Covid. In carcere ci si contagia di più. Agenti e detenuti a forte rischio di Ilaria Sesana Avvenire, 10 aprile 2021 Aumentano i focolai, colpite anche le donne con bimbi. Antigone: tassi di positività maggiori negli spazi sovraffollati. I sindacati: accelerare con i vaccini. Si sono accesi a Reggio Emilia (con oltre cento detenuti positivi) e al “Due Palazzi” di Padova (più di novanta i positivi) gli ultimi focolai di Covid-19 scoppiati nelle carceri italiane. Per far fronte alla difficile situazione in cui si trovano due istituti, il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria ha istituito due nuovi gruppi di lavoro con l’obiettivo di individuare con urgenza le cause della diffusione del contagio e di predisporre le misure organizzative da adottare per evitarne l’ulteriore diffusione. Reggio Emilia e Padova vanno così ad aggiungersi all’elenco di carceri in cui sono scoppiati focolai di Covid-19: il carcere di massima sicurezza di Melfi, che conta oltre 50 detenuti postivi sui 160 presenti, e la sezione femminile del carcere romano di Rebibbia, dove prima di Pasqua una cinquantina di detenute sono risultate positive. Tra loro anche una mamma con un neonato che ha poco più di un mese di vita. E prima ancora Asti e la sezione 41bis del carcere di Parma. Complessivamente, secondo i dati aggiornati a lunedì 5 aprile, i detenuti positivi sono 823 (di cui 17 ricoverati in ospedale) su un totale di oltre 52mila ristretti. “Dall’inizio della pandemia i detenuti morti per Covid-19 sono stati 18 - spiega Michele Miravalle dell’Osservatorio di Antigone -. La situazione è relativamente sotto controllo, ma non dobbiamo abbassare la guardia. Anche perché sappiamo che i tassi di contagio tra i detenuti sono più alti rispetto allo stesso dato relativo all’Italia in generale”. Le carceri, infatti, sono ambienti che presentano condizioni favorevoli per la diffusione del Covid-10: spazi stretti, sovraffollamento, ingresso giornaliero di tante persone diverse aumentano il rischio. Non è un caso che l’incidenza del virus nelle carceri italiane sia più elevata rispetto all’esterno. Secondo una stima di Antigone, infatti, ad aprile 2020 nelle carceri il tasso di positività era di 18,7 casi ogni 10mila persone contro un rapporto di 16,8 ogni 10mila all’esterno. A dicembre 2020 la forbice si è allargata ulteriormente (179,3 positivi ogni 10mila in carcere e 110,5 all’esterno) mentre a febbraio 2021 il tasso di positività in carcere era di 91,1 ogni 10mila persone (e di 68,3 ogni 10mila persone all’esterno). Numerosi i contagi da Covid-19 anche tra la polizia penitenziaria: 683 (di cui 11 ricoverati) su un totale di 36.939 agenti e da marzo 2020 a oggi, sono 11 i “baschi blu” che hanno perso la vita a causa del Covid-19. “Vogliamo richiamare l’attenzione dell’Amministrazione penitenziaria sul Covid all’interno degli istituti penitenziari, per interrompere definitivamente questa preoccupante serie di decessi. Chiediamo che si completi al più presto la vaccinazione degli agenti” commenta il segretario generale della Fns Cisl, Massimo Vespia. La stessa richiesta arriva da Donato Capece, segretario del Sappe: “Siamo in ritardo con le vaccinazioni. L’appello che ho rivolto al Commissario straordinario Figliuolo è stato quello di dare una corsia preferenziale a tutti i poliziotti penitenziari e ai detenuti per la vaccinazione”. La campagna di vaccinazione in carcere ha preso il via a inizio marzo, anche grazie alle richieste provenienti dalla società civile e dai Garanti delle persone private della libertà: al 5 aprile i detenuti vaccinati sono 6.356 sui 52mila presenti. Mentre i vaccinati tra gli agenti di polizia penitenziaria sono 15.155 sui circa 37mila “baschi blu” attivi nelle carceri italiane. Concludere in tempi rapidi le vaccinazioni tra detenuti, agenti e operatori è importante anche per dare una prospettiva alla vita e alle attività che si svolgono in carcere. “Le attività formative, di istruzione e lavoro sono bloccate, in quasi nessun carcere stanno entrando i volontari - conclude Miravalle, di Antigone. Un carcere senza scuola e lavoro è un carcere che non svolge il ruolo che gli è stato assegnato dalla Costituzione. Ed è un carcere più pericoloso dove aumentano autolesionismo e tensioni. Capiamo l’esigenza di rispettare protocolli di sicurezza, ma serve una prospettiva di ripresa”. Rems, dai “senza casa” al “mostro di Foligno”: è di nuovo ergastolo bianco di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 aprile 2021 Luigi Chiatti, dopo 30 anni di carcere, dal 2015 è internato. Come lui altre persone si trovano nella stessa situazione, con il rischio che queste strutture si trasformino in nuovi Ospedali psichiatri giudiziari. Ha finito di scontare i 30 anni di carcere nel 2015, il giudice lo ha ritenuto ancora socialmente pericoloso e lo ha “internato” in una Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Siamo nel 2021 e di recente la magistratura di sorveglianza gli ha prorogato nuovamente la misura di sicurezza. Parliamo di Luigi Chiatti, conosciuto come il “mostro di Foligno”, l’autore del duplice omicidio di due bambini avvenuto a Foligno tra il 1992 ed il 1993. Le Rems hanno la caratteristica della transitorietà - Abbiamo preso questo esempio, ma ce ne sono diverse di situazioni simili, per porre un problema: più passa il tempo e più aumenta il rischio che verrà meno uno dei capisaldi della legge 81/2014 che superò i famigerati ospedali psichiatrici giudiziari. Quale? La necessaria transitorietà della Rems. La questione è stata affrontata recentemente anche dall’ultimo rapporto di Antigone “Oltre il virus”, nel quale si sottolinea come le Rems, nelle intenzioni del legislatore e delle buone pratiche, devono invece diventare “tappe” di un percorso progressivo (la c.d. progressività terapeutica). L’aumento della durata dei ricoveri fotografa un rischio di trasformazione delle Rems in “cronicari”, dove la durata del ricovero non dipende affatto dalle condizioni di salute il ricovero si allunga per il solo fatto che non si riescono a trovare soluzioni altre, con la conseguenza di allungare le liste d’attesa (numerosi sono in attesa dentro il carcere) e “negare” il posto in Rems a persone ancora nella fase acuta della loro patologia. La durata media di un ricovero in Rems è di 236 giorni - D’altronde, altro dato analizzato, al 30 novembre 2020 la durata media del ricovero in Rems è di 236 giorni, tre anni fa, nel 2017 era di 206 giorni. Una crescita costante che rischia di far riemerge nuovamente il fenomeno dell’ergastolo bianco. I soggetti a rischio sono coloro che hanno finito di scontare la lunga pena per gravi delitti legati alla loro psiche, ma rischiano di essere parcheggiati a vita nelle Rems perché i giudici non si vogliono assumere la responsabilità di indicare dei percorsi di uscita. Il problema dei senza fissa dimora - Ma poi ci sono anche chi è senza fissa dimora, privato di affetti e legami familiari, soprattutto quando il territorio non è in gradi di prenderseli a carico. La legge 17 febbraio 2012, n. 9 e la legge 30 maggio 2014, n. 81 hanno rappresentato gli ultimi tasselli legislativi di un lungo processo normativo - e culturale - che ha attraversato oltre un secolo di storia del nostro Paese ed è culminato il 1° aprile 2015 con l’apertura delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) e la definitiva chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg). I principi che informano l’attuale disciplina in materia di ricovero in Rems sono: la priorità delle esigenze di cura e l’esclusiva gestione sanitaria delle strutture; la residualità (extrema ratio rispetto all’applicazione di altre misure) e la transitorietà della misura di sicurezza detentiva; la territorialità delle cure (nel senso che la presa in carico dei servizi di salute mentale deve evitare lo sradicamento del malato psichico dal proprio territorio); la centralità del progetto terapeutico individualizzato (la cui assenza, per espressa previsione, non può fondare il perdurante giudizio di pericolosità sociale). Il rischio è che tutto questo rimanga sulla carta, mentre di fatto esistono situazioni che potrebbero smentire la buona intenzione delle leggi. Ritorniamo nuovamente all’ultimo rapporto di Antigone. Viene messo in evidenza un’altra criticità legata al tema della durata dei ricoveri. Parliamo della questione del “dopo-Rems”. Cosa succede quando termina la fase acuta del ricovero e il paziente è pronto a lasciar e la struttura? Rapporto di Antigone: dei 172 dimessi nel 2020 solo uno è andato agli arresti domiciliari - I dati elaborati da Antigone ci dicono che il “ritorno in libertà” è un’ipotesi sostanzialmente mai presa in considerazione dai giudici: dei 172 pazienti dimessi dalle Rems nel corso del 2020 (fino al 30 novembre) solo uno è andato agli arresti domiciliari, mentre per il 72% dei pazienti dimessi (154) vi è la trasformazione della misura in libertà vigilata o l’applicazione della licenza finale di esperimento. Ribadiamo il concetto. Le dimissioni dalla Rems giocano un ruolo particolarmente significativo: quest’ultime sono parte integrante del percorso terapeutico dei soggetti ricoverati e, allo stesso tempo, rivestono un ruolo centrale a livello sistemico. Il turnover dei pazienti, infatti, è uno dei termometri per misurare la buona riuscita della riforma, rappresentando uno dei punti di discontinuità rispetto al sistema che si era determinato nell’era degli Opg. Non sempre, però, accade. E allora ritorniamo a Luigi Chiatti: non può rimanere a vita dentro una Rems, altrimenti la struttura rischia di diventare un mini Opg. Un problema dove inevitabilmente bisogna farci i conti. Anche se abbiamo davanti dei “mostri”. Si approvi la legge per “liberare” i bambini detenuti con le mamme di Elisabetta Rampelli Il Dubbio, 10 aprile 2021 Sin dal 2018, dopo i tragici fatti di Rebibbia, quando una madre ha ucciso in carcere i suoi due figli, e il Consiglio d’Europa ha emanato linee guida a tutela dei diritti e degli interessi dei bambini dei genitori detenuti, ci siamo impegnati in dibattiti con avvocati, politici, psicologi e psichiatri, magistrati minorili, rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria e della polizia penitenziaria, per trovare soluzioni al paradosso di un sistema che prevede la presenza dei figli minori in carcere, nonostante esistano già norme che, se estensivamente applicate, potrebbero evitarlo. Norme affidate al volontariato, poiché la loro attuazione non deve pesare sui Bilanci dello Stato. Strazianti le storie di vita vissuta emerse durante quegli incontri. Memorabile la storia del primo incontro di un bambino con il mare e con la sabbia, la sua incapacità a camminare a piedi nudi. Dura la sensazione di essere di fronte a una forma di crudeltà. Unanime il verdetto finale: implementare quelle regole e quei principi già contenuti nella legge Gozzini e nella legge 61/ 2011, per rendere effettiva la tutela dei figli delle detenute o dei detenuti. E allora, oggi, non possiamo che salutare con soddisfazione la proposta di legge C. 2298 Siani, finalizzata a tutelare i minori e anche il loro rapporto con le madri detenute, e che modifica la disciplina e le modalità esecutive delle misure cautelari (artt. 275 e 285- bis, art. 293 c. p. p.), per evitare l’applicazione della custodia in carcere alle madri con prole di età inferiore ai 6 anni, prevedendo al contempo la possibilità - solo in caso di esigenze di eccezionale rilevanza - che il giudice disponga la custodia negli Icam. Interviene anche sul rinvio dell’esecuzione della pena, prevedendo un più ampio ricorso al beneficio, attraverso l’innalzamento dei limiti di età della prole, legittimandolo (artt. 146 e 147 c. p.). Incide sulla disciplina delle case famiglia protette prevedendo l’obbligo (e non più la facoltà) per il Ministro della giustizia di stipulare, con gli enti locali, convenzioni per individuare le strutture idonee, eliminando la clausola di invarianza finanziaria e sancendo l’obbligo, per i comuni, di adottare gli interventi necessari a consentire il reinserimento sociale delle donne una volta espiata la pena detentiva. Un altro segnale importante attesta il riaffiorare della sensibilità sull’argomento: nel 2018 i bambini a seguito delle madri ristrette erano 69. Ma al 31.3.2021 il numero è sceso a 26 madri con 28 figli, secondo il monitoraggio mensile del ministero di Giustizia. Ancora troppi. Dobbiamo impedire che anche un solo bambino sia sottoposto all’esperienza traumatica della privazione della libertà. Il traguardo da raggiungere è che il bambino non sia privato dell’affetto e delle cure materne, per tutelarne la salute e la crescita emotiva e sociale. Il Garante nazione delle persone private delle libertà, in una relazione al Parlamento ha scritto: “La presenza di infanti che trascorrono i primi mesi se non anni della propria vita, proprio i più decisivi per la formazione, in un contesto come quello del carcere rappresenta di per sé un grave vulnus.” E se alcuni Istituti si sono attrezzati con sezioni o stanze nido che ruotano attorno alle esigenze primarie del minore, altri non dispongono di nulla: reparti detentivi classici, talvolta anche in cattive condizioni, con carenza perfino di lettini adatti, e nei quali i bambini vivono in promiscuità con le altre detenute. Il Garante ha sottolineato: “Per questi bambini, che imparano a parlare all’interno del carcere, che acquisiscono familiarità con parole come blindo o passeggio, che vedono il cielo attraverso finestre con sbarre, che sono separati dai fratelli e dai padri e che al compimento del terzo anno di età come regalo ricevono la separazione tanto improvvisa quanto dolorosa dalla madre con cui hanno vissuto in simbiosi fino a quel momento, per questi bambini costruire un rapporto positivo con le Istituzioni sarà molto difficile”. È giusto non interrompere quel rapporto filiale che l’ambiente carcerario non aiuta, e che può diventare un rapporto malato, in cui il bambino è “iper-accudito” poiché sconta una totale dipendenza dalla madre, e soffre l’influenza istituzionale che anche a lui impone rigide regole di comportamento. L’istituzione si sostituisce alla madre in tutte le sue attività esterne, come le passeggiate o gli accompagnamenti al nido. Ed è corretto che permanga la clausola dell’eccezionale gravità cautelare per contemperare le esigenze di sicurezza pubblica con i diritti del minore, e scongiurare strumentalizzazioni del nuovo regime. Punto critico della proposta è, solo, l’art. 1 co. 3, che demanda l’accertamento dell’incompatibilità carceraria agli Ufficiali di P. G. incaricati di eseguire l’arresto. Sarebbe meglio prevedere una preistruttoria, durante la quale verificare le condizioni familiari del soggetto da sottoporre alla misura. In sostanza, è urgente realizzare case famiglia protette, è necessario prevedere che operatori sociali aiutino il percorso riabilitativo della madre e si occupino di coadiuvarla nell’educazione del figlio, per garantire al bambino una vita normale ed evitare che, sin dalla tenera età, sviluppi risentimento nei confronti dello Stato e delle Istituzioni, o coltivi il germe della criminalità. Anche attraverso questo contatto e questo monitoraggio costante si potrà stabilire se quel genitore è in grado di crescere un figlio e mantenere la responsabilità genitoriale. Non bastano le relazioni astratte alla luce di sporadici incontri in carcere. In caso di criticità, esistono gli strumenti normativi per affrontarle, ad esempio l’art. 330 c. c., che prevede la dichiarazione di decadenza dalla responsabilità genitoriale, e conseguente affidamento del bambino, quando il genitore viola o trascura i suoi doveri, con grave pregiudizio per il figlio. È stata la Corte Costituzionale, nel 2009, a ricordarci che il pericolo di una “strumentalizzazione” della maternità è adeguatamente bilanciato dalla circostanza che l’art. 146 co. 2 c. p. prevede espressamente, tra le condizioni ostative alla concessione del differimento dell’esecuzione della pena, e tra quelle di revoca del beneficio, la dichiarazione di decadenza della madre dalla potestà sul figlio. Allo stesso principio ci si potrà riferire nel caso di detenute (o detenuti) ospitati nelle case famiglia protette che violino i propri doveri. Tra i quali non annoveriamo, di certo, il dovere di educare il proprio figlio all’illegalità. Si può fare subito. La legge di Bilancio 2021 ha finalmente stanziato i fondi. Non aspettiamo ancora. *Presidente Unione Nazionale Forense Mancata privacy ai colloqui via Skype e il fenomeno trasversale di TikTok di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 aprile 2021 Comunicato dei Garanti per la privacy e per i diritti delle persone private della libertà che per la riservatezza nelle comunicazioni via Skype dei detenuti. Non viene rispettata la privacy dei detenuti che effettuano i colloqui telematici con i propri famigliari. Per