Abitare Ristretti. Ma l’officina apre l’orizzonte di Diana Cavalcoli Corriere della Sera - Buone Notizie, 13 aprile 2021 Il progetto della coop Altracittà nel carcere di Padova. Nuove postazioni e macchinari per i detenuti al lavoro. Prestiti di comunità sulla piattaforma Terzo Valore. La reclusione è (e resta) fisica. Ma si può provare a umanizzare gli spazi della pena, a immaginare un’esperienza di cambiamento che li renda migliori?”. È questa la domanda che si pone ogni giorno la cooperativa sociale Altracittà che ha riqualificato gli spazi di lavoro della Casa di reclusione di Padova dando una nuova vita ad ambienti altrimenti grigi e spenti. Una piccola, grande, rivoluzione resa possibile dai prestiti di comunità sulla piattaforma Terzo Valore, parte del sistema di crowd-funding di Intesa Sanpaolo. progetto “Abitare Ristretti”, ideato da dieci donne attive a vario titolo nella Casa di reclusione di Padova nel settore della formazione, è stata un’occasione per cambiare la vita di decine di detenuti e detenute. La cooperativa si è posta dal zor7 l’obiettivo di ampliare e migliorare gli spazi di lavoro del carcere padovano dove gestiva da tempo dei laboratori che ad oggi impiegano circa 4o persone. Ampliare questa piccola officina laboriosa implicava però un investimento importante. Significava acquistare nuovi macchinari, predisporre nuove postazioni per l’assemblaggio e confezionamento di minuterie metalliche: dalle viti ai bulloni. Costo complessivo del progetto: 75mila euro. Troppi per una cooperativa sociale. Così Altracittà si è rivolta alla finanza buona ed è riuscita a raccogliere la somma necessaria per avviare i lavori di riqualificazione. L’ampliamento del laboratorio è stato sostenuto per 15mila euro dalla cooperativa stessa e per i restanti 60mila attraverso la piattaforma Terzo Valore, con donazioni e prestiti dalla rete sociale in cui Altracittà è inserita. Nel dettaglio a finanziare la nuova vita del laboratorio sono stati 22 sostenitori, tra cui anche alcuni detenuti: 10mila euro sono arrivati sotto forma di donazioni, 30,2mila in prestiti dai privati e 19,8mila euro con prestito diretto della Banca. “Per questi enti - dice Marco Morganti, responsabile direzione Impact Intesa Sanpaolo - si tratta di una nuova forma di finanziamento, da parte delle proprie comunità. L’esperienza dimostra che tante persone sono disposte a prestare denaro a tasso zero, rendendosi parte attiva e partecipe del progetto in cui decidono di investire”. Raccolti i fondi sono partiti i lavori. Gli stessi detenuti, aiutati dagli studenti dell’Università Federico II di Napoli e del Politecnico di Torino per la progettazione del nuovo laboratorio, hanno svolto la maggior parte degli interventi edilizi tra cui il posizionamento degli arredi e delle scaffalature. Grazie ai nuovi macchinari e alle nuove postazioni sono così stati in grado di assicurare una maggiore produzione. In particolare all’azienda Fischer Italia. Per il 2021 l’obiettivo della cooperativa di Padova è migliorare ancora gli spazi del carcere tanto che l’organizzazione sta cercando di individuare alcuni supporti istituzionali per continuare il sogno condiviso e partecipato. “Da gennaio di quest’anno - spiega Rossella Favero, presidente delle Cooperativa Sociale - le speranze si sono riaccese: il Ministero della Giustizia ha costituito presso l’Ufficio di Gabinetto una Commissione per l’architettura penitenziaria incaricata di predisporre progetti di riqualificazione delle strutture penitenziarie”. La speranza è che la sensibilità sulle condizioni di vita all’interno delle carceri italiane si rafforzi. Riprogettare lo spazio all’interno del carcere può fare molto per chi è recluso. Per riallineare, finalmente, i luoghi dell’esecuzione della pena alla loro funzione costituzionale: responsabilizzare il detenuto in una reale visione di reinserimento sociale e recupero personale. È caos vaccini in carcere, ma le Regioni proseguono e Salvini fa autogol di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 aprile 2021 Il commissario Figliuolo nell’ultima ordinanza ha indicato per i vaccini in carcere gli stessi criteri come per il resto della popolazione, in alcune zone continua la campagna vaccinale: su tutte l’Abruzzo, dove l’assessore alla Salute è leghista. La campagna vaccinale per mettere in sicurezza la popolazione penitenziaria, detenuti e agenti, rischia nuovamente di procedere a singhiozzo. Un problema che nasce dall’ultima ordinanza numero 6/2021 emessa dal generale Figliuolo dalla quale emerge chiaramente che bisogna procedere con i vaccini in carcere seguendo gli stessi criteri indicati per la generalità della popolazione. Quindi l’indicazione è di dare la priorità agli anziani e persone con elevata fragilità. È la seconda volta che si crea un cortocircuito. Ricordiamo che durante la scorsa conferenza Stato-Regioni, il commissario avrebbe dato indicazioni di vaccinare solo la popolazione detenuta colpita da un focolaio. Poi la marcia indietro, anche se la regione Piemonte aveva preso alla lettera tale indicazioni. Grazie all’intervento del garante regionale Bruno Mellano e quello nazionale Mauro Palma, si è avuto un chiarimento. L’ira di Matteo Salvini - Ma ora siamo al secondo dietrofront e si rischia di bloccare la già lenta campagna di vaccini in carcere iniziata a marzo. A tal proposito, per quanto riguarda la regione Lazio, è intervenuto l’assessore regionale Alessio D’Amato che ha riassicurato annunciando che nelle prossime ore arriveranno le prime dosi del vaccino Johnson & Johnson e saranno somministrate ai detenuti. Anche la regione Campania ha annunciato che proseguirà la campagna vaccinale per la popolazione penitenziaria. Ciò ha creato una reazione di indignazione da parte del leader della Lega Matteo Salvini: “Lazio e Campania vogliono vaccinare i detenuti prima di anziani e persone disabili. Roba da matti”. Alle sue parole ha risposto il coordinatore dei garanti territoriali Stefano Anastasìa: “Salvini ha perso un’altra occasione per stare zitto. Attacca Lazio e Campania per le vaccinazioni ai detenuti, ignorando che in Lombardia e Veneto sono iniziate a marzo e che in tutta Italia interesseranno non solo i detenuti, ma anche il personale, gli uni e gli altri parte di comunità a rischio”. Il vicepresidente del Consiglio Regionale del Lazio, il leghista Cangemi, chiede vaccini in carcere - Non solo. Nella giornata di ieri è giunta anche la dichiarazione del vicepresidente del Consiglio Regionale del Lazio Giuseppe Emanuele Cangemi: “Più volte abbiamo denunciato l’assurda mancanza di immunizzazione degli operatori dei penitenziari, che si sono trovati a dover lavorare in condizioni di rischio di contagio elevato, tanto è vero che spesso gli istituti sono diventati a loro volta cluster di diffusione del Covid. Finalmente, il 19 aprile prossimo inizieranno le vaccinazioni all’interno degli istituti penitenziari, a partire dagli agenti di Polizia Penitenziaria e dai detenuti”. Parole importanti, perché Cangemi è un consigliere della Lega. In Abruzzo è stato vaccinato circa il 90% dei detenuti e l’85% del personale penitenziario - Le parole di Salvini diventano un ulteriore autogol visto che l’Abruzzo, governata dal centrodestra che comprende anche la Lega, è la regione virtuosa proprio per quanto riguarda la vaccinazione dei detenuti. Infatti, già a metà marzo, il Garante dei detenuti dell’Abruzzo Gianmarco Cifaldi ha fatto sapere che è stato vaccinato circa il 90% dei detenuti e l’85% del personale penitenziario. Un grande risultato che riguarda una giunta regionale che ha come assessore alla Salute la salviniana Nicoletta Verì.Ma perché è necessaria la vaccinazione, reclamata da tutti i sindacati di polizia penitenziaria, compresi quelli che erano stati cavalcati dalla propaganda leghista? A spiegarlo è l’associazione Antigone. Denuncia che il Covid 19 sta significando un aggravio alla pena che i detenuti e le detenute scontano: il blocco delle attività lavorative, scolastiche e formative; dei colloqui con i propri familiari; in alcuni casi gli isolamenti e le quarantene che li costringono in cella per giorni e giorni. Un esempio è l’accorata lettera, pubblicata da Il Dubbio, della figlia di Giuseppina Cianfoni, donna di 65 anni, positiva al Covid, da un mese in isolamento in una cella a Rebibbia, senza la possibilità di vedere nessuno, con soltanto una branda, un wc a disposizione e senza potersi fare la doccia. Come lei, tanti altri detenuti vivono questa atroce realtà. Per questo la somministrazione dei vaccini in carcere deve rimanere una priorità. In tutto questo c’è l’aggravante del sovraffollamento penitenziario. Ecco perché si dovrebbero emanare provvedimenti legislativi ad hoc. Uno di questi potrebbe essere l’aumento dei giorni di detrazione della pena prevista nell’ambito della liberazione anticipata speciale. Vaccini nelle carceri tra focolai, differenze regionali e polemiche di Giulia Merlo Il Domani, 13 aprile 2021 Matteo Salvini in un tweet ha definito “roba da matti” vaccinare i detenuti e gli agenti della penitenziaria nel Lazio prima di disabili e anziani, immediata la risposta, ma Lombardia e Veneto già vaccinano da marzo. I vaccini procedono a ritmi diversi in ogni regione e questo vale anche per le carceri, dove il numero dei contagiati rimane costante: 823 detenuti e 683 agenti, secondo gli ultimi dati pubblicati dal ministero della Giustizia. Secondo le denunce dei garanti territoriali, situazioni particolarmente critiche di focolaio sono sorte nel Lazio, a Roma e Viterbo, e in Veneto a Padova, dove le Camere penali si sono rivolte alla magistratura di sorveglianza perché conceda maggiori misure alternative alla detenzione, a fronte di un aumento dei contagi passato da 69 a 97 detenuti in soli 3 giorni. Attualmente, il numero di vaccinati tra i detenuti è di 6.356 persone su una popolazione carceraria di 52.207 unità, in sovraffollamento rispetto al numero massimo di posti disponibili, che si aggira intorno ai 48 mila (e non prevede distanziamenti per covid). Tra le guardie carcerarie, invece, quelli che il ministero considera “avviati alla vaccinazione” sono 15.155, su un numero complessivo di circa 37 mila agenti. La polemica - La polemica sull’opportunità di vaccinare i detenuti e il personale penitenziario in via prioritaria è riemersa domenica, quando il leader della Lega, Matteo Salvini, ha attaccato la regione Lazio per la decisione di destinare agli istituti penitenziari 10 mila delle 18 mila dosi che arriveranno di vaccino Johnson & Johnson, a partire dal 19 aprile. “Lazio e Campania vogliono vaccinare i detenuti prima di anziani e persone disabili. Roba da matti!”, ha scirtto Salvini su Twitter. Immediate sono state le risposte del garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia e dell’assessore alla Salute regionale, Alessio d’Amato. “Il Lazio è tra le prime Regioni italiane per copertura vaccinale agli anziani e in generale per livello di somministrazioni. Su queste questioni serve serietà, in Lombardia e Veneto sono iniziate a marzo le vaccinazioni nelle carceri”, ha detto d’Amato. Lo stesso ha fatto notare anche Anastasia, che nei giorni scorsi è intervenuto per denunciare il peggioramento della situazione dei contagi nell’ala femminile del carcere di Rebibbia e un andamento negativo in tutti i penitenziari della regione, da Regina Coeli al carcere di Viterbo. L’andamento dei dati, infatti, mostra un forte peggioramento con una curva in crescita che a breve raggiungerà i picchi del gennaio scorso. I vaccini nelle regioni - L’andamento dei vaccini nelle carceri procede a macchia di leopardo. “Le regioni procedono in ordine sparso, occorre maggior coordinamento centrale - ha detto il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma - va meglio tra gli agenti, secondo i sindacati la campagna ora procede a buon ritmo”. La necessità di vaccinare i detenuti infatti non è solo un tema di tutela sanitaria, ma anche di sicurezza, per scongiurare rivolte in carcere, dove gli spazi angusti e il sovraffollamento favoriscono il contagio. Inoltre, vaccinare i detenuti e il personale penitenziario significa tutelare anche l’esterno e il diffondersi del virus. Analizzare l’andamento dei vaccini delle singole regioni non è possibile, esiste solo il dato nazionale dei 6356 vaccinati, poco più dell’8 per cento della popolazione detenuta. Le regioni dove si è proceduto a vaccinare a partire da marzo sono Lombardia e Veneto, a cui ora si aggiungeranno anche Lazio e Campania. Non esiste però una regola nazionale che viene seguita e questo rende complicato seguire l’andamento delle vaccinazioni, demandato alle singole regioni e alla loro disponibilità di dosi. Le nostre inchieste e le denunce quotidiane al fianco degli ultimi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 aprile 2021 Cinque anni di Dubbio, cinque anni dalla parte “sbagliata”. Nel corso di questi cinque anni, cinque giorni su sette, abbiamo parlato del carcere e di tutto ciò che ruota intorno alla privazione della libertà. Abbiamo attraversato quattro governi diversi e quindi ben quattro approcci differenti, da parte delle istituzioni, di affrontare le annose problematiche che riguardano il sistema penitenziario che inevitabilmente si legano a quello giudiziario. Il lavoro giornalistico è quello di cane da guardia della democrazia. Il luogo carcerario, così come le altre istituzioni totali, ha un elemento evidente: la chiarezza nel rapporto fra chi ha il potere e chi non lo ha. E riguarda tutti, anche i colletti bianchi. Una volta varcato le soglie del carcere, il loro potere decade e subisce le stesse storture e arbitri di tutti gli altri. Non a caso questo giornale si è occupato di un Marcello Dell’Utri che era gravemente malato in carcere, così come l’ultimo migrante senza difesa alcuna. Per quanto riguarda il carcere, per la prima volta abbiamo dato voce a numerosi avvocati penalisti che hanno come assistiti diversi profili di detenuti: da quelli comuni, passando per l’alta sicurezza, fino ai 41 bis. Grazie alle loro istanze, abbiamo portato a conoscenza dei lettori come si vive in galera. Ma anche a chi, in carcere, non ci poteva proprio stare. Tanti i casi di malati e privi di cure, gli internati senza però poter fare attività lavorative come è previsto, sulla carta, in una casa lavoro. Abbiamo portato alla luce i casi di chi è trattenuto illegalmente dentro il carcere in attesa che si liberi un posto in una Rems. Tante le violazioni che riguardano il 41 bis. Abbiamo dato notizia dell’incredibile caso del 73 enne Nicola Antonio Simonetta che era al carcere duro nonostante le sentenze lo indicassero estraneo alla ‘ ndrangheta. Carcerazione revocata dopo la nostra denuncia. Come giornale, siamo stati i primi (e forse gli unici) a parlare del “super” 41 bis. La cosiddetta area riservata che rende il 41 bis ulteriormente più duro. Seguimmo passo dopo passo l’iter della riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dall’ex guardasigilli Andrea Orlando. Abbiamo sostenuto in particolare Rita Bernardini del Partito Radicale che con i suoi lunghi scioperi della fame cercava dialogo con il governo. Una riforma che però si è realizzata a metà. Abbiamo affrontato il discorso dell’ergastolo ostativo seguendo anche i ricorsi alla Corte Europea, dando notizia di quando fu accolto quello presentato dall’ergastolano Marcello Viola. Solo dopo, molto dopo, i giornali che amano creare indignazione facile, se ne accorsero per remare contro le decisioni delle Alte Corti contro l’illegittimità dell’ostatività. Nel corso di questi ultimi anni, ci siamo occupati anche dei presunti pestaggi all’interno delle carceri italiane. Per la prima volta abbiamo parlato del caso del carcere di Ivrea, di quello di Viterbo nei confronti di un ragazzo che sarebbe stato pestato da 10 agenti, poi quello di San Gimignano andando in fondo e reperendo la certificazione medica che attestava dei lividi. Caso che recentemente si è concluso con una condanna di primo grado. Ma anche di tante altri vicende, poi archiviate. Non sono mancate polemiche, anche attacchi da parte di qualche sindacato di polizia penitenziaria o direttori stessi come quando denunciammo dell’utilizzo dell’idrante al carcere di Tolmezzo. Come giornale, però non ci siamo