“Ergastolo ostativo? Il miglior modo di combattere la mafia è riaffermare lo Stato di diritto” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 11 aprile 2020 A pochi giorni dalla sentenza della Consulta, intervista con il prof. Glauco Giostra: “Ingiusti gli anatemi colpevolizzanti” dell’antimafia. La tesi dell’avvocatura dello Stato? “L’interpretativa di rigetto non sembra praticabile”. Arriverà tra pochi giorni la sentenza della Corte costituzionale sulla possibilità di concedere la liberazione condizionale agli ergastolani per mafia che non hanno collaborato con la giustizia. Al vaglio della Consulta, l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che era stato già in parte dichiarato incostituzionale nel 2019, nella parte in cui vietava la possibilità di concedere i permessi premio ai condannati per reati particolarmente gravi che non si fossero aperti a collaborazioni con lo Stato. In quei giorni il clima era infuocato, esattamente come ora. I sostenitori di questa normativa - introdotta nei primi anni 90, quando la mafia costituiva un’emergenza e lo stato cercava di dispiegare ogni sua forza per contrastarla - accusavano chi ne metteva in dubbio la costituzionalità di voler, in buona sostanza, fare un favore alla mafia. Di non capire il rischio di questa apertura. Il professor Glauco Giostra, docente ordinario di procedura penale alla Sapienza di Roma, già presidente della Commissione ministeriale incaricata di elaborare il progetto di attuazione della delega in materia penitenziaria, intervistato da HuffPost fa riferimento proprio a quel clima e ricorda che dal giorno dopo quella controversa decisione “i permessi concessi agli ergastolani non collaboranti per reati di mafia non raggiungono le dita di una mano”. Per Giostra non ci sono dubbi sulla necessità di una maggiore cautela nel concedere benefici, come la liberazione condizionale, ai condannati per mafia non collaboranti. Ma la possibilità di ottenerli non può essere preclusa. “Non possiamo leggere - spiega - nell’art. 27 Cost. “le pene debbono tendere alla rieducazione del condannato, salvo che si tratti di mafioso non collaborante”. E a chi continua a sostenere che modificare, alla luce della sua eventuale incostituzionalità, l’articolo 4 bis significherebbe fare un assist alla mafia risponde: “Il miglior modo di combattere la mafia è riaffermare lo Stato di diritto”. Per il professore è “difficile far capire, soprattutto a persone sicuramente in buona fede e mosse da nobili intenti, quanto siano ingiusti i loro anatemi colpevolizzanti”. Tra pochi giorni la corte Costituzionale si pronuncerà sulla costituzionalità della preclusione all’accesso alla liberazione condizionale per i detenuti per reati di mafia che non hanno mai collaborato con la giustizia. È un pezzo importante del cosiddetto ergastolo ostativo. Una norma che nei fatti sancisce l’impossibilità di un detenuto di uscire di prigione - anche se in carcere ha fatto un buon percorso - per il fatto che non vuole (o non può?) collaborare, come si può conciliare con la funzione rieducativa della pena? Mi soffermerei preliminarmente sul non vuole, poiché nella stretta cruna di questa locuzione passano gli opposti orientamenti che si fronteggiano sull’argomento. Tenuto conto che, almeno su ciò dovrebbe esserci convergenza di opinioni, una pena che finisca soltanto con la vita del condannato sarebbe convenzionalmente e costituzionalmente inammissibile, coloro che sostengono la legittimità dell’attuale disciplina fanno leva sul non vuole per sottrarla a censure: l’ergastolano per reati di mafia non è ineluttabilmente destinato a morire in galera. Infatti, viene spiegato, solo nel caso in cui collabori, si mette nella condizione di poter fruire, dopo ventisei anni, della liberazione condizionale. Sul fronte opposto, si fa osservare che in realtà potrebbe non trattarsi di libera scelta. Il condannato, pur avendo intrapreso un prolungato e credibile percorso di recupero, pur dissociandosi dalla logica e dai mezzi dell’organizzazione mafiosa potrebbe non collaborare, ad esempio, per timore di mettere in pericolo la vita propria o dei prossimi congiunti (come pure, ma qui non rileva, ben possono verificarsi collaborazioni strumentali per ottenere la libertà e tornare a delinquere, come la storia purtroppo insegna). Costituzionalmente dirimente, allora, è capire se la condizione viene imposta perché per il mafioso è l’unica prova che la pena abbia raggiunto la sua finalità risocializzativa o per spingerlo a contribuire alla disarticolazione dell’organizzazione mafiosa. La Corte costituzionale, (nella sentenza n.306 del 1993) aveva già denunciato, pur nel drammatico clima successivo alle terribili stragi del 1992, che la natura della collaborazione richiesta ?è essenzialmente espressione di una scelta di politica criminale, adottata per finalità di prevenzione generale e di sicurezza collettiva” e che “l’art. 4bis, comma 1, ord. penit. non può essere presentato sotto le vesti di una disposizione di natura “penitenziaria”, giacché anzi comporta “una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario”, con una “rilevante compressione” della finalità rieducativa della pena”. Eppure, coloro che hanno titolo per parlare di mafia, assicurano che si è mafiosi sino alla morte, a meno che non si scelga di collaborare. Se si accetta questo ragionamento, la condizione ostativa torna entro i confini della Costituzione: la collaborazione costituirebbe la prova legale dell’avvenuta rieducazione... Che la collaborazione non costituisca la conditio sine qua non della recuperabilità sociale del condannato lo dimostra il fatto che se il reato per cui il soggetto è stato condannato è antecedente al 1992, la condizione ostativa non opera. Lo ha deciso sin dal 1993 la Corte costituzionale, precisando significativamente che la novità legislativa non doveva interrompere l’eventuale percorso risocializzativo in atto. Dunque, la finalità rieducativa della pena è perseguibile senza passare per la collaborazione. E a dircelo non è soltanto - e sarebbe di per sé sufficiente - il custode della Costituzione, ma anche la storia giudiziaria, che ancora sta registrando casi, sia pure non frequenti, di condannati per reati di stampo mafioso commessi prima della legge introduttiva dell’obbligo di collaborare, che hanno compiuto un percorso di risocializzazione, dedicandosi allo studio, al lavoro, alla riparazione per le vittime del reato, a compiti di pubblica utilità e sono positivamente reinseriti nel tessuto familiare e sociale. Mi diceva che si sarebbe voluto soffermare anche su quel “non può collaborare” Ha ragione. Volevo fare una precisazione, che peraltro risulta molto pertinente. Se il condannato non può collaborare, perché la sua è una collaborazione impossibile o inesigibile, la condizione ostativa non opera e l’ergastolano per mafia può essere ammesso alla liberazione condizionale. Può essere ammesso, si badi, benché non sia mai stato neppure sfiorato dall’idea di collaborare. Non consta che si siano lanciati moniti o anatemi contro questa regola. Eppure verrebbe da chiedersi: perché in simili evenienze si accetta di rimettere in libertà un mafioso non collaborante, soltanto grazie alla casuale circostanza che, certo non per suo merito, non ci sia più nulla da acclarare? Difficile allontanare il sospetto che in tal caso l’ordinamento consenta di rimetterlo in libertà, ove meritevole, perché non ha da offrire in cambio informazioni investigativamente preziose. Se dunque la collaborazione non è indice né indispensabile, né inequivocabile, di avvenuto ravvedimento, ma soltanto una contropartita che lo Stato pretende per restituire la libertà ai meritevoli, non sembrano residuare margini di difendibilità costituzionale dell’attuale normativa. Beninteso, nessuno pensa che la scelta collaborativa sia dato prognosticamente irrilevante per la magistratura di sorveglianza, chiamata a stabilire l’avvenuta riabilitazione sociale del condannato: va da sé che la mancata collaborazione comporti una presunzione relativa di non avvenuto ravvedimento; una presunzione che è tuttavia abbastanza ‘forte’ tanto da essere superabile solo attraverso inequivoci elementi che depongano in senso opposto. Si tenga inoltre presente che per poter disporre la liberazione condizionale è comunque necessario che “siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”. Non dovranno operare per la liberazione condizionale “i paletti” che la Corte costituzionale ha fissato per la concessione dei permessi premio all’ergastolano mafioso? Certo, anzi vorrei dire, a maggior ragione. La magistratura di sorveglianza dovrà svolgere d’ufficio una seria verifica non solo sulla condotta carceraria del condannato nel corso dell’espiazione della pena, ma altresì sul contesto sociale esterno, in particolare assumendo dettagliate informazioni per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Come i permessi, infine, la liberazione condizionale, una volta rimossa la preclusione ostativa, non potrà di norma essere concessa quando la Procura nazionale o distrettuale antimafia abbia comunicato l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. Non a caso, del resto, a un anno e mezzo dalla pronuncia della Corte costituzionale che ha riconosciuto la concedibilità dei permessi premio anche in mancanza di collaborazione, i permessi concessi agli ergastolani non collaboranti per reati di mafia non raggiungono le dita di una mano. Ciò dovrebbe eloquentemente dar conto di quanto poco fondato fosse l’allarmismo che aveva accompagnato quella pronuncia della Consulta. Abbattere le presunzioni assolute di irrecuperabilità, infatti, non vuol certo significare disinvolta inconsapevolezza dell’estrema insidiosità del fenomeno mafioso, da cui sarebbero tra le altre affette, secondo una certa vulgata, Corte europea dei diritti dell’uomo, Corte di cassazione, Corte costituzionale, Avvocatura dello Stato, nonché - Ça va sans dire - magistratura di sorveglianza e accademia. Sono certamente legittime e condivisibili, le maggiori, rigorose cautele imposte nella valutazione del percorso riabilitativo di un condannato per mafia. Quello che non sembra costituzionalmente sostenibile è l’automatismo preclusivo: non possiamo leggere nell’art.27 Cost. “le pene debbono tendere alla rieducazione del condannato, salvo che si tratti di mafioso non collaborante”. Ma al di là delle argomentazioni giuridiche, sulle quali ci si può e ci si deve sempre confrontare, ciò che suscita forti perplessità sono i toni e gli argomenti del dibattito che ha proceduto e che sta accompagnando la decisione della Consulta… Ci torneremo senz’altro, professore. Ma prima di abbandonare il piano giuridico del problema, avrei un’altra domanda. L’avvocatura dello Stato, che la scorsa volta in temi di permessi premio aveva chiesto alla Corte un rigetto secco della questione, propone oggi un’interpretativa di rigetto. In sostanza si chiede che l’articolo 4 bis non venga scalfito, ma che sia il magistrato di sorveglianza ad apprezzare volta per volta il motivo della non collaborazione del detenuto che chiede la liberazione condizionale. Come giudica questa posizione? La presa di posizione dell’Avvocatura dello Stato, se posso esprimermi sinteticamente, ha un valore politico inversamente proporzionale a quello giuridico. L’Avvocatura in sostanza riconosce che l’automatismo preclusivo per mancanza di collaborazione si pone in rotta di collisione con il principio rieducativo della pena: si tratta di una presa di posizione molto importante, che segna una significativa svolta. Nemmeno due anni fa, pronunciandosi sull’analoga problematica concernente i permessi premio, l’Avvocatura aveva ritenuto che il legislatore, nell’ esercizio della sua discrezionalità, avesse legittimamente assunto la collaborazione quale criterio legale di accertamento del “sicuro ravvedimento” del condannato. Oggi l’Avvocatura considera non più difendibile una tale opzione legislativa, ma ritiene che vi siano margini per “salvare” la norma attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata; offrendone, cioè, una lettura che consenta di superare il carattere assoluto dell’ostatività. Ma la via per una sentenza interpretativa di rigetto, quale quella invocata dall’Avvocatura, non è mai praticabile quando, come in questo caso, il tenore letterale della norma non lascia spazio alcuno per una ricostruzione interpretativa che ne sintonizzi il contenuto con i precetti costituzionali di riferimento. Del resto, ove la Corte di cassazione avesse ravvisato un pertugio esegetico in tal senso, sarebbe stata tenuta a percorrerlo. Se ha sollevato l’attuale questione di legittimità costituzionale, ha evidentemente ritenuto impraticabile una lettura della norma che consentisse di applicarla in modo costituzionalmente ortodosso. Del resto, anche la Consulta nella precedente pronuncia su collaborazione e permessi premio (sent. 253/2019) ha implicitamente escluso di poter addivenire ad una sentenza interpretativa di rigetto, ritenendo che l’unica “ortopedia” possibile per restituire conformità costituzionale alla norma fosse quella di ridisegnarne con una pronuncia di incostituzionalità il contenuto precettivo. In queste settimane sul tema si è sviluppato un ampio dibattito. E c’è chi dice che dando un altro ‘colpo’ all’ergastolo ostativo, in sostanza, si fa un favore alla mafia. Cosa risponde a chi propugna queste tesi? Di questo clima volevo appunto parlarle. Quando magistrati e uomini delle forze dell’ordine che hanno dedicato gran parte della loro vita professionale al contrasto del fenomeno mafioso, rischiando per la propria incolumità; quando parenti delle vittime di atroci delitti di mafia; quando, cioè, persone che meritano incondizionatamente la nostra ammirata gratitudine e il nostro partecipe rispetto arrivano a rappresentare i propri contraddittori come una sorta di sprovveduti, affetti da un irresponsabile indulgenzialismo nei confronti della mafia, oppure ad invocare un improprio intervento del Capo dello Stato, ricordando il sacrificio del fratello, ucciso per mano della mafia, a me pare di intravedere una sorta di ricatto emotivo, umanamente comprensibile, ma certamente non giustificabile. Viene sollevato un indice puntato che accusa: “Io, che so di cosa parlo, ti avverto che con le tue idee non sei, come me, tra coloro che combattono la mafia, ma tra coloro che la favoriscono”. E ciò capita, quasi a mo’ di riflesso condizionato, ogni qualvolta si mette mano ad una normativa che riguarda - o che soltanto si teme possa riguardare - il fenomeno