Carceri tra sovraffollamento e restrizioni da Covid: 14 detenuti suicidi da inizio anno di Silvia Mancinelli adnkronos.com, 12 aprile 2021 Sabatino Trotta è solo l’ultimo nome di una lista di suicidi in cella che, ad oggi, è arrivata a quota 14 dall’inizio dell’anno. Il dirigente della Asl di Pescara, che si è tolto la vita mercoledì scorso nel carcere di Vasto, era rinchiuso da pochi giorni nell’ambito di una indagine su presunta corruzione in un appalto sanitario. La vergogna, forse una pena considerata ingiusta. Prima di lui, il 3 aprile scorso, si era ucciso Gerardo Tarantino, trovato nel bagno della sua cella a Foggia dove era recluso, unico indiziato dell’omicidio di Tiziana Gentile avvenuto il 26 gennaio a Orta Nova. Il 31 marzo venne trovato impiccato nella sua cella a Bari il 46enne Nicola Nigro, dopo diversi tentativi di togliersi la vita. In quella sciagurata lista di 14 suicidi da inizio 2021 anche un ragazzino di appena 15 anni. Si è ucciso l’8 marzo scorso, all’interno della comunità di recupero a Caserta dove si trovava per una rapina. Solo solo alcuni nomi di chi non ha retto il peso della condanna, di chi non vedeva più oltre le sbarre, di chi è stato schiacciato da un sovraffollamento arrivato al limite o da disposizioni ancora più severe per contenere ulteriori focolai in carcere che, all’8 aprile, hanno fatto registrare quota 871 detenuti positivi al Covid-19 in tutto il territorio nazionale. Secondo i dati forniti dal Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria) all’Adnkronos sono stati 62 i suicidi nel 2020, più di 5 al mese, 53 l’anno precedente e 62 nel 2018, 48 nel 2017, 39 nel 2016 e nel 2015, 43 nel 2014. Un fenomeno dovuto secondo Ornella Favero, direttore di Ristretti Orizzonti, “soprattutto a una impossibilità per i reclusi di avere attenzioni - dice all’Adnkronos - I numeri sono spropositati, manca l’organico e non ci sono attività per tutti”. “E molti di più sono i suicidi in cella sventati dagli agenti - spiega all’Adnkronos Donato Capece, segretario generale del Sappe - 1478 solo nel 2020, ossia più o meno 4 al giorno, 11.343 gli atti di autolesionismo, ben 31 ogni giorno. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri e gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti. L’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici, ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Al nuovo Ministro della Giustizia Marta Cartabia chiediamo un cambio di passo sulle politiche penitenziarie”. “Il fenomeno dei suicidi in carcere, che rappresenta un fallimento dello Stato che non riesce a proteggere persone che ha in custodia - aggiunge Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Pp. - è aggravato da sovraffollamento, servizi inadeguati, organici fortemente insufficienti della Polizia penitenziaria e degli altri operatori, disorganizzazione. Basterebbe, forse, la sola efficace standardizzazione della gestione complessiva dei detenuti appena arrestati per ridurne in maniera significativa la portata, senza per questo trascurare il trattamento successivo”. Per Giuseppe Moretti, presidente della Uspp, “bisogna contrastare il fenomeno dei suicidi focalizzando gli interventi di educatori, psicologi, assistenti sociali. La polizia penitenziaria fa quello che può - spiega all’Adnkronos - Con un solo agente, a volte in turni dove deve controllare 150 detenuti, è difficile anche intervenire: eppure senza il loro intervento sarebbe molto più alto il numero dei suicidi”. Covid nelle carceri, aumentano i focolai: più di 1.550 positivi di Angela Nittoli Il Fatto Quotidiano, 12 aprile 2021 Sit-in dei parenti alla sezione femminile di Rebibbia: “Dateci informazioni”. Aumentano i detenuti positivi al Covid 19 e sono diversi i focolai attivi nelle carceri. Secondo i dati aggiornati all’8 aprile, i casi tra i reclusi sono saliti a 871, mentre erano 750 nei primi giorni del mese. Sono invece 683 gli operatori risultati positivi. Il principale focolaio resta nel penitenziario di Reggio Emilia, dove i numeri sono ancora in salita e in tutto i contagiati sono quasi 150, tra detenuti e agenti. Anche nel carcere femminile di Rebibbia sono 56 le detenute positive e 19 i casi tra il personale della polizia, tra cui due con sintomi. E proprio nel prato davanti al carcere di Rebibbia oggi, domenica 11 aprile, è stato organizzato da un sit-in. Oltre allo stop ai colloqui, i parenti e gli amici lamentano l’assenza di informazioni sulle condizioni in cui versano le persone all’interno dell’edificio detentivo. “Non sappiamo quante persone positive al Covid ci siano effettivamente - racconta il compagno di una detenuta che preferisce rimanere anonimo - noi temiamo siano molte di più di quelle che dicono”. Fuori dalle mura della struttura, per salutare le donne in cella con striscioni e saluti, si sono radunate circa 50 persone. “Avevamo chiesto che le detenute positive potessero ottenere una semi libertà per potersi curare - dichiara Leila Daianis, fondatrice dell’associazione Libellula - invece a oggi non sappiamo niente di quello che succede all’interno, non sappiamo neppure se alle persone vengano fornite le mascherine”. “Noi chiediamo di ricominciare a fare i colloqui di persona - continua uno dei parenti delle detenute - perché pensiamo che con le dovute precauzioni non ci sia nessun rischio per loro e per noi”. Intanto il sindacato della polizia penitenziaria Uilpa ha chiesto al governo di non sospendere le vaccinazioni in carcere. “Con la nuova ordinanza emessa dal commissario Figiuolo - si legge in una nota del sindacato - tornano in forte dubbio le vaccinazioni nelle carceri, nelle fasce di priorità, sia per i detenuti sia per la polizia penitenziaria. Per quanto sembra emergere dall’ordinanza, infatti, le vaccinazioni nei penitenziari dovranno proseguire con gli stessi criteri indicati per la generalità della popolazione. Se così fosse, sarebbe gravissimo e l’ufficio del commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, che solo qualche settimana fa, anche dopo un nostro specifico intervento, aveva negato qualsiasi rallentamento delle vaccinazioni nelle carceri, questa volta sembrerebbe smentire se stesso”. Ieri una prima riposta all’appello del sindacato è arrivata dall’assessore regionale alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato. “Il 19 aprile avremo la prima consegna di vaccini Johnson & Johnson. Si tratta di una consegna quantitativamente modesta: 18mila dosi che andranno in prevalenza alle carceri, per il personale che vi lavora e per i detenuti. Speriamo che dal prossimo mese di maggio potremo avere un ampliamento delle forniture” ha aggiunto. Quattro detenuti su dieci hanno problemi psichiatrici: curarli in carcere non sempre si può di Federica Olivo huffingtonpost.it, 12 aprile 2021 Il Partito Radicale ha lanciato un appello. Miravalle (Antigone): “Spesso non si va oltre i farmaci”. Zanalda (psichiatra): “Reparti speciali dovrebbero servire solo per la diagnosi”. M. è un ragazzo detenuto a Torino. Si trova nel reparto di osservazione psichiatrica della Casa Circondariale di Torino, struttura - in ogni regione dovrebbe essercene una - dove vengono trasferiti i detenuti che hanno un problema di salute mentale. Verso la fine di agosto tenta il suicidio. E, subito dopo - è il racconto che la famiglia ha fatto all’associazione Antigone - viene trasferito in una cella liscia. Vengono chiamate così le celle utilizzate a volte per chi compie atti di autolesionismo. Piccole stanze vuote, dove non c’è praticamente nulla, se non un materasso e pochi altri oggetti che non possano essere utilizzati come appiglio per eventuali gesti violenti contro se stessi. Il vuoto, l’isolamento, l’assenza addirittura, nel caso di M., di acqua corrente, non aiutano certo a migliorare le condizioni di chi già ha una sofferenza. A solitudine si aggiunge solitudine. Il malessere si ingigantisce. I diritti restano fuori dalle sbarre. Lontano, troppo lontano dall’esistenza di M. e di chissà quanti altri come lui. La situazione è tale che, raccontano sempre i familiari, M. a un certo punto si trova senza acqua ed è costretto a bere quella del Wc. Una condizione che si fa fatica anche solo a immaginare. Perpetrata ai danni di una persona che avrebbe bisogno di aiuto. Passano i giorni, la salute di M. non migliora. Ma come potrebbe, dato il trattamento subìto? Il giovane si trova a trascorrere nove mesi, senza interruzione, nella sezione dedicata alle persone che hanno un problema in fase acuta, nel reparto di osservazione psichiatrica. Per legge avrebbe potuto starci molto meno. Questa storia è particolarmente cruda, rappresenta certamente un estremo. Ma rende chiaro il livello a cui si può arrivare laddove non vengano dati gli strumenti adatti per curare i detenuti con problemi psichiatrici, di varia natura. Quello della salute mentale in prigione è un tema annoso, di cui spesso però non si ha coscienza. Per avere un’idea di quanto sia grande il disagio del vivere in cella si possono guardare i dati dei suicidi: l’anno scorso sono stati 61, mai così tanti in 20 anni. Al di là delle storie che arrivano al finale più tragico, ce ne sono tante altre, che restano nel mezzo. In una zona grigia di sofferenza nascosta. La vicenda dell’ex fotografo Fabrizio Corona, rientrato in carcere da poco e inizialmente condotto nel reparto di psichiatria dell’ospedale Niguarda di Milano, ha riaperto il dibattito. Ma dietro una storia nota, ce ne sono tante assolutamente sconosciute. Lo sa bene Irene Testa, tesoriera del Partito Radicale, che nei giorni scorsi ha lanciato un appello alla ministra Marta Cartabia e al ministro Roberto Speranza, per sottolineare che la salute mentale in carcere è un problema di proporzioni enormi. E che bisognerebbe agire: “Ci sono tanti Corona negli istituti di pena italiani. Anime perse che hanno bisogno di supporto, cure, attenzione. Con questa iniziativa vogliamo accendere un faro sulla situazione - dice ad HuffPost - un malato psichiatrico non dovrebbe stare in carcere. O, almeno la detenzione, dovrebbe essere residuale”. Dati ufficiali non ce ne sono e Testa si appella alla Guardasigilli, affinché li fornisca e “dia un’indicazione”. “È difficile fare una stima precisa - spiega ad HuffPost Enrico Zanalda, co-presidente della Società italiana di Psichiatria - perché la detenzione, già di per sé, può comportare il disturbo da adattamento. A questo si aggiungono situazioni più serie, come la schizofrenia e il disturbo bipolare. Bisogna poi tenere in considerazione il disagio che registrano i detenuti affetti da dipendenza dagli stupefacenti”. Indicazioni importanti su quanti reclusi seguono una cura psichiatrica vengono fornite dalle associazioni che fanno le visite in carcere. Nelle percentuali che diffondono rientrano tutte le patologie psichiatriche, da quelle molto gravi a quelle più leggere. Analizzando i numeri viene in ogni caso fuori uno spaccato preoccupante. Quattro detenuti su dieci in terapia psichiatrica, tra carenza di personale e pochi percorsi oltre il farmaco - Il 2020, anno della pandemia, per le carceri ha significato isolamento ulteriore. Colloqui in presenza bloccati, meno scuola, attività educative quasi azzerate. E, di riflesso, meno visite da parte delle associazioni. Anche per questo i dati sono parziali. Eppure utili ad inquadrare le dimensioni del fenomeno: “Nell’anno appena passato abbiamo visitato 44 istituti e abbiamo rilevato che il 36,81% dei detenuti è sottoposto a una cura psichiatrica”, ci spiega Michele Miravalle di Antigone. Quattro persone su dieci, quasi. La situazione varia da istituto a istituto: si va dal 92,23% della casa circondariale di Bari al 5,71% di Poggioreale, a Napoli. Ci sono casi in cui la patologia era presente anche prima della detenzione e nella reclusione si aggrava. E casi in cui è il carcere che fa ammalare. “La situazione è grave e delicata - racconta ancora Irene Testa - a Cagliari, ad esempio, la percentuale è altissima. Nelle mie visite ho visto tante persone, soprattutto ragazzi, spaesati, sedati, avvinghiati alle sbarre della cella”. Il panorama è desolante e, per quanto nelle percentuali prima citate siano inclusi sia problemi molto lievi che patologie gravi, gli esperti del settore avvertono la necessità di cambiare le cose. E di studiare percorsi che vadano oltre il carcere, almeno per una parte di queste persone. Allo stato attuale, sono trattate nei reparti di osservazione psichiatrica. Quando i numeri diventano importanti, però, c’è il rischio che non si possa andare oltre una cura farmacologica. Che la sofferenza possa essere forse tamponata, ma non eliminata. “In molti casi - spiega ancora Miravalle - i reparti psichiatrici diventano sezioni dove ci si limita alla cura farmacologica, senza nessun tipo di riabilitazione”. Non è sempre così, naturalmente. Ma quando si instaurano queste dinamiche - spesso dovute all’alto numero di detenuti in cura e alla carenza di personale - il rischio è che la salute del detenuto non abbia margini per migliorare. “La pandemia ha complicato le cose - continua Miravalle - data la difficoltà nel far entrare gli educatori in carcere”. Ma, Covid a parte, mancano i medici: “Abbiamo calcolato che, in media, nelle carceri italiane lo psichiatra è presente 8.97 ore a settimana ogni 100 detenuti”. Un tempo chiaramente insufficiente per andare oltre la semplice prescrizione di farmaci. “Non c’è dubbio che ci sia carenza di specialisti - gli fa eco il dottor Zanalda - si fa spesso fatica a trovare gli psichiatri, in carcere ancor di più”. Gli psicologi trascorrono un po’ di tempo in più nei penitenziari: 16.56 ore ogni 100 reclusi. Ma comunque non basta. Soprattutto negli istituti dove i detenuti che hanno bisogno di questo tipo di assistenza sono tanti. Il rischio che - anche nei penitenziari dove l’attenzione a queste problematiche è alta - siano abbandonati a loro stessi è elevato. Eppure le soluzioni ci sono. Dalle misure alternative alla medicina del territorio: le strade aiutare i malati psichiatrici in carcere. Parola d’ordine: “Valutare caso per caso” - La domanda che ci si deve porre in questo caso è: la malattia psichiatrica è compatibile con il carcere? La risposta è: non sempre. Ciò su cui tutti concordano è che - senza aprire, per il momento, il capitolo dei non imputabili - per chi ha patologie importanti dovrebbero essere pensate soluzioni diverse dalla detenzione in cella. “Una sentenza del 2019 - racconta ancora Miravalle - ha equiparato la malattia fisica a quella psichiatrica. Consentendo, in questo modo, di poter ottenere gli arresti domiciliari in caso di patologie gravi”. E in tutti gli altri casi? “Sarebbe utile che i servizi psichiatrici del territorio si occupassero anche delle carceri - sostiene Miravalle - in qualche caso i reparti di osservazione psichiatrica funzionano bene, ma occorre stabilire un modello da seguire”. Una strada utile potrebbe poi essere quella delle misure alternative: “Ci sarebbe bisogno di strumenti flessibili. Si potrebbe pensare, ad esempio, di far trascorrere a queste persone un periodo in comunità, dove si posso rimettere al centro la loro salute”. “Il carcere dovrebbe rimanere un’opzione residuale”, sottolinea Irene Testa, che ricorda che alcuni provvedimenti potrebbero essere presi senza la necessità di cambiare le leggi. “I penitenziari non possono diventare i nuovi manicomi”, conclude. Per il dottor Zanalda bisognerebbe procedere con per step: “I reparti di osservazione psichiatrica possono essere utili in un primo momento, per individuare il trattamento. Una volta che è stata stabilita la diagnosi, sarebbe opportuno fare in modo che a chi ha problemi più seri sia data la possibilità di scontare la pena fuori dal carcere. Chi invece ha patologie non incompatibili con la reclusione, dovrebbe essere riportato nel proprio istituto di provenienza e curato lì”. E non nei reparti psichiatrici, dove troppo spesso i reclusi rimangono per un tempo molto lungo. C’è poi un aspetto ancora più delicato, e riguarda le persone che hanno commesso un reato, ma non sono imputabili, perché dichiarate incapaci di intendere e di volere. Alcune di loro non sono in carcere, ma in strutture dedicate. Molte altre restano in cella. Le Rems, strutture per persone non imputabili: storia di un equilibrio precario, che può funzionare - La storia delle Rems, Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, inizia pochi anni fa. Quando per legge si dispone la chiusura degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. Sono 32 su tutto il territorio nazionale, attive dal 2015, e ospitano poco meno di 600 persone. Si tratta di soggetti che hanno commesso un reato ma non sono imputabili. Una situazione ben diversa, quindi, da quella di