dimenticati nemmeno degli agenti penitenziari stessi, i quali lavorano in condizioni difficili. Sempre Il Dubbio, con il sito on line, ha seguito 24 ore su 24 l’evolversi delle questioni. Abbiamo dato esclusive, denunce, abbiamo perso delle battaglie, ma vinte tante altre come il caso di Anastasia Chekaeva che rischiava l’estradizione in Russia. Siamo stati intervistati e citati dal servizio di Report sulle carceri a cura di Bernardo Iovene. Dato in anteprima i primi detenuti morti per Covid, anche quando il virus è entrato al 41 bis di Opera e poi di Parma. L’estate scorsa, quasi a suggellare la nostra attività giornalistica sul tema, il nostro amministratore Roberto Sensi ha affrontato un lungo viaggio in bicicletta “Sulle ali della libertà”. Circa 2000 km intervallati da visite negli istituti penitenziari italiani e chiacchierate con chi vive il carcere. I nostri punti di riferimento sono state le associazioni come Antigone, Nessuno Tocchi Caino, L’Altro Diritto, Yairaiha, Ristretti orizzonti, l’Osservatorio carceri delle Camere penali italiane. Non da ultimo il Garante nazionale delle persone private della libertà. Sisto: “Una nuova sensibilità per il valore rieducativo della pena” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 aprile 2021 Il “Memento” del Sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, che partecipa all’iniziativa condotta a via Arenula da Rita Bernardini, consigliere generale del Partito Radicale e Presidente di “Nessuno Tocchi Caino”. “In questo governo, grazie alla ministra Cartabia, c’è una nuova sensibilità per il valore rieducativo della pena: l’idea che la pena più dura, inevitabilmente legata alla reclusione carceraria, sia l’unica che offra garanzie per i cittadini onesti è sbagliata e superata. È conclamato il fatto che il carcere spesso produca una sorta di assuefazione alla logica del crimine e che vi sia un circuito vizioso di causa-effetto tra la situazione nelle carceri e la successiva reiterazione dei crimini”. Così oggi il Sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, nel corso dell’iniziativa “Memento”, ideata e condotta a via Arenula da Rita Bernardini, consigliere generale del Partito Radicale e Presidente di “Nessuno Tocchi Caino”. L’iniziativa, giunta al 57esimo giorno, terminerà questa settimana. Tutti i “memento”, ossia i messaggi che gli ospiti hanno lasciato scritti su un post-it attaccato alla facciata del ministero della Giustizia, saranno poi consegnati alla Guardasigilli Marta Cartabia. Il sottosegretario Sisto ha ricordato che “al ministero ci sono quattro commissioni tecniche all’opera sulle riforme: completeranno il loro lavoro in un mese per poi passare al confronto con le Commissioni parlamentari. Tra i temi oggetto di riflessione rientrano anche gli strumenti deflattivi del carico processuale penale e la differenziazione delle pene, affinché siano effettivamente calibrate sulla necessità di recuperare il reo, nella consapevolezza che alla retribuzione deve sempre accompagnarsi, per Costituzione, la rieducazione. Tutto questo senza dimenticare che, se vogliamo rendere il nostro sistema degno dei principi generali che lo supportano, bisogna ragionare anche sull’impostazione del processo: il cittadino non deve avere paura del processo penale, che non può essere mai concepito come una vendetta”. Secondo Sisto, “i procedimenti devono tornare ad essere un accertamento, rapido, delle responsabilità, nell’interesse delle vittime e dell’imputato stesso. In tal senso, è fondamentale intervenire per limitare la consuetudine contra legem del processo mediatico, che è spesso più dannoso di quello che si svolge nelle aule giudiziarie, e che, fermo il diritto all’informazione, spesso rappresenta una grave deroga alla presunzione di non colpevolezza”. Il “memento” del Sottosegretario è stato “Piedi per terra per volare alto”, che ha spiegato così ai microfoni di Radio Radicale: “Tutti i dialoghi e la necessità di approfondimento non devono mai portare lontani della realtà; scrivere buone leggi e battersi per i diritti di tutti i cittadini ha senso solo se si hanno i piedi per terra”. Indagato uguale colpevole. Ora basta con la deriva di Giorgio Spangher Il Dubbio, 13 aprile 2021 La condanna “sociale” inflitta con le indagini vale più del processo. È il lato buio del nostro sistema. A proposito della direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza che vieta gli abusi mediatici delle procure. È inevitabile che, in un meccanismo delicato e sofisticato come il processo penale italiano, reso ulteriormente complesso da un sistema di diritto penale stratificatosi nel tempo che è chiamato a integrarlo in molti dei presupposti di alcuni suoi istituti e percorsi, lo spostamento di alcuni “mattoncini” dell’edificio determinino squilibri e scompensi. Il tutto, naturalmente, è amplificato dalle dinamiche che tutto ciò può determinare sui poteri delle parti e dei soggetti processuali che le varie previsioni sono chiamate ad applicare, con ulteriori ricadute di sistema. Il potere, perché di potere si tratta, dentro il processo non è infinito: la dilatazione dei poteri di una parte restringe e ridimensiona quelli dell’altra, nel nuovo equilibrio che si determina. Sono state più volte scandagliate le implicazioni di sistema delle sentenze del 1992 e 1994 della Corte costituzionale e le implicazioni della riforma costituzionale dell’articolo 111 della Costituzione e della legge n. 63 del 2001. Sono state a più riprese valutate le ricadute dell’evoluzione giurisprudenziale nella dinamica dei rapporti tra indagini preliminari e dibattimento. Si sono già affrontate le tematiche della dinamica dei rapporti tra pubblici ministeri e giudici delle indagini preliminari nella considerazione degli esiti delle richieste degli uni e della determinazione degli altri, anche a prescindere da possibili patologie, in linea astratta irrilevanti. Sono già state considerate, pur nell’alterato equilibrio, i rapporti tra indagini “preliminari”, esercizio dell’azione penale, controllo-filtro dell’udienza preliminare e dibattimento. Sono già state a più riprese evidenziate le espansioni mediatiche delle indagini preliminari, non corrette dalla natura dell’iscrizione nel registro di reato della notizia criminosa del soggetto indagato e dell’informazione di garanzia, nonché della misura cautelare e del successivo interrogatorio, tutti connotati dall’indicazione di garanzia che li caratterizza. Si sono a più riprese richiamate le previsioni costituzionali in tema di presunzione di non colpevolezza fino alla sentenza irrevocabile. In questo contesto, alcuni recenti episodi, anche clamorosi, hanno evidenziato ulteriori risvolti del rapporto tra indagini preliminari, esercizio dell’azione penale in relazione alla fase e alle fasi del giudizio. Non si tratta di considerazioni inedite ma che, pur tuttavia, nella misura in cui trascendono da riflessioni astratte meritano di essere considerate, anche nella loro prospettazione dogmatica e di sistema. Ora, controllata o no che sia da un giudice, richiesto di un provvedimento (proroga delle indagini, misura cautelare, intercettazione), il pubblico ministero sviluppa per un tempo alquanto ampio con pienezza di poteri di indagine, unitamente alla polizia giudiziaria il fondamento dell’ipotesi investigativa da lui formulata, la consolida con l’attività probatoria irripetibile o dotata comunque di una “resistenza” e la cristallizza dapprima in una preimputazione (art. 415 bis c.p.p.) e poi nell’imputazione (art. 416 c.p.p.). Si tratta di un fatto di rilevanza giuridica, in quanto prospettata da un organo avente ruolo e status significativo connesso al suo ruolo, che - prescindendo da altri elementi - è considerato muoversi nella dimensione della parte, ma pur sempre connotato, nella sua configurazione istituzionale, come organo condizionato dal principio di legalità, dal rispetto delle leggi che lo riguardano, ancorché nell’interpretazione che del suo egli intenda essere destinatario. È indubitabile che l’orizzonte nel quale si sviluppa questa attività nella prospettiva di chi la compie abbia precisi significati e fondamenti e che questa prospettazione sia destinata ad incidere nel convincimento di quanti ne vengano a conoscenza. Si consideri che la prospettazione accusatoria è supportata - come detto - dalla raccolta di materiale probatorio di supporto, selezionato e coordinato in quella prospettiva. Questi elementi potranno essere certamente superati, modificati, attenuati o esclusi nei successivi sviluppi processuali dibattimentali, dalle decisioni intermedie e da quelle definitive, ma non potranno essere cancellati o obliterati, essendosi medio tempore stratificati e comunque essendo escluso il loro assoluto superamento. Peraltro, sino a questi momenti la loro presenza giuridica processuale, nei riferiti termini, permane. Quanto detto consente di capire meglio alcuni scontri in atto tra Procura della Repubblica e organi giudicanti, soltanto silenziati nel reciproco formale riconoscimento delle rispettive funzioni. È sempre successo che, a fronte di un esito processuale non in linea con l’ipotesi accusatoria, la Procura abbia evidenziato, ricorrendo le condizioni (prescrizione del reato oppure operatività dell’art. 530, comma 2, c.p.p.), che l’ipotesi accusatoria non era stata smentita. Restava sullo sfondo il dato “storico” della vicenda processuale (si pensi al processo Andreotti, in via esemplificativa). L’accentuarsi delle ipotesi di contrapposti esiti processuali ha rafforzato alcune questioni del ruolo delle indagini preliminari rimaste sotto traccia. Se in termini, un po’ brutali, a fronte di un pieno proscioglimento in primo grado per non aver commesso il fatto, si è affermato che - essendo passato un arco temporale molto lungo - comunque l’imputato era stato “sfregiato”, in termini più meditati si è parlato, anche con riferimento a risultati delle indagini ancora in corso, di diffusione di atti parziali selezionati, di investigazione preliminare della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, non ancora sottoposti a verifica dibattimentale, alla distinzione tra “verità storicizzata” e “verità processuale” in qualche modo attribuendo alla prima una sorta di “primazia” o comunque di un dato che va accreditato come “verità”, a prescindere dal futuro processo che, governato da sue regole, le seleziona in funzione dell’accertamento della sola responsabilità penale. Il dato si ricollega all’atteggiamento conseguente comunque all’accertamento e alla prospettazione di un soggetto facente parte, per quanto in una prospettiva unilaterale, pur sempre, dell’autorità giudiziaria. Ancora, da ultimo, si è riconosciuto, con qualche accento critico, che con la chiusura delle indagini, ma si direbbe ancor prima durante il loro svolgimento, il p.m. “abbia una storia da narrare” in termini compiuti, e che il processo su questa tela tracciata dall’accusa abbia una cadenza frammentata sino alla sintesi decisoria che comunque non potrà rimuovere e cancellare quella narrazione. Tutto ciò ha indotto e induce ad affermare la presenza di una forte “presunzione sociale della colpevolezza e della responsabilità” durante una lunga parte dello scorrere processuale, che se vede alcune Procure contestare, come detto, con sempre più forza e atteggiamento dialettico, gli esiti alternativi del giudizio, superando quegli atteggiamenti cui si è fatto cenno, vede altri trincerandosi dietro la solidità delle proprie posizioni, coperte dalla ritenuta neutralità dell’obbligatorietà dell’azione penale, e altri ancora soddisfatti del loro lavoro, e altri imputare a vario titolo e ragione la diversa valutazione alla quale il processo è pervenuto. Al di là delle tensioni negli uffici giudiziari e la difficoltà per la società di comprendere i contrastanti esiti della singola vicenda giudiziaria e dello sconcerto della divaricazione di organi chiamati ad applicare la legge, resta comunque non rimossa la sedimentazione del narrato accusatorio, di una possibile verità storicizzata e di una presunzione sociale di colpevolezza. Intercettazioni selvagge, l’appello degli avvocati a Cartabia: “Tuteli il diritto di difesa” di Simona Musco Il Dubbio, 13 aprile 2021 Da Catania l’appello alla Guardasigilli: “Così l’articolo 24 della Costituzione rischia di essere congelato”. Circa settecento firme in poche ore. Non solo in Sicilia, dove il bubbone delle intercettazioni delle conversazioni di avvocati e giornalisti è scoppiato prepotentemente. Tutti i fori d’Italia si sono uniti alla protesta lanciata ieri dall’ordine degli avvocati di Catania, che ha deciso di chiedere un intervento della ministra della Giustizia, del Consiglio Nazionale Forense e dell’Organismo Congressuale Forense affinché venga messa in atto “ogni iniziativa idonea a tutelare il diritto di difesa, il segreto professionale, nonché la libertà di ciascun soggetto di poter consultare il difensore di fiducia, confidando sulla natura strettamente riservata del colloquio”. La nota a firma del presidente Rosario Pizzino e del segretario Maria Concetta La Delfa richiama l’articolo 103 del codice di procedura penale, che ai commi 5 e 7 stabilisce i limiti posti dal legislatore all’autorità giudiziaria quando ci si trova di fronte alle conversazioni tra un avvocato e un proprio assistito o consulente. “Non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori”, si legge, e “quando le comunicazioni e conversazioni sono comunque intercettate, il loro contenuto non può essere trascritto, neanche sommariamente”. Nulla di tutto ciò è accaduto a Trapani, dove la polizia giudiziaria non solo ha continuato a registrare le conversazioni tra la giornalista Nancy Porsia e cinque avvocati siciliani - alcuni dei quali si erano rivolti a lei in veste di consulente nel corso di alcuni delicati processi (in quel momento in corso) a carico di alcuni loro assistiti, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina - ma hanno addirittura trascritto quelle conversazioni nell’informativa finale, allegata all’avviso di conclusione delle indagini. Solo così, grazie alla lettura degli atti, i professionisti coinvolti, pur senza essere indagati, in questa vicenda sono venuti a conoscenza di quella che, agli occhi di tutti, appare come una grave violazione del diritto di difesa e della segretezza delle fonti giornalistiche. “L’affermazione del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trapani, secondo cui le intercettazioni non saranno utilizzate in sede processuale, non risolve la frustrazione del principio di libertà di difesa - sottolinea il Coa di Catania. Seguendo tale impostazione, infatti, sarebbe possibile ascoltare le conversazioni tra il difensore ed il proprio assistito, ritenendo che tali dialoghi non potranno essere utilizzati processualmente, mentre, invece, la “ratio” del divieto di captazione è quella di impedire a chi svolge le indagini di entrare, comunque, in possesso di informazioni riservate circa l’attività difensiva”. E così, di fatto, è stato. Il Dubbio, nei giorni scorsi, ha raccontato il clamoroso caso dell’avvocato Michele Calantropo, difensore di Medhanie Tesfamariam Behre, il giovane eritreo rimasto in carcere per tre anni per uno scambio di persona. Calantropo è stato intercettato al telefono con Porsia, alla quale aveva chiesto di testimoniare al processo che vedeva imputato il giovane, con lo scopo di ricostruire le reali dinamiche migratorie della Libia, diverse, secondo il difensore, da quelle ricostruite dalla polizia giudiziaria attraverso le sole intercettazioni telefoniche. Ad ascoltare la telefonata, all’insaputa dei due interlocutori, c’erano però anche gli uomini dello Sco. Gli stessi che al processo a carico di Behre furono interpellati dall’accusa come testimoni della sua colpevolezza. Un corto circuito, dunque, che avvalora i timori dell’avvocatura, oggi alla ricerca di una tutela effettiva. “Il diritto alla segretezza dei colloqui tra avvocato ed assistito è tutelato anche dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e rientra tra le “esigenze elementari del processo equo in una società democratica” - continuano Pizzino e La Delfa. A tal proposito, con recente sentenza, datata 17 dicembre 2020 (caso n. 459/18, Saber c. Norvegia), la Corte