mafioso. Anche nella mia esperienza di presidente della Commissione ministeriale che è stata incaricata di elaborare il progetto di attuazione della delega in materia penitenziaria (legge 103 del 2017), ho dovuto registrare scomposte e immotivate aggressioni nei confronti di quell’embrione di riforma: persino l’accusa di continuare in tal modo la trattativa Stato-mafia! Affermazione che avrebbe meritato più una querela, che una confutazione (peraltro, neppure necessaria: per espressa previsione di delega i reati di mafia erano esclusi dalla riforma). Difficile far capire, soprattutto a persone sicuramente in buona fede e mosse da nobili intenti, quanto siano ingiusti i loro anatemi colpevolizzanti. Quali argomentazioni si potrebbero usare? Ci provo. Immaginiamo che nel nostro ordinamento vigesse la pena di morte: sono certo, conoscendo l’alto livello civile di coloro che oggi avvertono la Consulta della devastante responsabilità che si assume a dichiarare l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, che sarebbero per l’abolizione della pena capitale. Ebbene, cosa proverebbero a sentirsi accusare di voler in tal modo favorire la mafia, poiché, lasciato vivo, anche dal carcere il mafioso sarebbe comunque in grado di rappresentare un simbolo, di intimidire e di corrompere, di ordinare efferati omicidi? Poiché senza la forza dissuasiva della pena di morte, la mafia dilagherebbe? Trovo che sarebbe più corretto muovere dalla premessa che siamo tutti irriducibili avversari della mafia, ma che abbiamo idee diverse su ciò che si debba e che non si possa (o non sia utile) fare per combatterla. In conclusione, si lasci la libertà di pensare, senza dover esserne colpevolizzati, che il miglior modo di combattere la mafia è riaffermare con attenta ponderazione i principi dello Stato di diritto, poiché la mafia prospera dove e quando lo Stato di diritto latita o viene a patti con i suoi metodi. Covid, focolai nelle carceri sovraffollate: 1.521 i positivi. Ma arriva lo stop ai vaccini di Viola Giannoli La Repubblica, 11 aprile 2020 Il Garante dei detenuti: “L’isolamento mette a rischio la dignità dei reclusi”. E il Lazio va da solo contro il piano Figliuolo: “Dal 19 dosi di Johnson & Johnson, evitare rivolte”. Luoghi chiusi per definizione, affollati per (drammatica) condizione. Bolle destinate dall’origine a diventare focolai in caso di contagi. Nelle carceri italiane ci sono, a oggi, circa 850 detenuti e detenute e 671 operatori penitenziari positivi al coronavirus. Migliaia da inizio pandemia. Negli ultimi giorni sono morti altri due reclusi, a Catanzaro, che si aggiungono alle 18 vittime contate dall’associazione Antigone nel rapporto sulla detenzione con e oltre il Covid, pubblicato a marzo. E undici sono i decessi tra le guardie carcerarie. Ci sono cluster ancora estesi e attivi tra i ristretti di Reggio Emilia (115), del Due Palazzi di Padova (90), di Catanzaro (74), del braccio femminile di Rebibbia a Roma (70), a Pesaro (64), Melfi (57), Asti (33), Parma (32), Saluzzo (30). Mentre tra i poliziotti penitenziari preoccupano i focolai di Parma (37), Napoli Secondigliano (31), Lecce (27), Reggio Emilia (26), Catanzaro (19), Torino (18), Napoli Poggioreale (17), Foggia (16). Eppure l’ordinanza del generale Francesco Paolo Figliuolo sui vaccini parla chiaro: la priorità va data agli ottuagenari e alle persone fragili, da immunizzare nel più breve tempo possibile, e a medici e infermieri in prima linea. Fino a nuovo ordine stop quindi pure alle somministrazioni in carcere. Tranne che per gli 851 detenuti ultrasettantenni che, nonostante la possibilità di detenzione domiciliare, sono in carcere. Ribelle solo il Lazio che segue la sua strada restando fedele alle raccomandazioni del Piano firmato il 10 marzo dalla presidenza del Consiglio, dal ministero della Salute, dall’Istituto superiore di sanità e dall’Agenas: “Il 19 aprile inizieremo a vaccinare detenuti e polizia penitenziaria con le prime diecimila dosi di Johnson&Johnson. Vogliamo evitare rivolte, faremo tutto nel giro di tre giorni” spiega l’assessore regionale Alessio D’Amato. Possibile, guardando i numeri. “In tutta Italia - ragiona il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma - i detenuti sono circa 53 mila e il personale in tutto, tra guardie e amministrativi, altre 40 mila persone. Circa un quinto dell’obiettivo giornaliero di vaccinati a cui vogliono arrivare Draghi e Figliuolo”. Escludendo poi chi il Covid lo ha già avuto e deve aspettare quindi qualche mese per la prima dose, in poco tempo anche le carceri potrebbero diventare luoghi “immuni”, se si avessero vaccini a sufficienza. Il solito “se” che fa singhiozzare ogni mese la campagna vaccinale. “Ma proprio perché sono bolle chiuse, al loro interno vanno messe in sicurezza tutte insieme”, sottolinea Palma. Le somministrazioni invece in qualche regione sono già partite (in Campania, in Abruzzo, in Friuli Venezia Giulia o in Sicilia). In tutto i detenuti già vaccinati sono 7939 (il 14% del totale), mentre tra il personale di Polizia penitenziaria, gli amministrativi e gli operatori le iniezioni sono state 17566 (il 44%). Ora la macchina si dovrà fermare per dare la priorità a chi fuori dalle sbarre è così anziano e fragile da rischiare di aggiungersi alla penosa conta quotidiana dei morti. Dentro le mura però resta l’allarme, “non rispetto alla malattia in quanto tale perché tra gli 850 detenuti positivi la maggior parte sono fortunatamente asintomatici, mentre gli ospedalizzati sono 22. Il grave problema è la densità - spiega ancora Palma -. Mettere in quarantena 850 persone in strutture che sono già sovraffollate aggrava pesantemente la condizione carceraria dei detenuti”, già provati dall’impossibilità di ricevere visite dopo l’approvazione degli ultimi decreti anti-Covid. “Il rischio - conclude il garante - è che si creino condizioni che ledono la dignità delle persone private della libertà”. Così ha raccontato, ad esempio, la figlia di una donna reclusa a Rebibbia, “isolata in cella perché positiva, con caraffe d’acqua da scaldare e una bacinella per lavarsi già da due settimane”. È sempre Antigone a dare la misura dell’affollamento delle prigioni: il 106,2 per cento secondo i dati ufficiali; il 115 per cento quello stimato come effettivo. E questo nonostante il fatto che in dodici mesi, dal 29 febbraio 2020 a pochi giorni dalla scoperta del paziente zero di Codogno, al 28 febbraio 2021, ci sia stato un calo di 7533 detenuti, il 12,3% in meno. Ma, dice Antigone, per stare nei numeri della legalità, dovremmo avere 4 mila detenuti in meno, che diventano 8 mila se si tiene conto dei reparti chiusi temporaneamente. Tra i luoghi più affollati: Taranto, Brescia, Lodi, Lucca, Grosseto, Udine, Bergamo, Latina, Busto Arsizio, Genova Pontedecimo. È qui che un focolaio diventa non solo un grave problema sanitario e logistico, come in abitazioni e ospedali, ma un tema di diritti. Carceri, lo strappo dei governatori: il vaccino a tutti, impossibile per fasce d’età di Cristiana Mangani Il Messaggero, 11 aprile 2020 Il Lazio partirà il 19 aprile con le vaccinazioni in carcere, la Campania ha già cominciato qualche giorno fa. E altrettanto stanno facendo diverse Regioni d’Italia, dove i focolai da Covid stanno agitando il clima interno agli istituti di pena, con il rischio di sommosse e disordini. Eppure le decisioni sono in netto contrasto con quanto stabilito dalla nuova direttiva firmata due sere fa dal commissario straordinario Francesco Figliuolo, che dispone una vaccinazione rigorosamente per fasce d’età e fragilità su tutto il territorio nazionale. “È una decisione insindacabile - ha affermato il generale - fortemente voluta dal premier Draghi. È così, c’è poco da discutere”. Ma come si fa - hanno chiesto gli amministratori regionali - a vaccinare in un carcere secondo le fasce d’età? “Nella stessa cella ci possono essere persone che hanno 60 anni ma anche 35”, è stato il tema più discusso durante il Comitato operativo che si è svolto venerdì sera. Le regole, però, sono quelle, hanno chiarito ancora dalla struttura commissariale, e non c’è possibilità di deroga. Il rischio è l’apertura di una indagine, con la possibilità di vedere arrivare nei palazzi della Regione i carabinieri del Nas, mandati a verificare se le dosi siano state somministrate secondo le disposizioni di Palazzo Chigi. La popolazione carceraria indicata come categoria prioritaria a metà marzo, sembra che non lo sia più, mentre restano in pole position per avere la loro immunizzazione, i detenuti ottantenni (sempre che ci siano) e, a scalare, quelli dai 70 ai 79, e dai 60 ai 69. Almeno sulla carta, perché, poi, davanti alle emergenze di focolai incontrollati, come quello di Rebibbia femminile dove ci sono 70 positive (comprese sei agenti penitenziarie), o di Padova Due Palazzi dove ce ne sono 90, o ancora di Catanzaro con 70, i governatori stanno intervenendo autonomamente per vaccinare e bloccare la diffusione del virus. “Il 19 aprile avremo la prima consegna di vaccini Johnson&- Johnson - ha annunciato l’assessore alla Salute della Regione Lazio. Alessio D’Amato. Si tratta di una consegna quantitativamente modesta: 18 mila dosi che andranno in prevalenza alle carceri per il personale che vi lavora e per i detenuti. Speriamo che dal prossimo mese di maggio potremo avere un ampliamento delle forniture”, ha aggiunto. Il Lazio ha già preso accordi con il Dap e con le Asl. Si farà una vaccinazione collettiva in giornata, grazie anche alla possibilità di usufruire di Johnson & Johnson, che si somministra in un’unica dose. E l’operazione immunizzazione avverrà in contemporanea in tutte le carceri del Lazio, proprio per evitare che si possano creare malumori tra i detenuti. Stessa cosa è avvenuta in Campania, a cominciare dalle carceri di Salerno e Vallo della Lucania, nell’Istituto a custodia attenuata per tossicodipendenti di Eboli e nell’Istituto per minorenni di Nisida. “Esprimo apprezzamento per l’avvio della campagna vaccinale nelle carceri salernitane (63 detenuti vaccinati) e nell’Istituto per minorenni dove sono stati vaccinati 15 giovani ospiti, alcuni agenti ed operatori penitenziari - ha commentato Samuele Ciambriello, garante campano delle persone private della libertà personale - L’attuale piano di vaccinazione contempla e prevede la vaccinazione della popolazione carceraria, nel suo insieme, la quale rientra nelle categorie prioritarie previste dal ministero della Salute. Vaccinarsi è un diritto dovere per tutti, una tutela per il diritto alla salute, un obbligo morale per i detenuti. Logicamente è sempre una scelta volontaria”. In Italia i detenuti vaccinati per il momento sono 7.393 mentre i vaccinati tra il personale di polizia penitenziaria, amministrativo e operatori penitenziari, è di 17.566 (in Campania 1.982). Ci sono 871 detenuti contagiati dal Covid (6 in Campania), mentre sono 683 in Italia gli agenti di polizia penitenziaria contagiati (59 in Campania). Carcere, caos vaccinazioni. Uil-Pa: “Draghi intervenga” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 aprile 2020 Con la nuova ordinanza del Commissario straordinario Francesco Figliuolo “tornano in forte dubbio le vaccinazioni nelle carceri, nelle fasce di priorità, sia per i detenuti sia per la Polizia penitenziaria”. A sottolinearlo in una nota Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. “Per quanto sembra emergere dall’ordinanza, infatti, le vaccinazioni nei penitenziari dovranno proseguire con gli stessi criteri indicati per la generalità della popolazione. Se così fosse - continua - sarebbe gravissimo e l’Ufficio del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, che solo qualche settimana fa, anche dopo un nostro specifico intervento, aveva negato qualsiasi rallentamento delle vaccinazioni nelle carceri, questa volta sembrerebbe smentire se stesso”. “Naturalmente - prosegue il leader della Uil-pa Polizia Penitenziaria -, ci auguriamo di essere smentiti con la stessa rapidità del 23 marzo scorso, ma con diversa efficacia, visto che ci troviamo punto e a capo! Le vaccinazioni nei penitenziari, comunità chiuse e in perenne emergenza, anche di carattere sanitario e pure a prescindere dal Coronavirus, non possono subire ritardi e tentennamenti, pena pesanti ripercussioni in termini di perdita di vite umane, ma anche di sicurezza e ordine pubblico; tuttavia, nostro malgrado, le rivolte del marzo dello scorso anno pare non abbiano insegnato nulla”. “Eppure - prosegue De Fazio - secondo l’ultimo report ufficiale dell’8 aprile scorso erano ben 871 i detenuti e 683 gli operatori penitenziari positivi al Covid-19; solo qualche giorno fa, a Catanzaro, sono deceduti altri due detenuti, gli ennesimi, e un pesante tributo in termini di vite umane e già stato pagato anche dalla Polizia penitenziaria. Sono ancora vasti i focolai fra i ristretti a Reggio Emilia (115), Padova Due Palazzi (90), Catanzaro (74), Roma Rebibbia Femminile (70), Pesaro (64), Melfi (57), Asti (33), Parma (32) e Saluzzo (30); mentre fra gli operatori preoccupano soprattutto quelli di Parma (37), Napoli Secondigliano (31), Lecce (27), Reggio Emilia (26), Catanzaro (19), Torino (18), Napoli Poggioreale (17) e Foggia (16)”. “Peraltro, da quanto possiamo dedurre, pare che non abbiano più priorità nelle vaccinazioni, oltre alla Polizia penitenziaria, neanche le restanti Forze dell’Ordine. A questo punto - conclude il segretario della Uilpa Pp - dopo che pure la Ministra Cartabia aveva assicurato l’accelerazione delle vaccinazioni nelle carceri, ci appelliamo al Presidente del Consiglio, Mario Draghi, affinché ripristini e possibilmente velocizzi il precedente calendario di somministrazione del siero anti-Covid nei penitenziari, sia per i detenuti sia per gli operatori”. Padova e Reggio Emilia: il Dap costituisce due gruppi di intervento per l’emergenza contagi agi.it, 11 aprile 2020 Due nuovi gruppi di lavoro sono stati costituiti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per intervenire con immediatezza sui numerosi contagi da Covid-19 negli istituti di Reggio Emilia e Padova. Dovranno individuarne con urgenza le cause e predisporre le misure organizzative da adottare per evitarne l’ulteriore diffusione, garantendo al tempo stesso la migliore sistemazione dei detenuti nel rispetto delle norme sanitarie disposte dal Ministero della Salute e delle direttive fin qui emanate dal Dap. I due provvedimenti, firmati ieri dal Capo del Dipartimento Bernardo Petralia e dal Vice Roberto Tartaglia, ripropongono l’identica formula di successo con la quale il Dap ha affrontato e risolto in breve