chi inizia a soffrire di una patologia psichiatrica durante la detenzione. Sono pensate come luogo di transito, ma non sempre è così: “Le Rems sono strutture adeguate se il paziente vi permane per il periodo in cui deve essere stabilizzato, 6 mesi, un anno al massimo, e poi per lui si individua una via d’uscita. Il problema è quando si interpreta male il loro ruolo e si tende a considerarle come dei nuovi manicomi”. C’è chi pensa che la soluzione per far uscire dalle carceri le persone con malattie psichiatriche sia trasferirle nelle Rems. Ma la funzione di queste strutture, secondo Miravalle, non è un’altra. Quella di un posto che può aiutare i rei non imputabili a essere riammessi alla società. E in molti casi succede: “Per ogni paziente in Rems ce ne sono sette in comunità”. Significa che si può fare: che chi ha commesso un reato e non è capace di intendere e di volere può essere aiutato a ricominciare una vita. C’è, però, ancora un dato: non tutte le persone che avrebbero bisogno della Rems riescono ad accedervi. In carcere ci sono infatti molti detenuti che non sono imputabili e che quindi in cella non ci potrebbero stare. Secondo i dati disponibili sono circa 700. Una percentuale piccola rispetto al totale dei detenuti con problemi psichiatrici. Ma enorme, se pensiamo che la strada per queste persone dovrebbe essere tutt’altra. Rita Bernardini: “Carceri fuori controllo e il Covid dilaga” di Andrea Fiori Il Resto del Carlino, 12 aprile 2021 “Rivolgo un appello alla ministra Marta Cartabia. La diffusione del Covid nelle carceri è sfuggita di mano, prenda in mano lei la situazione”. Rita Bernardini, 68 anni, presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, ogni mattina lascia un biglietto colorato, a mo’ di pro memoria, sulle colonne di palazzo Piacentini, sede del Ministero. Un’iniziativa non violenta (Memento, in diretta alle 10,30 sulla pagina Facebook di Radio Radicale) per ricordare l’esplosiva situazione delle carceri italiane. “Ho letto di Reggio Emilia. Al 31 marzo il penitenziario ospitava 360 detenuti a fronte di una capienza massima di 293 posti. In questa situazione come si fa a controllare il Covid?”, si chiede la storica militante radicale, già segretaria e deputata. I positivi sono 111. “Per come è stata gestita la pandemia, un focolaio può scoppiare ovunque. C’è sovraffollamento, bisogna ricavare spazi per l’isolamento...Sono situazioni difficilissime. A Parma è scoppiato un focolaio al 41-bis, cioè nel luogo più isolato”. Perché si rivolge direttamente alla ministra? “Perché ha sempre avuto estrema attenzione per l’argomento. È tra gli esponenti istituzionali che più di altri ha ricordato a cosa serve la pena: una punizione finalizzata al reinserimento sociale”. Che cosa chiedete? “Una riduzione drastica della popolazione detenuta. Tantissimi scontano pene basse in questa situazione di sovraffollamento”. Cosa servirebbe? “Abbiamo suggerito, anche grazie all’onorevole Roberto Giachetti, di rivedere le norme sulla cosiddetta liberazione anticipata speciale”. Significa... “Che ogni detenuto oggi ha diritto a 45 giorni anticipati ogni semestre. Noi chiediamo che il numero sia elevato a 75 giorni a semestre. Ci sono Paesi europei, come la Spagna, che ne scontano 90”. Amnistia e indulto? “Quei provvedimenti restano la via maestra. Perché incidono sui processi pendenti. Dopo un anno di pandemia, i tribunali non riescono a far fronte alla mole di lavoro accumulata. Amnistia e indulto sarebbero un segnale di responsabilità sia verso i detenuti sia verso la comunità che in carcere lavora, a partire dagli agenti. Specie ora che in carcere ci si ammala”. Però i cittadini reclamano sicurezza... “Le persone dovrebbero riflettere su un punto: col trattamento che i detenuti oggi ricevono in carcere, chi entra ladro esce rapinatore. Mi spiego? Le carceri sono scuole di criminalità”. Gli avvocati di Reggio, tramite la Camera penale, chiedono di utilizzare misure alternative alla detenzione... “Hanno ragione, certo. La riforma concepiva il carcere come extrema ratio”. E sul fronte vaccinale? “Il Lazio ha deciso di destinare una quota della imminente fornitura del vaccino monodose Johnson & Johnson alla comunità penitenziaria. È una cosa che si potrebbe fare anche in altre regioni. Ma deve prendere in mano la situazione la ministra Cartabia. Nelle carceri ora si sentono come topi in trappola”. I furbetti del vaccino, anche Draghi cade nella demagogia e nella retorica di Franco Corleone L’Espresso, 12 aprile 2021 La malattia di questo Paese è il populismo diffuso in tutti i settori vitali ed è essenziale ricostruire una comunicazione fondata sulla verità dei fatti. La pandemia è stata il terreno privilegiato in cui si è esercitata la rincorsa di opinioni svariate tutte ammantate di scienza, in realtà non suffragate da dati certi. Televisioni e giornali non riescono a fornire i dati dei casi dei contagi parametrati con la popolazione delle regioni; il numero dei morti non è accompagnato dall’età delle persone e dei luoghi del decesso (in casa, in ospedale, in strutture sanitarie). Il Piano vaccinale rimane un oggetto misterioso e ricco di contraddizioni tra la priorità degli over 80 e le categorie essenziali. Di fronte alle difficoltà della campagna vaccinale Mario Draghi ha ceduto alla logica del capro espiatorio. In questo caso “lo psicologo di 35 anni” e chi salta la fila. Il risultato di questo attacco all’untore di manzoniana memoria è che si bloccano le vaccinazioni nelle carceri e in particolare quelle dei volontari. Il fatto incontestabile è che mancano i vaccini, che un cittadino non può scegliere il vaccino, che la risorsa dei medici di base è bloccata, per non parlare dell’opera delle farmacie. Così la vaccinazione di quaranta milioni di persone è rinviata all’infinito e quello che è un diritto si trasforma in un privilegio da additare al pubblico ludibrio. Giustizia, processi “emergenziali” fino al 31 luglio 2021 di Claudia Morelli altalex.com, 12 aprile 2021 Giustizia: la trattazione in versione “emergenziale” delle cause è prorogata al 31 luglio prossimo (a prescindere dalle scelte del Governo riguardo al termine dell’emergenza sanitaria, per ora fissata al 30 aprile 2021). Nulla cambia per il processo civile e per il processo tributario da remoto, mentre qualche novità è prevista per il processo penale. Intanto la Camera e il Senato approvano il parere sul decreto ministeriale relativo al tariffario delle intercettazioni, trojan compreso. Facciamo il punto dopo Pasqua, iniziando dalle novità e dalle conferme per la Giustizia, previste dal decreto legge “pre-pasquale” n. 44/2021 (Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da Covid-19, in materia di vaccinazioni anti Sars-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici). Proroga del periodo di gestione “emergenziale” dei processi ordinari - Il decreto fissa il nuovo termine al 31 luglio, con la scelta di separare questo termine dalle decisioni del Governo relative alla dichiarazione di emergenza sanitaria. È una questione di certezza, spiega la relazione al decreto legge, imposta dalla richiesta degli operatori “di avere quanto prima indicazioni certe circa la proroga futura di applicazione degli istituti emergenziali, per l’esigenza di programmare le diverse attività avendo chiara contezza di quali saranno le disposizioni in concreto applicabili. In ossequio a questa esigenza, tanto più importante per quegli istituti che onerano le parti di compiere attività prima della udienza (come nel caso delle udienze cartolari), è certamente necessario stabilire già ora se la loro applicazione proseguirà dopo il 30 aprile”. Per il Ministero della Giustizia il “complesso delle disposizioni dettate per l’esercizio dell’attività giurisdizionale durante l’emergenza sanitaria Covid 19 ha dato buona prova di sé e, dopo i vari affinamenti via via operati, non ha incontrato resistenze significative da parte di tutti gli operatori”. Corre l’obbligo di osservare che, a dispetto di quanto leggiamo nella relazione, gli avvocati penalisti si sono astenuti dalle udienze dal 29 al 31 marzo e che gli avvocati civilisti e tributaristi hanno segnalati d dovuto registrare diversi malfunzionamenti, i primi; e la predominante propensione dei giudici tributari alla trattazione scritta delle cause. Ma tant’è. Gli istituti prorogati nel processo civile e penale - Sono quelli previsti dall’articolo 23 (udienze da remoto, camera di consiglio in Cassazione per le cause a trattazione pubblica salvo diversa richiesta, camere di consiglio da remoto, copie esecutive di sentenze e di altri provvedimenti rilasciate con documento informatico), dall’articolo 23 bis (appelli penali in camera di consiglio, salvo richiesta di discussione orale), dall’articolo 23 ter (disposizioni sulla sospensione del corso della prescrizione e dei termini di custodia cautelare nei procedimenti penali, nonché sulla sospensione dei termini nel procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati) e dall’articolo 24 (Disposizioni per la semplificazione delle attività di deposito di atti, documenti e istanze) del decreto legge n. 137/2020 come modificato dalla legge 176/2020. Prorogate al 31 luglio anche le disposizioni dell’articolo 221 del decreto legge n. 34/2020 (udienze cartolari; depositi telematici in Cassazione; udienze in presenza su istanza delle parti; deposito telematici degli atti di indagini preliminari). Le novità del decreto legge “pre pasquale” diverse dal differimento - Si estende la tipologia di procedimenti penali ai quali possono applicarsi (se compatibili) le disposizioni dall’articolo 23 bis, che arriva a comprendere anche i procedimenti di appello contro le ordinane in materia di sequestro preventivo e di revoca, allineandone la disciplina a quella delle misure cautelari personali. In secondo luogo, sono estese al processo penale telematico alcune “cautele” già previste nel PCT, in caso di malfunzionamento dei sistemi e della piattaforma informatica. In particolare, valgono anche per il PPT: a) la tempestività del deposito telematico se è eseguito entro le ore 24 del giorno di scadenza del termine, anche al fine di “rendere inequivoco il funzionamento e il deposito in termini legali sul portale 24 ore su 24; b) viene qualificato il malfunzionamento verificato e accertato come condizione per restituire alla difesa il termine di deposito; c) la possibilità che il giudice, valutato il malfunzionamento e comunque in via eccezionale, ammetta le parti a depositare gli atti in cartaceo. Processo amministrativo - Proroga al 31 luglio della norma dell’articolo 24 del decreto legge n. 137/2020 per la discussione orale da remoto nelle udienze camerali o pubbliche su richiesta di tutte le parti costituite o d’ufficio. Proroga anche per il processo contabile, che subisce altri interventi integrativi alla luce delle difficoltà emerse nel periodo emergenziale. Processo tributario - Proroga al 31 luglio 2021 delle disposizioni previste dall’articolo 27 del decreto legge 137/2020 (udienze da remoto autorizzate con decreto del presidente della commissione tributaria e decisione sullo stato degli atti salvo diversa richiesta delle parti ed eventuale trattazione scritta). Assunzioni e concorsi - Il decreto legge prevede disposizioni sia in materia di differimento del valore delle delle graduatorie del personale del ministero della Giustizia, sia in tema di concorso in magistratura indetto con d.m. 29 ottobre 2019. In particolare è esclusa la prova pre selettiva, mentre è prevista una firma semplificata per quanto riguarda le prove scritte semplificatorie per la prova scritta tra cui lo svolgimento di elaborati sintetici su due delle tre materie “ordinarie”: civile, penale e amministrativo. Di rilievo il passaggio della relazione che specifica come la sinteticità degli elaboratori darà modo alla commissione esaminatrice di “valutare le capacità di sintesi del candidato, profilo che risulta qualificante nell’ambito del bagaglio culturale dei futuri magistrati”. In conseguenza passa da otto ore a quattro il tempo a disposizione per completare la prova scritta di concorso. Decreto ministeriale con il tariffario per le prestazioni funzionali alle intercettazioni La Camera dei Deputati, martedì scorso, ha reso parere favorevole allo schema di decreto ministeriale che stabilisce il tariffario per le prestazioni funzionali alle intercettazioni (si veda La tariffa del trojan), nonostante le numerose critiche provenienti dalle società hi tech, preoccupate di non poter coprire i costi sostenuti per i sistemi informatici - anche in funzione di sicurezza - con le tariffe disposte dal ministero della Giustizia. Nel parere sono formulati alcuni rilievi migliorativi del dm, che però il Ministero è libero di non seguire, volti a rafforzare le garanzie di sicurezza e riservatezza: il riferimento esplicito al rispetto dell’articolo 268 c.p.p. - che sovraintende alle operazioni di intercettazioni- tra gli obblighi dei fornitori delle prestazioni ad assicurare la conservazione e la gestione, mediante canali cifrati, dei dati raccolti negli archivi informatizzati, nel rispetto dei requisiti di sicurezza e della necessità del loro trattamento secondo criteri di riservatezza, disponibilità e integrità, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 268 del codice di procedura penale; inoltre, con specifico riferimento alla categoria “intercettazioni delle comunicazioni di tipo informatico o telematico (attiva attraverso captatore elettronico)”, limitare il riferimento all’acquisizione “della rubrica dei contatti, della galleria fotografica e dei video realizzati o comunque presenti, delle password, con funzione di keylogger”, quando non rientri nei flussi di comunicazione, all’ambito dell’attività di indagine sottoposta alle condizioni di cui agli articolo 247 e seguenti del codice di procedura penale. La presunzione di innocenza non censura condanne e processi di Giuseppe Pignatone La Stampa, 12 aprile 2021 La Camera ha recepito la direttiva Ue: più tutele agli imputati, ma senza limitare la cronaca. Il 30 marzo la Camera ha approvato il recepimento della direttiva europea 234/16 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza. Un passo che era stato ritenuto superfluo solo tre anni fa dal governo Gentiloni, allorché si ritenne che nel nostro Paese tali indicazioni fossero già garantite dalle leggi vigenti, in primo luogo dall’articolo 27 della Costituzione che prevede la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva. Al centro del recente dibattito c’è stata, in particolare, quella parte della direttiva che recita: “Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o di un imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche non presentino la persona come colpevole”. Per formulare un giudizio completo sulla nuova normativa sarà necessario attendere le ulteriori misure che (e se) saranno adottate, ma il recepimento è comunque un fatto positivo perché sottolinea l’esigenza di tutelare l’immagine del cittadino indagato o imputato, ponendo in particolare l’accento su quali informazioni vadano rilasciate e in quale modo, dall’autorità pubblica. Cioè, nel nostro sistema, in primo luogo dalle Procure e dalla polizia giudiziaria. Su alcuni punti, però, è necessario evitare equivoci. Se, per restare al caso più frequente e significativo, la notizia è costituita dall’esecuzione di una misura cautelare disposta dal Gip, oggetto dell’informazione non possono che essere i fatti addebitati e gli elementi a sostegno delle decisioni del giudice. In questo frangente, sarebbe un controsenso presentare la persona indagata come certamente innocente. Cosa diversa e doverosa è, invece, porre in rilievo che si tratta solo di una fase - importante, ma non definitiva - di una procedura complessa, solo al termine della quale la colpevolezza sarà accertata da una sentenza irrevocabile. Ma questa precisazione non è nella disponibilità del Pm o della polizia giudiziaria, perché dipende solo dalla libera scelta del giornalista. Nella mia lunga esperienza, ho potuto constatare che solo in rari casi gli organi di informazione hanno dato atto della presunzione di non colpevolezza dell’indagato nonché del carattere non definitivo del provvedimento, che io stesso o altri colleghi avevamo sempre avuto cura di sottolineare in sede di conferenza stampa o di incontri informali con i giornalisti. Considerazioni analoghe valgono per le modalità della comunicazione che deve aver luogo - come più volte precisato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, anche in una sentenza del 1995, peraltro non riferita a vicende italiane - “con tutta la discrezione e il riserbo imposti dalla presunzione di innocenza”. Anche