Edu, sezione V, ha affermato che sussiste un interesse generale all’inviolabilità delle conversazioni tra difensore e cliente”. E sempre la Cedu, lo scorso primo aprile, nella sentenza Sedletska contro Ucraina depositata, ha sottolineato l’importanza della protezione delle fonti giornalistiche per la libertà di stampa in una società democratica, affermando che “le limitazioni alla riservatezza delle fonti giornalistiche richiedono il controllo più attento”. L’inchiesta di Trapani, dunque, fa sorgere più di un timore. E, soprattutto, pone il problema “del congelamento del diritto di difesa - continua il Coa di Catania - perché il difensore potrebbe non sentirsi libero di confrontarsi con l’assistito per il timore di essere intercettato”. Da qui l’invito a via Arenula - che ha già inviato gli ispettori ministeriali a Trapani per approfondire la vicenda - a tutelare il diritto di difesa. Lo scopo è anche quello di avviare una riflessione, sulla continua svalutazione del ruolo dell’avvocato all’interno del sistema giustizia. Sul punto, nei giorni scorsi, la Camera penale di Roma ha tenuto un dibattito al termine del quale a tirare le somme è stato Renato Borzone, presidente della Camera penale di Roma dal 2002 al 2006. “C’è un problema culturale: è come se la cultura della giurisdizione appartenesse solo ai pubblici ministeri e non agli avvocati”, ha sottolineato, evidenziando come l’abitudine, ormai diffusissima, di intercettare le conversazioni tra avvocato e assistito dipenderebbe da un pregiudizio che vuole l’avvocato “corresponsabile del reato commesso dal proprio assistito”. Caro Pignatone, non spetta ai pm informare i cittadini di Giovanni Guzzetta Il Riformista, 13 aprile 2021 La nostra Costituzione non prevede una tale responsabilità diretta dei magistrati di fronte ai cittadini sul proprio operato. Anzi, fa di tutto per sottrarli a qualsiasi condizionamento dell’opinione pubblica. Il giudice è soggetto soltanto alla legge. All’eterno dibattito sulla giustizia e, in particolare, sul rapporto tra processo penale, informazione e garanzie dell’indagato/ imputato si sono registrate negli ultimi giorni almeno tre novità legate alla decisione parlamentare di recepire nel nostro ordinamento la direttiva UE 2016/343. La prima è il fatto in sé. La direttiva del 2016 languiva in attesa che le si desse adempimento da alcuni anni, gli ultimi tre dei quali il nostro paese è stato in patente violazione dell’obbligo di darvi esecuzione (fissato dalla direttiva stessa al 2018). Un inadempimento grave, che gli ultimi governi hanno ignorato, a cominciare dai titolari del dicastero della Giustizia, benché esso riguardasse il rispetto di principi fondamentali di civiltà giuridica e imponesse anche la previsione di procedure (rimedi effettivi) nel caso della loro violazione. La seconda novità riguarda invece il contenuto della previsione, che impone, come ormai a tutti noto, che, “le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole” (art. 4). Si tratta di un obbligo - peraltro conforme all’articolo 27 della nostra Costituzione - che si applica per le dichiarazioni al di fuori, ma anche nel processo. La terza novità è che la direttiva è rivolta espressamente alle autorità pubbliche e ai magistrati, non riguarda cioè la libertà di stampa o di cronaca, ma i doveri di ufficio dei soggetti pubblici che ruotano intorno all’amministrazione della giustizia. Nel far ciò la direttiva, benché non pare sia stato messo in luce da nessuno, delimita anche il campo di quelle che possono essere le “dichiarazioni pubbliche rilasciate dall’autorità”. E afferma un principio molto chiaro: tali dichiarazioni sono ammissibili solo se funzionali ad esigenze del processo, non per dare una generica informazione all’opinione pubblica Perché il diritto all’informazione è assicurato dalla pubblicità, qualora sia prevista, degli atti giudiziari, non da un’attività informativa generale che non è compito delle autorità pubbliche, le quali parlano appunto attraverso quegli atti giudiziari. Che tale sia l’interpretazione corretta della direttiva, lo dimostra, chiaramente la motivazione della stessa, la quale, ne costituisce, com’è noto, parte integrante anche al fine della corretta interpretazione dei suoi articoli. E cosa dice tale disposizione? Che la divulgazione di informazioni da parte delle autorità pubbliche su procedimenti penali è ammessa “qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale, come nel caso in cui venga diffuso materiale video e si inviti il pubblico a collaborare nell’individuazione del presunto autore del reato, o per l’interesse pubblico, come nel caso in cui, per motivi di sicurezza, agli abitanti di una zona interessata da un presunto reato ambientale siano fornite informazioni o la pubblica accusa o un’altra autorità competente fornisca informazioni oggettive sullo stato del procedimento penale al fine di prevenire turbative dell’ordine pubblico”. Inoltre il ricorso a tali dichiarazioni dovrebbe essere “ragionevole” e “proporzionato”. Com’è evidente, l’interesse pubblico che giustifichi le dichiarazioni è un interesse intrinseco al processo (come, in ipotesi, la diffusione di informazioni che consentano di localizzare un latitante) non un presunto interesse generale all’informazione dei sulle ragioni del processo e su chi ne è coinvolto. L’informazione dei cittadini spetta semmai ad altri (giornalisti, studiosi, opinionisti), nell’esercizio del diritto di cronaca e di manifestazione del pensiero, e nei limiti previsti dall’ordinamento. Perché anche il diritto di cronaca (così come il diritto di manifestazione del pensiero) subisce dei limiti per la tutela di valori costituzionali altrettanto fondamentali È bene dunque che si continui e si alimenti il dibattito su questi temi, perché ci sono ancora molte questioni che devono essere affrontate. A cominciare, ad esempio, dall’abitudine di molti rappresentanti dell’accusa (tra cui i capi degli uffici del pubblico ministero) di indire conferenze stampa o rilasciare interviste “informative” sull’attività svolta nell’ambito dei processi penali. Tali posizioni, benché sia probabilmente impopolare, non convincono da un punto di vista costituzionale e, a questo punto, anche dell’ordinamento europeo. Anche perché, se tale facoltà di informare veramente fosse prevista, non si comprende perché essa sia esercitata nella quasi totalità dei casi dai pubblici ministeri (che sono una parte del processo, quindi non completamente “disinteressata”) e non ad esempio dai giudici che adottano gli atti (si pensi alle misure cautelari, quelle che, in genere, producono il clamore mediatico) e che, in ipotesi, sarebbero gli unici titolati a “spiegare” le ragioni di quelle scelte. E tantomeno convince la tesi (su questo punto dissento dalle considerazioni, per altro condivisibili, del Dott. Pignatone su La Stampa di ieri) che questa attività di comunicazione pubblica, oltre che facoltativa sarebbe addirittura doverosa, perché costituirebbe un obbligo corrispondente al diritto di ogni cittadino di essere informato e alla “responsabilità” gravante su chiunque eserciti pubblici poteri. La nostra Costituzione non prevede una tale responsabilità diretta dei magistrati di fronte ai cittadini e anzi fa di tutto per sottrarre costoro a qualsiasi forma di condizionamento da parte dell’opinione pubblica. Essa prescrive infatti che il giudice è soggetto soltanto alla legge (art.101) e alla legge deve rispondere. La giustizia è amministrata “in nome” del popolo (art. 101) e non “per conto” del popolo, proprio non c’è da “rendere conto” al popolo, ma solo alla legge. Non solo non c’è, dunque, una responsabilità politica diretta (essendo l’indipendenza assicurata proprio per spoliticizzare l’azione della magistratura) ma non esiste nemmeno una responsabilità politica “diffusa”, generica, qual è quella - secondo alcuni studiosi - imputabile ad altre cariche dello Stato sottoposte al “diritto di critica” dei cittadini, per le proprie azioni. Le critiche dei cittadini, anche contro i provvedimenti giudiziari, benché legittime, ovviamente, dal punto di vista costituzionale non possono e non debbono avere alcuna influenza nelle decisioni di chi quei provvedimenti assume. L’unica responsabilità imputabile ai magistrati, accomunati in questo a tutti i funzionari e i dipendenti pubblici (art. 28 Cost.), è quella giuridica, da far valere nelle sedi e coni procedimenti all’uopo previsti (e sicuramente migliorabili. Insomma, rispetto della presunzione di non colpevolezza, limitazione delle dichiarazioni delle pubbliche autorità, rimedi effettivi nel caso di violazione; questo è il significato della Direttiva europea 2016/343, tardivamente, attuata. È bene esserne consapevoli, per non tradirne lo spirito e la lettera, e non tradire cosi anche la nostra Costituzione. Dall’emergenza sanitaria la spinta per la digitalizzazione della giustizia di Valentina Errante Il Messaggero, 13 aprile 2021 “La pandemia ha significato una grande spinta verso la modernizzazione, soprattutto in chiave di digitalizzazione. Credo che si tratti di uno strumento da utilizzare con le dovute cautele ma anche sfruttandone tutte le potenzialità”, all’incontro “La giustizia alla prova dell’emergenza”, organizzato dalla Fondazione Vittorio Occorsio, il ministro Marta Cartabia prova a fare un bilancio. E non è del tutto negativo. La sfida, rappresentata dall’emergenza, è stata parzialmente vinta. “Abbiamo fatto molto dal punto di vista della dematerializzazione e credo - aggiunge - che non torneremo indietro facilmente”, ma anzi “si deve pensare a quanto si possa ancora fare, senza arrivare a futuribili e discutibili forme di giustizia predittiva attraverso l’intelligenza artificiale, si può pensare alle nuove tecnologie che sostituiscono le vecchie banche dati, che possono permettere di alleggerire e dare maggiore uniformità agli indirizzi giurisprudenziali”. Il dibattito ha un titolo emblematico: “Il giudice amministrativo come giudice dell’emergenza”, il webinar è il primo appuntamento del ciclo di incontri promosso dalla Fondazione in collaborazione con l’Università Roma Tre su “La giustizia alla prova dell’emergenza”, realizzato con il patrocinio della Corte costituzionale, del Consiglio di Stato e in collaborazione con l’Avvocatura generale dello Stato. Non è casuale la scelta di iniziare dal giudice amministrativo, se si considera che l’emergenza è stata prevalentemente gestita attraverso provvedimenti amministrativi e che anche le misure di sostegno e rilancio dell’economia sono attuate attraverso atti amministrativi. Da qui l’interesse a una riflessione sulla risposta che la giustizia amministrativa ha dato sul piano della tutela processuale nella prima e nelle successive fasi della pandemia, con particolare riferimento all’esame delle istanze cautelari e all’organizzazione delle udienze da remoto. Moderata dalla professoressa di Roma Tre, Maria Alessandra Sandulli, la discussione è stata aperta dal Rettore Luca Pietromarchi e dal Procuratore Generale della Corte di Cassazione Giovanni Salvi. A introdurre il dibattito la riflessione della ministra Cartabia Quindi Filippo Patroni Griffi, presidente del Consiglio di Stato, Bruno Lasserre, Vice-Président Conseil d’Etat; Gabriella Palmieri Sandulli, Avvocato generale dello Stato. Le conclusioni sono state affidate a Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale. “La Costituzione non si sospende nel tempo dell’emergenza: deve essere un punto di riferimento davanti al carattere mutevole della storia L’Italia ha affrontato l’emergenza senza una sospensione dei principi costituzionali, senza fare ricorso a uno stato d’eccezione, ossia uno stato di sospensione dell’ordine e di immobilizzazione delle strutture, per poi rimetterle in gioco a pericolo superato - ha aggiunto la ministra Cartabia. Dire che la Costituzione non è stata sospesa in tempo d’emergenza non vuol dire che nulla sia cambiato: con l’emergenza rileggiamo i principi. Dunque, una Costituzione che non si sospende, ma che parla, mostrando implicazioni sempre nuove”. Le criticità maggiori nel rapporto tra diritto e pandemia secondo Filippo Patroni Griffi, presidente del Consiglio di Stato “si sono avute sul sistema delle fonti, sia a livello Governo-Parlamento, sia nel rapporto con le Regioni sia in termini di bilanciamento dei principi. Il Parlamento è stato inizialmente marginalizzato. Si sono sovrapposte due catene normative: abbiamo avuto provvedimenti che trovavano la fonte nella legislazione sulla protezione civile e d’emergenza. L’incontro tra le due catene normative ha portato a una sovrapposizione critica”. La seconda criticità “è stata la difficoltà di rapporti tra le regioni e il Governo”. Quanto al bilanciamento “il giudice amministrativo si è trovato davanti a principi di stesso rango. Più complicato capire chi debba effettuare il bilanciamento”. Se l’arma detenuta legalmente diventa il modo più semplice per “farla finita” di Giorgio Beretta* Il Manifesto, 13 aprile 2021 La strage di Rivarolo Canavese solleva più di un interrogativo sulle norme che regolano la detenzione di armi e su un fenomeno crescente negli ultimi anni: gli omicidi-suicidi in famiglia con armi legalmente detenute. I fatti innanzitutto: sabato scorso un anziano pensionato di 83 anni, Renzo Tarabella dopo aver ucciso a colpi di pistola la moglie, Maria Grazia Valovatto di 70 anni e il figlio disabile Wilson di 51 anni ha sparato e ucciso i proprietari dell’appartamento in cui viveva, Osvaldo Dighera di 74 anni e la moglie Liliana Heidempergher di 70 anni e poi ha tentato di suicidarsi. Non è ancora chiaro il motivo, ma l’arma utilizzata è una pistola semiautomatica regolarmente detenuta: nonostante la presenza del figlio affetto da disturbi psichici, l’anziano era solito tenerla in bella vista in casa. Mentre, secondo i dati Istat, gli omicidi in Italia sono in costante calo dagli anni novanta, tanto da aver raggiunto nel 2019 un minimo storico e, con un tasso di 0,53 omicidi volontari ogni 100mila abitanti, il nostro Paese è oggi uno dei più sicuri in Europa, permangono invece costanti gli omicidi in ambito famigliare e relazionale: sono stati più 150 nel 2019, poco meno della metà di tutti gli omicidi (315 casi). Le statistiche però non riportano un dato fondamentale: il numero di omicidi commessi con armi regolarmente detenute. La rilevanza di questo elemento risalta dalle informazioni raccolte nel database online dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere (Opal) di Brescia. Nel triennio 2017-19 sono stati almeno 129 gli omicidi commessi con armi regolarmente detenute a fronte di 91 omicidi di tipo mafioso e di 37 omicidi per furto o rapina. In altre parole, oggi in Italia è più facile essere uccisi da un legale detentore di armi che dalla mafia o dai rapinatori. La gran parte di questi omicidi avvengono in famiglia e almeno uno su quattro sono commessi da anziani legali detentori di armi spesso per stanchezza e solitudine, ma anche per rabbia e rancore. Tutto questo dovrebbe portare all’attenzione pubblica e del legislatore il problema delle norme che regolano la detenzione di armi: oggi, infatti, tutto si basa su una autocertificazione controfirmata dal medico curante, una breve visita presso l’Asl, simile a quella per ottenere la patente di guida, e da un controllo da parte della questura, circa la “affidabilità” di chi richiede la licenza per armi. Non è prevista, di solito, alcuna visita specialistica né un esame tossicologico o psichico. Non solo: le licenze per “nulla osta” per detenere armi, così come quella per “tiro sportivo” e per la caccia hanno una validità di cinque anni, sia per un giovane alle prime armi sia per un ottuagenario. Di più: in caso di mancato rinnovo non è prevista alcuna sanzione anzi, addirittura, spetta alle autorità di pubblica sicurezza notificare allo smemorato la necessità di presentare il certificato medico, cosa che può fare comodamente entro 30 giorni. Oggi in Italia, con una semplice licenza per “tiro sportivo” o per la caccia si è abilitati ad acquistare e detenere un ampio arsenale di armi. Grazie alle modifiche apportate nel 2018 dalla Lega di Salvini con il consenso del Movimento 5 Stelle, chiunque - anche chi non pratica alcuna disciplina sportiva o la caccia - può detenere tre pistole o revolver con caricatori fino a 20 colpi, 12 fucili semiautomatici con un numero illimitato, e senza obbligo di denuncia, di caricatori fino a 10 colpi e numero illimitato di fucili da caccia. Sono norme fatte apposta per favorire i produttori e i rivenditori di armi. A fronte di una popolazione che sta invecchiando, spesso rancorosa, talvolta abbandonata dai servizi sociali, l’arma legalmente detenuta sta diventando per molti anziani il modo più semplice per “farla finita”. Mentre aspettiamo una legge sul fine vita, si dovrebbe almeno cominciare con regolamentare in modo più rigoroso la detenzione di armi togliendole almeno agli anziani a rischio. *Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal) Cagliari. Ancora un suicidio nel carcere di Uta: detenuto si taglia la gola in cella di Jacopo Norfo castedduonline.it, 13 aprile 2021 Un altro dramma nel carcere cagliaritano: un carcerato di Sinnai si toglie la vita e riapre il dibattito sulla sicurezza nel penitenziario, più volte messo in luce dai sindacati della polizia penitenziaria e dall’associazione Sdr. Il corpo del detenuto, O.O. le sue iniziali, di 56 anni, è stato scoperto dai compagni di cella. L’uomo si è tagliato la gola durante un momento di solitudine, troppo forte evidentemente la depressione in un momento come questo, in piena emergenza Covid, dove le carceri stanno diventando sempre più pericolose. L’uomo era stato condannato per una serie di furti, in una vicenda che non sembrava ancora chiusa. Sulla vicenda è stata comunque aperta una inchiesta. Foggia. La Procura di vuole vederci chiaro sulla morte in carcere di Gerardo Tarantino immediato.net, 13 aprile 2021 “Diceva di subire violenze da guardie e detenuti. Dubbi sul suicidio”. L’avvocato dei familiari: “Poche ore prima aveva parlato al telefono con il padre e appariva sereno e tranquillo, in attesa che io tornassi a trovarlo il martedì successivo”. Il pm della Procura di Foggia Laura Simeone ha conferito incarico al suo consulente medico-legale per procedere con l’autopsia sul cadavere di Gerardo Tarantino, il presunto omicida di Tiziana Gentile, morto suicida in carcere alla vigilia di Pasqua. Il pubblico ministero ha dato ordine di accertare le cause della morte, ma anche l’eventuale presenza nel sangue e nelle urine di eventuali residui di medicinali e anche la presenza di lividi o graffi che possano far pensare ad un gesto non volontario. Il medico legale della Procura ha comunicato che procederà domani con l’autopsia sul cadavere di Tarantino e farà conoscere le proprie conclusioni entro i prossimi 60 giorni. Queste saranno decisive per comprendere come e perché è morto Gerardo Tarantino. Al momento non trapelano altri particolari, ma ci sarebbero già degli indagati. Abbiamo sentito il difensore dei familiari di Tarantino, Michele Sodrio, che nei giorni scorsi aveva preannunciato una denuncia contro ignoti: “Questa mattina era presente per il mio studio anche il collega Giuseppe Cassano per il conferimento dell’incarico. Abbiamo nominato un nostro consulente medico-legale, che assisterà all’autopsia e alle successive analisi dei reperti. Nei giorni scorsi abbiamo anche formalizzato una denuncia contro ignoti, alla quale ho allegato i numerosi scritti di Gerardo Tarantino, dove lui lamentava maltrattamenti e minacce sia da altri detenuti che dalle guardie penitenziarie. Non conosco i dettagli della morte del mio cliente, ma ho enormi dubbi sul fatto che si sia potuto davvero suicidare. Era sottoposto alla sorveglianza h24, cioè un poliziotto lo teneva d’occhio in ogni momento. Com’è possibile che abbia avuto tempo e modo di togliersi la vita? Non disponeva nemmeno dei lacci delle scarpe. Con cosa si sarebbe impiccato? Poche ore prima aveva parlato al telefono con il padre e appariva sereno e tranquillo, in attesa che io tornassi a trovarlo il martedì successivo. Cosa può averlo fatto cadere solo poche ore dopo in una disperazione tale da togliersi la vita? Tutte domande alle quali speriamo sia data risposta nei prossimi mesi. Quello che appare chiaro già oggi, però, è che vi sono gravi responsabilità da parte di chi avrebbe dovuto vigilare e non lo ha fatto, nonostante io avessi segnalato in ogni modo che Tarantino era un soggetto a rischio suicidio. Quando un detenuto si toglie la vita, lo Stato italiano dimostra tutta la sua inadeguatezza”. Catanzaro. Decessi per Covid nel carcere. “Un dramma evitabile” di Francesco Donnici Corriere della Calabria, 13 aprile 2021 I decessi nel penitenziario di Catanzaro riportano alla mente gli appelli fatti nei mesi scorsi dal Garante e da associazioni come Yairaiha. “Se si fossero vaccinate le persone detenute a tempo debito, non possiamo asserirlo con certezza, ma forse le degenerazioni che ci sono state si sarebbero evitate. Quantomeno l’evento letale della morte”. Da mesi il Garante regionale dei diritti dei detenuti, Agostino Siviglia, rilancia l’appello per le vaccinazioni delle persone detenute scrivendo ad autorità e Istituzioni. Lo aveva fatto anche in via formale lo scorso 22 febbraio per richiamare l’attenzione della Regione Calabria che aveva “dimenticato” di includere nel “Piano vaccinale” le persone detenute nei dodici penitenziari calabresi nonché “il personale ad altro titolo operante nelle carceri (fatta eccezione per le guardie penitenziare) in quanto rientranti tra le categorie a rischio”. Il tutto, mentre in altre regioni, come ad esempio il Lazio, le vaccinazioni nelle carceri stavano già iniziando. Nel penitenziario “Ugo Caridi” di Siano, a Catanzaro, la campagna vaccinale è iniziata lo scorso 26 marzo e si è riusciti a limitare, ma non evitare l’epilogo più volte pronosticato. “A Catanzaro - dice il Garante - c’erano solo due persone contagiate e nel giro di una settimana siamo passati quasi a cento. Per quanto ci si attenga alle regole, se sono costretti a stare in cinque in una cella, diventa difficile prevenire la diffusione del virus”. Il bilancio attuale è di 63 detenuti positivi a cui si aggiungono 18 agenti di polizia penitenziaria. “Molti detenuti si stanno negativizzando e la maggior parte sono paucisintomatici o asintomatici”. Ma nei numeri pesano anche i decessi Covid avvenuti il 7 e il 10 aprile scorsi. I decessi nel penitenziario di Catanzaro - A seguito di complicazioni, sono deceduti due detenuti: Bruno Pizzata, 61enne originario di San Luca, che scontava la condanna per traffico internazionale di stupefacenti e un 71enne del Crotonese. L’associazione Yairahia Onlus, nata a Cosenza nel 2006 per occuparsi della tutela dei diritti umani, in particolare di quelli delle persone private della libertà personale, dà la notizia anche di un altro decesso nelle carceri a seguito dei focolai diffusi nei penitenziari d’Italia. “Ancora non conosciamo i nomi di tutti e tre i morti - ci racconta la presidente, Sandra Berardi - conosciamo quello reso noto dai familiari perché hanno manifestato l’intenzione di presentare un esposto. Lo sapremo fra qualche giorno; i familiari di alcuni detenuti ci hanno informati che ci hanno spedito una lettera per aggiornarci sulla situazione attuale. Così come, sempre tramite i familiari, ci hanno informato che le vaccinazioni stanno procedendo velocemente”. Di fatti la famiglia di Bruno Pizzata aveva annunciato di voler presentare una denuncia per accertare eventuali responsabilità penali rispetto al ricovero tardivo dell’uomo. “La procura della Repubblica di Catanzaro ha aperto un’indagine”, sottolinea il Garante Siviglia. “Seguiremo l’evolversi della vicenda nel pieno rispetto di quanto sarà deciso dall’autorità giudiziaria. Quanto verificatosi, con la tragica conseguenza della morte dei due detenuti, trasferiti al Pugliese Ciaccio di Catanzaro a seguito di complicazioni - dopo un percorso un po’ altalenante - è quello che chiedevamo da mesi venisse evitato”. Il Garante cittadino di Crotone, Federico Ferraro, esprime vicinanza alle famiglie delle vittime ricordando che l’altro detenuto era originario di Rocca di Neto, nel Crotonese. Integrato il personale medico. Proseguono i vaccini - Dopo la diffusione del contagio nel penitenziario catanzarese è stato integrato il personale medico-infermieristico in modo tale da poter garantire le cure h24 nella sezione di “reclusine ordinaria”, interessata dal contagio. “I detenuti avranno la presenza costante di un medico e cinque infermieri che può essere chiamata all’occorrenza per prestare le cure che serviranno”. E dopo lo stallo del periodo scorso, complice anche la situazione venutasi a creare nel carcere del capoluogo, si sta cercando di dare una stretta alle vaccinazioni. Dopo Catanzaro la campagna vaccinale era partita anche a Crotone. “Tramite i familiari - aggiunge Sandra Berardi - siamo stati informati che le vaccinazioni stanno procedendo velocemente. Nella sezione AS1 (nel penitenziario del capoluogo, ndr), eccetto 4 persone incompatibili con l’AstraZeneca per patologie pregresse, sono già stati vaccinati tutti”. Nella provincia di Reggio - anche grazie all’intermediazione del capo del Dap - le vaccinazioni sono partite sabato scorso a Locri, questo 12 aprile al penitenziario dell’Arghillà e in data odierna partiranno a Palmi. I numeri del sovraffollamento carcerario - In base censimento risalente al 31 gennaio 2021, in Calabria sono presenti 2.457 detenuti a fronte di una capienza di 2.704 posti. Di questi 58 sono donne e 448 sono cittadini stranieri. Numeri che fanno riflettere. “Il carcere - dice il Garante - non consente il distanziamento fisico, personale. Col Covid gli spazi sono ridotti ulteriormente anche perché le persone che entrano in carcere o vengono trasferite devono osservare un periodo di isolamento”. Durante la prima ondata, l’associazione Yairaiha aveva sostenuto la linea “dell’Amnistia e Indulto generalizzati e la sospensione della pena immediata per tutte le persone anziane e ammalate senza preclusioni di sorta” sottoscritta da decine di associazioni e forze politiche. “Il sovraffollamento è di per sé un elemento criminogeno”, dice Berardi. “Se pensiamo che oggi ci sono 53.509 persone detenute in circa 47.000 posti effettivi ci rendiamo conto che parliamo di 6.000 persone in più”. L’associazione torna ancora una volta sulle rivolte, la polemica intorno alle presunte “scarcerazioni dei 41bis” per chiarire meglio la funzione delle norme attivate a tutela delle persone detenute. “Nessuno, quando scoppiò la polemica, ha inteso approfondire le origini della circolare del Dap che, di fatto, non scarcerava nessuno, non avendone il potere, e invece recepiva quelle che erano state le indicazioni degli organismi internazionali, Oms e altri, rispetto alle misure da predisporre negli istituti di pena al fine di prevenire e contenere i casi di contagio”. Con quell’atto “si invitava a riconoscere i casi gravi e a rischio e ad applicare il differimento della pena facoltativo o obbligatorio ai sensi degli articoli 147 e 146 del Codice Penale, ovvero per motivi di salute”. Il caso di Vincenzo Iannazzo, detenuto al 41-bis - “Lo scandalo dei 3 detenuti in 41 bis - continua Berardi - a cui era stato riconosciuto il differimento della pena temporaneo è stato del tutto strumentale, ed oggi ne abbiamo ulteriore conferma, perché si trattava di tre persone che innanzitutto avevano presentato le istanze già prima della circolare ed erano motivate da patologie reali e gravissime”. Sono i casi di Bonura e Zagaria, comunque diversi da quello di Vincenzino Iannazzo. tornato in carcere dopo la norma “correttiva” di Bonafede, “varata in tutta fretta la scorsa estate”. “Parliamo di un uomo affetto da una forma precoce e degenerativa di demenza certificata da tutti i medici (penitenziari) che lo stanno curando, tutti sono concordi nell’affermare la compatibilità con il carcere a condizione che venga assistito h. 24 in regime ordinario e non in 41bis abbandonato a se stesso -condizione attuale - perché ormai non è più in grado di svolgere le normali attività quotidiane e, soprattutto, il Sai di Parma - l’eccellenza sanitaria penitenziaria sbandierata da Giletti - non è in grado di garantire l’assistenza continua di cui necessita. Concorde con la diagnosi dei medici di Viterbo e Parma anche il perito legale nominato dal tribunale di Catanzaro; però Vincenzino Iannazzo è ancora oggi in 41 bis”. Ancora una volta, conclude Berardi, “l’opinione pubblica è stata abilmente deviata da un ordine del discorso che nel dibattito pubblico e mediatico, è stato spostato dall’emergenza Covid all’emergenza criminalità. E l’aspetto paradossale, e drammatico, è che a fronte di una emergenza sanitaria mondiale, il governo italiano ha varato una legge che va a limitare il diritto alla salute ad una specifica fascia di detenuti”. Padova. Elezione Garante dei detenuti: i voti non bastano, appello del Sindaco Giordani di Alberto Rodighiero Il Gazzettino, 13 aprile 2021 Dopo il caso Messina Denaro, la maggioranza non riesce a far eleggere il proprio candidato: servirà una terza seduta. Colpi di scena a raffica ieri sera in consiglio comunale ma, alla fine, la maggioranza non è riuscita a eleggere Antonio Bincoletto (proposto da Coalizione civica) garante dei detenuti. A essere determinanti per la mancata elezioni, due voti nulli (probabilmente non casuali) e la più che probabile defezione del Movimento 5 Stelle. Dopo “l’incidente” dello sorso 3 marzo quando, nel segreto dell’urna, un consigliere misterioso ha votato il super boss mafioso Matteo Messina Denaro, il parlamentino di palazzo Moroni (convocato straordinariamente in presenza) è andato nuovamente in tilt per l’elezione del Garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale. Una seduta, quella di ieri sera, che ha registrato vari colpi di scena. Il primo è stata l’assenza del capogruppo di Forza Italia Roberto Moneta che aveva annunciato il suo sì a Bincoletto. Ieri sera l’esponente forzista - che è anche avvocato - è rimasto bloccato in una caserma dei Carabinieri di Belluno per assistere un cliente e, quindi, non ha potuto partecipare alla votazione. Il vero coup de théàtre però, è arrivato attorno alle 19.30 quando Luigi Tarzia della Lista Giordani protagonista di un una vera e propria crociata - in nome della parità di genere - in favore di Maria Pia Piva e contro Bincoletto ha annunciato: “Voterò come il mio gruppo, anche perché, dopo l’atteggiamento tenuto da questa assemblea, Piva ha deciso di fare un passo indietro”. “La mia non è una scelta facile, anche perché quella di Bincoletto è una figura che crea divisione tra la direzione carceraria e le associazioni che seguono i detenuti - ha rincarato la dose. Purtroppo devo rilevare che Colazione civica sta condizionando in maniera insopportabile questa maggioranza”. Una presa di posizione, quella di Tarzia, che non è estranea all’accoratissimo appello lanciato in aula dal sindaco Sergio Giordani. “Il mio appello è rivolto a tutti - ha scandito il sindaco - La città ci guarda, rischiamo di fare una pessima figura. Un’altra seduta avrebbe solamente una conseguenza: buttare via soldi pubblici. Ve lo chiedo per favore, votate con coscienza”. Un appello che, però, è caduto nel vuoto. Dalle urne (con voto segreto), infatti, sono usciti 19 voti per Bincoletto, 1 voto per Piva (probabilmente un esponente del centrodestra in vena di scherzi dopo l’exploit di Messina Denaro), 9 schede nulle e una scheda bianca riconducibile, probabilmente, al capogruppo del Movimento 5 stelle Giacomo Cusumano. Dal momento che per eleggere il Garante erano necessari 22 voti, tutto è rimandato al prossimo consiglio - sempre in presenza - quando, non sarà più necessaria la maggioranza qualificata, ma sarà sufficiente quella semplice. Roma. Covid: focolaio nel carcere di Regina Coeli, un centinaio di detenuti isolati Corriere dell’Umbria, 13 aprile 2021 La direttrice: “Subito i vaccini”. Un centinaio di detenuti in quarantena e test a tappeto nel carcere romano di Regina Coeli dove un positivo al Covid è entrato in contatto con decine di persone dell’ottava sezione contagiandone almeno due. Su tutti gli altri si attendono i risultati dei tamponi effettuati in tempi rapidi, come prevede il protocollo sanitario. La lotta al virus, che con le varianti è diventato ancora più contagioso, in carcere “è una probatio diabolica”, una