questo, con un comunicato congiunto, il Garante per la protezione dei dati personali e il Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale richiamano il rispetto della riservatezza. Tale richiamo è nato a seguito di diverse segnalazioni relative a episodi nei quali le video-telefonate e i colloqui via Skype delle persone detenute si sarebbero svolti in assenza delle necessarie condizioni minime di riservatezza e, in particolare, in violazione del divieto di controllo auditivo da parte del personale di custodia. Per questo i garanti richiamano le Direzioni degli Istituti penitenziari e gli operatori addetti al rispetto di alcune essenziali garanzie per la tutela della riservatezza delle persone detenute che accedono a tale modalità di comunicazione o colloquio via Skype. Raccomandano, fatte salve eventuali misure disposte con provvedimento dell’Autorità giudiziaria, di approntare le postazioni di collegamento in maniera tale da consentire al personale di custodia di controllare visivamente a distanza il colloquio, avvicinandosi allo schermo solo per procedere alle necessarie operazioni di identificazione degli interlocutori, senza tuttavia ascoltare la conversazione. Inoltre, raccomandano che l’accertamento dell’identità del corrispondente avvenga all’inizio e al termine della conversazione con il tempestivo abbandono dell’ambiente di comunicazione per garantire la riservatezza della conversazione. A seguito dei richiami e delle raccomandazioni ad assicurare il rispetto della privacy nelle video-telefonate via Skype dei detenuti, interviene il Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Gennarino De Fazio. Concordando con tale disposizione, il sindacalista osserva un paradosso che si è creato. Ovvero che capiti sempre più spesso “che i colloqui o altre attività dei detenuti vengano registrati e pubblicati su piattaforme social tipo TikTok, verosimilmente con la complicità di terzi, per irridere e sbeffeggiare le istituzioni”. Per questo motivo, De Fazio chiede nello stesso tempo di introdurre accorgimenti tecnici e giuridici che impediscano e sanzionino la registrazione e la diffusione delle videotelefonate. In effetti, la settimana scorsa, sono girati video su TikTok riguardanti detenuti che hanno ripreso la loro cella e fatto ironia. Da segnalare, però, che recentemente anche una donna ha fatto un video su TikTok che si è ripresa con la divisa della polizia penitenziaria e pistola di ordinanza. Un curioso fenomeno, questo, che ha coinvolto diversi attori. Sicuramento da studio antropologico. Il diritto all’intimità di una conversazione c’è anche in carcere di Guido Scorza huffingtonpost.it, 10 aprile 2021 Oggi si parla della riservatezza dei colloqui dei detenuti. La tutela va assicurata anche a loro. La pandemia ha cambiato le nostre vite e non ha, naturalmente, risparmiato neppure quelle delle persone in carcere. Dell’impatto della pandemia sulla vita di chi, per le ragioni più diverse, sta scontando una pena dietro le sbarre, però, come spesso accade, ci si occupa di meno specie nella dimensione mediatica. Eppure i diritti della persona non si fermano - o almeno non dovrebbero fermarsi - sulla porta dei luoghi di detenzione. Tra i tanti diritti che, purtroppo, troppo spesso non trovano posto - per ragioni diverse - dietro le sbarre c’è il diritto alla privacy, alla riservatezza o, per dirla in maniera ancor più facile, all’intimità di certi momenti, un diritto che appartiene a tutte le persone, incluse, evidentemente, quelle che hanno sbagliato e stanno pagando il loro debito verso la società. Ovviamente esistono delle eccezioni a questa regola dettate da ragioni di sicurezza e di interesse pubblico connesse alla gravità dei reati commessi da talune delle persone in questione. Ma qui, ora non è di queste eccezioni che parliamo. Prima della pandemia le persone detenute avevano diritto a incontrare i loro congiunti, a parlare con loro, a raccontarsi un quotidiano diverso, lontani, distanti ma pur sempre un quotidiano, a confidarsi preoccupazioni, progetti per il futuro, sogni e desideri come si fa in famiglia, tra compagni, tra amici. E questi colloqui avvenivano - appunto salve le eccezioni di cui sopra - all’interno dei luoghi di detenzione in contesti nei quali i detenuti e i loro interlocutori venivano osservati a distanza ma non ascoltati dal personale preposto alla sicurezza delle carceri. La pandemia ha strappato via questa opportunità pure straordinariamente preziosa per la vita di chi, a prescindere dalle ragioni per le quali è accaduto, si ritrova a vivere lontano dai propri affetti, impedendo, tra l’altro, i colloqui all’interno delle carceri. Dopo un periodo di distanza forzata assoluta tra le persone detenute e i loro familiari, la tecnologia e le strutture di detenzione sono corse in soccorso e hanno garantito la progressiva ripresa dei colloqui sebbene a distanza e mediata da smartphone, tablet e PC. Quegli stessi strumenti di videoconferenza online che nell’ultimo anno sono diventati protagonisti indiscussi delle nostre giornate, a scuola, sul lavoro e in famiglia, sono diventati anche l’unica forma di incontro possibile tra le persone detenute e i loro affetti più cari. Ma è accaduto che - per ragioni diverse - in molti, troppi, casi in giro per l’Italia, questi colloqui già, inesorabilmente, meno umani, meno intensi, meno autentici di quelli di persona come ciascuno di noi ha potuto sperimentare sulla propria anima negli ultimi mesi di pandemia, siano diventati, in molte strutture, inutilmente, anche meno privati, meno riservati e meno intimi. I detenuti, infatti, si sono ritrovati - e si ritrovano - a dover parlare con i loro familiari e, in genere, con i propri interlocutori, non più da soli, per quanto sorvegliati visivamente a distanza dal personale addetto, ma in conversazioni alle quali, spesso, gli agenti di sorveglianza, partecipano silenziosamente da dietro le schermo, guardando e ascoltando - o anche semplicemente potendo guardare e ascoltare - tutto ciò che ci si dice e anche ciò che non ci si dice ma si legge negli occhi di due persone che si guardano più da lontano di quanto vorrebbero. Naturalmente tutto questo non ha senso. Naturalmente tutto questo non è umano. Naturalmente tutto questo non è lecito che accada in un Paese civile. Perché quei detenuti sono persone che hanno il nostro stesso diritto all’intimità almeno di quella conversazione e perché la forzata esigenza di ricorrere a tecnologie come quelle che tutti noi abbiamo scoperto e iniziato a usare in questi mesi, non ha niente a che vedere con l’esigenza di ridurre la misura della privacy alla quale una persona ha diritto almeno nel corso di un colloquio con un familiare. Nessuno - salvo appunto casi eccezionali - ha diritto a violare quell’intimità. Guai, naturalmente, a negare che, purtroppo, la realtà delle nostre carceri è tale da rendere, probabilmente, questo uno dei problemi non in cima alla lista delle priorità di chi le dirige e, però, giacché questo sembra uno di quei problemi che può essere risolto, a costo zero, semplicemente ponendoselo e riconoscendogli l’attenzione che merita, val la pena di rifletterci. Ed è per questo che il Garante per la protezione dei dati personali e il Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà hanno appena richiamato l’attenzione dei direttori delle strutture penitenziarie e degli operatori addetti ai controlli sull’importanza di garantire privacy e intimità di quanti partecipano a questi colloqui detenuti e loro interlocutori. Un piccolo passo nella direzione giusta per non dimenticarci mai, neppure in carcere e neppure durante la pandemia, che siamo e restiamo persone con alcuni diritti dei quali non possiamo e non dobbiamo essere privati e che la tecnologia deve essere usata per amplificare e rafforzare i nostri diritti e le nostre libertà e non per comprimerli e limitarli. Emergenza carceri al tempo del Covid. Intervista a Sandro Libianchi lavocedeimedici.it, 10 aprile 2021 Gli istituti penitenziari, luoghi complessi e spesso con alti tassi di sovraffollamento, rappresentano una delle realtà dove i detenuti hanno subito più di tutti le conseguenze del Covid-19, dai contagi fino all’isolamento imposto dalla pandemia. Ne parliamo con Sandro Libianchi, Presidente dell’Associazione “Co.N.O.S.C.I.” (Coordinamento Nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane - www.conosci.org), già dirigente medico nel complesso poli penitenziario di Rebibbia, Roma, specialista in Medicina Interna, Endocrinologia e Farmacotossicologia. Cosa significa innanzitutto “vivere in carcere”? Partiamo dal presupposto che ci stiamo riferendo ad un contesto particolare, che è confinato per sua definizione, poiché il ‘sistema-carcere’ intrattiene dei rapporti “controllati” con il resto del mondo; ciò vuol dire che il carcere ha un suo equilibrio del tutto particolare e spesso poco connesso con la realtà esterna, sebbene il “modello carcere” dovrebbe essere un modello di restituzione dell’individuo alla società esterna dopo un processo di riequilibrio. Parliamo dunque di “rieducazione” della persona, ma questo equilibrio è molto instabile poiché spesso il carcere resta ancora più un “contenitore di disagio”. Per questo la mission delle strutture penitenziarie dovrebbe realizzare una conversione da un modello puramente contenitivo ad uno di captazione e restituzione alla società, anche attraverso un giusto riallineamento degli attori in gioco: sanitari, direzioni, Polizia penitenziaria, ASL, ecc. In definitiva, l’occasione della carcerazione dovrebbe rappresentare anche quella del disinnesco delle tensioni individuali negative e una giusta canalizzazione verso una restituzione alla società “sana”. A seguito di una condanna la persona viene messa in carcere ed isolata da tutto: questo è un fatto comunque negativo e facilita processi di regressione dell’individuo. Il carcere diventa un contenitore di disagio psicologico e psichiatrico molto forte: il rischio è che, se l’intervento di sostegno non è adeguato, si assiste ad un peggioramento delle performance individuali. Ciò ha sviluppato grandi tensioni e l’innesto di questa “bomba sociale” interna è scaturito soprattutto dalle tensioni derivate dalla pandemia. Quali sono, ad oggi, le maggiori problematiche che si riversano sulle carceri italiane proprio come conseguenze della pandemia? Viviamo una fase che, per sue caratteristiche, non ha sicuramente favorito alcuna tranquillità del sistema, ma anzi ne ha indotto la crisi. Come tutte le realtà complesse, se noi cerchiamo di dare una spiegazione al problema, guardandolo da più angolazioni, non possiamo non considerare il lato sanitario, sfociato addirittura in rivolte. I 12 morti che si sono contati nel marzo scorso ne sono l’esempio drammatico: un fatto del genere non accadeva dagli anni ‘70. La rivolta vera e propria, sistematica, in più carceri, è stato un evento eccezionale, che deve essere considerato adeguatamente. L’altro tema che ha generato malessere è stato il fatto di limitare i contatti con i familiari: questo ha sicuramente aumentato le ansie interne tra i detenuti, anche se poi è scattato una sorta di meccanismo di compenso con le videochiamate, ma di certo non si è risolto il problema ed anzi si è acuito non poco quel senso di isolamento tipici di chi vive in carcere. Inoltre l’organizzazione sanitaria italiana ancora risente della forte distanza tra le necessità percepite o reali e l’offerta sanitaria: questo problema purtroppo viene ancora adesso delegato a dirigenze aziendali lontane, anche fisicamente, dalla struttura carceraria e questo induce una cattiva valutazione delle criticità quotidiane. Ci sono dirigenze sanitarie mediche che ritengono di gestire questi problemi comodamente dalla poltrona del loro ufficio, evitando di ‘sporcarsi le mani’; questo appare come un chiaro indicatore di una sottovalutazione del problema, che resta invece molto complesso. Peggiori sono anche quelle situazioni in cui si considera il carcere come un qualsiasi ambulatorio del territorio dove la cittadinanza riceve diagnosi e cura, ma così non è e questo testimonia la frequente non conoscenza della situazione, laddove lo stato di detenzione crea nuove esigenze e la necessità di risposte organizzative peculiari. E per il personale sanitario? Quali problematiche ha aggiunto il Covid-19? I problemi sono diversi e numerosi: diversi per natura, a fronte di una generale carenza di personale sanitario, che riflette anche la carenza nazionale, nelle carceri è ancora maggiore perché questi luoghi non vengono considerati come un “terreno attrattivo” da un punto di vista di sviluppo professionale; è un po’ visto come un “terzo mondo” e chi lo vive ogni giorno o è molto convinto di quello che sta facendo, quindi molto sensibile per natura, oppure ci si ritrova per ripiego: alla base, quindi, c’è una problematica motivazionale. Un altro grande problema è quello della formazione: è veramente sottovalutata, anzi spesso ci troviamo davanti a dei neolaureati o neoassunti, che ricoprono degli incarichi nelle carceri molto delicati, come il medico di guardia, d’emergenza, ma non sono stati forniti di alcuno strumento formativo adatto o minimo. La formazione è fondamentale: dovrebbe essere interprofessionale ed interistituzionale e le diverse figure professionali coinvolte dovrebbero quindi dialogare insieme, interfacciarsi, confrontarsi e formarsi con una procedura “bidirezionale”. Una formazione reciproca permetterebbe uno scambio di esperienza e visione, che ad oggi non c’è o è scarsissima. Paradossalmente questo approccio era più presente in passato, mentre oggi incredibilmente è quasi scomparso. A tal proposito come associazione “CO.NOSCI” stiamo varando un programma nazionale di formazione, che contempli tutto questo, mettendo a confronto i diversi attori in gioco (Sanitari, polizia, direzioni, volontariato, ecc.). Un altro aspetto riguarda i contratti: le persone trasferite dal ministero della giustizia alle Asl hanno purtroppo mantenuto il vecchio contratto che avevano fino al 2008, che era un contratto considerato un po’ “scarso”; le Regioni raramente hanno convertito questi contratti, nonostante ciò fosse indicato dalla legge. Infine la “vision” del sistema carcere-salute è molto spostata sulla frammentazione delle competenze, che risulta non organica e non considera la persona come un unicum. La conseguenza è quindi che la visione del sintomo prevale su quella della persona ad onta di precise indicazioni contenute in alcuni accordi in Conferenza Stato-Regione. Ci vorrebbe certamente più empatia, ma parliamo di un sentimento bilaterale: un operatore lasciato solo in carcere, senza una preparazione adeguata e senza un adeguato sostegno aziendale, è raro che riesca ad avere un atteggiamento empatico. Di certo è una caratteristica necessaria, ma purtroppo non frequente. La paura, la non preparazione, giocano a sfavore di un atteggiamento empatico, che è invece necessario per avere un rapporto lineare con la persona detenuta. Quanto la cultura è di supporto all’interno delle carceri? Cultura è sinonimo di salute? Sicuramente sì. La parola “cultura”, contestualizzata nel mondo del carcere, può essere declinata ed interpretata in tante forme diverse: un primo tema riguarda la formazione professionale, poi il tema di lavoro, che in carcere esiste ed è fondamentale per supportare e migliorare lo stato di salute mentale e sociale dei detenuti. Cultura vuol dire anche poter coltivare la propria religione, il proprio credo: in Italia esistono tante espressioni religiose ed in carcere è lo stesso. A tale proposito ricordo che la religione musulmana è la seconda più presente nelle carceri italiane ed è quella che maggiormente viene supportata. In alcuni spazi di detenzione viene autorizzato il possesso di immagini ed oggetti sacri. Altra attività culturale molto importante è la biblioteca, che in carcere è sempre presente e rappresenta un luogo molto significativo: sarebbe importante seguire i detenuti in questo percorso perché molti di loro hanno un livello culturale poco elevato, la lettura quindi è spesso non agevole. Poi ci sono i giornali e la televisione, ma vengono anche portati avanti progetti ed attività ludico-ricreative che aiutano queste persone da un punto di vista di benessere: dal gioco degli scacchi, allo sport, fino alle, seppur rare, visite guidate nei musei all’esterno; consideriamo che per un gruppo di detenuti non è un’operazione facile, per tutti i connotati di sicurezza che richiede l’organizzazione di un’attività come questa, in concomitanza di un parere favorevole dei magistrati di sorveglianza. In generale la valutazione dell’effetto benefico di queste attività non è semplice da fare, ma ci sono delle osservazioni dirette che mostrano quanto la conflittualità possa diminuire all’accrescere delle attività culturali. La bellezza del carcere? Ma per favore... di Domenico Alessandro