qui si sta parlando di scelte (collocazione ed evidenza di una notizia, titolazione, spazio accordato alle parti), del tutto libere e sotto la esclusiva responsabilità di direttori, giornalisti, editori. Di nessun altro. Certo, su ognuno di questi aspetti possono incidere interventi impropri, abusi e irregolarità di comportamento di singoli magistrati: queste vere e proprie patologie vanno perseguite applicando le norme disciplinari esistenti (Dlgs 109/06), senza dimenticare che anche il ministro della Giustizia ha poteri d’iniziativa in questo campo. Le dichiarazioni di alcuni esponenti politici e le tesi di alcuni organi di stampa, sembrano attribuire al recepimento della direttiva europea anche un altro significato: le autorità pubbliche non dovrebbero diffondere informazioni sulle indagini o sui processi. Non è così, come risulta chiaramente dal testo stesso della norma. Anzi, quelle autorità possono e - sotto certi aspetti devono - fornire tali notizie, ovviamente nel rigoroso rispetto di quanto consentito dalla legge e cioè quando è venuto meno il segreto investigativo. Infatti, come ha osservato anche Giorgio Spangher, studioso certo molto attento alle garanzie dell’indagato, il principio di non colpevolezza richiamato dalla direttiva deve trovare un punto di equilibrio con altri principi costituzionali di non minore rilievo, tra cui il diritto di cronaca, espressione della libertà di manifestazione del pensiero sancita dall’articolo 21 della Costituzione. In un ordinamento democratico non è pensabile, ad esempio, che i cittadini non vengano informati sul motivo che ha portato all’arresto del sindaco della loro città, o di quanto emerge da indagini in materia di mafia o terrorismo. Anzi, a mio avviso le autorità hanno il dovere di spiegare il loro operato per sottoporlo al giudizio della pubblica opinione e dei media. Tale controllo è un aspetto irrinunciabile del principio di responsabilità, valido per chiunque eserciti un potere ed è un incentivo fortissimo al buon esercizio della giurisdizione. Ma vi è di più. Come afferma Glauco Giostra, che ha molto approfondito queste tematiche, “l’accesso della pubblica opinione alla giustizia penale non si pone in termini di opportunità, ma di necessità politica: per un ordinamento democratico moderno è inconcepibile una giustizia segreta”, che rischierebbe di diventare “torbido strumento di affermazione di parte”, determinando una “gravissima involuzione civile e democratica”. Questo è tanto più vero in una società conflittuale come la nostra, in cui indagini e processi sono utilizzati strumentalmente in ogni campo - economico, finanziario, sociale - e troppo spesso, per ragioni risalenti alla storia stessa del nostro Paese, come arma di lotta politica. Accanto alle responsabilità di alcuni magistrati - che, ribadisco, vanno perseguite - emerge qui con forza il problema di un giornalismo più incline ad anticipare future (e solo eventuali) condanne, specie se in danno di un avversario politico, piuttosto che, come nota un grande giurista, Mario Chiavario, “a vigilare senza guardare in faccia nessuno, contro inerzie, insabbiamenti e depistaggi. Come è invece suo preciso diritto e dovere”. In buona sostanza, per usare le recenti parole della giornalista Gaia Tortora (figlia di Enzo, la cui tragica vicenda giudiziaria è nella memoria del Paese) “il problema è profondamente culturale e tocca tutti gli attori in gioco: magistratura, giornalisti, opinione pubblica”. Lo scandalo più grande resta l’abuso della custodia cautelare di Alfredo Sorge Il Riformista, 12 aprile 2021 I dati sugli errori giudiziari impongono una riflessione sul tema che è tra i più delicati non soltanto del processo penale ma dello stesso patto sociale democratico, essendo questo il momento in cui lo Stato è chiamato a riparare i danni a quei cittadini che hanno subito un periodo di tempo in regime di arresti e sono poi stati pienamente assolti in modo definitivo. Com’è noto, la legge non permette di ottenere un vero risarcimento ma limita a chiedere e ottenere una somma a titolo di riparazione parametrata su dati quali forma e durata della detenzione, danno d’immagine e perdita di chance che quella detenzione preventiva ebbe a causare. Dunque, si tratta di somme in qualche modo già parametrate e contenute in un limite massimo liquidabile pari a 516mila euro. In base al dato normativo, la liquidazione viene limitata ai casi in cui l’avente diritto non abbia dato causa alla sua detenzione per dolo o colpa grave e che alcuni orientamenti giurisprudenziali non hanno mancato di dilatare quanto più è possibile il concetto di colpa grave, fino a ricomprendere casi invero assai discutibili, come quello dell’essersi avvalso della facoltà di non rispondere, censurando cioè il malcapitato tratto in arresto di non aver egli chiarito dal principio la infondatezza della ipotesi accusatoria cautelare (!): un cortocircuito logico palese a tutti. Eppure i casi sono davvero tanti e cospicuo l’importo delle somme erogate a titolo di riparazione cospicuo. E il distretto di Napoli, purtroppo, svetta nelle statistiche. La riflessione principale che occorre svolgere, che è poi anche la causa del triste fenomeno, è quella relativa all’eccessivo ricorso alla custodia cautelare carceraria e domiciliare. Ciò in quanto non è certo l’esito assolutorio del processo che deve destar sorpresa, ché anzi l’assoluzione dell’imputato è una delle fisiologiche conclusioni di un giudizio laddove, davanti ad un giudice terzo, ha luogo la verifica della ipotesi accusatoria: le statistiche, com’è noto, riferiscono di un numero considerevole di assoluzioni o di proscioglimenti dell’esito dei procedimenti penali. Quel che è patologico è che l’imputato debba attendere da detenuto lo svolgimento e la conclusione del suo processo, purtroppo non breve (anche a causa dell’assurdo allungamento dei termini di prescrizione) o comunque dopo un periodo spesso lungo di custodia cautelare. Patologico perché, nella scelta del nostro Legislatore e soprattutto in base alla Costituzione, l’imputato si presume innocente fino a condanna definitiva e la detenzione va riservata soltanto a casi limite, in presenza di indizi gravi di reato e di concrete e attuali esigenze cautelari, ovvero seri e obiettivi pericoli di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove, condizioni che andrebbero limitate a pochi titoli di reato e a poche fattispecie. Qui dobbiamo ricordare che anche le ultime riforme, a cominciare da quella del 2015, non hanno sortito gli sperati riflessi riduttivi dell’eccesso cautelare nella applicazione giudiziaria. Il discorso deve allargarsi alla tematica, sempre presente, che non deve vedere nel carcere la soluzione dei problemi della società, tantomeno quando si parla di carcerazione prima di una sentenza definitiva di condanna e soprattutto quando si parla dei troppi casi di carcerazione preventiva prima di una condanna perfino di primo grado. A mio parere il problema è di tipo culturale: il processo penale è oggi troppo sbilanciato a vantaggio della pubblica accusa che, per uomini, mezzi e dotazioni economiche, spesso è in grado di avere la meglio nella fase delle indagini, favorita anche da norme processuali assai criticabili. Ma ciò non accade nella fase del dibattimento laddove, davanti a un giudice terzo nella pienezza dei suoi poteri, si perviene all’esito assolutorio che sancisce l’ingiustizia della detenzione cautelare. L’auspicio, dunque, è quello a una sempre minore detenzione preventiva, da ridurre soltanto a casi e a periodi temporali in cui la stessa appare indispensabile: solo così diminuirà l’entità delle somme che lo Stato dovrà erogare alle vittime di ingiusta detenzione. La giustizia ingiusta, il conto ai cittadini di Andrea Valesini L’Eco di Bergamo, 12 aprile 2021 Ogni professione è a rischio di errori, per limiti personali, per distrazione, per incompetenza o per sciatteria. Per alcune - come il magistrato o il medico - lo svarione è più pericoloso perché hanno in mano il destino delle persone. Negli ultimi anni la Procura di Trapani ha intercettato e sorvegliato le telefonate di molti giornalisti italiani e stranieri esperti di immigrazione e Libia, trascrivendo i contenuti delle loro conversazioni con colleghi, fonti e avvocati nonostante non fossero indagati. I rapporti confidenziali dei cronisti con le loro fonti sono protetti dalla legge e la sorveglianza telefonica di persone non indagate dovrebbe avvenire solo in casi rari ed eccezionali. Le intercettazioni sono state fatte nell’ambito di un’indagine avviata nel 2016 sull’attività di alcune Ong che operavano nel Mediterraneo per salvare i migranti a rischio naufragio. L’inchiesta si è conclusa a inizio marzo e, secondo alcuni quotidiani, verrà chiesto il rinvio a giudizio per 21 persone. Tra i documenti depositati dalla Procura alla chiusura delle indagini ci sono circa 300 pagine di trascrizioni di conversazioni dei giornalisti, ritenute irrilevanti ai fini dell’inchiesta: ma, contrariamente alla procedura, anziché essere eliminate sono state allegate agli atti, nei quali sono espressi anche giudizi gravi e ideologici, prefigurando un pregiudizio da parte degli inquirenti. Come l’equiparare i volontari ai trafficanti libici, perché “entrambi considerano i migranti una merce preziosa e non naufraghi da salvare”. La ministra della Giustizia Marta Cartabia ha disposto accertamenti sull’inchiesta di Trapani. In questo caso è evidente che siamo in presenza di un errore, addirittura di un abuso doloso della Procura siciliana. Certo, i quotidiani nazionali non si fanno molte remore a pubblicare carte d’indagini coperte dal segreto istruttorio, né intercettazioni prive di rilievo penale, con l’effetto di rovinare la reputazione di persone citate ma fuori dall’inchiesta. La somma di due abusi (i cronisti intercettati e la disinvoltura dei quotidiani sulla giudiziaria) però non fa zero ma due. Intanto proprio in questi giorni il gruppo “Errorigiudiziari.com” ha reso noto l’ammontare dell’esborso da parte dello Stato (cioè di noi cittadini) nel 2020 per errori giudiziari appunto e per ingiusta detenzione: 46 milioni di euro, 37 per la prima voce e 9 per la seconda. Dal 1991 l’esborso è di 870 milioni per 29.656 casi. Si tratta di numeri che sottostimano in particolare il problema dell’ingiusta detenzione: sono centinaia le persone che ogni anno rinunciano a fare domanda d’indennizzo perché non possono permettersi ulteriori spese legali a fronte di un risarcimento che non ripara il danno (235,82 euro per ogni giorno di carcere e 117,50 per l’arresto domiciliare). Il riconoscimento poi ha un iter complesso: può accedervi solo chi, dopo una condanna definitiva, fa domanda alla Corte d’Appello e, in caso di bocciatura, può ricorrere in Cassazione. Riforma della giustizia, torna di moda la mediazione di Isidoro Trovato Corriere della Sera, 12 aprile 2021 Dove lo strumento è obbligatorio i ricorsi ai Tribunali diminuiscono fino al 65%. Gli avvocati: noi fondamentali anche nella conciliazione. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, è stata chiara nelle sue linee programmatiche: per affrontare il gigantesco ritardo della giustizia civile sarà fondamentale rafforzare gli strumenti di mediazione dei conflitti. Un’apertura di credito che riapre vecchi dibattiti in seno all’avvocatura italiana in passato tutt’altro che favorevole alla mediazione obbligatoria. “Partiamo da un aspetto di comunicazione - afferma Leonardo D’urso, presidente di Adr center, un organismo di mediazione tra i più importanti in Italia. Non esiste un obbligo di mediazione: per il 15% delle materie della giustizia civile, c’è l’obbligo solo di partecipare ad un primo incontro tra le parti per capire se ci sono margini di accordo tramite mediazione. La decisione di proseguire oltre al primo incontro è sempre effetto della volontà delle parti”. I numeri - In compenso però sono impressionanti i numeri della mediazione, nelle discipline in cui c’è l’obbligo di un primo incontro conoscitivo. “I numeri - continua D’urso - evidenziano che su materie come locazione, successione, usucapione l’utilizzo della mediazione diminuisce il ricorso ai Tribunali dal 35 al 65% dei casi. Un incentivo alle mediazioni darebbe un impulso allo smaltimento delle cause in corso che è il vero problema che genera lentezza nel nostro sistema giudiziario”. Servono incentivi o esistono settori di espansione della mediazione? “Per estendere l’efficacia della procedura - suggerisce il co fondatore di Adr center - ci sono varie opzioni: a cominciare dalla possibile estensione dell’obbligatorietà del primo incontro a tutta l’area della contrattualistica”. L’avvocatura - E poi c’è il tema dei costi: di recente l’unione camere civili ha espresso “preoccupazione per l’ipotesi di introdurre oneri aggiuntivi per l’accesso alla giustizia, che non deve diventare un privilegio per pochi e, soprattutto, per ricchi”. Un chiaro riferimento a costi aggiuntivi della mediazione. “Intendiamoci su un punto - chiarisce D’urso. Quel primo incontro obbligatorio costa circa 40 euro. Se invece parliamo dei costi di un’intera mediazione, si dovrebbe dare attuazione al credito d’imposta per le spese fino a 250 euro per le mediazioni che non hanno avuto buon esito e 500 per quelle andate a buon fine. È una norma che già esiste, bisognerebbe solo finanziarla”. Ma c’è una parte di avvocatura pronta a dialogare e a trovare un accordo. “Gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie- afferma il segretario generale dell’associazione nazionale forense Luigi Pansini - impongono un approccio collaborativo e implicano una competenza del mediatore e dell’avvocato in mediazione che non può prescindere da una costante formazione e da un elevato tasso di specializzazione. È necessario armonizzare e coordinare i diversi strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, con particolare riferimento ai rapporti tra la negoziazione assistita e la mediazione. Infine, è necessario ribadire il ruolo dell’avvocato in mediazione che deve essere di assistenza, anche per intervenire sul regime di responsabilità, distinguendo la fase giurisdizionale da quella stragiudiziale”. “No al sorteggio per eleggere il Csm, ma il Consiglio non abdichi al suo dovere di scegliere” di Liana Milella La Repubblica, 12 aprile 2021 La vicepresidente aggiunta dei Gip di Milano Ezia Maccora critica la scelta del Csm di ricorrere al sorteggio per i futuri componenti delle commissioni che selezioneranno i giovani magistrati. Il sorteggio per i futuri componenti delle commissioni che sceglieranno i nuovi magistrati? “Una rinuncia a selezionare i colleghi più adatti, compito affidato al Csm”. Quindi un passo che mette in discussione l’esistenza stessa del Consiglio? “Di certo una decisione rinunciataria, perché il Consiglio deve sempre essere in grado di esprimere una discrezionalità trasparente”. Ezia Maccora è il presidente aggiunto dei gip di Milano. È stata gip a Bergamo e ha preso decisioni importanti sul caso Yara. Ma è stata anche consigliera togata del Csm negli anni 2010-2014. Da sempre è di Magistratura democratica ed è vicedirettrice della Rivista online Questione Giustizia. Come spiega a Repubblica il suo giudizio sulla scelta del sorteggio appena fatta dal Csm è “del tutto negativo”. Per una coincidenza oggi, e domani fino alle 14, le oltre 9mila toghe italiane voteranno per eleggere - ed è la terza volta con le suppletive dopo il caso Palamara - un togato del Csm dopo le dimissioni del giudice di Unicost Marco Mancinetti. In corsa Maria Tiziana Balduini, presidente di sezione al Tribunale di Roma, per Magistratura indipendente; Marco D’Orazi, giudice a Bologna, per Autonomia e indipendenza; Mario Cigna, presidente di sezione al tribunale di Lecce per Unicost; Luca Minniti, giudice a Firenze, per Area. Maccora ci dica la verità, lei è contro il caso specifico, cioè la decisione di sorteggiare i futuri componenti delle commissioni d’esame delle giovani toghe, oppure è la parola stessa “sorteggio”, e tutto quello che evoca, compreso il rischio che anche i consiglieri del Csm siano scelti con questo sistema, a metterla in ansia? “Trovo incompatibile la parola sorteggio con l’istituzione Csm, con la sua elezione, le sue prerogative e le sue competenze. Però ammetterà che, politicamente, parlare di sorteggio proprio oggi, alla vigilia della decisione del governo sulla futura legge elettorale del Csm, è come aprire una porta. Non le pare? “Mi sembra che i consiglieri abbiano precisato che si tratta di una scelta molto limitata che non può essere estesa alla legge elettorale del Consiglio. E non potrebbe essere diversamente. La Costituzione prevede l’elettività dei componenti, e