte costituzionale tenutasi il 23 marzo, in vista della decisione finale, è forse già per questo inopportuna: la discussione c’è stata, e la Corte è ormai riunita per decidere. In ogni modo, a fronte della continua riproposizione di argomenti contrari all’accoglimento della questione, vorrei ricordare solo tre punti essenziali e irrinunciabili. Primo: si dimentica che non si tratta di giustificare un aggravamento di pena, ma di legittimare una pena (l’ergastolo) di per sé incostituzionale, perché esclude ogni possibilità di darvi fine. Il “diritto alla speranza” nella liberazione non può essere negato a nessuno. Secondo: non vale dire che la possibilità di porre fine alla detenzione c’è sempre, perché dipende dalla libera scelta del condannato di collaborare attivamente con la giustizia, quando ciò è ancora possibile. In realtà la collaborazione in questo modo non è più una libera scelta, se è il solo modo per ottenere la liberazione. Il reo ha l’obbligo di sottostare alla pena legale stabilita (che non può essere perpetua), e di abbandonare i vincoli di partecipazione e di obbedienza all’associazione criminale, ma non può essere obbligato ad accusare né altri né sé stesso per esercitare i propri diritti. Terzo: supporre che i vincoli di appartenenza all’associazione criminale siano necessariamente perpetui, e che quindi solo una “rottura” pubblicamente compiuta con la scelta di collaborare con la giustizia possa far guadagnare la liberazione, contraddice la natura e la dignità dell’essere umano. Vuol dire considerare il condannato un soggetto incapace di esercitare la propria libertà secondo le leggi comuni a tutti, non accusando altri (o sé stesso) di reati, ma recidendo i legami di dipendenza dall’associazione criminale in vista del recupero sociale cui la pena, per Costituzione, deve tendere. Questi sono principi fondamentali di un diritto penale conforme alla Costituzione: non c’è e non ci può essere eccezione, nemmeno in nome di una pretesa singolarità della società italiana e del suo diritto penale. Se si crede nell’essere umano, nella sua libertà e nella sua dignità, non si può ammettere né la pena di morte, né una pena senza fine come l’ergastolo ostativo. Regioni in difficoltà anche sui vaccini per chi sta in carcere di Giulia Merlo Il Domani, 14 aprile 2021 Il numero complessivo di vaccinati tra i detenuti è di 6.356 persone su più di 52mila. I vaccini procedono a ritmi diversi in ogni regione e questo vale anche per le carceri, dove il numero dei contagiati rimane costante: 823 detenuti e 683 agenti, stando agli ultimi dati pubblicati dal ministero della Giustizia. Secondo le denunce dei garanti territoriali, situazioni critiche si registrano nel Lazio e in Veneto. A Roma, in particolare nell’ala femminile del carcere di Rebibbia, il garante dei detenuti regionale Stefano Anastasia ha segnalato la presenza di 70 recluse risultate positive, in aumento rispetto alla settimana scorsa. A Padova, invece, la Camera penale si è rivolta alla magistratura di sorveglianza perché conceda maggiori misure alternative alla detenzione, a fronte di un aumento dei contagi passato da 69 a 97 detenuti in soli 3 giorni. La campagna vaccinale - A fronte di una situazione di contagi in aumento continuo, anche se molti dei malati sono asintomatici, le vaccinazioni proseguono a macchia di leopardo e in modo differenziato da regione a regione. I dati dei singoli istituti penitenziari non sono disponibili. Esiste solo un dato complessivo nazionale fornito dal ministero. “Le regioni procedono in ordine sparso, occorre maggior coordinamento centrale - ha detto il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma - va meglio tra gli agenti, secondo i sindacati la campagna procede a buon ritmo”. Attualmente, il numero di vaccinati totali tra i detenuti è di 6.356 persone su una popolazione carceraria di 52.207 unità, in sovraffollamento rispetto al numero massimo di posti disponibili, che si aggira intorno ai 48mila ed è stato calcolato prima della pandemia, dunque non tiene conto della necessità di distanziamento sociale. Tra le guardie carcerarie, invece, quelli che il ministero considera “avviati alla vaccinazione” sono 15.155 su un numero complessivo di circa 37mila agenti. Tra il personale amministrativo penitenziario, infine, gli avviati alla vaccinazione sono 1.557 su un totale di 4mila dipendenti. I vaccini in carcere sono iniziati la prima settimana di marzo, in particolare in Veneto e Lombardia. Nel Lazio invece proprio l’incremento dei vaccini ai detenuti è stato oggetto di polemica nei giorni scorsi da parte di Matteo Salvini. L’assessore alla Salute regionale, Alessio D’Amato, ha fatto sapere che 10mila dei 18mila vaccini Johnson & Johnson in arrivo nel Lazio verranno destinati agli istituti penitenziari, dove saranno disponibili a partire dal 19 aprile (ma attualmente l’azienda ha rinviato la distribuzione in Europa dopo la decisione degli Stati Uniti che ne hanno sospeso la somministrazione in via precauzionale). La scelta di destinare una quota di vaccini a detenuti e personale penitenziario, ha detto D’Amato, è stata presa per “evitare rivolte, faremo tutto nel giro di tre giorni”. La scelta di alcune regioni di destinare le dosi alle carceri rischia di contraddire l’ordinanza del generale Francesco Paolo Figliuolo, che dà priorità a ultraottantenni e persone fragili e non fa alcuna divisione per categorie. Anche se detenuti e personale carcerario potrebbero rientrare laddove si dice che “a seguire, sono vaccinate le altre categorie considerate prioritarie dal Piano nazionale, parallelamente alle fasce anagrafiche”, visto che tra le categorie prioritarie c’è anche chi risiede in “luoghi di comunità”. Anche dal ministero della Giustizia di Marta Cartabia sono arrivate rassicurazioni: in colloqui informali con il commissario si sarebbe concordato sulla necessità di procedere con i vaccini, per evitare focolai e nuove tensioni, come quelle che nel marzo dello scorso anno hanno scatenato le rivolte. Un medico ogni 315 detenuti: la vita in cella è sempre più a rischio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 aprile 2021 Dal primo aprile 2008 la salute delle persone detenute è divenuta formalmente una competenza del Servizio sanitario nazionale e si è venuta così a sanare una delle tante anomalie normative che riguardano la gestione della vita penitenziaria. Ma ad oggi, come d’altronde viene certificato anche dai magistrati di sorveglianza tramite la relazione resa pubblica da Il Dubbio, questa anomalia è stata superata esclusivamente sul piano formale. Nella materialità della detenzione permangono sostanziali criticità che ostacolano una piena affermazione dell’equivalenza delle cure, principio cardine della riforma stessa. Apprendiamo dall’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone che nel 2019 c’era un solo medico di base in ogni carcere per ogni 315 detenuti, per un totale di 1.000 medici di base e di guardia nei circa 200 istituti di pena italiani. Troppo pochi per garantire un servizio adeguato. Il 70% dei medici è precario. Ovviamente, il numero varia da carcere a carcere a seconda della capienza della struttura, ma in media, come si è detto, è presente un medico ogni 315 detenuti. In alcune realtà manca addirittura il medico di base. L’esperienza della detenzione è già di per sé un rischio per la salute, per le condizioni degradate di strutture, celle e spazi comuni, per il sovraffollamento e l’elevato turn over delle persone detenute e quindi per il maggiore rischio di contrarre malattie infettive. Occorre tener presente che le condizioni di vita negli istituti di detenzione, particolarmente inadeguate per affrontare una crisi pandemica di questa portata, possono agire come fattori altamente stressanti e aggravare una situazione già critica a causa dell’isolamento forzato in un contesto di coabitazione altrettanto forzata. Sempre da Antigone, si evince che tra i detenuti è maggiore: la prevalenza di Hiv, Hcv, Hbv e tubercolosi rispetto alla popolazione libera, principalmente a causa della criminalizzazione dell’uso della droga e la detenzione di persone che ne fanno uso (la prevalenza di infezione da Hiv tra i detenuti è del 4,8%, contro lo 0,2% della popolazione in generale; l’incidenza della tubercolosi è maggiore di 23 volte rispetto a quella della popolazione in generale); la probabilità di contrarre patologie anche negli individui sani. L’aumento del rischio riguarda non solo le infezioni quali Hiv e Hcv, ma anche la possibilità di sviluppare dipendenza da sostanze psicotrope o di ammalarsi di disturbi mentali, in misura maggiore rispetto all’incidenza delle stesse patologie nella popolazione generale. Lo spettacolo della giustizia e un suicidio in carcere di Francesco Lo Piccolo* huffingtonpost.it, 14 aprile 2021 In seguito a una inchiesta su un appalto della Asl di Pescara per la gestione di residenze psichiatriche extra ospedaliere, la scorsa settimana si è ucciso in carcere a Vasto, a poche ore dall’arresto, Sabatino Trotta psichiatra, direttore del dipartimento di Salute Mentale della Asl di Pescara. Una tragedia che coinvolge parenti e amici del medico e che mostra quello che nel 1700 Montesquieu aveva definito il potere terribile, ovvero il potere giudiziario appunto terribile perché potere dell’uomo sull’uomo e che può portare anche alla morte. Terribile (eccezioni a parte) quanto quello del sistema dei media. La conferenza stampa della Procura (con cui veniva reso noto che al primario erano contestati i reati di corruzione, induzione alla corruzione e turbativa) e gli articoli apparsi prima e immediatamente dopo il suicidio sono il classico esempio dell’opera di distorsione della realtà: in un attimo ecco trasformato l’indagato in colpevole (con illazioni sullo stile di vita: “rolex, gioielli per le amanti, spese folli per la famiglia”), ed ecco anticipata la pubblica condanna con affermazioni moralistiche (“mentre una sanità si prodigava per arginare questa terribile pandemia, un’altra sanità pensava di fare affari”). Distorsione che conferma l’interdipendenza e la complicità che esiste (può esistere) tra sistema penale e sistema mediatico; la prova che i due sistemi, tutt’altro che neutri, hanno il comune obbiettivo del controllo e di conseguenza della riduzione dei diritti. La prova che insieme penale e media sono strumento di potere. Non solo, le interviste alla direttrice del carcere e le dirette Tv da Vasto apparse sui media locali più che mettere in evidenza la responsabilità dell’Istituzione in quanto totalmente incapace di garantire la salute delle persone detenute, hanno messo in scena l’ennesima spettacolarizzazione degli eventi e la consueta opera di legittimazione e riaffermazione della pena del carcere. Soprattutto hanno nuovamente e come sempre nascosto il fallimento dell’istituzione carcere sotto tutti i punti di vista: non rieduca (come potrebbe quando per questo compito impiega un educatore ogni 60/70 detenuti?), non fa prevenzione, aggiunge male al male, provoca sofferenze (14 mila lo scorso anno sono stati i detenuti che si sono tagliati o hanno inghiottito lamette o si sono cuciti le labbra… per avere ascolto) e causa morti. Oltre al dottor Trotta, quest’anno si sono uccise 14 persone e nello scorso anno 61 tra i quali anche due ventenni, uno di 80 anni, 8 che avevano tra i 22 e i 25 anni. Persone e non numeri anche se per una trentina di loro non si conosce neppure il nome. Solo poche righe su giornali e tv locali, zero righe invece a livello nazionale. E ovviamente nessun giornalista è andato a chiedere qualche dettaglio su uno di questi suicidi ai direttori delle carceri. A meno che non si trattasse di un personaggio potente (da mettere alla gogna o da osannare). E così pure nessun giornalista è andato in questi tempi di pandemia a informarsi sulla situazione dei contagi, come nel caso di Chieti, per esempio, dove su 70 detenuti i positivi erano una cinquantina. Come non sono mai andati a far domande sui tredici morti durante le rivolte dello scorso marzo: la “velina” basta e avanza. *Giornalista, direttore di “Voci di dentro” Il “pragmatismo criminale” dei boss per evitare l’ergastolo di Nello Trocchia Il Domani, 14 aprile 2021 I vertici dei clan temono di essere condannati a vita senza poter ottenere i benefici di pena. Così praticano la “dissociazione morbida”: ammettono gli omicidi e intanto continuano a comandare Nei giorni scorsi, Giuseppe Polverino, capo indiscusso dell’omonimo clan, ha fatto quello che da tempo, i capi dei cartelli criminali campani stanno mettendo in atto: una dissociazione morbida. L’obiettivo è quello di evitare ergastoli, ottenere le attenuanti generiche e incassare benefici durante l’esecuzione della condanna. Non è una strategia che utilizzano i soldati del clan, ma solo i vertici. Prima di Giuseppe Polverino, hanno fatto lo stesso anche Cesare Pagano, Oreste Sparano, Carmine Amato e Ciro Mauriello. Giuseppe Polverino, detto ‘o barone, è il capo dell’omonimo clan che ha il suo feudo a Marano, in provincia di Napoli. Parliamo di uno dei boss più importanti della Campania, erede del sodalizio camorristico dei Nuvoletta, narcotrafficante in grado di smerciare tonnellate di droga, arrestato nel 2012 in Spagna. Nei giorni scorsi Polverino ha fatto quello che da tempo i capi dei cartelli criminali campani stanno facendo: una dissociazione morbida. Il carcere a vita - L’obiettivo è quello di evitare il carcere a vita, ottenere le attenuanti generiche e benefici durante l’esecuzione della condanna. I boss temono soprattutto l’ergastolo ostativo che non permette di uscire e non consente neanche di fare richiesta e ottenere permessi. Ergastolo ostativo sul quale è chiamata a pronunciarsi, nei prossimi giorni, anche la Corte costituzionale. La Consulta deve proprio decidere se dichiarare incostituzionale la norma che vieta ai boss condannati all’ergastolo di ottenere benefici come la libertà condizionale. I camorristi si portano avanti cercando in ogni modo di evitare condanne e anche, con le loro parziali ammissioni, di delegittimare i collaboratori di giustizia. Non è una strategia che utilizzano i soldati del clan, ma solo i vertici. Prima di Giuseppe Polverino, hanno fatto lo stesso anche Cesare Pagano, Oreste Pagano, Ciro Mauriello e Carmine Amato, quest’ultimo ha aperto la strada, nel 2018 con una lettera di scuse per un omicidio. Sono tutti membri di vertice del clan Amato-Pagano. Gli Amato-Pagano vengono definiti dagli inquirenti una delle realtà criminali di maggiore spessore economico-criminale in Campania. Sono una formazione criminale nata dalla scissione del clan Di Lauro, che ha costruito un impero grazie ai traffici di cocaina e ai rapporti con la rete internazionale di narcotraffico riferibile al latitante Raffaele Imperiale, che si trova libero a Dubai. Anche i Polverino sono una formazione criminale che si è arricchita attraverso il “traffico internazionale di stupefacenti, soprattutto hashish importato dal Marocco, quasi in regime di monopolio, disponendo di una rete di persone fidate e particolarmente esperte nei rapporti con le organizzazioni criminali estere, nella fattispecie con i potenti clan maghrebini”, si legge nell’ultima relazione della Direzione nazionale antimafia. Quando i boss vengono arrestati cercano nuove strade per sperare in una libertà che appare impossibile e adottano quello che alcuni investigatori definiscono “pragmatismo criminale”. Solitamente nel processo d’appello, se capiscono che la conferma dell’ergastolo per un omicidio è scontata, decidono di ammettere l’addebito. Ma non si tratta in nessun modo di una collaborazione con la giustizia. Anzi, questa strategia permette ai boss di non perdere nulla in termini di potere criminale. Infatti non accusano terzi, non chiamano in causa altri membri dell’organizzazione, non forniscono alcun contributo nella ricerca della verità, ma ammettono solo quanto emerso nel dibattimento e sostenuto dalla pubblica accusa, semmai già accertato in una sentenza di primo grado. La dissociazione è una strategia che hanno adottato anzitutto i membri del clan Moccia a inizio degli anni Novanta. Il ragionamento dei boss era quello di ammettere una parte degli omicidi, annunciare il ritiro dalla scena criminale e chiudere i conti con la giustizia. Ovviamente i Moccia non hanno mai smesso di comandare e, anni dopo, sono finiti nuovamente coinvolti in processi e inchieste giudiziarie. Un’ultima indagine nei giorni scorsi ha coinvolto i vertici del clan che avevano messo le mani sul settore dei prodotti petroliferi. Le confessioni e il potere - Polverino ha ammesso di essere il mandante del delitto del muratore trentenne Santino Passaro avvenuto mentre era latitante in Spagna. La vittima è stata uccisa nel 2008 per una presunta relazione con la moglie di Armando Del Core, membro del clan Nuvoletta e killer del giornalista Giancarlo Siani, ucciso nel 1985. In una inchiesta dello scorso anno era emerso che a distanza di 35 anni dall’omicidio del cronista, i Polverino continuavano a pagare la famiglia del killer. Non è la prima volta che il boss ha adottato questa strategia. A febbraio Polverino si era dissociato anche durante il processo d’appello che lo vedeva imputato per l’omicidio di Enrico Amelio, imprenditore di Gaeta, ammazzato in un agguato nel 2006 perché si era opposto a una speculazione edilizia. Anche in questo caso sono arrivate le scuse, tramite lettera. Il boss ha addirittura offerto 150mila euro di risarcimento alla famiglia della vittima. Soldi raccolti sul territorio che sono un chiaro segnale del potere che il boss detiene nonostante si trovi in carcere. Alla fine hanno ottenuto quello che auspicava. A metà marzo la corte d’appello ha cancellato gli ergastoli ribaltando la sentenza di primo grado nei confronti di Giuseppe Polverino e di altri 4 criminali del clan. I cinque sono stati condannati a 28 anni di reclusione grazie al riconoscimento delle attenuanti generiche e all’esclusione dell’aggravante dei motivi abietti. Un successo per le difese e un riconoscimento della bontà della strategia della dissociazione morbida che consente ai boss, spesso reclusi al carcere duro, proprio perché in grado ancora di impartire ordini agli affiliati, di ambire a benefici e anche alla possibilità di uscire dal carcere. Centrodestra e Iv in pressing per una Commissione d’inchiesta sulla magistratura di Liana Milella La Repubblica, 14 aprile 2021 Ma la maggioranza si spacca. Oltre al partito di Renzi e Salvini, anche Forza Italia e Azione vogliono aprire il “processo” alle toghe. Favorevole Fratelli d’Italia. Pd e M5S sono contrari. La politica vuole mettere “sotto processo” la magistratura. Senza confini, né di tempo né di spazio. Di una commissione d’inchiesta si parla da un anno. È stata messa sul tavolo a ridosso dell’uscita delle chat di Palamara. Era maggio 2020. Ma adesso, anche a costo di spaccare la maggioranza, il centrodestra di governo - Forza Italia, Lega, Azione - e il centrodestra d’opposizione - Fratelli d’Italia - pretendono di far partire subito la commissione d’inchiesta sulla magistratura. Sarebbe meglio definirla, almeno stando alla finora unica proposta di legge, una commissione “contro” la magistratura, accusata di fare non “la giustizia”, ma di utilizzare la giustizia a fini politici, per colpire qualcuno, un partito piuttosto che un altro, un uomo politico - Berlusconi prima, Salvini adesso - piuttosto che un altro. Toghe alla stregua di killer, tanto per capirci. E se killer fossero davvero, è legittima la caccia al possibile mandante. Nel parterre di chi vuole la commissione c’è anche Italia viva di Matteo Renzi. Che non ha presentato una sua proposta, ma vuole che si discuta quella del centrodestra, firmata Gelmini, Molinari, Lollobrigida. I tre capigruppo di Fi, Lega, FdI. Si oppongono, assieme, Pd e M5S. Che non vogliono neppure sentir parlare di un’eventuale “calendarizzazione” della faccenda. Tant’è che litigano subito nella riunione dei comitati di presidenza delle due commissioni, Affari costituzionali e Giustizia della Camera. I toni si fanno immediatamente aspri. Il dem Franco