De Rossi* Il Riformista, 10 aprile 2021 Sono stati annunciati i vincitori del concorso di idee San Vittore, spazio alla bellezza, promosso da Triennale Milano e dalla Casa Circondariale Francesco di Cataldo - San Vittore. La Commissione, presieduta da Stefano Boeri ha esaminato le 29 candidature pervenute e ha individuato sei gruppi vincitori. Ai raggruppamenti verranno assegnati i casi di studio oltre all’organizzazione di sopralluoghi e rilievi presso la Casa Circondariale. Nelle intenzioni i gruppi saranno chiamati a risolvere il ‘caso progettuale” in linea con le indicazioni programmatiche, fornendo un modello replicabile in altri contesti. Fra utopia e distopia, questo è quanto avviene in Italia oggi a fronte della grave crisi che coinvolge il mondo dell’esecuzione penale in tutte le sue drammatiche realtà, umane, organizzative, amministrative, tecnico-economiche. Praticamente due universi separati: da un lato la dura concretezza di drammi che si dibattono da anni senza aver trovato una logica istitutiva concernente l’esecuzione penale. Realtà complessa, mai risolta che necessita molto più a monte di soluzioni politiche e amministrative. Dall’altro lato, la tenera autoillusione di risolvere il gigantesco caso-carceri italiano attraverso un concorso di architettura che inventi l’ennesimo ossimoro dello spazio-alla-bellezza-in-galera. Non che chi scrive sia contrario all’uso terapeutico dell’estetica, magari anche nelle carceri, anzi. Stupisce non poco la distanza siderale come una certa professionalità, talune istituzioni e un sistema delle conoscenze e dei saperi siano ancora così lontane dalla (rimossa) realtà, tanto da proporre un così infelice autoinganno. Una metodologia falsata da indurre i più giovani architetti a cimentarsi nientemeno con un progetto per il carcere. Professionisti, molti dei quali probabilmente non avranno visitato prigioni. Non avranno parlato con i detenuti o guardato negli occhi i poliziotti della penitenziaria - quelli che si suicidano - o interloquito con gli educatori o con coloro che, più in alto, amministrano l’istituzione. Con somma superficialità l’equivoco del metodo suppone di risolvere il vasto problema (occultato) dell’esecuzione penale chiamando progettisti ad affrontare tematiche serissime proponendo nel motto concorsuale lo “spazio alla bellezza”. Poco importa, in corpore vili, il tema riscuote comunque visibilità, non si sa bene a beneficio di chi. Alcune di queste soluzioni ricordano decisioni fatte da governi felloni che in tempo di guerra invece di occuparsi di strategie militari e di armamenti preferirono cambiare il colore delle uniformi e dei pennacchi ai cappelli dei soldati. Il paradossale esempio rimanda alla stagione che stiamo vivendo in presenza del Covid-19 dove un qualcuno si è preoccupato di costruire costosi padiglioni per inoculare vaccini firmando l’idea con una primula: logo accattivante e sereno, accompagnato dal retorico motto per sconfiggere il male: “l’Italia rinasce con un fiore”. Mancava la musica. Per stupire, la superficiale formula per risolvere il problema carcerario oggi in Italia si decifra così: un concorso dove il dramma si doma con l’estetica, diventando commedia. Male non sarebbe rilanciare invece con maggiore serietà una riflessione globale, sistemica, multidisciplinare intorno alla esecuzione penale. Anche l’architettura potrebbe essere di ausilio, ma solo molto dopo aver chiarito a tutti cosa sia l’esecuzione penale. Quale sia il suo ruolo e il suo vero compito. Dove inizi e finisca la funzione scemi tarla, a chi spetti la competenza e gestione. Dove cominci e si evolva in itinere l’aspetto riabilitativo e comportamentale in vista del contrasto alla recidiva. Il Cesp opera da tempo su metodologie sistemiche, mettendo insieme intelligenze ed esperienze multi professionali proprio per offrire una risposta articolata alla più difficile fra le domande della società contemporanea. Oggi nessuno che voglia una riflessione più corretta per cosa possa essere l’esecuzione penale per i prossimi venti, trent’anni, non può pensare di risolvere il problema con l’ossimoro progettuale del carcere più bello. Dalle parole del ministro della Giustizia Cartabia si può coltivare una discreta speranza. Lavoriamo in tal senso. Poi verranno pure gli architetti. *Vicepresidente Cesp Dopo la prescrizione la Spazza-corrotti, nuova grana per la maggioranza di Simona Musco Il Dubbio, 10 aprile 2021 Forza Italia ottiene un ordine del giorno per discutere dell’applicazione pratica della norma. Ma il M5S avvisa: “La legge non si tocca”. La Spazza-corrotti torna a far discutere. E rischia di rappresentare una nuova gatta da pelare in seno alla maggioranza, dopo l’impegno preso dalla ministra Marta Cartabia a modificare il ddl penale nel rispetto degli articoli 27 e del 111 Costituzione. Sul piatto, com’è noto, c’era già il tema della prescrizione, legge bandiera del Movimento. Ora, dopo la discussione che ha tenuto banco in Commissione Affari costituzionali, Forza Italia punta anche all’altro caposaldo dei grillini, la norma grillina di contrasto alla corruzione. Non per rivoluzionarla, forse, ma per incidere almeno su uno dei suoi punti salienti: la responsabilità dei partiti rispetto alla “pulizia” delle proprie liste. Lo spunto è venuto dall’approvazione del decreto che rinvia le elezioni a causa del Covid. Decreto per il quale i forzisti - in testa Nazario Pagano e Luigi Vitali, spalleggiati dalla Lega - avevano presentato un emendamento per chiedere di eliminare - almeno in tempo di Covid - la sanzione a carico del partito che non ha provveduto, nei quindici giorni precedenti al voto, a pubblicare sul proprio sito il certificato penale dei candidati. “Le liste vengono presentate trenta giorni prima - ha affermato in aula Vitali - ed è irrazionale prevedere una sanzione quando ormai il termine per la presentazione delle liste è evaporato: ed è irrazionale soprattutto quando il partito dimostra documentalmente di aver richiesto il certificato penale al cittadino”. Il M5S non se l’è fatto ripetere due volte: “La Spazza-corrotti - hanno tuonato i senatori grillini - non si tocca”. E il clima si è ricomposto nel corso della riunione di maggioranza, quando il sottosegretario Ivan Scalfarotto ha ottenuto il rinvio di ogni altra discussione relativa all’eventuale revisione della legge con un apposito ordine del giorno. “Nessuna presa di posizione ideologica - ha commentato -, ma solo la consegna ai partiti di discutere sulla cosiddetta Spazza-corrotti, se lo riterranno, in un provvedimento che non sia il decreto legge relativo allo spostamento delle consultazioni all’autunno”. Ragionamento che ha convinto i forzisti a ritirare gli emendamenti, in attesa di discuterne altrove. “Ci è stato detto dal Sottosegretario che questa non era la sede per affrontare il tema e che forse la normativa era troppo giovane per essere sottoposta a una rivisitazione in maniera traumatica - ha evidenziato Vitali -, ma devo dare atto al presidente, al governo e a tutti i componenti della Commissione di aver preso un impegno, che non è quello di fare la rivoluzione di questa normativa, ma di aprire un momento di riflessione, al fine di verificare quanto ha funzionato e quanto no”. E poi il messaggio ai colleghi del Movimento: “Nessuno vuole sottrarre i partiti alla responsabilità della trasparenza nelle candidature e nella designazione dei loro rappresentanti; ma facciamo una normativa razionale, efficace e che funzioni, invece di sparare nel mucchio, perché non bisogna essere dei politici di professione per capire quali e quante sono le difficoltà nel momento in cui si devono presentare le liste, con i tempi ristretti, gli imprevisti, gli inconvenienti, le sostituzioni, le rinunce e le nuove candidature”, ha evidenziato. Una discussione, dunque, ci sarà. E non è dato sapere fino a che punto i partiti di destra tenteranno l’assalto alla norma, anche se il M5S ha già alzato le barricate: “Dare la garanzia che nelle liste non ci siano persone coinvolte in procedimenti giudiziari è un dovere delle istituzioni - si legge in una nota dei senatori grillini. È sconcertante che questa questione sia stata la priorità sollevata da Forza Italia e Lega mentre ci affrettavamo a chiudere un decreto che serve a rimandare all’autunno, in modo ordinato, le prossime elezioni amministrative”. Pagano, dal canto suo, ha provato a ricomporre gli animi: si tratterebbe, afferma, di “rivedere la legge alla luce dell’applicazione pratica”. Ma per Vincenzo Garruti, vicepresidente della Commissione Affari costituzionali in quota M5S, ogni discussione che modifichi i capisaldi della norma è da considerarsi esclusa. “Per noi la Spazza-corrotti è una garanzia di liste pulite e trasparenti - ha spiegato al Dubbio - e non è assolutamente in discussione. Deve ancora espletare completamente i suoi effetti e pertanto tale rimane. Se poi, come tutti i provvedimenti, si intende apportare delle migliorie amministrative, ma non politiche, per la pubblicazione dei casellari giudiziari è un altro discorso. Ma minare la norma per noi non è una via praticabile e su questo ci opporremo sempre”. In merito al limite di tempo per la pubblicazione dei certificati sui siti dei partiti, “nessuno vieta di agire prima dei 15 giorni che precedono le elezioni - ha aggiunto. Sarebbe buona prassi emulare il M5S. Se si vuole essere più precisi sulla questione dei termini, nulla osta ad andare incontro alle esigenze dei partiti, anche per prevenire le candidature di impresentabili. Su questo troveranno sempre la porta aperta”. Ed è per questo, ha aggiunto, che un ordine del giorno non si nega a nessuno. Purché ci si limiti a questioni pratiche. “Non c’è da riaprire alcun capitolo, al massimo si può discutere di semplificazione. Siamo integerrimi sull’attuazione della Spazza-corrotti in qualsiasi circostanza, anche in quella in cui ci troviamo”. E se l’intenzione degli altri partiti di maggioranza tenteranno di metterci lo zampino, la risposta è una sola: “In questo momento c’è bisogno di altro che fare guerre contro norme consolidate e per le quali si è già combattuto a suo tempo. Non ripetiamo battaglie già fatte, portiamo nuovi dibattiti all’interno delle assemblee”. L’eterno conflitto tra potere legislativo e sistema giudiziario ha origini antiche di Giuseppe Gargani* Il Dubbio, 10 aprile 2021 Il dibattito sulla giustizia e sulla politica è diventato più intenso negli ultimi mesi perché i problemi che il governo e il Parlamento debbono affrontare sono più complessi e interessano maggiormente i cittadini, ma anche perché le dichiarazioni rese dall’ex magistrato Luca Palamara rivelano quello che i magistrati hanno messo in atto per conquistare e gestire un potere anomalo di natura politica. Prima degli anni 90 queste discussioni interessavano gli addetti ai lavori, ora interessano tutti, ma dobbiamo constatare che lo scontro tra il potere legislativo e il sistema giudiziario si registra sin dai tempi antichi come ci spiega in una lucida e approfondita analisi il professor Ortensio Zecchino in un recente libro “Il perenne conflitto tra i “signori” del diritto”. “La storia del diritto”, precisa l’autore, si sviluppa in un “perenne conflitto per conseguire il dominio della società, perché chi controlla il diritto controlla la società”, e si presenta come un alternarsi di stagioni di dominio del legislatore, con stagioni di dominio del giudice, o se si vuole come eterno conflitto tra questi due che sono i “signori’ del diritto’. “La ‘premodernità giuridica’ aveva visto il dominio della giurisprudenza; la modernità giuridica negli ultimi due secoli ha dato lo scettro al legislatore, la ‘post modernità’ e il ‘ postumanesimo’ riportano in auge il giudice e la giurisprudenza”. Ed è per questa ragione che un brillante analista francese Rosanvallon precisa che il secolo XXI dà la prevalenza al giudiziario rispetto ai secoli che l’avevano data prima al Parlamento e poi al governo. La contesa con il potere politico da parte dei giudici è legato alla interpretazione della legge che ha consentito al giudice di essere protagonista, e in un sistema complesso come quello italiano ha determinato una prevalenza del giudiziario e il dominio della giurisprudenza che si sostituisce alle regole del codice. Naturalmente il giudice del nostro tempo non si limita a questo semplice conflitto ma va oltre fino ad invadere e occupare la sfera politica del potere. Vediamo quale è la differenza tra i tradizionali conflitti e quelli attuali fortemente patologici. La subordinazione della politica al potere giudiziario si è accentuata dagli anni 70 in poi con una legislazione che ha accentuato l’’ autonomia’ della magistratura anche nella sua organizzazione interna a discapito della indipendenza che è un valore più consistente sul piano costituzionale e prezioso per l’equilibrio dei poteri. Per fare l’esempio più vistoso, la progressione automatica in Cassazione da parte del magistrato stabilita per legge negli anni 70, che segue quella di eguale contenuto per la Corte d’Appello, ha eliminato la verifica dei meriti e della professionalità perché si è ritenuto che i “meccanismi” per determinarli “intaccavano” l’indipendenza! Si è enfatizzata in tal modo una ‘autonomia’ come separatezza e irresponsabilità e non si è garantita l’indipendenza. È stato un intervento esasperato per eliminare qualunque regola e qualunque valore all’ordinamento giudiziario che il Parlamento ha operato a maggioranza con l’opposizione di chi scrive e di pochi altri! Questo intervento insieme a tanti altri, che sarebbe lungo elencare, ha consentito una funzione giudiziaria fuori dalle regole istituzionali non finalizzata a reprimere l’illegalità, ma a far vincere il bene sul male: si è affermato in questo modo il magistrato etico molto pericoloso per l’equilibrio democratico che garantisce la legalità e non reprime come suo esclusivo dovere l’illegalità. La funzione del magistrato è cambiata profondamente da allora perché la norma contenuta nel codice che attribuisce al pubblico ministero il compito di “ricercare il reato”, al di là della notizia criminis, ha consentito di contestare un sistema, un qualunque sistema e quello politico in particolare dove il sospetto è maggiore, per… ricercare al suo interno il reato. Questo metodo ha caratterizzato il sistema Tangentopoli che si è sviluppato con le “mani pulite” della procura di Milano ma ha orientato tutta la magistratura in questi anni. Non desta meraviglia quindi che Nicola Gratteri procuratore della Repubblica scriva la prefazione ad un libro “Strage di Stato” che tratta di una pandemia inventata e di un complotto internazionale, perché è nella logica del metodo da lui sempre utilizzato: quello di indagare su presunti complotti, come è stato detto o su sospetti. Le sue indagini sul sistema mafioso calabrese, purtroppo molto diffuso e pericoloso, hanno come conseguenza retate consistenti che portano pur sempre a un qualche risultato e alla individuazione di reati e forse anche di rei. Gli autori del libro negano la letalità del virus e l’utilità dei vaccini e Gratteri individua quindi un “sistema” malato, equivoco, pericoloso una sorte di complotto sul quale bisogna indagare e la sua prefazione è come una iscrizione a ruolo … per poi scoprire il sistema corrotto e forse il corrotto. Le denunzie e le rivelazioni, che tanti di noi conoscevano, di Palamara sono le conseguenze di tutte le azioni o le omissioni del legislatore e della politica che hanno consentito che un “ordine”, così come disciplinato dalla Costituzione, si trasformasse in “potere” autoreferenziale e irresponsabile sul piano esterno. È stato detto con molta acutezza che la magistratura ha operato su un doppio binario: il primo proprio per chi deve far carriera e l’altro per chi deve esercitare e garantire il potere attraverso l’associazione, le correnti, e il Csm che non è solo un organo di autogoverno ma di rappresentanza politica interna ed esterna. Tutto questo è avvenuto con il disinteresse del legislatore che consapevolmente e al tempo stesso inconsapevolmente ha delegato il magistrato a risolvere questioni difficili da disciplinare sul piano legislativo, e alcune leggi contengono addirittura una delega in bianco come quella che disciplina il “traffico di influenze”, un possibile reato privo di una “fattispecie” concreta. Orbene i magistrati che si occupano solo della personale carriera non hanno bisogno, come dice in maniera stupefacente Eugenio Albamonte, ex presidente dell’Associazione, di essere valutati “con criteri di eccellenza”, ma “con lo scopo di garantire uno standard professionale adeguato a tutti i cittadini in relazione a tutti i processi che vengono celebrati. Il cittadino non ha bisogno di pochi giudici eccellenti che trattino le cause più importanti: al contrario necessita di magistrati che arrivino a un livello di adeguatezza. Quello che il nostro sistema prevede è