quindi si tratta di una selezione fondata su base fiduciaria perché, nell’esprimere il voto, l’elettore riconosce idoneità, capacità, valenza istituzionale al soggetto che sceglie, il che è incompatibile con una sua individuazione affidata al caso. Inoltre il Consiglio superiore non è un semplice consiglio di amministrazione, ma un’istituzione di garanzia, rappresentativa di idee, di prospettive, di orientamenti su come si effettua il governo della magistratura e su come si organizza il servizio di giustizia. E il sorteggio è decisamente incompatibile con tali prerogative”. Lei è stata al Csm, ci spiega perché questa “non scelta” la preoccupa? Ci legge una sorta di rinuncia dei suoi colleghi? Come hanno detto Ciccio Zaccaro e Giuseppe Cascini di Area, che in questo caso sono a favore del sorteggio, “in passato la composizione della commissione ha favorito amici o colleghi di corrente”... “Ho un’esperienza positiva della nomina dei commissari per il concorso in magistratura effettuata nella mia consiliatura quando nominammo due commissioni. Ci fu una preselezione per titoli che valorizzò le attitudini specifiche-didattiche sulla base di quanto indicato nel bando (titoli scientifici, pubblicazioni di provvedimenti, esperienze didattiche). In quell’esperienza non ho mai riscontrato forzature o opacità nella selezione. E non credo di essere stata Alice nel paese delle meraviglie”. Lei cosa avrebbe fatto se fosse stata al Csm? Avrebbe votato per selezionare i futuri commissari d’esame? “Avrei mantenuto il sistema che valorizzava le attitudini specifiche eventualmente perfezionando ulteriormente la preselezione, ma non mi sarei rassegnata a non scegliere, anche perché non credo che siamo tutti capaci di fare tutto. Ci sono, in ognuno di noi, attitudini diverse che devono essere tenute in considerazione. Il bravo magistrato non necessariamente è un bravo selezionatore o un bravo organizzatore. E non si tratta di fare una graduatoria dei più bravi, ma solo di assecondare le attitudini specifiche per ottenere risultati soddisfacenti nei diversi settori interessati”. Nelle vostre mailing list e nelle chat c’è un ribollire di proteste. Ma c’è anche chi - come Andrea Reale di Articolo Centouno - dice sì al sorteggio per scegliere il futuro Csm. Lei lo ritiene un errore, o peggio un vulnus alla Costituzione? “Il sorteggio per l’elezione dei componenti togati è incostituzionale, come molti costituzionalisti hanno da tempo evidenziato. È il sistema più irrazionale di tutti, sottrarrebbe gli eletti a ogni valutazione di capacità da parte degli elettori e aggiungerebbe la forte componente personale di chi, essendo svincolato da ogni responsabilità, potrebbe sentirsi autorizzato a fare di tutto”. Eppure, vede che c’è chi lo sostiene... “Chi lo propone parte dal presupposto che un bravo magistrato, capace di emettere una condanna all’ergastolo o giudicare una complessa controversia bancaria o societaria, non può che essere bravo anche nel ruolo di componente del consiglio. Ma non è così, si tratta di funzioni molto diverse, e non tutti siamo adatti a tutto. Una cosa è la professionalità giudiziaria, intesa come idoneità all’esercizio della funzione giurisdizionale virtualmente riconosciuta a tutti i magistrati, altra cosa è la capacità di governo e di gestione della magistratura e del servizio di giustizia che è la funzione tipica del Consiglio superiore e che richiede competenze completamente diverse che non possono essere affidate alla sorte”. Mi dica la sua impressione: questo Consiglio, e in fondo tutta la magistratura, è sotto schiaffo per la nota vicenda Palamara che si è trasformata, nel giudizio mediatico, nel considerare tutti i magistrati come una categoria dedita a pratiche clientelari? “La magistratura è un corpo sano e la sua storia importante non può essere riscritta e mistificata. Certo i magistrati sono chiamati oggi a una riflessione profonda sulla crisi dell’autogoverno e dell’associazionismo, ma credo che abbiano tutte le capacità e la forza per farlo, partendo da una seria autocritica in relazione a ciò che non va, ma non rinunciando a esercitare con piena trasparenza le prerogative proprie di un organo di rilievo costituzionale, e senza sentirsi sotto scacco di nessuno. Solo così i cittadini potranno riacquistare fiducia nell’imparzialità dei giudici e nella loro professionalità”. Per chiudere con una battuta. Secondo lei la parola “sorteggio” andrebbe bandita dalle future delibere del Csm? “Credo che il mio pensiero al riguardo sia chiaro”. Nell’anno della pandemia meno omicidi, ma più femminicidi e i reati informatici di Agnese Ananasso La Repubblica, 12 aprile 2021 I dati sulla diffusione del crimine diffusi dalla Polizia che venerdì ha festeggiato il 169esimo anniversario della fondazione. Nell’ultimo anno in Italia sono diminuiti gli omicidi ma cresciuti i femminicidi. Si sono moltiplicati i reati informatici, in particolare la pedopornografia e il revenge porn. Nel giorno del 169esimo anniversario della fondazione della Polizia di Stato, sono questi alcuni dei dati diramati sull’attività svolta nell’anno della pandemia dal personale della Pubblica sicurezza. E anche quest’anno, a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia le celebrazioni si svolgono all’insegna della sobrietà. Questa mattina, il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, accompagnata dal capo della Polizia, Lamberto Giannini depone una corona d’alloro al Sacrario dei Caduti presso la Scuola superiore di polizia. Subito dopo la rassegna dello schieramento e la lettura del messaggio del Presidente Sergio Mattarella, il ministro dell’Interno consegna la medaglia d’oro al merito civile, conferita dal presidente alla Bandiera della Polizia di Stato. Mai come ora, in questo anno di pandemia, la Polizia di Stato ha avuto un ruolo fondamentale, dando il proprio contributo sia in termini di sicurezza che di servizio sanitario. Servizio sanitario - Nell’ultimo anno il servizio sanitario è stato molto impegnato nelle attività legate alla pandemia. In particolare sono stati distribuiti, su tutto il territorio nazionale, per le esigenze della Polizia, 15.684.250 tra dispositivi di protezione individuali (dalle mascherine ai sovra scarpe) e materiale igienico sanitario. Sono stati attivati dei servizi di supporto psicologico e informativo per fronteggiare la fase emergenziale ed è stato dato sostegno alle attività del Policlinico militare Celio di Roma, con l’invio presso il reparto di terapia intensiva, di 2 medici specialisti in anestesia e rianimazione. Il personale della Polizia ha fornito aiuto sanitario a 360 gradi, dall’esecuzione di esami diagnostici ai tamponi, dal monitoraggio dell’andamento pandemico alla gestione delle quarantene degli operatori. Sanzioni anti-Covid - Nel corso dell’ultimo anno sono state controllate quasi 38 milioni di persone nell’ambito delle verifiche sulle restrizioni anti-Covid, quasi 500mila sono state sanzionate e 5.600 sono state denunciate per false dichiarazioni o autocertificazioni, quasi 4000 per essersi allontanate dalla propria dimora nonostante i divieti. Sono stati controllati anche 9 milioni e 600mila esercizi commerciali, di cui quasi 19mila sanzionati, 2.600 denunciati e circa 3.800 chiusi temporaneamente. Ordine pubblico - Nel 2020 gli agenti sono stati impegnati dalle attività connesse all’emergenza, sia in funzione di controllo al rispetto delle misure finalizzate al contenimento del contagio del virus, sia di gestione di iniziative di piazza, anche a carattere estemporaneo, in segno di protesta contro i provvedimenti governativi. Per le globali esigenze di ordine pubblico è stata disposta la movimentazione in ambito nazionale di 542.645 unità di rinforzo, di cui 517.132 dei reparti mobili. Complessivamente si sono registrate 11.378 manifestazioni di forte interesse per l’ordine pubblico, di cui 5.881 su temi politici, 3.555 a carattere sindacale-occupazionale, 268 studentesche, 563 sulle problematiche dell’immigrazione, 547 a tutela dell’ambiente, 67 a carattere antimilitarista e 497 su altre tematiche. Nel corso di 331 eventi si sono verificate turbative dell’ordine pubblico: 87 persone sono state arrestate e 3.718 denunciate in stato di libertà, mentre 182 poliziotti hanno riportato lesioni varie. Come già rilevato all’inaugurazione dell’anno giudiziario, nel 2020 si registra una riduzione dei reati rispetto al 2019: anche a causa della pandemia, si sono ridotti sensibilmente i reati contro il patrimonio e la persona, come furti, rapine e ricettazione, lesioni, percosse e violenze sessuali. Mentre i delitti informatici registrano un trend in aumento. Diminuiscono gli omicidi ma non i femminicidi, che fanno registrare, anzi, un aumento: resta invariato il dato delle donne uccise da partner o ex partner. Sono stati infatti 275 gli omicidi commessi, di cui 113 a danno delle donne (nel 2019 erano 111) e 144 in ambito familiare o affettivo. Tra questi ultimi 99 vittime erano di sesso femminile, 67 sono commessi da partner o ex partner. Reati telematici - Tra i reati in aumento sono quelli legati a Internet. Il Centro nazionale per il contrasto della pedopornografia on line (Cncpo) ha coordinato 3.243 attività d’indagine che hanno consentito di indagare 1.261 soggetti. Sono stati analizzati i contenuti di 34.120 siti web, di cui 2.446 inseriti nella black-list per inibirne l’accesso dal territorio italiano. Frequente l’adescamento online, con 401 eventi trattati e un allarmante incremento di vittime d’età compresa tra 0-9 anni; 118 sono stati i minori denunciati all’Autorità Giudiziaria per condotte delittuose riconducibili al fenomeno del cyberbullismo e 412 i casi complessivamente trattati. Per quanto riguarda il contrasto dei reati contro la persona perpetrati sulla Rete, sono stati trattati 1.772 casi, arrestate 10 persone e indagati 378 soggetti responsabili di aver commesso estorsioni a sfondo sessuale, stalking, molestie, minacce e ingiurie. Per ciò che riguarda il reato di diffamazione online sono stati trattati 2.227 casi e indagate 901 persone. Risulta in costante aumento l’attività di contrasto al revenge porn, con 126 casi e 59 indagati. Molta attenzione è stata data anche al contrasto dei reati d’incitamento all’odio, soprattutto per gli atti intimidatori contro i giornalisti. Si registra la continua crescita delle truffe on line: sono state ricevute e trattate oltre 93.300 segnalazioni che hanno consentito di indagare 3.860 persone. Sono inoltre stati gestiti 509 attacchi a sistemi informatici di strutture nazionali di rilievo strategico, 69 richieste di cooperazione nel circuito High tech crime emergency e avviato 103 indagini con 105 persone indagate. Intensa l’attività di prevenzione con la diramazione di 83.416 alert. In materia di cyber-terrorismo sono state denunciate 18 persone, di cui una tratta in arresto. Sono stati, altresì, visionati 37.081 spazi web, per individuare contenuti di propaganda islamica, in 85 casi sono stati rilevati contenuti illeciti. Particolare attenzione è stata rivolta al fenomeno della disinformazione, amplificato dall’emergenza Covid-19, che ha visto la proliferazione delle fake news, a fronte delle quali sono stati predisposti 137 specifici alert. Il dramma di Antonio Vaccarino, da collaboratore di Mori al rischio morte in carcere di Leonardo Berneri Il Riformista, 12 aprile 2021 Ha 76 anni, gravemente malato ed è in attesa di giudizio recluso nel carcere di Catanzaro. Ma, come se non bastasse, ha da poco contratto anche il Covid-19. La stessa direzione sanitaria del carcere dice che non riesce a monitorarlo visto che, a causa del contagio, è posto in quarantena in un altro reparto. Ma nulla, per i giudici non è il caso di mandarlo ai domiciliari. Parliamo di Antonio Vaccarino, già vittima di malagiustizia, tanto da essere stato recluso ingiustamente nel supercarcere di Pianosa. Nei primi anni del 2000 ha collaborato con i servizi segreti capitanati da Mario Mori per la cattura di Matteo Messina Denaro. Operazione vanificata a causa di una fuga di notizie. Recentemente ha collaborato con la procura di Caltanissetta, tanto da essere risultato importante per fornire elementi utili che hanno contribuito a portare alla condanna recente del super latitante come uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Ma ancora una volta, la procura di Palermo l’ha inquisito e ottenuto la condanna di primo grado per aver favorito la latitanza di Matteo Messina Denaro. Vaccarino ora è in pericolo di vita: è anche a rischio infarto visto che è affetto da cardiopatia ischemica, ipertensione arteriosa, aritmia per fibrillazione atriale persistente. Il mancato impianto di pacemaker, consigliato dai periti, e la somministrazione del farmaco Cardior sta esponendo l’uomo ultrasettantenne a rischio blocco cardiaco e, conseguentemente, la morte. Senza contare che durante la detenzione ha già subito un ricovero urgente in ospedale, ma è stato dimesso troppo presto. Tant’è vero - così si legge in una delle innumerevoli istanze presentate dai suoi avvocati Laura Baldassarre e Giovanna Angelo - che al rientro del centro clinico interno al carcere, gli stessi medici hanno accertato che il detenuto in attesa di giudizio stava ancora male. Lo hanno sottoposto a una coronarografia presso l’ospedale Pugliese di Catanzaro e sono state diagnosticate altre patologie legate al cuore, oltre alla sindrome ansioso - depressiva. Istanze rigettate anche in quel caso, nonostante la pandemia e il rischio contagio. Poi è arrivato il covid. Un enorme focolaio all’interno del carcere di Catanzaro che ha coinvolto anche Vaccarino. Gli stessi medici scrivono testualmente nella relazione che “non sarà possibile effettuare quella assidua attività di controllo clinico prevista per la patologia”. Ma per la Corte d’appello competente per ottenere i domiciliari, Vaccarino deve rimanere comunque in una struttura penitenziaria. Nell’ordinanza di rigetto, i giudici della Corte ordinano al Dap di trasferire il detenuto presso un altro carcere che possa garantire la cura del Covid e l’assidua attività di controllo clinico che necessita l’uomo anziano. Sarà una impresa non facile per l’amministrazione penitenziaria individuare una struttura penitenziaria adatta: c’è il sovraffollamento con la conseguente difficoltà nel contenere i focolai. Vaccarino è stato sindaco di Castelvetrano e apparteneva alla corrente manniniana della Democrazia Cristiana. Il suo nome compare nel famoso rapporto di Amnesty International del 1993 in cui vengono denunciate le torture che avvenivano nel supercarcere di Pianosa riaperto dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Torture pesanti, dai pestaggi all’illuminazione delle celle 24 ore su 24, raccolte anche dai magistrati di sorveglianza. Parliamo di un uomo che finì recluso per associazione mafiosa grazie alle parole di un pentito - tale Vincenzo Calcara - che in seguito sarà dichiarato inattendibile da diversi tribunali. Vaccarino verrà assolto per l’accusa di 416 bis e di recente ha ottenuto la revisione di un processo dove l’accusa si era basata sempre sulle parole di Calcara. Più volte Vaccarino viene tirato in ballo dalla procura di Palermo. L’ennesima volta risale al 16 aprile del 2019. L’accusa - poi confermata dal tribunale (primo grado) di Marsala - è di favoreggiamento aggravato alla mafia, per un’indagine che ha visto coinvolti anche un colonnello della Dia che lavorava per la Procura di Caltanissetta (il colonnello Marco Zappalà) e un appuntato in servizio a Castelvetrano (Giuseppe Barcellona), in merito a informazioni su indagini che riguardavano il boss latitante Matteo Messina Denaro. Tutti e tre sono stati accusati a vario titolo dalla Dda di Palermo di “accesso abusivo a un sistema informatico” e “rivelazione di segreti d’ufficio” e inoltre all’ex sindaco Vaccarino viene contestata l’aggravante di aver favorito Cosa nostra e la latitanza di Matteo Messina Denaro. E pensare che il Tribunale del Riesame di Palermo, al quale si era rivolto Vaccarino, aveva annullato il provvedimento di custodia cautelare, non rilevando la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza. Anzi per il Tribunale del Riesame, lo scopo di Antonio Vaccarino era quello di ingraziarsi il titolare di un’agenzia funebre in passato condannato per mafia, tale Vincenzo Sant’Angelo, per ottenere da lui informazioni sul contesto mafioso di Castelvetrano, da girare al colonnello della Dia Zappalà. Dopo qualche tempo, però, arriva il dietro front. La procura di Palermo è ricorsa in Cassazione che ha annullato il provvedimento, inviandolo nuovamente al Tribunale del Riesame. Questa volta il provvedimento viene ribaltato e a gennaio del 2020 Vaccarino viene rimandato