Vazio spiega, nei dettagli, perché una commissione del genere andrebbe contro la Costituzione. I presidenti delle due commissioni, entrambi di M5S, Mario Perantoni alla Giustizia e Giuseppe Brescia agli Affari costituzionali, prendono tempo. Ma Perantoni mette subito le mani avanti quando dice che “non rientrano nel perimetro delle commissioni parlamentari d’inchiesta temi che possono provocare un conflitto tra poteri dello Stato”. Anche perché sul tavolo, per ora, c’è solo una proposta di legge, che risale al primo luglio dell’anno scorso, sottoscritta da Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, e da Azione. Anche se la Lega adesso ne vorrebbe presentare una tutta sua. Ma se i toni sono gli stessi, e sono ancora più pesanti di quella già presentata, è inevitabile che la maggioranza finirà per litigare malamente su questa faccenda. Per giunta alla vigilia di settimane importanti e decisive come quelle che si stanno per aprire sulle riforme della giustizia penale e del Csm alla Camera, nonché, al Senato, sul processo civile. E in effetti basta scorrere gli obiettivi che la commissione dovrebbe perseguire per restare davvero sorpresi. Un elenco alfabetico, dalla A alla L, parte dal generico quesito dello “stato dei rapporti tra le forze politiche e la magistratura”. E viene subito da chiedersi se la Costituzione preveda che tali “rapporti” debbano esserci e soprattutto di che “tipo” debbano essere. E poi la commissione dovrebbe interrogarsi sullo “stato dei rapporti tra la magistratura e i media”. Dovrebbe indagare sull’esistenza di “correnti interne alla magistratura organizzate in funzione del perseguimento di preponderanti obiettivi politici o ideologici, ovvero collegate a partiti o organizzazioni politiche parlamentari ed extraparlamentari”. Eccoci al punto D dove si chiede se esista “un’influenza, diretta o indiretta, delle correnti politiche esistenti all’interno della magistratura sui comportamenti delle autorità giudiziarie inquirenti e giudicanti”. E ancora se tale influenza pesi “sul conferimento degli incarichi direttivi e sullo svolgimento dell’azione disciplinare da parte dell’organo di autogoverno della magistratura”. Ma è dal punto F che i futuri commissari gioiscono. Perché la commissione deve scoprire se esistono “casi concreti di esercizio mirato dell’azione penale o di direzione o organizzazione dei dibattimenti o dei procedimenti penali in modo selettivo, discriminatorio e inusuale”. Ancora, il punto H: “L’esistenza di casi concreti di influenza esterna nella determinazione di quello che dovrebbe essere il giudice naturale nella composizione degli organi giudicanti e nella definizione dei calendari, con particolare riguardo ai procedimenti nei quali siano coinvolti capi politici ed esponenti politici di partiti”. E siamo al punto I, attraverso il quale il potere legislativo va in netta contrapposizione con quello giudiziario, perché la commissione dovrebbe scoprire “se e in quale misura singoli esponenti o gruppi organizzati all’interno della magistratura abbiano svolto attività in contrasto con il principio della separazione dei poteri, con il principio democratico e con il principio della sovranità popolare, in particolar modo dirette a interferire con l’attività parlamentare e di governo e, più in generale, con l’esercizio delle funzioni di organi costituzionali”. Per concludere, e giungere alle riforme, la commissione dovrebbe decidere alla fine “se e in quale direzione debba essere riformato il quadro normativo riguardante l’ordinamento giudiziario e i procedimenti giurisdizionali penali, civili, amministrativi, tributari e contabili al fine di garantire il funzionamento equo, celere e imparziale della giustizia”. Come dice il dem Michele Bordo “non si è mai vista una commissione di inchiesta parlamentare con il compito di indagare su un altro potere dello Stato. A meno che Forza Italia, Lega e FdI non vogliano che deputati e senatori rifacciano i processi dell’ultimo ventennio”. S’interroga la responsabile Giustizia dei Dem Anna Rossomando, “la commissione d’inchiesta? È una boutade da archiviare perché la separazione dei poteri è alla base della cultura delle garanzie”. Durante la riunione delle due commissioni il dem Franco Vazio stoppa alla radice l’idea stessa di una commissione del genere: “Bisogna essere cauti nel valutare una proposta simile perché non riguarda un fatto specifico, ma la funzione stessa di un organo costituzionale, di un potere dello Stato come la magistratura. Ma non basta, perché l’inchiesta riguarderebbe anche il Csm, cioè un organo indipendente e i cui compiti sono scritti nella Costituzione”. Le argomentazioni di Vazio sono stringenti quando dice: “Se avessero chiesto se Palamara ha fatto bene o male, allora avremmo di fronte un fatto specifico, con un perimetro tracciato, ma qui invece ci si interroga sulla magistratura e sull’uso politico che essa avrebbe fatto delle inchieste. Ci sono commissioni d’inchiesta delicate perché lambiscono un’attività giudiziaria, ma se un potere dello Stato indaga su un altro potere del medesimo Stato allora questa indagine colpisce l’assetto costituzionale”. A questo punto la contrapposizione col centrodestra è netta. Tant’è che Forza Italia e Azione reagiscono subito. Il forzista Pierantonio Zanettin, avvocato ed ex Csm, “si aspetta già dalla prossima settimana un preciso calendario dei lavori” perché “pare surreale che a fronte degli scandali emersi già da due anni e, denunciati anche nel libro di Palamara e Sallusti, il Parlamento faccia lo struzzo e continui a guardare da un’altra parte”. Idem Enrico Costa di Azione che promette “di battersi per il diritto delle forze politiche di calendarizzare le loro proposte, pronti a discutere e, ove non le condividessimo, a respingerle”. Ma il no preventivo non gli piace perché “un atto parlamentare non può essere escluso a forza dall’ordine del giorno”. Decidono i presidenti Brescia e Perantoni E adesso tocca a loro, ai presidenti delle due commissioni, Giuseppe Brescia e Mario Perantoni, entrambi, come dicevamo, di M5S. Dice il primo: “Non entro nel merito della proposta proprio perché rispetto il mio ruolo istituzionale. Ci sono diversi passaggi tecnici da fare e decideremo sentendo l’orientamento dei gruppi. Le presidenze non butteranno certo la palla in tribuna e anzi amareggiano alcuni attacchi al nostro lavoro, figli forse di eccessiva ricerca di visibilità”. Mentre Perantoni ribadisce che “la presidenza non interviene nel merito delle proposte dei gruppi, e dunque si deciderà a breve dopo alcune verifiche”. Ma osserva, come abbiamo anticipato, che “non rientrano nel perimetro delle commissioni parlamentari d’inchiesta temi che possono provocare un conflitto tra poteri dello Stato”. Che è quasi come dire già no. Gioco facile per il calendiano Costa che ai due presidenti di commissione rimprovera di essere “abilissimi a buttare la palla in tribuna”. Adesso la partita è aperta. E come sempre dimostra che la giustizia è la spina nel fianco della maggioranza dove lo scontro è sempre dietro l’angolo su qualsiasi questione si tocchi. L’inchiesta politica sulle toghe che spacca la maggioranza di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 14 aprile 2021 Il centrodestra torna unito e ripropone un chiodo fisso, attualizzato dopo il caso Palamara. Iv ci sta, ma Pd e 5 S dicono no e scoppia il caso a Montecitorio. Un pezzo del passato che ritorna. Di progetti di legge del centrodestra per istituire una commissione bicamerale d’inchiesta sulla magistratura non ce n’è solo uno, quello firmato da tutti i deputati del centrodestra di cui si è parlato ieri in un tempestoso ufficio di presidenza della prima e seconda commissione di Montecitorio, ma almeno sei tra camera e senato. A scatenarli tutti è stato il caso giudiziario Palamara e la più recente intervista bestseller al direttore del giornale Sallusti in cui il magistrato sotto inchiesta a Perugia accusa tutti gli altri, cioè il “sistema” delle correnti. Questa dell’inchiesta politica sulla magistratura è idea antica, sta nel vecchio testamento del centrodestra italiano, parte dal Berlusconi di vent’anni fa e arriva fino a Salvini che l’altro giorno annunciava al Giornale la riforma della giustizia che farà con Silvio e Giorgia. Anzi, è stata proprio la Lega ieri ad annunciare una nuova proposta di legge per chiamare alla sbarra parlamentare le toghe, non contenta di quella a prima firma di una ministra (Gelmini) che a luglio scorso sottoscrissero tutto il centrodestra. Il troppo stroppia e questa novità leghista è stata il cavillo tecnico che ha consentito al Leu, Pd e 5 Stelle - i presidenti delle commissioni giustizia e affari costituzionali della camera sono entrambi grillini - di rinviare la calendarizzazione dello scottante argomento. Ma la prossima settimana ci sarà un altro ufficio di presidenza e la giustizia tornerà a far ballare la maggioranza più grande che c’è. Ieri accuse contrapposte. Per Forza Italia e Lega il resto della maggioranza “fa lo struzzo” o proprio “ostruzionismo” per bloccare la commissione d’inchiesta. Fratelli d’Italia si associa e così anche +Europa-Azione con Costa che accusa i presidenti grillini di “buttare la palla in tribuna”. Replica il presidente della commissione giustizia Perantoni che si deciderà, ma “non rientrano nel perimetro delle commissioni parlamentari d’inchiesta temi che possono provocare un conflitto tra poteri dello stato”. Per il Pd e i 5 Stelle non se ne parla. La responsabile giustizia dem Anna Rossomando crede che la proposta di una commissione d’inchiesta parlamentare sia “una boutade” perché “la separazione dei poteri è alla base della cultura delle garanzie”. Tra le proposte c’è però anche quella di Italia viva con il deputato Giachetti che vuole una commissione - monocamerale stavolta - con perimetro circoscritto alle modalità con cui il Csm ha assegnato gli incarichi direttivi. Non così la proposta a prima firma Gelmini, che vorrebbe invece indagare su cosucce come “lo stato dei rapporti tra la magistratura e le forze politiche” e “tra magistratura e media”. Strabiliante ma se ne riparlerà perché lo stop tecnico di ieri, simile a parti rovesciate a quello che la Lega ha imposto al senato sul disegno di legge contro l’omofobia, sarà anche in questo caso superato. Sulla giustizia non c’è nuova maggioranza che tenga, il passato non passa. Giornalisti, magistrati e avvocati: intercettazioni folli anche nel caso Lucano di Simona Musco Il Dubbio, 14 aprile 2021 Il Pd interroga la ministra Cartabia e chiede l’invio degli ispettori alla Procura di Locri. Ma i giornalisti intercettati sono molti di più. Trentatré giornalisti, un viceprefetto, tre magistrati e pure la portavoce dell’allora presidente della Camera Laura Boldrini. Tutta gente che parlava al telefono con Domenico Lucano, ex sindaco di Riace, e finita nelle intercettazioni eseguite dalla Guardia di Finanza di Locri a carico dell’uomo simbolo dell’accoglienza, nel corso dell’inchiesta che lo ha portato a processo assieme ad altre 26 persone. Ma non solo: Lucano è stato anche intercettato mentre era al telefono con i suoi difensori, all’epoca Antonio Mazzone (recentemente scomparso e sostituito dall’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia) e Andrea Daqua. A dare la notizia è stato il quotidiano Domani, lo stesso che ha fatto venire alla luce il cosiddetto “sistema Trapani” e che ha pubblicato un elenco parziale della miriade di persone registrate mentre si trovavano al telefono con l’ex primo cittadino calabrese. La vicenda siciliana è nota: la giornalista d’inchiesta Nancy Porsia è stata spiata per mesi dai magistrati, rendendo così pubbliche le sue fonti. E in quel caso sono stati ben cinque gli avvocati intercettati, tutti alle prese con questioni legate al loro mandato difensivo, in violazione dell’articolo 103 del codice di procedura penale. La vicenda Lucano si differenzia per un fatto: in questo caso, i giornalisti - tra i quali quelli di Repubblica, Fatto Quotidiano, Dubbio, Famiglia Cristiana, La7, Ansa e diverse testate calabresi - sono stati ascoltati mentre discutevano con il principale indagato, ovvero senza che fossero le loro utenze ad essere sottoposte a captazione. Ma in ogni caso sono decine le conversazioni spiate dai finanzieri, che ascoltano in anteprima interviste e domande rivolte dai cronisti all’ex sindaco. L’inchiesta si sviluppa nello stesso periodo di quella siciliana, ovvero proprio nel periodo in cui le politiche dell’accoglienza, attraverso l’azione dell’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, hanno posto forti limiti all’azione delle ong e ai diritti dei richiedenti asilo. Quasi simultaneamente, due procure si sono attivate colpendo da un lato i soccorsi in mare, dall’altro una gestione dell’accoglienza basata sull’integrazione e non sulla ghettizzazione. Così come il decreto Minniti, che da un lato imponeva un codice di regolamentazione alle ong (firmato da tutte tranne Medici senza frontiere) che di fatto le impegnava a non entrare nelle acque territoriali libiche e di non ostacolare l’attività di Search and Rescue da parte della Guardia costiera libica, la cui condotta è finita nel mirino dell’Onu per i crimini contro i migranti, e dall’altro estendeva la rete dei centri di detenzione per i migranti irregolari. Insomma, esattamente i modelli opposti a quelli di Msf e Lucano, fino a quel momento esaltati anche dalle istituzioni. Contemporaneamente, i giornalisti, quelli che Lucano definiva “la mia forza”, sono finiti nella rete a strascico della procura. Nel caso di Francesco Sorgiovanni, giornalista del Quotidiano del Sud, le conversazioni erano finite anche nell’ordinanza di custodia cautelare. Le altre, ritenute ininfluenti dagli stessi investigatori, sono state comunque trascritte e sono contenute nei brogliacci, 772 files consegnati alle difese e poi passate di mano in mano, arrivando alla stampa. “Non solo nel mio interesse - ha dichiarato Lucano - ma nell’interesse del corretto esercizio delle attività processuali, spero che la giustizia faccia chiarezza anche su questo aspetto. Non è normale che i giornalisti e i loro numeri di telefono siano stati resi pubblici così come non è normale che vengano riportate le mie intercettazioni con magistrati che nulla hanno a che vedere con le indagini. Per il resto, attendo con fiducia l’esito del processo che mi riguarda”. Ma ci sono anche tre magistrati nel grosso faldone del caso Riace. Uno, Emilio Sirianni, era già finito nel tritacarne mediatico, quando il Giornale lo attaccò per aver anteposto la solidarietà alla legge. All’epoca il Csm aprì un fascicolo disciplinare sulla toga, che venne però assolta. L’accusa era emblematica: aver dato consigli - da amico - al sindaco di Riace nel corso delle indagini. Non sugli atti - all’epoca non conosciuti dai due - ma su quanto noto a tutti. Ma nell’immenso pacchetto accoglienza locrese ci sono anche altri due magistrati: Roberto Lucisano, presidente della Corte d’assise d’Appello di Reggio Calabria, “colpevole” anche lui di esprimere affetto e solidarietà a Lucano, e Olga Tarzia, presidente di sezione della stessa Corte. Per i due erano stati aperti due fascicoli disciplinari e per entrambi è stata disposta l’archiviazione, proprio in quanto conversazioni amicali. Ma anche in quel caso tutto risulta trascritto, tutto è finito nero su bianco, così come le questioni personali di Lucano, le sue vicende familiari, le problematiche e gli sfoghi del tutto sconnessi dall’indagine. Ed è proprio per tale motivo che il Pd ha chiesto alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, l’invio degli ispettori ministeriali alla Procura di Locri, così come accaduto a Trapani. “Insieme ai colleghi Bonomo, Bruno Bossio, Cantone, Ciampi, Digiorgi, Fiano, Frailis, Morassut, Orfini, Pellicani, Pezzopane, Pini, Raciti e Siani, ho depositato un’interrogazione al ministro della Giustizia Marta Cartabia - ha affermato il deputato dem Stefano Ceccanti, capogruppo in Commissione Affari Costituzionali. Appare opportuno che siano adottate iniziative affinché sia garantito lo scrupoloso rispetto dei principi generali relativi alla tutela del diritto di cronaca, della libertà personale e di informazione e del diritto alla difesa. Il ripetersi di fatti analoghi sembra anche far pensare a prassi diffuse in violazione di legge che appaiono gravi anche quando non avvengano solo nei confronti di cronisti”. A chiedere accertamenti è anche la Federazione nazionale della stampa. “Le intercettazioni delle conversazioni di numerosi cronisti da parte della Procura di Locri, oltre che da quella di Trapani - si legge in una nota a firma del segretario generale Raffaele Lorusso - rendono ancora più inquietante una vicenda indegna di un Paese civile. È inaccettabile che siano state trascritte conversazioni che la stessa polizia giudiziaria riteneva di nessuna importanza”. Ad intervenire è anche il direttivo dell’Unci Calabria: “La sensazione è che si sia voluta ricostruire la rete di giornalisti con il quali Lucano si sentiva”. E che i giornalisti fossero un “problema” per le indagini emerge anche da un altro particolare: l’allora prefetto di Reggio Calabria, Michele Di Bari, poi nominato dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini capo del dipartimento libertà civili e immigrazione del Viminale, colui che con le sue ispezioni avviò la macchina che distrusse il modello Riace, scrisse alla procura di Locri esprimendo preoccupazione per l’atteggiamento dei giornalisti: lo si evince da una lettera del 14 maggio 2016, quando ipotizzò “tentativi di mutare lo scenario, peraltro, a primo acchito ammantato da un idilliaco alone” del caso Riace. Tentativi che “potrebbero scontrarsi con plateali manifestazioni di protesta, suscettibili di probabile enfatizzazione da parte dei mezzi di comunicazione”. Tant’è vero che le manifestazioni di solidarietà al sindaco non vennero autorizzate dalla Questura, mentre quelle anti-Lucano promossa da Forza Nuova a inizio 2017 fu autorizzata. Ma come le altre che si proponevano di smitizzare la sua figura, fu un flop. Rendere la giustizia più civile? Meno giustizia penale, please di Iuri Maria Prado Il Riformista, 14 aprile 2021 Le ingenti risorse impiegate per spiare e intercettare a caccia di reati inesistenti potrebbero essere utilizzate per ottenere processi più rapidi. Tra i grandi mali prodotti dal nostro ordinamento penale c’è quello che soffre l’altro comparto dell’amministrazione, la giustizia civile. Le risorse ingentissime veicolate a sorreggere il sistema dell’azione penale obbligatoria e ad alimentare la fungaia di agenzie anti-corruzione e direzioni investigative, assai più utilmente potrebbero essere dirottate e adoperate per il finanziamento degli ordinari servizi della giustizia in favore dei cittadini. Se il loro diritto a una giustizia efficiente è revocato dalle lungaggini che spediscono a sentenza dopo anni e anni; se il loro credito langue sotto le montagne di scartoffie ingiallite ancora incombenti sull’arrancare del processo telematico; se la loro pretesa di veder riparato il torto civile che ingiustamente li affligge è maltrattata dalla spocchia di un’amministrazione che non solo adempie male al proprio ufficio, ma persino si lagna perché chi vi si rivolge lo sovraccarica, come il sovrano che sbuffa perché deve perdere tempo ad ascoltare i reclami dei sudditi; insomma se il complesso della giustizia civile non rende il servizio che dovrebbe è anche perché immani risorse sono distratte in omaggio una malintesa esigenza repressiva e securitaria, un bisogno letteralmente creato dall’imperante pan-penalismo che vede reati dappertutto e quando li cerca e non li trova è disposta persino a inventarseli pur di preservare l’immagine falsa di una società assediata dal crimine. La persecuzione dell’immigrato preso con qualche grammo di fumo occupa il lavoro di un folto gruppo di magistrati, tra inquirenti e giudicanti, a tacere di quello delle forze dell’ordine inutilmente prestate a quella costosissima attività di tutela: e sono, appunto, risorse che meglio si impiegherebbero nella destinazione