tempo i focolai di contagi verificatisi nella Casa circondariale di Tolmezzo nel novembre 2020 e nel Nuovo Complesso di Roma Rebibbia a fine gennaio scorso. I nuovi gruppi di lavoro sono entrambi coordinati dal Direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dap, Gianfranco De Gesu: ne fanno parte i Provveditori regionali competenti per territorio, rispettivamente quello per l’Emilia Romagna-Marche Gloria Manzelli e quello per il Triveneto Maria Milano Franco D’Aragona, il Provveditore per la Lombardia Pietro Buffa - per la qualificata esperienza nella gestione dell’emergenza-Covid maturata nella regione - e i Direttori dei due istituti, rispettivamente Lucia Monastero e Claudio Mazzeo. Antigone: “Anche nelle carceri anno durissimo per via dell’emergenza sanitaria” Il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2020 Sospese le attività coi detenuti, soprattutto la scuola. “L’emergenza sanitaria in carcere ha significato la sospensione di tutte le attività professionali, sportive e con i detenuti. Sono venuti meno i contatti con i familiari e soprattutto la scuola. Solo il 4% delle ore previste sono state erogate”. Sono le parole dell’osservatore nazionale dell’Associazione Antigone, Claudio Paterniti Martello, che si occupa dei diritti dei detenuti. “Secondo un nostro monitoraggio, a gennaio 2021 in un istituto su due la scuola era ripresa in presenza; nella parte restante la didattica a distanza veniva fatta solo in un caso su quattro. Sono emersi l’inadeguatezza delle infrastrutture tecnologiche e i problemi di spazi. Una diminuzione della popolazione detenuta permetterebbe quindi anche un maggiore accesso al diritto all’istruzione. Si è trattato di un anno durissimo e questo andrebbe riconosciuto dal parlamento con un provvedimento che preveda uno sconto di pena per chi ha passato quest’ultimo anno dietro alle sbarre. È stato un anno di vuoto che ha lasciato spazio all’angoscia e alla paura”. Domenica della Misericordia. Detenuti, infermieri e rifugiati con Papa Francesco di Benedetta Capelli L’Osservatore Romano, 11 aprile 2020 Il volto della Misericordia non è solo la Bolla d’indizione del Giubileo straordinario del 2016 - “Misericordiae Vultus” - ma anche lo sguardo di un detenuto che a Dio ha offerto il suo errore, di un infermiere che ha chiesto aiuto per salvare vite, di un disabile che vuole conforto nella difficoltà, di una famiglia che con la sua protezione arriva dall’Argentina in paese nuovo. Questi sono i volti che Francesco incrocerà nella Messa che celebra oggi, alle ore 10:30 nella Chiesa Santo Spirito in Sassia, in occasione della Domenica della Divina Misericordia. Tra loro anche dei giovani rifugiati provenienti da Siria, Nigeria ed Egitto, tra cui due persone egiziane appartenenti alla Chiesa copta e un volontario Caritas siriano della Chiesa cattolica sira. Il gruppo di detenuti e detenute arriva dal carcere di Regina Coeli, Rebibbia femminile e Casal del Marmo di Roma, saranno presenti alcune Suore Ospedaliere della Misericordia, una rappresentanza di infermieri dell’Ospedale di Santo Spirito in Sassia. Insieme al Papa - si legge in un comunicato del Pontificio Consiglio per la promozione della Nuova Evangelizzazione - concelebreranno diversi Missionari della Misericordia, in rappresentanza dei più di mille sacerdoti, istituiti durante il Giubileo straordinario, ai quali il Papa ha affidato un mandato particolare, legato alla celebrazione del sacramento della Riconciliazione e alla predicazione del mistero della misericordia divina. Le letture saranno proclamate da un seminarista, mentre il servizio liturgico verrà svolto da ragazzi provenienti da una parrocchia della periferia di Roma. Nel rispetto delle norme anti-Covid la presenza è limitata ad 80 persone. La Santa Messa sarà trasmessa sul portale di Vatican News (www.vaticannews.va), in streaming sul sito (www.divinamisericordia.it) e verrà resa fruibile alle persone sorde e ipoudenti attraverso la traduzione nella lingua dei segni LIS. Csm. Palazzo dei Marescialli, una poltrona per quattro correnti di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 11 aprile 2020 Elezioni suppletive al Csm. Oggi e domani 9 mila giudici e pm al voto. Un test dopo la bufera del caso Palamara. Il “caso Palamara” produce ancora effetti. Domani e lunedì gli oltre 9mila giudici e pm italiani sono chiamati a votare a elezioni suppletive per un posto vacante al Consiglio superiore della magistratura. Accade per la terza volta in tre anni, causa lo stillicidio di dimissioni seguite all’emersione pubblica del mercimonio sui vertici delle procure fra cinque membri del Csm, l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara (ora radiato dall’ordine giudiziario) e i deputati renziani del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri, quest’ultimo passato poi a Italia Viva. Nota bene: Ferri è un magistrato in aspettativa che, prima di essere reclutato da Matteo Renzi, guidava la corrente più conservatrice, Magistatura indipendente (Mi). Tra un anno la consiliatura di Palazzo dei Marescialli più travagliata della storia repubblicana finirà, quindi inevitabilmente l’attenzione per questo turno elettorale non è alta. Senza considerare che, fra emergenza Covid e caos vaccini con annesse polemiche sulle priorità nei turni, anche nei tribunali i pensieri in questo periodo vanno ad altre cose. In ogni caso è pur sempre un test interessante per capire umori e orientamenti delle toghe, che mai come ora stanno attraversando una fase di disorientamento interno e scarso feeling con l’opinione pubblica. Come dimostrano, emblematicamente, le vendite altissime del libro Il sistema dello stesso Palamara, scritto a quattro mani con il direttore de Il Giornale berlusconiano Alessandro Sallusti. In lizza per il posto reso libero dalle dimissioni di Marco Mancinetti ci sono quattro candidati, uno per ogni corrente principale: Mario Cigna di Unicost (il gruppo centrista cui appartenevano Palamara e l’ultimo dimissionario), Maria Tiziana Balduini di Mi (sigla di altri tre costretti a dimettersi nel 2019), Marco D’Orazi della davighiana Autonomia e indipendenza e Luca Minniti di Area, della quale fa parte (non senza tensioni) Magistatura democratica. D’Orazi e Minniti sono dunque espressione delle uniche due componenti che non hanno visto propri membri costretti a lasciare il Csm a causa dello scandalo, ma non è affatto certo che sarà uno di loro ad essere premiato dalle urne. La destra di Mi conserva, nonostante tutto, molta presa, e c’è chi è disposto a scommettere che a vincere sarà la sua esponente, Balduini, presidente di sezione del tribunale di Roma. Il davighiano D’Orazi, giudice a Bologna, si è fatto conoscere anche attraverso il libro Una giustizia degna dell’Italia (edizioni Pendragon). Pubblicato l’anno scorso sull’onda della vicenda Palamara, è un j’accuse contro “la perdita delle caratterizzazioni ideali” delle tre correnti tradizionali (Unicost, Mi e Area) trasformatesi in mere macchine autoreferenziali di gestione del potere, complice il fatto che “la gran parte dei magistrati si disinteressa del funzionamento dell’autogoverno”. Una delle soluzioni indicate: lo stop al carrierismo. Idea condivisa dal progressista Minniti, in servizio a Firenze nella sezione del tribunale dedicata a immigrazione e richieste di asilo: “Occorre evitare che la “dirigenza” sia inseguita come espressione di una tappa della “carriera”“ si legge nel suo programma pubblicato sul sito della rivista di Md Questione giustizia. I fatti che hanno portato alla catena di dimissioni dal Csm, sostiene Minniti, “hanno rivelato condotte gravissime, che hanno dimostrato la ricorrente capacità d’infiltrazione d’interessi abusivi all’interno della giurisdizione e dell’autogoverno dei magistrati”. Parole dure che forse non tutti i magistrati hanno voglia di sentire. Dossier anni di piombo. La Francia ora apre al rimpatrio di 11 terroristi di Conchita Sannino La Repubblica, 11 aprile 2020 “Pressante richiesta” della ministra Cartabia al collega francese Dupond. Da Pietrostefani a Petrella a Marinelli, sembra che “sia arrivata l’ora”. Recuperare conflitti e dinieghi. Magari prima che flocchino altre prescrizioni sulla variegata pattuglia di terroristi italiani, con esistenze nuove e consolidate, latitanti in Francia. Troppi decenni dopo, Parigi promette di sanare “le ferite” degli Anni di piombo e annuncia con inusuale impegno di voler affrontare il nodo - politico, prima che giudiziario - di quei brigatisti. Dossier affidato con “pressante e urgente richiesta” dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia al suo omologo francese Dupond-Moretti nel corso del loro primo (virtuale) confronto. “È venuta l’ora”, ha annuito con Cartabia l’avvocato entrato a Place Vendeime come Guardasigilli del governo Lastex dieci mesi fa (l’altro cognome è un omaggio alla madre Elena, di origini italiane). Significherebbe: arresti e consegne. Sembra che abbia influito la sensibilità del ministro: sa qualcosa di sete di verità, Dupond. La vocazione del penalista gli nacque perché il nonno materno, operaio immigrato dall’Italia, fu trovato morto nel 1957 in circostanze misteriose lungo una linea ferroviaria e, a dispetto delle denunce di uno zio, “non fu mai aperta l’indagine”. La dialettica sul rientro dei terroristi “protetti” da Parigi si era rianimata già nel 2019, dopo la ratifica italiana della Convenzione di Dublino. Il trattato riapriva il calcolo della prescrizione, facendo prevalere le regole del Paese che richiede l’estradizione: cioè l’Italia, che ha termini più lunghi della Francia. Poi, dopo le tensioni e gli incidenti con i vicepremier dell’epoca Salvini e Di Maio, nel febbraio 2020 ecco il Bilaterale a Napoli e le pazienti ricuciture Mattarella-Conte-Macron. Ora, in base alla legge italiana, anche se l’arresto avvenisse in via provvisoria (nell’attesa del complesso iter di rimpatrio) si fermerebbe la clessidra. Ma chi sono i destinatari di queste richieste di estradizione, fino ad ora infrante sullo scudo della dottrina Mitterand, che invece Macron potrebbe licenziare con un placet politico? Dal folto parterre iniziale (circa 30), con gli anni sono diventati sempre di meno i condannati in via definitiva su cui l’Italia potesse avanzare “pretese”. Roma e Parigi lavorano oggi su 11 profili, di cui 4 all’ergastolo (unico verdetto che non può essere “prescritto”). Obiettivo: scongiurare ulteriori colpi di spugna, anche sul dolore dei familiari delle vittime. Com’è appena avvenuto per la prescrizione scattata in favore di Luigi Bergamin, nelle stesse ore in cui i due Ministri della Giustizia riaprivano il dossier. Tra gli ideologi dei Pac, il gruppo armato di Cesare Battisti, e come lui condannato per l’omicidio del macellaio Lino Sabbadin, Bergamin avrebbe dovuto scontare 16 anni di carcere. Analogamente, già da marzo 2020, ha potuto dimenticarsi dei 12 anni di pena residua (banda annata e omicidio) Ermenegildo Marinelli: oggi in Francia è un imprenditore. Esattamente tra un mese, invece, il 10 maggio, si cancelleranno anche i 5 anni residui da scontare per Maurizio Di Marzio, brigatista che partecipò all’assalto e tentativo di sequestro del poliziotto Nicola Simone, nel 1982. Il futuro direttore Interpol Italia, quella mattina, pensava di aprire a un postino e si ritrovò in casa un commando armato: rimase gravemente ferito, rispose con tre colpi di rivoltella. Stessa colonna romana, stesso rifugio Oltralpe, per Enzo Calvitti, che dovrebbe scontare in Italia 18 anni e 7 mesi, condannato per tre azioni di sangue: il tentato sequestro Simone, l’omicidio di Raffaele Cinotti, agente di custodia di Rebibbia, e quello di Sebastiano Vinci, il vicequestore ucciso mentre andava a lavorare, ne11981. Tra quegli assassini, c’era anche Marina Petrella, Autonomia Operaia: arrestata dopo un conflitto a fuoco con i carabinieri su un bus, condannata all’ergastolo e coinvolta nel sequestro Moro, ottenne lo status di esiliata in Francia. E quando la Corte di Versailles, nel 2007, concesse l’estradizione, Sarkozy la salvò per motivi di salute: con solidarietà pubblica dell’allora première dame Carla Bruni e di sua sorella, l’attrice Valeria Bruni Tedeschi. Il nome di Petrella è oggi nell’elenco delle richieste di estradizione: rinnovata nel 2020. La mannaia dell’estinzione dei reati scatta poi, nel 2023, per Giovanni Alimonti, condannato nel processo Moro Ter; nel 2026 per Raffaele Ventura, ben 4 condanne per omicidio, rapine, banda armata, con 24 anni e 4 mesi da scontare. Mentre nel gennaio 2027 si prescrive anche il carcere per Giorgio Pietrostefani, ex dirigente di Lotta continua, 22 anni di carcere per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Quattro i latitanti da ergastolo che Cartabia vorrebbe riportare in Italia. Oltre a Petrella, sono: Narciso Manenti, coinvolto nell’uccisione del carabiniere Giuseppe Gurrieri, freddato a Bergamo nel 1979 davanti agli occhi del figlio 11enne, prima richiesta alla Francia inoltrata nel 1986; Roberta Cappelli, oggi architetto, stessa colonna romana delle Br; ergastolo anche per Sergio Tornaghi, colonna milanese Br, condannato per l’omicidio del maresciallo Francesco Di Cataldo. Un caso ancor più spinoso è quello di Paolo Ceriani Sebregondi, origini nobili, accusato dell’omicidio di Carmine De Rosa, responsabile della sicurezza Fiat. A suo carico non pende più domanda: la richiesta italiana fu esaminata e respinta nel me” rito dai francesi. Come avviene anche per la legge italiana, non si potrà più rinnovare l’istanza. I due ministri si sono dati appuntamento a breve: per la svolta. Fuori tempo massimo, per far quadrare i conti. Mai tardi, per riparare sentimenti di giustizia. Estradizione ex terroristi, dopo 40 anni vogliamo sbattere in prigione degli ottantenni di Frank Cimini Il Riformista, 11 aprile 2020 Quando venne estradato in Italia Cesare Battisti, al di là dei ministri armati di smartphone a Fiumicino perché evidentemente quel giorno non avevano niente di meglio da fare nell’esercizio del loro mandato, il messaggio forte arrivò dal Capo dello Stato Sergio Mattarella con le parole: “E adesso gli altri…”. E infatti siamo qui a registrare una nuova formale richiesta italiana alla Francia affinché consegni una decina di ex militanti di gruppi della lotta armata alle nostre prigioni. La ministra della Giustizia Marta Cartabia ha incontrato il suo omologo d’Oltralpe che ha detto di sì, ricordando però che tutto dipenderà dall’istanza politica superiore cioè da Macron. Dunque non è sufficiente la riforma del trattato di Dublino che rispetto alle regole