in carcere. Poi il processo, e a luglio scorso arriva la condanna a sei anni di carcere. Da una parte abbiamo la procura di Palermo che considera un delinquente Vaccarino, dall’altra la procura di Caltanissetta che l’ha considerato utile per capire i misteri delle stragi del 1992 e per far condannare Matteo Messina Denaro. In realtà, a causa di una fuga di notizie, grazie proprio alla sua passata collaborazione con l’allora Sisde, diretto all’epoca da Mario Mori, l’ex sindaco Vaccarino aveva ricevuto una minaccia direttamente dal superlatitante Matteo Messina Denaro. L’operazione d’intelligence era durata dai primi di ottobre 2004 fino a una buona parte del 2006. In sostanza Vaccarino era riuscito a intraprendere dei contatti epistolari con il latitante. Poi tutta l’operazione si fermò quando ci fu una fuga di notizie e un’indagine - poi subito archiviata - della procura di Palermo proprio sul fatto che Vaccarino scrivesse i pizzini al superlatitante firmandosi “Svetonio”, pseudonimo indicato proprio da Matteo Messina Denaro. L’epistolario di “Alessio” (così invece amava firmarsi il super latitante), minuziosamente argomentato, talora orgoglioso e nello stesso tempo strategicamente vittimistico, è pubblico e si trova in un libro reperibile su Amazon. Matteo Messina Denaro cita Jorge Amado, scrive che la giustizia è marcia fin dalle fondamenta e dice di pensarla come Toni Negri. Non esita a bollare come “venditore di fumo” chi allora dirigeva il Paese, ovvero Silvio Berlusconi. Addirittura parla di questioni interiori. Il metodo di quella operazione è quello classico che Mori ha sempre adottato anche quando era ai Ros. Non solo catturare direttamente il latitante, ma anche individuare i suoi circuiti di fiancheggiamento e attività imprenditoriali illecite legate agli appalti. “Attraverso quindi i contatti che il signor Vaccarino fu sollecitato a prendere nell’ambito delle sue conoscenze dell’entourage di Messina Denaro - ha spiegato Mori durante il recente processo che ha visto come imputato Vaccarino -, verso l’ottobre del 2004 arrivò una lettera al Vaccarino tramite un circuito specifico di corrispondenza applicato dal Messina Denaro e dai sui fiancheggiatori”. Da lì quindi iniziò lo scambio epistolare che è durato circa due anni. Una operazione che, nonostante poi sia in seguito saltata, ha comunque prodotto dei risultati. Si sono identificate un certo numero di persone, in particolare si riuscì ad ottenere l’individuazione di un imprenditore che era colui che rappresentava gli interessi del superlatitante. Così come l’individuazione di Vincenzo Panicola, il cognato di Matteo Messina Denaro. Ma come mai l’operazione sfumò? È sempre Mori a spiegarlo. “Mentre era in corso questo scambio epistolare - racconta il generale -, nella primavera del 2006 viene catturato Bernardo Provenzano. Nel materiale di cui fu trovato in possesso emersero alcuni pizzini. Uno scambio tra lui e Matteo Messina Denaro, nel quale quest’ultimo segnalava il suo collegamento con Vaccarino”. L’attività si fermò, teoricamente solo temporaneamente, perché lo stesso Messina Denaro scrisse una lettera a Vaccarino per dirgli che non poteva al momento più scrivergli visto che avevano arrestato Provenzano. Il generale Mori spiega che si recò da Pietro Grasso, che nel frattempo era diventato capo della Procura nazionale Antimafia, e spiegò la situazione. Grasso poi lo richiamò informandolo che la Procura aveva preso atto dell’importanza della collaborazione di Vaccarino, ma che riteneva di non volerlo trattare come fonte o collaboratore. A quel punto ci fu una fuga di notizie. Il nome di Vaccarino fu pubblicato su alcuni organi di informazione, la Procura di Palermo che, ricordiamo, non era più guidata da Grasso, aprì un’inchiesta su di lui per associazione mafiosa, subito dopo archiviata da ben nove pm di Palermo. Dopo qualche tempo, esattamente il 2 novembre del 2007, giunge a Vaccarino l’ultima lettera - ma questa volta minacciosa e rabbiosa - di Matteo Messina Denaro. “Non ha neanche da sperare in una mia prematura scomparsa o nel mio arresto - scrive il super boss nella parte conclusiva della lettera - perché qualora accadesse una di queste ipotesi, per lei nulla cambierebbe, in quanto la sua illustre persona fa già parte del mio testamento, ed in mia mancanza verrà sempre qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti, comunque vada lei o chi per lei pagherà questa cambiale che ha forsennatamente firmato. Lei è un essere snaturato che non ha voluto bene neanche alla sua famiglia, si vergogni di esistere”. Lazio. Vaccini, Salvini attacca Zingaretti: “Nel Lazio prima ai carcerati? Roba da matti” La Repubblica, 12 aprile 2021 Il Garante dei detenuti: “In Lombardia accade da marzo”. Il leader della Lega contro la decisione del presidente della Regione e di quello della Campania di somministrare le prime dosi di Johnson&Johnson a chi è recluso. L’assessore alla Sanità D’Amato: “Su queste cose bisogna essere seri, no alle polemiche”. “Lazio e Campania vogliono vaccinare i detenuti prima di anziani e persone disabili. Roba da matti”. A puntare il dito contro il governatore Nicola Zingaretti è il leader della Lega, Matteo Salvini. In un post su Twitter l’esponente del Carroccio critica duramente la decisione del presidente del Lazio di somministrare le prima dosi del vaccino Johnson&Johnson ai detenuti. Le prime 180mila dosi del farmaco anti-Covid arriveranno domani e dopodomani nel Lazio e, come annunciato ieri dall’assessore regionale Alessio D’Amato, “saranno utilizzate per immunizzare tutti i detenuti e gli agenti penitenziari delle carceri del territorio”. Una scelta che Salvini ha però contestato, evidenziando che, a suo dire, le priorità sarebbero altre. “Che un ex Ministro degli Interni definisca ‘roba da matti’ la vaccinazione degli agenti della penitenziaria e dei detenuti è un’azione da maramaldo - replica l’assessore D’Amato - Il Lazio è tra le prime Regioni italiane per copertura vaccinale agli anziani e in generale per livello di somministrazioni. Su queste questioni - conclude - serve serietà, in Lombardia e Veneto sono iniziate a marzo le vaccinazioni nelle carceri”. A contestare le parole del leader della Lega è anche il Garante dei detenuti del Lazio. “A Salvini non far sapere che in Lombardia e Veneto le vaccinazioni Covid 19 in carcere sono iniziate a marzo”, scrive in un tweet Stefano Anastasia. E il vicesegretario del Pd del Lazio, Enzo Foschi attacca Z definisce quanto dichiarato dal leghista “una gaffe clamorosa”. Modena. Strage in carcere, non archiviare la verità di Susanna Ronconi dirittiglobali.it, 12 aprile 2021 Luca Sebastiani è l’avvocato della famiglia di Hafedh Chouchane, uno dei detenuti morti dopo la rivolta al Sant’Anna di Modena. Ha presentato opposizione alla richiesta di archiviazione della Procura di Modena, con le motivazioni che ci ha esposto in questa intervista. La richiesta di archiviazione della Procura di Modena sancisce che la morte di 8 dei 13 detenuti deceduti a seguito delle lotte nel carcere di Modena è da imputarsi a una overdose da metadone e da farmaci. Tuttavia, molti interrogativi non sembrano avere una risposta esauriente. Che cosa soprattutto, secondo lei, merita ulteriori approfondimenti? Ci sono due aspetti davvero importanti che a nostro avviso meritano maggiore approfondimento. Il primo riguarda il tema della responsabilità omissiva. Nel nostro ordinamento, chi riveste una posizione di garanzia e di protezione nei confronti di altri soggetti, perché ad esempio ne ha la cura o la custodia, ha l’obbligo di impedire l’evento e, se ciò non avviene, ne risponde appunto a titolo di responsabilità omissiva. I detenuti sono affidati alla custodia e cura dello Stato, che assumendosi l’onere di privarli della libertà personale deve assicurare anche la loro tutela e la loro salute durante la detenzione. Pertanto, al pari di posti di lavoro, ospedali o altre strutture pubbliche o private, dove ogni giorno chi riveste la posizione di garanzia è chiamato a rispondere per fatti accaduti all’interno, questo tema, con riguardo a chi rivestiva la posizione di garanzia, andava preso seriamente in considerazione. Stiamo parlando di una rivolta in carcere, dunque un evento prevedibile e, se fossero rispettate le condizioni, evitabile: in questo il tasso di sovraffollamento carcerario e la carenza di organico, così come risulta dagli atti e dall’ultimo rapporto di Antigone, hanno avuto un’incidenza notevole. L’altro grande tema è quello relativo ad accertare se vi sono stati ritardi nei soccorsi. Negli atti processuali emergono ricostruzioni differenti, parliamo anche di diverse ore, in merito all’orario in cui è stato prestato soccorso al povero Hafedh. Anche perché, come evidenzia il nostro consulente medico, l’assunzione del metadone, e i suoi effetti, sono iniziati diverse ore prima della morte. Questo tema doveva essere un quesito specifico da rivolgere al Ctu (Consulente Tecnico d’Ufficio) per capire quando il ragazzo si è sentito male, quando è stato soccorso e se poteva essere salvato. Pensa che la Procura di Modena abbia chiarito a sufficienza il funzionamento di tutta la catena di comando durante e dopo la rivolta nel carcere Sant’Anna? A mio avviso solo in parte. Emergono ricostruzioni a volte parziali e in alcuni casi diverse tra loro e senza che in queste le difese siano mai intervenute. Quello che chiediamo è di poter sentire le persone informate sui fatti nel pieno del contraddittorio, per vagliarne l’attendibilità e riempire i vuoti presenti. Nonostante la causa di morte risulti l’overdose, pure in alcuni casi sui corpi sono state riscontrare anche lesioni diverse. Crede che vi siano zone d’ombra da chiarire, a questo proposito? Per quanto riguarda la posizione che assisto, no. Abbiamo chiesto al Giudice per le indagini preliminari, però, di acquisire agli atti gli esposti che sono stati depositati alla Procura di Modena, di cui si è tanto parlato, ma che sono evidentemente confluiti in altro fascicolo di indagine e non in questo. Proprio per evitare zone d’ombra che, anche per rispetto dei familiari dei ragazzi deceduti, non devono esserci. Che previsioni può fare sull’esito della richiesta di archiviazione? E, in caso di esito negativo, ritiene vi siano ulteriori passi che si possono compiere per non far cadere definitivamente il silenzio su questa strage? Siamo convinti che le richieste che abbiamo formulato nell’opposizione verranno vagliate attentamente, dunque siamo fiduciosi e attendiamo il vaglio giudiziario e non pensiamo ad altro. Ci tengo però, a nome dei familiari, a ringraziare le associazioni, i comitati ed i giornalisti che si stanno occupando da mesi di questa vicenda, senza i quali non se ne sarebbe mai parlato. Dietro a ogni singolo ragazzo deceduto quel giorno, c’era una storia, una famiglia, una vita: quello che è successo quel maledetto 8 marzo a Modena è stata una vera e propria tragedia, il cui silenzio che vi è stato per mesi è stato assordante. Catanzaro. I familiari di uno dei detenuti morti: “Presenteremo una denuncia” Corriere della Calabria, 12 aprile 2021 Dopo i decessi Covid, la famiglia di Pizzata chiede accertamenti. L’associazione Yairaiha: “Sovraffollamento non aiuta la prevenzione”. “Negli ultimi due mesi il livello dei contagi tra la popolazione carceraria ha avuto un aumento vertiginoso e in alcuni istituti il livello di guardia è abbondantemente superato. Padova, Reggio Emilia, Rebibbia e Catanzaro stanno registrando un aumento vertiginoso. Nel solo carcere di Catanzaro il bilancio di 3 detenuti morti nel giro di 2 giorni e il numero dei contagiati, ad oggi 77 sale di giorno in giorno. Uno dei morti aveva solo 45 anni e, apparentemente, nessuna patologia pregressa. I familiari di uno dei detenuti morti, Bruno Pizzata, presenteranno una denuncia per accertare le responsabilità sul ricovero tardivo”. Lo scrive in un comunicato l’associazione Yairaiha Onlus. “Sappiamo - continua - che le vaccinazioni nel carcere di Siano stanno procedendo speditamente ma al momento restano scoperti i soggetti più fragili, anziani e portatori di gravi patologie, perché incompatibili al vaccino AstraZeneca per via degli ormai noti rischi. Riteniamo che l’impossibilità di attuare i protocolli sanitari necessari a contenere il dilagare dei contagi, dopo 13 mesi, sia più che evidente”. “Nessuna precauzione in condizioni di sovraffollamento” - “Nessuna delle misure precauzionali minime è possibile nella condizione di promiscuità forzata e sovraffollamento cronico delle carceri italiane, mentre le misure messe in atto dal governo precedente per ridurre i numeri sono servite a poco senza peraltro intervenire sui soggetti con maggiore fragilità fisica e, pertanto, maggiormente esposti a rischio”, scrive ancora l’associazione. “L’ultimo rapporto del Consiglio d’Europa, così come quello del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, collocano l’Italia tra i paesi europei con il maggior tasso di sovraffollamento e il maggior numero di persone in custodia cautelare. Lo sosteniamo da sempre, ma nell’ultimo anno dovrebbe essere chiaro a tutti che la necessità di mettere atto misure deflattive concrete non è più procrastinabile. Il carcere, in questo particolare momento storico, sta facendo esplodere tutte le contraddizioni intrinseche alla nostra società. La disparità dei diritti, a partire da quello alla salute, in carcere assume forma plastica. Il 99% delle nostre denunce sono relative a casi di detenuti e detenute anziani o comunque gravemente malati che, nonostante le evidenti, e dichiarate, carenze della sanità penitenziaria continuano a vedersi rigettate le istanze di sospensione della pena per motivi di salute oppure ad averle riconosciute quando ormai nessuna cura è più possibile. Gli istituti di legge ispirati ai principi costituzionali esistono e non c’è bisogno di inventarsi nulla, vanno applicati però! E vanno applicati indistintamente a chiunque si trovi in quelle date condizioni di salute (artt. 146 e 147 del cp, rispettivamente differimento obbligatorio e facoltativo della pena per motivi di salute). La ratio di queste norme si ravvisano nell’esigenza di tutelare il diritto alla salute del condannato, garantito dagli articoli 27 (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) e 32 della Costituzione (“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”); diritto a fronte del quale la potestà punitiva dello Stato deve recedere senza preclusioni di sorta. Ancor più oggi, nel bel mezzo di una pandemia mondiale, le indicazioni provenienti dagli organismi competenti internazionali ed europei in materia di prevenzione e gestione dei rischi connessi al covid 19 nelle carceri andavano, e potrebbero ancora andare se messi in atto, nella direzione di tutelare innanzitutto i soggetti più fragili senza esclusioni basate sul titolo del reato come, invece, ha maldestramente cercato di fare il precedente governo causando le attuali condizioni. Auspichiamo dunque che la Ministra Cartabia intervenga al più presto e riesca a restituire diritti e dignità a tutti i detenuti e a tutte le detenute d’Italia sostanziando, al tempo stesso, il dettato Costituzionale, faro e timone del suo percorso professionale e politico, ribadito nel suo primo discorso al Parlamento”. Bologna. Carcere sovraffollato, difficili i distanziamenti bolognatoday.it, 12 aprile 2021 La Camera Penale: “Una situazione che deve trovare soluzione. Alla Dozza le presenze sono circa 750, a fronte di una capienza regolamentare di 500”. La Camera Penale di Bologna “Franco Bricola”, unitamente al proprio Osservatorio Carcere, esprime grande preoccupazione per la situazione di allarmante sovraffollamento della popolazione detenuta all’interno della Casa Circondariale di Bologna. Attualmente le presenze si attestano sulle 750 unità, a fronte di una capienza regolamentare di 500” si legge in un testo diffuso dal Consiglio Direttivo e dell’Osservatorio Diritti umani, Carcere e altri luoghi di privazione della libertà. Lo stato di emergenza legato alla pandemia, ancora in atto, imporrebbe l’adozione di misure deflattive, finalizzate a ridurre il rischio di contagio all’interno del carcere, che rappresenta, per ovvie ragioni, una realtà in cui è complicato mantenere adeguati parametri di distanziamento - spiega la nota. “Se è vero che l’emergenza sanitaria costituisce solo la punta dell’iceberg del problema di grave sovraffollamento, che caratterizza ormai da troppo tempo l’Istituto di pena bolognese, è altrettanto evidente che si deve porre rimedio a tale gravissima situazione anche attraverso un uso corretto delle misure sostitutive al carcere, sia nella fase della cognizione che dell’esecuzione della pena. Sono