civile, nel disbrigo dei milioni di procedimenti pendenti che rendono puramente teorico il diritto dei cittadini a una giustizia efficiente. Gli eserciti di funzionari impegnati a spiare la vita dei cittadini, a pedinarne i movimenti, a intercettarne le conversazioni, costano doppiamente perché non solo gravano sulle libertà comuni ma inoltre sguarniscono il fronte ordinario della giustizia sulle cose importanti, i rapporti civili tra i cittadini, le controversie di interesse quotidiano che non trovano risarcimento nel rastrellamento giudiziario o nella carcerazione del poveraccio con cui si celebra la certezza della pena. Ed è il caso di aggiungere che ai problemi della giustizia civile, certamente determinati anche dalla persistenza di questo suprematismo penale, davvero non si pone rimedio come vorrebbe una magari ben intenzionata, ma assai poco calcolata, istanza riformatrice che rimette all’ambito extra-giudiziario la soluzione delle controversie. Non si migliora la giustizia inducendola all’abdicazione in favore di “mediatori” (questo pressappoco è il generale progetto) che frappongono l’obbligatorietà del proprio intervento al diritto del cittadino di avere un giudice professionale, non un patronato di orecchianti, a occuparsi dei suoi diritti. Una enorme colonia penale con isolotti di giustizia civile in cui si subappalta il lavoro a improbabili professionalità avventizie solo perché ci si arrende a un’inefficienza ben altrimenti rimediabile assomiglia molto poco allo Stato di diritto che occorrerebbe ripristinare. È con meno giustizia penale che si incivilisce la giustizia; ed è restituendo effettività alla giurisdizione civile, non erodendola ulteriormente, che si garantisce il diritto del cittadino di trovare un servizio anziché un ginepraio. Csm, chat a doppio taglio: alla fine paga solo Palamara di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 14 aprile 2021 La prima commissione archivia (e fa bene) le pratiche di trasferimento per Greco, de Raho e due ex togati: innocui i contatti con l’ex capo Anm. Quando questa vicenda sarà finita e dimenticata, l’unico ad essere uscito con le ossa bastonate sarà Luca Palamara, l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, fresco di “radiazione” dall’ordine giudiziario (il ricorso contro questa decisione verrà discusso davanti alle Sezioni unite della Cassazione il prossimo mese di giugno, ndr). Il Consiglio superiore della magistratura ha deciso, oggi il voto in Plenum, di archiviare le posizioni del procuratore di Milano, Francesco Greco, del capo della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, Federico Cafiero De Raho, e di altri magistrati che avevano “chattato” con Palamara. Le chat di Palamara, diventate famose dopo essere state pubblicate su molti giornali lo scorso anno, erano state trasmesse dalla Procura di Perugia sia al Csm che alla Procura generale della Cassazione per gli aspetti disciplinari. Con la circolare del procuratore Giovanni Salvi si era ristretto il campo d’azione, ritenendo non sanzionabile l’auto promozione del magistrato. E anche sul fronte della incompatibilità funzionale, oggetto di valutazione da parte della Prima commissione del Csm, poco o nulla è emerso dalla loro lettura. Per il capo della Procura di Milano, in particolare, oggetto dell’attenzione della Commissione era stata la vicenda relativa alla nomina, avvenuta con delibera del Consiglio dell’8 novembre 2017, dei procuratori aggiunti milanesi. Su questo, si legge nella delibera, “non risulta che vi sia stata una impropria interferenza” da parte di Greco, anche se “emerge che sicuramente vi furono delle interlocuzioni” con i consiglieri del Csm dell’epoca, ma “furono attivate dagli stessi consiglieri e non si risolsero in alcuna segnalazione o promozione di specifici nominativi da parte di Greco, quanto in una generale consultazione sulle problematiche dell’ufficio e sulle professionalità richieste per la miglior gestione del medesimo”. Pertanto, “non risultano condotte suscettibili di incidere sull’imparzialità e indipendenza” del procuratore, “neanche sotto il profilo dell’immagine”. Quanto al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Cafiero de Raho, la Commissione ha esaminato le interlocuzioni con Palamara in relazione alla propria candidatura a procuratore di Napoli e poi a procuratore nazionale antimafia, contatti che non hanno determinato “appannamento della credibilità professionale e personale” di De Raho. All’attenzione della Commissione anche la vicenda dell’esclusione, decisa e poi revocata, del pm antimafia Nino di Matteo, attuale togato al Csm, dal gruppo di magistrati impegnati sulle stragi di mafia, dopo un’intervista televisiva. “Non vi sono elementi per ritenere che il provvedimento suddetto sia sintomo di difetto di imparzialità in quanto frutto di improprie interferenze, esterne o interne all’ufficio, sorrette da interessi o finalità diversi da quelli del buon andamento dell’attività della Procura nazionale antimafia”, si legge nella delibera. E “non emerge che le scelte” del procuratore De Raho “siano state dettate da impropri accordi con Palamara, con il quale non risultano conversazioni sul punto”. Dopo queste archiviazioni, per le toghe iscritte all’Anm rimarrebbe eventualmente in piedi quella di violazione del codice deontologico dell’associazione. Il giudizio in questo caso è in salita in quanto diversi magistrati coinvolti nelle chat hanno deciso di cancellarsi dall’Anm azzerando sul nascere ogni possibile futura contestazione. Il Csm ha poi deciso per il momento di non costituirsi in giudizio nei confronti di Palamara nel processo in corso a Perugia per corruzione. Si attenderà, eventualmente, il dibattimento essendo ancora tutto molto prematuro. E sono, infine, legittime le nomine di Pietro Curzio e Margherita Cassano rispettivamente a primo presidente e presidente aggiunto della Corte di Cassazione, deliberate dal Csm il 15 luglio dello scorso anno. Lo ha stabilito il Tar del Lazio che ha respinto i ricorsi presentati da altri candidati ai due incarichi. Nel caso di Curzio il ricorso era stato presentato da Angelo Spirito, che al pari di Curzio era presidente di sezione a piazza Cavour. Il Tar del Lazio ha ritenuto che la scelta del Csm poggi su una motivazione immune da vizi e che “appare adeguata e coerente”. Diversi i ricorsi contro la nomina di Margherita Cassano: anche in questo caso i giudici amministrativi hanno giudicato la decisione del Consiglio “coerentemente argomentata” e senza incongruenze. Mario Moretti e Mario Tuti devono essere liberati. Lasciarli ancora in prigione è solo vendetta di David Romoli Il Riformista, 14 aprile 2021 Il primo (capo delle Br) sta dietro le sbarre da 40 anni esatti. Il secondo (fascista) da quasi 45. Hanno commesso terribili delitti? Sì, ma lasciarli marcire fino alla morte è anche questo un delitto terribile. Ci sono tutte le condizioni per scarcerarli. Senza pretendere abiure o atti di sottomissione. Quando il 4 aprile 1981 fu arrestato Mario Moretti - quanto di più vicino a un capo le Brigate Rosse abbiano mai avuto - il geometra di Empoli Mario Tuti, orgogliosamente fascista allora come ora, era in carcere già da cinque anni e mezzo. Era stato arrestato in Francia il 25 luglio 1975, anche se evidentemente la notizia fu ritardata e ufficialmente la data dell’arresto è del 27 luglio. Avevano in comune la definizione mediatica più abusata che si possa immaginare. Moretti, latitante dal 1972, era “la primula rossa”. Tuti, in fuga dal 24 gennaio del 1975 dopo aver ucciso due dei tre poliziotti che si erano presentati a casa sua per una perquisizione, e averne ferito gravemente un terzo, era, immancabilmente, “la primula nera”. L’arresto del capo delle Br fu incruento: si dichiarò subito a voce altissima prigioniero politico e si identificò, per impedire che il suo arresto fosse tenuto segreto. Anni dopo ricorderà che il suo primo pensiero fu: “Adesso mi riposo”. A Tuti andò peggio. La polizia italiana lo andò a prendere in Francia, dopo mesi di latitanza passati tra Francia e Italia, in una operazione di dubbia legalità, e sparò ferendolo gravemente. I due hanno in comune qualcos’altro, oltre al nome di battesimo e ai nomignoli coniati all’epoca da cronisti di scarsa fantasia: sono ancora in galera, almeno la notte, nonostante da allora siano passati decenni e quasi tutti i loro compagni o camerati siano già liberi da decenni. La dabbenaggine del plotone di visionari che da decenni sospettano Moretti di essere un infiltrato, un uomo dei servizi segreti, un losco individuo al servizio di mai meglio identificati “pupari”, è tale che nessuno si chiede come sia possibile che, fra tutti i brigatisti a vario titolo coinvolti nel sequestro Moro, l’unico in stato di detenzione sia ancora proprio quello che, se le loro trame bislacche fossero anche solo in minima parte reali, sarebbe dovuto uscire di galera, in un modo o nell’altro, poco dopo l’arresto. Misteri della misteriologia. Anche su Tuti pesa una sorta di Fatwa mediatica, una di quelle bugie ripetute tante volte da diventare per tutti verità assoluta. È considerato uno “stragista nero”, anche se è stato in realtà assolto non solo dall’accusa di essere l’autore della strage dell’Italicus ma anche da quelle relative agli altri attentati ai treni sulla tratta Firenze-Roma del 1974-75, per i quali era stato inquisito. La perquisizione finita nel sangue avvenne in seguito a un attentato sventato alla Camera di commercio di Arezzo effettivamente organizzato dal gruppo di Tuti. Ma il volantino di rivendicazione avrebbe dovuto chiarire subito la differenza tra gli obiettivi di quel gruppo nero e lo stragismo. Quando Moretti fu preso, le Br erano già state sconfitte, anche se nessuno ancora se ne rendeva conto: smantellate da una serie di divisioni interne oltre che dal crescente fenomeno del pentitismo. Cadde nella trappola della polizia proprio perché, cercando di rimettere in piedi l’organizzazione dopo la scissione della colonna operaista “Walter Alasia”, si era rassegnato a trasgredire le norme di sicurezza adoperate allora dalle Br. Il Fronte nazionale rivoluzionario, fondato all’estremo opposto dello spettro politico da Tuti, non poteva essere sconfitto perché non aveva mai pensato di poter vincere. “I compagni pensavano di poter conquistare lo Stato. Noi sapevamo di non poterlo fare. Volevamo solo far sapere che c’eravamo ancora, che non eravamo stati battuti”, ha spiegato in un’intervista televisiva Tuti nel 2019. Mario Moretti è semilibero dal 1997. In carcere fu aggredito e ferito gravemente poco dopo l’arresto, nel 1981, per motivi mai chiariti. Non si è mai pentito né dissociato. Tecnicamente è dunque un irriducibile, anche se sin dal 1987 ha dichiarato conclusa la lotta armata delle Br. Di giorno lavora in un centro recupero detenuti. La notte deve tornare a dormire nel carcere milanese di Opera. All’ergastolo per l’uccisione dei due agenti, Mario Tuti ne ha avuto un altro ergastolo per aver strangolato, insieme a Pierluigi Concutelli, Ermanno Buzzi, un detenuto di estrema destra che i due ritenevano fosse diventato un informatore della polizia. Nel 1987 fu protagonista di uno spettacolare tentativo di evasione dal carcere di Opera. Con altri 5 detenuti tenne in ostaggio per quasi una settimana 50 agenti penitenziari, più il direttore, il medico l’intero vertice della prigione. Si arresero in cambio della promessa del lavoro esterno, garantita da Amnesty International. Promessa dimenticata subito dopo la liberazione degli ostaggi. Anche lui, nonostante sia da que11987 un detenuto modello, è un “irriducibile”. Tuti ha ottenuto il lavoro esterno, con regime inizialmente molto severo, solo nel 2004, dopo due richieste respinte. Oggi è in semilibertà e lavora in una comunità di recupero tossicodipendenti a Tarquinia. Nel giugno 2020 il magistrato di sorveglianza aveva chiesto, senza avvertirlo, la scarcerazione per Covid. Fu negata data la “pericolosità sociale” del detenuto che commentò a caldo la notizia su Fb: “Se ho ben capito dovrei dire o far dire dal mio avvocato che sono innocuo, imbelle e che non reggo il carcere. Cose che se qualcuno me le dicesse sai i calci nel culo!”. Mario Moretti e Mario Tuti, entrambi nati nel 1946, sono ancora in carcere nonostante tutti siano consapevoli del fatto che non costituiscono più alcun pericolo. Si sono rifiutati di abiurare, anche per quella via ipocrita che lo Stato italiano ritiene sufficiente ma necessaria: l’invio di lettere di solito burocraticamente preparate dagli avvocati e Firmate dai detenuti in cui invocano il perdono dei parenti delle vittime. Hanno criticato le loro scelte ma rifiutando l’atto d’abiura e senza rinnegare la loro biografia. Tuti parla apertamente dei problemi di coscienza con cui convive, ma senza recitare l’atto di contrizione nelle forme richieste. “Si dice che li ferri so’ catene, ma io li porto come bracciali d’oro” ha scritto l’anno scorso, a 45 anni dal giorno del suo arresto. Il fatto che Moretti e Tuti siano ancora in galera, a differenza di tutti o quasi quelli che da sinistra o da destra impugnarono le armi in un passato ormai lontanissimo, è una barbarie in sé. Ma la motivazione, l’assenza di abiura, l’indisponibilità a rinnegare anche solo per forma e convenienza la loro storia, la richiesta di un atto ufficiale di sottomissione, è anche peggiore. tenerli ancora dietro le sbarre è vendetta. Solo questo può essere: l’affermazione del diritto alla vendetta. Il caso Pino Maniaci mostra i cialtronismi sans frontières della giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 14 aprile 2021 Alla fine, dopo il grande sputtanamento Pino Maniaci è stato assolto. Almeno dall’accusa più grave, quella di estorsione, mentre è stato condannato per diffamazione. I pm della procura di Palermo avevano chiesto 11 anni e mezzo di reclusione, ne hanno ottenuto 1 e mezzo per un reato molto più lieve (si vedrà in appello come andrà a finire). La storia aveva sconvolto, nel 2016, il mondo dell’antimafia. Pino Maniaci, il direttore di Telejato simbolo del giornalismo che lottava contro Cosa Nostra, finì in una retata antimafia della procura di Palermo accusato di un’estorsione da 366 euro ai danni di due sindaci. Quel reato non c’entrava nulla con la mafia, ma Maniaci venne infilato nella stessa operazione con nove boss che accusava dalla sua emittente. Nella conferenza stampa c’era tutta l’antimafia di Palermo, dal procuratore Franco Lo Voi all’aggiunto Vittorio Teresi, e i carabinieri prepararono anche un video con le intercettazioni montate a regola d’arte, inserendo questioni esterne all’indagine come l’uccisione di due cani non si sa per ritorsione mafiosa o se per questioni di corna. Insomma, una imponente operazione di sputtanamento che buttava l’”eroe” giù dal piedistallo nel fango. Le accuse erano inconsistenti e secondo Maniaci quella della procura è stato un complotto per farlo fuori visto che alcune sue inchieste giornalistiche hanno avuto come obiettivo il magistrato Silvana Saguto. A difenderlo è stato l’avvocato Antonio Ingroia che, avallando questa ipotesi, getta un’ombra sui metodi di lavoro di una procura che conosce benissimo. Un altro aspetto interessante della faccenda, portato alla luce all’epoca dal Foglio, è che Reporters sans frontières (Rsf) sbianchettò il nome di Pino Maniaci dai “100 Information heroes”, in cui la ong l’aveva precedentemente inserito. Così i 100 “eroi dell’informazione” erano diventati 99. In pieno stile sovietico, senza alcuna comunicazione pubblica o al diretto interessato, il nome e la foto vennero cancellati. “Ci è capitato di apprendere che l’onestà di Giuseppe Maniaci è stata seriamente messa in discussione e che lo scorso maggio è stato incriminato”, risposte alla richiesta di spiegazioni del Foglio il chief editor di Rsf Gilles Wullus. “Fino a quando l’indagine non sarà finita, abbiamo scelto di ritirarlo dalla nostra lista di ‘Eroi dell’informazionè”. La modalità fu davvero indecente per una ong che si occupa di libertà dell’informazione perché Maniaci all’epoca era solo indagato e non gli venne chiesta alcuna spiegazione per una valutazione giusta sia per garantire il diritto di difesa. Inoltre non fu un comportamento equo, visto che in quella lista tutt’ora ci sono personaggi che hanno ben più gravi problemi con la giustizia come Julian Assange. Il caso Maniaci è un altro esempio di come i diritti e le garanzie degli indagati vengano calpestati sia dai magistrati sia dai giornalisti. I “100 eroi dell’informazione” di Reporter senza frontiere sono sempre 99, anche dopo l’assoluzione di Pino Maniaci. “Così riformeremo la giustizia tributaria”. Parla della Cananea di Claudio Cerasa Il Foglio, 14 aprile 2021 Il dubbio più scontato, è lui stesso prenderlo di petto. “Vi starete chiedendo se serviva davvero, una nuova commissione”, sorride Giacinto della Cananea. E un po’ parla col tono di chi la domanda deve essersela posta, forse anche solo per il gusto di prepararsi una risposta convincente. “E allora veniamo ai dati: presso la Corte di Cassazione, ci sono al momento circa cinquantamila ricorsi pendenti il cui tempo di giacenza medio è di quasi tre anni. Se ci si aggiungono i 3,5 anni che servono di solito alle commissioni provinciali e regionali, forse ci rendiamo conto perché la riforma della giustizia tributaria è necessaria”, ci dice della Cananea, che dai ministri Franco e Cartabia è stato appunto chiamato a presiedere una commissione sul tema. E dunque toccherà a lui, romano classe 1965, docente di Diritto amministrativo alla Bocconi, cresciuto nella cantèra di Sabino Cassese, coordinare i lavori di questi sette tecnici investiti del compito di risolvere le storture della giustizia tributaria italiana. Auguri, viene da dire. “L’impegno è gravoso”, sorride della Cananea, “ma seguiremo un approccio molto concreto. Intanto cercando di risolvere questa stranezza di una giustizia tributaria bicipite: con un capo nelle commissioni tributarie provinciali e regionali che fanno riferimento al Mef, e l’altro nella Cassazione. E allo stesso tempo è ormai necessario affrontare, come notano del resto molti professionisti del settore, un’altra anomalia: quella per cui, a differenza dei giudici civili, amministrativi e contabili, i giudici tributari che operano nelle commissioni non sono delle figure specializzate”. Ed è a fronte di questi enormi problemi che però la commissione creata per volere dei ministri dell’Economia e della Giustizia concede un tempo piccolo. “Nel decreto di nomina viene indicata l’urgenza di fornire delle risposte entro il 30 giugno, tenendo conto anche delle incombenze legate al Recovery plan: ridurre i tempi della giustizia, anche tributaria, serve a rendere più competitivo, oltreché più giusto, il paese”. Fare in fretta, dunque. “Ci si chiede un’analisi del quadro normativo e delle proposte su come risolvere alcune criticità”. Idee? “A titolo personale, posso dire fin d’ora che in molti casi si potrebbe intervenire anche a legislazione invariata e con un basso onere finanziario: si potrebbe ad esempio far sì che l’amministrazione non resista in terzo grado, laddove abbia perso nei primi due. In altri casi servirebbe invece investire delle risorse per incentivare il coinvolgimento di maggiore personale specializzato, come quello dei magistrati in pensione, al fine di rinforzare il lavoro a stralcio. Inoltre, penso alla banca dati che riguarda le sentenze emesse dalle commissioni tributarie, che dovrebbe divenire pienamente consultabile anche dai contribuenti: per un principio di parità delle armi in sede di processo, ma anche perché spesso, se si mostrasse l’evidenza dei precedenti, molti sarebbero dissuasi dall’avventurarsi in ricorsi che, stando ai casi analoghi, si sono sempre rivelati improvvidi”. Il tutto con la speranza di superare la perenne guerriglia politica intorno ai contenziosi tributari, che ha vissuto l’ultima fiammata nella baruffa intorno al condono inserito nel decreto “Sostegni”. “Come ha ben detto il presidente Draghi, se ci troviamo in questa situazione è a causa di ritardi strutturali. Se lo stato ha lasciato accumulare milioni