di andare a cercare la caduta di professionalità. Come non dare ragione a Giovanni Falcone che sosteneva che “la inefficienza dei controlli sulla professionalità, cui dovrebbero provvedere il Csm e i consigli giudiziari ha prodotto un livellamento dei magistrati verso il basso. Le parole dell’ex presidente dell’Anm non determinano scandalo perché tutti i magistrati sanno di essere eccellenti perché tutti al 99% sono promossi in Cassazione ed è evidente che il giudizio di merito nella scelta è molto difficile e quindi non può non prevalere l’appartenenza alla corrente! Orbene le correnti di pensiero sono da valutare sempre positivamente, ma l’appartenenza alla corrente come condizione per far carriera è contro la Costituzione, ed è contro la Costituzione la stessa organizzazione in associazione perché questa determina una “ristretta oligarchia” che gestisce un potere interno ed esterno che inevitabilmente diventa politico e quindi influenzabile da questo o quel partito. Il libro di Palamara è importante per questo assunto, e non per le beghe interne che possono anche allettare di più, perché dimostra come la magistratura non è riuscita soltanto a far prevalere la giurisprudenza sulla legge ma sia di fatto diventata un soggetto politico che mette in crisi l’equilibrio democratico. Il sempre ricordato Montesquieu ha proclamato la distinzione dei poteri per limitare sia il legislativo che il giudiziario e invece essi a turno hanno la prevalenza. Giustizia, no alla logica dell’uno vale uno e al sorteggio per selezionare i nuovi magistrati di Liana Milella La Repubblica, 10 aprile 2021 Bufera nelle chat e mailing list dei magistrati contro la delibera del Csm che stabilisce la scelta tramite estrazione dei giudici che devono valutare gli aspiranti alla toga. Si teme che possa diventare il criterio per nominare i membri togati dell’organismo. Contro Armando Spataro. A favore Cascini e Zaccaro. “Sorteggio”. “Metodo di scelta fondata sulla sorte”, secondo il dizionario Treccani. Quindi, nei fatti, il contrario di una scelta. Poiché a scegliere è solo il caso. Parola, il “sorteggio”, che da tempo va di moda tra chi pensa di “sanificare” la magistratura dalle correnti. Di moda anche tra illustri giuristi. Divenuto un leit motiv, il “sorteggio”, non appena è esploso il caso Palamara. All’ex pm era appena giunto un decreto di perquisizione e si diffondevano i dettagli del suo caso, ed ecco che la prima reazione, era il maggio del 2019, fu quella del “sorteggio”. Nel senso di ricorrere “al caso” per eleggere i consiglieri togati del Csm, “colpevoli” di essere figli e protagonisti del correntismo. Quindi da punire. Da sbaragliare. Da affidare, per l’appunto, alla scelta del caso. Parola - il “sorteggio” - da bandire dal Csm? Da non pronunciare neppure visto che il rischio concreto è che possa fare capolino nella ormai prossima legge elettorale per rinnovare - nel luglio del 2022 - il Csm? E invece ecco la parola “sorteggio” diventare grande protagonista di una decisione del Csm che, dopo 24 ore, è oggetto di scontro nelle mailing list e nelle chat dei giudici. Con una figura importante nella magistratura come quella di Armando Spataro - toga in pensione da ex procuratore di Torino, ma colui che ha avuto il coraggio di portare sul banco degli imputati 22 agenti della Cia per il sequestro Abu Omar - che appena sente la parola “sorteggio” salta sulla sedia e dice: “Il sorteggio, da qualsiasi prospettiva lo si voglia considerare, è una scelta che dimostra auto-disistima ed esprime la rassegnata rinuncia all’esercizio delle proprie competenze. Questo al di là del fatto che possano essere sorteggiati magistrati preparati o, al contrario, non all’altezza del compito”. Spataro scrive, e lo fanno tanti altri colleghi criticando duramente una decisione del Csm presa giovedì 8 aprile che ha una “colpa”. Contiene, appunto, la parola “sorteggio”. Ma giusto negli stessi minuti ecco chi all’opposto esalta un passo che - come scrive “Il Giornale” - va nella direzione di riconoscere quello che Luca Palamara ha detto nel libro “Il sistema”, e cioè che anche i magistrati commissari d’esame dei giovani colleghi sono frutto di una lottizzazione correntizia, e a loro volta, scelgono secondo logiche di appartenenza. Per sbaragliare il “sistema” quindi serve il “sorteggio”. Ma che è successo al Csm per sollevare questo putiferio? Il “sorteggio” è stato promosso a metodo di scelta. Perché è passata la decisione di cambiare le regole per individuare i magistrati che faranno parte delle commissioni d’esame delle future toghe. Saranno “sorteggiati”. A favore tutti, togati e laici, tranne Carmelo Celentano di Unicost e Antonio D’Amato di Magistratura indipendente. Il Csm pubblicherà un bando di concorso, arriveranno le domande di chi vuole fare il commissario, saranno esclusi solo coloro che hanno obiettivi ostacoli come un disciplinare in atto, una valutazione di professionalità negativa, oppure già ricoprono un incarico direttivo o semidirettivo, o ancora provengono da un ufficio che ha carenza di colleghi. Ma, a parte queste esclusioni obiettive, sarà il sistema del sorteggio a selezionare i futuri commissari. Cosa cambia rispetto a prima? Tantissimo. Perché con il vecchio sistema sarebbe stato il Csm stesso a valutare i titoli di ciascuno e a individuare i più titolati in base alla singola storia professionale. Solo a quel punto, “dopo” la selezione del Csm, scattava il sorteggio tra tutti i selezionati. Quindi il Csm “sceglieva” in prima battuta i colleghi con un curriculum meritorio al punto da poter, a loro volta, scegliere le future toghe. Qual è il giudizio di Spataro? Durissimo: “In qualunque modo lo si voglia giustificare, con questo sorteggio si spalanca la strada ad altri sorteggi, a partire da quello dei componenti del Csm, o comunque si asfalta una strada in discesa per chi voglia sostenerlo nonostante la palese incostituzionalità di tale ipotesi”. E ancora: “Non è affatto vero che, togliendosi di dosso doverose responsabilità, la trasparenza ne guadagna: anzi questa giustificazione fa crescere stupore e delusione”. La pensano in tanti come Spataro. Per esempio molte toghe di Magistratura democratica, come il presidente Riccardo De Vito. Mentre non ha dubbi chi ha sottoscritto la scelta. I togati della sinistra di Area al Csm, e in particolare Giovanni “Ciccio” Zaccaro, il presidente della Terza commissione, proprio quella che selezionava i commissari per il concorso. Che adesso dice: “La delibera, lungi dal legittimare il sorteggio come forma per selezionare candidati destinati a ruoli per i quali rilevano specifiche attitudini, come quelle direttive o semi-direttive, è un gesto di fiducia verso tutti i magistrati perché parte dal presupposto che qualunque magistrato, con la quarta valutazione di professionalità ed immune da criticità, ha le qualità per comporre la commissione di accesso alla magistratura”. Una tesi subito contrastata da chi boccia la teoria grillina dell’“uno vale uno”. Per esempio da chi, nelle chat, oppone a Zaccaro un ben diverso ragionamento: “In questo modo i consiglieri del Csm rinunciano alle loro prerogative, non scelgono, bensì lasciano che sia il caso a farlo, seguendo la logica che tutti sanno fare tutto, cioè dell’uno vale uno”. Una lite nella famiglia della sinistra delle toghe, visto che al Csm il capogruppo di Area Giuseppe Cascini ha seguito invece un ben diverso ragionamento motivando il suo voto favorevole: “In passato - ha detto Cascini - la composizione della commissione esaminatrice ha favorito amici o colleghi di corrente. Adesso è tempo di seguire un’altra strada”. La via del “sorteggio” che piace ad Andrea Reale, il primo eletto all’Anm per il gruppo di Articolo Centouno, che ha sempre sostenuto il “sorteggio” anche per eleggere i componenti del Csm ma che adesso, leggendo tutto il provvedimento appena votato dal Consiglio, ha il dubbio che “sia troppo discrezionale il criterio di esclusione di chi viene sottoposto al sistema del sorteggio”. Ma la querelle è aperta. Improvvisamente, mentre in via Arenula è al lavoro il gruppo scelto dalla ministra Marta Cartabia per la riforma del Csm, presieduto dal costituzionalista Massimo Luciani, e a un mese dagli emendamenti che dovranno approdare alla Camera per modificare la riforma dell’ex ministro Alfonso Bonafede, ecco il caso al Csm. Che una toga nelle liste chiosa così: “In questo modo si spalanca la strada al sorteggio anche per il Csm. Se qualunque magistrato, solo in forza del suo lavoro quotidiano, è in grado di fare anche il commissario che selezionerà le future toghe, allora con lo stesso sistema potrà anche diventare in futuro un componente del Csm”. Intercettare i giornalisti mina la libertà di stampa di Simona Musco Il Dubbio, 10 aprile 2021 I giudici di Strasburgo contro il metodo adottato dai pm di Trapani: “La tutela delle fonti giornalistiche è uno dei cardini della libertà di stampa”. “La tutela delle fonti giornalistiche è uno dei cardini della libertà di stampa. Senza tale protezione, le fonti potrebbero essere dissuase dall’aiutare la stampa a informare il pubblico su questioni di interesse pubblico. Di conseguenza, il ruolo vitale di controllo pubblico della stampa può essere minato e la capacità della stampa di fornire informazioni accurate e affidabili può essere influenzata negativamente”. Dovrebbero bastare le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo a mettere un punto alla vicenda che ha coinvolto la giornalista Nancy Porsia, la freelance intercettata dalla Procura di Trapani nel corso di un’indagine sui soccorsi delle Ong nel Mediterraneo. Parole scritte nella sentenza Sedletska contro Ucraina depositata il primo aprile, con la quale i giudici di Strasburgo hanno sottolineato l’importanza della protezione delle fonti giornalistiche per la libertà di stampa in una società democratica, affermando che “le limitazioni alla riservatezza delle fonti giornalistiche richiedono il controllo più attento”. Un’interferenza da dell’autorità giudiziaria che potrebbe portare alla divulgazione di una fonte non può essere considerata “necessaria”, ai sensi dell’articolo 10 della Convenzione, “a meno che non sia giustificato da un requisito imperativo di interesse pubblico”. E per stabilire l’esistenza di un “requisito imperativo” potrebbe non essere sufficiente dimostrare semplicemente che senza l’accesso a quelle fonti sarà impossibile esercitare l’azione legale: “Le considerazioni che la Corte deve tenere in considerazione per il suo controllo ai sensi dell’articolo 10 pongono l’equilibrio degli interessi concorrenti a favore dell’interesse della società democratica a garantire una stampa libera”. Una sonora smentita alla tesi dell’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, dunque, che partendo dal presupposto che “la legge è uguale per tutti”, ha sostenuto che è giusto intercettare una persona non indagata per arrivare a un indagato, perfino se di mezzo c’è la libertà di stampa. Per la Cedu, però, il diritto dei giornalisti di non divulgare le proprie fonti “non può essere considerato un mero privilegio da concedere o sottrarre a seconda della liceità o illegalità delle loro fonti, ma è parte integrante del diritto all’informazione, da trattare con la massima cautela”. Il caso in questione riguarda una giornalista di “Radio Free Europe” con sede a Kiev, responsabile, dal 2014, di un programma sulla corruzione. L’Autorità nazionale anticorruzione dell’Ucraina, nel corso di un procedimento a carico di un procuratore, aveva intercettato le telefonate con la sua compagna. In un articolo online era stata diffusa la notizia di una riunione organizzata dal capo dell’Autorità con alcuni giornalisti, durante la quale erano state diffuse informazioni riservate sulle indagini, anche attraverso l’ascolto di alcune registrazioni tra il procuratore e la sua compagna, che includevano questioni relative alla vita privata della coppia. Da qui la denuncia della donna, sulla cui base era stata avviata un’indagine, condotta attraverso l’accesso, per 16 mesi, ai tabulati telefonici della giornalista ricorrente, che si è rivolta alla Corte europea chiedendo tutela per la propria attività professionale. Nella propria decisione, la Corte richiama precedenti pronunce in materia di perquisizioni a carico dei giornalisti a casa o sui luoghi di lavoro, nonché sul sequestro di materiale giornalistico, riconoscendo come tali misure rappresentino una drastica “interferenza” mirata a rivelare l’identità delle fonti, consentendo l’accesso a un’ampia gamma di materiale utilizzato dai giornalisti nello svolgimento delle proprie funzioni professionali. Per i giudici, dunque, non solo gli inquirenti non possono chiedere ai giornalisti di rivelare il nome delle proprie fonti, ma non possono neanche cercare di ricavarlo indirettamente, attraverso sequestri o intercettazioni. E anche se la ricerca degli inquirenti non produce alcun risultato, il solo tentativo di intromissione rappresenta, per la Cedu, una violazione della libertà di stampa. E lo è, dunque, anche autorizzare quelle intercettazioni, azione definita gravemente lesiva e “grossolanamente sproporzionata”. I giornalisti e le intercettazioni: quell’amore tradito di Giandomenico Caiazza Il Dubbio, 10 aprile 2021 Per i nostri standard, l’intercettazione è il top del famoso “giornalismo d’inchiesta”, un eden. Che Paese formidabile, il nostro! Ogni giorno ne scopri una. L’ultima è l’indignazione dei giornalisti intercettati dalla Procura della Repubblica di Trapani. Intendiamoci, noi penalisti siamo naturalmente animati da uno spirito di autentica solidarietà per chiunque finisca nella rete del Grande Orecchio. Chiunque. Perché sappiamo, per quotidiana esperienza professionale, quale furia devastatrice possa scatenarsi ogni qual volta la privatezza delle conversazioni venga violata, e diventi pubblica gogna. E conosciamo bene, per di più, la insidiosa inaffidabilità dello strumento. Diversamente da quanto ritenuto dai suoi tifosi - una foltissima schiera di tifosi: ma ci ritorniamo tra poco - l’intercettazione è tutt’altro che un elemento di prova dotato di oggettività. Fate un giochino: registrate per qualche giorno le vostre telefonate, e poi fatele trascrivere (da un maresciallo amico, magari). Faticherete a riconoscervi nelle parole che avete usato, perfino sapendo di essere registrati (figuriamoci ignorandolo!). La trascrizione appiattisce, rende indistinto il flusso espressivo. Quel “sì” era assertivo, o liquidatorio? Quel “no” era un rifiuto, o una espressione di stupore? Quel “certo, come no!” era un rendersi incondizionatamente disponibili, o l’equivalente di un categorico diniego? E quando vi è scappato detto “quel grande stronzo di Carlo”, era l’affettuosa celia verso l’amico di sempre, o un retropensiero finalmente espresso al riparo della vostra illusoria privatezza? Divertitevi. Senonché, tra i più fegatosi tifosi del Grande Orecchio sono da sempre iscritti, in primissima fila e con assoluto distacco su ogni altro, proprio i giornalisti nostrani. Dagli in pasto un po’ di intercettazioni, e li hai resi felici. Dai un po’ di RIT ad un giornalista, che ci pensa lui. Vuoi mettere, per il cronista, l’ebrezza di avere a disposizione, squadernato ed inerme, un flusso ininterrotto di conversazioni tra persone, meglio se politici o comunque personaggi pubblici, convinte di poter parlare in libertà, tanto non ci ascolta nessuno? Per i nostri standard, è il top del famoso “giornalismo d’inchiesta”, un eden. È un mio cattivo ricordo, o non è forse vero che sono state costruite fortune editoriali e politiche sulle intercettazioni telefoniche (come trascritte dal maresciallo, ben s’intende: sappiamo tutti quanto sia irresistibile, in questo Paese, il fascino suggestivo ed inconfutabile del Pubblico Ufficiale)? Senza pietà, senza salvezza per nessuno, e senza nessuna remora riguardo a segreti professionali di ogni genere. C’è qualcuno che si è mai chiesto se sia legittimo intercettare il medico curante di un latitante? Ma figurati se gliene fotte niente a nessuno! Quando una Politica imbelle e tremebonda ha provato a porre un freno a questo scempio senza eguali nel mondo civile, la categoria (dei giornalisti) è insorta indignata, e con essa il solito caravanserraglio di complemento: no alla “Legge Bavaglio”, hanno strepitato. O è un mio ricordo allucinato? L’opinione pubblica - urlavano- ha diritto di sapere la Verità, ogni possibile Verità. E siamo noi giornalisti gli inappellabili giudici di ciò che sia giusto sapere, e cosa no. Poi un giorno accade che un Pubblico Ministero, ai fini della propria indagine, decida di intercettare un po’ di giornalisti, anche non indagati, come la amata legge sul Grande Orecchio certissimamente gli consente, e si scatena l’inferno. Leggiamo in questi giorni che, in tal modo, è stato appiccato il fuoco alla nostra carta costituzionale. Ma pensa! Io credevo succedesse quando