difatti ancora troppi i detenuti in attesa di giudizio, per i quali l’applicazione della misura cautelare in carcere, prevista dal legislatore quale extrema ratio, è spesso inflitta in maniera spasmodica dal Giudice della Cognizione, talvolta anche in spregio delle eventuali condizioni soggettive che possono essere valorizzate per l’applicazione di una misura diversa dal carcere. Parimenti, le misure alternative alla detenzione meriterebbero una più ampia applicazione, in ottemperanza alla finalità rieducativa della pena prevista dall’art. 27 della Costituzione”. “Si sollecita, dunque, una seria riflessione, che renda concreto ogni utile intervento per alleggerire la pressione sulle carceri. Ed in tal senso ci si rivolge ai Magistrati di Sorveglianza del distretto ed ai Giudici del circondario di Bologna, perché’ possano dimostrare attenzione e sensibilità nell’adozione di provvedimenti di scarcerazione e di applicazione di misure sostitutive al carcere, anche nell’ottica della tutela del diritto alla salute sancito dall’art. 32 della Costituzione. La Camera Penale di Bologna “Franco Bricola” auspica, inoltre, che le competenti Autorità Sanitarie locali predispongano al più presto l’avvio della campagna vaccinale per i detenuti della Casa Circondariale di Bologna, già attivato in altri Istituti di pena del territorio nazionale. Piacenza. La denuncia di 3 studenti: “Una notte di orrore nella caserma dei carabinieri infedeli” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 12 aprile 2021 Fermati nel 2009 per un banale equivoco, vennero pestati, umiliati e torturati dai militari. La vicenda è emersa dopo la denuncia del padre di uno di loro, ex ufficiale dei carabinieri, che per anni non ha creduto al figlio. I pugni, i calci e le umiliazioni dopo dodici anni risuonano ancora come un’eco sinistra nei tre universitari che per “celebrare” la fine degli esami finirono nelle mani dei carabinieri della caserma Levante di Piacenza e furono massacrati di botte solo per un banale equivoco. Una vicenda emersa dopo la denuncia del padre di uno di loro, ex ufficiale dei carabinieri, che per anni non ha creduto al figlio ma si è dovuto ricredere con l’inchiesta che ha portato all’arresto dei militari e ora al processo per torture, traffico di droga e altri gravi reati. Urla, botte e umiliazioni - È il pomeriggio del 18 maggio 2009. La Citroen C3 con i tre ragazzi passa di fronte all’Università cattolica di Piacenza. Uno si sbraccia e fa un gestaccio “di liberazione” proprio mentre incrocia una gazzella dei carabinieri. Forse pensando che ce l’hanno con loro, i militari li raggiungono, li fermano e li fanno scendere. “Ci fu un contatto spalla a spalla tra me e Cappellano (Salvatore, arrestato, ndr) che subito mi tirò un pugno dicendomi “Levati testa di c...”“, dichiara Gianluca D’Alessio, uno dei giovani, alla Guardia di finanza nelle indagini dei pm piacentini Matteo Centini e Antonio Colonna, coordinate dal procuratore Grazia Pradella. I tre vengono portati nella Levante. “Ci fecero sedere a terra ammanettati”, racconta D’Alessio che viene fatto spogliare “completamente nudo” e perquisito mentre uno degli amici, Daniele Della Noce, viene portato in una stanza dalla quale arriveranno “solo colpi di botte e grida di dolore”. Della Noce viene scaraventato contro la porta che si scardina, cade a terra, ma subito viene “riportato all’interno trascinato per i piedi”. Sperando di riuscire a farli desistere, D’Alessio dice di essere “figlio di un capitano dei carabinieri”, anche se il padre, ora dirigente Inps, si era congedato. In risposta, botte anche per lui nella stanza dove trova anche l’appuntato Giuseppe Montella, l’uomo al centro dell’inchiesta Levante, l’unico che “rimase a guardare”. Cappellano non smette nemmeno quando Gianluca urla che gli stanno rompendo un braccio: “Per me puoi anche morire”. Appeso per le manette al ramo di un albero - I tre ragazzi dichiarano che nessuno spiegò loro i motivi dell’arresto e che furono lasciati a lungo ammanettati, senza acqua da bere e senza poter chiamare famiglie o avvocati fino a quando furono trasferiti nella caserma di via Beverora, i cui carabinieri, invece, li trattarono “con gentilezza”. La mattina dopo, prelevati per il fotosegnalamento, mentre attraversano un cortile interno, Cappellano lascia D’Alessio letteralmente appeso per le manette al ramo di un albero: “Era più alto di me, costringendomi a rimanere in punta di piedi”. Un carabiniere di passaggio, saputo che era accusato di aver aggredito dei militari, “mi sferrò un pugno in pieno volto”, ma un altro lo fece togliere da quella orrenda posizione dicendo: “Questo schifo non lo voglio più vedere”. Oggi i pm cominceranno l’arringa nel processo abbreviato prima delle richieste di condanna, che potrebbero superare i 15 anni di carcere. Non possono procedere, a causa della prescrizione, sulle presunte sevizie ai tre ragazzi che furono anche processati e patteggiarono la pena per violenza e minaccia a pubblico ufficiale (potranno chiedere la revisione). “Ho lavorato nell’Arma e questi metodi non li ho mai visti”, assicura Riccardo D’Alessio. È sempre in contatto con il figlio che ora vive in Germania. Piacenza. Cibo, mascherine e libri per i detenuti: la donazione della Comunità Islamica piacenzasera.it, 12 aprile 2021 Gel, mascherine, cibo e libri per i detenuti della Casa Circondariale di Piacenza. È questo il gesto di generosità che la Comunità Islamica di Piacenza ha deciso di attuare in occasione del Ramadan di quest’anno, che prenderà il via martedì 13 aprile. “Nonostante la difficile situazione e le restrizioni dovute alla pandemia di Covid-19 - si legge sul sito della Comunità Islamica, dove è testimoniata la donazione - la comunità islamica di Piacenza si è mossa come ogni anno con attività di beneficenza. Da diversi anni (ormai dal 2011), viene donato cibo e oggetti utili alle persone più bisognose, in modo che tutti possano vivere un mese sereno e benedetto. La generosità è una virtù che tutti i musulmani sono tenuti a rispettare. Se essere generosi è un valore da rispettare, nel mese più sacro dell’anno è per tutti di estrema importanza”. “Vogliamo - affermano i membri della comunità - che anche i detenuti possano passare un momento bello e vivere con serenità il mese di Ramadan. La comunità - spiegano - ha raccolto i fondi necessari per acquistare nello specifico: 120L di gel; 1200 mascherine; 100kg datteri; 600L di latte; yogurt e altri cibi; tappeti per preghiera; più di 100 Calendari; 91 libri per comprendere meglio l’Islam”. Genova. Il teatro in carcere non si ferma, online lo spettacolo “Profughi da tre soldi” di Rosangela Urso lavocedigenova.it, 12 aprile 2021 Sulla piattaforma On Theatre dal 13 aprile. Sul palco i detenuti del penitenziario di Marassi e attori raccontano il dramma di chi è costretto a fuggire in cerca di futuro. Un progetto di Teatro Necessario Onlus. Paure e speranze, storie di dolori, separazioni e solidarietà. I detenuti della casa circondariale di Marassi sono gli interpreti e i protagonisti di ‘Profughi da tre soldi’, il nuovo spettacolo teatrale prodotto dall’associazione culturale Teatro Necessario Onlus, che da 15 anni ha attivato nel penitenziario laboratori teatrali per i detenuti, e che debutta online martedì 13 aprile sulla piattaforma On Theatre e visibile con un’offerta libera. Girato sul palco del teatro dell’Arca (il primo e unico teatro in Europa nato ex novo dentro un penitenziario), lo spettacolo, liberamente tratto da ‘Opera da tre soldi’ di Bertolt Brecht, mette in scena un tema di forte attualità; ambientato in un campo profughi, racconta le storie di chi ha dovuto lasciare la propria terra in cerca di futuro, mettendo l’accento sul dramma di chi è costretto a fuggire. “Il teatro in carcere è fondamentale, nato come progetto sperimentale nel 2005, con il tempo ci siamo resi conto che era uno strumento fortissimo per dare l’opportunità ai detenuti di esprimere potenzialità che neanche loro pensavano di poter avere, anche in ambito creativo. Il palco è il luogo ideale per ricucire relazioni di libertà e riscoprire nuove identità”, osserva Mirella Cannata, presidente di Teatro Necessario. Come dimostrano le parole di uno dei protagonisti: “Ho partecipato per la prima volta a questo spettacolo che racconta tante cose che molti miei connazionali hanno vissuto: hanno attraversato il mare per arrivare in Italia lasciando tutto: famiglia, amici, casa. Qui pensano di poter cambiare vita, ma poi quando arrivi trovi tante difficoltà, qualcuno che ti sfrutta. Questo spettacolo è un grande spettacolo. Mi è piaciuto recitare, tutto il tempo che rimarrò in carcere farò teatro”, anche perché sul palco “siamo tutti uguali, nessuno ci giudica”, e sta in queste parole la scommessa vinta dell’associazione. “Profughi da tre soldi”, interpretato dalla Compagnia degli Scatenati, doveva andare in scena dal vivo ad aprile dello scorso anno, poi il lockdown ha fermato tutto e non è più stata rappresentata. Finché a settembre è stato ripreso con nuovi attori-detenuti (“Nel frattempo l’80% di chi aveva realizzato lo spettacolo era ormai fuori dal carcere in quanto aveva finito di scontare la sua pena”, dice Cannata) e riadattato dal regista Sandro Baldacci su misura dei nuovi interpreti che saranno affiancati da Igor Chierici, Filippo Di Dio, Cristina Pasino, Michela Gatto. “Si tratta di un esempio di teatro integrato dove i detenuti recitano insieme ad altri attori professionisti e gli uni apprendono dagli altri: i detenuti acquisiscono competenze, mentre gli attori ricevono la naturalezza e quella forza istintiva che a volte ai professionisti un po’ manca”, dice la presidente. Il teatro in carcere non si è mai fermato neanche con la pandemia: “Abbiamo ripreso tutti i corsi, e fino a oggi continuiamo a svolgerli grazie a una gestione molto rigida delle misure anti-contagio, e questo è stato davvero importante”. Perché il teatro offre ai detenuti quella seconda possibilità di cui tutti abbiamo bisogno: “Fare cultura è lo strumento per riscattare completamente queste persone”. L’associazione Teatro Necessario rientra infatti nel progetto di “Per Aspera ad Astra. Come riconfigurare il carcere attraverso la bellezza e la cultura”. Noi e il virus, un’uscita faticosa di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 12 aprile 2021 La pandemia mette in luce le caratteristiche di un popolo che, nel bene e nel male, balzano agli occhi. Oggi un nuovo assaggio di libertà, in buona parte d’Italia. Tutte le Regioni - tranne Campania, Puglia, Sardegna e Valle d’Aosta - passano dalla zona rossa alla zona arancione. Per la Lombardia è il diciassettesimo cambio cromatico. La variazione permette di uscire liberamente di casa, all’interno del comune. Negozi, parrucchieri e centri estetici sono aperti. I ragazzi fino alla terza media possono rientrare a scuola; anche metà degli studenti delle superiori tornano in aula. Rientrano gli universitari. Restano le restrizioni per bar e ristoranti: solo asporto. Rimane il coprifuoco dalle 22 alle 5 del mattino. Resta anche una consapevolezza: l’entrata nella fase acuta della pandemia - è accaduto tre volte in un anno - è sempre rapida e drammatica. L’uscita - ogni volta - si rivela lenta, complicata e faticosa. La fatica non consiste solo nel rispettare le regole. È faticoso anche guardarsi intorno e capire che alcuni non l’hanno fatto, non lo fanno e non lo faranno. Ci sono violazioni veniali: le uscite di casa, anche in zona rossa, sono ormai lasciate alle responsabilità individuali (un’autoregolamentazione ufficiosa e silenziosa, secondo la migliore tradizione nazionale). Ci sono poi violazioni dettate dall’età e dall’esasperazione: mi chiedo chi si sia avvicinato a un gruppetto di adolescenti intimandogli di mantenere le distanze. Ci sono, infine, violazioni irritanti: dai bar che chiudono la porta d’ingresso e aprono quella sul retro; al calcio, che insiste per ottenere privilegi (come può, il governo, garantire che gli stadi italiani saranno aperti per i campionati Europei?). I media, com’è giusto, devono segnalare episodi ed eccessi, che purtroppo non sono mancati. Ma non sono trecento esagitati riuniti a Milano per un video rap a rivelare la temperatura sociale. In grandissima maggioranza - ripetiamolo, anche se molti non vogliono sentirlo dire - noi italiani abbiamo dimostrato tenacia e pazienza. Alcuni hanno sofferto - soffrono ancora - più di altri. Sarebbe opportuno pensare a loro: sostegni e ristori servono a galleggiare, non a riprendere la navigazione. A tutti viene chiesto un ultimo sforzo. Senza impegno individuale, l’uscita sarà più lunga e complicata. Mario Draghi lo ha ripetuto parlando delle vaccinazioni, che considera - giustamente - fondamentali. Una sua frase - e il tono con cui l’ha pronunciata - ha colpito molti: “Con che coscienza si salta la fila per i vaccini?!”. Il presidente del Consiglio ha ragione: troppi italiani sono diventati “salta-fila”. Ma si è trattato, quasi sempre, di un salto di gruppo. In regioni diverse, diverse categorie hanno ottenuto la priorità. Molti si sono sentiti giustificati: non hanno chiesto il vaccino in anticipo, lo hanno accettato. L’appartenenza è spesso più forte della coscienza, in Italia. La determinazione con cui il premier si è appellato alla responsabilità dei singoli, giovedì nel corso della conferenza stampa, è condivisibile. Ma avrebbe potuto ricordare la superficialità (il cinismo?) di molte Regioni, che hanno utilizzato una scappatoia nel decreto - la categoria “altro” - per vaccinare 2 milioni e 300 mila persone che non erano né anziane né fragili, né sanitari né forze dell’ordine. Un quinto del totale. Non si poteva scrivere meglio, quella norma? Un’espressione tristemente popolare recita: “Tutti colpevoli, nessun colpevole!”. Non è questo il caso. Tutti colpevoli, almeno un po’; nessuno interamente innocente. Se ne siamo convinti, da qui si può ripartire. Governo, Regioni e categorie, ormai, dovrebbero avere imparato dai propri errori. Così noi cittadini. Se d’ora in poi ognuna farà la propria parte, e i vaccini arriveranno come promesso, potremo tornare liberi. Finalmente. La pandemia - quante volte lo abbiamo detto, scritto, letto, ascoltato? - è un evidenziatore: le caratteristiche di un popolo, nel bene e nel male, balzano agli occhi. Negli ultimi quattordici mesi abbiamo visto di tutto, ma c’è una qualità italiana di cui s’è parlato poco: le cose le capiamo al volo. Tempo di usarla, quell’intelligenza. Ci mostrerà l’uscita. Le stragi del Covid che non ci fanno vedere di Piero Bianucci La Stampa, 12 aprile 2021 L’Oms calcola che le vittime della pandemia siano tre volte di più contando quelle indirette. Nel mondo milioni di persone colpite da tumori, ictus e infarti si scontrano con ospedali saturi e sempre in emergenza. Nel mondo la pandemia sta raggiungendo i tre milioni di morti e questo tv e giornali lo dicono. Ma pochi aggiungono che le vittime indirette sono ancora di più. Tra le conseguenze tragiche del Covid la meno nota ma per certi aspetti la più grave è che milioni di persone con altre patologie non vengono curate perché gli ospedali affondano nell’emergenza. Sono vittime indirette del Covid i malati di cancro (19 milioni di nuovi casi ogni anno nel mondo), scarseggiano le terapie intensive per chi è colpito da ictus cerebrale (15 milioni di persone l’anno) e da malattie cardiovascolari (18 milioni). Secondo l’OMS la mortalità per ictus e infarto si è triplicata da quando siamo alle prese con il Covid. Tenendo conto anche dei tumori e delle diagnosi rinviate, si può stimare che le vittime della pandemia come minimo siano non 3 ma 9 milioni. Un enorme patrimonio di conoscenze e terapie che potrebbero salvare milioni di vite è come in oblio. Le abbiamo, sapremmo applicarle, ma non possiamo. Crollo e risalita - I trapianti di organi (in ordine di frequenza reni, fegato, cuore) sono una inattesa (parziale) eccezione, forse anche perché è umanamente intollerabile avere a disposizione un organo donato e gettarlo nella spazzatura. Nel mondo in tempi normali si fanno 200 mila trapianti all’anno. La rivista “Trapianti” ha cercato di disegnare il quadro per l’Italia del Covid. In effetti all’inizio, dopo un 2019 ancora in crescita, il calo di donazioni e trapianti è stato forte. Il crollo ha sfiorato il 40 per cento. Ma poco per volta la situazione è quasi tornata al livello precedente. Non solo. Oggi sappiamo che le persone con trapianto possono essere vaccinate nonostante la terapia immunosoppressiva. E in alcuni casi la terapia sembra addirittura proteggere dal virus. Giuseppe Remuzzi, farmacologo, uno dei nostri migliori ricercatori, direttore dell’Istituto “Mario Negri”, ha segnalato