precedenti fa prevalere la legge del paese che chiede le estradizioni e non più quella del paese che riceve le richieste. Cartabia, che da presidente della Corte Costituzionale già aveva insistito sulla necessità di superare il carcere come sanzione penale ribadendo poi il tutto da ministro, evidentemente ritiene che invece per responsabilità relative a fatti di oltre quarant’anni fa non si debba transigere. Dalla Francia Irene Terrel, storico difensore di moltissimi rifugiati italiani, spiega: “Non capisco come in Italia non si riesca, come è successo in altre questioni storiche, a concedere l’amnistia per delle vicende così vecchie. È incomprensibile, ci vuole una pacificazione servono misure di amnistia”. “Se si guarda al diritto francese sono tutti casi prescritti - aggiunge l’avvocato. Non capisco come si possa tornare su tutte queste questioni, sarebbe un errore giuridico e sarebbe scandaloso. C’è la prescrizione, c’è un accanimento ricorrente. L’amnistia permetterebbe di pacificare questo periodo politico che è stato estremamente doloroso per molte persone, ma c’è un momento in cui bisogna voltare pagina. I tempi giudiziari sono passati”. L’Italia non ha mai voluto fare i conti con la sua storia in relazione agli anni 70 per responsabilità di tutti gli schieramenti politici, a cominciare dalla sinistra che considera tuttora indigeste le parole di Rossana Rossanda sull’album di famiglia. Per cui le autorità italiane continuano a cercare di artigliare in giro per il mondo una serie di corpi appartenenti a ultrasettantenni quasi ottantenni da esibire poi come trofei di guerra, di una guerra finita da tempo. La lotta armata e il terrorismo politico da decenni non costituiscono più un pericolo per le istituzioni. Eppure si rischia di veder finire in carcere, tanto per fare un esempio, Giorgio Pietrostefani condannato per l’omicidio Calabresi quando sono passati in pratica cinquant’anni. Quel delitto in Francia è prescritto da tempo, in Italia lo sarà nel 2027. Nel nostro paese, ma anche in Francia ci sono giornali che danno conto anche dei sospiri in questa battaglia per ottenere le estradizioni. Si tratta di giornali pronti a criticare la magistratura e l’eccessivo peso del processo penale in merito ad altre vicende giudiziarie. Gli anni 70 invece restano tabù. Sarebbe necessario un minimo di equilibrio e pure di civiltà. Purtroppo non c’è. La realtà supera la finzione, “sorvegliato speciale” post scriptum di Mauro Ravarino Il Manifesto, 11 aprile 2020 Chieste misure cautelari per un militante anarchico. Imputato per un libro del 2015. Questa è una di quelle volte in cui letteralmente la realtà supera l’immaginazione. In cui si disarciona il “patto narrativo” che fonda tutta la comunicazione letteraria e un pezzo di romanzo viene considerato un’aggravante per imporre una sorveglianza speciale della durata di due anni per supposta “pericolosità sociale”. Succede a Marco Boba, militante anarchico torinese, una lunga storia nei movimenti, autore di Io non sono come voi, romanzo uscito nel 2015 per Eris Edizioni. Ed è proprio la frase riportata nel retro copertina del libro a essere finita nella richiesta di misure preventive mossa dalla Procura di Torino. “Troviamo davvero pericoloso e allarmante che in questi atti ci sia finito un romanzo”, afferma Anna Matilde Sali di Eris Edizioni. “Non possiamo accettare che diventi una prassi, se no qualsiasi libro potrebbe diventare un’aggravante. Questa volta è capitato in ambito di movimento, domani chissà”. La frase “incriminata”, estrapolata dal romanzo “per far capire a chi si ritroverà il libro in mano qual è il cuore della storia, il mood, l’atmosfera, lo stile narrativo”, è quella riferita dal protagonista del libro in un dialogo: “Io odio. Dentro di me c’è solo voglia di distruggere, le mie sono pulsioni nichiliste. Per la società, per il sistema, sono un violento, ma ti assicuro che per indole sono una persona tendenzialmente tranquilla, la mia violenza è un centesimo rispetto alla violenza quotidiana che subisco, che subisci tu o gli altri miliardi di persone su questo pianeta”. Un virgolettato che per ellissi viene, nella richiesta giudiziaria, fatto passare per pensiero dell’autore. La casa editrice precisa: “Parliamo di un romanzo di finzione, con un protagonista di finzione. Il romanzo è scritto in prima persona, al presente, scelta tra l’altro fatta non in origine dall’autore, ma dopo un lungo confronto tra autore ed editore. Editing, normale editing”. La narrazione letteraria d’altronde è di per sé sottesa a quel patto sintetizzato da Umberto Eco in Lector in Fabula a proposito del ruolo dell’autore che, all’inizio di un testo, stabilisce questo: “Voi non credete a quello che vi racconto e io so che voi non ci credete, ma una volta stabilito questo, seguitemi con buona volontà cooperativa, come se io stessi dicendovi la verità”. Il 21 aprile ci sarà l’udienza in Tribunale per discutere dell’applicazione della misura. “Ho iniziato a fare politica a 15 anni ora ne ho 53 anni - racconta Marco Boba - e non mi sono mai ravveduto. Ed è quello che mi viene imputato nella richiesta di sorveglianza speciale, che mi pare quasi un reato di opinione. Ero, sono e resto anarchico. La Procura mette insieme di tutto e di più, le mie condanne e denunce, la mia partecipazione a Radio Blackout e altro”. La sorveglianza sociale di cui fanno le spese attivisti No Tav o quelli andati in Siria con le Ypg curde è un provvedimento che colpisce le persone al di là di uno specifico fatto ma per un “comportamento generale”. “A noi - spiega Eris Edizioni - sembra davvero pericoloso che una finzione possa diventare una prova, che le opinioni o le azioni di un personaggio di finzione lo possano diventare, che una frase scelta dall’editore, per promuovere al meglio un libro, possa diventare un’aggravante e che una questura o una procura si possano occupare di una materia che dovrebbe restare appannaggio di chi fa critica letteraria. In questi anni più volte si è invocato il reato d’opinione. Dalla vicenda di Erri De Luca, assolto dall’accusa di istigazione a delinquere per essersi espresso a favore dei sabotaggi contro la Tav, alla studentessa accusata di aver partecipato attivamente a delle azioni No Tav solo per aver utilizzato il “noi partecipativo” nella sua tesi di laurea in Antropologia culturale sul movimento stesso”. Il libro di Marco Boba è, lo racconta lui stesso, “la storia di un ragazzo inquieto e disilluso a cui sta stretto il contesto di vita e che fugge a Filicudi. È una storia di amore e rabbia”. Moby Prince, dopo 30 anni ancora troppi misteri di Riccardo Chiari Il Manifesto, 11 aprile 2020 Né verità né giustizia. Anche Sergio Mattarella chiede di far luce sulla più grande tragedia della marineria italiana, nell’anniversario del rogo che provocò 140 morti. Al via una seconda commissione parlamentare di inchiesta, per far luce sulle cause dell’impatto fra il traghetto Navarma e la petroliera Agip Abruzzo. Gli Usa negano l’esistenza di tracciati radar e foto satellitari del porto di Livorno, nonostante le navi cariche d’armi di ritorno dalla prima guerra del Golfo. A trent’anni dalla più grande tragedia della marineria italiana, in cui 140 persone persero la vita, asfissiate e bruciate, nel rogo del traghetto Moby Prince a poche miglia dal porto di Livorno, anche Sergio Mattarella ha fatto sentire la sua voce: “Sulle responsabilità dell’incidente e sulle circostanze che l’hanno determinato è inderogabile ogni impegno diretto a far intera luce - sottolinea il capo dello Stato - e l’impegno che negli anni ha distinto le associazioni dei familiari rappresenta un valore civico e concorre a perseguire un bene comune”. Ma come arrivare alla verità, e alla giustizia, in questo mistero italiano? Era la notte fra il 10 e 1’11 aprile 1991 quando il traghetto della Navarma diretto a Olbia entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo, ancorata in rada fuori dal porto. L’incendio fu causato dal petrolio che si riversò sul traghetto dopo l’impatto con la petroliera. Ma le fiamme non avvolsero subito l’intero Moby Prince, tanto che molte delle vittime morirono asfissiate dal fumo, mentre si attendevano soccorsi arrivati, e questa è una certezza, in grande ritardo. Si salvò solo un giovane mozzo, Alessio Bertrand. Sul fronte giudiziario, la prima indagine si chiuse con processi dagli esiti deludenti. Alle perizie medico legali secondo cui i passeggeri del Moby erano morti nel giro di mezz’ora, si aggiunsero interrogatori troppo sbrigativi e testimonianze non prese in considerazione. Così in primo grado i quattro imputati di omicidio colposo plurimo - un ufficiale dell’Agip Abruzzo, il comandante in seconda della Capitaneria di porto, un ufficiale di guardia e un marinaio di leva - furono tutti assolti con formula piena. Mentre nella sentenza d’appello, validata in Cassazione alla fine degli anni ‘90, si stabilì l’intervenuta prescrizione del reato, segnalando comunque “l’inchiesta sommaria” della Capitaneria di porto. Da allora nessun processo, solo una seconda inchiesta della procura labronica archiviata dieci anni fa, e una terza indagine avviata tre anni e ferma alla fase preliminare. A farla partire sono stati i risultati di una commissione parlamentare di inchiesta che fino al 2018 ha lavorato sul caso, arrivando ad alcune conclusioni diverse da quelle della magistratura ordinaria. La commissione ha stabilito che la collisione non è stata dovuta alla presenza della nebbia, perché quella notte il cielo sopra Livorno era sereno, la visibilità ottima e il mare calmo. Né c’è stata una condotta colposa del comandante del traghetto, Angelo Chessa. Invece i soccorsi, sia pure lenti, si diressero verso la petroliera e non verso la nave passeggeri. Di qui l’accusa di incapacità della Capitaneria di porto di coordinare le operazioni di soccorso, con la conseguente morte di alcuni passeggeri molte ore dopo la collisione, e la censura sulle indagini, carenti, della procura labronica. Eppure la causa promossa dai familiari delle 140 vittime contro lo Stato, ritenuto responsabile, attraverso le sue articolazioni periferiche, della morte a bordo del traghetto, è finita con un nulla di fatto. Pochi mesi fa il tribunale civile di Firenze non ha riconosciuto il diritto al risarcimento. Per il giudice Massimo Donnarumma, la commissione parlamentare “non ha disvelato verità e certezze nuove” ma è “un atto politico che non supera quanto è stato già accertato a livello penale”. Ora sta per partire una seconda commissione parlamentare, per continuare il lavoro della prima. I familiari delle vittime ci sperano, anche per approfondire un punto rimasto oscuro: “In soli due mesi - è scritto infatti nella relazione finale - gli armatori e le loro compagnie assicuratrici si accordarono per non attribuirsi reciproche responsabilità, non approfondendo eventuali condizioni operative o motivazioni dell’incidente attribuibili ad uno dei due natanti”. La nuova commissione cercherà poi di fare luce sulle cause dell’impatto, ancora misteriose. Anche perché i tracciati radar e le foto satellitari del porto livornese nel momento dell’incidente non sono mai esistiti, almeno a quanto ha fatto ufficialmente sapere il governo Usa nel 2002. Nonostante che quella sera, alla fonda nella rada di Livorno, vi fossero ben cinque navi cariche di armi di ritorno dalla prima guerra del Golfo. Lazio. Le prime 18.000 dosi di vaccino Johnson & Johnson per detenuti e personale carceri fanpage.it, 11 aprile 2020 Lo ha comunicato l’assessore Alessio D’Amato in visita all’hub vaccinale dell’ospedale San Giovanni di Roma. La Regione Lazio ha scelto di utilizzare le prime dosi di vaccino Johnson & Johnson - 18.000 in arrivo il 19 aprile - soprattutto per vaccinare la popolazione carceraria e il personale che lavora nei penitenziari. I detenuti nel Lazio al 28 febbraio erano 6067. Il prossimo 19 aprile la Regione Lazio riceverà le prime 18.000 dosi dell’atteso vaccino Johnson & Johnson, per il quale è sufficiente una sola somministrazione e non due come per gli altri sieri somministrati finora. Una fornitura senza dubbio inferiore alle attese, tanto che per ora le farmacie non saranno coinvolte nella somministrazione come previsto in un primo momento. Una fornitura che, ha spiegato l’assessore alla Sanità Alessio D’Amato in visita al centro vaccinale dell’ospedale San Giovanni di Roma, sarà distribuita nelle carceri della regione, venendo somministrato a detenuti e personale. “Il 19 aprile avremo la prima consegna di vaccini Johnson&Johnson. Si tratta di una consegna quantitativamente modesta: 18mila dosi che andranno in prevalenza alle carceri per il personale che vi lavora e per i detenuti - ha spiegato l’assessore. Speriamo che dal prossimo mese di maggio potremo avere un ampliamento delle forniture”. Al 28 febbraio 2021 nel Lazio erano presenti complessivamente nelle case circondariali della regione 6067 detenuti tra uomini e donne, a questi vanno aggiunti tutti coloro che lavorano all’interno delle carceri a cominciare dagli agenti della Polizia Penitenziaria. Le condizioni di sovraffollamento, le condizioni sanitarie spesso precarie, rendono le carceri un luogo particolarmente pericoloso per il diffondersi del virus. L’ultimo focolaio di un certo rilievo di Covid-19 in un istituto di pena del Lazio si è sviluppato all’interno del carcere femminile di Rebibbia, dove oltre cinquanta donne tra operatrici e detenute sono risultate positive tanto da ipotizzare l’evacuazione della struttura. La nuova ordinanza firmata dal commissario Francesco Paolo Figliuolo dà priorità per classi di età e ai soggetti più fragili per il nuovo piano vaccinale, dando indicazione di procedere solo successivamente alla vaccinazione dei cittadini tra i 69 e i 60 anni, con altre corti di popolazione a rischio indicate dal ministero della Salute come la popolazione carceraria. D’Amato è tornato a chiedere certezze sulle forniture, a fronte dello sforzo delle autorità regionale di mettersi nelle condizioni di vaccinare la popolazione a ritmi sostenuti. “L’obiettivo nostro rimane di raggiungere l’immunizzazione entro l’estate. Per arrivare a questo dobbiamo avere una certezza delle consegne delle dosi che ancora oggi non abbiamo in maniera continuativa. Stanotte abbiamo aperto le prenotazioni alla fascia 62/63 anni. Abbiamo avuto per questa fascia già oltre 30mila prenotazioni - ha spiegato l’assessore - Abbiamo oltre un milione e 200mila prenotati tra le prossime settimane e il mese di maggio. È uno sforzo importante. Quello che chiediamo è che ci sia la garanzia