si intercettano avvocato e cliente, per esempio, (una norma del codice, qui sì, espressamente lo vieta, ma la giurisprudenza la interpreta a modo suo) e invece dobbiamo occuparci della segretezza delle “fonti” del giornalista, strappandoci le vesti. Come se la “fonte” del giornalista fosse una specifica categoria di cittadini che, non appena fanno due chiacchiere con un giornalista (a proposito: deve essere iscritto all’Ordine?), pare debbano acquisire una sorta di immunità per contagio. Immunità per il giornalista, immunità per le sue fonti: vade retro, Grande Orecchio. Che ora è all’improvviso diventato l’orecchio pizzuto di Satanasso in persona. Immaginano, questi nostri amici, norme e regole invece inesistenti, come ha loro spiegato molto bene un idolo della categoria, il dottor Pier Camillo Davigo, per di più dalle colonne del Fatto Quotidiano (Dio esiste, altroché!). Nessuna norma prevede l’immunità del giornalista dal potere investigativo del Grande Orecchio. Ora, intendiamoci: tenderei ad escluderlo, ma se mai questa volesse essere l’occasione per una riflessione palingenetica sui limiti delle intercettazioni di conversazioni tra persone, sulla assoluta eccezionalità della violazione della privatezza, su un nuovo bilanciamento tra la potestà investigativa dello Stato ed i diritti variamente declinati della persona, giornalisti compresi, beh io mi siedo in prima fila. Hai visto mai che da questa grottesca caciara, salti fuori qualcosa di buono? Si chiama eterogenesi dei fini, e a volte funziona. Bullismo. Inadeguatezza dell’educazione impartita dai genitori e risarcimento del danno di Valeria Cianciolo* Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2021 L’inadeguatezza dell’educazione impartita dai genitori, quale fondamento, ex art. 2048 cod. civ., della responsabilità dei medesimi per il fatto illecito commesso dal figlio minore, può essere desunta, in mancanza di prova contraria, dalle modalità dello stesso fatto illecito, che ben possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore. Il caso - Un professore di un istituto tecnico era vittima, a scuola, di quattro gravi episodi di bullismo, già all’epoca dei fatti, denunciati. Il docente conveniva dinanzi al Tribunale sia l’alunno, ormai divenuto maggiorenne, sia i suoi genitori, per ottenerne la condanna, in via solidale tra loro, al risarcimento di tutti i danni non patrimoniali da lui patiti. I convenuti offrivano banco iudicis 10.000 euro, somma di denaro, però, respinta dall’attore. Il giudice allora, proponeva una conciliazione ex art. 185 bis c.p.c., che prevedeva il pagamento a titolo di risarcimento di un importo - giudicato congruo da parte attrice, ma rifiutato dalla controparte - pari a 14.500 euro e spese compensate. I convenuti tentavano, pur maldestramente, di difendere le condotte illecite del ragazzo, rappresentando altresì, una certa inadeguatezza educativa dei docenti, ritenuti, a dir loro, incapaci di andare incontro alle esigenze del figlio. Il Tribunale nel ritenere meritevole di accoglimento la domanda attorea, ha ricordato i quattro episodi di bullismo lamentati dalla vittima ed ha sottolineato come due di questi, integrassero gli estremi del reato di violenza privata, ex art. 610 c.p., e di minaccia, ex art. 612 c.p., mentre gli altri due episodi configuravano il reato di ingiuria, ora depenalizzato, ma pur sempre autonomamente valutabile in sede civile, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. Riconosciuta la responsabilità del giovane convenuto, e il suo conseguente obbligo di rispondere personalmente delle condotte lesive poste in essere ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., il Tribunale ha ravvisato una concorrente e solidale responsabilità ai sensi dell’art. 2048 cod. civ. dei genitori che nei riguardi del figlio si pongono “in funzione educativa ed in posizione di garanzia”. Il Tribunale ha riconosciuto, nella fattispecie, un danno morale, per il turbamento dell’animo causato dalle aggressioni fisiche e morali subite, e da liquidarsi in via equitativa, tenendo conto: 1) dell’entità ed intensità della violazione della libertà morale e fisica e della dignità della persona offesa; 2) del turbamento psichico cagionato, dedotto dalle forme con cui si è perpetrata l’aggressione; 3) degli effetti sul piano psicologico anche nel tempo; 4) dell’incidenza del fatto dannoso sulla personalità della vittima; 5) dell’intensità del dolo. La responsabilità dei genitori e l’art. 2048 cod. civ - Ai sensi del comma 1 dell’art. 2048 cod. civ., il padre e la madre - o il tutore - sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, abitanti con essi. Si ritiene che l’elencazione di tali soggetti, responsabili ex art. 2048, primo comma, cod. civ., abbia carattere tassativo e che, dunque, sia esclusa l’applicazione analogica della disposizione. Con riferimento ai genitori, a rispondere degli illeciti commessi dal figlio minorenne sono non soltanto quelli “legittimi” ma, altresì, ex art. 27, L. 4 maggio 1983, n. 184, i genitori adottivi, nonché quelli “naturali” che abbiano riconosciuto i figli. Dubbi permangono, invece, in relazione a quelli che non abbiano proceduto al riconoscimento della prole. A tal proposito, in mancanza di pronunce giurisprudenziali, la dottrina, da una parte, ha escluso la responsabilità per il fatto del figlio in capo al genitore che non abbia provveduto al riconoscimento, ai sensi dell’art. 250 cod. civ., dall’altra, ha riconosciuto valore determinante al rapporto di filiazione in sé. Nell’ipotesi in cui tra i genitori sia intervenuta una separazione personale o un divorzio e il figlio minore sia stata affidato ad uno soltanto di essi - anche se ciò, ai sensi della L. n. 54/2006, costituisce una eccezione, rappresentando l’affidamento condiviso la regola generale, ci si chiede se sia applicabile o meno l’art. 2048 cod. civ.. Sul punto si è affermato che la responsabilità genitoriale di entrambi i genitori non cessa a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio, come previsto dall’art. 317 cod. civ. Pertanto, il genitore non affidatario mantiene una serie di poteri e doveri di vigilanza e controllo sia sull’attività del figlio che sull’operato del genitore affidatario. Si propende, quindi, per l’applicabilità dell’art. 2048 cod. civ. in quanto, avendo la norma una funzione di garanzia in capo ai genitori, gli stessi ne rispondono in virtù del loro status. Le argomentazioni contrarie, volte a negare la responsabilità del genitore non affidatario si basano sulla mancanza del presupposto della coabitazione. Un altro orientamento invece, circoscrive la responsabilità ex art. 2048 cod. civ., del non affidatario, solamente a quei periodi in cui il genitore esercita sul minore i poteri a lui riconosciuti dalla legge. La responsabilità dei genitori o precettori ex art. 2048 cod. civ. concorre con la responsabilità del minore (Cass. civ., 26 giugno 2001, n. 8740, in Banca Dati Plus Plus diritto on Line): se il minore è capace di intendere e di volere, egli è direttamente responsabile del danno ingiusto posto in essere, secondo le norme generali della responsabilità civile. La responsabilità dei genitori e degli altri soggetti previsti dall’art. 2048, quindi, si aggiunge a quella del minore capace di intendere e di volere, ex art. 2043 cod. civ., configurandosi così una responsabilità solidale, con la conseguenza che la domanda di risarcimento può essere proposta sia contro i genitori sia contro il minore, autore dell’illecito. L’art. 2048 è, pertanto, una norma dettata a protezione dei terzi, esposti al rischio di un danno conseguente all’agire dei minori: la responsabilità prevista da questa norma nasce come responsabilità del minore verso i terzi e si estende ai genitori, tutori, precettori e maestri d’arte, in funzione di garanzia (Cass. civ., S.U., 27 giugno 2002, n. 9346, in Banca Dati Plus Plus Diritto on Line). La prova liberatoria si traduce nella dimostrazione di aver impartito l’educazione e l’istruzione consone alle condizioni sociali e familiari e di aver vigilato sulla condotta in misura adeguata all’ambiente, alle abitudini ed al carattere (Cass. civ., 19 febbraio 2014, n. 3964, in Banca Dati Pluris on Line). Il contenuto della prova liberatoria dipende dalle modalità stesse con cui è avvenuto il fatto: nel caso di illecito particolarmente grave o increscioso, l’inadeguatezza della educazione impartita e della vigilanza esercitata è desunta proprio dalle circostanze con cui si è verificato l’evento (Cass. civ., 6 dicembre 2011 n. 26200, in Banca Dati Plsu Plus diritto on Line). Si delinea, così, una responsabilità dei genitori di natura oggettiva, dal momento che il criterio di imputazione per l’illecito commesso dal figlio è, in pratica, correlato al loro status. La precoce emancipazione dei minori, frutto del costume sociale, non esclude né attenua la responsabilità che l’art. 2048 cod. civ. pone a carico dei genitori, i quali, proprio in ragione di tale precoce emancipazione, hanno l’onere di impartire ai figli l’educazione necessaria per non recare danni a terzi nella loro vita di relazione, dovendo rispondere delle carenze educative a cui l’illecito commesso dal figlio sia riconducibile. Ad esempio, nel 2009 la Cassazione non ha dato alcuna importanza al fatto che un minore fosse prossimo alla maggiore età, posta la lettera dell’art. 2048 cod. civ. e l’inderogabilità dei doveri ex art. 147 cod. civ. “finalizzati a correggere comportamenti non corretti e, quindi, meritevoli di costante opera educativa, onde realizzare una personalità equilibrata, consapevole della relazionalità della propria esistenza” (Cass. civ., 22 aprile 2009, n. 9556, in Banca Dati Plus Plus diritto on Line). La corretta lettura dell’art. 2048 cod. civ. ci suggerisce di affermare che il minore può adottare una condotta diversa da quella illecita per cui la copertura solidale dei genitori si giustifica con l’idoneità degli stessi ad evitarla, indirizzando i figli verso condotte socialmente corrette: attività di indirizzo da svolgersi non con la sola e mera vigilanza (unico parametro stabilito dall’art. 2047 cod. civ. rispetto all’incapace) ma anche, con l’insegnamento educativo. Alla luce di questo, non è auspicabile, l’esonero dei genitori dalla loro responsabilità all’approssimarsi della maggiore età del figlio. Come pure, non è condivisibile l’opinione per cui non dovrebbe ammettersi la loro responsabilità “se il fatto è stato compiuto nell’ambito di quella sfera di libertà normalmente concessa al minore” (S. Patti, Famiglia e responsabilità civile, Milano 1984, p. 248). Gli illeciti che manifestano disprezzo per l’altrui dignità, salute o addirittura vita, come accade nel bullismo, sono consumati generalmente proprio nella fascia di età dove i minori godono di una libertà di cui non sanno fare buon uso e potenzialmente più idoneo per l’illecito, dove il minore necessita di una maggiore guida. Questo accade normalmente nell’età adolescenziale. Si pensi all’uso dei social network e al loro potenziale di cui i minori non si rendono pienamente conto: in un recente caso di illecita circolazione di immagini intime per via telematica, il Tribunale di Sulmona ha condannato i genitori degli autori del gesto, stabilendo che la propagazione a catena, che aveva provocato nella giovanissima vittima un grave danno psicologico con ricadute sulla sua salute, manifestasse “di per se´ una carenza educativa degli allora minorenni dimostratisi in tal modo privi del necessario senso critico, di una congrua capacità di discernimento e di orientamento consapevole delle proprie scelte nel rispetto e nella tutela altrui. Capacità che avrebbero già dovuto avere in relazione all’età posseduta” (Trib. Sulmona, 9 aprile 2018, in Danno e resp., 2018, p. 763). A prescindere, comunque, dal fatto che possa imputarsi ai genitori una colpa, vera o presunta, l’eventuale reazione risarcitoria ricorderà loro tanto l’indispensabile esigenza della loro opera quanto i criteri minimi a cui informarla. Il compito educativo resta, dunque, anche per questo, difficile perché eterogeneo nelle sue sfaccettature e, va da sè, di grande “responsabilità” *Avvocato del Foro di Bologna e associato Ondif Cassazione: “Diffamazione, evitare carcere anche ai blogger” editoria.tv, 10 aprile 2021 “La scelta di applicare la pena detentiva deve essere, quanto meno, esteriorizzata nelle sue direttrici portanti che ne consentano di apprezzare la ragionevolezza”. Lo ha stabilito la Cassazione in tema di diffamazione sul web e per quanto riguarda i blog che, anch’essi, dovranno rientrare nell’ormai sempre più attesa riforma auspicata dai giornalisti e raccomandata caldamente anche dalle istituzioni comunitarie europee. L’ultimo caso è arrivato dalla quinta sezione penale della Corte di Cassazione che ha annullato con rinvio la sentenza della corte d’appello di Catanzaro che aveva condannato a sei mesi di reclusione un blogger calabrese. I giudici hanno ravvisato, come ha riportato l’Ansa, che il giudice che condanna per diffamazione al carcere, anche con la formula della pena sospesa, il direttore di una testata online scartando quella che deve essere la prima opzione, ossia la pena pecuniaria, ha “l’obbligo di indicare le ragioni che lo inducano ad infliggere la pena detentiva”. La pronuncia è ispirata dai principi stabiliti in sede di giurisprudenza comunitaria: l’Europa, infatti, ha spiegato che l’ipotesi del carcere va tenuta in considerazione solo per casi ritenuti gravissimi tra cui quelli inerenti i messaggi d’odio e l’istigazione alla violenza. La sentenza della Cassazione ha riportato d’attualità il tema della riforma, ormai necessaria e da anni invocata dai giornalisti, della diffamazione a mezzo stampa. L’argomento è stato posto dalla Fnsi sul tavolo del confronto con il neo sottosegretario all’Editoria Giuseppe Moles insieme ai temi del precariato e dell’equo compenso e delle cosiddette querele bavaglio. Entro giugno dovrebbe muoversi qualcosa in parlamento. Catanzaro. Il Covid miete un’altra vittima tra i detenuti Il Dubbio, 10 aprile 2021 La famiglia di Bruno Pizzata ha presentato un esposto per accertare le responsabilità. Una nuova vittima di Covid nelle carceri italiane. Si tratta di Bruno Pizzata, 61 anni, detenuto presso la Casa Circondariale di Catanzaro, deceduto l’8 aprile 2021 presso l’Ospedale “Pugliese - Ciaccio” di Catanzaro per complicanze polmonari respiratore determinate da positività al Covid. Gli avvocati Luca Cianferoni, Eugenio Minniti e Gianni Russano, nella qualità di difensori di Antonia, Sebastiano e Alessia Pizzata, rispettivamente madre e figli della vittima, hanno annunciato che presenteranno denuncia/querela “nei confronti di tutti quei soggetti che si sono resi responsabili con le loro condotte colpevoli e negligenti dell’exitus del signor Bruno Pizzata, esclusivamente causato dal tardivo ricovero presso il suddetto nosocomio da parte della Direzione e della Dirigenza Sanitaria del predetto Istituto di reclusione, nonostante la perdurante ingravescenza delle condizioni di salute che già da subito si erano caratterizzate per una sintomatologia assolutamente seria, naturalmente con contestuale richiesta di sequestro di tutta la documentazione sanitaria carceraria e ospedaliera afferente la gestione anamnestica ed il protocollo terapeutico apprestato per fronteggiare l’insorta patologia”. Sono almeno 73 i detenuti positivi nel carcere di Catanzaro, tra i quali due sono stati ricoverati. Mercoledì c’è stata una prima vittima e giovedì è stata la volta di A.S., di 45 anni che era ricoverato e pare non avesse altre patologie. Vasto (Ch). Le ultime ore in cella del primario: “Sono vittima di persecuzione” di Gianluca Lettieri Il Centro, 10 aprile 2021 Il colloquio dello psichiatra con la direttrice Ruggero all’ingresso del carcere: “Sono innocente” Poi la cena e le richieste per il giorno dopo: terapia per la pressione, acqua e pile del telecomando. “Questa storia mi ha ferito. Ho fatto tanta beneficenza, sono un cattolico. E adesso, con questa falsa vicenda, vengo invece presentato all’opinione pubblica come una persona che si approfitta di chi ha bisogno”. Sono le tre e mezza del pomeriggio di due giorni fa quando il primario Sabatino Trotta, su un’auto della guardia di finanza, varca il cancello del carcere di Vasto e comincia a raccontare la sua verità alla direttrice Giuseppina Ruggero, che lo accoglie sul piazzale. A ripercorrere le ultime ore di vita dello psichiatra pescarese è proprio la responsabile dell’istituto penitenziario. “No, non immaginavo che, a distanza di poche ore, avrebbe potuto uccidersi”, ripeterà all’infinito all’indomani di una tragedia che tutti, a Torre Sinello, etichettano come inaspettata. All’inizio del primo giorno da detenuto, il primario appare tranquillo. Quando gli misurano la temperatura, dice di essere stato vaccinato. Ironizza persino sull’accento pescarese di Ruggero. La visita medica che va avanti spedita ed evidenzia un “minimo rischio suicidario”. Poi, il comandante della polizia penitenziaria lo fa accomodare nel suo ufficio insieme alla direttrice. Racconta brevemente la sua storia, parla della famiglia che lo attende a casa, appare tranquillo e, a dire di chi lo ascolta, comunque in grado di gestire la situazione. “Sono innocente e vittima di una persecuzione: non è assolutamente vero che ho usato gli ultimi per raggiungere scopi di denaro che, in realtà, non sono mai stati di mio interesse”, si sfoga, respingendo con determinazione l’accusa di corruzione. “Gli altri hanno vinto una battaglia”, scandisce Trotta, “ma l’importante è vincere la guerra. Io ho una splendida famiglia”. A un certo punto, domanda alla direttrice: “Perché si sta tanto preoccupando per me?”