una ricerca comparsa su “Nature”: 6 geni del cromosoma 3 renderebbero alcune persone più vulnerabili al Covid, altre invece le proteggerebbero. Numeri sorprendenti - C’è anche una sorpresa nella sorpresa: per i trapianti il Piemonte è in controtendenza. Nel 2020 gli organi trapiantati sono stati 460: precisamente, 247 reni, 158 fegati, 26 cuori, 22 polmoni e 7 pancreas, alcune volte assieme, per un totale di 443 interventi di trapianto (il 6 per cento in più rispetto ai 419 eseguiti nel 2019). Quarantasette trapianti (e solo di rene) sono stati eseguiti nell’ospedale di Novara, 388 alle Molinette e 8 all’Ospedale pediatrico di Torino. Le Molinette sono anche l’ospedale italiano che nel 2020 ha eseguito il maggior numero di trapianti di fegato (158) e di rene (200, una cifra mai raggiunta da un singolo ospedale in Italia). Bisturi e cronometro - È interessante prendere nota di questi dati mentre arriva in libreria “Un chirurgo tra bisturi e cronometro”, biografia di Mauro Salizzoni, testo e interviste di Marina Rota (Hever Editore, 246 pagine, 20 euro). Il nome di Salizzoni è legato ai trapianti di fegato. E la storia dei trapianti di fegato è davvero straordinaria. Ho sempre trovato sbalorditivo che soltanto 66 anni intercorrano tra il primo volo dell’aereo dei Fratelli Wright - una decina di metri su una spiaggia della Florida - e lo sbarco di Neil Armstrong sulla Luna. Ma che dire dell’evoluzione dei trapianti di fegato dal primo infelice esperimento di Thomas Starzl nel 1963 alla tecnica dello “split” (scissione) che dal 1988 permette di salvare due pazienti - di solito un adulto e un bambino - suddividendo il fegato di un singolo donatore? Rapidi progressi - Nato a Ivrea nel 1948, Salizzoni ha attraversato da protagonista un’epoca gloriosa della chirurgia. L’anagrafe mi ha assegnato quattro anni più di lui, e il lavoro di giornalista scientifico mi ha portato, sia pure indirettamente, a seguire passo dopo passo questa epopea: dai primi trapianti realizzati con buoni dati di sopravvivenza ma ancora esposti a una difficile vita post-operatoria alla introduzione della ciclosporina come decisivo farmaco antirigetto; dal primo “split” tentato da Rudolf Pichlmayr agli acrobatici trapianti multi-organo e “domino” - eseguiti in simultanea tra due persone delle quali una donatrice vivente, in modo che ne beneficino entrambe utilizzando un solo fegato donato da cadavere - fino agli ultimi sviluppi tecnologici e scientifici, tuttora in corso. Un pioniere a Milano - Il fegato è il più massiccio dei nostri organi (il cervello è al secondo posto: dato su cui riflettere), il più irrorato dal sangue, uno dei più complessi per le funzioni vitali che svolge, misteriosamente capace di rigenerarsi. Nell’avvicinarmi al mondo dei trapianti epatici, importante per me fu l’incontro con Luigi Rainero Fassati, altro pioniere del settore, 85 anni, già ordinario di Chirurgia sostitutiva all’Università di Milano, autore di centinaia di pubblicazioni e anche di romanzi di successo. L’ho avuto tra i collaboratori del supplemento “Tuttoscienze” a “La Stampa” e poi tra i conferenzieri di “GiovedìScienza”. Fu lui a spiegarmi che all’inizio i trapianti di fegato, oltre ad essere molto faticosi per la durata (e lo sono ancora), spesso per il medico erano frustranti perché i pazienti arrivavano in sala operatoria come all’ultima spiaggia, in condizioni così disperate da rendere improbabile la sopravvivenza nonostante la perfetta esecuzione dell’intervento. Primati torinesi - Il Centro Trapianto di Fegato di Torino, uno dei migliori al mondo, è una creatura di Salizzoni nata nel 1990. Nel 1998 fu il primo Centro in Italia ad avere un “fegato artificiale”, dispositivo di supporto per pazienti colpiti da insufficienza epatica fulminante, fino ad allora disponibile solo a Boston e a Parigi. Dopo un esordio timido e prudente, un trapianto al mese, si è arrivati a superare i 150 in un anno. Il millesimo fu contrassegnato da una coincidenza quasi incredibile: toccò al fratello di colui che il 10 ottobre 1990 era stato il primo destinatario di un trapianto epatico all’Ospedale Molinette, un paziente di 44 anni colpito da epatite virale, che sopravvivrà per 13 anni. Il 17 luglio 2017 l’équipe di Salizzoni ha tagliato il traguardo di tremila trapianti, 126 dei quali con tecnica “split”, 57 in combinazione con altri organi (rene, pancreas, polmone), 14 da donatore vivente, sei con tecnica domino. Poco più di un anno dopo, il 1° novembre 2018, per Salizzoni con cecità burocratica arriva inesorabilmente il giorno del pensionamento: scadenza vissuta come un lutto, attenuato soltanto dalla consapevolezza di lasciare una équipe che terrà alta la fama conquistata in trent’anni di successi. Covid e panico: quando la paura ci travolge come uno tsunami di Irma D’Aria La Repubblica, 12 aprile 2021 Complice la pandemia, le manifestazioni di ansia e gli attacchi di panico sono in aumento. Lo psicoterapeuta Alessandro Bartoletti suggerisce gli stratagemmi anti-panico per superare le crisi e ritrovare equilibrio. Come uno tsunami, la paura e l’ansia possono trasformarsi in panico vero e proprio, un’onda che travolge e lascia chi ne è vittima con il terrore che possa ripresentarsi. Ai tempi del Covid, a partire dalla prima ondata con tutti i morti inaspettati per poi arrivare alle successive ondate ed ora ai dubbi sui vaccini, in molti sono attanagliati dalla paura patologica che sembra essere diventata un’epidemia moderna. Che cos’è il panico - Paura e panico sono due sensazioni diverse ma collegate: “L’episodio dell’attacco di panico è di per sé un fenomeno circoscritto. Dura pochi minuti ed è paragonabile a uno tsunami psicofisiologico che ci fa perdere il controllo della nostra emozione più controllata, la paura”, spiega Alessandro Bartoletti, psicologo e psicoterapeuta, dottore di ricerca in Neurobiologia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e autore del libro “Panico, ansia & paura. Guida strategica per aspiranti coraggiosi” (Editore Franco Angeli). “Il panico - prosegue l’esperto - altro non è che l’apoteosi dell’ansia e della paura ed è accompagnato da una tempesta psicofisiologica di sintomi fisici e mentali che potremmo scherzosamente riassumere come la ‘paurosa tredicina’. Sono sintomi viscerali come la tachicardia, il soffocamento, la sudorazione e la paura di morire. Sintomi neurologici come le vertigini, la sensazione di svenimento, i tremori e i formicolii. E sintomi sul controllo della realtà, come la sensazione di irrealtà e di perdita dell’identità individuale, o la paura di perdere il controllo e impazzire, il sintomo più rappresentativo del panico”. Tanti tipi diversi di panico - Ma esistono vari tipi di panico: quello a base fobica, un panico ossessivo, uno paranoico, un panico depressivo, un panico traumatico, e addirittura un panico d’amore. “Sono veramente molte le percezioni che possono sfociare in episodi di panico: il terrore delle proprie sensazioni cardiache, il rimugino ossessivo, la paura di oggetti o situazioni specifiche, il catastrofismo mentale, gli spaventi provocati dalla comunicazione mediatica, il perfezionismo maniacale, le memorie traumatiche, ma anche il dolore intenso per la fine di una relazione”, prosegue lo psicologo. Persino la depressione può essere connotata da forte ansia, paura e agitazione. Panico e Covid-19 - La paura di contagiarsi di Covid-19 ha generato una nuova forma di panico? “In realtà - chiarisce Bartoletti - la paura del contagio ha per prima cosa esacerbato il disagio psicologico in chi già precedentemente soffriva di un disturbo ossessivo-compulsivo che porta a comportamenti maniacali di pulizia e di evitamento. Queste persone hanno radicalizzato sempre di più i loro comportamenti compulsivi di disinfezione degli oggetti e di loro stessi. È come se il loro peggior incubo si fosse trasformato in realtà”. La paura del contagio, inoltre, ha fatto aumentare in alcune persone l’ansia per la propria salute, che alla lunga può sfociare in forme gravi di ipocondria caratterizzate da un controllo maniacale del proprio corpo e da una ricerca ossessiva di informazioni e rassicurazioni mediche. I segnali d’allerta - Come capire quando stiamo provando un po’ di sana paura o ansia o quando stiamo scivolando nel patologico. Quali sono i campanelli d’allarme? “La paura - risponde Bartoletti - è una delle emozioni più utili in assoluto per l’essere umano. Ci permette di reagire ai pericoli in tempi così rapidi ed efficaci che qualsiasi ragionamento razionale non potrebbe mai eguagliare. I problemi sorgono quando ne perdiamo il controllo e nel tentativo di gestirla mettiamo in atto con noi stessi dei tentativi disfunzionali di soluzione reiterati nel tempo”. Insomma, sono proprio i nostri di gestire la paura a scatenare l’escalation verso il panico, l’ansia e l’angoscia. Per esempio? “Rifuggire pensieri o immagini sgradevoli fa sì che esse diventino delle ossessioni intrusive. O ancora, l’evitamento di determinate situazioni contribuisce a renderle sempre più minacciose: è così che si sviluppa la fobia di viaggiare, muoversi, dei luoghi chiusi. Apparentemente l’evitamento ha l’effetto di un ansiolitico ad effetto immediato, in realtà fa perdere sempre più il controllo sulla nostra paura”, spiega Bartoletti. Tattiche anti-panico - Che fare di fronte a queste sensazioni che a volte paralizzano la vita di chi ne è vittima? Oltre a chiedere aiuto per intraprendere un percorso di psicoterapia quando necessario, esistono degli stratagemmi anti-panico, cioè strumenti per riacquisire la gestione delle proprie emozioni mediante esperienze e comportamenti che sviluppano nuove competenze personali, o semplicemente ripristinano quelle che già abbiamo. Uno dei più noti stratagemmi della psicoterapia breve strategica è quello che prende il nome di ‘peggiore fantasia’. “Consiste in un esercizio di esasperazione volontaria delle temute sensazioni ansiose”, spiega lo psicoterapeuta che è anche specialista in Psicoterapia Breve Strategica. “Obbligarsi a trattenere la paura ha esiti paradossali: il demone richiamato si smaterializza. Questo esercizio va però svolto solo sotto la guida di uno specialista perché necessita di tempi prestabiliti, modi e applicazioni che non possono essere improvvisati”. Studiare la propria paura - Uno stratagemma che è invece facilmente applicabile nella vita quotidiana consiste nello studiare le proprie paure per superarle. “Quando, ad esempio, si ha paura di una situazione specifica, poniamo la paura degli aghi o del prelievo di sangue, si inizia con lo studio fisico dello strumento, com’è fatta una siringa. Chi ha paura ne ha spesso una rappresentazione distorta”, spiega Bartoletti. “Poi si passa dalla teoria alla pratica mediante piccoli esercizi di manipolazione pratica, ad esempio usandola per annaffiare una piantina, e così via con avvicinamenti maggiori e crescenti. Così facendo nel giro di qualche mese è possibile superare qualsiasi annosa fobia”. Il diritto di morire nella propria casa di Elvira Serra Corriere della Sera, 12 aprile 2021 Il delicato dibattito sul fine vita e il vuoto legislativo che l’Italia continua a non colmare. In Francia all’Assemblea nazionale è cominciato il dibattito per la legge su “un fine vita libero e scelto”. Ne ha scritto qualche giorno fa Stefano Montefiori, rilevando l’intemerata dell’insigne scrittore Michel Houellebecq, che sulle colonne di Le Figaro non ha esitato a dire: “Quando un Paese arriva a legalizzare l’eutanasia, ai miei occhi perde qualsiasi diritto al rispetto. Diventa allora non solamente legittimo, ma anche auspicabile distruggerlo, affinché qualcos’altro possa sostituirlo”. La sua posizione merita le più attente riflessioni, tant’è che giovedì, quando è cominciata la discussione all’interno del Palais-Bourbon, la legge si è arenata al primo articolo, sommersa da tremila emendamenti contrari. Tuttavia, per parafrasare Houellebecq, il Paese degno del maggior rispetto è quello che sa esercitare la pietà, il sentimento della compassione nei confronti di chi soffre. Proviamo adesso a riavvolgere il nastro al 27 febbraio 2017. Alle 11.40 di quel mattino si spegne in una clinica di Zurigo Fabiano Antoniani, conosciuto come Dj Fabo: aveva 39 anni ed era cieco e tetraplegico dal 2014, dopo un incidente stradale. Accanto a lui ci sono la compagna, Valeria Imbrogno, cuore d’acciaio, instancabile nel supportare l’uomo che ama, e la madre, Carmen Corollo, schiantata dal dolore di perdere un figlio nondimeno così illuminata da sussurrargli: “Vai Fabiano, la mamma vuole che tu vada”. Dj Fabo aveva scelto liberamente di morire, di fronte a un futuro che non gli dava speranza, mortificava la sua vita a una costante assistenza passiva e lo costringeva a grandi sofferenze. Quattro anni dopo un altro giovane uomo, Roberto Sanna, 34 anni di Pula, in Sardegna, dà l’addio alla madre Marina, alla compagna Gioia, al fratello Andrea e allo zio Aldo in un asettico letto in Svizzera. Lontano dalla propria casa, dal padre, dagli amici. Un saluto difficilissimo, costoso, ma per lui necessario. Eppure la Corte Costituzionale con la sentenza numero 242 del 2019 ha riconosciuto il diritto al suicidio medicalmente assistito per chi ne faccia richiesta in piena lucidità, con una patologia irreversibile, insopportabili sofferenze e sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Gli ermellini hanno anche invitato il Parlamento a colmare il vuoto legislativo. Un vuoto che oggi rimbomba. Libia. “Nessun crimine contro i migranti dai guardacoste addestrati da noi” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 12 aprile 2021 L’ammiraglio Agostini, comandante di Irini, la missione Ue in Libia: al centro il rispetto dei diritti umani. Ma sulle altre forze lungo quelle coste non posso garantire. “Posso assicurare che i marinai della guardia costiera libica addestrati dalle missioni europee a partire dal 2017 non hanno commesso violazioni dei diritti umani a danni dei migranti. Certo non hanno mai sparato. Larga parte dell’addestramento verte proprio sul rispetto dei diritti umani, contro le violenze di genere e a protezione dei minori. Ma va ricordato che lungo le coste libiche operano tante forze diverse, che spesso sono confuse con la guardia costiera del governo di Tripoli. E di queste forze non possiamo affatto garantire”. L’ammiraglio Fabio Agostini non esita ad affrontare la questione migranti nella lunga intervista che ci concede nel suo ufficio romano di comandante della missione europea Irini, che dal 31 marzo 2020 monitora lo scenario libico con il mandato Onu di sorvegliare e possibilmente impedire l’arrivo illegale di armi. In precedenza, aveva guidato l’ultimo periodo della missione Sophia. Da poche settimane il suo comando è stato rinnovato di due anni. Irini è accusata di avere regole d’ingaggio troppo deboli, specie di fronte all’invio di armi e mercenari sia da Mosca che da Ankara. Come replica? “Siamo sostenuti da 24 Paesi europei, che ci forniscono 4 navi (tra cui quella da sbarco italiana San Giorgio), circa mille uomini, tre aerei, quattro elicotteri. Il nostro mandato è dettato dalle risoluzioni Onu sull’embargo dell’export di armi in Libia. Ma dobbiamo anche rispettare il diritto marittimo internazionale. Non possiamo abbordare una nave sospetta se il suo Paese di bandiera ce lo vieta, infrangeremmo la legalità. Ciò detto, abbiamo effettuato migliaia di investigazioni, specie sui mercantili, ne abbiamo abbordati una dozzina, visitato oltre 200 navi, monitoriamo 25 aeroporti e 16 porti. Ad oggi abbiamo bloccato a Tobruk una petroliera illegale, sequestrato e portato in Grecia un cargo di carburanti per aerei diretto in Cirenaica. Un caso esemplare per la sua complessità: il cargo batteva bandiera delle Isole Marshall, apparteneva ad una società di Singapore, era partito dagli Emirati e aveva un comandante norvegese. Ma ci diamo da fare. Per quanto possibile, i nostri droni e aerei controllano anche i confini terrestri”. L’Onu e l’Europa chiedono il ritiro di 20.000 mercenari, specie inviati da Russia e Turchia. Cosa fa Irini se li incontra, può bloccarli militarmente? “Se lo Stato di bandiera ci blocca entro le prime quattro ore, noi non possiamo salire sulla nave sospetta. Comunque, abbiamo osservato che i mercenari si spostano in aereo. Il numero di 20.000 sembra invariato, sebbene con avvicendamenti continui. Nelle ultime settimane abbiamo notato una piccola riduzione dei traffici sospetti”. Mercenari e milizie destabilizzano. Lei vorrebbe un mandato più forte? “Tocca a Onu e Bruxelles decidere. Io posso dire che Irini è parte della soluzione del nodo Libia, che vede un insieme di sforzi diplomatici, politici, economici. Abbiamo contribuito a raggiungere