prova impossibile, è lo sfogo di Silvana Sergi, direttrice del carcere romano che, contattata da LaPresse, sottolinea l’importanza della campagna vaccinale: “È fondamentale per tutta la comunità penitenziaria - spiega -. È importante che ogni struttura sia protetta dal vaccino per due aspetti: da una parte quello sanitario, perché è evidente che qui la convivenza, in rapporto agli spazi, può essere un fattore scatenante sui contagi. Ma a questo si aggiunge un profilo di vivibilità per tutti: sui detenuti la pandemia ha inciso in modo molto duro, procurando ansia, timori e reazioni a volte estreme”. A Regina Coeli i detenuti, al netto di emergenze come quella di queste ore, vengono sottoposti a tampone ogni 15 giorni e le visite dei familiari sono state sospese: tutto si fa attraverso video chiamata. Dello stesso avviso il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia, secondo il quale “i vaccini sono indispensabili per prevenire futuri focolai”. Il focolaio Covid del carcere romano è solo l’ultimo di una lunga serie ad interessare gli istituti penitenziari della Penisola, dove in un anno sono morti di Covid una trentina tra detenuti e agenti. Solo nella Capitale, nella sezione femminile di Rebibbia, sono circa settanta le persone contagiate, nella maggior parte dei casi asintomatiche. In Italia su un totale di 52.207 detenuti sono 823 gli attualmente positivi. Di questi 793 sono asintomatici, 13 hanno sintomi tali da poter essere curati in carcere e 17 ricoverati. Chieti. Nuovo focolaio Covid in carcere, sei detenuti positivi e una sessantina in quarantena di Teresa Di Rocco Il Centro, 13 aprile 2021 Non c’è pace per il carcere di Villa Stanazzo. Oltre ai problemi di personale torna il Covid a creare apprensione. Il focolaio scoppiato a dicembre, con 55 contagiati (40 detenuti, 11 agenti e 4 persone tra gli operatori sanitari) e il decesso il 12 gennaio scorso dell’ispettore di polizia penitenziaria Michele De Cillis, 59 anni, si era placato a fine febbraio, ma ora pare essere ripartito. La Asl ha comunicato al Comune infatti la presenza negli ultimi due giorni di 6 detenuti positivi. E questi contagi hanno portato una sessantina di altri detenuti ad essere sottoposti a sorveglianza attiva. Negli ultimi mesi, i sindacati hanno continuato a chiedere rinforzi, la riduzione del carico di lavoro e la diminuzione dei detenuti per evitare focolai. Ma senza risultato. Durante il focolaio di dicembre-gennaio dalle analisi fatte dal professor Liborio Stuppia, direttore del Laboratorio di genetica molecolare del Cast dell’università d’Annunzio, era emerso che nel penitenziario era comparsa la variante danese. “Questa variante danese, o Nord europea, simile a quella inglese, è stata individuata analizzando una trentina di casi di persone infettate nel penitenziario che presentavano lo stesso assetto genetico del virus”, aveva spiegato il professore. Che precisò anche come la variante non fosse rimasta confinata lì. Imperia. Carceri, la Uil-Pa sollecita priorità nelle vaccinazioni per detenuti e operatori di Daniela Borghi Il Secolo XIX, 13 aprile 2021 “È caos vaccinazioni, Draghi intervenga!”. È la richiesta di Uilpa Polizia penitenziaria: “Con l’ordinanza N. 6/2021 emessa dal Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, Gen. Francesco Paolo Figliuolo, tornano in forte dubbio le vaccinazioni nelle carceri, nelle fasce di priorità, sia per i detenuti sia per la Polizia Penitenziaria. Per quanto sembra emergere dall’ordinanza, infatti, le vaccinazioni nei penitenziari dovranno proseguire con gli stessi criteri indicati per la generalità della popolazione. Se così fosse, sarebbe gravissimo e l’Ufficio del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, che solo qualche settimana fa, anche dopo un nostro specifico intervento, aveva negato qualsiasi rallentamento delle vaccinazioni nelle carceri, questa volta sembrerebbe smentire se stesso”. Queste le allarmate dichiarazioni di Fabio Pagani, Segretario Regionale della Uilpa Polizia Penitenziaria, in commento all’ordinanza N. 6/2021 del 9 aprile 2021 del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, che detta nuove indicazioni per l’esecuzione della campagna vaccinale. “Naturalmente - prosegue il sindacalista - ci auguriamo di essere smentiti con la stessa rapidità del 23 marzo scorso, ma con diversa efficacia, visto che ci troviamo punto e a capo! Le vaccinazioni nei penitenziari, comunità chiuse e in perenne emergenza, anche di carattere sanitario e pure a prescindere dal Coronavirus, non possono subire ritardi e tentennamenti, pena pesanti ripercussioni in termini di perdita di vite umane, ma anche di sicurezza e ordine pubblico; tuttavia, nostro malgrado, le rivolte del marzo dello scorso anno pare non abbiano insegnato nulla”. “Eppure - prosegue Pagani - secondo l’ultimo report ufficiale del 1 Aprile scorso erano vaccinati in Liguria 324 poliziotti su 1083 adesioni e anche la popolazione detenuta proprio da Genova Marassi aveva iniziato il primo ciclo di vaccinazione; In Liguria, il Presidente Toti dovrebbe ringraziarci, praticamente siamo Covid Free ma solo qualche giorno fa, a Catanzaro, sono deceduti altri due detenuti, gli ennesimi, e un pesante tributo in termini di vite umane e già stato pagato anche dalla Polizia penitenziaria. Sono ancora vasti i focolai fra i ristretti a Reggio Emilia (115), Padova Due Palazzi (90), Catanzaro (74), Roma Rebibbia Femminile (70), Pesaro (64), Melfi (57), Asti (33), Parma (32) e Saluzzo (30); mentre fra gli operatori preoccupano soprattutto quelli di Parma (37), Napoli Secondigliano (31), Lecce (27), Reggio Emilia (26), Catanzaro (19), Torino (18), Napoli Poggioreale (17) e Foggia (16)”. “Peraltro, da quanto possiamo dedurre, pare che non abbiano più priorità nelle vaccinazioni, oltre alla Polizia Penitenziaria, neanche le restanti Forze dell’Ordine. A questo punto - conclude il segretario della Uil-Pa - dopo che pure la ministra Cartabia aveva assicurato l’accelerazione delle vaccinazioni nelle carceri, ci appelliamo al Presidente del Consiglio, Mario Draghi, affinché ripristini e possibilmente velocizzi il precedente calendario di somministrazione del siero anti-Covid nei penitenziari, sia per i detenuti, sia per gli operatori”. Bari. La giustizia è alla paralisi, stop a un processo su due di Chiara Spagnolo La Repubblica, 13 aprile 2021 L’emergenza Covid sta mettendo in ginocchio soprattutto il settore penale: nei primi quattro giorni di questa settimana rinviate già 183 udienze su 327. Salta un processo penale su due nella Puglia ancora colorata di rosso scuro per l’emergenza Covid. Con la giustizia fuori dai servizi essenziali - e quindi dalle vaccinazioni - e un nuovo protocollo firmato da avvocati e magistrati per rendere più sicure le attività nei tribunali, nel tentativo di non fermarli del tutto. In tale prospettiva è nata la figura dell’avvocato turnista, individuato quotidianamente dalla Camera penale per raccogliere le nuove date delle udienze da rinviare ed evitare così di affollare le aule. Anche negli uffici giudiziari i contagi continuano a moltiplicarsi nonostante le mille cautele e la situazione è complicata soprattutto nel tribunale penale a Poggiofranco, dove gli spazi sono molto ristretti. Da Roma, intanto, arriva una notizia buona ma priva di effetti nel breve e medio termine, considerato che l’Agenzia del demanio ha avviato rilievi e indagini nell’area delle ex Casermette, dove sorgerà il Parco della giustizia, e a fine maggio pubblicherà il bando internazionale per la progettazione. Un passo che dimostra che l’iter non è fermo ma non sposta l’asticella del 2028, mantenendo ferma quella data come ipotetica consegna del primo lotto. La pioggia di rinvii - I numeri non mentono mai e già guardando soltanto a ciò che accade nei primi giorni della settimana è facile fare i conti. Delle 327 udienze fissate davanti al gup, collegio e giudici monocratici fra ieri e il 15 aprile, 183 saranno rinviate. Alcune anche a date molto lontane, come febbraio o addirittura aprile del 2022. Il motivo sta nei provvedimenti che sono stati firmati nei mesi scorsi dai presidenti delle sezioni penali e del tribunale nonché dal protocollo del 9 aprile, che ha messo d’accordo, tribunale, Procura, Camera penale e Ordine degli avvocati. “Numerosi sono i casi di positività segnalati fra magistrati, personale amministrativo e avvocati - è scritto nel documento - Considerata la inadeguatezza delle sedi giudiziarie, in particolare in via Dioguardi, è necessario ridurre l’afflusso”. Dunque i giudici monocratici possono celebrare processi con detenuti o massimo tre imputati liberi, fino a un massimo di dieci udienze al giorno; il collegio con detenuti o quattro imputati liberi fino a otto udienze quotidiane. Il Gup deve celebrare convalide, interrogatori, processi con detenuti o urgenti ma sempre con limite di tre imputati e di dieci udienze al giorno. Il Riesame invece sospende gli appelli della Procura e quelli dei difensori che non riguardino misure detentive, le misure di prevenzione e patrimoniali, mentre la Corte d’assise rinvia i procedimenti con imputati liberi. Le udienze indifferibili e con molti imputati o parti si celebrano all’aula bunker di Bitonto o alla Fiera del Levante ma sono una goccia nel mare dei rinvii. Ieri, per citare un esempio, il giudice Pasquale Santoro ha celebrato sei processi su 212, Valentina Tripaldi dieci su 26, Carlotta D’Alessandro cinque su 24. Oggi la Gup Annachiara Mastrorilli ne terrà quattro, rinviandone dieci, Ambrogio Marrone invece ne celebrerà dieci e altri 14 dovrà rinviarli. I turnisti - Sono avvocati penalisti, il cui ruolo è stato formalmente riconosciuto nel protocollo del 9 aprile: “Nella fascia dalle 9 alle 10 saranno chiamati i processi da rinviare d’ufficio, alla presenza di un unico avvocato designato dalla Camera penale”. Una sola persona, che ogni mattina si prende la briga di assistere alle udienze al posto dei colleghi, rappresentandoli formalmente, per evitare che a ogni udienza si accumulino decine di notifiche da rifare. Un avvocato che si prende la rogna di aspettare i rinvii, a volte fino a pomeriggio, e che sfida il pericolo Covid. “Un sistema che sta funzionando - come spiega l’avvocato Angelo Gentile, del direttivo della Camera penale - perché ha notevolmente ridimensionato la presenza inutile di colleghi in tribunale e consentirà un risparmio enorme di notifiche”. Un espediente, come altri che sono stati trovati nel tribunale di Bari per evitare che il Covid affossi definitivamente una giustizia in affanno ormai da anni, dopo lo sgombero del Palagiustizia in via Nazariantz, il passaggio all’ex sede di Modugno e poi l’approdo in via Dioguardi. Laddove “basta pochissimo per provocare un assembramento - ragiona il procuratore Roberto Rossi - e dove anche con la riduzione delle udienze e l’applicazione dello smart working a una parte dei dipendenti, sembra che il palazzo sia sempre affollato”. E se il tribunale, per forza di cose, ha dovuto rallentare le udienze e ridimensionare le attività aperte al pubblico, la Procura sta affrontando soprattutto quest’ultimo problema cercando di far proseguire il lavoro investigativo senza rallentamenti. Il settore civile Più fortunato, per la maggiore possibilità di utilizzare il processo telematico ma non privo di problemi. Dopo i giorni di Pasqua, la pioggia di notifiche da effettuare on line ha fatto saltare il sito dell’Unep (Ufficio notifiche presso la Corte d’appello). Per tutta la giornata di ieri, per esempio, gli sportelli accettazione e restituzione notifiche e accettazione e restituzione esecuzioni, ai tentativi di collegamento da parte degli avvocati, davano come risposta sempre “slot occupato” e agli avvocati non è rimasto che cercare di fissare un appuntamento di persona per i prossimi giorni. Anche nel civile ci sono udienze da celebrare in presenza, che a marzo hanno causato diversi assembramenti e rispetto alle quali la presidente facente funzioni del tribunale, Maria Luisa Traversa, ha sollecitato i giudici a un rispetto ferreo delle fasce orarie, da prevedere in tempi meno ristretti di dieci minuti. “Questo inevitabilmente diminuisce il numero di udienze che si possono tenere in un giorno - commenta il presidente dell’Ordine degli avvocati, Giovanni Stefanì - La riduzione nel settore civile credo sia stata di un terzo rispetto al passato, ma certamente la situazione è meno critica rispetto al penale”. Il Parco della giustizia Per ora sembra una chimera, specialmente nei giorni in cui l’emergenza Covid ha reso evidente che sarà difficile affrontare altri sette anni nel palagiustizia in formato mignon di via Dioguardi. Da Roma, però, giungono notizie che mostrano come l’iter per la realizzazione della cittadella alle ex Casermette non sia fermo. L’Agenzia del demanio sta effettuando con i propri tecnici rilievi e indagini nell’ex area militare del quartiere Carrassi e tra fine maggio e inizio giugno pubblicherà il bando internazionale per la progettazione dell’opera. Proprio perché si tratta di un parco e non di un singolo edificio, i concorrenti avranno sei mesi per partecipare. La progettazione riguarderà l’intera opera mentre il progetto esecutivo, a seguire, sarà fatto solo per il primo lotto, perché è l’unica parte che al momento risulta finanziata. La procedura ha dei tempi ben definiti e difficilmente subirà accelerazioni consistenti. Al momento non c’è alcuna indicazione sulla possibilità di anticipare la consegna del primo lotto, rispetto alla data prevista del 2028. L’unico modo per accelerare - riducendo i tempi necessari per garantire alcuni passaggi burocratici - sarebbe la nomina di un commissario da parte del governo. Ma sul punto, dal ministero della Giustizia non è ancora arrivato alcun segnale. Frosinone. Dalla Caritas un progetto con i detenuti per riscoprire antichi mestieri agensir.it, 13 aprile 2021 “Art Inside”: si chiama così un nuovo progetto promosso dalla Caritas della diocesi di Frosinone-Veroli-Ferentino, insieme alla cooperativa sociale Diaconia, ente gestore dei servizi della diocesi. Ventiquattro detenuti della casa circondariale “G. Pagliei”, nel capoluogo della Ciociaria, saranno coinvolti nei prossimi mesi in una serie di laboratori tra arte e artigianato. “Le attività sono orientate alla riscoperta e alla rivalutazione di antichi mestieri e professionalità che tendono a sparire - fanno sapere dalla cooperativa Diaconia -. Attraverso di esse è possibile contribuire alla valorizzazione dell’artigianato tradizionale e dei saperi locali, favorendo la costruzione di un circuito culturale diffuso e integrato all’interno del carcere”. Sartoria e antica ceramica sono le materie al centro dei percorsi formativi, ognuno per la durata di cento ore, e metteranno insieme l’istruzione professionale e possibili future opportunità lavorative. Gli oggetti creati saranno inoltre venduti all’interno della Bottega Equa di Frosinone, anche questa gestita da Diaconia. “L’obiettivo del progetto è quello di rendere concreto un principio sancito dalla nostra Costituzione: la detenzione come rieducazione delle persone e non come semplice pena. Con il progetto si vuole dare un nuovo punto di partenza nella vita di ventiquattro persone che potranno sia imparare un mestiere che avere la capacità di esprimere se stessi”, concludono dalla Cooperativa Diaconia. Oristano. A rischio chiusura i corsi scolastici nel carcere, i docenti protestano oristanonoi.it, 13 aprile 2021 Organico non confermato dall’Ufficio scolastico provinciale. Giovedì un incontro online. Nel carcere di Massama erano attivi fino all’anno scorso due corsi di istruzione di secondo livello: l’AFM (ex ragioneria) e il liceo artistico. Ora rischiano di chiudere. I docenti però non ci stanno e lanciano un appello all’Ufficio scolastico provinciale, che ha deciso di non confermare per l’anno scolastico 2021/2022 l’organico in servizio presso la scuola carceraria. L’Ufficio scolastico giustifica la sua decisione sulla base dell’incapacità dimostrata negli scorsi mesi da parte della direzione del carcere di assicurare il prosieguo dell’attività scolastica durante la pandemia. A pagarne le conseguenze saranno però i detenuti, che rischiano di essere privati di un diritto garantito dalla Costituzione. È