di cartelle inesigibili, deve anzitutto ammettere le sue inefficienze; dopodiché, deve chiedersi se, in una logica di bilanciamento degli interessi, sia inutile continuare a provare a saldare dei contenziosi di piccole entità che ingolfano l’intero sistema”. Le Sezioni Unite equiparano la convivenza more uxorio al vincolo matrimoniale di Fabrizio Ventimiglia e Giorgia Conconi Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2021 Ai fini dell’applicazione dell’art. 384 co. 1 c.p.. Nota a sentenza: Cass. Pen., Sez. Un., 17/03/21, n. 10381. Con la sentenza in commento le Sezioni Unite della Cassazione intervengono a risolvere un contrasto che era sorto nella giurisprudenza di legittimità rispetto all’ambito di applicabilità della disposizione di cui all’art. 384 c.p., chiarendo che la norma in commento “in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento della libertà”. Questa in sintesi la vicenda processuale. La Corte di Appello di Cagliari confermava la sentenza di primo grado che aveva condannato per favoreggiamento personale la convivente del responsabile di un sinistro stradale, la quale si era falsamente dichiarata colpevole ai Carabinieri. L’imputa ricorreva, dunque, per Cassazione, deducendo la mancata applicazione nelle sentenze di primo e secondo grado della causa di non punibilità di cui all’art. 384 co. 1 c.p. La Sesta Sezione della Suprema Corte, rilevata la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine all’ipotesi di applicazione dell’art. 384 co. 1 c.p. anche al convivente more uxorio, decideva di rimettere il ricorso alle Sezioni Unite. Le Sezioni Unite, nella sentenza in commento, premettono che l’orientamento giurisprudenziale prevalente esclude l’applicazione della norma anche rispetto al convivente more uxorio, sulla base del mero dato letterale della disposizione che ne circoscrive l’applicabilità ai “prossimi congiunti”, non menzionando, invece, i conviventi. I Giudici di legittimità, aderendo all’indirizzo minoritario, ritengono ammissibile e fondato il ricorso, affermando che una “effettiva coerenza all’interno del sistema non può che condurre ad una parità di trattamento, anche sul piano penale, della famiglia legittima e di quella more uxorio”. La medesima equiparazione, rilevano i Giudici della Suprema Corte, è rinvenibile, peraltro, rispetto ad altri istituti. L’art. 199 c.p.p., ad esempio, che prevede l’obbligo di avvisare i prossimi congiunti dell’imputato della propria facoltà di non deporre, contempla anche il convivente e, parimenti, la parificazione sul piano normativo tra la famiglia matrimoniale e quella non matrimoniale sussiste, come noto, anche in tema di filiazione. Gli Ermellini, peraltro, ritengono applicabile la disposizione anche ai conviventi more uxorio, proprio in virtù della medesima ratio che sottintende entrambe le norme in rilievo (l’art. 199 c.p.p. e l’art. 384 c.p.) e cioè l’inesigibilità dell’osservanza del comando penale in forza del legame affettivo che lega il prossimo congiunto all’agente, sulla base del principio generale dell’ordinamento nemo tenetur se detegere. La Corte afferma, dunque, che la disposizione in commento può trovare applicazione anche in relazione alle coppie di fatto, riconoscendo una assoluta parità alle situazioni del coniuge e del convivente, dal momento che “l’esistenza di un conflitto determinato da sentimenti affettivi, non può essere valutato differentemente a seconda che l’unione tra due persone sia fondata o meno sul vincolo matrimoniale”. Cagliari. Suicidio in cella a Uta. Caligaris: “La pandemia rende il carcere disumano” di Valeria Putzolu castedduonline.it, 14 aprile 2021 “L’aspetto sicuramente della pandemia ha in qualche modo interrotto tutte le attività che venivano svolte all’interno delle strutture penitenziarie e, in particolare, l’attività dei volontari che hanno creato un rapporto di continuità con la popolazione detenuta”. Detenuto si taglia la gola nel carcere di Uta, l’ennesimo caso di suicidio tra le sbarre. A Radio Casteddu, Maria Grazia Caligaris (Socialismo Diritti Riforme): “L’aspetto sicuramente della pandemia ha in qualche modo interrotto tutte le attività che venivano svolte all’interno delle strutture penitenziarie e, in particolare, l’attività dei volontari che sono quelli che hanno creato un rapporto di continuità con la popolazione detenuta, sia nella sezione maschile che in quella femminile. Oltre la pandemia, le distanze che ci sono per raggiungere l’istituto Penitenziario, che è un proprio villaggio, dove ci sono mediamente 600 detenuti, quindi c’è una condizione di numeri regolamentari che, sembra, siano ampiamente superati e dove c’è, soprattutto, una problematica di carattere psichiatrico all’interno della struttura di Uta, in generale, però, in quelle sarde. Il numero dei detenuti con problematiche di natura psichica sono veramente numerosi. Abbiamo necessità di centri che possano garantire una cura adeguata a persone in difficoltà. È anche vero che purtroppo, talvolta sono i detenuti che riescono a dissimulare meglio il loro stato emotivo: quelli che maggiormente sono esposti a episodi irreparabili, il più delle volte appaiono come persone tranquille che non manifestano un particolare disagio. Quello che è accaduto ha suscitato sgomento in tutti anche per il modo che ha scelto, una morte atroce, cioè quella di tagliarsi la gola. In questo caso si è trattato di una di una condizione che denuncia un concetto di solitudine così profonda e così inarrivabile a chiunque: era determinato a non darsi scampo perché l’uso più frequente è quello dell’impiccagione, che a volte è un richiamo di attenzione, ma in questo caso esprime una decisa volontà a farla finita per una vita che evidentemente gli pesava troppo e, ovviamente, le condizioni detentive non aiutano. La situazione nel carcere di Uta è una situazione “normale”: ci sono degli spazi, anche delle occasioni di socialità tra detenuti, ma si capisce bene che davanti alla pandemia le possibilità anche di avere delle relazioni più serene diventa sempre più difficile. È difficile avere dei colloqui con i familiari, che sono ridotti al minimo e che passano, il più delle volte, attraverso il computer quindi con dirette Skype, a distanza, l’impossibilità di abbracciare i figli, di poter trascorrere delle occasioni a livello umano. La disumanizzazione creata da questa pandemia grava profondamente sia sulla famiglia dei detenuti che sulle persone che hanno perso la libertà, sulle donne che in maniera particolare soffrono ancora più forte della condizione di solitudine”. Palermo. Agente penitenziario suicida nel carcere Pagliarelli grandangoloagrigento.it, 14 aprile 2021 Un Assistente Capo Coordinatore del Corpo di Polizia Penitenziaria, di 56 anni, originario di Sambuca di Sicilia e da molti anni in servizio nella Casa circondariale di Pagliarelli a Palermo, si è tolto la vita. A darne notizia è il Sappe, sindacato autonomo della polizia penitenziaria. “È una notizia agghiacciante, che sconvolge tutti noi: dall’inizio dell’anno è il terzo suicidio che contiamo nelle fila del Corpo di Polizia Penitenziaria, uno dei quattro Corpi di Polizia dello Stato italiano”, dichiara il segretario generale Donato Capece. Secondo il sindacato “sui temi del benessere lavorativo dei poliziotti penitenziari l’Amministrazione Penitenziaria e il Ministero della Giustizia sono in colpevole ritardo, senza alcuna iniziativa concreta”. Di qui la richiesta alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia di “un incontro urgente per attivare serie iniziative di contrasto al disagio dei poliziotti penitenziari”. Nel 2020 sono stati 6 i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita ed erano stati 11 nel 2019, riferisce ancora il Sappe che giudica questi dati “sconvolgenti” e chiede in particolare di “strutturare un’apposita direzione medica della Polizia Penitenziaria, composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare e promuovere la salute di tutti i dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria”. Bologna. Dozza: il 30% degli operatori non si vaccina, i detenuti ancora attendono di Michele Mastandrea Redattore Sociale, 14 aprile 2021 D’Amore (Sinappe): “No all’obbligo, ma esiste un dovere morale di farlo”. “Tra agenti e personale amministrativo siamo intorno al 70% di aderenti alla vaccinazione. La maggior parte dei restanti ha deciso volontariamente di non farlo”. Le parole di Nicola D’Amore, funzionario del Sinappe, sindacato di polizia penitenziaria attivo alla Dozza, aggiungono benzina sul fuoco della polemica relativa allo stato della campagna vaccinale negli istituti penitenziari. A Bologna la campagna vaccinale in carcere è iniziata ai primi di febbraio, ma il rischio è che la mancata copertura della totalità degli operatori possa avere delle conseguenze sui contagi, del personale come dei detenuti. “Aspettiamo tutti una norma che dica cosa succederà a chi non si sottopone al vaccino”, spiega D’Amore, che però per quanto ritenga palese “una questione morale rispetto alla vaccinazione per chi lavora in carcere” si dice “contrario all’obbligo vaccinale” e sottolinea come “la perenne emergenza sovraffollamento alla Dozza, ormai una costante, aumenti i problemi”. Fa paura il caso Reggio Emilia, con il carcere locale che vede 100 positivi tra detenuti e operatori su una popolazione ben inferiore a quella dell’istituto bolognese, che per D’Amore ha comunque “gestito molto bene l’emergenza”. Del resto, fu proprio la paura del contagio all’origine delle rivolte del marzo 2020. A oggi, i detenuti della Dozza, così come tutte le circa 3.200 persone detenute negli istituti in regione, non sono stati vaccinati. In Emilia-Romagna l’immunizzazione dei detenuti dovrebbe iniziare a breve, “voci ufficiose parlano di entro fine mese” spiega sempre D’Amore. Ma non c’è alcuna data ufficiale. La stessa Ausl fa sapere di non aver ancora “nulla da dire in materia essendo in attesa di indicazioni”. Per Antonio Ianniello, Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, la speranza è che “a breve si possa iniziare, così che la comunità penitenziaria possa essere messa in sicurezza sanitaria”. Ianniello sottolinea come “proprio nei luoghi di detenzione possa essere accentuata la vulnerabilità al contagio”, a causa dell’esistenza di “difficoltà oggettive” nel garantire l’efficacia degli interventi di contenimento della diffusione del contagio”. Rispetto al tipo di siero utilizzato per immunizzare il personale carcerario, si va verso l’utilizzo di Johnson & Johnson, come conferma ufficiosamente anche Elia De Caro, difensore civico dell’Associazione Antigone. La prima quota di dosi del vaccino prodotto dalla Janssen doveva arrivare in Emilia-Romagna il prossimo 16 aprile. Non è chiaro però cosa succederà ora, dopo lo stop da parte dell’azienda alle consegne in Europa, in seguito alla richiesta di ulteriori accertamenti sulla sua efficacia da parte della Food and Drug Administration americana. In ogni caso, “quella di usare J&J, se confermata, sarebbe una scelta per nulla sciocca”, spiega De Caro, “perché in quanto monodose consentirebbe un risparmio importante a livello logistico”. De Caro ricorda come la stessa scelta sia stata fatta nel Lazio, “la cui efficienza nella campagna vaccinale è ormai evidente”, e risponde poi al leader della Lega, Matteo Salvini, che aveva definito “roba da matti” l’idea di vaccinare la popolazione carceraria prima di altre categorie, nonostante Lombardia e Veneto a trazione leghista già da marzo abbiano iniziato le inoculazioni tra i detenuti. “Vaccinare significa tutelare la sicurezza non solo dei detenuti, ma anche degli operatori penitenziari, sanitari, amministrativi, educativo-pedagogici”, sottolinea De Caro, che spiega come anche in questa fase di riduzione delle visite esterne “il carcere non possa essere considerato un luogo isolato”. Napoli. “Salvaguardare la salute dei detenuti? Non basta, bisogna andare oltre” di Giuliana Covella magazinepragma.com, 14 aprile 2021 Intervista a Pietro Ioia. “La funzione di un Garante? Dovrebbe essere quella di salvaguardare e tutelare la salute dei detenuti, ma a me non basta. Io vado oltre”. Sono passati decenni da quando Pietro Ioia, oggi 61enne, faceva chiamare i giornalisti da suoi familiari mentre era rinchiuso in cella. Chiamate che miravano a denunciare le pecche del mondo carcerario, di quel mondo che spesso non assolve al suo compito, come prescrive l’articolo 27 della Costituzione italiana (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”). Pietro, ex narcotrafficante che ha “abitato” per 22 anni e 6 mesi le carceri di Napoli e della Campania, ma anche della Spagna oggi è un uomo diverso. Quindici anni fa ha fondato l’Associazione Ex Don (Ex Detenuti organizzati napoletani). Da allora il suo cammino verso la giustizia e la difesa dei diritti umani è stato tutto in salita. Tanto che un anno fa è stato insignito del Premio Stefano Cucchi per le sue battaglie a tutela dei diritti dei detenuti. Ma non solo. Ha scritto un libro, “Cella Zero” (edito da Marotta e Cafiero), dove denuncia i pestaggi avvenuti ai danni dei carcerati nel penitenziario di Poggioreale a Napoli tra 2013 e 2014. Una denuncia cui si sono unite quelle di un’altra cinquantina di ex galeotti, che ha portato a un processo dove sono attualmente imputati 12 agenti di polizia penitenziaria. Ioia, che ha cambiato vita e ha scelto di aiutare gli altri a cambiarla, è dal dicembre 2020 il Garante dei detenuti del Comune di Napoli. Che cosa fa un Garante? “Si occupa di assicurare che un detenuto sconti una carcerazione dignitosa. Ma io sin dall’inizio ho preferito andare oltre questa funzione”. In che senso? “Sono diventato un punto di riferimento per i carcerati, le loro famiglie, i medici interni ai penitenziari di Poggioreale, Secondigliano e Nisida”. Com’è il bilancio di quest’anno di pandemia? “Ovviamente critico. Insieme al Garante regionale Samuele Ciambriello siamo dovuti intervenire facendo talvolta da intermediari per sedare rivolte com’è accaduto a Secondigliano”. Rivolte per cosa? “I detenuti erano terrorizzati dal Covid. Si chiedevano cosa sarebbe accaduto se uno di loro avesse manifestato sintomi come la febbre. Tenuto conto delle condizioni in cui vivono nelle celle, spesso anguste per 10-12 persone”. La pandemia ha costretto per ovvie ragioni a sospendere i colloqui. Come avete sopperito? “Nelle carceri napoletane in zona arancione i colloqui tra detenuti e familiari si sono svolti nel rispetto delle restrizioni anti Covid e solo per i residenti nel Comune di Napoli. Poi siamo riusciti a ottenere alternative per mantenere un minimo di legame con le famiglie, consentendo le videochiamate. Ma restano altri problemi”. Quali? “Anzitutto il sovraffollamento. Ormai è cronico. A Poggioreale, ad esempio, su una capienza di 1.600 persone ve ne sono 2.100. Una differenza di 500 detenuti, il numero di quelli che invece dovrebbero stare in un moderno carcere. Con l’attuale direttore di Poggioreale Carlo Berdini si stanno facendo molti passi avanti, specie in termini di organizzazione. Nell’affrontare l’emergenza sanitaria infatti sono stati predisposti due padiglioni Covid center”. Altri problemi? “Il diritto alla salute per i detenuti viene spesso calpestato. Mi arrivano centinaia di denunce, richieste, segnalazioni ogni giorno del tipo “Pietro, mio marito ha avuto un infarto, potete informarvi? A me non dicono nulla”. Ecco, io fungo da cerniera tra il mondo esterno e il sistema carcerario, perché ho vissuto quell’inferno. Già prima la situazione era difficile, ora con il Coronavirus è peggiorata perché sono state sospese tante visite specialistiche”. Lei segue anche i giovani detenuti di Nisida. Com’è la situazione lì? “Oggi ci sono una quarantina di ragazzi che fanno corsi di ceramica, di pizzaiolo, di pittura e tanto altro. Il vero problema è quando escono e vengono abbandonati”. Si spieghi meglio... “Vede, ricordo Emanuele Sibillo (il baby boss della cosiddetta paranza dei bambini ucciso in un agguato il 2 luglio 2015 a soli 19 anni, ndr). Quando era a Nisida studiava per diventare un giornalista. I suoi educatori lo ricordano come un ragazzo molto in gamba. Ma mi chiedo: se qualcuno avesse seguito lui come altri ragazzi dopo aver scontato la pena, forse tutto sarebbe stato diverso? Chiaro che questi giovani una volta fuori dal carcere diventino preda della malavita, perché non c’è stato nessuno che abbia dato loro una seconda chance, magari un giornalista che gli avrebbe insegnato questo lavoro”. Un messaggio per i detenuti e i loro familiari? “Ai primi dico: il mio sogno è che usciate dal carcere come persone diverse, secondo quanto prevede l’articolo 27 della Costituzione. Alle loro famiglie invece: non portate droga in carcere, per questo c’è l’arresto immediato. Solo così potremo dire di aver vinto la guerra”. Avellino. Le magistrate di sorveglianza: “Il diritto alla salute viene ancora negato” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 aprile 2021 Mancano i farmaci, tempi lunghissimi per le visite mediche, carenza della figura dello specialista psichiatrico. Il diritto alla salute in carcere, compresa quella mentale, è sempre di più difficile attuazione. Tante sono le criticità che hanno finito per rendere di fatto indisponibili o comunque fortemente problematiche le possibilità di cura. A scendere in campo, rivolgendosi direttamente alla ministra della giustizia tramite una relazione, sono le magistrate di sorveglianza di Avellino che hanno sotto la loro giurisdizione diversi istituti penitenziari, compresa la Rems di San Nicola Baronia. Nella relazione inviata al Dap e alla ministra, hanno premesso che alla riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018 con cui si è delineata la necessità per i soggetti ristretti bisognosi di cure di dover far ricorso a medici specialisti “esterni” al circuito penitenziario, si è poi aggiunta la sentenza della Corte Costituzionale, la numero 99 del 2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 47 ter comma 1 nella parte in cui non prevedeva la possibilità di disporre il differimento dell’esecuzione della pena anche nelle forme della detenzione domiciliare per i detenuti affetti da patologie rientranti nella cosiddetta “sfera psichica”. Pertanto, le magistrate di sorveglianza sottolineano che la valutazione tempestiva ed adeguata in ordine alla sussistenza dei presupposti per giungere a concedere la suddetta detenzione domiciliare “umanitaria”, oggi non può prescindere dalla presenza nel corredo processuale di una specifica relazione medica redatta dallo specialista psichiatra. “Non può sottacersi - denunciano le togate dell’ufficio di sorveglianza - che, nell’esercizio quotidiano delle funzioni, più volte le scriventi sono state costrette a “sollecitare” l’invio delle predette relazioni sanitarie per la tempestiva definizione di istanze che, investendo il profilo della salute, rivestono carattere di urgenza, in quanto nelle stesse si evidenzia l’immanenza di una patologia psichiatrica che, il più delle volte, assume carattere ingravescente in concomitanza dello status di privazione della libertà personale”. A seguito di numerose segnalazioni provenienti dai detenuti, già a partire dall’anno 2017, le componenti dell’ufficio di sorveglianza hanno creato un tavolo di lavoro al quale sono stati invitati a partecipare, oltre al Garante Provinciale per i diritti dei detenuti e i Direttori delle case circondariali, anche i medici referenti degli istituti, la Responsabile Asl Avellino Unità Operativa Sanità Penitenziaria, il Direttore Sanitario dell’Asl di Avellino ed il Direttore Generale ASL di Avellino. Nel corso delle numerose riunioni che si sono protratte fino ad oggi, sono emerse in particolare le seguenti problematiche: la mancanza di farmaci e/ o difficoltà nell’approvvigionamento, inclusi quelli “salvavita”; tempi di attesa lunghissimi per la sottoposizione a visite mediche specialistiche; mancanza del personale infermieristico in numero sufficiente a garantire l’assistenza h24 e la mancanza dei medici specialisti, ovvero dei medici che coadiuvano il medico referente di