della periodicità delle forniture”. Rispetto alle polemiche di queste ore su un sopposto obbligo nei fatti di vaccinarsi con Astrazeneca per gli over 60, l’assessore ha risposto così: “Nessun obbligo. Noi mettiamo a disposizione i vaccini che abbiamo. La gran parte delle dosi disponibili per la fascia di età 60/70 anni è Astrazeneca che è un vaccino raccomandato per questa fascia di età. Gli over 80 stanno facendo Pfizer”. Campania. Garante dei detenuti: bene la vaccinazione nelle carceri di Salerno e a Nisida Il Roma, 11 aprile 2020 “Esprimo apprezzamento per l’avvio della campagna vaccinale nelle carceri salernitane (63 detenuti vaccinati) e nell’Istituto per minorenni di Nisida dove oggi sono stati vaccinati 15 giovani ospiti, alcuni agenti ed operatori penitenziari”. Lo dichiara Samuele Ciambriello, garante campano delle persone private della libertà personale. “Stigmatizzo - aggiunge - erronee interpretazioni giornalistiche e di qualche politico e ricordo che l’attuale piano di vaccinazione contempla e prevede la vaccinazione della popolazione carceraria, nel suo insieme, la quale rientra nelle categorie prioritarie previste dal Ministero della Salute. Vaccinarsi è un diritto dovere per tutti, una tutela per il diritto alla salute, un obbligo morale per i detenuti. Logicamente è sempre una scelta volontaria”. Ciambriello ricorda poi i numeri dei vaccinati e contagiati nelle carceri italiane: “In Italia i detenuti vaccinati per il momento sono 7.393 mentre i vaccinati tra il personale di polizia penitenziaria, amministrativo ed operatori penitenziari è di 17.566 (in Campania 1.982). Ci sono oggi 871 detenuti contagiati dal Covid (6 in Campania), mentre sono 683 in Italia gli agenti di polizia penitenziaria contagiati (59 in Campania)”. Roma. La storia di Giuseppina, contagiata dal coronavirus a Rebibbia di Viola Giannoli La Repubblica, 11 aprile 2020 “Liberatela, è isolata in una cella senza doccia per settimane”. L’appello della figlia di una donna condannata a tre anni nel carcere romano e positiva come altre 70 recluse: “Le portano due bottiglie per lavarsi e niente visite”. Il garante dei detenuti: “In questi casi pene alternative”. Rosato (Iv): “Più rispetto per i diritti delle detenute”. “Una cella di tre metri quadrati per tre con una branda e un wc, niente acqua calda corrente, solo un fornello da campeggio per scaldare la caraffa che le viene portata e una piccola bacinella blu, di quelle per sciacquare i piatti, per lavarsi. Così vive da due settimane, isolata in una stanza, mia madre positiva al Covid nel carcere di Rebibbia”. La signora Giuseppina Cianfoni, 65 anni, nella Sezione Camerotti dell’edificio femminile del carcere romano ci entra il 26 gennaio. Venti giorni fa però scopre di avere il Covid, contagiata, come le altre due, da una compagna di cella che accusa i primi sintomi. In carcere partono subito i tamponi e, come da prassi, l’isolamento delle detenute da quelle sane. Ora però la figlia, Rossella Antinori, racconta la storia della madre e delle altre 69 detenute, in un carcere non attrezzato e troppo affollato - come quelli di tutta Italia - per garantire condizioni di vita e di salute più dignitose per chi è recluso e contagiato. Cianfoni, per trent’anni dirigente della Conservatoria dei registri di Velletri, è stata condannata a tre anni e 4 mesi perché accusata di essersi fatta dare da un cittadino 200 euro per trascrivere una sentenza del tribunale civile relativa al trasferimento di una proprietà. “Per un ritardo dell’avvocato nel presentare ricorso - racconta la figlia - mia madre finisce dietro le sbarre. Purtroppo il Covid fa del carcere un luogo più duro, in deroga a qualunque principio di umanità”. Rossella Antinori scrive al magistrato di sorveglianza, per due volte, e a lui ripete quello che racconta anche a Repubblica: “Gli spazi per l’isolamento sanitario sono scarsi nel carcere. Mia madre, come le altre detenute, è stata messa in una cella con solo il wc e il letto. Gli è stata data una bacinella e una piastra sulla quale scalda l’acqua che poi si versa addosso per lavarsi, con due bottiglie di plastica tagliate a metà. Senza acqua, senza potersi fare una doccia, senza mai guardare il cielo perché l’ora d’aria in isolamento viene soppressa e la finestra inquadra il muro, senza affetti perché le visite sono bloccate dai decreti, senza parlare con nessuna perché anche le malate Covid non possono vedersi tra loro. Oggi mi ha detto al telefono di essere di nuovo positiva, quindi la aspetta una quarantena in isolamento per altre settimane. Dove è finita l’umanità che dovrebbe contraddistinguere anche la pena?”, si chiede ancora la donna. Che ricorda come il 26 febbraio scorso è stata presentata istanza di scarcerazione e l’applicazione provvisoria dell’affidamento in prova, “ma finora non ci sono state risposte”. Al di là del caso singolo e delle ragioni della detenzione o dell’applicabilità di altre misure alternative, il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, è convinto che “in questa fase bisognerebbe consentire quanto più possibile le alternative al carcere”. “A Rebibbia femminile abbiamo registrato oltre 70 donne positive al virus su una popolazione totale di 300 detenute circa, una percentuale molto, molto importante”, sottolinea il garante. “Non ci sono luoghi idonei per la separazione delle detenute positive da quelle negative. Alcune fra le positive vengono ospitate al piano terra mentre le docce sono al terzo piano, quindi”, spiega ancora Anastasia, “ricevono una fornitura di acqua calda in bacinelle. Una condizione intollerabile, determinata dal fatto che le detenute sono sempre oltre il limite di capienza previsto. Se 70 utilizzano a turno le stesse tre docce è chiaro che le patologie infettive si diffondono più velocemente. Eppure ci sarebbe un regolamento del 2000 che prevede servizi igienici in tutte le camere detentive. Inapplicato da 21 anni”. A intervenire pure Ettore Rosato, presidente di Italia Viva: “Il Covid è una situazione straordinaria che non si può affrontare in maniera ordinaria. Occorre il rispetto dei diritti e delle condizioni igieniche e psicologiche dei detenuti e delle detenute”. Padova. Garante dei detenuti, l’accordo è lontano Il Mattino di Padova, 11 aprile 2020 Dopo il voto dato segretamente al superlatitante Matteo Messina Denaro, domani il Consiglio comunale tornerà in aula per cercare di nominare il garante locale dei detenuti. Non è escluso che proprio alla luce di quell’episodio, potranno esserci momenti di tensione tra i consiglieri. E non è escluso neanche che domani non si riesca nuovamente a trovare un accordo rinviando nuovamente la nomina. Una vicenda che ha fatto molto discutere dopo il voto a favore del boss mafioso del 3 marzo scorso Una scelta non troppo opportuna (coperta dal segreto del voto) che ha scatenato le reazioni di mezzo consiglio comunale, e in pochi giorni è finito anche sui tavoli delle ministre di Giustizia e Interno, grazie ad una pioggia di interrogazioni portate a Roma dai parlamentari di Pd e Fratelli d’Italia. Lo stesso prefetto Renato Franceschelli aveva definito il gesto “indegno” prima del disprezzo espresso dal garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e della discesa in campo di Libera. Padova. Garante dei detenuti, c’è di nuovo l’elezione di Alberto Rodighiero Il Gazzettino, 11 aprile 2020 Domani torna in consiglio comunale l’elezione del Garante dei detenuti e a far passare il candidato della maggioranza potrebbe provvedere Forza Italia. Dopo “l’incidente” dello sorso 3 marzo quando, nel segreto dell’urna, un consigliere misterioso ha votato il super-boss mafioso Matteo Messina Denaro, domani la maggioranza cercherà di far eleggere come garante Antonio Bincoletto (proposto da Coalizione civica). All’appello, però, mancherà sicuramente il voto di Luigi Tarzia della Lista Giordani che, come accaduto a marzo, tornerà a riproporre la candidatura di Maria Pia Piva. Salvo colpi di scena, però, la maggioranza questa volta potrà contare su almeno due voti dell’opposizione. Il primo è quello del capogruppo del Movimento 5 Stelle Giacomo Cusumano che, anche in occasione della votazione precedente, ha dato il suo voto a Bincoletto. A fare la differenza, però, questa volta sarà il capogruppo di Forza Italia Roberto Moneta che ora, appoggerà il candidato del centrosinistra. “La mia non è una presa di posizione ideologica - ha confermato Moneta - Dopo la figuraccia fatta a livello nazionale con il voto a Messina Denaro, non possiamo più permetterci di perdere tempo”. “Io, poi, sono un avvocato - ha aggiunto l’esponente azzurro - di conseguenza conosco bene la situazione carceraria. In virtù di questo, in nome della contrapposizione politica, non possiamo giocare sulla pelle dei detenuti. Proprio per questo ho deciso di votare per Bincoletto. Anche perché, alla prossima votazione, sarebbe comunque eletto”. Domani non è escluso che altri consiglieri di opposizione seguano l’esempio di Moneta. Tra gli indecisi ci sarebbe, infatti, il bitonciano Ubaldo Lonardi. Sassari. “A Bancali mancano gli educatori” La Nuova Sardegna, 11 aprile 2020 La denuncia del Garante Unida: c’è un’unica funzionaria per 393 detenuti. “L’area trattamentale del carcere di Bancali è in una situazione esplosiva. Con un’unica operatrice, a fronte di 393 persone detenute, che non è più in grado di garantire il servizio”. La denuncia arriva dal Garante dei diritti delle persone private della libertà, Antonio Unida, che denuncia la grave criticità in cui versa il fondamentale servizio per la mancanza di funzionari giuridici pedagogici. “Tutti sanno - sottolinea Unida - e ad oggi non si muove foglia. Non è più possibile andare avanti in queste condizioni, per le persone detenute ma amche per l’unico operatore presente, allo stremo delle forze, con gravi rischi per le sue future condizioni psico-fisiche”. “Per meglio capire il quadro ad oggi di Bancali, riferisco che la funzionaria si è sentita male, quindi non presenziando al lavoro, l’Area risulta completamente scoperta. Era normale che succedesse questo, non essendo in grado di gestire l’enorme flusso di pratiche amministrative, lavoro che inevitabilmente si riversa sull’unico funzionario, e tanto meno sarà in grado di gestire la popolazione detenuta, che necessita continuamente di colloqui di sostegno, colloquio di nuovi giunti per il continuo flusso delle persone detenute provenienti dalla libertà e non solo, colloqui di osservazione per le udienze già fissate nel calendario del Tribunale di Sorveglianza di Roma e Sassari (per i 41bis) per le quali non si potranno rispettare le scadenze. Da non sottovalutare i numerosi consigli di disciplina a cui l’unica funzionaria deve partecipare, visto che in un mese ne vengono celebrati circa sessanta, tutto ciò è inconcepibile”. “Evidenzio inoltre che il malessere all’interno della popolazione detenuta ha raggiunto livelli tali - continua il garante - che stanno diventando innumerevoli le denunce a carico dell’Area Educativa, nonostante l’unica Funzionaria non si sia mai sottratta agli impegni e alle incombenze lavorative, ora mi chiedo come mai tutto questo in una Struttura importante di fascia uno, come viene denominata quella di Bancali? Come mai nella Struttura penitenziaria di Uta, con circa cento persone detenute in più, ci stanno dieci funzionari dell’area giuridica pedagogica? Tenendo presente che non vi sono né 41bis né AS2 perché questa brutta situazione a Bancali? L’opinione pubblica deve sapere, così non si può più andare avanti, l’articolo 27 della nostra Costituzione non è messo in risalto come merita, è letteralmente calpestato”. Bergamo. Il carcere sarà intitolato all’ex cappellano don Resmini, morto di Covid di Francesco Loiacono fanpage.it, 11 aprile 2020 Il carcere di via Gleno a Bergamo sarà intitolato ufficialmente a don Fausto Resmini, l’ex cappellano del penitenziario morto a causa del Coronavirus il 22 marzo dello scorso anno. La cerimonia ufficiale per intitolare il carcere al “prete degli ultimi”, amato per il suo impegno per i più bisognosi, si terrà il 19 aprile alla presenza della ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Il prossimo 19 aprile il carcere di via Gleno a Bergamo sarà intitolato ufficialmente a don Fausto Resmini, l’ex cappellano del penitenziario morto a causa del Coronavirus il 22 marzo dello scorso anno. A partecipare alla cerimonia ufficiale di intitolazione della casa circondariale bergamasca sarà la ministra della Giustizia Marta Cartabia, che darà così seguito alla richiesta dei deputati del Partito democratico Elena Carnevali e Maurizio Martina che era stata accolta dal suo predecessore, Alfonso Bonafede, durante il governo Conte bis. Don Resmini, il prete degli ultimi e degli invisibili, era conosciuto e amato per il suo impegno a favore dei poveri, dei carcerati e di coloro che vivevano ai margini della società. Il sacerdote originario di Lurano, in provincia di Bergamo, aveva fondato la Comunità don Milani di Sorisole, dedita al recupero dei minori che avevano avuto trascorsi difficili. Per 28 anni è stato il cappellano del penitenziario bergamasco, ma non ha mai smesso di operare anche al di là delle mura del carcere. Esempio tipico di “prete da strada”, ha girato col suo camper “Esodo” offrendo pasti caldi a senzatetto ed è stato impegnato in prima linea al Patronato San Vincenzo. La sua figura di prete degli ultimi ed esempio di resistenza civile è stata recentemente ricordata anche dal presidente del Consiglio Mario Draghi durante la sua visita a Bergamo dello scorso 18 marzo, in occasione della prima Giornata nazionale del ricordo per le vittime del Covid-19. Adesso arriverà anche questo riconoscimento ufficiale: segno che l’eredità di don Resmini, come è stato ricordato in occasione delle celebrazioni a un anno dalla sua morte, è ancora viva. Con le madri in carcere: i bimbi galeotti di Susanna Turco L’Espresso, 11 aprile 2020 Emir ha due anni, quando vuole uscire e non può urla (“asi asi”, che sta per assistente), quando ha la febbre alta prega. A due anni. Stefan è spaventato dal rumore dei lavori sulle scale ma impossibilitato ad andare altrove, per non sentirli: dice solo “umore, umore”, piange. Stanno in carcere, indirettamente condannati dalla condanna delle loro madri, spesso portano dentro traumi che è anche difficile immaginare, corrispondono a una definizione paradossale, che parrebbe impossibile: “Bambini galeotti”, li chiamano. Una sorta di peccato originale in versione di Stato, come se un bimbo di uno, due o tre anni potesse mai essere capace di beccarsi