quindi arrivata la presa di posizione dei docenti, i quali hanno redatto un documento indirizzato alla direzione dell’Ufficio scolastico regionale e a quella provinciale, ai dirigenti scolastici del Mossa, del Cpia 4 e del De Castro e per conoscenza alla direzione della casa di reclusione di Massama, al garante dei detenuti di Oristano (l’avvocato Paolo Mocci), al personale scolastico in servizio al carcere di Massama, alle segreterie regionali e provinciali della Flc, di Cisl Scuola e della Uil. Gli insegnanti hanno invitato i destinatari dell’appello a partecipare a un incontro online per confrontarsi sul problema. Appuntamento giovedì 15 aprile alle 15 sulla piattaforma Meet. “Dal principio dell’emergenza Covid-19, nel marzo 2020”, scrivono gli insegnanti dei corsi di istruzione per gli adulti detenuti, “l’attività dei percorsi di istruzione di secondo livello attivi nella casa circondariale di Oristano Massama è in pratica cessata. Ciò è accaduto perché la direzione del carcere non è mai stata in grado, da allora, di assumere le misure organizzative necessarie per permettere la ripresa dell’attività scolastica nel rispetto delle norme per la prevenzione del contagio, né in modalità telematica né in presenza. Oltre che per questa grave e sostanziale incapacità, la direzione del carcere si è distinta in questi mesi per una sconcertante mancanza di rispetto e di spirito di collaborazione nei confronti delle istituzioni scolastiche, come testimoniano l’assenza di puntualità nelle comunicazioni e un’iterata indisponibilità al confronto”. “Questa situazione”, prosegue la nota, “puntualmente ricostruita nella comunicazione dell’Ufficio scolastico provinciale di Oristano, ha indotto lo stesso ufficio a non autorizzare per l’anno scolastico 2021/2022 i percorsi di istruzione di secondo livello nella casa circondariale di Oristano Massama”. “Gli insegnanti dei percorsi di istruzione degli adulti presso la casa circondariale esprimono la loro ferma contrarietà a questa decisione”, proseguono i docenti. “Occorre infatti considerare che l’insegnamento nel contesto carcerario è un diritto costituzionale; necessita di competenze professionali specifiche, in merito alle metodologie didattiche e alle modalità di relazione da adottare con studenti spesso fragili e costretti all’esperienza difficile della detenzione; necessita di una costante e spesso tutt’altro che semplice interlocuzione con la direzione e il personale dell’istituto di reclusione, indispensabile per concordare modalità adeguate di svolgimento dell’attività scolastica; si svolge secondo un ordinamento didattico differente rispetto ai corsi ordinari rivolti a studenti non adulti”. “La continuità di servizio e un considerevole investimento in documentabili attività di formazione specifica”, scrivono ancora gli insegnanti, “hanno permesso al personale di ruolo presso la sezione carceraria di acquisire le competenze professionali necessarie, insieme a un’approfondita conoscenza del peculiare contesto sociale e istituzionale. Sono punti di forza faticosamente raggiunti nel corso degli ultimi anni e che non sarebbero garantiti, né per il prossimo anno scolastico né per quelli a venire, da un corpo docente assunto, nella migliore delle ipotesi, tramite incarichi di insegnamento a tempo determinato”. “La decisione in oggetto comporterà dunque non solo una grave discontinuità didattica, ma un radicale ridimensionamento della capacità organizzativa e didattica indispensabile per il buon funzionamento dei corsi di istruzione nel contesto della casa di reclusione. Essa si configura perciò come una misura gravemente peggiorativa della proposta scolastica e lesiva del diritto allo studio dei cittadini detenuti”. “L’eventualità che la direzione della casa di reclusione non si dimostri in grado di consentire l’avviamento dell’attività scolastica per l’a.s. 2021/2022”, concludono i docenti, “dovrebbe invece sollecitare un rinnovato impegno da parte di tutte le istituzioni coinvolte affinché possa essere scongiurata. In ogni caso essa non costituisce un motivo valido per la mancata autorizzazione dal momento che, come si è verificato nell’anno scolastico in corso, gli insegnanti che non potessero prestare servizio in carcere potranno tempestivamente essere impiegati nelle classi del diurno, senza comportare alcun spreco della risorsa pubblica”. Alghero. Il carcere va a teatro con “Ora d’Arte” di Giovanni Lorenzo Porrà L’Unione Sarda, 13 aprile 2021 Gli spettacoli saranno in diretta ma esclusivamente online e destinati a sei istituti di pena. Si chiama “Ora d’Arte” ed è una nuova rassegna di eventi culturali per il carcere. Salgono sul palco le compagnie Teatro Tragodia di Mogoro e Teatro d’Inverno d’Alghero, e l’Orchestra da Camera della Sardegna, con la collaborazione dell’Organizzazione di Volontariato Il Miglio Verde. Gli spettacoli saranno in diretta ma esclusivamente online, grazie a un link che verrà fornito alle singole strutture carcerarie il giorno prima dell’evento. “Negli ultimi tempi anche noi, pur con le dovute differenze, abbiamo capito che vuol dire essere reclusi”, commenta Giuseppe Onnis di Tragodia, mentre per Giuseppe Ligios del Teatro d’Inverno, “questo limite che stiamo soffrendo può diventare l’occasione per creare un ponte fra tante realtà. Ci sono diverse carceri coinvolte, e ne siamo molto felici”. Per Simone Pittau, dell’orchestra, “partecipare a questa rassegna è una grande lezione di vita. Noi musicisti ci sentiamo davvero fortunati ad aiutare un po’ le persone”. In scena due opere teatrali, la commedia musicale “Just Forever”, rappresentata dal Teatro Tragodia, e il monologo “Fashion Victims” a cura del Teatro d’Inverno, mentre l’Orchestra da Camera proporrà una grande varietà di musiche tratte colonne sonore e brani celebri. Sei le istituzioni di pena coinvolte per diciotto appuntamenti, in particolare per la Sardegna parteciperanno la Casa Circondariale Giuseppe Scalas di Uta e la Casa di Reclusione Giuseppe Tommasiello di Alghero. “L’arte è un mezzo importante, capace di strappare il detenuto alla noia del rapporto quotidiano con il carcere”, spiega Rosella Floris, psicologa de “Il Miglio Verde”. Risalire la china (senza liti) di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 13 aprile 2021 Le parti in campo, ora tenute a bada da un governo difficile da sabotare, devono resistere a tentazioni inscritte nei rispettivi Dna: la destra di cavalcare la prima tensione sociale disponibile, la sinistra di fingere che tensioni non ne esistano o siano frutto della predicazione della destra. Meno proclami e più azioni: se questo è stato sin dall’inizio lo stile del nuovo esecutivo, appare davvero opportuna una certa moderazione nelle pubbliche promesse in tema di pandemia. Tuttavia, dietro le mascherine si respira grande esasperazione. Gli italiani hanno bisogno di credere in qualcosa: non di essere illusi, certo, ma quantomeno di intravedere un obiettivo, una data cui aggrapparsi, una via d’uscita verso la quale incamminarsi. Lo dimostrano, se ce ne fosse ulteriore bisogno, i manifestanti che si sono raccolti ancora una volta a Roma, nonostante il divieto della questura, a gridare il loro disagio. Se, com’è ovvio, l’ennesima gazzarra di ieri pomeriggio va condannata senza appello e i violenti di nuovo infiltrati in piazza vanno isolati e arrestati, la protesta non può essere derubricata a semplice manovra strumentale dall’estremismo eversivo, poiché ci racconta, piuttosto, il panico da non garantiti di ristoratori, gestori di bar, commercianti, partite Iva di fronte a una crisi che ha bruciato l’8,9% del Pil nazionale e un milione di posti di lavoro. Dunque, non deve suonare quale vuoto annuncio, ma come preciso impegno programmatico, ricordare il peso strategico di questi giorni di metà aprile. Un mese che già il generale Figliuolo su queste colonne aveva definito determinante, spiegandoci come “ad aprile ci giochiamo tutto”. Il futuro è adesso, va conquistato qui e ora. Il perimetro della partita è segnato da due linee fondamentali tra loro intrecciate, le vaccinazioni e le riaperture, contro pandemia sanitaria e pandemia economica: ma per vincere occorre un’unità di intenti che freni fughe in avanti e strumentalizzazioni di parte, il cui solo esito sarebbe accrescere la frustrazione dei cittadini e le divisioni tra loro. Dal 15 al 22 di aprile, ci fa sapere la struttura commissariale, saranno consegnati alle Regioni quattro milioni e 200 mila vaccini, per 315 mila vaccinazioni al giorno in 2.200 punti vaccinali. È una buona notizia. Non siamo ancora alle promesse 500 mila inoculazioni quotidiane; Francia, Spagna e Germania corrono più di noi: ma la strada è giusta e il passo non può che aumentare. Lentamente l’Europa risale la china dei propri ritardi e dei propri errori: e in quest’Europa l’Italia di Mario Draghi può avere una parte non marginale sia nella ripresa economica che nella riscossa sanitaria, da qui ai prossimi anni. Restano differenze importanti tra le Regioni: c’è chi già vaccina i nati nel 1961 e chi ha un ritardo netto di dieci anni sul target. Resta un monito da brivido che dovrebbe far riflettere chi predica aperture a ogni piè sospinto: la Sardegna, passata in un amen da virtuosa mosca bianca a temuta isola tutta in zona rossa per effetto di una guardia abbassata troppo in fretta, di una voglia naturale ma esiziale di festeggiare una nuova normalità. Ma intanto passi verso la normalità li stiamo compiendo davvero. La terza ondata sta lentamente regredendo, il Paese vira quasi tutto verso l’arancione, primo colore della nostra convalescenza, che speriamo di stingere in fretta verso il giallo e poi il bianco della salvezza. E qui ha certo senso parlare di riaperture, il cui percorso programmatico, iniziato oggi, proseguirà dal 20 aprile, con la valutazione dell’andamento della curva epidemiologica, fino al 26, quando il governo scriverà un nuovo decreto per fissare regole, divieti, protocolli. Si tratterà in via normativa di un’operazione di verità che detti comportamenti precisi per ristoranti, musei, cinema, teatri, mostre, perfino palestre e piscine. Non sarà un segnale di tana libera tutti, non può esserlo. Ma sarà, sì, un tracciato a tappe verso la riconquista della nostra vita, mentre le categorie dovranno essere supportate in fretta da un nuovo, importante intervento di ristoro dell’esecutivo, ovviamente in deficit. Essenziale in questa fase sarà la tenuta del tessuto civile, una solidarietà nazionale non declinata in astratte formule parlamentari ma sentita davvero tra la gente. Ed è questo, forse, il gradino meno robusto della scala su cui stiamo risalendo. Siamo terra di guelfi e ghibellini, di tifosi di Coppi o di Bartali, di Achille o di Ettore. La gran confusione creata (e in parte anche subita) dalle Regioni su fasce e categorie da vaccinare, con annessi furbetti e “salta-fila” stigmatizzati da Draghi, non ha certamente migliorato la nostra coesione. Gli italiani non meritano che i loro rappresentanti politici diano vita a una guerriglia sceneggiata tra “aperturisti” e “chiusuristi” (ci si passino gli orridi neologismi) nella medesima maggioranza. È di tutta evidenza che nessuno vuole tenere blindato il Paese un minuto più del necessario, come nessuno vuole infettarlo aprendo un bar fuori orario o un cinema di straforo. Le parti in campo, ora tenute a bada da un governo difficile da sabotare, devono resistere a tentazioni inscritte nei rispettivi Dna: la destra di cavalcare la prima tensione sociale disponibile, la sinistra di fingere che tensioni non ne esistano o siano frutto della predicazione della destra. Così il 2 giugno è una splendida data simbolica per rinascere assieme alla nostra Repubblica, ma va indicata con elastico buonsenso e non scolpita nel marmo come un dogma ideologico. Così le piccole isole “Covid free” sono una suggestione da studiare, ma non certo una bandiera da issare nel nome del campanilismo regionale, rischiando di aprire nuovamente la via a “salta-fila”, magari sedicenni, immunizzati al posto dei loro nonni. Assai sensato appare l’appello di Massimiliano Fedriga, presidente leghista del Friuli Venezia-Giulia e neopresidente della Conferenza delle Regioni, sul bisogno di equità e regole uguali per tutti, al fine di mettere insieme istituzioni e cittadini nel nome di una vera unità nazionale. Il pericolo di questa primavera è, a guardar bene, proprio lo scollamento: il ristorante aperto, che accetta di rischiare la multa, sulla stessa strada del ristorante chiuso, che obbedisce alle leggi. Tutti contro tutti, infine, isole contro litorali costieri, anziani contro giovani, regioni contro regioni, pianerottoli contro pianerottoli: l’effetto collaterale e forse più tossico del virus, da scongiurare a ogni costo. Migranti. I nuovi Cie, l’integrazione e la gestione Lamorgese. Attenti al razzismo post-Covid di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 13 aprile 2021 Rimane nella maggioranza degli italiani una idea esplosiva della immigrazione e fatichiamo ad aprirci. Il problema non sono gli sbarchi ma gli irregolari: Ismu quantifica oltre 600mila “invisibili”. Smantellando il mito fasullo degli “italiani brava gente”, Jerry Masslo batté l’indice destro sul dorso della mano sinistra e, fissando la telecamera, disse: “Non gli piace il colore della nostra pelle. Ma questo colore non ce l’ha dato un uomo, è stato Dio a darcelo! Siamo tutti uguali. Abbiamo lo stesso cervello, lo stesso sangue. Tu hai un naso, io ho un naso”. Sono passati più di trent’anni da quando rifiutammo l’asilo politico a questo ragazzo scappato dall’apartheid sudafricano, abbandonandolo nella bolgia del caporalato e dei campi di “pummarò” dove la sua vita sarebbe stata stroncata. Eravamo imprigionati in normative inadeguate. Avevamo dell’immigrazione un’idea episodica ed emergenziale. E adesso? Cosa sarà? Passata la pandemia, che tutto il resto mette tra parentesi, come ci comporteremo di fronte agli sbarchi, agli irregolari, all’accoglienza? In poche parole: quale faccia mostrerà agli stranieri dei prossimi anni l’Italia del dopo-Covid? Papa Francesco ha ricordato nella enciclica “Fratelli tutti” come coloro che arrivano non siano “questioni migratorie” ma persone, verso le quali avremmo doveri riassumibili in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Ma ha anche sottolineato da sempre come l’ultimo passaggio sia decisivo: l’integrazione, che significa rispetto di leggi, cultura e tradizioni dei Paesi d’accoglienza. “Il rispetto fa la differenza tra l’immigrazione e l’invasione”, chiosa Andrea Riccardi, fondatore di quella comunità di Sant’Egidio che fornì a Masslo l’unico sostegno concreto in Italia. Il percorso non è semplice. L’attitudine verso gli stranieri in un Paese piagato dalla perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro è riassunta da un recente sondaggio di Euromedia Research sullo ius soli, con un 46% di contrari e un 34% di favorevoli: dove ciò che conta non è la fattispecie giuridica in sé (che si riferirebbe non a profughi in barcone ma a bambini e ragazzi già integrati in Italia) né il quesito (abbastanza mal posto, visto che abbiamo una legge sulla cittadinanza tra le più arretrate d’Europa), quanto piuttosto la scarsa disponibilità degli italiani ad aprirsi agli altri in un momento così difficile. Vale la pena di partire da qualche certezza e, dunque, dalla solidità dei numeri. La gestione Lamorgese - Dal 1° gennaio al 19 marzo sono approdati sulle nostre coste 6.068 migranti. Pochi? Tanti? Vediamo… Nello stesso periodo dell’anno prima erano 2.738, dunque sembra aver ragione Matteo Salvini quando rinfaccia alla nuova titolare del Viminale, Luciana Lamorgese, di aver lasciato che triplicassero o quasi. Ma la realtà è naturalmente più complessa degli slogan leghisti. Innanzitutto, la gestione Lamorgese sconta la crisi economica tunisina aggravata proprio dal Covid-19, due fattori assenti durante la gestione di Salvini. In secondo luogo, non è corretto parlare di aumenti del 200 o 300% senza chiarire che ci riferiamo comunque a numeri assai bassi: l’anno scorso gli sbarchi furono 34mila in tutto, un numero irrisorio rispetto ai livelli sostenuti dall’Italia durante la crisi migratoria del 2014-2017 (con un picco di 16mila arrivi in 36 ore