istituto per le prestazioni mediche di natura specialistica. “Di tali problematiche sopra enunciate - si legge nella relazione dell’ufficio di sorveglianza - alcune hanno trovato parziale risoluzione; mentre, per quanto concerne la mancanza di medici specialisti, questa continua a rappresentare a tutt’oggi una piaga irrisolta, che riverbera in modo negativo i suoi effetti anche sulla complessiva attività di amministrazione degli istituti”. Le problematiche sanitarie, quindi, affliggono tuttora gli istituti penitenziari presenti sul territorio di Avellino e Provincia. A questo si aggiunge che il Covid-19, con l’ansia generale che ne è scaturita, ha finito per acuire le patologie psichiatriche nei ristretti. La carenza dello specialista psichiatra non aiuta. A giudizio dell’ufficio di sorveglianza, si legge nella relazione, “la situazione denunciata assume inevitabili connotati di gravità, e al tempo stesso, di urgenza, sia in relazione all’aumento esponenziale che negli ultimi anni si sta registrando delle c. d. “malattie mentali” che affliggono la popolazione detenuta, che legittimamente invoca la tutela del diritto alla salute costituzionalmente garantito, sia in relazione alla sovraesposizione del magistrato di sorveglianza che non è messo oggettivamente in condizioni di poter effettuare con la necessaria tempestività le dovute valutazioni”. Quello che le magistrate Giovanna Spinelli, Donatella Ventra, Emiliana Ascoli e Maria Bottoni chiedono alla ministra Cartabia è un intervento che dia “effettività agli interventi del legislatore e alle pronunce della Corte Costituzionale”. Roma. Sessanta casi di Covid tra le detenute, didattica sospesa a Rebibbia Femminile Il Tempo, 14 aprile 2021 Fa i conti anche con un’altra criticità non di poco conto l’Istituto Vespucci. Alla sezione carceraria femminile di Rebibbia, con una sessantina di casi Covid all’attivo, la didattica è stata momentaneamente sospesa. I docenti che prima svolgevano attività in carcere? “Vengono a scuola e sono impiegati per supplenze quando serve”, risponde la preside Maria Teresa Corea, che aggiunge: “Vorrei organizzare corsi di potenziamento per gli studenti e usare in qualche modo gli insegnanti che non hanno svolto regolare servizio a Rebibbia. Per gli alunni del quinto anno che dovranno svolgere la Maturità, ad esempio, e per quelli che hanno necessità di rimanere a casa pure per timore del Coronavirus”. E se sul Piano di recupero degli apprendimenti pensato dal Ministero dell’Istruzione, in rampa di lancio, si sta già dissertando nel mondo scolastico sulle soluzioni da attuare, in questo istituto le idee sul da farsi per colmare le lacune e via discorrendo le hanno già chiare da un pezzo. “Al Vespucci i corsi di recupero sono stati avviati dal secondo quadrimestre. L’ulteriore recupero lo vorrei pianificare nelle modalità di cui ho già parlato, anche e soprattutto per gli studenti di quinta”, chiarisce Corea. Facendo notare: “Il recupero noi l’abbiamo sempre fatto nel corso dell’anno scolastico, perché prima della pandemia, in estate i ragazzi erano impegnati a lavorare”. Non si sono dissolte nemmeno le criticità in tema connessioni: “Pur avendo speso 34mila euro, non sono riuscita a districare la matassa: la rete internet non si connette in tutti i punti, al mattino è parecchio difficile far fronte ai consueti imprevisti. Inoltre, continuano ad esserci problematicità nelle abitazioni degli allievi”. “È un rompicapo per la maggior parte delle scuole della città quello della connettività: agire sulle infrastrutture per un ripristino di rete sul piano nazionale è la base da cui si dovrebbe partire per affrontare realmente il discorso”, conclude la ds. Sulla gestione dell’organizzazione didattica per l’incremento delle classi in quarantena, i problemi maggiori, comunque, c’è da dire che ricadono sugli istituti comprensivi, i quali possono optare per la Didattica a Distanza in via estrema e per chiamare, in caso, un supplente sono costretti ad attendere giorni. Una complicazione oltremodo ampliata in relazione alle quarantene spesso allungate a 14 giorni imposte dalle Asl a motivo dei casi di sospette varianti Covid. Riduzione dell’orario e classi in presenza trasformate eccezionalmente in classi in DaD per un giorno o giù di lì, invece, risultano gli stratagemmi perlopiù utilizzati dalle scuole secondarie di secondo grado per ottemperare alla situazione di emergenza. Roma. La figlia di una detenuta malata di Covid scrive a Cartabia di Paolo Molinari agi.it, 14 aprile 2021 La lettera alla ministra della Giustizia: “Mia madre ha 65 anni è in carcere per un vizio procedurale. Da tre settimane in totale isolamento”. Una donna di 65 anni, positiva al Covid, è da un mese in isolamento in una cella del carcere romano di Rebibbia, senza la possibilità di vedere nessuno, con soltanto una branda e un wc a disposizione. Una situazione che per la famiglia è tanto piu’ drammatica in quanto la donna, Giuseppina Cianfoni, “ha preso il Covid in carcere, dove si trova reclusa da due mesi per un vizio nel ricorso in appello presentato dal suo difensore tre giorni dopo la scadenza prevista”. A raccontare la storia all’AGI è stata la figlia di Giuseppina Cianfoni, Rossella Anitori che oggi scrive alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia. “Gentile Ministra della Giustizia Marta Cartabia, mi chiamo Rossella Anitori e sono la figlia di una persona attualmente detenuta. Mia madre si chiama Giuseppina Cianfoni ed è una delle oltre 70 persone ristrette in regime di isolamento a causa del Covid nel carcere femminile di Rebibbia. Sono ormai tre settimane che mia madre è chiusa in una cella”, spiega la figlia della donna nella lettera. “Sono tre settimane che non respira una boccata di aria fresca. Che non alza gli occhi al cielo per vedere le nuvole. Che non si fa una doccia calda. Sono tre settimane che mia madre non incontra nessuno. È sola per 24 ore al giorno e non esce mai. Mia madre non è socialmente pericolosa”. Rossella riferisce, quindi, i dettagli della vicenda giudiziaria che ha riguardato sua madre: “Dieci anni fa era dirigente dell’Ufficio della Conservatoria di Velletri ed incappata in una spiacevole parentesi giudiziaria che purtroppo non è stato possibile chiarire ed è stata condannata in base all’articolo 319 quarter a 3 anni di reclusione. Dopo la laurea, quando ho studiato per l’esame da giornalista, ho appreso che le pene vengono irrorate secondo il principio del male minore e che anche i detenuti hanno dei diritti. E allora mi chiedo cosa ci fa mia madre in carcere e che fine hanno fatto i suoi diritti e quelli del resto delle donne e degli uomini internati con lei in queste condizioni”. Rossella ricorda infatti che “l’isolamento è un regime di detenzione estremamente duro e gravemente, restrittivo della libertà personale che si utilizza come ultima ratio, come l’ultimo dei provvedimenti disciplinari, proprio perché è in grado di fiaccare anche gli animi più vigorosi. A causa del Covid mia madre ha trascorso più di un mese in isolamento, dove è tutt’ora. Come possiamo lasciare che questa tragedia per lei ed altre detenute si compia? Come possiamo accettare in deroga ad ogni legge che un essere umano sia trattato in questa maniera? La nostra Costituzione dice che ‘le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devo tendere alla rieducazione del condannato’“. “Abbiamo dimenticato questi principi? Quale valore stiamo dando al tempo e alla vita di queste persone e quale considerazione ci aspettiamo che possano avere del sistema che li reclude e li tortura? Quale risorsa il carcere rappresenta oggi per la società? Perché non possiamo rinunciarci? Anche quando diventa ingiusto e inumano, quando l’applicazione della pena va oltre il precetto? Gentile Ministra chiedo l’immediata scarcerazione di mia madre, l’estensione delle misure alternative alla detenzione per quanti più detenuti e detenute possibili, che oggi più che mai si vedono privati dei loro diritti fondamentali e la fine di un carcere inutile, ingiusto e disumano. Rossella Anitori La figlia di Giuseppina Cianfoni, una persona detenuta in isolamento da oltre un mese nel carcere di Rebibbia”. Brindisi. La risocializzazione nel regime detentivo: un obiettivo possibile? di Antonio Macchia* brundisium.net, 14 aprile 2021 “Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile. Il fine non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali”. Così scriveva Cesare Beccaria ne “Dei delitti e delle pene” oltre 350 anni fa. La lezione di uno dei più illustri padri del Diritto che l’umanità abbia avuto pare però essere stata dimenticata per intero, visto lo stato nel quale versano i nostri istituti penitenziari e le condizioni cui sono sottoposti i detenuti ristretti da Nord a Sud, dove come spesso capita le cose vanno peggio che altrove. Le leggi dello Stato, che prendono ispirazione dalla Costituzione, istituiscono un corretto percorso per chi commette i crimini, garantendo pene commisurate agli errori fatti contro la comunità e attività mirate a reinserire gli individui nel tessuto sano della società, ma la realtà è nota a tutti ed è fatta di strutture obsolete, fatiscenti, sottodimensionate e sovraffollate, pericolose non solo dal punto di vista strutturale ma proprio da quello del principio che vorrebbe l’esperienza carceraria come parte del percorso di riabilitazione che deve essere garantito al detenuto. La situazione è allarmante e Brindisi non sfugge alla statistica generale che vede le case circondariali italiane sicuramente lontane dagli standard che ci si aspetterebbe da un paese civile: la civiltà di una nazione si misura anche valutando il trattamento che offre agli esseri umani che vengono privati della libertà a causa dei loro crimini. Quando si pensa a un detenuto, l’immagine che appare nella mente dei più è quella dell’individuo “cattivo per definizione”, colui che si è macchiato di colpe tremende per le quali ogni pena non sembra mai abbastanza: l’immaginario collettivo, col passare del tempo, ha ceduto al fascino della forca, intesa anche nel senso letterale del termine, abdicando i principi sanciti dal diritto in favore delle peggiori pulsioni di vendetta. La realtà dei fatti, però, vede una popolazione carceraria variegata, composta per lo più da indigenti, gente che ha perso il lavoro mossa dalla necessità a delinquere, persone che hanno sbagliato e che potrebbero essere recuperate a pieno con un piccolo sforzo educativo prima che punitivo. Di tutti ma di loro in particolare non ci si deve dimenticare: dare un’opportunità anche dietro le sbarre è un dovere morale di uno Stato di diritto. Il carcere di via Appia ha fatto la storia della città, essendo situato nel cuore di essa: i suoi quasi 100 anni si vedono e si sentono tutti e, secondo noi, è giunto il momento di pensionare la casa circondariale sia fisicamente che filosoficamente per passare a un modello radicalmente diverso, in cui al detenuto venga concesso di scontare la sua pena secondo i principi del diritto magistralmente descritti dalla penna di Beccaria. Può suonare strano, ma a Brindisi abbiamo tutto per compiere questa rivoluzione nel paradgima della detenzione: l’alternativa a via Appia si trova a pochi chilometri dal centro abitato, in una struttura enorme e abbandonata da quasi 30 anni che periodicamente ritorna al centro del dibattito pubblico che, alla fine, si avviluppa su se stesso auto fagocitandosi. L’associazione “Salute pubblica”, sempre attenta e propositiva sui temi che a volte ingiustamente vengono relegati in fondo all’agenda delle istituzioni locali e centrali, ha lanciato una proposta che come Cgil ci sentiamo di sposare, condividere, promuovere e rilanciare: evacuare e riconvertire a un differente uso l’attuale struttura detentiva e trasferire la popolazione carceraria in una parte della ex-base Nato che offre possibilità per ora inesplorate anche per iniziative imponenti come potrebbe essere questa. L’ex base Nato di Brindisi, rilanciano da “Salute pubblica” a sostegno della fattibilità della tesi, non è più attiva dal 1993 ed è in carico all’Agenzia del Demanio che nel 2007 ha ceduto a titolo gratuito il 20% dell’area una volta militare all’Unchr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Parliamo di 160 ettari, con 260 immobili: una vera e propria città da anni dismessa e abbandonata che, grazie a questa idea, potrebbe diventare uno dei fiori all’occhiello del nostro territorio. Il progetto, per ora solo nella testa di chi l’ha pensato, sembra rasentare la fantascienza per quello che la nostra terra ha sempre conosciuto ma, in realtà, la fattibilità dell’idea è molto più di una suggestione. Gli spazi a disposizione dell’ex base Nato garantirebbero lo svolgimento di quelle attività essenziali per la riabilitazione e il reinserimento degli ospiti che non devono essere pensati come dei pesi per la società ma come esseri umani a cui offrire percorsi impossibili da implementare nell’attuale casa circondariale il cui destino, per non lasciare nulla al caso, dovrebbe essere quello della riconversione ad altri usi. Brindisi, in questo modo, potrebbe diventare il modello di un altro carcere possibile, un faro dei diritti civili e un laboratorio per sperimentare politiche carcerarie viste già altrove ma lontane anni luce dalla realtà desolante degli istituti italiani. Nei fatti, poi, non ci stiamo inventando nulla: Beccaria, oltre tre secoli fa, ci ha già indicato la strada. Ora, tocca a noi tracciarla e seguirla. E sarebbe pure ora. *Segretario Generale Cgil Brindisi Palermo. Scuola, arriva il baby mediatore per le liti tra compagni. E niente note sul registro di Claudia Brunetto La Repubblica, 14 aprile 2021 Alla “Antonio Ugo” di Palermo tutte le controversie vengono risolte da bambini-giudici: ci si confronta per trovare un accordo. L’impresa più difficile è stata arrivare alla pace fra Leonardo e Marco. Si punzecchiavano sempre durante le lezioni e un giorno sono finiti a rincorrersi per tutta l’aula. A loro ci ha pensato Gioele Barletta, 13 anni, uno degli alunni mediatori dell’istituto comprensivo Antonio Ugo della Noce. “All’inizio non volevano neanche parlarsi, era un caso disperato. Poi a poco a poco ho cercato di farli calmare, mi sono fatto raccontare le due versioni dei fatti e per la prima volta si sono ascoltati a vicenda, hanno fatto pace e da allora sono amici”, dice il ragazzo. Si perché all’Antonio Ugo i litigi fra gli alunni non finiscono con una nota sul registro, un richiamo del professore o una convocazione dal preside. Vengono affrontati dagli stessi bambini alla presenza di un terzo bambino-mediatore in un’aula ad hoc riservata, appunto, alla delicata questione del superamento dei conflitti che anche fra i bambini delle elementari possono essere delle montagne invalicabili. I bambini-mediatori, una trentina in tutto l’istituto, dalle classi delle elementari alle medie, sono stati formati da tre anni a questa parte all’interno del progetto europeo “Deliberative mediator leader students” che ha visto impegnati in prima battuta i professori che poi hanno formato i ragazzi. “La prima cosa che ci hanno insegnato è l’autocontrollo, molto utile in certe situazioni. A fare il mediatore si imparano tantissime cose, si ha un’arma in più rispetto agli altri. Si conosce se stessi, le proprie emozioni e si trova più facilmente una strada per risolvere i piccoli conflitti quotidiani”, dice Barletta, mediatore ormai da due anni. I casi sono tantissimi. Il compagno che rivela alla classe qualcosa che doveva restare segreta, le offese sotto voce durante le interrogazioni, la paternità di un lavoro fatto insieme conteso fra più compagni. “Agli occhi di un adulto possono sembrare piccole cose, ma per i bambini sono enormi. E può anche capitare che dietro a una sciocchezza si nasconda un disagio più grande che in molti casi i bambini riescono a risolvere da soli. Di certo è un approccio innovativo di fronte ai conflitti che aiuta gli alunni a sentirsi protagonisti e responsabili allo stesso tempo. Serve una buona dose di empatia e la capacità di capire l’altro per essere un buon mediatore e loro ci riescono”, dice Maria Chiara Billa, professoressa di inglese e coordinatrice del progetto. I margini di successo, a sentire la scuola, sono enormi. “Quasi sempre se la cavano da soli, senza l’intervento dell’adulto che resta come una sorta di supervisore. Seguono delle regole precise nel processo di mediazione, attendono il turno per parlare, espongono il problema e alla fine il mediatore fa delle domande per arrivare a un accordo finale”, dice Marilena Salemi, vice preside dell’Antonio Ugo. Quando il conflitto è risolto, i bambini sottoscrivono un vero “trattato” di pace. “Firmano proprio un modulo e la pace è fatta. Non c’è cosa più bella”, dice Billa. Trani. Progetto “Senza sbarre”: i taralli “a mano libera” al Parlamento Ue di Sabina Leonetti Avvenire, 14 aprile 2021 Tradizionali al finocchio o quelli più innovativi al pomodoro secco e al vino Nero di Troia. Sono i taralli pugliesi “ a mano libera”, fatti a mano grazie ai tutor del tarallificio Tesori d’Apulia di Trani, da undici ragazzi detenuti ed ex detenuti di alcune carceri italiane coinvolti nel progetto “Senza sbarre” della Diocesi di Andria, progetto pilota di Carcere Caritas Italiana, realizzato dall’associazione Amici di San Vittore Onlus di Andria, per offrire programmi alternativi alla detenzione. In occasione della 92esima sessione internazionale del Parlamento Europeo dei Giovani, tra il 23 aprile e il 1 maggio, circa 230 giovani provenienti da tutta Europa infatti si riuniranno online per discutere di tematiche legate alla sostenibilità e ai Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite. “Considerando l’interesse verso la solidarietà sociale del progetto “Senza sbarre” - spiegano dalla segreteria del comitato organizzativo dell’evento - abbiamo acquistato 230 pacchi di taralli, che verranno inviati via posta a tutti i partecipanti in giro per l’Europa, ben lieti di discutere una potenziale partnership tra la realtà pugliese e la Sessione Internazionale”. “Senza sbarre” è uno dei vincitori di “Orizzonti Solidali”, il bando di concorso promosso dalla Fondazione Megamark di Trani. Nella masseria fortificata San Vittore, sorge il casale contadino trasformato in laboratorio tecnico agricolo e messo a disposizione dell’associazione dove i ragazzi hanno potuto apprendere l’arte della preparazione artigianale dei taralli e avviare la produzione e il confezionamento dei prodotti in vendita nella distribuzione alimentare Dok, Famila, A&O e Iperfamila. Don Riccardo Agresti e Don Vincenzo Giannelli, responsabili delprogetto insistono nel sottolineare l’utilità e la sostenibilità di misure alternative al carcere. “Si pone come mediazione per rivedere il danno. “A mano libera” è il simbolo del cambiamento, di quella seconda possibilità che questi ragazzi meritano di avere”. “Questi taralli - conclude Francesco Pomarico, direttore operativo Gruppo Megamark - rappresentato un’opportunità per tutti: un segno di speranza per i ragazzi che li producono e un gesto di amore e di solidarietà per i clienti che li acquistano”. Verbania. Mattarella riceve i biscotti dei detenuti verbanonews.it, 14 aprile 2021 Chiamati “stelle”, i biscotti vogliono essere un omaggio a Dante ma anche un simbolo del desiderio di libertà che include tutti i cittadini di fronte alle difficoltà della pandemia. Il 17 marzo Silvia Magistrini, presidente del comitato Dante Alighieri di Verbania e VCO e garante comunale delle persone detenute nella casa circondariale di Verbania, aveva inviato al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella un pacchetto coi primi biscotti preparati dai detenuti nel laboratorio Banda Biscotti. Nei giorni scorsi è arrivata la risposta. “Il Capo dello Stato - cita la lettera di Simone Guerrini, consigliere direttore dell’ufficio di Segreteria del Presidente, indirizzata a Silvia Magistrini - ha ricevuto la sua gradita lettera e mi incarica di ringraziala particolarmente per i biscotti “stelle” che ha voluto inviargli in dono”. “Stelle” è il nome scelto per i biscotti