. “Perché lei non è abituato a questi ambienti”, è la risposta. Il terzetto resta a parlare per mezz’ora, minuto più, minuto meno. Lui non scende nei dettagli, e i due interlocutori non fanno domande specifiche. Perché mettere il dito nella piaga significherebbe fare affiorare ulteriore malessere. In ogni caso, sia per il presidio sanitario che per la direttrice, Trotta “è in grado di gestire il senso di frustrazione, anche perché è uno psichiatra e ben conosce l’ambiente penitenziario, avendolo frequentato per motivi professionali”. A dire degli esperti, dunque, non c’è bisogno di una sorveglianza a vista. Finito il colloquio, arriva il momento più difficile: entrare per la prima volta nella sua vita nel corridoio di un carcere. Lo accompagna un sovrintendente della polizia penitenziaria. La cella assegnata al primario è tra le più nuove. È composta da letto, tv, comodino, tavolo, sgabello e bagno con doccia. Trotta non deve condividere la stanza con altri detenuti perché il protocollo anti-Covid prevede 14 giorni di isolamento per i nuovi arrivati. Lo psichiatra cena regolarmente, come accerta la direttrice del carcere con una telefonata. Poi, consegna all’agente della sezione la richiesta, per il giorno successivo, di una bottiglietta d’acqua e di due pile per il telecomando. Non dimentica neppure di farsi consegnare la terapia per la pressione. “Lei può suonare il campanello per qualsiasi necessità, noi siamo qui”, gli ricorda un agente. “Grazie, ma non ho bisogno di niente”, risponde il medico. Per mettere in atto il suo piano di morte, però, lo psichiatra aspetta che si avvicini il cambio turno, previsto per mezzanotte. Conosce le regole del carcere e sa che, in quei minuti, le maglie dei controlli possono essere un po’ meno strette. Prima di farla finita, impiccandosi con un laccio della tuta a una finestra, scrive una lettera alla moglie e ai due figli. La macchina dei soccorsi scatta immediatamente. Arriva anche l’ambulanza del 118, ma è tutto inutile. Due inchieste - una della procura della Repubblica di Vasto e una interna - accerteranno se le misure di controllo siano state adeguatamente attuate. La prima domanda è: il laccio della tuta da ginnastica poteva essere in cella? “Sì, di certo non possiamo distruggere il pantalone a un detenuto”, replica la direttrice Ruggero. “Per togliergli tutto, avremmo dovuto avere delle perplessità che, ripeto ancora una volta, non c’erano assolutamente”. E ancora: “Ripensando tutta la notte al colloquio avuto con Trotta, sono arrivata a due diverse conclusioni. La prima, per me più probabile, è che lui sia stato sincero fino al momento del telegiornale della sera. Poi, il servizio in tv potrebbe averlo fatto precipitare in un attimo di sconforto. La seconda ipotesi è che, essendo lui una persona molto intelligente, nonché particolarmente manipolativo e seduttivo, fosse tutta una recita e avesse architettato un vero e proprio piano. Con l’isolamento previsto per il Covid è tutto più difficile. Se Trotta fosse stato in stanza con altre persone, probabilmente lo avrebbero fatto desistere”. E invece la sua vita è volata via cinque minuti dopo la mezzanotte, schiacciata sotto il peso di accuse così infamanti da cancellare in poche ore quasi trent’anni di carriera. San Severo (Fg). Metà dei detenuti positivo, il carcere è un focolaio di Antonio Maria Mira Avvenire, 10 aprile 2021 La Casa circondariale di San Severo, in provincia di Foggia, è ormai un reparto Covid, con metà dei detenuti positivi e addirittura tre ricoverati all’ospedale di San Giovanni Rotondo. Ma ancora nessun detenuto è stato vaccinato, mentre a metà marzo lo sono stati gli agenti penitenziari, col vaccino Astra Zeneca. Ma nonostante questo, due di loro successivamente sono risultati positivi e ora sono a casa. Niente vaccini, invece, per operatori e volontari, compreso il cappellano, don Andrea Pupilla che così ogni volta che entra in carcere per incontrare i detenuti si deve fare il tampone. “I cappellani per il momento non sono previsti tra quelli da vaccinare. Doveva essere fatta una vaccinazione di massa, subito, veloce, ma sono riusciti a farla solo agli agenti ma con estrema lentezza, due al giorno in ospedale”, ci dice don Andrea che è anche direttore della Caritas diocesana di San Severo e che ospita spesso detenuti in semilibertà o in affidamento. Eppure fino alla settimana prima della Domenica delle Palme il carcere era rimasto indenne. “Abbiamo retto per un anno”, dice ancora don Andrea. Poi è arrivato un detenuto trasferito dal carcere di Melfi, istituto con molti casi positivi. Ma per lui i tamponi fatti là erano risultati negativi. Così è entrato a San Severo ma poi è risultato positivo. Nel frattempo aveva già infettato tutti. Una situazione ad alto rischio, aggravata dalla lentezza delle vaccinazioni. Così si è dovuti ricorrere ai trasferimenti in altri istituti per avere più spazio e isolare i positivi dividendoli da quelli ancora negativi. Così il carcere che solitamente ospita tra 80 e 100 detenuti, ne ha solo 52, metà contagiati. Hanno messo nelle celle insieme i positivi e i negativi nelle altre. E hanno liberato completamente il piano terra. Ma la situazione è molto difficile e gli agenti sono allo stremo e alcuni si stanno mettendo in malattia. E pensare che quasi un anno fa, 1’1 giugno il carcere era stato sanificato. L’operazione era stata portata a termine dagli specialisti del 21° Reggimento artiglieria di Foggia, unità dell’Esercito inquadrata nella Brigata Pinerolo, su richiesta del direttore della casa circondariale. Il personale militare aveva provveduto a igienizzare in particolare i locali dell’infrastruttura e gli automezzi in dotazione alla Polizia penitenziaria. Ma è bastato un detenuto contagiato per far precipitare tutto e non solo a San Severo. Negli ultimi 15 giorni la situazione è esplosa in molte carceri pugliesi. Secondo gli ultimi dati contenuti nel report nazionale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 5 aprile i contagiati sono 115 tra detenuti, agenti e amministrativi. Le carceri con più casi, oltre a San Severo, sono quelle di Lecce con 27 contagi (7 detenuti e 21 poliziotti), Foggia con 17 casi (un detenuto, un amministrativo e 15 agenti), Bari e Taranto con 16 casi. Roma. Covid: rivolta a Rebibbia, a processo 46 detenuti Adnkronos, 10 aprile 2021 Sono stati rinviati a giudizio 46 detenuti del carcere romano di Rebibbia indagati per la rivolta avvenuta il 9 marzo 2020 nel penitenziario in contemporanea con i disordini scoppiati in altri istituti italiani, da Milano a Modena fino a Foggia e a Palermo dopo le disposizioni legate alle misure di contenimento della pandemia da coronavirus. La prima udienza è fissata per il 30 giugno mentre in 4 hanno scelto il rito abbreviato. I reati contestati dai pm Francesco Cascini e Eugenio Albamonte, coordinati dal Procuratore capo di Roma Michele Prestipino, vanno a vario titolo dal danneggiamento al sequestro di persona, rapina e devastazione. Nell’ambito delle indagini, lo scorso novembre, sono state eseguite nove misure cautelari in carcere nei confronti di altrettanti detenuti. La protesta dei detenuti aveva interessato prima il reparto G11 per poi estendersi ad altri settori di Rebibbia Nuovo Complesso coinvolgendo centinaia di detenuti. Nel corso della rivolta, oltre ad essere stata saccheggiata l’infermeria, la biblioteca e devastati interi settori, un ispettore finì in ospedale dopo essere stato accerchiato e colpito con calci e pugni riportando una prognosi di 40 giorni. Cagliari. Sdr dona 600 mascherine e gel disinfettante ai detenuti del carcere di Uta vistanet.it, 10 aprile 2021 Seicento mascherine in cotone madapolam e 283 confezioni di gel disinfettante per le mani sono state donate dall’associazione “Socialismo Diritti Riforme” alla Casa Circondariale di Cagliari-Uta. Di colore nero, in confezione individuale sanificata e sottovuoto, i dispositivi di protezione sono stati realizzati gratuitamente dalla stilista quartese Emma Ibba, socia Sdr. Le protezioni personali, dopo l’uso, potranno essere lavate e riutilizzate. Le confezioni di gel disinfettante, destinate alle sezioni e alle aree comuni detentive, arricchiranno la dotazione dei sanificatori, favorendo una maggiore difesa dal coronavirus. Non è la prima volta che SDR contribuisce concretamente a garantire maggiore sicurezza anticovid ai detenuti e agli operatori penitenziari. In altre tre precedenti occasioni infatti sono state offerte 860 mascherine chirurgiche e 600 di cotone. I nuovi dispositivi sono stati consegnati al Direttore della Casa Circondariale Marco Porcu dalla stilista Emma Ibba, che le ha confezionate, e da Maria Grazia Caligaris, socia Sdr. Presente Monica Cardone, funzionaria giuridico-pedagogica in rappresentanza dell’Area Educativa dell’Istituto. “Desidero esprimere un personale apprezzamento - ha detto Marco Porcu - per la sensibilità dell’associazione di volontariato Sdr che ancora una volta ha dimostrato una particolare attenzione nei confronti della Casa Circondariale. Un gesto utile che concretamente contribuisce a rendere più agevole il nostro impegno di garantire sempre maggiore serenità alle persone detenute e ai loro familiari”. “La realizzazione dei nuovi dispositivi - ha sottolineato Emma Ibba - è nata dalla consapevolezza delle difficoltà derivanti dalla pandemia e dalla volontà di contribuire a dare maggiore sicurezza alle persone che vivono in questo carcere”. “L’impegno assunto da SDR - ha aggiunto Maria Grazia Caligaris - vuole essere un segno concreto di partecipazione civile e di vicinanza a una realtà spesso trascurata e marginalizzata. Uno sforzo reso possibile dalla generosità della nostra socia Emma e da quanti collaborano attivamente alla realizzazione dei nostri progetti culturali di sensibilizzazione”. Presieduta da Paola Melis, l’associazione di volontariato opera nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta da 12 anni promuovendo iniziative culturali e contribuendo al ruolo riabilitativo del carcere. “Sull’abolizione dell’ergastolo ostativo manca la voce di Salvatore Ricciardi” di Alfredo Imbellone* Il Manifesto, 10 aprile 2021 A un anno dalla scomparsa, l’emittente romana Radio Onda Rossa organizza un’iniziativa pubblica in suo ricordo. Dispiace non poter contare nell’attuale dibattito sull’ergastolo ostativo della voce di Salvatore Ricciardi (Roma, 1940-2020), scomparso esattamente un anno fa, il 9 aprile, dopo essersi dedicato nell’ultimo ventennio di vita a dar voce al tema del carcere in Italia con libri e trasmissioni radiofoniche dai microfoni di Onda Rossa di Roma. La morte di Ricciardi, avvenuta in pieno lockdown del 2020, quando erano vietati funerali e assembramenti di qualsiasi tipo, fu l’occasione della prima manifestazione pubblica sciolta dalle forze dell’ordine in applicazione delle restrizioni Covid. Fu organizzata una breve sosta nel quartiere di San Lorenzo del carro funebre proveniente dal vicino Policlinico Umberto I, dove Ricciardi era deceduto, per dare l’ultimo saluto a Salvo, così lo chiamavano i suoi compagni e compagne, sotto la radio che lo aveva avuto tra i redattori negli ultimi anni, per le strade del quartiere che aveva frequentato dagli anni 60 con la militanza nel sindacato dei ferrovieri, poi l’esperienza nel Psiup e l’uscita “da sinistra” con la nascita dei primi comitati per l’Autonomia Operaia che aprirono le loro sedi proprio in via dei Volsci. Condannato egli stesso all’ergastolo per aver fatto parte delle Brigate Rosse, attorno alla figura di Ricciardi da metà degli anni 90 si mobilitarono collettivi dei centri sociali e realtà antagoniste di Roma, insieme a Radio Onda Rossa, per sostenerne la scarcerazione per motivi di salute, dopo che il Tribunale di sorveglianza ne aveva chiesto, ottenendolo infine nel 1998, il rientro in carcere dopo un intervento chirurgico al cuore. L’incontro tra Ricciardi, Radio Onda Rossa e i centri sociali capitolini, andò poi oltre la vicenda della scarcerazione e del tema dell’incompatibilità tra detenzione e malattia e sanità penitenziaria, dando il via a una vivace serie di iniziative sul carcere nel suo complesso, nell’ottica della sua abolizione che hanno scandito quest’ultimo ventennio a Roma: come gli appuntamenti fissi sotto le mura del carcere di Rebibbia la mattina del 31 dicembre, e l’agenda Scarceranda autoprodotta da Radio Onda Rossa e fatta arrivare ai prigionieri e prigioniere di tutte le carceri italiane. Ricciardi era stato tra coloro che avevano fatto nascere queste iniziative, al pari di tante altre sul carcere sviluppatesi negli anni, e che ha continuato instancabilmente a portare avanti fino alla sua morte. Il superamento dell’ergastolo ostativo persegue un obiettivo di maggiori garanzie delle libertà delle persone ed è una questione di civiltà giuridica. L’ostatività nella concessione dei benefici di legge alle persone condannate all’ergastolo è frutto dei provvedimenti emergenziali di inizio anni 90, era l’epoca delle stragi mafiose, e l’introduzione e inasprimento degli articoli 4bis e 41bis dell’ordinamento penitenziario. L’eccezionalità di simili provvedimenti seppe integrarsi con le stagioni emergenziali che hanno caratterizzato la storia italiana prima e dopo la loro introduzione, divenendo infine parti integranti e stabili dell’ordinamento ordinario. Negli anni, anziché restringersi e limitarsi, il loro campo di applicazione si è andato estendendo, fino a comprendere voci di reato ben al di là degli ambiti eversivi per i quali furono introdotti. La critica abolizionista del carcere di cui Salvatore Ricciardi è stata una delle migliori voci nell’Italia degli ultimi decenni individua nell’ergastolo, nel “carcere duro” del 41 bis, nella fattispecie dell’ostatività, non tanto e non solo delle escrescenze peggiorative del sistema penale e penitenziario, delle loro aberrazioni, quanto piuttosto le loro punte di diamante, i loro fondamenti ideologici e, vien da dire “mitici” a fondamento e giustificazione dell’intero apparato. L’eliminazione del colpevole dal consesso sociale, la sua relegazione dietro le mura di un carcere per sempre, senza possibilità di uscita se non nel pentimento e collaborazione, qualora utili ai fini processuali, richiamano molto da vicino una pena di morte differita nel tempo. Simile trattamento riservato al mostro, all’irriducibile, all’irrecuperabile corrispondono al detto “sbattere in cella e buttare la chiave” che sta alla base di una larga fetta di consenso attorno al sistema carcerario. Poco importa se poi, all’atto pratico, nelle patrie galere vi stiano decine di migliaia di persone per reati minori, per la gran parte in condizioni socio-economiche svantaggiate, le classi povere ed emarginate della società. La giustificazione dell’istituzione carceraria trova linfa proprio dall’idea di punire l’archetipo criminale, la quintessenza del male, l’elemento da annientare e allontanare permanentemente per il bene della società. Secondo l’analisi abolizionista oggetto di critica del sistema penitenziario devono essere in primis tali istituti che sanno tenere in piedi nell’opinione comune l’idea della necessità del carcere, permeando, come si è visto nel caso del 4bis e simili, l’intero sistema, diffondendosi nell’applicazione e tramandando nel tempo le pratiche emergenziali punitive. Di simili argomentazioni Salvatore Ricciardi è stato instancabile sostenitore nel corso degli anni. Oggi manca la sua intelligenza e forza nel portarle avanti, come manca la sua figura di ribelle di lungo lustro a tutte e tutti coloro che lo hanno conosciuto, letto, ascoltato. Se in occasione della sua morte fu strozzata la possibilità di dargli addio, oggi, a un anno di distanza Radio Onda Rossa organizza un’iniziativa in suo nome. “Ciao Salvo!”, venerdì 9 aprile 2021, in ricordo di Salvatore Ricciardi a un anno dalla scomparsa: dalle 17:00 presenza in strada con diretta radiofonica da via dei Volsci, sotto la sede di Radio Onda Rossa, davanti al civico 56, con mascherina e distanza senza perdere il contatto umano. *Radio Onda Rossa Carofiglio, in edicola il suo breviario laico di Paolo