e una punta 181mila arrivi in un anno), risolta dall’allora ministro Minniti tramite accordi con le tribù libiche molto contestati sul piano umanitario ma provvidenziali per la tenuta della nostra convivenza civile. La questione è molto più vasta di come la raccontano gli spin doctor politici. Perché il vero problema non sono gli sbarchi, ma l’irregolarità, di cui gli sbarchi sono una piccola parte. Il report - Il totale degli “invisibili” in Italia è stimato dal prezioso XXVI Rapporto della Fondazione Ismu in 648mila presenze, di cui oltre 76mila anche per effetto dei decreti Sicurezza di Salvini che avevano cancellato la protezione umanitaria e sono stati riformati lo scorso autunno dal governo Conte 2. È una cifra che cresce ogni anno a causa degli ovestayers, di chi resta con visto scaduto e tramite mille rivoli: ed è difficile da ridurre, perché i rimpatri sono pochi (leggermente aumentati con Lamorgese) e costosi, e presuppongono accordi bilaterali (che non abbiamo) con i Paesi d’origine. In realtà non abbiamo mai superato l’approccio emergenziale dei tempi di Masslo. Fingiamo di non sapere che i migranti sono un dato strutturale (l’antropologo Michel Agier prevede nel mondo un miliardo di sfollati per il 2050) e ci dividiamo tra due fazioni estremiste: i messianici, secondo cui i migranti, da accogliere senza se e senza ma, sono portatori di valori salvifici che ci riscatteranno; e i millenaristi, secondo i quali distruggeranno la nostra civiltà come cavallette se non li ributteremo a mare. I nostri bisogni - Posto che in una società vecchia come quella italiana avremmo bisogno di almeno centomila lavoratori stranieri (qualificati) l’anno per non soccombere, il sociologo Vincenzo Cesareo coglie con efficacia nel Rapporto Ismu i pericoli del post-Covid nel prossimo futuro: “Senza evocare scenari apocalittici, c’è tuttavia da credere che, a fronte del peggioramento delle condizioni di vita di molti cittadini e della crescita della povertà e delle diseguaglianze, si potrà verificare un aumento delle tensioni sociali che, a loro volta, potrebbero comportare l’accentuarsi di manifestazioni di odio nel nostro Paese”. Il pericolo di un’epidemia di razzismo innescata dalla miseria è assai grave. E va combattuto con una visione olistica delle migrazioni. Serve il coraggio di un Migration Compact nazionale che riformi l’accoglienza a terra, rendendo obbligatoria quella di secondo livello (ora Sai) nei Comuni, ma creando anche un centro di espulsione per ogni Regione. Va aperto un canale stabile di regolarizzazione individuale per lavoro e comprovata integrazione (mettendo fine alle sanatorie) e decreti flussi più robusti (nel 2020 si è andati in questo senso). Infine, una presenza “continuativa e incisiva” delle nostre navi militari nello Stretto di Sicilia, sostenuta per ragioni geopolitiche su Limes dall’ammiraglio De Giorgi, cambierebbe anche il copione in uno scenario dominato da trafficanti di uomini e navi Ong. L’ammiraglio deve pur saperlo, perché fu regista nel 2013-14 dell’operazione Mare Nostrum: chiusa la quale, cominciarono le crisi degli sbarchi e la politica della paura. I dittatori utili e il realismo amorale sul quale si fondano le nostre democrazie di Nadia Urbinati Il Domani, 13 aprile 2021 L’affermazione di Draghi sui dittatori necessari rivela il realismo amorale sul quale si regge il senso dell’interesse nazionale e continentale delle nostre democrazie. Risulta assai conveniente essere circondate da regimi illiberali se vogliono intrattenere con loro questo tipo di affari: retribuirli affinché tengano i migranti fuori dalle nostre frontiere. È quindi nell’interesse nostro che la Turchia o la Libia siano e restino “dittature”, poiché ciò le rende efficaci nella negazione dei diritti umani e quindi competenti a fare quel business che se fossero democrazie non potrebbero fare. Una delle differenze tra chi amministra organismi non politici e chi governa un paese democratico è la forma della comunicazione - una differenza che dipende da un’altra: la natura del committente. Draghi presidente della Banca Centrale Europea e Draghi presidente del Consiglio italiano presumono “pubblici” diversi che richiedono forme diverse di comunicazione. A chi rende conto il primo Draghi e a chi rende conto il secondo Draghi - qui sta tutta la differenza. Lo stile e la forma della comunicazione seguono a ruota. Il secondo Draghi, quello che vediamo nelle conferenze stampa, deve informare la cittadinanza tutta e rispondere a domande (a volte interesanti) che non sono sempre e solo tecniche. Quella che offre non è un’informazione asettica ma una che si presta ad essere interpretata secondo sia criteri tecnici (riferimento ai dati e agli esperti) sia giudizi di valore (riferimento alle opinioni e alle valutazioni morali o politiche). Nell’ultima conferenza stampa, Draghi ha abbondato nei giudizi di valore. Il terreno scivoloso - Nel campo genericamente detto politico, in parte tecnico in parte discorsivo, può succedere che la comunicazione trascini l’attore su un terreno scivoloso, condito di espressioni e concetti accattivanti perché attento all’eco che avrà nell’audience. Stefano Feltri ha per questo paragonato la retorica di Draghi nell’ultima conferenza stampa a quella di un influencer. Draghi come Chiara Ferragni. Ma meno bravo di Chiara Ferragni, certamente perché meno esperto di lei nelle dinamiche dei social. E così ha fatto due scivoloni che rivelano quanto sottile sia la linea che separa il tecnico dal populista nella democrazia del pubblico. Non è questione di coscienza - Il primo scivolone (da rottura dell’osso del collo) è stato quello della colpevolizzazione dei furbi del vaccino: lo psicologo 35enne e coloro che, sotto i sessant’anni, “saltano la fila”. La reprimenda paternalistica di Draghi ha tradito una stupefacente disattenzione a come funziona il sistema di vaccinazione, che il suo governo regola e monitora. Non si può saltare la fila, infatti, a meno di non violare le regole o per raccomandazione o per amicizia o per nepotismo. Diversamente, sono i sistemi di classificazione dei vacciananti - per gruppi sociali, professionali ed età - a stabilire chi si vaccina e quando. L’appello alla “coscienza” è fuori luogo in entrambi i casi: nel primo, perché lì si tratta di violazione di una norma; nel secondo, perché qui si è dentro la norma. Dal che si evince che ad essere oggetto di reprimenda non devono essere in non sessantenni che si vaccinano, ma chi prevede che questo possa succedere. L’Italia ha molti decessi perché chi la governa ha predisposto pessime regole. Draghi, insomma, dovrebbe volgere il suo giudizio critico verso le strategie e le regole che il suo governo e quello delle regioni (che lui stesso ha giustamente ricordato essere parte del governo) hanno adottato. Gli errori, le cattive decisioni, le confusioni, le ingiustizie sono di chi fa le regole, non di chi le usa. Non scomodi dunque la coscienza di chi si vaccina potendolo. Faccia un esame critico alle decisioni del suo governo e della filiera che da esse si dirama: sembra infatti che questo stia facendo a giudicare dalle recentissime decisioni di metter in sicurezza vulnerabili e anziani. Che fare coi dittatori - Il secondo scivolone riguarda l’infelicissima affermazione sulla necessità che i buoni (i paesi democratici europei) hanno di far affari con i cattivi (i “dittatori” come Recep Tayyp Erdogan). Dice Draghi che non possiamo fare diversamente se vogliamo difendere il nostro interesse nazionale e continentale. Lasciamo stare qui la disquisizione su quale sia la forma di governo che meglio si addice alla Turchia, benché la scienza politica avrebbe dubbi nell’etichettarla come “dittatura”. Quel che preme mettere in luce è altro: il realismo amorale sul quale si regge il senso dell’interesse nazionale e continentale delle nostre democrazie. Per le quali risulta assai conveniente essere circondate da regimi illiberali se vogliono intrattenere con loro questo tipo di affari: retribuirli affinché tengano i migranti fuori dalle nostre frontiere. Se Libia e Turchia fossero democrazie liberali questo nostro “interesse nazionale” o continentale non potrebbe essere perseguito per queste vie. È quindi nell’interesse nostro che la Turchia o la Libia siano e restino “dittature”, poiché ciò le rende efficaci nella negazione dei diritti umani e quindi competenti a fare quel business che se fossero democrazie non potrebbero fare. E dichiarandole “dittature” mettiamo la nostra coscienza in pace con se stessa. Loro sono il male, non noi. Turchia. L’Europa e il dittatore di Wolfgang Münchau* Corriere della Sera, 13 aprile 2021 Il vero scandalo non è il “sofagate”, ma la politica estera inconcludente dell’Unione europea. Più scandalosa ancora della mancanza di tatto di Charles Michel, a mio avviso, è la scarsa sensibilità dimostrata nel contesto in cui si è svolta la visita diplomatica dell’Unione europea. Due giorni prima, Erdogan ha fatto arrestare alcuni ammiragli in pensione dopo che questi gli avevano ricordato che la convenzione di Montreux, del 1936, si applica anche al canale di Istanbul, il progetto per la costruzione di un passaggio marittimo parallelo al Bosforo. La convenzione di Montreux rientra nell’architettura diplomatica di pace dell’Europa del ventesimo secolo, e concede alla Turchia il diritto di vietare il transito alle navi militari in periodo di guerra, ma garantisce il libero passaggio di vascelli civili e militari in tempo di pace, entro certi limiti chiaramente stabiliti. La convenzione fu siglata per porre fine a una serie di guerre tra Russia e Turchia sul controllo del Mar Nero. Ma nel momento in cui la Russia continua ad ammassare truppe sui confini con l’Ucraina, l’Europa ha tutto l’interesse a scongiurare un colpo di mano turco nella regione. Ma che cosa pensano i leader europei, di poter andare a sfilare accanto al dittatore turco in un momento come questo? Un uomo che si è macchiato di molteplici violazioni dei diritti umani nel suo paese e che oggi sfida apertamente le leggi internazionali? Come in tempo di guerra, anche nella diplomazia occorre scegliere le proprie armi. Esiste il momento opportuno per le foto ufficiali, e l’occasione propizia per tessere la tela diplomatica in silenzio, dietro le quinte. A mio modo di vedere, il vero scandalo di quanto accaduto la settimana scorsa non riguarda la poltrona negata alla presidente della Commissione europea, bensì il clamoroso fallimento della diplomazia europea. Mentre i capi di stato europei stringono la mano ai dittatori stranieri, l’Unione europea ha accettato tacitamente di dipendere dal gas russo e dalla tecnologia delle comunicazioni cinese, oltre che dalla Turchia, che oggi rappresenta la prima linea di difesa per ostacolare i flussi migratori. Un esempio molto più significativo del triste stato in cui versa la diplomazia europea si è avuto nel corso della telefonata tra il presidente cinese Xi Jinping e Angela Merkel. Xi ha ammonito la cancelliera tedesca che l’Unione europea dovrebbe ricercare l’autonomia strategica, con l’obiettivo di staccarsi dagli Stati Uniti e avvicinarsi invece maggiormente alla Cina. Ovviamente, il presidente cinese è convinto di poter dettare le condizioni dell’autonomia strategica all’Unione europea. Al momento attuale, la principale finalità dell’autonomia strategica europea sembra ridursi agli scambi economici. Angela Merkel non può permettersi di denunciare le violazioni dei diritti umani contro gli Uiguri perché la Volkswagen non è in grado di escludere che parte della sua catena di rifornimento cinese provenga da manodopera schiavizzata. La cancelliera non è insensibile come Gerhard Schröder, il suo predecessore, il quale affermava tranquillamente che la politica estera riguarda gli interessi nazionali, non i diritti umani. Se il linguaggio di Merkel è più moderato, la diplomazia di base resta immutata. Il pensiero che sottende la politica estera tedesca si trova oggi nel punto in cui si trovavano gli Stati Uniti nel 1953, quando Charles Wilson, il presidente della General Motors, chiamato a diventare segretario alla difesa, fece il suo celeberrimo commento durante l’udienza di conferma all’incarico: “Quello che va bene per la General Motors va bene per l’America”. Poiché il modello economico tedesco dipende fortemente dalle esportazioni, si potrebbe azzardare la difesa razionale di una politica estera concepita come mero strumento per assicurarsi contratti commerciali. Ma questo atteggiamento è impensabile per l’Unione europea nel suo insieme. La strategia, negli scacchi come nella vita, ci impone di sacrificare qualcosa in cambio di qualcos’altro. E il problema dell’autonomia strategica europea sta proprio qui: non è affatto strategica. I presidenti Xi e Erdogan, dal canto loro, l’hanno ben capito. E sanno come afferrare gli europei alla gola. Vladimir Putin è riuscito a imporre la dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia, grazie alle forniture di gas. E la smania per il vaccino Sputnik V, che percorre oggi l’Europa, è la conferma di questa sudditanza assodata. Gli europei finora, malgrado le loro politiche per nulla strategiche, sono riusciti a sottrarsi al gioco in quanto, grazie al Patto atlantico, sono ancora strettamente legati agli Stati Uniti, cui è stato delegato il compito di elaborare le strategie. In cambio, gli europei hanno promesso fedeltà. Ma nel ventunesimo secolo, un rapporto di questo genere non è più sostenibile. Eppure, a tutt’oggi, a Bruxelles come nelle varie capitali europee, non si avverte nessuna consapevolezza che il valore dell’autonomia strategica dipende dalla strategia scelta. Sono arrivato alla conclusione che l’Unione europea non dovrebbe avventurarsi in politiche estere e di sicurezza nazionale ai massimi livelli finché non saranno cambiate le premesse. La diplomazia europea era molto più efficace quando Javier Solana ne è stato l’alto rappresentante. Con il Trattato di Lisbona, quell’incarico è stato formalmente potenziato, ma da allora la diplomazia europea appare sempre meno incisiva. Nel rapporto inverso tra il rafforzamento delle istituzioni e l’efficacia politica è da ricercarsi la causa del progressivo declino dell’Unione europea nel nostro secolo. Resta forte l’esigenza di avere una salda politica estera e di sicurezza in Europa, proprio come lo sarebbe un vaccino per il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie. Ma dovrà essere basata su obiettivi forti e chiari. Fino ad allora, la diplomazia europea resterà soprattutto una fonte di imbarazzo. *Traduzione di Rita Baldassarre Egitto. Zaki, messaggio dal carcere: “Sto resistendo, grazie per il supporto a tutti” di Ilaria Venturi La Repubblica, 13 aprile 2021 Il giovane egiziano studente a Bologna, in carcere da oltre un anno, ha ricevuto la visita della fidanzata. È confuso per l’ennesimo prolungamento della detenzione preventiva: altri 45 giorni, dopo più di un anno. Legge Marquez, lui che ama la letteratura ed è solo ad affrontare l’ingiusta prigionia: “Cent’anni di solitudine”. E affida proprio a questo libro un messaggio scritto al suo interno per i suoi sostenitori e amici: “Sto resistendo”. Sono gli attivisti che lottano per la sua liberazione a informare dell’incontro del giovane ricercatore egiziano iscritto all’Alma Mater con la sua fidanzata. Un resoconto che arriva alla vigilia della discussione in senato per chiedere che gli sia concessa la cittadinanza italiana. “Sembrava stare bene in generale, ma era confuso su quanto accaduto nell’ultima udienza e ha detto che sapeva che la sua detenzione era stata rinnovata per altri 45 giorni, ma non era a conoscenza dello stato dell’appello presentato dai suoi avvocati per sostituire i giudici che si occupano del suo caso”, si legge sulla pagina Facebook “Patrick Libero”. La ragazza lo ha aggiornato sul fatto che la richiesta dei suoi avvocati è stata respinta. Patrick ha dato alla fidanzata una copia di ‘Cento anni di solitudinè con una nota all’interno scritta in italiano: “Sto ancora resistendo, grazie a tutti per il vostro sostegno”. Quando la ragazza ha cercato di consolarlo, Patrick “ha sorriso con sarcasmo dicendo che si sta provando ad adattare alla prigione, in un modo che faceva intendere che ha perso la speranza di