in occasione del Dantedì: a 700 anni dalla morte di Dante. Una scelta “per coniugare memoria poetica, inclusione sociale, ma anche - afferma Silvia Magistrini nella sua lettera - speranza condivisa di libertà nell’attesa di “riveder le stelle”. Mai come ora forza di simboli e bisogno di futuro ci sono necessari, ci aiutano a respirare e ad avere fiducia”. Genova. Debutta il primo spettacolo dei detenuti solo online, ecco “Profughi da tre soldi” di Silvia Isola primocanale.it, 14 aprile 2021 Il teatro dell’Arca nel carcere di Marassi non ha quasi mai chiuso in tempo di pandemia. Non è stato facile per l’Associazione Teatro Necessario mettere in scena uno spettacolo in carcere in piena pandemia. Dopo che il lockdown dell’anno scorso aveva fatto saltare la prima in teatro, quest’anno è stata formata una nuova ‘compagnia’ di detenuti, che tra permessi, quarantene obbligatorie e tamponi ha messo su “Profughi da tre soldi”. Dall’ispirazione di Brecht ai fatti di estrema attualità legati all’immigrazione, ne è nato uno spettacolo davvero intenso. “Non voglio dire psicodramma, ma la compagnia è formata dal 90% di detenuti stranieri: gambiani, senegalesi, marocchini e albanesi, tutte persone che hanno vissuto sulla propria pelle i fatti che descriviamo, poiché sono arrivati in Italia sui barconi”, racconta il regista Sandro Baldacci. Accanto a loro, gli attori professionisti Igor Chierici, Cristina Pasino, Michela Gatto e il giovanissimo Filippo Di Duca di 11 anni, dato che il progetto che da oltre 12 anni è attivo all’interno della casa circondariale di Genova Marassi prevede la creazione di un gruppo integrato, dove proprio il confronto con l’esterno rappresenta un ulteriore opportunità in più di confronto. “Anche se non è stato facile quest’anno più degli altri, poiché anche per un solo giorno di permesso erano necessari 14 giorni di quarantena, per cui alle prove è stato difficile provare Mancherà il pubblico in platea, un momento di confronto importante per coloro che partecipano al progetto. Ma sulla piattaforma OnTheatre si spera di raggiungere ancora più spettatori a partire dalle ore 21 del 13 aprile. “E non mancheranno i ragazzi delle scuole liguri: ogni anno eravamo abituati ad avere centinaia di giovani sia al Teatro dell’Arca all’interno del carcere sia nelle platee dei principali teatri cittadini, quest’anno lo faranno in didattica a distanza”, commenta Baldacci. La trama non può essere più attuale di così: In uno scenario tristemente contemporaneo, popolato da profughi provenienti dal Nord Africa così come da altri Paesi, due contrapposte personalità accolgono i nuovi arrivati in una sgangherata struttura di accoglienza: la direttrice, una donna disincantata, con una scorza dura a proteggere un’anima gentile, e un inviato del Ministero dell’Interno, uomo corrotto e profittatore che mal dissimula il suo reale obiettivo: instradarli verso il mondo della delinquenza e dell’accattonaggio al solo scopo di trarne notevoli profitti personali. Qui si intrecciano paure, storie di orrori e di separazioni, speranze, lingue, religioni, cicatrici, vendette e afflati di solidarietà. Per vedere lo spettacolo, sarà sufficiente fare un’offerta simbolica in segno di sostegno all’associazione. “Polizie, sicurezza e insicurezze”, il nuovo (irriverente) libro di Salvatore Palidda di Lorenza Pleuteri osservatoriodiritti.it, 14 aprile 2021 Polizia e democrazia, controllati e controllori, ordine e libertà: il nuovo libro di Salvatore Palidda edito da Meltemi linee - “Polizie, sicurezza e insicurezze” - prova a dare alcune risposte. Che non piaceranno a tutti. Può esistere una polizia democratica? Può esserci uno Stato giusto se persiste il dominio di pochi a danno di molti? Che cosa sono diventati oggi agenti, carabinieri, finanzieri, vigili urbani? In che modo governano il disordine? E chi li controlla? Salvatore Palidda, sociologo di lungo corso e per anni docente universitario a Milano e Genova, formula e propone all’attenzione queste e altre domande, provando a rispondere. Lo fa con le 296 pagine del saggio “Polizie, sicurezza e insicurezze”, edito da Meltemi linee, un libro spiazzante, duro, non scontato, a tratti urticante, ipercritico, radicale. Opinabile e divisivo. Indigesto, probabilmente, per chi appartiene agli apparati radiografati, per i vertici di amministrazioni e corpi chiamati in causa, per i referenti politici e pure per parte della opinione pubblica. La copertina, con due scatti-simbolo, è un assaggio del contenuto. La prima foto mostra due poliziotti che vegliano su alcuni cittadini, prima dell’era Covid. La seconda istantanea, sovrastante, immortala una scena di scontri urbani, con agenti in assetto antiguerriglia. Riassume lo stesso autore: “In questo libro, pubblicato più di vent’anni dopo “Polizia postmoderna” (un cult, per studiosi e addetti ai lavori, ndr), cerco di descrivere l’attuale situazione delle polizie in Italia e mi soffermo in particolare sulle loro pratiche. In sintesi, c’è una coesistenza perpetua della gestione pacifica e della gestione violenta del governo della sicurezza”. “Non a caso - è sempre il punto di vista di Palidda - Michel Foucault scriveva: “La polizia è un colpo di Stato permanente”. Si tratta della modalità operativa adottata da sempre. Tuttavia oggi mi sembra risultare ancora più evidente che in passato, proprio perché l’”animo sicuritario” pervade una buona parte della popolazione e si traduce nella militanza dei cittadini zelanti”. La tesi che Palidda offre alla discussione - sorreggendola con ricostruzioni storiche, richiami alla cronaca, informazioni, analisi, statistiche - è dichiarata: “Le polizie di oggi non sono più il braccio armato del potere politico nazionale. Sono diventate, in misura sempre più rilevante, lo strumento di regolazione economica e sociale a livello locale al servizio degli attori che più contano. Uno strumento che discrimina tra gli illegalismi tollerati e quelli repressi, tra il popolo che sta dalla parte delle polizie e quello considerato come fastidioso o anche nemico”. Tradotto in esempi: sempre secondo il sociologo, “ci si accanisce contro poveri, marginali, stranieri e autori di reati da strada o di sopravvivenza, molto meno contro padroncini e caporali delle economie sommerse, evasori fiscali, responsabili di disastri sanitari e ambientali, corruttori e corrotti, chi causa malattie professionali e infortuni sul lavoro”. Eppure, rimarca Palidda, “le economie sommerse in Italia responsabili di oltre il 32% del Pil e di circa otto milioni di lavoratori che oscillano fra precariato, semi-precariato e nero totale. Questo numero esorbitante di illeciti sarebbe impensabile e impossibile se non vi fosse la tolleranza e la connivenza da parte delle polizie, delle autorità locali e nazionali rispetto ai molteplici illegalismi perpetrati dagli attori sociali di queste economie. Le vittime sono ridotte all’impossibilità di difendersi proprio perché prive di protezione e anzi spesso perseguitate se osano ribellarsi”. Un capitolo del volume prende in esame la riforma della polizia di Stato, arrivata alla boa dei 40 anni, e il contesto storico e politico che l’ha accompagnata. Un altro scandaglia le tabelle riepilogative di reati perseguiti e di risposte operative date. I numeri sulla “produttività” di uomini e donne in divisa (denunce e arresti, indicatori che Palidda smonta) vengono accompagnati dai dati che raccontano l’esito ultimo di eclatanti operazioni, attività da strada, pattuglioni, pressing contro i “soliti sospetti”: le alte percentuali di archiviazione dei fascicoli penali aperti in base a manette e inchieste. Prima che priorità e istanze fossero stravolte dalla pandemia da Covid-19, periodicamente si invocavano più divise per strada, tolleranza zero e pugno di ferro, videocamere ovunque, cani antidroga nelle scuole, ronde. Ce n’era e ce ne è bisogno? Palidda, per dire come la pensa, traccia il quadro di scelte, costi, organizzazione, forze e mezzi in campo, paradossi. Sostiene: “Uno Stato di diritto effettivamente democratico dovrebbe investire molto di più nella pubblica istruzione e in servizi sociali efficienti e adeguatamente preparati, anziché su polizie e dispositivi tecnologici che peraltro non servono alla prevenzione, bensì alla repressione, e non sempre”. Poi punta il dito contro la pluralità di corpi civili e militari presenti nel nostro Paese, evidenziando sovrapposizioni, irrazionalità, doppioni, spreco di risorse. “In Italia si contano 645 operatori di polizia ogni 100 mila abitanti (compresi vigili urbani, senza includere guardie costiere, personale dei servizi segreti, polizie private), contro i 566 della Francia, i 527 della Spagna, i 397 del Regno Unito, i 302 della Germania”. Un ulteriore concetto su cui Palidda batte è la “distrazione di massa”, quella che a suo parere porta ad additare migranti, rom e marginali come i nemici della società, con le polizie che non sfuggono a queste dinamiche. “Le cosiddette paure - argomenta il sociologo - sono attribuite persino alla sola presenza di questi presunti nemici, a maggior ragione quando provano a ribellarsi alle condizioni di neo-schiavitù. E le polizie - tranne gli operatori non fascisti né razzisti che talvolta sfuggono ai condizionamenti dai vertici - agiscono come per dimostrare che il trattamento violento è riservato solo ai foresti, ai marginali, agli intollerabili e ai sovversivi. C’è un’evidente somiglianza tra gli atteggiamenti e i comportamenti di caporali, padroncini e tanti comuni cittadini che schiavizzano i lavoratori più deboli (immigrati e italiani) e quelli di quegli operatori di polizia che ogni tanto finiscono nella cronaca nera per violenze, corruzione, appropriazione indebita e altri reati ai danni di immigrati, rom e in genere a persone emarginate”. Abusi e violenze: le vittime della polizia - L’elenco dei casi su cui riflettere è impressionante. Si va dalla “macelleria messicana” del G8 di Genova allo scandalo della caserma dei carabinieri di Piacenza, passando per vittime di abusi e pestaggi e spari, da Federico Aldrovandi a Stefano Cucchi, da Gabriele Sandri a decine di altri ragazzi e uomini che in pochi ricordano e che Palidda elenca per nome (per alcuni la magistratura ha riconosciuto responsabilità penali, per altri le ha escluse, come fu per Carlo Giuliani, ndr). Il capitolo in cui si citano i morti è quello su “devianza e criminalità nei ranghi della polizia”, pagine in cui si affrontano temi delicati e spinosi come tortura, corruzione, impunità, lassismo, mancanza di un organo di controllo. Certo, anche i servitori dello Stato hanno pagato un elevatissimo tributo di sangue. Un cimitero pieno di croci e di medaglie al valore. Ma pure qui le considerazioni del sociologo possono fare male e sembrare irrispettose. “Alcuni pretendono di dire che le polizie hanno avuto più vittime di quante se ne siano registrate in conseguenza del loro operato. I morti sul lavoro nei ranghi delle polizie sono molti di meno ogni anno che in altre categorie, ad esempio gli edili”. E ce n’è anche per i sindacati di categoria e il progetto “Città sicure” dell’Emilia Romagna, pesantemente criticati. Nel volume, sbilanciato sugli aspetti oscuri ed opachi del sistema, Palidda accende qualche faro di luce. Ammette che la maggioranza della popolazione sembra essere soddisfatta dalle polizie italiane. Dedica un passaggio a Roberto Mancini, “il poliziotto investigatore che scoprì i terribili crimini della terra dei fuochi e morì a causa contatto del ravvicinato con rifiuti tossici e nocivi”. Sottolinea l’importanza della riforma e della smilitarizzazione della polizia di Stato, auspicando che seguano la stessa strada carabinieri e finanza, come l’Europa vorrebbe. Valuta positivamente il ricambio generazionale, così come l’inserimento delle donne e l’aumentata percentuale femminile nei ruoli dirigenziali. A capo del ministero dell’Interno c’è una prefetta, Luciana Lamorgese, sopravvissuta al cambio di governo. Covid e speranza di cambiamento - Resta aperta una domanda, consegnata a futuri libri: la pandemia da coronavirus cambierà in profondità e con effetti di medio e lungo termine il concetto di sicurezza e la mission delle polizie? I reati da strada sono diminuiti, gli omicidi volontari hanno toccato i minimi storici, non si è registrato un boom di femminicidi. Sono aumentate le frodi informatiche e i casi di autoriciclaggio di denaro sporco, la quantità di droga sequestrata è dimezzata. Hanno perso la vita centinaia di medici e infermieri. Si può ipotizzare che aumenteranno i reati legati all’approvvigionamento di presidi sanitari e di vaccini, le contraffazioni, le frodi, gli appalti truccati, l’usura, condizioni di lavoro pericolose? Nel saggio di Palidda, dando conto di quello che è stato pubblicizzato da dati ufficiali, si rileva: nei periodi di lockdown le “divise” sono state schierate per perseguire chi violava le misure anti contagio in vie e piazza e per sanzionare le infrazioni di ristoratori, baristi, commercianti. Si chiede l’autore, statistiche alla mano: “Era necessario istigare la paura di essere controllati e denunciati? Non sarebbe stato più proficuo migliorare la comunicazione e fare informazione sanitaria in modo più efficace?”. Così la chiesa ha confinato il crimine della pedofilia nell’ambito del peccato di Fernanda Alfieri Il Domani, 14 aprile 2021 Nel libro “Peccato o crimine” di Francesco Benigno e Vincenzo Lavenia si parte da un caso di pedofilia del 1985, in Louisiana, per raccontare come la Chiesa ha guardato e giudicato la pedofilia. Peccato o crimine, titolo del libro, sono le lenti attraverso le quali la Chiesa di Roma ha per secoli guardato e quindi giudicato gli abusi compiuti dai propri membri sui minori. Risalire ai modi più antichi di intenderla, fra morale e diritto, e di sanzionarla, sono operazioni necessarie per spiegare la crepa che, dalla fine del Novecento, si è aperta fra le gerarchie della Chiesa e l’opinione pubblica. L’indagine storica non può forse spiegare il motore profondo dell’azione aberrata, materia per perizie mediche e legali. Ma può fare molto nell’illuminare le circostanze che hanno reso possibile il loro impunito replicarsi all’interno della Chiesa. Un giorno di febbraio del 1985, in una cittadina della Louisiana, un ragazzo denuncia alle autorità locali un sacerdote, accusandolo di aver abusato di lui quando aveva dodici anni. Gilbert Gaute, così si chiamava, finisce sotto inchiesta e sui giornali. Sulle sue oltre 150 vittime si indaga, e soprattutto di tutto questo si scrive e si parla. In una storia secolare di silenzio irrompe la parola, quella della vittima e quella dei media che da allora non smetteranno di dare voce ad altre storie. Dalla Louisiana al Massachussets, dal Canada al Cile, dall’Australia all’Europa fra Irlanda, Austria, Germania, Francia, Polonia e Spagna, riaffioreranno memorie da ingiunzioni a tacere e vergogna, prendendo corpo in gruppi di attivisti e movimenti d’opinione (significativamente, in Italia questo è accaduto in forme meno eclatanti). Qui comincia la storia ricostruita da Francesco Benigno e Vincenzo Lavenia. Peccato o crimine, titolo del libro pubblicato da Laterza, sono le lenti attraverso le quali la chiesa di Roma ha per secoli guardato e quindi giudicato gli abusi compiuti dai propri membri sui minori. L’applicare queste categorie agli atti, e il continuare a osservarli e giudicarli come tali, ha avuto l’effetto di rendere invisibile chi di quel peccato e di quel crimine è stato vittima: bambini e bambine, ragazzini e ragazzine, che non di rado hanno così perso la vita, e, quando sopravvissuti, sono rimasti privi di voce. Non creduti - in un lungo tempo in cui la parola era data solo a chi era ritenuto capace di piena ragione, cosa da adulti - o addirittura puniti, perché sospettati di complice seduzione. Oggi, con un termine che ci arriva dalla medicina psichiatrica ottocentesca, quel peccato e crimine si chiama, appunto, pedofilia. Risalire ai modi più antichi di intenderla, fra morale e diritto, e di sanzionarla (o più spesso, di non sanzionarla), sono operazioni necessarie per spiegare la crepa che, dalla fine del Novecento, si è aperta fra le gerarchie della chiesa e l’opinione pubblica: reticenti le prime e sconcertata la seconda di fronte all’emergere, da un rigurgito di casi isolati divenuto valanga, di violenze fino ad allora taciute. Ma bisogna anche guardare al di fuori della storia della chiesa e osservare il prendere forma nella società civile di sensibilità nuove, attente ai diritti dell’individuo dai suoi primi giorni di vita, e all’ascolto della parola di chi ha subìto violenze, siano esse motivate dall’etnia, dalla religione o dal genere. È il “paradigma vittimale”, oggi, a muovere rivendicazioni politiche che fino alla metà del Novecento erano spinte dalla credenza in un futuro di progresso da realizzare. L’impulso ora nasce dal trauma: si dà voce alla ferita, si denuncia, si chiede il risarcimento, si combatte. L’indagine storica - Non c’è polemica nel libro che Benigno e Lavenia dedicano a questa lunga storia, operazione delicata per scivolosità del tema, lacunosità dei documenti e parzialità delle ricostruzioni disponibili. Non interessa attaccare, nutrire una retorica dello scandalo, alimentare tesi essenzialiste che saldino stato clericale e pedofilia (una pratica diffusa nei contesti più vari, a partire dalla famiglia). Interessa capire. Così la storia, disciplina della giusta distanza applicata a questioni che ci toccano nel profondo, mette chi legge nella condizione di attraversare lucidamente questa vicenda enorme per crudeltà e, al primo sguardo, incomprensibilità. Perché queste efferatezze ripetute? E perché la chiesa non si è presa cura dei più indifesi, proteggendo invece i loro carnefici? L’indagine storica non può forse spiegare il motore profondo dell’azione aberrata, materia per perizie mediche e legali. Ma può fare molto nell’illuminare le circostanze che hanno reso possibile il loro impunito replicarsi all’interno della chiesa: un intreccio fra mentalità e organizzazione dell’istituzione, fra dottrina e disciplina. La prima parte del libro ripercorre gli eventi, dagli anni Ottanta a oggi, fra cronache giornalistiche, processi giudiziari, dichiarazioni ufficiali della chiesa. Un impressionante susseguirsi di casi di abusi si snoda con uno schema simile: autorità che sapevano e che non hanno agito. Le ragioni dell’apparente ripetersi dell’uguale sono i modi di governo di una chiesa organizzata per vertici e diocesi, compatta nei principi della correzione fraterna dei propri membri (“Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello”, Matteo 18, 15), della segretezza del peccato confessato e della priorità di tutela dell’onore. Cose d’altri tempi, idee astratte, si direbbe, ma capaci di impatto sulle vite passate e presenti di migliaia di persone. Il loro farsi cosa concreta nel tempo lungo della storia emerge dalla seconda parte del volume, che ripercorre la morale cristiana della sessualità nella sua elaborazione, dall’Antico Testamento allo snodo della Controriforma, infine alla sua crisi alle soglie della modernità, e nel suo applicarsi nei tribunali della fede. Così si è intessuta una scientia sexualis che distingue lecito e illecito e, soprattutto clero e popolo, assegnando al primo una necessaria separatezza, marcata dall’astinenza sessuale. Solo governando la propria carne si può governare il gregge. Le sanzioni contro chi si mescola con le donne si moltiplicano col pieno Medioevo, anche per evitare che la generazione di figli di preti disperda i beni di una chiesa che si struttura come istituzione spirituale e temporale. I rapporti con i ragazzini, meno gravi per le conseguenze materiali, sono valutati su un altro piano: perché avvengono non con minori (una soglia che un tempo si situava intorno ai dodici anni) ma con persone dello stesso sesso. È il peccato più grave non perché viola chi lo subisce, ma perché infrange l’ordine di natura e macchia l’anima e il corpo di chi lo compie. Per le inquisizioni di Spagna e Portogallo è un crimine di eresia, punibile con la massima pena. E se avviene