Conti Corriere della Sera, 10 aprile 2021 Riflessioni dello scrittore sul tema della responsabilità civica. Esce il 10 aprile, e resta disponibile per un mese, il volume “Della gentilezza e del coraggio” dell’ex magistrato. Che cos’è veramente la gentilezza, e che cosa davvero è il coraggio? E perché queste due qualità/virtù sono così strettamente connesse tra loro, e appaiono indispensabili per diventare un cittadino veramente consapevole, dunque libero? In estrema sintesi è l’itinerario proposto da Gianrico Carofiglio in Della gentilezza e del coraggio. Breviario di politica e di altre cose, dal 10 aprile in edicola con il “Corriere della Sera” per un mese a 9,90 euro più il prezzo del quotidiano. Sarebbe sbagliato pensare che le due creature carofigliane, così amate dal suo pubblico (ovvero l’avvocato Guido Guerrieri e il maresciallo Pietro Fenoglio) siano completamente sparite di scena. Certo qui loro non ci sono: mancano omicidi e casi da risolvere. Siamo esplicitamente di fronte a un “breviario”: ma resta il metodo investigativo, stavolta applicato alla scoperta dell’etica e alla sua negazione, dunque il piacere di capovolgere l’ovvio e i luoghi comuni come avviene in un’inchiesta dei tanti best-seller di Carofiglio. L’autore qui intende indicare “un sommario di suggerimenti” per la pratica della politica e del potere ma soprattutto “per la critica e la sorveglianza sul potere”: cioè la dignità di cittadini adeguatamente strutturati per capire, saper convivere, criticare, rispettare, scegliere e rifiutare. Ma sempre liberamente. Tre temi, indicati in incipit: la gentilezza “come metodo per affrontare e risolvere i conflitti e strumento chiave per produrre senso nelle relazioni umane”, il coraggio “come essenziale virtù civile e veicolo del cambiamento”. E poi la capacità di “porre e di porsi domande - la capacità di dubitare, insomma - come nucleo del pensiero critico e dunque della cittadinanza attiva”. Una capacità che distingue “i cittadini consapevoli dai sudditi”. Una facoltà che implica, guarda un po’, “gentilezza e coraggio”. Dunque, la gentilezza. Primo equivoco sgomberato da Carofiglio: “La pratica della gentilezza non significa sottrarsi al conflitto. Al contrario, significa accettarlo, ricondurlo a regole, renderlo un mezzo di possibile progresso e non un evento di distruzione”. Se i fascismi e i populismi “vivono dell’elementare, micidiale logica che divide il mondo in amici e nemici”, l’uomo civile “non rifiuta il conflitto. Lo accetta, invece, come parte inevitabile e proficua della complessità e della convivenza”. L’autore propone un parallelo, guardando verso Oriente, tra i samurai giapponesi (il leggendario maestro Miyamoto Musashi) interamente concentrati sull’obiettivo di uccidere il nemico, e la modernità del karate, con una frase del suo fondatore Gichin Funakoshi: “Sconfiggere il nemico senza combattere è l’abilità suprema”. Si arriva così alla differenza tra i bravi comunicatori e i manipolatori (qui Carofiglio analizza a lungo il “metodo Trump”), all’identikit del “politico ideale” pronto a mettere da parte il proprio ego per “non farne, mai, un fatto personale”, alla dote della metacognizione, ovvero “la capacità di uscire da sé stessi” e di osservare criticamente cosa si fa, cosa si dice, cosa si pensa. E se gli incompetenti “sono inconsapevoli, ignoranti, della propria ignoranza” invece i competenti “sono consapevoli della propria ignoranza”. Naturalmente si arriva al linguaggio violento, sempre più frequente, figlio delle semplificazioni e dell’ignoranza. Il contrario di tutto questo è “l’arte del dubitare domandando”, cioè “lo strumento fondamentale del pensiero critico e civile per contrastare tutte le forme e le pratiche di esercizio opaco, quando non deliberatamente occulto, del potere”. Un esercizio del singolo che, collettivizzato, riguarda la democrazia: “La qualità della vita democratica dipende dal numero, dal tenore, dall’efficacia delle domande che interpellano l’esercizio del potere e lo sottopongono a scrutini inattesi”. Ed eccoci al coraggio e alla paura. Carofiglio mette da parte banali schematizzazioni: il coraggio non è più l’opposto di paura e viceversa ma “la paura è la premessa del coraggio” perché “non esiste coraggio se non come risultato di una reazione, di un’elaborazione della paura e della sua trasformazione in capacità di agire”. Dunque il coraggio è “il buon uso della paura”, è “reazione attiva ai pericoli individuali e collettivi”. Sorprendente anche l’elogio dell’errore (così come c’è un elogio dell’ironia e dell’autoironia) una sorta di appendice alla gentilezza e al coraggio. Ecco il racconto di Michael Jordan, la leggenda del basket: “Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri. Ho perso trecento partite. Per trentasei volte i miei compagni si sono affidati a me per il canestro decisivo e io l’ho sbagliato. Ho fallito tante e tante volte nella mia vita. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto”. Qui il cerchio del ragionamento proposto da Carofiglio si chiude: “Convivere con l’errore e l’incertezza implica coraggio; implica un approccio cauto (il coraggio è cauto, la temerarietà e imprudente), e dunque gentile, al tentativo di trasformare il mondo e di dargli senso”. Certo, nelle pagine ci sono moltissimi agganci all’attualità (oltre a Donald Trump compaiono Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Alessandro Meluzzi, e si potrebbe continuare). Ma nel libro conta veramente l’idea centrale: “Gentilezza insieme a coraggio (in realtà le due caratteristiche, correttamente intese, sono inscindibili) significa prendersi la responsabilità delle proprie azioni e del proprio essere nel mondo. In modo ancora più sintetico: accettare la responsabilità di essere umani”. Il volume - È in edicola dal 9 aprile con il “Corriere” il volume di Gianrico Carofiglio, Della gentilezza e del coraggio. Breviario di politica e altre cose (è uscito nel 2020 per Feltrinelli) a euro 9,90 oltre al prezzo del quotidiano; resta in edicola per un mese. È l’ultimo titolo della collana dedicata all’autore dal “Corriere” nel 2020 Carofiglio (Bari, 1961) è autore di racconti, romanzi, saggi. Ex magistrato, è stato senatore del Pd dal 2008 al 2013. Nel 2020 è stato finalista allo Strega con La misura del tempo (Einaudi Stile libero). Vaccini, dopo gli errori occorre una operazione verità di Lorenzo Bini Smaghi Corriere della Sera, 10 aprile 2021 A partire dagli acquisti, i paesi europei non hanno deciso in base ad analisi razionali di costi e benefici, ma cercando di minimizzare le responsabilità e i rischi di critica. Come ha ricordato Paul Krugman sul New York Times qualche giorno fa, la politica europea continua a commettere una serie di errori nella conduzione della campagna vaccinale. Il “disastro” - per usare le parole del premio Nobel americano - deriva non solo da una eccessiva avversione al rischio ma soprattutto dall’avversione ai rischi sbagliati. Il rimprovero che viene fatto ai paesi europei è quello di non decidere in base ad una analisi razionale dei costi e dei benefici delle diverse alternative, ma piuttosto cercando di minimizzare le responsabilità e i rischi di essere criticati. Le decisioni vengono spesso prese sull’onda dell’emotività. Questo spiega molti errori commessi. Il primo errore risale ad un anno fa, quando i governi dei paesi europei decisero di delegare il negoziato con le case farmaceutiche a funzionari europei, senza tuttavia dare loro un budget adeguato né il mandato di prenotare il numero massimo di vaccini da consegnare nel più breve tempo possibile, costi quel che costi. Non ci si può poi sorprendere se i paesi europei sono finiti in fondo alla lista delle prenotazioni, dato che l’obiettivo era quello di spendere il meno possibile. È stato poi facile dare la colpa all’Europa. Solo Angela Merkel ha avuto il coraggio di ricordare che i contratti con le case farmaceutiche “sono stati firmati dagli stati membri, non da qualche stupido burocrate”. Gli errori sono proseguiti, a campagna vaccinale avviata, quando sono emersi alcuni effetti collaterali, provocati in particolare dal vaccino Astra Zenica. A metà marzo vari paesi europei, seguiti da altri, decisero di sospendere in via precauzionale l’iniezione del vaccino. Erano stati segnalati 30 “eventi tromboembolici” su circa 5 milioni di vaccinazioni. Ciò significa che chi era stato vaccinato aveva una probabilità pari allo 0,0006% di subire effetti collaterali. Si è così deciso di sospendere un vaccino perché sicuro “solo” al 99,9984%. Non si è invece considerato che ritardare la vaccinazione di 3 giorni, per circa 150 mila persone, comportava un rischio ben maggiore, in termini di probabilità di contagio, di ricovero e forse di morte. In sintesi, sebbene i rischi di una mancata vaccinazione fossero ben maggiori della vaccinazione stessa, come hanno confermato tutte le istanze tecniche, le autorità politiche europee decisero di sospenderla. La motivazione principale era che l’avevano fatto anche altri paesi. Gli errori sono continuati dopo le ultime evidenze riguardo agli effetti dei vaccini su alcuni “rari” casi di trombosi celebrali. L’istituto di ricerca tedesco Paul Ehrlich ha identificato 31 casi di coagulazione, di cui 9 decessi, su 2,7 milioni di iniezioni. Ciò significa una probabilità di morte dello 0,0003%. In Francia sono stati identificati 9 casi con 4 decessi su 1,9 milioni di dosi (0,0002%). Il 7 Aprile l’EMA ha confermato, sulla base di un campione ancor più ampio, che la probabilità di morire per trombosi cerebrale dopo l’iniezione di un vaccino era molto bassa, statisticamente non diversa dallo zero con una soglia di significatività del 99%. È peraltro inferiore a quella di altri eventi rari, come quello di essere colpito da un fulmine. I dati inglesi, presi sul campione più ampio di vaccinati, mostrano che il rischio di subire danni seri per una persona di età compresa tra 60 e 69 anni è pari allo 0,0002%, non significativamente diverso rispetto alla fascia di 50-59 anni (0,0005%) o di 30-39 anni (0,0008%), ed è comunque sempre inferiore al rischio di non vaccinarsi. Ciò nonostante, i governi di vari paesi europei hanno introdotto delle restrizioni alla somministrazione del vaccino in base all’età, diverse per paesi, spesso senza riuscire a spiegarne le motivazioni. Hanno contribuito alla confusione i molti esperti che quotidianamente esprimono i loro pareri senza riferimento a dati o a valutazioni scientifiche. Non sarà possibile vincere la battaglia contro il virus senza una operazione verità. Tale operazione, che deve essere svolta direttamente dalle istituzioni politiche, consiste nello spiegare in modo semplice ai cittadini i dati, mettendosi nei loro panni e cercando di venire incontro alle loro preoccupazioni, senza scaricare su altri la responsabilità delle decisioni prese. Integrare il Comitato tecnico scientifico con un paio di statistici, di psicologi e di tecnici della comunicazione sarebbe un primo passo nella giusta direzione. Medio Oriente. Ma i dittatori ci servono di Alberto Negri Il Manifesto, 10 aprile 2021 La realtà è che Stati uniti ed Europa nel Mediterraneo e in Medio Oriente hanno lasciato in questi anni un vuoto riempito dal “reis” turco e dalla Russia ma adesso ci vuole un “ritorno all’ordine”, alla nuova guerra fredda decretata dalla coppia Biden-Blinken. E Draghi esegue. Draghi, in sintesi, dice che Erdogan è un dittatore che ci fa comodo: tradotto significa che gli facciamo fare quel che vuole fino a quando ci serve. Una pericolosa e irrealistica illusione, del premier ma anche Usa ed europea. Erdogan fa quello che vuole con il nostro consenso e indignarsi perché non rispetta i diritti umani o il galateo diplomatico è assai ipocrita. Gli Usa e gli europei speravano che il golpe fallito del 15 luglio 2016 lo sbalzasse dal potere: da allora il “reis” preferisce mettersi d’accordo con Putin piuttosto che con l’Occidente atlantico, che lo vorrebbe manovrare in funzione anti-russa ma alla fine lo detesta e lo ammansisce, magari sulla pelle degli altri. Qualche esempio? Trump, con il ritiro delle truppe Usa dal Nord della Siria nell’ottobre 2019, lasciò che Ankara massacrasse i curdi siriani, nostri alleati contro l’Isis, usando i jihadisti terroristi e tagliagole. In Tripolitania, di fronte alla incapacità italiana a sostenere il governo Sarraj, siamo suoi ospiti e le milizie filo-turche fanno la guardia all’ambasciata italiana mentre i suoi militari si sono fatti fotografare sulle motovedette donate dall’Italia. I turchi hanno la memoria lunga: l’Italia conquistò la Libia nel 1911 sottraendola all’Impero ottomano e l’anno dopo si portò via anche il Dodecaneso. Erdogan, il neo-ottomano sgarbato, è uno che gli insulti se li lega al dito. La realtà è che Stati uniti ed Europa nel Mediterraneo e in Medio Oriente hanno lasciato in questi anni un vuoto riempito dal “reis” turco e dalla Russia ma adesso ci vuole un “ritorno all’ordine”, alla nuova guerra fredda decretata dalla coppia Biden-Blinken. E Draghi esegue. La sostanza è questa: gli Usa non vogliono un nuovo accordo tra Erdogan e Putin che possa incoraggiare la Russia a restare in Cirenaica e magari aprire un’altra base militare nel Mediterraneo dopo quelle in Siria. Si tratta di una manovra che fa parte di una strategia più ampia con cui Washington vuole mettere pressione a Mosca: dallo schieramento dei missili ipersonici in Europa al blocco del gasdotto Nord Stream 2 tra Russia e Germania, all’eventuale ingresso dell’Ucraina nella Nato. Biden, sta per nominare l’inviato speciale incaricato di bloccare il gasdotto Nord Stream 2: è il suo uomo di fiducia in Ucraina, Amos Hochstein, già nel consiglio del colosso energetico ucraino Naftogatra, un passato nell’esercito israeliano, che durante l’amministrazione Obama fece saltare il South Stream con Mosca (2 miliardi di commesse Saipem) e si adoperò per attivare il Tap, il gasdotto alternativo con l’Azerbaijan. Erdogan si oppone a Putin in Siria, in Azerbaijan e in Libia ma si è anche messo d’accordo con il capo del Cremlino: compra il suo gas e le batterie anti-missile S-400 ed è incline a una spartizione in zone di influenza che irrita gli americani, soprattutto Antony Blinken che nel 2011 era un sostenitore dei raid contro Gheddafi e ora vorrebbe cacciare i mercenari russi asserragliati con il generale Haftar su una “Linea Maginot|” nella sabbia della Cirenaica. La non guerra e la non pace è la situazione la Russia gestisce meglio, dal Medio Oriente al Caucaso, finché non si rompono gli equilibri. Draghi, l’atlantista buono, ha orecchiato sul manuale Biden-Blinken che bisogna bacchettare Erdogan, l’atlantista ribelle, e ha fatto la sua uscita, un po’ alla carlona, durante una conferenza stampa. Fa parte di un’offensiva diplomatica che ha portato il premier a Tripoli- grazie ad Erdogan - nello stesso giorno in cui arrivava il greco Mitsotakis: mai si erano visti in Libia due capi di governo europei in un solo giorno - la stampa italiana non ha dato l’evento per non sminuire il “primato” italico nell’ex colonia. Poi subito dopo c’è stata la missione von der Leyen-Michel ad Ankara. La crisi di poltrone e sofà, grave se fosse uno sgarbo e una offesa voluta al ruolo di rappresentanza delle donne in politica, non a caso esplode ora dentro l’Ue, sia per le priorità dei ruoli sia perché davvero il protocollo dell’incontro era stato approvato dalle due parti. Ma lo sgarbo ha oscurato il vero problema. La Turchia non ha nessuna intenzione di cedere su quattro dossier: i profughi, le frontiere marittime del Mediterraneo orientale, la Libia e i diritti umani. Erdogan fa valere la sua vittoria militare in Libia a Sarraj che aveva il generale Haftar e i russi alle porte di casa. Il via libera a Erdogan è venuto da noi, come del resto in Siria quando fece passare 40mila jihadisti per combattere Assad: era questo che volevano gli Usa, “guidare da dietro” la caduta del regime di Damasco. Per questo si è preso in casa tre milioni di profughi, incassa miliardi da Bruxelles e ricatta gli europei sulla rotta balcanica, dove camminano alla disperata tante donne migranti senza sedia e senza speranza. Ma noi paghiamo il dittatore per tenerle lontane. La Germania lo sa perfettamente e quindi impone soltanto sanzioni europee “cosmetiche” per le violazioni di Erdogan delle “zone economiche esclusive” del gas offshore di Grecia e Cipro, dove hanno interessi la Total francese, l’Eni italiana, le compagnie americane e Israele. I “dittatori fanno comodo” anche per tacere: Draghi nel suo discorso d’insediamento non ha detto una parola su al-Sisi, Regeni e Zaki. Si capisce bene allora che una sedia non è solo una questione di arredamento diplomatico ma rappresenta cosa si muove davvero dietro la pace e la guerra nel Mediterraneo: una spasmodica lotta di potenze e una nuova guerra fredda, dove l’Italia ha il solito ruolo di penisola portaerei americana. E