il cessate il fuoco e garantire la sua tenuta dall’estate scorsa. Siamo un organismo deterrente che aiuta la pacificazione. Ovvio che se avessi regole d’ingaggio più agguerrite io eseguirei gli ordini”. Che rapporto avete con guardacoste e marina libici? “Purtroppo Irini non ha più il compito di addestrarli, come invece prima faceva Sophia e continua a fare l’Italia. Non c’è più un rapporto strutturato”. Incontrate le barche dei migranti? “Le nostre navi operano sino alle 12 miglia delle acque territoriali libiche. Non hanno mai incontrato migranti. È invece avvenuto ai nostri velivoli, che li hanno segnalati alle autorità competenti”. Se vi chiedessero aiuto? “Porteremmo subito soccorso, come prevedono le leggi del mare e non li condurremmo in Libia, bensì ad un molo europeo. Così è scritto nel nostro mandato”. Avete prove evidenti di comportamenti criminali da parte dei guardacoste libici? “Non da parte dei circa 500 addestrati dalla missione Sophia o da quelli addestrati dagli italiani. Occorre evitare confusioni. I guardacoste agli ordini delle autorità di Tripoli sono molto diversi dalle milizie o da altre forze che impropriamente utilizzano quella denominazione, per esempio le milizie della Cirenaica che sequestrano le navi di passaggio per poi farsi pagare i riscatti. Anche le agenzie dell’Onu e la Croce Rossa confermano il salto di qualità degli uomini addestrati in Europa. C’è stato il coinvolgimento di Francia, Grecia, Olanda, Italia e Croazia. Lo scorso novembre mi sono recato a Tripoli e qui i responsabili delle maggiori organizzazioni umanitarie internazionali hanno confermato la qualità dell’addestramento europeo rispetto a prima del 2017”. Quanti sono i guardacoste addestrati dall’Europa? “Direi circa la metà di tutte le forze libiche in mare”. Ma i migranti riportati a terra finiscono nei “lager” libici? “Prima di tutto occorre ricordare che i guardacoste governativi salvano persone che stavano per annegare o comunque su imbarcazioni non adeguate, pericolose. Salvarli è un dovere. A terra io non so cosa avvenga. Non rientra nei miei compiti verificarlo. Ma so che i campi dove vengono messi sono monitorati da Onu e Croce Rossa, vi accedono le maggiori organizzazioni umanitarie internazionali”. Libia. Scarcerato il trafficante Bija: “Non ci sono prove” che fosse l’aguzzino dei migranti di Paolo Brera La Repubblica, 12 aprile 2021 La procura generale di Tripoli lo ha rimesso in libertà. Era stato arrestato lo scorso ottobre con l’accusa di avere gestito il contrabbando e il traffico di esseri umani. Dopo sei mesi di carcere, il comandante Bija è libero. Il trafficante di uomini più temuto e con una divisa ufficiale, il famigerato Bija contro cui le Nazioni unite hanno varato sanzioni per crimini gravissimi contro i diritti dei migranti in fuga verso le coste europee, è stato rilasciato dalla Procura generale di Tripoli per mancanza di prove. Una beffa che racconta purtroppo come il tentativo di introdurre standard minimi di responsabilità giudiziaria sia un processo che si regge a stento sulla sabbia del deserto istituzionale creato da guerre, faide e rivoluzioni che hanno sfiancato la Libia. Abd al-Rahman Milad, meglio noto come “Bija”, capo della milizia della importante città costiera di Zawiya, pochi chilometri a ovest di Tripoli, era stato arrestato a ottobre dopo la diffusione di un video in cui si schierava con l’allora capo del governo Fayez al Serraj contro Fathi Bashaga, il primo ministro dell’epoca. Milad era finito nell’occhio del ciclone dopo una serie di inchieste giornalistiche che avevano smascherato il suo ruolo nei traffici di migranti. Da capo delle milizie di Zawiya, uno dei grandi hub della costa libica da cui salpano barchini e gommoni, a bordo della sua vedetta con funzioni di guardia costiera era accusato di dirigere il traffico dei migranti decidendo, sulla base di accordi coi trafficanti, a quali lasciare via libera e quali invece fermare, portando i catturati in campi di detenzione illegali in cui sono state testimoniate violenze terrificanti. Questo, almeno, secondo le accuse testimoniate da diverse inchieste giornalistiche. Non altrettanto si può dire della legge. Se sulla base di quelle inchieste il Consiglio di Sicurezza dell’Onu aveva sanzionato già nel 2018 Bija, facilmente riconoscibile nei video di alcune imprese della sua milizia per una mano lesionata dall’esplosione di una granata, negli anni complessi della guerra con il governo Serraj, il comandante aveva avuto libero gioco di continuare a gestire traffici illeciti accanto alle mansioni lecite. L’arresto era arrivato solo a ottobre 2020. Oltre a essere un centro nevralgico per il traffico di esseri umani, Zawiya è anche una importante sede petrolifera: qui si trova l’unica raffineria esistente in Libia. Nonostante sia un Paese ricchissimo di idrocarburi, il resto della benzina arriva dall’altra parte del Mediterraneo, in gran parte dalle raffinerie sarde dei Moratti. Paradossalmente, la Libia dipende in larga misura dall’estero per l’approvvigionamento di benzina, e la raffineria ha quindi un’importanza decisiva. Da capo delle milizie di Zawiya, Bija aveva così accesso anche ai finanziamenti per la protezione della raffineria. Insomma, riceveva denaro ufficiale per garantire la sicurezza del dipartimento, della raffineria di proprietà della Compagnia petrolifera di Stato libica e per il controllo del porto e dello specchio acqueo come guardia costiera. Affari che secondo accuse sostanziate si aggiungevano al traffico di esseri umani e al contrabbando. Ma la giustizia libica ha deciso diversamente: Bija ora è libero. Egitto. Il caso Zaki non ferma gli accordi militari, Roma consegna la seconda fregata al Cairo di Giordano Stabile La Stampa, 12 aprile 2021 Alla vigilia del dibattito parlamentare sulla concessione della cittadinanza a Patrick Zaki, l’Egitto si appresta a ricevere una seconda nave militare dall’Italia. Tutto come previsto dai contratti firmati un anno fa, ma anche una coincidenza spiacevole sottolineata dalle ong pacifiste e in difesa dei diritti umani. Sono stati gli attivisti a notare gli ultimi movimenti “sospetti” della fregata ex Emilio Franchi, adesso ribattezzata Bernees, nel porto della Spezia. La scorsa settimana c’è stato il cambio di bandiera, mentre in quelle precedenti si è provveduto a smontare gli armamenti a tecnologia più sensibile, come i sistemi di guerra elettronica, jammers e Recm Nettuno-4100. La nave, della classe franco-italiana Fremm, sarà riarmata secondo le esigenze della Marina egiziana, come è già avvenuto con la Spartaco Schergat, ribattezzata Al-Galala, partita dal porto spezzino lo scorso 23 dicembre e arrivata ad Alessandria il3 O dello stesso mese. Le tensioni sul caso Zaki, come su quello Regeni, non hanno quindi fin qui rallentato la collaborazione militare fra Italia ed Egitto, che per Il Cairo è fondamentale soprattutto sul fronte marittimo. La nuova flotta egiziana è destinata a dominare il Mediterraneo orientale, dove è in costruzione una seconda base aeronavale, vicino al confine libico, dopo quella di Ras Banas nel Mar Rosso. Ed è in competizione sempre più serrata con quella turca, che attende per il prossimo anno il varo della sua prima portaerei, la Anadolu. Gli egiziani seguono anche molto da vicino lo scontro fra Roma e Ankara, dopo le dichiarazioni del premier Draghi. Puntano anche all’acquisto di elicotteri e caccia Aermacchi e di certo si sono appuntati il “congelamento” dei contratti della Leonardo in Turchia. Il dilemma fra affari e difesa dei diritti umani è sempre più acuto. “La conclusione di questo affare con la consegna della seconda Fremm suscita ancora più sdegno perché arriva pochi giorni dopo l’ennesimo, crudele, rinvio di altri 45 giorni della detenzione preventiva di Patrick Zaki”, ha dichiarato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: “Chiediamo che vi sia un cambio di passo e che il Parlamento italiano faccia sentire la propria voce per frenare questa collaborazione con un Paese responsabile di gravissime violazioni dei diritti umani”. Per Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne di Rete pace disarmo, la vendita di queste navi configura invece “una perdita economica non indifferente”. La coppia di navi sarebbe costata allo Stato italiano 1,2 miliardi di euro inclusi gli interessi pagati sui mutui, ma “l’accordo di rivendita avrebbe un valore di soli 990 milioni di euro”. Lo “sconto”, se davvero c’è stato, fa parte di una competizione serrata per aggiudicarsi contratti in quello che è diventato uno dei mercati più ricchi e in espansione. L’Egitto, con l’appoggio finanziario degli Emirati, punta a trasformarsi in una media potenza militare, e ha speso decine di miliardi negli 8 anni della presidenza di Al-Sisi. La Francia si è presa la fetta più grossa e ha già piazzato una fregata Fremm, le due portaelicotteri della classe Mistral in precedenza destinate alla Russia, 4 corvette Gowind, e 36 caccia Rafale, mentre la Germania ha concluso accordi per 2,6 miliardi e ha venduto tre fregate leggere Meko A-200 e tre corvette A-100. Ma anche la Russia è in campo e ha piazzato 24 dei suoi temibili caccia Su-35, nonostante i moniti degli Stati Uniti, che hanno minacciato sanzioni al Cairo. Myanmar. La strage quotidiana dei militari: 82 vittime di Emanuele Giordana Il Manifesto, 12 aprile 2021 È la strage l’arma quotidiana della giunta militare del Myanmar che ha ormai deciso di tentare il tutto per tutto nel tentativo, finora vano, di fermare le proteste di piazza. Secondo Assistance Association for Political Prisoners le vittime superano ora quota 700 e la stima di quanto avvenuto a Bago venerdì, in una regione centrale del Paese, è che in un solo giorno si sono contate ben 82 vittime. Nell’antica capitale, a Nord di Yangon, polizia ed esercito hanno sparato sulla folla senza andare per il sottile e dai lacrimogeni ormai si è passati alle esecuzioni sommarie di massa. È però una situazione che continua a vedere mobilitazioni di piazza e la scelta del governo clandestino - il Comitato che rappresenta il parlamento o Crph, esecutivo ombra de facto (il sito si può vedere all’indirizzo crphmyanmar.org) - è ormai orientata alla costituzione di un esercito federale, mossa che potrebbe vedere saldarsi l’alleanza tra gli eserciti regionali delle diverse autonomie armate e il governo ombra della Lega per la democrazia di Aung San Suu Kyi. Una possibilità reale dopo che il Crph ha fatto carta straccia della vecchia Costituzione voluta dai militari nel 2008. Reale ma in salita. Per ora Tatmadaw, l’esercito della giunta, è impegnato - oltre che sul fronte della protesta civile - in numerose piccole battaglie locali in diversi Stati della periferia (specie nel Chin e nel Kachin) anche se in alcuni casi le formazioni armate non vanno sempre d’accordo tra loro per problemi di confine. La giunta sta tentando di tirarne alcuni dalla sua parte - in particolare l’United Wa State Army (Uwsa) e lo Shan State Progressive Party (SSPP), ala politca dello Shan State Army (SSA-N), ma per ora le bocce sono ferme (e il Restoration Council of Shan State, a capo di un’armata molto più numerosa, si è schierato contro Tatmadaw). Sul fronte negoziale intanto la giunta ha nuovamente negato all’inviata speciale Onu Christine Schraner Burgener l’ingresso nel Paese. L’inviata si trova ora in Thailandia per un giro nelle capitali del Sudest tra le quali il caso Myanmar è diventato una spina nel fianco anche perché le posizioni sono molto diverse: Indonesia, Malaysia, Singapore e Filippine sono i fautori di un negoziato rapido per spingere Tatmadaw alla ragione e chiedono la fine delle ostilità e la liberazione dei prigionieri politici (a oggi oltre 3mila) mentre Vietnam, Cambogia, Laos e la stessa Thailandia si barcamenano tra silenzi, blandi inviti alla moderazione e il mantra della non ingerenza. Qualcosa però si muove. In casa cinese soprattutto. Il capo della diplomazia di Pechino Wang Yi ha incontrato gli emissari dell’Asean - l’associazione asiatica di cui anche il Myanmar fa parte - caldeggiando la soluzione negoziata ma soprattutto non ha smentito i contatti che l’ambasciata in Myanmar ha avuto con i rappresentati del Crph. Un passo importante - che di fatto ne riconosce l’esistenza - ma a cui dovrebbero seguire passi reali. Passi che si potrebbero vedere nella prossima riunione dell’Asean a Giacarta la settimana entrante con decisioni che potrebbero anche cambiare gli equilibri nel Consiglio di sicurezza dove siedono come membri non permanenti anche Vietnam e India (che ha leggermente cambiato la sua posizione) che finora hanno remato contro l’ipotesi di sanzioni. Il fronte occidentale resta compatto: venerdi gli ambasciatori a Yangon di Australia, Canada, Eu, Cechia, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Olanda, Spagna, Svezia, Nuova Zelanda, Norvegia, Svizzera, Gb, Usa hanno ricordato la prima vittima del 9 febbraio scorso - Mya Thwe Thwe Khine - dichiarando di voler sostenere speranze e aspirazioni di chi crede in un Paese pacifico e democratico. Ha firmato con loro anche Seul. Argentina. “La mia missione in carcere a Buenos Aires con padre Bergoglio” di Davide Dionisi vaticannews.va, 12 aprile 2021 Halina Rozanska de Pochylak racconta, in esclusiva, la sua esperienza nell’assistenza dei detenuti. Un’esperienza condivisa con il futuro Papa Francesco” “Ho conosciuto Papa Francesco quando era Provinciale dei Gesuiti e lo considero uno dei più grandi Pontefici, anche perché continua a manifestare la sua vicinanza agli uomini e alle donne del nostro tempo che stanno vivendo una crisi globale senza precedenti dovuta alla pandemia”. La testimonianza esclusiva è di Halina Rozanska de Pochylak, 78 anni, originaria di Leopoli, approdata in Argentina con i suoi genitori dopo la Seconda Guerra Mondiale. All’età di 8 anni, la svolta della sua vita: la notizia della morte della nonna, detenuta in Siberia e vittima del regime comunista. Da allora Halina decide di dedicare la sua vita all’assistenza ai carcerati ed oggi, nonostante l’età, tre figli e 9 nipoti, continua il suo servizio dietro le sbarre a Buenos Aires. Bergoglio confessore - Tra le esperienze edificanti della sua missione, l’incontro con Bergoglio: “Ricordo che, sia da vescovo che da cardinale, era solito andare in carcere a visitare detenuti ammanettati alle mani e ai piedi, malati di Aids, con condanne lunghissime. Esigeva che venissero messi in condizioni di interloquire e di solito ci riusciva. Così si sedeva accanto a loro e li confessava come nessun altro sacerdote aveva fatto prima. Dopo il suo passaggio si registravano numerose conversioni” racconta la volontaria che può contare anche sul costante supporto dei suoi tre figli: “Ho perso mio marito due anni fa, ma lo sento sempre vicino. I miei ragazzi mi danno una grossa mano sia economicamente, che materialmente. Recentemente ho avuto bisogno del loro aiuto perché la cappella del carcere doveva essere imbiancata. Mia figlia utilizza il computer al mio posto e legge le carte processuali, dato che è avvocato” rivela Halina. Amare chi è rifiutato - Diverse le esperienze personali che hanno segnato la sua missione. Su tutte quella di un detenuto malato terminale a cui ha insegnato a pregare prima di morire. “Aveva un tumore alla gola e continuava a chiedere una sigaretta. Pur non fumando, me la procurai e il giorno dopo mi recai da lui per offrigliela. Gli donai contestualmente una Bibbia. Mi rispose che non l’avrebbe neanche aperta perché era analfabeta. Espresse comunque il desiderio di pregare e mi chiese di insegnargli il Padre Nostro. Mentre lo recitava, vedevo il suo volto rasserenarsi perché ripensava alla sua famiglia e alla sua terra d’origine, la Patagonia. Mi chiese più volte di accompagnarlo nella preghiera. Rinunciò persino ad una delle sue passioni, il calcio, pur di invocare l’aiuto del Signore. Un giorno insistette perché andassi di domenica e, rinunciando agli impegni familiari, lo andai a trovare e pregai con lui tutto il tempo della visita. Tornai due giorni dopo e le guardie mi dissero che si era spento la domenica sera stessa, accompagnato dal conforto dei suoi compagni”. Parlando del dopo carcere, Halina è convinta che: “Quando una persona torna in libertà, è spaventata e non sa muoversi in società. Spesso commette gravi errori. Non viene accettato dagli altri e non gli vengono assicurati i servizi essenziali di sopravvivenza. La nostra risposta deve essere una sola: amarli” continua Halina, indicando che “Non hanno mai ricevuto affetto ed è questo il motivo principale dei loro errori. Dobbiamo avvicinarli alla preghiera anche se è un compito arduo. Ma possiamo riuscirci attraverso l’amore e la vicinanza”.