all’interno del sacramento della penitenza, durante la confessione, è un crimine di sollicitatio ad turpia, che induce a compiere atti “turpi” perché antepongono il piacere alla ragione. Questo è vergognoso per ogni essere umano ma a maggior ragione per chi, coperto dal sacramento dell’ordine, è tenuto a un controllo esemplare, agli occhi di se stesso e soprattutto degli altri. L’onore, infatti, si perde solo se c’è un pubblico. E l’onore intaccato del singolo compromette anche quello della comunità cui appartiene. Ecco perché nella prassi non si condanna il sacerdote colpevole, ma lo si ammonisce con discrezione cambiandogli tutt’al più di sede. Questo fecero molti vescovi, i meno noti (per citare i primi casi statunitensi) Fitzgerald, Penny, O’Connell, e il più noto Bernard Francis Law di Boston, che all’accusa di aver coperto decine di sacerdoti abusanti (il famoso “caso Spotlight”) avrebbe presentato due volte le dimissioni al pontefice allora in carica Giovanni Paolo II. Il pontificato di Wojtyla - Furono accolte solo la seconda volta, motivate da ragioni di salute. L’ombra di una mancata linea dura contro la pedofilia clericale si è stesa così sul pontificato di Wojtyla. Lo definì il “peccato fra i più gravi contro il sesto comandamento”, affidandone la competenza alla Congregazione per la dottrina della fede per una disciplina più efficace. Ma tanto nelle dichiarazioni ufficiali quanto nelle prassi mancò di mettere al centro ciò che a fedeli e laici sembrava ormai prioritario: che venisse fatta una giustizia commisurata allo scempio commesso, fuori dall’esclusività della giurisdizione ecclesiastica. Il suo successore avrebbe lamentato la cattiva influenza di un tempo edonista, mal sopportato da un clero votato alla separatezza in un mondo che incita al consumo sessuale. Proprio questa separatezza, intesa come cultura dell’autorità che giustifica l’abuso, è additata ora da Bergoglio a responsabile dei crimini sessuali sugli indifesi. Ma continua ad aleggiare, nelle retoriche ufficiali, quell’antica associazione fra pedofilia e omosessualità, unite dal loro essere “contro natura”: una categoria che indica ancora come priorità la tutela dell’ordine oggettivo delle cose, di cui Dio è artefice e custode, e non i diritti inviolabili degli individui. Per una “normale” strategia anti-Covid di riduzione dei rischi di Grazia Zuffa Il Manifesto, 14 aprile 2021 Un governo della salute, ispirato alla tanto invocata scienza, deve bilanciare i diversi determinanti della salute stessa. Il paese attraversa la fase forse più delicata della crisi sanitaria, in un clima di sconcerto, se non di sfiducia. Nessuno, nell’aprile 2020, immaginava che le cifre dei morti di quei giorni ce le saremmo ritrovate quasi identiche nell’aprile 2021. Quanto alla campagna vaccinale, la caccia al furbetto, cavalcata dallo stesso presidente del Consiglio, si rivela per quello che è: il goffo tentativo di coprire il vero problema della scarsità dei vaccini (con relative responsabilità, europee e non solo). Non è però tempo di recriminazioni, né contro novelli untori, né contro istituzioni pachidermiche; quanto di seria riflessione sull’anno trascorso, per trovare la bussola delle politiche pubbliche. Per cominciare, smettiamo di evocare le “uscite dal tunnel”: i vaccini saranno un grande aiuto, ma con il virus dovremo ancora fare i conti. Basta guardare al Regno Unito: grazie a un efficace piano vaccinale ha abbattuto morti e contagi, ma già sta preparando per l’autunno una nuova campagna di rivaccinazione contro le varianti. Dunque, il vero problema è di ricalibrare una strategia di governo della salute pubblica sui tempi lunghi: un governo “ordinario”, non “straordinario”. Il che comporta innanzitutto di sbaraccare la scena attuale della politica, con le ragioni della salute versus quelle dell’economia; dei lockdown a oltranza, opposti alle aperture innanzi tempo; della scienza (e della solidarietà verso i più fragili), contro il negazionismo/individualismo. È più complicato di così e oggi è più chiaro di ieri: anche i lockdown, con la messa al bando della socialità, pongono una serie di ipoteche sulla salute, specie dei soggetti più fragili. Per i bambini, socializzare non è un lusso, a scuola e nel dopo scuola. Per gli anziani ricoverati, rimanere per mesi rinchiusi senza vedere i familiari può significare un decadimento senza ritorno. Dunque, un governo della salute, ispirato alla tanto invocata scienza, deve bilanciare i diversi determinanti della salute stessa. Non è facile, lo sappiamo. Un anno fa, il Comitato Nazionale di Bioetica, in un parere sul Covid che ragionava sulla salute pubblica, nel rapporto fra libertà individuale e solidarietà sociale, giustificava in nome dell’emergenza le misure di limitazione di libertà costituzionali (come la libertà di circolazione e di riunione), ma al contempo ne sottolineava il carattere di eccezionalità: in forza della quale dovevano (e devono) rispondere a criteri di proporzionalità, di efficacia, di limitazione nel tempo. È questa una bussola valida oggi ancora più di ieri, ancorché poco utilizzata. Intanto, la consapevolezza della eccezionalità di alcune restrizioni si è persa per strada: ci sono amministratori che inaugurano il “sovranismo” regionale e comunale, innalzando frontiere contro gli “untori” non residenti. Soprattutto latita il criterio di efficacia, strettamente connesso alla “proporzionalità” delle misure. Nel lockdown 2020, quando non molto si sapeva sulle vie di trasmissione del virus, era comprensibile una strategia elementare, di tendenziale azzeramento di tutte le occasioni di socialità. Un anno dopo, è mai possibile non saper discernere fra le situazioni più o meno rischiose di contatto sociale? Fra le probabilità di contrarre virus su un treno affollato oppure in un teatro mezzo vuoto? La sociologa Zeynep Tufecki (Internazionale, 12 marzo) a partire dalle più recenti evidenze epidemiologiche circa i pericoli della trasmissione via aerosol in luoghi chiusi, cerca di ricavare indicazioni per la riduzione del rischio. Invece di vietare parchi e spiagge, nel tentativo di imporre una indiscriminata astinenza sociale - osserva- sarebbe meglio informare correttamente le persone, “aiutandole a socializzare in modo più sicuro”. Detto altrimenti: il ritorno alla “normalità” comporta il ritorno a “normali” politiche di sanità pubblica, basate sulla conoscenza e sulla consapevolezza. Non c’è posto per tutti: perché i giovani con problemi psichici rimangono senza cure di Tiziana De Giorgio La Repubblica, 14 aprile 2021 Si arriva anche a due anni di attesa per cominciare un percorso. Viaggio tra i medici delle strutture pubbliche: “Siamo pochi, il Covid ha moltiplicato le richieste di aiuto ma non ce la facciamo”. Le bucava con i denti, anche di notte, a furia di masticarle. È stato prima di perdere le parole, di chiudersi nel silenzio. Poi c’è Teresa, sedicenne: solo lei sa da quanto nascondesse le braccia. Una dottoressa, giorni fa, le ha chiesto di spogliarsi per visitarla. Ed ecco i tagli che si era inflitta: più di cento ricami di solitudine, sofferenza e anni di abusi disegnati sulla pelle. Nina invece ne aveva due prima di essere operata al Niguarda. Profondi, sul volto, ad allungare con una lama gli angoli del sorriso fino alle guance in una perpetua smorfia. “Per somigliare al Joker”, aveva immaginato qualcuno all’inizio. Non era così. Sono le vittime invisibili del Covid (i nomi sono di fantasia, le storie no), bambini e adolescenti con un disagio psichico che si stanno moltiplicando: questo periodo di privazioni e isolamento è stato dirompente, specialmente per chi era già fragile. Gli accessi al pronto soccorso sono aumentati, le richieste di ricovero pure, con tutte le infinite difficoltà dovute alla carenza di posti. “Ci si chiede mai, però, dove vengono curati dopo l’intervento di urgenza? È a noi che li affidano. Ma non abbiamo abbastanza forze per tutti”. È una denuncia esausta, ma di chi non si rassegna, quella che arriva dalle unità territoriali di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza. Medici, psicologi, logopedisti, psicomotricisti che lavorano in queste strutture pubbliche per la tutela della salute mentale chiamate “Uonpia”. A Milano sono 16, sparse nei quartieri. Hanno il compito di prendere il carico chi ha meno di 18 anni che viene dimesso dagli ospedali. Di seguire i minori su indicazione dei pediatri di famiglia per disturbi del comportamento, del linguaggio, dell’apprendimento. Ma anche di prestare cura a bambini e adolescenti inviati dal Tribunale dei minori. Piccoli abusati, maltrattati, che devono avere un supporto prolungato, intenso, per riuscire a stare meglio. Questi centri sono arrivati ad avere una sofferenza di personale così grande negli ultimi anni che bisogna lavorare da acrobati anche solo per seguire i casi più urgenti. “Così ci sono bambini e famiglie che per iniziare un percorso possono rimanere in lista d’attesa anche due anni. Una situazione drammatica, ancora più insostenibile dall’arrivo del Covid, sulla quale non si può più tacere”. A parlare è Paola Orofino, neuropsichiatra infantile, ex giudice onorario della corte di Appello di Milano, membro della Società psicoanalitica italiana. È la responsabile della sede Uonpia di via Sanzio. Sono sette quelle gestite dall’Asst Fatebenefratelli-Sacco, dove i dati in mano a Pierangelo Veggiotti, direttore della Neurologia Pediatrica, dicono che le proiezioni sulle cartelle aperte solo nei primi mesi del 2021 - perché è con la seconda ondata che il disagio dei più piccoli si è mostrato con tutta la sua forza - vedrebbero almeno 500 pazienti in più a fine anno. Tantissimi, se consideriamo che nel 2020 erano state 1.083 i pazienti presi in carico. Ma già oggi la richiesta è enorme, sono più di 700 i bambini in lista d’attesa. E il telefono squilla di continuo. Qui come nelle altre realtà territoriali di Milano e non solo. Nei centri del Niguarda, come in quelli del Policlinico o del San Paolo. “Ora è la madre disperata perché il figlio ha smesso di mangiare - racconta la dottoressa Orofino -. Ora è la collega del pronto soccorso che chiede l’appuntamento per il primo colloquio dopo la dimissione, per la ragazza che ha tentato il suicidio. Ora è l’assistente sociale che chiede la presa in carico del minore per l’indagine in corso, ma anche il decreto urgente per l’inserimento di un adolescente in comunità”. Un’emergenza che la pandemia ha solo reso più imponente. “E allora perché negli anni queste strutture che un tempo erano piene di psicologi, psicoterapeuti, psicoanalisti si sono svuotate? Quelli che ci sono ce la mettono tutta, spesso aiutati da tirocinanti volenterosi. Ma siamo in pochi e non possiamo moltiplicarci”. L’anno del Covid ha visto lievitare le richieste d’aiuto per i piccolissimi. “Bambini sotto i tre anni, generalmente maschi, con gravi disturbi del linguaggio e della comunicazione, con sospetti disturbi che spesso riguardano la sfera autistica, una bolla che sta esplodendo”, racconta Paola Vizziello, segretaria regionale della Società di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza responsabile del servizio per le malattie rare del neuro-sviluppo che fa parte del polo territoriale di via Pace, uno dei tre del Policlinico. Fra i più grandi, invece, ecco i problemi legati al ritiro sociale che premono. “E poi i disturbi del sonno, dell’alimentazione”. Per non parlare dei quadri depressivi. Dei tentati suicidi. Dei casi di “self cutting”. Un malessere che cresce senza far rumore, con le sue dita da ragno che arrivano ovunque. Una curva in salita non solo in termini puramente numerici e che va ben oltre il capoluogo lombardo. “Non solo osserviamo un aumento quantitativo delle richieste ma anche una maggiore gravità delle stesse”, conferma Martina Mensi, neuropsichiatra del Mondino di Pavia, dove i casi di autolesionismo e tentato suicidio sono cresciuti del 50 per cento nel 2021, così come i ricoveri per gli adolescenti in grave difficoltà psicologica. E gli invii dal pronto soccorso al reparto di neuropsichiatria infantile sono raddoppiati. Anche per trovare un posto nelle comunità, la situazione è oltre il limite. Lo racconta Anna Bassetti, del centro diurno Aliante. “E le richieste non solo sono in aumento ma richiedono interventi veloci per sollevare le famiglie da situazioni ingestibili”. E se già con i casi più urgenti, che hanno vie prioritarie, le unità pubbliche territoriali fanno fatica, figuriamoci gli altri. “I bambini con una diagnosi di autismo possono aspettare anche più di 24 mesi prima di essere seguiti, non so se ci si rende conto di cosa significhi questo tempo per un bambino in età evolutiva”, chiede Orofino. Lo stesso vale per tutti coloro che hanno disturbi più lievi: “Ci sono ragazzini che se presi in tempo, con un adeguato sostegno ai genitori, potrebbero risolverli in un periodo relativamente breve”, spiega Sandra Quercioli, responsabile della Uonpia di Quarto Oggiaro. “E invece finiamo per vederli come casi gravi. Perché il tempo che passa dalla richiesta è troppo e i problemi finiscono per diventare più complessi”. Così, come sempre, chi se lo può permettere si rivolge al privato. Sono le famiglie più deboli a rimanere fuori. E alla disperazione dei genitori, assicura Quercioli, non ci si può abituare. Qualche settimana fa un papà ha trovato la sua mail personale. Le ha scritto una lettera. Breve, ma di quelle che non ci si dimentica. “Si appellava al mio buon cuore perché il suo bimbo venisse preso, perché lo aiutassimo. E invece sono stata costretta a rispondere di portare pazienza, che bisognava aspettare, che c’erano tanti altri bambini in attesa come lui. Ma come si fa?”. Un problema legato al personale che non basta, che non c’è più. Spolpato dai tagli regionali, dalle mancate sostituzioni. “Ma anche dai posti nelle scuole di specializzazione in neuropsichiatria infantile per anni dati con il contagocce - precisa Veggiotti, che è anche direttore della scuola di specialità della Statale - per le quali solo da poco la Lombardia ha incrementato sensibilmente il numero di posti. Ci vuole tempo, però, per formarli”. E a fronte di numero consistente di specialisti che vanno in pensione, “se ci sono altre richieste spesso preferiscono andare altrove, non nei servizi territoriali”. C’è però anche un tema di spazi, di strutture: ci sono unità operative dove gli operatori, nonostante siano pochi, devono fare i turni per avere una stanza dove lavorare con i bambini. E così, hai voglia a smaltire le richieste. “Mi sono reso conto che la situazione logistica e ambientale è drammatica, non degna di una città come Milano”, prosegue Veggiotti. È lui a mostrarci la sede di via Sant’Erlembardo, vicino viale Monza, dove si fatica a trovare anche solo l’indicazione per gli ambulatori. Chi ci lavora fa il possibile per renderlo accogliente. Ma resta così triste e inospitale, così diverso da quei reparti di pediatria che siamo abituati a vedere negli ospedali, colorati e a misura di bambini e famiglie. “Scriverò anche al sindaco - scuote la testa il medico - perché così non si può continuare”. È stato visitato qui il diciassettenne che, insieme alla fidanzata, a gennaio, si era tagliato il volto dalla bocca alle guance. Si erano sfregiati a vicenda. La ragazza, dopo essere stata dimessa dal Niguarda, era stata inviata all’unità territoriale che si trova sempre in via Ippocrate. “Una storia che ha colpito tutti, anche me”, ammette Margherita Contri, dell’ambulatorio adolescenti, che l’ha ascoltata dopo l’emergenza. “Non aveva grossi pregressi. Ma nella quarantena, con un distacco dalla realtà e dai compagni, aveva perseguito insieme al fidanzato questo sogno assurdo, di somigliare a un personaggio dei cartoni giapponesi, non al Joker. Il confinamento, la mancanza di contatti sociali, avevano alimentato il suo rifugiarsi in un mondo parallelo di fantasia”. È lei l’unico medico di questo centro. Fino a pochi anni fa erano in tre. “Siamo in affanno, lo siamo sempre stati. Ma per gestire quest’onda che cresce, oggi più che mai, abbiamo bisogno di risorse, di persone”. Ed è già tardi. Primo: non odiare di Nina Verdelli Vanity Fair, 14 aprile 2021 La parola al deputato Alessandro Zan, promotore della norma che combatte violenze e discriminazioni contro donne, gay e disabili. A noi spiega perché è una legge urgente. E perché viene tanto osteggiata. Prendiamo il caso di Jean Pierre e Alfredo. Il mese scorso due ragazzi si danno un bacio in metropolitana a Roma. E per questo vengono aggrediti. È solo l’ultima di una lunga serie di violenze legate a caratteristiche incancellabili delle persone, come il genere, l’orientamento sessuale o la disabilità. Ci sarebbe una legge per fermare questa montante onda di odio. Il problema è che, per ora, a essere ferma è la legge stessa. Il disegno di legge (ddl) Zan, dal nome di Alessandro Zan che ne è stato il relatore alla Camera, giace impolverato tra le mozioni di cui si pensa di poter fare a meno. Vittima dell’ostruzionismo di una destra che non pare gradirlo, rimane lì, in Senato, in attesa di essere inserito nell’Ordine del giorno. Ma il suo promotore non si arrende, come non si è arreso quando, nel 2006, ha ottenuto il primo registro anagrafico italiano delle coppie di fatto, aperto anche agli omosessuali. Quarantasette anni, di Padova, una laurea in Ingegneria, il deputato del Pd Alessandro Zan parla con la passione gentile di chi vuole raggiungere un obiettivo senza calpestare gli altri. Al contrario: lui, gli altri, vuole tutelarli, anche quelli che lo ostacolano. Chi, per esempio? “Giorgia Meloni. Si dichiara contraria a una legge che la proteggerebbe dal professore che ha osato definirla “scrofa”. Quello è stato un atto di misoginia, un’offesa a lei in quanto donna”. Chi altro sarebbe tutelato dalla nuova norma? “Oltre alle donne, le persone Lgbtq+ e i disabili. Categorie facilmente soggette a discriminazioni e violenze. Lo testimonia un recente studio di Vox - Osservatorio Italiano sui Diritti, che identifica i gruppi sociali maggiormente colpiti dall’intolleranza. Sono sei: donne, persone omo o transessuali, migranti, disabili, ebrei e musulmani. Ora, le minoranze etniche sono tutelate dalla legge Mancino del 1993. Alle altre categorie non resta che augurarsi l’approvazione della legge che ho presentato”. Che cosa cambierebbe? “Torniamo all’esempio dei due ragazzi che si baciavano in metro a Roma. Il loro aggressore sarebbe giudicato per l’atto di violenza in sé con l’aggravante del crimine d’odio”. E lei pensa che basterebbe per frenare l’intolleranza? “È provato: in Francia, dopo la promulgazione di un provvedimento analogo nel 2004, questi reati sono diminuiti in maniera significativa. Anche perché leggi del genere non si limitano a punire i misfatti, ma propongono azioni per sensibilizzare i cittadini”. Quali? “Fondi per campagne televisive, iniziative nelle scuole e nella Pubblica amministrazione dove manca un vocabolario per interagire soprattutto con la comunità Lgbtq+. Prendiamo il caso dei transessuali: molti di loro, quando la transizione è in atto ma non hanno ancora ottenuto il cambio di nome all’anagrafe, rifiutano di andare a votare per non sottoporsi all’umiliazione di dover scegliere la cabina degli uomini, quando uomini non sono. Basterebbe cambiare le regole e dividere i seggi con criterio alfabetico: A-L di qua, M-Z di là. Così si eviterebbero discriminazioni”. C’è una frangia del femminismo di sinistra, però, che contesta proprio questo: volendosi occupare di tutti, trans inclusi, la legge rischia di risultare meno efficace nella protezione delle donne... “Credo siano tre persone a pensarla così in tutta Italia. Le femministe sono per la stragrande maggioranza favorevoli a un approccio inclusivo. Tra l’altro, queste tre persone non si rendono conto che, con le loro critiche, danno man forte alla destra omofoba”. Le principali obiezioni mosse dai leghisti, senatore Simone Pillon in testa, sono tre: è una legge liberticida perché soffoca la libertà di espressione; faziosa perché garantisce un’aumentata tutela solo a determinati gruppi; marginale in questo momento di pandemia dove le emergenze sono altre... “Tre bugie. La legge consentirebbe di esprimere tutti i pareri, meno quelli che istighino all’odio. Esempio; se dico: “Per me l’omosessualità è un peccato”, esprimo un’opinione. Se dico: “Tutti i gay devono morire”, incito all’odio. Il confine è piuttosto chiaro”. Che cosa risponde invece all’accusa di faziosità? “Esistono categorie più vulnerabili di altre, che pertanto vanno maggiormente tutelate, per garantire l’uguaglianza sancita dall’articolo 3 della Costituzione. Non è un caso che il 62 per cento delle persone Lgbtq+ non si senta sicuro a scambiarsi manifestazioni d’affetto in pubblico”. Converrà, però, che non è surreale ritenere che, in questo preciso momento storico, le priorità siano altre: vaccinare, ripartire… “Ma il Parlamento mica si occupa esclusivamente dei temi legati alla pandemia. Siamo un Paese complesso, che ha bisogno di operare costantemente su più fronti, incluso quello dei diritti. Non solo: è provato che, durante i vari lockdown, i crimini d’odio, soprattutto contro le donne, sono aumentati a dismisura. Checché se ne dica, la legge è urgente”. Perché allora la sua calendarizzazione viene continuamente rimandata? “Spetta al presidente della Commissione giustizia al Senato, in teoria super partes, inserirla nell’Ordine del giorno. Ma il leghista Andrea Ostellari preferisce allinearsi alle posizioni del suo leader Matteo Salvini, certamente non favorevole alla norma. La verità: Lega e Fratelli d’Italia criticano la forma di questa legge per non parlare della sostanza. Si vergognano a dire che, secondo loro, le persone Lgbtq+ sono individui sbagliati, da correggere. Peccato che nessuno scelga di essere omosessuale, etero o trans, come non si sceglie il colore della pelle. Io mica ho deciso di diventare gay. Lo sono e basta”. Lei ha mai subito violenze o discriminazioni? “Qualche episodio di bullismo a scuola; mi rubavano gli oggetti, mi dicevano: “Ma sei frocio?”