una condanna, eppure. Adesso sono 33 in Italia, esiguo il numero quanto pesante il simbolo, quintessenza al cubo dell’invisibilità dei bambini cui Annalisa Cuzzocrea ha dedicato il suo libro “Che fine hanno fatto i bambini” (Piemme), esempio tragicamente perfetto di come la mancanza di volontà politica possa impedire la risoluzione persino di questo. Perché un Paese che non guarda al futuro non lo fa in nessun posto: nelle scuole come nelle carceri, nei grandi numeri come nei piccoli. Non guarda, quindi, tanto più a loro, gli invisibili degli invisibili, i figli delle “detenute con prole”, costretti a vivere dietro le sbarre perché nel loro “preminente interesse di minori” c’è quello di stare vicino alle madri, almeno fino ai 3 anni, per poi - se non ci sono famiglie cui tornare - essere trasferiti negli Icam, Istituti a custodia attenuata, dove comunque la sera si chiude tutto da fuori, come in un carcere. La pandemia ne ha ridotto drasticamente il totale, più che dimezzato il numero medio, grazie a un maggior ricorso alle misure alternative, lasciando però intatto il problema. Che sarebbe, a differenza del solito, persino risolvibile. L’ex senatore e presidente dell’Associazione A buon diritto, Luigi Manconi, intervistato all’interno del libro, rivela infatti che “per risolvere interamente il problema basterebbero un milione e mezzo di euro con i quali costruire cinque case rifugio”, oltre alle due che già ci sono, a Roma e a Milano. Non carceri, non Icam, situazioni comunque controllate, come prevede una legge del 2011. “Se il ministero della Giustizia volesse, in un anno il problema sarebbe risolto”, spiega Manconi. Chissà se la Guardasigilli Marta Cartabia lo sa. Cresce la sensibilità verso le disuguaglianze di genere di Enzo Risso Il Domani, 11 aprile 2020 Per il 40 per cento degli italiani la differenza tra uomini e donne è una delle principali forme di discriminazione. Questa asimmetria si riflette anche nella paura di perdere il posto di lavoro o di non riuscire a trovarne un altro. “Le ingiustizie continuano e il mondo inventa costantemente nuovi modi di discriminare le donne”, scriveva quasi vent’anni fa, nel 2002, la scrittrice Dacia Maraini. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, ma la situazione per le donne in Italia è mutata in modo limitato. Per alcuni aspetti, complice la crisi economica prima e la pandemia oggi, sembra essere sotto l’influsso di un pernicioso effetto gambero. Il dato maggiormente allarmante arriva dal confronto con gli altri paesi. L’Inequalities around the globe di Ipsos (pubblicato a Londra il 19 marzo) mostra un quadro desolante per l’Italia. Il 40 per cento degli italiani sostiene che la differenza tra uomini e donne è una delle principali forme di disuguaglianza presenti nel paese. Una quota che pone l’Italia al sesto posto nella classifica della disparità di genere tra i 28 paesi monitorati. Peggio dell’Italia, per livello di preoccupazione sul tema, troviamo Messico (45 per cento), Turchia e Spagna (42 per cento), Sud Africa e India (41 per cento). Le donne, si legge nel report realizzato da Ipsos in collaborazione con The Policy Institute di Londra, sono più preoccupate degli uomini per la disuguaglianza di genere e leggermente più angosciate per le disuguaglianze in termini di salute e aspettativa di vita. A riprova del basso posizionamento dell’Italia sul tema, c’è anche un altro indice, il Global ranking for gender equality del World Economic Forum, nel quale il nostro paese si colloca al 76esimo posto. Va chiarito che i paesi in cui, nella rilevazione di Ipsos, la preoccupazione per la disuguaglianza di genere è relativamente bassa, come Malesia, Russia, Arabia Saudita e Ungheria, sono anche quelli che si collocano nelle posizioni maggiormente basse nell’indice di uguaglianza di genere. L’Arabia Saudita si piazza al 146esimo posto (su 153 paesi), la Malesia al 104esimo, la Russia all’81esimo posto, mentre l’Ungheria al 105esimo posto. In vetta alla classifica del ranking di gender equality ci sono Islanda, Norvegia, Finlandia, Svezia e Nicaragua. Gli effetti della pandemia - La pandemia ha ulteriormente accentuato il divario di genere in Italia, mostrando non solo l’insufficienza del sistema di welfare, ma anche una tradizione culturale che fa ricadere sulle donne la gran parte del carico di cura della famiglia e dei soggetti più deboli. Il 61 per cento delle donne (contro il 21 degli uomini) è stata il principale caregiver nel corso del 2020. Il 54 per cento delle lavoratrici (contro il 17 per cento dei lavoratori) ha dovuto caricare su di sé gran parte della cura della famiglia. Il quadro delle asimmetrie di genere non migliora se osserviamo i dati sulla paura di perdere il proprio posto di lavoro nei prossimi mesi: 27 per cento tra le donne, contro il 20 per cento tra gli uomini. Di fronte alla necessità di trovarsi una nuova occupazione il 74 per cento delle donne (rispetto al 41 degli uomini) ritiene che dovrà cercare per almeno un anno. Non solo. Il 20 per cento delle donne (contro il tre per cento degli uomini) sottolinea che tra i principali ostacoli nel trovare un posto ci sia quello della discriminazione di genere. L’affresco discriminatorio si completa con ulteriori due dati. Il 41 per cento dell’universo femminile sa già che dovrà accontentarsi di uno stipendio basso e il 49 per cento (contro il 40 per cento degli uomini) prevede che dovrà accontentarsi di un contratto precario. Non stupisce quindi che il 40 per cento delle italiane si senta discriminato dalla società. Il ruolo guida del femminile - In società articolate e differenziate come quella in cui viviamo, sarebbe illusorio pensare che la qualità della società si esaurisca nel riconoscimento formale dei diritti o nella semplice definizione di quote di ruolo. È evidente che tutto ciò non basta. Occorre mettere in campo una visione e un’azione sistemica, capace di incidere sia sulla dimensione culturale della relazione tra uomo e donna, sia sulla realizzazione concreta di politiche in grado di garantire un supporto alle donne e una reale parità di genere nella quotidianità esistenziale, nonché di affermare un effettivo spazio di protagonismo e opportunità per le donne. Le pari opportunità sono uno dei veri indici di qualità, civiltà e benessere di una società. Le realtà post industriali e globalizzate, come sottolinea il filosofo francese Alain Touraine, hanno la necessità di generare un nuovo dinamismo sociale e democratico, per cercare di ricomporre le polarizzazioni e le distonie presenti. “Sono in primo luogo le donne - afferma il filosofo francese - quelle chiamate a essere le principali attrici di questa azione di ricomposizione della società, poiché, essendo state per tanto tempo la categoria inferiore a causa della dominazione maschile, oltre alla propria liberazione, possono svolgere un’azione di ricomposizione di tutte le esperienze individuali e collettive”. Raid razzisti via Internet, l’allarme sui minorenni per slogan e insulti antisemiti di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 11 aprile 2020 L’Antiterrorismo: “Interrompono celebrazioni e convegni con intrusioni informatiche di ispirazione neofascista”. Gli investigatori hanno censito 24 attacchi tra novembre e marzo scorsi. Gli ultimi raid denunciati risalgono al mese scorso. Il 12 marzo a Vicenza, durante un webinar (seminario via Internet) dedicato alla memoria del deputato socialista Domenico Piccoli, ucciso in Calabria un secolo fa, agli albori del fascismo, un ignoto partecipante s’è intrufolato inneggiando a Mussolini, Hitler e all’Olocausto. Una settimana prima a Milano, nel corso di una videoconferenza organizzata dal Comune dedicata alle “Storie della buonanotte”, qualcuno s’è inserito trasmettendo audio offensivi, foto del Duce e di donne nude. Le intrusioni - Sono intrusioni informatiche di ispirazione neofascista dove però le connotazioni goliardiche sembrano superare quelle ideologiche, al punto che l’apposito Servizio per il contrasto dell’estremismo e del terrorismo interno della Polizia di prevenzione le cataloga tra quelle di “altra natura”, rispetto alla categoria considerata più inquietante: le azioni di disturbo “a carattere antisemita”. Gli investigatori della Rete e dell’antiterrorismo ne hanno censite 24 tra novembre e marzo scorso, con un picco registratosi intorno al Giorno della Memoria delle vittime della Shoah, celebrato il 27 gennaio: in quel periodo sulle varie piattaforme si sono concentrati almeno una dozzina di assalti informatici per disturbare convegni e celebrazioni. Quasi sempre con slogan in omaggio a Hitler e al Terzo Reich, sulle note di “Faccetta nera” o altri inni nazi-fascisti. La lezione di ebraismo - Il primo della serie risale al 3 novembre, a Venezia, quando una “lezione di ebraismo” organizzata dalla comunità israelitica locale è stata interrotta da un partecipante con nickname “Rambo”, che ha diffuso insulti antisemiti mentre proiettava una svastica; le verifiche informatiche l’hanno trovato in provincia di Bergamo. La regione che conta il maggior numero di episodi è proprio il Veneto, seguito da Lombardia e Piemonte; poi ci sono Toscana, Lazio, e qualche isolato episodio diviso tra Centro e Sud. Ma la sorpresa maggiore è arrivata dalle indagini, prima telematiche attraverso i Dipartimenti della polizia postale, e poi sulle persone, con il lavoro delle Digos: nella grande maggioranza dei casi responsabili dei raid sono minorenni, ragazzini nati anche nel 2006, quindicenni o poco più. Che quasi sempre agiscono da casa, all’insaputa dei genitori, e avendo poca o nessuna cognizione della gravità di ciò che fanno. Gli incontri politici - A volte, dopo aver sperimentato le tecniche di intrusione per disturbare la didattica a distanza sono passati alle intromissioni negli incontri politici o di settore. Come quello organizzato dal Consiglio comunale di Corchiano, in provincia di Viterbo, il 9 gennaio; si parlava di depositi di rifiuti radioattivi e da postazioni internet individuate a Torino e a Brescia sono partiti insulti e bestemmie, con il sottofondo della solita “Faccetta nera”. I successivi accertamenti hanno portato gli investigatori nelle case di un rumeno quarantenne e di una italiana di origini kuwaitiane, 50 anni, ma poi s’è scoperto che a usare i computer erano stati i figli minorenni, iscritti ai gruppi Zoom Bombing e Telegram, che hanno ammesso le intrusioni. La leggerezza con cui questi giovanissimi inneggiano al fascismo o al nazismo, senza organizzazioni alle spalle né supporto ideologico, è comunque preoccupante: considerare slogan razzisti e antisemiti al pari di insulti e provocazioni generiche o a sfondo sessuale significa essere pronti ad assorbire la propaganda che altri diffondono con ben altre convinzioni. Come i due signori che in Sardegna e in provincia di Viterbo sono stati identificati e denunciati per le offese e le minacce alla senatrice a vita Liliana Segre. Neppure loro, denunciati per “propaganda e istigazione di discriminazione razziale etnica e religiosa”, avevano strutture o gruppi di riferimento; a differenza del quarantenne sassarese fondatore di una formazione battezzata Ordine Ario Romano, che diffondeva messaggi nazisti ed elenchi di cognomi di origine ebraica “in modo da poterli facilmente individuare”, per il quale è stato chiesto il rinvio a giudizio insieme ad altri sette imputati. I rischi - Il rischio di emulazione, esaltazione e potenziale aumento di pericolosità non viene sottovalutato dagli inquirenti. Lo dimostra la vicenda di Andrea Cavalleri, il ventiduenne di Savona arrestato nel gennaio scorso (ora agli arresti domiciliari) perché sempre via Internet incitava alla violenza contro “sionisti, liberali, marxisti e capitalisti”. Esaltava le stragi di Oslo e Utoya commesse dal terrorista norvegese Amders Breivik, e vagheggiava di seguirne le orme. La “condotta criminosa” di Cavalleri, con la contestazione di “apologia della Shoah e dei crimini di genocidio”, è stata considerata potenzialmente eversiva, e il 18 marzo la Digos di Bologna ha perquisito quattro persone in contatto con la sua chat di matrice suprematista. Ma all’origine di questa indagine ci sono le verifiche compiute sui proclami che esortavano alla “dissoluzione del giudeo” diffusi da un minorenne di Torino attraverso Telegram. Migranti. Niente testimoni: due freelance fermati al confine italo-francese di Serena Chiodo Il Manifesto, 11 aprile 2020 “L’area Schengen è uno dei pilastri del progetto europeo. Dal 1995 la libertà di circolazione si è concretizzata con l’abolizione dei controlli ai posti di frontiera”. Così recita una nota pubblicata sul sito del Parlamento Europeo, che prosegue: “Le autorità nazionali possono effettuare controlli ai posti di frontiera in seguito a specifici rischi”. Quali sono questi rischi? Oltre a ipotetici ‘attacchi terroristici’, la nota fa riferimento solo ai flussi migratori: quindi alle persone migranti, considerate un pericolo non per ciò che fanno ma per ciò che sono. Un approccio che legittima chiusure, controlli e pratiche, non sempre regolari: respingimenti immediati, anche di minori non accompagnati, trattenimenti. L’obiettivo primario è fermare i e le migranti. Per farlo, sempre più spesso viene colpito anche chi si oppone a questo tipo di approccio, come molti cittadini e attivisti. O chi, semplicemente, prova a fare il proprio lavoro. È il caso di Valerio Muscella e Michele Lapini, due fotoreporter italiani trattenuti per quattordici ore dalla polizia francese. Da circa una settimana i due freelance sono al confine alpino tra Francia e Italia, per documentare i passaggi dei migranti che, dopo aver attraversato la rotta balcanica - in cui le violazioni sono note anche grazie al lavoro di giornalisti sul campo - provano a proseguire il proprio viaggio, spesso verso il nord Europa, dove molti hanno una rete relazionale attiva. Un viaggio che l’assenza di politiche europee di ingresso legale e sicuro, e la mancanza di responsabilità condivisa tra stati membri, obbliga a fare nell’ombra, tra i boschi. E proprio nei boschi si trovavano Muscella e Lapini nella notte di lunedì di Pasquetta, nello specifico tra Claviere e Monginevro, dove stavano seguendo otto uomini, cittadini iraniani e afghani. Il gruppo è stato bloccato dagli ufficiali della PAF, la Polizia di frontiera francese. “Gli otto migranti sono stati fermati, e noi con loro, in quanto sospettati di essere passeur, trafficanti” racconta Muscella. A nulla è servito mostrare i documenti e chiarire di essere fotoreporter, con tanto di tesserino dell’AIRF (Associazione