non basta dire che Erdogan “è un dittatore che ci fa comodo”. Grecia. Noto giornalista di cronaca nera giustiziato davanti alla sua abitazione di Francesco De Palo Il Fatto Quotidiano, 10 aprile 2021 Giorgos Karaivaz, che lascia la moglie e un figlio adolescente, era molto conosciuto dal pubblico televisivo per i suoi reportage anche sull’operato della polizia e stava tornando a casa dopo aver partecipato a una trasmissione sull’emittente Star. Il suo nome è legato anche a un caso di corruzione che coinvolgeva diversi agenti di polizia, avvocati, imprenditori e un ex politico. Si cercano due uomini a bordo di un motorino È stato ucciso con sei colpi d’arma da fuoco di fronte alla sua abitazione, ad Alimos, un sobborgo di Atene, probabilmente da due uomini a bordo di uno scooter. È morto così Giorgos Karaivaz, giornalista televisivo greco esperto di cronaca nera, lasciando il Paese sotto shock. Adesso è caccia ai responsabili con posti di blocco in tutta l’Attica. Appena sceso dall’auto, a pochi metri dal portone, Karaivaz è stato colpito a bruciapelo dal passeggero della moto: sei volte, ha detto la polizia che sul posto ha trovato 17 bossoli, secondo quanto riferiscono i media greci. La scientifica sta ora esaminando questi reperti per capire se l’arma usata nell’omicidio sia comparsa in qualche altra azione criminale. I primi soccorritori hanno trovato Karaivaz riverso sull’asfalto, già privo di vita. Vengono interrogati testimoni e si cercano i filmati delle telecamere presenti nella zona, ma finora degli assassini nessuna traccia. Gli investigatori, sempre secondo i media locali, ritengono che l’agguato sia stato preparato con cura, con i sicari che conoscevano le abitudini del reporter. Karaivaz, molto conosciuto dal pubblico televisivo per i suoi reportage di ‘nera’, ma anche sull’operato della polizia, stava tornando a casa dopo aver partecipato a una trasmissione sull’emittente Star. Il suo nome è legato in particolare al caso di un multiforme anello di corruzione che coinvolgeva diversi agenti di polizia, avvocati e uomini d’affari con fatturati a sei zeri, in cui erano coinvolti anche un ex parlamentare Anel (partito di destra ed ex alleato di Syriza) e l’imprenditore Dimitris Malamas, assassinato nell’ottobre 2019 ad Atene con 18 colpi di kalashnikov. Il giornalista era sposato e padre di un adolescente, aveva lavorato per anni per la tv Ant1, prima di passare a Star, ed era collaboratore del quotidiano Eleftheros Typos. I social media sono stati subito inondati di messaggi di cordoglio e sul sito personale del giornalista, bloko.gr, i collaboratori del reporter hanno scritto che “Giorgos Karaivaz non è più con noi. Qualcuno ha deciso di farlo tacere con i proiettili per fargli smettere di scrivere i suoi articoli. È stato giustiziato davanti a casa sua. Per noi che in questi anni abbiamo collaborato con lui, sotto la sua guida nei momenti difficili, che abbiamo condiviso con lui il vino, che siamo stati onorati della sua amicizia, sono ore molto dure”. “L’omicidio del giornalista George Karaivaz ci ha scioccati tutti. Le autorità stanno già indagando sul caso per arrestare gli autori e assicurarli alla giustizia. Esprimiamo il nostro dolore e le nostre sincere condoglianze alla sua famiglia”, ha detto la portavoce del governo Aristotelia Peloni. Anche se attentati incendiari o atti vandalici contro le sedi dei media sono abbastanza comuni in Grecia, raramente sono stati presi di mira i giornalisti. Nel luglio scorso, il proprietario di tabloid Stefanos Chios era stato ferito a colpi di pistola da un uomo a volto coperto, ma era sopravvissuto. Il precedente più noto è quello del giornalista investigativo Socratis Giolias, ucciso nel 2010, che secondo la tv pubblica Net stava lavorando all’epoca a un’inchiesta su fatti di corruzione. Un gruppo di estrema sinistra rivendicò l’omicidio, ma il caso non è mai stato risolto. Turchia. In prigione per uno slogan. Vita nella paura di donne, curdi e gay di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 10 aprile 2021 Viaggio nel Paese in cui dissentire è criminale. Lo studente gay arrestato quattro volte. Le attiviste del centro anti-violenza: “Le donne ci chiamano: ora è legale picchiarci?”. Havin Ozcam ha 20 anni e tanta paura. È stato arrestato quattro volte negli ultimi tre mesi, l’ultima dieci giorni fa, ed ha ricevuto minacce di morte sui social da quando, lo scorso gennaio, ha preso parte alle manifestazioni contro la nomina del rettore dell’Università del Bosforo ad Istanbul, scelto direttamente dal presidente Erdogan. Ci aspetta in un angolo di Istiklal Caddesi, il famoso viale nel quartiere di Beyo?lu che sfocia in Piazza Taksim. Sopra la mascherina arcobaleno, due occhi dolci, un po’ spauriti. Si guarda intorno mentre ci conduce nella sede dell’Halklar?n Demokratik Kongresi, una rete sindacale vicina il partito filocurdo Hdp: “Qui mi sento al sicuro, ormai vivo come una persona braccata, oggi il mio obiettivo è non essere ucciso, per questo voglio lasciare il Paese”. Havin è nato a Denizli, una piccola città dell’Anatolia, da una famiglia curda con cui ha rotto i rapporti: “Mia madre è arrivata a puntarmi contro un coltello perché ero gay, mio fratello mi ha picchiato e per mio padre non esisto più. Se loro mi avessero appoggiato oggi sarei molto più forte”. Arrivato a Istanbul per studiare economia, è accusato di incitamento alla sedizione e gli è stato confiscato il passaporto. “La polizia ci ha localizzato attraverso il mio account twitter @Havinlgbt, alle sei di mattina gli agenti hanno fatto irruzione in casa, ci hanno ammanettati dietro la schiena e ci hanno picchiati. Le cose che mi hanno detto non me le scorderò mai - spiega muovendo le mani nervosamente - ci hanno minacciato di stupro, un poliziotto ci canzonava “come lo vuoi il manganello bagnato o asciutto?”. Volevo piangere ma non potevo”. Ora il suo sogno è raggiungere un Paese accogliente: “Il Canada, l’Olanda o la Francia ma un giorno tornerò in patria, quando ci sarà la libertà”. Ma se c’è chi pensa di partire, c’è anche chi resta nonostante il clima sempre più soffocante che avvolge la Turchia in tema di diritti umani. A pochi passi da Gezi Park, dove nel 2013 si accese una delle proteste più potenti contro il governo di Erdogan, c’è la sede di Mor Çat?, una ong che da 30 anni si batte per i diritti delle donne offrendo loro una casa rifugio, l’unica non governativa in Turchia, e un centro di solidarietà che aiuta centinaia di turche ogni anno. Qui l’uscita dalla Convenzione di Istanbul, decisa da Erdogan lo scorso 20 marzo, è stata sentita come un colpo letale: “La Convenzione era la nostra rete di sicurezza nella lotta alla violenza contro le donne. Lo Stato, firmandola, si era impegnato ad agire - dice Elif Ege, 33 anni, che lavora a Mor Çat? dal 2019 - e noi potevamo reclamare la sua applicazione. Ora la difesa delle donne aggredite è più difficile. È come se avessero aperto la porta agli abusi”. Selime Buyukgoze, 46 anni, fa volontariato nella fondazionale dal 2011: “Quando Erdogan ha firmato il decreto abbiamo ricevuto tantissime telefonate di donne che ci chiedevano: “Quindi ora è legale picchiarci?”. E abbiamo sentito dei poliziotti dire che non avevamo più appigli legali. Questa decisione ha rotto gli argini della violenza”. Lo sa bene Pelin Bu, una studentessa di 23 anni, che il 10 marzo è stata arrestata per aver partecipato alla marcia femminista dell’8 marzo a Istanbul. “Mi hanno incriminato, insieme ad altre 17 donne, per aver gridato “Corri Erdogan corri le donne stanno arrivando” e “Chi non salta è Tayyip”. Slogan che sono stati usati nelle manifestazioni per anni ma che ora vengono considerati un insulto al presidente della repubblica. Io ero nello striscione che guidava il corteo, avevamo le mascherine ma sono riusciti lo stesso a riconoscerci. Hanno deciso che chi saltava era colpevole”. Femminista e deputata del partito filocurdo Hdp, Filiz Kerestecioglu è nella lista dei politici per cui la procura generale della Cassazione ha chiesto l’interdizione dall’attività politica per cinque anni. Un procedimento che, ora, ha subito una battuta d’arresto per vizi procedurali. Lei, 60 anni, giacchetta rosa, capelli ricci e un’aria combattiva, non sembra spaventata. “È dal 2015 che criminalizzano l’Hdp, hanno destituito i nostri sindaci, messo in galera in nostri leader, ora vogliono dissolvere il partito. Perseguono giornalisti, avvocati, chiunque dissenta. Ci chiamano terroristi ma noi non ci arrenderemo. Non ci possono togliere la speranza”. Avvocata, co-autrice del documentario “Le donne esistono” di cui ha scritto anche la musica, Kerestecioglu prepara la battaglia in Parlamento sulla Convenzione di Istanbul: “Erdogan non poteva decidere di uscire dal trattato, è la Grande Assemblea Nazionale che deve votare un atto del genere. Sono anni che noi donne combattiamo, continueremo a lottare e loro lo sanno”. Libia. Un uomo ucciso e due ragazzi feriti nella prigione per migranti di Giansandro Merli Il Manifesto, 10 aprile 2021 Nella struttura governativa di Al-Mabani le guardie sparano nelle celle. “L’utilizzo sistematico della violenza è la modalità di gestione del centro”, racconta un’operatrice di Medici Senza Frontiere. Un uomo ucciso e due ragazzi di 17 e 18 anni feriti dai colpi di pistola esplosi contro i migranti rinchiusi nel centro di detenzione libico di Al-Mabani, a Tripoli. È accaduto all’alba di giovedì 8 aprile e il bilancio sarebbe potuto essere ancora più grave perché le guardie hanno “aperto il fuoco indiscriminatamente all’interno delle celle”. Lo ha denunciato ieri l’Ong Medici Senza Frontiere (Msf). Solo poche ore prima del gravissimo episodio il premier Mario Draghi, in visita nella capitale nordafricana per incontrare l’omologo Abdulhamid Dabaiba, aveva ringraziato i libici per i “salvataggi” dei migranti. Una parola impropria per definire le operazioni di cattura condotte dalla cosiddetta “guardia costiera” di Tripoli a bordo delle motovedette regalate dall’Italia. Probabilmente anche il morto e i feriti erano finiti nel centro di prigionia a seguito di un’operazione di questo tipo. Al-Mabani, infatti, è stato aperto a gennaio scorso. Fino a inizio febbraio rinchiudeva 300 persone, aumentate vertiginosamente a seguito delle numerose intercettazioni condotte in mare nella prima metà di quel mese e poi a marzo. “In pochi giorni i detenuti sono diventati mille e al momento sono 1.500. Con i numeri sono cresciute anche le tensioni”, scrive Msf. Due le dinamiche concorrenti: l’aumento dei migranti catturati nel Mediterraneo (6.071 nei primi tre mesi del 2021 contro gli 11.891 di tutto il 2020 - dati Oim); una diversa modalità di gestione dei successivi sbarchi in porto. Per la legge libica l’ingresso e anche l’uscita “illegale” dal territorio nazionale sono considerati reato, per cui la maggior parte dei migranti sono arrestati una volta ricondotti a terra. Lo scorso anno, però, solo una parte veniva trasferita nei centri di detenzione ufficiali (alcune stime parlano di un 30%) mentre gli altri finivano verosimilmente nelle strutture in mano ai trafficanti, luoghi di cui si ha notizia solo attraverso i racconti dell’orrore di chi riesce ad arrivare in Europa. Da febbraio scorso, invece, le organizzazioni umanitarie presenti sul posto registrano un’inversione di tendenza: circa il 90% delle persone intercettate in mare sono portate nei centri di reclusione governativi. Così se al 31 gennaio l’Oim vi registrava 1.186 presenze, in due mesi il totale è schizzato a quasi 4mila. Ieri l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti (Pd), ora presidente della neonata fondazione di Leonardo “Med-Or” (per il Mediterraneo allargato fino al Sahara e il Medio ed Estremo Oriente), ha definito sulle pagine del quotidiano La Repubblica queste strutture detentive come “centri di accoglienza”. “Ad Al-Mabani non c’è acqua potabile - racconta Bianca Benvenuti, operatrice Msf appena rientrata in Italia da una missione in Libia - L’approvvigionamento è garantito solo da Unhcr, Oim ed Msf. Le celle non hanno finestre. Le persone sopravvivono al buio e senza ventilazione. In poche settimane i reclusi in ognuno di questi stanzoni sono passati da 70 a 100 e poi fino a 400. Si lamentano con i nostri operatori perché non hanno spazio per stendersi, devono trascorrere la maggior parte del tempo in ginocchio”. Ovviamente in simili condizioni è impossibile garantire misure di distanziamento per prevenire la diffusione del Covid-19 e di altre malattie come la scabbia o la tubercolosi. La gran parte della popolazione detenuta è composta da uomini, ma gli operatori Msf hanno incontrato anche donne con bambini piccoli, famiglie, minori non accompagnati e disabili. L’omicidio e i due ferimenti dell’altro giorno non sono avvenuti per caso. “L’utilizzo sistematico della violenza è la modalità di gestione del centro”, continua Benvenuti. Brasile. Lula chiede scusa agli italiani: “Su Battisti ho sbagliato” di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 10 aprile 2021 L’ex presidente brasiliano in un’intervista al TG2 ripercorre gli anni della permanenza nel suo Paese del terrorista dei Proletari armati per il comunismo. E annuncia che vuole candidarsi alle elezioni del 2022. “Su Cesare Battisti ho sbagliato. Gli ho creduto, aveva torto. Era colpevole”. Lo dice Luis Inácio Lula da Silva con la schiettezza che lo distingue nel corso di un’intervista che ha concesso al Tg2 Post. Il fondatore del PT è chiaramente amareggiato da una vicenda che ha sorpreso molti. Cesare Battisti, ex terrorista dei Proletari Armati per il Comunismo e con il tempo diventato un noto scrittore, soprattutto in Francia, per i suoi libri noir, ha sempre sostenuto la sua innocenza fino al 2019. Arrestato per fatti legati alla lotta armata che scandì gli anni ‘70 del secolo scorso in Italia, l’ex militante riuscì a evadere dal carcere di Frosinone nel 1980 dopo essere stato condannato a 12 anni. Fuggì in Francia, poi in Messico, Brasile e di nuovo in Francia dove restò a lungo come rifugiato approfittando della dottrina Mitterrand che negava l’estradizione per motivi politici. La sua lunga latitanza si è conclusa il 12 gennaio del 2019 a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, dove è arrestato dagli agenti del piccolo Paese sudamericano e consegnato agli uomini dell’Antiterrorismo italiani giunti sul posto. Viene trasferito due giorni dopo a Fiumicino e rinchiuso poi direttamente nel carcere di Oristano. Deve scontare l’ergastolo, commutato in 30 anni di carcere, per due omicidi commessi personalmente e altri due a cui partecipò in modo in diretto. La cancellazione del carcere a vita è stata la condizione posta dal Brasile, dove aveva ottenuto la cittadinanza, per concedere la sua estradizione. Fu proprio Lula, nel 2010, a decidere il futuro di Battisti. Il suo caso era davanti al plenum del Tribunale Superiore Federale del Brasile per discutere della richiesta di estradizione arrivata dall’Italia. I giudici brasiliani si divisero e affidarono a Lula le sorti del ricercato italiano. L’allora presidente, in virtù del suo potere, firmò la sentenza che respingeva la richiesta e gli concesse il diritto di asilo” che significava la “residenza permanente”. Un errore, che Lula adesso riconosce chiedendo “scusa a tutti gli italiani”. Del resto, sostenuto da una forte campagna stampa e da un vasto movimento di opinione che sosteneva la sua innocenza, Cesare Battisti è a lungo riuscito a sfuggire alle sue responsabilità e a ingannare per più di 30 anni gli intellettuali, i politici, gli scrittori che lo proteggevano. Ma è stato lui stesso, una volta chiuso in cella in Italia, nel 2019, ad ammettere davanti ai giudici che i fatti di cui era accusato erano veri. Un’ammissione che è apparsa subito strumentale: collaborando, puntava a una riduzione di pena. Nella stessa intervista, il padre della sinistra brasiliana conferma di volersi candidare alle elezioni presidenziali del 2022. “Se sarò in salute e se i partiti progressisti lo riterranno, mi ricandiderò”, ha annunciato. Lo aveva già accennato all’inizio di marzo quando la condanna a 12 anni di carcere per corruzione passiva e riciclaggio di denaro è stata cancellata. Lula è uscito pulito da tutte le inchieste che lo riguardano. Il giudice Sergio Moro è stato accusato di parzialità nel processo perché aveva pesantemente interferito nelle indagini suggerendo i pubblici ministeri come e dove trovare le prove a sostegno dell’accusa. Una grave violazione al suo ruolo super partes che ha viziato l’esito del dibattimento e la stessa condanna. Il leader del Pt ha definito “genocida” il presidente Bolsonaro ricordando che “chi è venuto dopo di me non ha fatto ciò che doveva fare”. L’esponente dell’estrema destra è considerato da Lula un “irresponsabile” per come gestisce la pandemia: “Quattro mila morti al giorno sono un numero inaccettabile”, ha concluso.