. Sono cose che fanno molto male, soprattutto a quell’età. Pensi che io ero innamorato del mio compagno di banco, ma non gliel’ho mai detto: avevo paura. L’incultura dominante fa anche questo: ruba ai giovani Lgbtq+ i momenti dei primi amori, delle prime infatuazioni. Momenti che non tornano più”. Non a caso, parecchi giovani, più o meno noti, si stanno esponendo per sostenere la sua battaglia... “Sì, devo ringraziare Fedez e Chiara Ferragni, Elodie, Mahmood, Michele Bravi, Tiziano Ferro e tanti altri che mi stanno dando una mano. È anche grazie a loro se i liceali sono in gran parte scatenati a favore della legge. Il che mi fa felice: vuol dire che abbiamo il futuro dalla nostra”. Gli adulti, invece? “Più tiepidi”. Quando non scatenati in senso contrario: Vittorio Sgarbi sostiene che il ddl Zan imponga una “pedofilia di Stato”... “Sgarbi deve aver perso lucidità per proferire una frase così vomitevole. Associare l’omosessualità alla pedofilia è un atto gravissimo che va querelato. Infatti, in tanti stanno procedendo”. Al di là delle provocazioni, qual è secondo lei il vero motivo per cui questa legge viene tanto osteggiata? “Perché rappresenta una scelta di campo. Attualmente, l’Italia si colloca 35esima in Europa per accettazione sociale delle persone Lgbtq+. La Polonia, che ha appena vietato l’aborto, è 40esima. Ecco, approvare la legge significa inserire la nostra tra le nazioni più progressiste. Significa fare un passo avanti verso l’Europa dei diritti, delle libertà e, sì, anche del benessere”. Viceversa, bocciarla? “Vorrebbe dire andare incontro a quei Paesi come appunto la Polonia di Duda, o l’Ungheria di Orban, governati da destre sovraniste, populiste e anti-democratiche. Lo sa che in Polonia esistono delle Free Lgbtq+ zones, cioè delle aree in cui gli omosessuali non sono ammessi? Non hanno fatto entrare nemmeno Clément Beaune, il segretario di Stato francese per gli Affari europei, dichiaratamente gay, in visita ufficiale a Varsavia. Questa ghettizzazione è pericolosa: ricorda gli anni in cui gli omosessuali venivano censiti con il triangolo rosa”. Pensa che, senza la sua legge, anche l’Italia potrebbe scivolare verso una deriva simile? “Penso che quando la contrastano, Salvini e Meloni lo facciano proprio perché aspirano al Modello Duda o Orban, che infatti vanno volentieri a trovare. Come dicevo, il ddl Zan è una scelta di campo: di qui l’Europa dei diritti, di là il ritorno al ghetto”. Secondo lei il premier Mario Draghi da che parte sta? “Essendo europeista convinto, mi viene da supporre sia favorevole. Però per ora non si è pronunciato: la sua è una maggioranza eterogenea, probabilmente non vuole creare fibrillazioni all’interno del governo. Detto questo, mi aspetto una cosa da lui”. Che cosa? “Che il 17 maggio, giornata mondiale contro l’omo-lesbobi-trans-fobia, anche Draghi prenda posizione. La sfida è importante, culturale, decisiva. Tacere non è più un’opzione”. Cannabis terapeutica. Storia di Walter, malato e in attesa di processo di Chiara Lalli Corriere della Sera, 14 aprile 2021 Soffre di artrite reumatoide da quando aveva 16 anni, un dolore che non passa mai e che riesce a lenire solo con la sostanza (legale). Ma in Italia di cannabis non se ne produce abbastanza. “Ho aspettato per anni, poi per averla ho dovuto coltivarla”, racconta. Il 27 aprile la nuova udienza. “Sto qua e aspetto tranquillo” mi dice Walter De Benedetto quando gli chiedo di raccontarmi perché è indagato e perché il prossimo 27 aprile ci sarà un’altra udienza del suo processo. “Ma quanto tempo mi rimane?”. Perché De Benedetto ha una malattia cronica e progressiva, il cui primo sintomo è il dolore. Ce l’ha da quando ha 16 anni e dopo una diagnosi scorretta, ecco quella giusta: artrite reumatoide. A parte il dolore, piano piano la malattia compromette la funzionalità delle articolazioni e può coinvolgere i tendini e molti organi. “Io ero uno sportivo, facevo arti marziali e suonavo la tromba. Avevo una bellissima vita, poi mi sono ammalato e dopo essermi ammalato è successo un gran casino”. In questo ultimo anno i sintomi sono peggiorati, e poi la pandemia ha aggiunto ansie e complicazioni. Come per tutti, certo, ma per chi ha difficoltà di spostamento e dipende completamente dagli altri quelle ansie e quelle complicazioni si moltiplicano. “La mia vita sembra una prigionia alla quale ti devi abituare”. E c’è il dolore, sempre. Un giorno magari va meglio, quello dopo anche un piccolo spostamento è insopportabile. Walter non si lamenta, anzi. Mi dice che è ben accudito e che anche essere amati fa bene. “Se tu cominci a dire ‘faccio schifo’ e ti lamenti e non accetti quello che ti è successo, va tutto peggio. So’ tutto tronco, ma questo corpo è il mio. Non bisogna mettersi a piagnucolare”. Il reato di dare acqua alla pianta - L’unico desiderio di Walter è poter usare la cannabis per contenere quel dolore che non passa mai. E per legge può farlo perché dal 2006 si può usare la cannabis a scopo medico. “Hanno fatto tante leggi belle e importanti” mi dice Walter “ma di cannabis non se ne produce abbastanza. Dopo aver aspettato inutilmente per anni, l’anno scorso ho deciso di coltivare delle piante di marijuana”. La cannabis attenua i sintomi dolorosi, è sfiammante ed è legale. Ma per averla ha dovuto coltivarsela, e per questo rischia fino a sei anni di carcere. Sembra una storia inventata per quanto è surreale. Le piante sono state distrutte e ora Walter non aspetta solo di poter usare qualcosa che gli fa sentire meno dolore ma pure il processo. “Quando sono arrivati i carabinieri, io ho detto subito che le piante erano mie. Sono stati molto gentili. Hanno tagliato tutto e sono andati via”. Un po’ gli fa rabbia, perché senti casa tua violata e perché “in cuor tuo sai che non hai fatto niente di male”. Mentre gli dico che mi aveva colpito molto quello che aveva scritto il 12 marzo scorso sul suo profilo (“al mio amico Marco in tribunale hanno detto che la mia coltivazione era troppo grande per un paziente solo. Troppe piante e troppe infiorescenze. Ha preso un anno e qualcosa di reclusione, solo perché dava acqua per me che non posso farlo”), lo sento chiedere un caffè e dire a qualcuno che lo salutava “dammi un bacino”. Se non fosse spaventoso, il reato di dare acqua a una pianta farebbe un po’ ridere (a seguito della dichiarazione di incostituzionalità della Fini-Giovanardi nel 2014, il consumo personale è stato sostanzialmente depenalizzato mentre la coltivazione resta penalizzata). Una rivoluzione normativa - E dovrebbe anche rendere ovvia la necessità di rivedere le leggi che regolano le sostanze psicoattive sulla base di valutazioni più razionali di quelle che spesso ascoltiamo: le evidenze scientifiche, il principio del danno a terzi come base legittima di un divieto e quello della riduzione del danno. Oltre a una stima degli effetti di un proibizionismo feroce. Per questo le scelte di De Benedetto sono anche politiche - in un senso molto allargato - e non riguardano solo la richiesta specifica. Richiesta tra l’altro che sarebbe già legittima ma che si scontra con una burocrazia infernale. “Io mi sono assunto le mie responsabilità e vediamo che succede”. Però non ha molto tempo e questo tempo intanto è più sgradevole di quanto potrebbe essere. Quel dolore che potrebbe essere alleviato non aspetta la decisione di un giudice o quella, ancora più lenta, del legislatore. Per capire perché Walter si trova in questa situazione e qual è il panorama normativo parlo con Marco Perduca, che per l’Associazione Luca Coscioni coordina Legalizziamo.it. “Sanzionabile la spedizione dei prodotti” - “La prima stranezza è che, a causa di una Determinazione dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, è sanzionabile la spedizione dei prodotti a base di cannabis per uso medico (che sono legali) dalle farmacie ai malati, sia per posta sia per corriere. Per cancellare questo ulteriore ostacolo non ci vuole nemmeno una rivoluzione normativa”. Per esempio Walter vive in Toscana e ha una farmacia vicina, ma gli altri? E che senso ha poter comprare ma non ricevere, soprattutto in questo ultimo anno di spostamenti limitati? Quindi per rendere meno complicata la vita di molte persone bisognerebbe cancellare quella circolare del 23 settembre 2020 e ritirare il decreto che considerava il CBD come una sostanza psicotropa - “come fosse eroina e in contrapposizione alle indicazioni della Organizzazione mondiale della salute” - per investire nella produzione nazionale di cannabis. Questa difficoltà burocratica rende i costi di accesso più alti di quanto potrebbero e dovrebbero essere e vanifica l’ordinanza del 18 luglio 2006 (Importazione di medicinali a base di delta-9-tetraidrocannabinolo e trans-delta-9-tetraidrocannabinolo) che permette l’uso medico della cannabis. Adeguare le norme alle nuove evidenze scientifiche - Chiedo a Perduca cos’altro migliorerebbe la situazione anche senza cambiare la legge del 1990. “A legislazione vigente, si potrebbe cominciare dando seguito alle linee programmatiche della ministra Marta Cartabia. Che è prima di tutto la relatrice della sentenza della Consulta 32/2014 sulla incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi, e poi la firmataria di un’altra sentenza sempre della Consulta sulla lieve entità di possesso di sostanze stupefacenti. Cartabia ha anche manifestato preoccupazione per il sovraffollamento carcerario, senza dire che il 30% di chi è in carcere sta lì per una violazione del testo unico sulle droghe. Se la politica decidesse di non perseguire l’uso e la detenzione per fini personali delle sostanze stupefacenti e psicoattive, avremmo già una riduzione significativa del numero dei detenuti”. E poi ci sono altre due cose. Una positiva. “Draghi ha appena assegnato alla ministra Fabiana Dadone le deleghe sulla droga. Nei mesi scorsi non avere una figura che, come dice la legge IervolinoVassalli, all’interno della Presidenza del consiglio è deputata al controllo e alle valutazioni politiche non ha aiutato a controllare le norme - che interessano anche il settore industriale, oltre che l’uso terapeutico e personale”. Il parere favorevole dell’Onu e i ritardo dell’Italia - Come si può leggere nella lettera indirizzata al Presidente del consiglio e al ministro della salute Speranza: “La mancanza è stata ancora più vistosa perché il 2 dicembre dell’anno scorso le Nazioni Unite, col parere favorevole dell’Italia, hanno rimosso la cannabis dalla IV Tabella della Convenzione Onu sulle sostanze psicotrope del 1961 andando quindi ad annullare tutte le misure di controllo che per anni hanno imbrigliato la produzione, la distribuzione e la prescrizione della cannabis”. E ancora: è dal 2009 che non si svolge la Conferenza nazionale sulle droghe, che è il luogo istituzionalmente incaricato di valutate l’impatto della legge e gli sviluppi internazionali, i dati scientifici e gli effetti di una politica fortemente restrittiva. L’autorizzazione all’uso medico ha conseguenze più ampie: se è anche una terapia, la valutazione del danno e il meccanismo di controllo della cannabis non possono rimanere quelli del 1990. “Dobbiamo adeguare le norme sulla base delle nuove evidenze scientifiche. O, non avendo mai dimostrato che la cannabis faccia male, si può decidere di cambiare le norme”. Le regole su sigarette e alcol - Che poi se dovessimo prendere sul serio il divieto di quello che fa male, dovremmo rivedere le leggi sulle sigarette e sull’alcol e su tantissime altre sostanze. E spesso le sostanze stupefacenti sembrano per molti essere dannose intrinsecamente, quasi magicamente. Mentre ovviamente il principio fondamentale è la dose - oltre che la qualità e le informazioni al riguardo (due aspetti che il divieto comprime). “Solo se la evochi è un problema di ordine pubblico. È il motivo per cui hanno fatto delle multe alle farmacie che pubblicizzavano prodotti a base di cannabis e, ripeto, per uso medico. Il mero parlare significa condonare il consumo o addirittura istigare”. È evidente che sarebbe necessario un ripensamento sulle normative e sulle ragioni per le quali è giusto vietare o comunque mantenere leggi così rigide. C’è un problema anche di percezione del fenomeno. Perduca mi chiede se so quante overdosi di coca e eroina ci sono. Rispondo che non ne ho idea. “Sono duecento ma sembrano molte di più a causa di come se ne parla. Il fenomeno dovrebbe essere contestualizzato e trattato con più razionalità”. Turchia. Cedu: “Lo scrittore turco Altan detenuto senza prove” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 14 aprile 2021 La Corte europea dei diritti dell’uomo multa Ankara: processo iniquo e violazione del diritto di espressione del giornalista e romanziere, in carcere dal settembre 2016. Ma nella sentenza manca il richiamo alla natura politica della sua condanna. “Continuerò a dire la verità. Ho detto la verità tutta la vita. Non sono il genere d’uomo che agisce per vigliaccheria e sperpera i tanti decenni che ha già vissuto per amore dei pochi anni che gli rimangono”. Così Ahmet Altan, di fronte al pubblico ministero che dopo il tentato golpe del 2016 lo accusava di avervi preso parte, si sollevava sopra l’aula di tribunale con tutta la sua statura di uomo libero e di giornalista. In prigione dal primo settembre 2016, Altan è tra i più noti scrittori e giornalisti turchi. Ieri è stata la Corte europea dei diritti dell’uomo a trattare il suo caso, insieme a quello del giornalista Murat Aksoy, rispondendo a una condanna pretestuosa con una condanna puntuale: incarcerandolo la Turchia, dice la Corte nella sentenza, ha violato i suoi diritti alla libertà, alla sicurezza e a un processo equo e la sua libertà di espressione. Perché la libertà di svolgere il suo lavoro è il cuore della durissima pena inflittagli dal sistema giudiziario turco: avrebbe inviato messaggi subliminali pro-golpe durante un programma tv andato in onda mesi prima. Un’accusa da romanzo distopico che gli è costata prima una condanna all’ergastolo aggravato (senza possibilità di sconti di pena) nel 2018, stracciata in appello nel 2019, e poi un nuovo processo concluso con una pena di 10 anni e mezzo di prigione per sostegno a organizzazione terroristica (il movimento Hizmet dell’imam Fethullah Gulen). Fuori dal carcere ha trascorso appena un giorno, meno di 24 ore di rinnovata libertà prima di essere riarrestato. Lo scorso 2 marzo ha “festeggiato” i suoi 71 anni dentro il famigerato carcere di Silivri, nuova casa dei prigionieri politici turchi. “La Corte - si legge nella sentenza emessa ieri a Strasburgo e che condanna la Turchia a pagare 16mila euro in danni ad Altan - ha trovato che le critiche del richiedente all’approccio politico del presidente (Erdogan) non possano essere intese come la prova che fosse a conoscenza del tentato golpe in anticipo. Per questo la logica applicata al caso dalle autorità non può essere considerata una valutazione accettabile dei fatti”. Insomma, pur non spingendosi a definirla una crociata politica, per la Corte dietro la detenzione non c’è alcuna giustificazione legale né sospetti ragionevoli della commissione di un reato. “Altan è stato arrestato perché era nel mirino del potere politico e dei media vicini al governo - il commento dell’avvocato del giornalista Veysel Ok - La Corte ha stabilito che la sua detenzione non è politica. In questo senso, è mancante”. Se da Ankara al momento non giungono reazioni, è difficile immaginare che Altan sia rilasciato. La Turchia, colpita da più di una condanna della Corte europea, procede come uno schiacciasassi, ignorandole una a una, a partire da quelle che chiedono il rilascio di avversari politici di primo piano, dal filantropo Kavala al politico curdo Demirtas (la cui ultima denuncia contro l’impedimento a relazioni sociali con altri detenuti è stata però rigettata dalla Cedu). E procede anche nelle epurazioni e i processi di massa, giustificati con il tentato golpe del 15 luglio 2016. La scorsa settimana la 19a Corte penale di Ankara ha condannato 149 dei 497 imputati per il putsch a pene detentive sopra i sei anni, compresi 32 ergastoli aggravati. Una mannaia giudiziaria che ha fatto da stampella a circa 134mila licenziamenti di dipendenti pubblici di vari settori (magistratura, accademia e scuola, forze armate, sanità). Persone cancellate dal governo che, denunciava in un articolo dello scorso anno il tedesco Deutsche Welle, non riescono a trovare un lavoro o un po’ di giustizia: dei 126mila che hanno fatto appello alla Commissione allo stato di emergenza per riavere indietro il posto di lavoro, solo 9.600 hanno vinto, mentre 28mila all’epoca erano ancora senza risposta. Al loro posto fedelissimi del governo e dei partiti della maggioranza, presenze che hanno stravolto la geografia politica del paese. Marocco. Sciopero della fame di due giornalisti in carcere per pubblicazioni anti-regime agi.it, 14 aprile 2021 Sono in custodia cautelare rispettivamente da otto e dieci mesi. Secondo i loro sostenitori sono nel mirino della giustizia a causa delle loro pubblicazioni critiche nei confronti delle autorità marocchine. I giornalisti marocchini Omar Radi e Soulaimane Raissouni, detenuti in custodia cautelare rispettivamente da otto e dieci mesi, hanno iniziato uno sciopero della fame per chiedere il loro rilascio provvisorio. Lo hanno annunciato i loro avvocati. La giustizia marocchina ha più volte rifiutato il rilascio provvisorio dei due giornalisti, che secondo i loro sostenitori sono nel mirino della giustizia a causa delle loro pubblicazioni critiche nei confronti delle autorità marocchine. Radi, 34 anni, noto per il suo impegno a favore dei diritti umani, è perseguito per un doppio caso di “stupro” e spionaggio. Il suo processo è stato rinviato al 27 aprile in una breve udienza all’inizio di aprile. Raissouni, 48 anni, direttore del quotidiano Akhbar Al-Yaoum - che ha cessato la pubblicazione a metà marzo per motivi finanziari - è perseguito per “aggressione indecente con violenza” e “reclusione”, dopo una denuncia presentata da un attivista Lgbt. Il suo processo doveva iniziare il 9 febbraio, ma è stato respinto due volte. La prossima udienza è fissata per il 15 aprile.