Italiana Reporters Fotografi). “Siamo stati portati al commissariato della Paf a Monginevro insieme ai tre cittadini iraniani e ai quattro afghani. Ci hanno tolto il cellulare, le stringhe dalle scarpe, le cinture. Dopodiché ci hanno chiuso in due celle separate. Per andare in bagno dovevamo farci accompagnare”, raccontano. Lì sono rimasti quattordici ore: telecamere di sorveglianza puntate, luce accesa, una panca di legno per provare a dormire. Alle 4 di mattina è arrivata una funzionaria della polizia francese. “Ci hanno chiesto se siamo sposati o fidanzati, dove viviamo, se in affitto”, spiega Lapini. Poi le domande si sono concentrate sul sospetto mosso dalla polizia. “Era evidente che eravamo lì per fare il nostro lavoro. Abbiamo mostrato le foto, i nostri siti, una lettera della Croce Rossa attestante il lavoro di documentazione che stavamo svolgendo”. Nessun cambiamento dalla polizia francese: si accavallano le domande sui percorsi dei migranti ed eventuali passaggi di soldi, ripetute in un secondo interrogatorio alle 6 di mattina. Sono le 10.30 del mattino quando i due vengono finalmente fatti uscire, dopo la firma di documenti in francese. Ieri l’avvocato Andrea Ronchi, nominato difensore, ha scritto alle autorità francesi per chiedere chiarimenti. “Il Comune di Monginevro ha risposto con una velina locale che sottolinea come le ore di fermo abbiano coinciso con il tempo necessario per chiarire la posizione dei due”. Dal commissariato di Briançon e dall’ufficio della Paf ancora nessuna risposta. “In un paese europeo, due cittadini europei sono fermati per 14 ore e trattati come arrestati. Inoltre non viene rilasciata loro alcuna notifica scritta, ma solo un foglio con una frase in pennarello che indica nel Tribunale di Gap il luogo per avere informazioni”, commenta l’avvocato, sottolineando: “Ci sono procedure che in Europa devono essere garantite, non possiamo lasciare che un cittadino europeo sul suolo europeo venga trattenuto senza capire il motivo”. E se a livello legale si chiarirà ciò che è successo, l’effetto immediato è già lampante secondo l’avvocato: “Quando accaduto mi sembra si configuri come simile a ciò che vediamo su più ampia scala in questo momento. Queste inchieste hanno l’effetto di dire che sulle montagne ci sono la polizia e non ci devono essere i giornalisti, come nel mare c’è la guardia costiera libica e non devono esserci le ONG. L’effetto che hanno è quello di allontanare occhi e orecchie dai luoghi più sensibili in questo momento in Europa, ossia i confini. Ed è proprio da come ci comportiamo in questi luoghi che si vede lo stato di salute delle nostre democrazie. E’ sulla situazione dei migranti che Muscella e Lapini pongono ora l’accento, perché se due cittadini italiani vengono trattenuti in quelle condizioni, cosa può succedere a chi non ha il passaporto ‘giusto’? “Gli otto uomini fermati con noi sono stati respinti: la polizia francese ha chiamato quella italiana, che come fa sempre in questi casi ha riportato le persone indietro”. Ecco come finisce per molte persone il viaggio: con un respingimento immediato verso il primo comune italiano, senza alcun tipo di assistenza se non quella di solidali e associazioni. In attesa, spesso, del prossimo tentativo. Perché chi ha alle spalle un viaggio di mesi, segnato da sofferenze e violazioni, difficilmente si fermerà proprio qui. Uno dei ragazzi afghani presente al momento del fermo ha vissuto in una fabbrica abbandonata a Bihac, in Bosnia, per sei mesi, prima di continuare il viaggio. Ha provato più di venti volte ad attraversare il confine. A fine marzo, una bambina afghana di undici anni è stata ricoverata a Torino in stato di shock dopo essere stata respinta con la madre dalla Polizia francese al confine del Monginevro. Entrambe hanno trovato sostegno presso la Casa cantoniera di Oulx. In bilico fra il “giusto equilibrio” con i tiranni e la rinuncia all’anima di Gianni Cuperlo Il Domani, 11 aprile 2020 Con questi dittatori, chiamiamoli per quello che sono, di cui però si ha bisogno, uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute e di visioni della società; e deve essere anche pronto a cooperare per assicurare gli interessi del proprio paese. Bisogna trovare il giusto equilibrio”. Così giovedì, in conferenza stampa, il capo del governo, Mario Draghi. A seguire la reazione irritata di Ankara nella replica del ministro degli Esteri, “il premier italiano ha rilasciato una dichiarazione populista e inaccettabile…Condanniamo con forza le parole riprovevoli e fuori dai limiti”. Come noto lo scambio è seguito allo sgarbo, non solo diplomatico, riservato a Ursula von der Leyen da parte del sultano Erdogan. L’immagine della presidente della Commissione europea accomodata su un divano con lo sguardo ai due presidenti uomini comodamente accasati sulle poltrone previste dal protocollo rimarrà simbolo di una pessima pagina e di una ancora peggiore mancanza di stile e consapevolezza politica del presidente del Consiglio europeo. Fino a che punto? - Sino qui la cronaca di una settimana difficile, a noi però rimane la domanda: coi dittatori, laddove riconosciuti e denunciati in quanto tali, si deve comunque “cooperare” nel nome di interessi nazionali giudicati prioritari rispetto allo stesso giudizio politico espresso? O detto in altri termini, fin dove è legittimo spingere la Realpolitik di una democrazia chiamata a stabilire i limiti oltre i quali una simile cooperazione finisce col comprimere, e magari annullare, i principi fondanti la democrazia stessa? È vero, la Turchia fa parte della Nato dal 1952, fanno settant’anni tra qualche mese. Altrettanto vero che il suo attuale presidente, il poco ospitale Recep Tayyip Erdogan, ha vinto le elezioni più volte, l’ultima, non senza polemiche, col 52 per cento dei voti. Vero pure che nell’ambito della svolta a destra del regime turco si sono moltiplicate le forme di repressione del dissenso, con l’arresto di innumerevoli oppositori, la destituzione di sindaci, un controllo ferreo sulla libertà d’espressione, ricerca e insegnamento. Verissimo, infine, che l’Europa - la patria del diritto mite e della tolleranza nel segno dei valori illuministi - stacca da anni generosissimi assegni al governo turco in cambio della compiacenza loro nel trattenersi in casa qualche milione di profughi siriani volenterosi di approdare al vecchio continente, il nostro. Col corollario che tale “ospitalità” non gode di alcuna garanzia sotto il profilo del trattamento, spesso disumano, degli apolidi in fuga. Ma quest’ultimo aspetto all’Europa interessa il giusto dal momento che, si sa, “occhio non vede, cuore non duole”, l’importante è non ritrovarsi quell’orda di disperati sull’uscio nostro con l’incubo di guastarci la scaletta serale del tiggì. Questo se guardiamo a est. Se poi lo sguardo si rivolge a sud - per dire, verso il Cairo - allora la denuncia di un regime sanguinario trova prove più che bastevoli, nella ferita tuttora scoperta di Giulio Regeni sino alla parabola senza termine di Patrick Zaki, da quasi quindici mesi detenuto senza ragione in un carcere di quel paese e oramai prostrato nel fisico e non solo. A giorni il parlamento italiano tributerà solenne riconoscimento al giovane studente trapiantato a Bologna finché la polizia di al Sisi non ne ha sequestrato la libertà e la vita. Lo farà con una procedura d’urgenza tesa a consentirgli di divenire cittadino italiano e sarà senza dubbio un momento prezioso e una testimonianza di dignità nella patria di Beccaria. Anche se sempre noi all’Egitto dove impera quel governo repressivo nel 2019 abbiamo venduto armi per poco meno di 900 milioni di euro. Cifra del tutto ragguardevole soprattutto se commisurata alla voce analoga di soli cinque anni prima. Dunque, Turchia, Egitto, ma alla lista della cronaca recente come non sommare la Libia dove le massime cariche del nostro governo si sono recate da ultimo coll’intento, più che legittimo, di contribuire a stabilizzare uno stato tecnicamente “fallito”, e scegliendo per l’occasione di ringraziare la sua attuale guida per quell’opera di salvataggio in mare (sempre di migranti e fuggiaschi si parla) prontamente riportati dentro campi di detenzione giudicati dall’Onu come dalla Corte europea di giustizia luoghi di afflizione, violenza e tortura? Anche in quel caso, inutile ripeterlo, convergono la rivendicazione sacrosanta di un principio - nello specifico contrastare i trafficanti di corpi rinforzando il canale dei corridoi umanitari - e la tutela di corposi interessi dell’Eni nello sfruttare la sua storica presenza nell’area. L’ambiguità dell’occidente - E allora? Dov’è che la condanna della dittatura turca o di quella egiziana può e deve combinarsi - “trovare il giusto equilibrio” per citare ancora il nostro presidente del Consiglio - con le esigenze primarie (ma pure secondarie e oltre) di un paese come l’Italia che ha tutto il diritto-dovere di preoccuparsi dei propri confini, dei propri interessi geo-strategici, delle proprie industrie e commesse? Perché il punto sta lì. Nel comprendere in quale misura il capitolo dei diritti umani su scala globale possano e debbano prevalere su ogni altro calcolo o interesse. Che poi è solo un modo meno brusco di chiedere alla politica (governi, parlamenti, istituzioni comunitarie) quale prezzo si è disposti a pagare per chiudere un occhio, meglio ancora tutti e due, dinanzi al calpestare lo stato di diritto, le libertà fondamentali della persona a partire dall’inviolabilità del corpo e dalla tutela della dignità di ciascuno. Il consuntivo? Riconoscere come le parole del nostro premier, al pari di quanti lo hanno preceduto nello stesso ufficio, siano il riflesso di una ambiguità che pesa sull’occidente come un macigno. Perché se da un lato dovrebbe la storia funzionare da monito verso i rischi di una sottovalutazione del ruolo delle dittature a qualunque latitudine (in fondo, inglesi e francesi ebbero a pentirsi del Patto di Monaco non troppo dopo il 1938), dall’altro ci dev’essere un criterio al quale principi non negoziabili si possano ancorare. Nel senso che non si può ridurre l’unica utopia universale rimasta - la difesa dei diritti umani a cominciare da quelli delle donne - a un relativismo etico di volta in volta subalterno e ostaggio di interessi meno nobili, ma più pesanti e pressanti nel rivendicare i propri interessi nazionalistici o corporativi. Una gerarchia più coerente - Si dirà che siamo dinanzi a un paradosso irrisolvibile perché se volessimo applicare il criterio accennato a ogni paese tacciabile di violare quei diritti sprofonderemmo in un isolazionismo impotente e totalmente inabile anche solo a stimolare una evoluzione possibile di quei regimi in senso più inclusivo e liberale. In questa affermazione c’è del vero, inutile negarlo, eppure un grande paese come l’Italia, al pari di altri e forse un po’ più di altri, dovrebbe non limitarsi a cercare il “giusto equilibrio”, ma capire come in un mondo privo di un chiaro ordine e in un tempo segnato da una democrazia più “fragile” si possa trovare la via per affermare il primato di alcune verità. Un po’ come avvenne a suo tempo, almeno nel cuore dell’Europa, col rifiuto della pena di morte, premessa odierna per l’ingresso nell’Europa politica. Il tema, dunque, diviene come e dove piantare i paletti, una linea di demarcazione, oltre la quale affermare la necessità di cooperare con una dittatura lasci spazio a una logica diversa: in che modo articolare il campo più largo di paesi e organismi sovranazionali capaci di agire congiuntamente per costringere quei regimi al rispetto dei diritti fondamentali. Perché, a dirla tutta, l’incidente della mancata terza poltrona per l’ospite europeo è certamente grave e da sanzionare, ma oltre l’episodio in sé rimane l’ipocrisia di un’Europa che sborsa denaro perché altri, fosse pure un dittatore, si faccia carico di evitare a noi un problema umanitario di troppo. Allora, forse, meriterà riavvolgere il nastro e darsi una gerarchia più coerente. Perché parliamo di diritti umani, e quelli non si governano a settimane alterne, pena trovarsi orfani non già di una poltrona, ma di un’anima. Stati Uniti. Quei bambini soli al confine col Messico, 19mila solo a marzo di Francesco Semprini La Stampa, 11 aprile 2020 A raccontare il dramma che si sta consumando al confine meridionale degli Stati Uniti è il video (divenuto virale) di Wilton Obregon il bambino di dieci anni del Nicaragua che ferma l’auto delle guardie di frontiera in Texas e chiede aiuto. Le immagini del giovanissimo migrante deportato già a marzo e rapito conia madre in Messico, riassumono l’ampliarsi del fenomeno che vede flussi di minori entrare illegalmente negli Usa incentivati dall’abolizione da parte del presidente Joe Biden dell’ordine di rimandare tutti indietro varato dal predecessore Donald Trump. Il suo gesto umanitario ha in realtà causato un’ondata migratoria di minorenni, 19 mila quelli che hanno attraversato da soli il confine il mese scorso, mentre ve ne sono almeno 20.822 in custodia degli agenti del “Customs and Border Protection”. A marzo gli arrivi sono aumentati del 70%, giungono dal Centro America soprattutto, ma anche dall’America latina e non solo: gli agenti di frontiera hanno infatti identificato cittadini rumeni. Disperati costretti talvolta a pagare prezzi elevatissimi ai trafficanti e a sopportare le temperature torride delle latitudini meridionali. Non è chiaro quanto potrà aiutare l’annunciato piano Marshall da quattro miliardi di dollari per l’America centrale col quale Biden punta a contrastare alla fonte il problema degli ingressi dei cosiddetti migranti economici, smantellando al contempo la rigida architettura della tolleranza zero messa in piedi da Trump. Il progetto ribattezzato strategia delle “radici profonde” pone un focus particolare sul “Triangolo del Nord”, ovvero Guatemala, Honduras ed El Salvador, i Paesi più a settentrione dell’America centrale, considerati il serbatoio dei flussi in arrivo. A confermare l’emergenza sono state le dimissioni di Roberta Jacobson, la cosiddetta zar dei confini la quale ha annunciato che, scaduti i primi 100 giorni di presidenza Biden, lascerà il suo posto. Ed ora è il Messico ad essere inondato dalle richieste di asilo, ottomila sino a questo momento, persone che sono giunte dal Centro America e sono state respinte al confine con gli Usa. Mentre dagli Stati di frontiera montano le richieste rivolte all’inquilino della Casa Bianca di recarsi ai valichi di Texas, Arizona e California e prendere atto di persona della gravità della situazione. Un invito che