essere liberato presto e che sta rimanendo forte per coloro che ama”. Patrick ha anche menzionato che, mentre stava lasciando la sua struttura di detenzione, prima della sua ultima sessione di udienza, il direttore della prigione “lo ha fermato e gli ha detto che non gli permetterà di entrare di nuovo finché non si sarà tagliato i capelli, mentre rideva con gli altri agenti di polizia intorno a lui”. E gli attivisti, indignati, commentano: “Questo è a dir poco ingiusto, anche i piccoli dettagli sono controllati, il suo corpo e il suo aspetto sono soggetti alla loro opinione. Continuiamo ad aggrapparci alla speranza che sia presto libero”. Sono gli studenti universitari dei quattro atenei in Emilia-Romagna a scrivere ai presidenti di Camera e Senato per appoggiare la richiesta già contenuta nella mozione presentata dal Pd e che conta tra i firmatari anche la senatrice a vita Liliana Segre, alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle, Italia viva, +Europa, Lega e gruppo Misto. Il testo sarà presentato mercoledì a Palazzo Madama insieme alla mozione promossa dalla senatrice bolognese del M5S Michela Montevecchi per chiedere al Governo di attivare i canali della Convenzione Onu contro la tortura ratificata anche dall’Egitto. Una strada che consentirebbe di arrivare sino alla Corte di giustizia internazionale. Insomma, è pressing politico per la liberazione dello studente iscritto al master in Studi di genere dell’Alma Mater, da 14 mesi incarcerato a Tora, alla periferia del Cairo. La scorsa settimana è stata prolungata la detenzione cautelare per altri 45 giorni, “uno stillicidio che lo distrugge nella sua dimensione fisica e psichica. Noi continuiamo, ogni giorno, a pensare cosa possiamo fare nella nostra quotidianità per aiutarlo” scrivono i 17 presidenti degli organi accademici delle università di Bologna, Ferrara, Modena-Reggio e Parma, dei Conservatori e delle Accademie di Belle arti della regione. Di qui la richiesta “alle istituzioni di fare tutto il possibile, e anche l’impossibile, perché Patrick possa tornare a studiare con noi”. La mobilitazione non si ferma, anzi, “noi chiediamo un intervento più deciso” spiega Andrea Giua, 25 anni, presidente della consulta regionale degli studenti. La richiesta di cittadinanza è partita da una petizione online da 200mila firme del gruppo “Station to station”. È sostenuta dal governatore Bonaccini e dal sindaco Merola. “Noi rappresentiamo oltre 160.000 studentesse e studenti che hanno scelto di portare avanti i propri studi in Emilia-Romagna, esattamente come ha fatto Patrick - continua la lettera - Per questo abbiamo deciso di unire le nostre voci per richiedere che gli sia concessa la cittadinanza italiana ed europea: è uno strumento necessario per garantirgli maggiori tutele legali”. Ucraina, bomba Usa in Europa di Manlio Dinucci Il Manifesto, 13 aprile 2021 Caccia F-16 Usa, inviati dalla base di Aviano, sono impegnati in “complesse operazioni aeree” in Grecia, dove ieri è iniziata l’esercitazione Iniochos 21. Essi appartengono al 510th Fighter Squadron di stanza ad Aviano, il cui ruolo è indicato dall’emblema: il simbolo dell’atomo, con tre fulmini che colpiscono la terra, affiancato dall’aquila imperiale. Sono dunque aerei da attacco nucleare quelli impegnati dalla US Air Force in Grecia, che ha concesso nel 2020 agli Stati uniti l’uso di tutte le sue basi militari. Partecipano all’Iniochos 21 anche cacciabombardieri F-16 e F-15 di Israele ed Emirati Arabi Uniti. L’esercitazione si svolge sull’Egeo a ridosso dell’area comprendente Mar Nero e Ucraina, dove si concentra la maxi esercitazione Defender-Europe 21 dell’Esercito Usa. Queste e altre manovre militari, che fanno dell’Europa una grande piazza d’armi, creano una crescente tensione con la Russia, focalizzata sull’Ucraina. La Nato, dopo aver disgregato la Federazione Iugoslava inserendo il cuneo della guerra nelle sue fratture interne, si erge ora a paladina dell’integrità territoriale dell’Ucraina. Il presidente del Comitato Militare della Nato, il britannico Stuart Perch capo della Royal Air Force, incontrando a Kiev il presidente Zelenskyy e il capo di stato maggiore Khomchak, ha dichiarato che “gli alleati Nato sono uniti nel condannare l’illegale annessione della Crimea da parte della Russia e le sue azioni aggressive nell’Ucraina orientale”. Ha così ripetuto la versione secondo cui sarebbe stata la Russia ad annettersi con la forza la Crimea, ignorando che sono stati i russi di Crimea a decidere con un referendum di staccarsi dall’Ucraina e rientrare nella Russia per evitare di essere attaccati, come i russi del Donbass, dai battaglioni neonazisti di Kiev. Quelli usati nel 2014 quale forza d’assalto nel “putsch” di piazza Maidan, innescato da cecchini georgiani che sparavano sui dimostranti e sui poliziotti, e nelle azioni successive: villaggi messi a ferro e fuoco, attivisti bruciati vivi nella Camera del Lavoro di Odessa, inermi civili massacrati a Mariupol, bombardati col fosforo bianco a Donetsk e Lugansk. Un sanguinoso colpo di stato sotto regia Usa/Nato, col fine strategico di provocare in Europa una nuova guerra fredda per isolare la Russia e rafforzare, allo stesso tempo, l’influenza e la presenza militare degli Stati uniti in Europa. Il conflitto nel Donbass, le cui popolazioni si sono auto-organizzate nelle Repubbliche di Donetsk e Lugansk con una propria milizia popolare, ha attraversato un periodo di relativa tregua con l’apertura dei colloqui di Minsk per una soluzione pacifica. Ora però il governo ucraino si è ritirato dai colloqui, col pretesto che rifiuta di andare a Minsk non essendo la Bielorussia un paese democratico. Allo stesso tempo le forze di Kiev hanno ripreso gli attacchi armati nel Donbass. Il capo di stato maggiore Khomchak, che Stuart Perch ha lodato a nome della Nato per il suo “impegno nella ricerca di una soluzione pacifica del conflitto”, ha dichiarato che l’esercito di Kiev “si sta preparando per l’offensiva nell’Ucraina orientale” e che in tale operazione “è prevista la partecipazione di alleati Nato”. Non a caso il conflitto nel Donbass si è riacceso quando, con l’amministrazione Biden, ha assunto la carica di segretario di Stato Antony Blinken. Di origine ucraina, è stato il principale regista del putsch di piazza Maidan in veste di vice-consigliere della sicurezza nazionale nell’amministrazione Obama-Biden. Quale vice-segretaria di Stato Biden ha nominato Victoria Nuland, nel 2014 aiuto-regista dell’operazione Usa, costata oltre 5 miliardi di dollari, per instaurare in Ucraina il “buon governo” (come lei stessa dichiarò). Non è escluso che a questo punto abbiano un piano: promuovere una offensiva delle forze di Kiev nel Donbass, sostenuta di fatto dalla Nato. Essa metterebbe Mosca di fronte a una scelta che tornerebbe comunque a vantaggio di Washington: lasciar massacrare le popolazioni russe del Donbass, o intervenire militarmente in loro appoggio. Si gioca col fuoco, non in senso figurato, accendendo la miccia di una bomba nel cuore dell’Europa. Messico. I bambini-soldati, in armi contro i Narcos di Carmen Morán Breña La Repubblica, 13 aprile 2021 Nello Stato di Guerrero il governo centrale è assente: e così i villaggi si organizzano da soli per difendersi dalla minaccia dei trafficanti e dei malviventi. Sotto un sole arroventato, i bambini armati sfilano uno dopo l’altro gridando “Viva! Viva! Viva gli orfani, le vedove, le popolazioni indigene, il generale Zapata!”. Per il terzo anno consecutivo i più piccoli si sono uniti agli adulti della polizia comunitaria in una specie di parata militare: una disperata richiesta di aiuto al governo del Messico, ma anche una dimostrazione di forza rivolta al crimine organizzato, che tiene in scacco la Montaña Baja dello Stato di Guerrero. Sono appena 600 abitanti, ormai, di un paesino in cui la coltivazione del papavero si è estesa sul territorio a colpi di arma da fuoco. Los Ardillos sono una banda di malviventi e vogliono terra e mano d’opera quasi da schiavi per la resina lattiginosa destinata a diventare gomma di oppio. Chi non si piega la paga cara. E nel villaggio di José Joaquín de Herrera non sono disposti a piegarsi. Lo scorso anno la strategia di armare i bambini tra i 7 e i 12 anni, fosse pure con fucili giocattolo, si è rivelata efficace. Il governo di Andrés Manuel López Obrador fu obbligato a reagire, perché il gesto aveva provocato allarme a livello internazionale: bambini armati in Messico. Quest’anno la polizia comunitaria ha voluto spingersi oltre: i chavos, i ragazzini, hanno sparato in aria in aperta campagna, dopo aver lanciato una serie di slogan e, al governo, la richiesta esplicita di “appoggiare le vedove, gli orfani e i profughi. E di farla finita con la criminalità e la discriminazione delle popolazioni indigene del Messico”. Anche gli spari sembravano un gioco, ma non lo erano affatto. Questo tipo di iniziativa si chiama autodifesa; gode di una lunga tradizione a Guerrero ed è stato preso a esempio in molte parti del Messico: i comuni cittadini si armano per proteggersi dai pericoli che li minacciano. Dopotutto per i popoli indigeni la Costituzione prevede, tra le altre cose, anche l’autonomia in materia di giustizia e forze dell’ordine. E loro la esercitano, anche se non sempre ci azzeccano. Assediate dalla criminalità organizzata, queste pattuglie locali impegnate nell’autodifesa perdono vite umane ogni anno, negli scontri armati con il narco. Anzi, le perdite colpiscono entrambi gli avversari. Nel 2020 si sono verificati sei attacchi; li ha contati Bernardino Sánchez Luna, 48 anni, veterano dei guerriglieri e organizzatore delle milizie della zona. La difesa armata di queste comunità nacque con il proposito di garantire la sicurezza di tutti ma, nel corso del tempo, si è quasi trasformata in un gruppo di veri militari, ai quali adesso si uniscono i bambini, che già iniziano a ricevere un addestramento. Perché coinvolgere i bambini? Perché crescerli con un fucile in mano? “Il governo non ha mantenuto le promesse. Gli abbiamo chiesto aiuto contro le bande e non ce l’ha prestato. Gli abbiamo chiesto insegnanti per la scuola, perché non possiamo uscire dal villaggio, e non sono arrivati. Il nostro compito è coltivare la terra, e se il governo non vuole che prendiamo le armi deve garantirci sicurezza”, dice Bernardino. Già, ma i bambini? “Il governo non ha mantenuto le promesse”. E così il guanto di sfida è stato lanciato. Il resto è una bravata per far capire a Los Ardillos con chi hanno a che fare. La fila di soldatini dai capelli neri e la pelle scura sfila per il paese. Indossano berretti con visiera e calzano i tradizionali huaraches di cuoio rigido. Con un fazzoletto si coprono naso e bocca, proprio come minuscoli guerriglieri. Pupazzetti in carne e ossa, illuminati dal sorriso davanti un pacchetto di biscotti. La polvere delle stradine sterrate si posa su tutto e la morsa del sole non accenna ad allentarsi. Sfoggiano armi di legno, pistole giocattolo; i più piccoli brandiscono bastoni. E gridano “viva!” agli slogan che escono dal megafono del veicolo che stanno seguendo in processione. Sembra quasi un giorno di festa. In prima fila camminano le donne, che in questi paesetti hanno poca voce in capitolo. Seguono a ruota i bambini; ultimi, gli adulti. Anche i loro fucili portano i segni di anni di lotta: l’impugnatura consunta, le canne opache, l’imbracatura alla buona. Più che una dimostrazione di forza sembra un esercito di ritorno a casa dopo anni di battaglie. Sconfitto. I giornalisti sono arrivati formando una carovana di auto, proteggendosi in questo modo da strade pericolose, disseminate di posti di blocco in cui vedi uniformi di ogni sorta. Sono i benvenuti in un posto in cui nessun altro può entrare, perché gli anfitrioni vogliono lanciare un messaggio “al mondo”. “Non siamo criminali”, dicono al governo i bambini, attraverso il microfono installato nel centro polisportivo, tra i canestri da basket. In Messico però impera la tendenza a semplificare il discorso, a identificare con il narco tutto ciò che si lascia alle spalle scie di cadaveri, e questo atteggiamento non consente di captare al primo sguardo una realtà molto complessa. Adesso in molte altre parti del Messico i cittadini portano magliette di autodifesa, senza che si riesca a capire chiaramente chi siano e che cosa difendano. Qui in paese hanno un’unica certezza: sono poveri e non vogliono violenza, ma di generazione in generazione sono passati poco a poco alle armi. Sedute a bordo campo, tre donne sembrano estranee a quanto sta avvenendo. La più anziana parla náhuatl, come tutti, e fa cenno di non capire. La più giovane ha 27 anni e non vuole che i suoi figli impugnino il fucile. “Sarà quel che Dio vuole. Non mi piacerebbe che i miei figli... ma se l’ha deciso il paese, bisognerà fare così”. Si chiama Claudia Bolaños e ha un bambino di 5 anni e un neonato che dorme tra le sue braccia. Decidono gli uomini. Sono loro a votare nel Consiglio Comunale che governa in assemblea. Decideranno il prossimo 6 giugno se aprire le urne, quando il Messico voterà per scegliere 20.000 cariche pubbliche e 15 governatori, tra i quali anche quello del territorio in cui si trova Guerrero. Mezzo paese si è messo le mani nei capelli perché il candidato a governare quella zona per Morena, il partito del presidente López Obrador, è stato accusato di stupro e la sua candidatura annullata per questioni fiscali. Ma lì in montagna cosa sono venuti a sapere del tale Félix Salgado Macedonio? Bernardino risponde che poco o niente. Che non hanno la televisione. Non ha altro da aggiungere su un caso che ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro per settimane, nel resto del paese. Nessun candidato è ancora arrivato fin lassù per presentarsi. La loro assemblea deciderà se Guerrero potrà votare il giorno 6. L’assenza dello Stato in questa zona è palese. Potremmo definirlo abbandono? “Direi di sì. Davanti a un discorso semplicistico, che fa di ogni erba un fascio narco, le autorità finiscono per guardare altrove; sembrano volerci dire che non c’è proprio nulla da fare”, risponde il sociologo franco-argentino Romain Le Cour. Vive in Messico da 12 anni e lavora per la ONG internazionale Noria, specializzata nelle varie forme di violenza che si manifestano in tutto il mondo. Le Cour conosce bene la violenza messicana. “Quel che accade qui è molto più complesso. È una questione sociale, di povertà e di disattenzione. Non basta attribuire il problema al narco e lasciare che le comunità indigene si governino senza aiuto esterno”, spiega. Ai messaggi semplicistici si risponde con soluzioni minimali, mentre la mancanza di pace che si vive su queste montagne necessita di qualcosa in più. Bisognerebbe tracciare minuziosamente la linea sottile che delinea il cacicco, il narco o sua cugina la sindaca; sono rapporti pieni di sfumature, interessi che s’incrociano più delle traiettorie dei proiettili. A José Joaquín de Herrera vivono 9 vedove, 14 orfani e 34 profughi di comunità vicine, in stato di assedio. E gli abitanti sono isolati. Il medico si spinge fin lassù solo se c’è un’emergenza. Nessuno lo ferma ai posti di blocco, perché cura anche i malati di altri paesi. Si arrampica fin da loro anche qualche commerciante, che li rifornisce di generi di prima necessità, pagamento anticipato. E, ovvio, arriva il camion della Coca-Cola. “E anche quello della Pepsy”, dice Bernardino ridendo. Poco altro. Quando finiscono la scuola elementare i ragazzi non proseguono gli studi perché dovrebbero spostarsi di vari chilometri e affrontare il pericolo: sparatorie o sequestri, dicono. Non vanno nemmeno a trovare i parenti che vivono in altre zone del territorio. Qui a José Joaquín de Herrera, se qualcuno indica la montagna a nessuno viene in mente il mais, i tipici fagioli o le zucche: tutti pensano subito alla canna di un fucile. Sullo sfondo qualche capra sta brucando l’erba e si scorgono un paio di maiali a macule bianconere, legati a una corda. Le truppe, sudatissime, si addentrano nella campagna. “Bambini della comunità, at-tenti! Presentat arm! Se non ci difende nessuno, risponderemo ai sicari col fuoco, grandissimi figli di puttana!”. Una decina di spari lascia nuvolette di fumo sospese nell’aria. E la montagna risponde con l’eco.