Biden ha sino ad ora ignorato, ma al quale non potrà sottrarsi anche per misurare la tenuta del suo governo. Navalny: una vittima del regime russo di Gabriele Minotti L’Opinione, 11 aprile 2020 Peggiorano le condizioni di salute del leader dell’opposizione russa al regime putiniano, Alexei Navalny, in seguito al suo arresto e al suo internamento nel campo di concentramento di Pokrov. Questo è quanto si apprende dal suo profilo Instagram che, attraverso uno staff di collaboratori e amici, continua a fornire aggiornamenti sullo dell’attivista liberale condannato a due anni e mezzo di reclusione. Navalny spiega che soffre di forti dolori alla schiena e alle gambe, che viene torturato con la privazione del sonno (sostiene che le guardie lo sveglino anche otto volte per notte) e che è dimagrito di otto chili. Per questo motivo ha chiesto di essere visitato da un medico di sua scelta: richiesta inizialmente negata dall’Amministrazione carceraria. In seguito al rifiuto, Navalny ha iniziato uno sciopero della fame che l’ha ulteriormente indebolito. Risibili, a questo proposito, i tentativi da parte dei suoi carcerieri di ridicolizzare la sua protesta, ad esempio - fa sapere lo stesso Navalny - mettendogli in tasca caramelle che poi venivano scoperte durante la perquisizione, o friggendo pollo e pane in prossimità della sua cella. Da alcuni giorni è, inoltre, affetto da una grave tosse e ha la febbre a 38. Teme di aver contratto la tubercolosi a causa di alcuni detenuti del suo distaccamento (circa quindici persone, vale a dire il 20 per cento) risultati positivi e che, come lui, non ricevono le cure adeguate. Pare che all’origine della diffusione della malattia vi siano le pessime condizioni igienico-sanitarie delle celle, la mancanza di un adeguato riscaldamento della prigione e la malnutrizione: gli unici alimenti sono patate e avena bollite, sebbene il regolamento preveda che i detenuti in condizioni di salute precarie debbano seguire una dieta proteica. La legale di Navalny, Olga Mikhailova, fa sapere che il suo assistito ha finalmente ottenuto di essere sottoposto ad alcuni accertamenti medici, dai quali è emerso che i dolori accusati nei giorni scorsi sarebbero dovuti ad una doppia ernia del disco, una delle quali particolarmente grave e che starebbe già determinando una perdita di sensibilità agli arti. Secondo gli specialisti, il trattamento prescritto a Navalny in carcere, oltre ad essersi rivelato inefficace, avrebbe anche portato ad un rapido peggioramento della situazione. Al dissidente russo resta comunque preclusa la possibilità di sottoporsi a cure adeguate - oltre al trasferimento nell’infermeria della prigione e al tampone per il Covid, che ha dato esito negativo - per i problemi respiratori accusati nei giorni scorsi. Fanno riflettere le parole della moglie di Navalny, Yulia: “Putin ha messo in prigione mio marito illegalmente. L’ha fatto perché ha paura della competizione politica e vuole restare sul trono per il resto della sua vita. Ciò che sta accadendo è una vendetta personale attraverso una giustizia sommaria”. Ora, che Putin non voglia per nessun motivo uscire dal Cremlino pare abbastanza ovvio, come il fatto che abbia paura dell’opposizione: altrimenti non si affannerebbe tanto a mettere a tacere chiunque gli si opponga, col veleno o con il confino in qualche sperduta prigione. La verità è che Putin non ha tutta la forza che ostenta e che vuole convincere di avere. La verità è che il suo potere è a rischio: lo dimostra la recente approvazione da parte della Duma - su iniziativa del suo partito, Russia Unita - di una legge che vieta di intraprendere procedimenti giudiziari contro gli ex-presidenti. Che l’autocrate abbia paura di ciò che potrebbe succedere, nel caso in cui perdesse il controllo della situazione e venissero a galla tutti i crimini perpetrati o tollerati sotto la sua presidenza? Probabile. Ma, soprattutto, è pienamente consapevole che Navalny ha tutte le carte in regola per sfidarlo e mettere fine al suo regno di oppressione e terrore: è giovane, è determinato, non ha paura delle ritorsioni, ha l’appoggio dell’Occidente e promette libertà, democrazia, diritti e garanzie costituzionali a un popolo che non ha mai conosciuto niente di tutto questo e che, forse, vorrebbe sapere come si vive da liberi cittadini. Non da sudditi, come ai tempi degli zar; non da proletari, come ai tempi dei soviet; non da pedine per la realizzazione di finalità ideologiche come la nascita della “grande Russia”, come sotto Putin. Semplicemente persone. Semplicemente cittadini di uno Stato che li garantisce e protegge i loro diritti. L’Occidente dovrebbe fare di più: non bastano le parole di indignazione, le pretese di scarcerazione, le pressioni diplomatiche, le sanzioni e le prese di posizione più o meno forti ma che non ottengono risultati concreti. Non bastano gli incoraggiamenti, la solidarietà e le “pacche sulla spalla” rivolte a Navalny. C’è bisogno di un Occidente forte e capace di adottare risoluzioni decise, incisive e finanche radicali. Di un Occidente capace di far sentire la sua voce, di affermare e difendere i suoi valori e di intraprendere delle serie azioni di contrasto. Non ha senso strepitare per le violazioni dei diritti umani in Russia, se poi con essa e col suo governo si proseguono le normali relazioni economiche e diplomatiche. Non si tratta di mere “questioni interne” sulle quali nessuno può interferire: è in ballo la dignità dell’Occidente stesso e di quell’ordine democratico-liberale, per il quale la Russia di Putin costituisce una seria ed oggettiva minaccia. Probabilmente una delle peggiori. Turchia. Che pena l’Europa che si inginocchia ai piedi del sultano sessista e liberticida di Barbara Spinelli Il Dubbio, 11 aprile 2020 Che l’età dei diritti sia al tramonto, ce lo hanno dimostrato con chiarezza Draghi, von der Leyen e Michel. Coloro che avrebbero il compito di preservare e difendere le istituzioni democratiche tuttora esistenti in Europa. Leggendo i giornali degli ultimi due giorni, viene da pensare che davvero i diritti umani siano un’ideologia occidentale in declino. E che a favorire tale lento ma inesorabile declino siano proprio quei governanti europei che invece avrebbero il compito di preservare e difendere le istituzioni democratiche tuttora esistenti in Europa, sorte dalle ceneri dei campi di concentramento nazisti nel secondo dopoguerra del secolo scorso. Che l’età dei diritti sia al tramonto, ce lo hanno dimostrato con chiarezza Draghi, von der Leyen e Michel. Draghi, pur di recuperare gli interessi economici in Libia, si è spinto ad affermare che “Sul piano dell’immigrazione noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi e nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia”, anche dopo che, al contrario, Fatou Bensouda, la procuratrice della Corte penale internazionale dell’Aia, ha messo nero su bianco nel suo rapporto al Consiglio di sicurezza dell’ONU la responsabilità del generale Haftar e delle milizie dal medesimo controllate nei crimini di guerra e nelle “sistematiche atrocità” commesse contro migranti e profughi. Von der Leyen e Michel, dopo i già sonori schiaffi assestati da Erdogan al sistema europeo di tutela dei diritti umani, il primo attraverso il menefreghismo dimostrato davanti alla sentenza della Corte Europea dei diritti umani con la quale si chiedeva l’immediata liberazione del leader HDP Selahattin Demirtas, dichiarando urbi et orbi che “la sentenza non è vincolante per Ankara”, il secondo, con la fuoriuscita dalla Convenzione di Istanbul, si sono dimostrati propensi ad accettare sottomessi anche il terzo, inflitto a favore di telecamere in occasione della visita ad Ankara. Che si sia trattato di un pasticcio diplomatico è fuor di dubbio: strano però che i funzionari della Commissione non si siano coordinati con quelli del Consiglio d’Europa per la preparazione della visita, e ancor più strano che i funzionari di Ankara ignorassero la pari dignità di entrambe le istituzioni. Perché è pur vero che il capodelegazione era Michel, ma quando si ricevono due istituzioni di pari importanza, le si assegnano posti di pari rilievo. Invece Ursula, a sedia mancante, si è accontentata del divanetto, declassata alla compagnia del Ministro degli Esteri Cavasoglu, lasciando la scena ai due uomini di potere. Ammesso che l’assenza della sedia sia stato frutto dell’imperizia dei funzionari europei, tuttavia a sedia mancante era chiaro che la scelta sul che fare avrebbe avuto una portata simbolica pregnante. Accettare il terzo schiaffo o ribadire il necessario rispetto della pari dignità istituzionale, a maggior ragione in quanto l’istituzione messa in disparte era rappresentata da una donna, attendendo in piedi l’arrivo della terza sedia? Purtroppo, Ue e Consiglio d’Europa hanno incassato il terzo schiaffo senza colpo ferire, ed anzi nella conferenza stampa congiunta hanno pure spiegato il motivo di tanto aplomb: intensificare gli scambi economici e rafforzare i finanziamenti per la gestione dei flussi migratori. Erdogan è stato scaltro: come nel gioco delle tre carte, rimbalzando tra i protocolli, ha mostrato al mondo intero la debolezza della diplomazia europea e la relatività dell’ideologia occidentale dei diritti umani, predicata ma non praticata. L’immagine che Michel e Von der Leyen ci hanno consegnato, come d’altronde Draghi con le sue dichiarazioni, è quella di un esecutivo fragile, vulnerabile, per il quale il prevalere degli interessi politici ed economico- finanziari impone la relativizzazione nella tutela dei diritti umani, la sudditanza a criminali di guerra, dittatori e despoti, che se ne compiacciono ingrassando le loro tasche, per fare il lavoro sporco. E così, mentre Al- Sisi, Haftar ed Erdogan se la ridono compiaciuti della fragilità italiana ed europea - fragilità ideologica e politica- e si godono i vantaggi economici che ne derivano, noi guardiamo la democrazia morire lentamente, affossata dalle logiche speculative dei governi, che non esitano a barattare sicurezza, commesse milionarie e rifornimenti energetici con il silenzio assenso ai regimi dittatoriali del Mediterraneo all’eliminazione interna della resistenza democratica, e all’erosione dello stato di diritto mediante la cancellazione della separazione dei poteri, dell’indipendenza della magistratura, dei principi di uguaglianza e non discriminazione. Nigeria. Attacchi, rapimenti e una clamorosa evasione di massa di Stefano Mauro Il Manifesto, 11 aprile 2020 Situazione sempre più critica. Nel più recente episodio che ha colpito la regione centrale del Paese una banda armata ha attaccato una pattuglia dell’esercito uccidendo 11 militari. E al sud, dove aumenta la tensione con gli indipendentisti biafrani, 1844 prigionieri in fuga dopo l’assalto al carcere di Owerri. Il presidente Buhari ufficialmente all’estero “per un periodo di riposo”. “Il nostro paese sta vivendo una dura crisi economica, sanitaria, sociale legata anche alla mancanza di sicurezza che è confermata dagli scioperi del settore pubblico di questi mesi (scuola e sanità in particolare, ndr), dal banditismo, dai rapimenti, dagli scontri intercomunitari e dagli attacchi alle forze di sicurezza, senza alcuna risposta adeguata da parte del presidente Buhari” ha affermato ieri alla stampa nazionale Atiku Abubakar, leader del Partito democratico popolare (Pdp) e principale forza politica di opposizione in Nigeria. Polemiche e durissime critiche, ormai sempre più frequenti, nei confronti dell’incapacità da parte del presidente Muhammadu Buhari (in questi giorni ufficialmente all’estero “per un periodo di riposo”) di poter arginare una difficile crisi securitaria, legata al dilagare della violenza in numerosi stati federali. In questi ultimi due anni si è passati dalle brutalità di gruppi jihadisti come Boko Haram e Stato islamico dell’Africa Occidentale (Iswap) nelle aree del nord-est (Borno, Yobe), al banditismo e ai rapimenti di studenti negli stati del nord-ovest (Katsina, Kano, Zamfara). Situazione che, in quest’ultimo mese, sta diventando sempre più critica anche in numerose regioni centrali (Niger State, Benue, Kaduna) con una serie di attacchi contro le forze di polizia e militari. Il più recente episodio risale a questo venerdì, quando una banda armata ha attaccato una pattuglia dell’esercito uccidendo 11 militari. Lo stato di Benue si trova nella zona denominata “Middle Belt”, vale a dire la fascia centrale della Nigeria, dove si sono formati numerosi “gruppi armati di difesa”, in seguito agli ormai decennali scontri tra pastori semi-nomadi e agricoltori sedentari. Il mese scorso, il governatore dello stato di Benue, Samuel Ortom, ha dichiarato di essere sfuggito “a un attacco di una banda di pastori armati mentre viaggiava su un convoglio” e secondo le forze di polizia “dopo anni di scontri con gli agricoltori, i pastori fulani hanno creato numerosi gruppi legati al banditismo”. Ancora più grave, se possibile, resta la situazione nelle aree del sud-est del paese, dove questo lunedì un gruppo armato, a bordo di pick-up e pesantemente armato, ha assaltato la prigione di Owerri, nello stato di Imo, facendo evadere più di 1.800 detenuti. “1.844 prigionieri fuggiti, l’ingresso principale del carcere abbattuto con l’esplosivo, numerosi veicoli distrutti e armi saccheggiate da una stazione di polizia”: questo il bilancio ufficiale presentato dall’ispettore generale della polizia, Muhammed Adamu, per quella che viene considerata dalla stampa locale “la più grande fuga di prigionieri della storia della Nigeria moderna”, con enorme imbarazzo per le autorità nigeriane. In una dichiarazione ufficiale Adamu ha indicato come principale indiziato dell’attacco, non rivendicato, il Movimento delle popolazioni indigene del Biafra (Ipob), invitando le forze di sicurezza “a sterminare tutti gli attivisti del gruppo”. A 50 anni dalla terribile guerra civile del Biafra (1967-1970), che ha ucciso quasi un milione di persone per lo più di etnia Igbo, rimangono forti le tensioni tra il governo centrale e i gruppi secessionisti biafrani - quello più politico dell’Ipob o la milizia dell’Eastern Security Network (Esn) - con la richiesta di uno stato indipendente. Da parte sua, Emma Powerful, portavoce dell’Ipob, ha negato ogni coinvolgimento nell’attacco al carcere di Owerri, definendo le accuse “false e strumentali”. Gli attivisti del gruppo negano di essere l’ala armata del movimento indipendentista e affermano solamente di voler “proteggere le loro comunità e i loro villaggi dalle violenze dei pastori nomadi Fulani, venuti dal nord del Paese”.