Il vento di riforma che mai soffia nelle carceri italiane di Valentina Roselli ilvaloreitaliano.it, 9 agosto 2021 La riforma della giustizia sta diventando realtà, ma viene da chiedersi quanto inciderà sulla drammatica situazione carceraria italiana, da sempre dimenticata dalla politica. La riforma della giustizia deve molto alla Ministra Cartabia che ha introdotto emendamenti importanti su un testo già redatto a suo tempo dal ministro Bonafede. L’obiettivo della riforma approvato martedì alla camera e adesso al vaglio del Senato, è quello velocizzare la durata dei processi in primis e conseguentemente evitare l’affollamento carcerario introducendo pene alternative come i lavori socialmente utili, e aiutare chi ha commesso un reato a percepirsi come una persona da reinserire piuttosto che un reietto senza scampo. Fin qui tutto giusto, ma evitare l’ingresso in prigione non basta, non tutti possono evitare l’istituto di pena e occorre creare per i detenuti un ambiente almeno decente se proprio risulta difficile dare vita a luoghi salubri e aperti alla formazione professionale. In Italia l’articolo 27 terzo comma della nostra Costituzione dichiara: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” ma questo articolo nel nostro paese ma non ha ottenuto eco. La politica da decenni non si rende conto e finge di non rendersi conto che la situazione delle carceri italiane è drammatica aggravata in modo pensate dalla pandemia e non permette nessuna riabilitazione. La recente visita della Ministra Cartabia con il premier Draghi alle carceri di Santa Maria Capua a Vetere dopo i fatti drammatici accaduti all’interno dell’istituto, certo ha sortito qualche effetto e ha fatto nascere la voglia di ristrutturare e adeguare il corpo della polizia penitenziaria, ma resterà solo un sano proposito o si tramuterà in realtà? Gli istituti penitenziari sono afflitti da carenza di personale, cedimenti strutturali, sovraffollamento, celle che a suo tempo sono state concepite per ospitare un detenuto oggi ne ospitano almeno tre se non addirittura quattro. Le aree dei servizi igienici dispongono di docce e sanitari inferiori rispetto al numero necessario per garantire pulizie e docce calde. I tagli effettuati in questo ultimo ventennio dai vari Ministeri della Giustizia, indifferentemente dal loro colore, hanno reso la vita carceraria al limite della sopravvivenza. Non possono essere effettuati i normali interventi di manutenzione, mancano la carta igienica e le posate di plastica, di cui ogni detenuto deve dotarsi a sue spese e non tutti i detenuti hanno il denaro per acquistarle. Le attività ludiche o lavorative riscuotono sempre meno interesse considerando che la diaria attualmente è ridotta a meno di un euro l’ora e qualora fosse più gratificante non ci sarebbe comunque personale sufficiente per garantire la necessaria vigilanza nei luoghi di lavoro. Personale ridotto e molto stressato - In ogni sezione, viene impiegato un numero di agenti inferiori a quelli previsti, con tutto quello che ne consegue per la loro incolumità personale e la sicurezza dell’istituto. Il personale di vigilanza è quindi numericamente inadeguato per assicurare un servizio funzionale e questo deficit comporta turni di lavoro massacranti. Sia che l’istituto ospiti gli imputati di reati minori, reati contro il patrimonio vedi furti o borseggi o piccolo spaccio sia che invece vi siano detenuti sottoposti al regime di 41 bis appartenenti alla criminalità organizzata, l’effettiva operatività è di molto ridotta rispetto a quella necessaria. Questo deficit incide naturalmente sull’orario di lavoro, con molte ore di straordinario a fronte di una retribuzione mensile non allineata ai rischi che si corrono. Al giorno d’oggi fare l’agente di polizia penitenziaria è un mestiere a rischio esaurimento fisico e mentale, che si manifesta tra le tante reazioni con crollo della motivazione e del senso d’efficacia, distanza emotiva dal proprio compito e la comparsa di freddezza, cinismo e distacco, in poche parole grandi depressioni che hanno portato alcuni agenti a togliersi la vita o al peggio a reazione aggressive e violente a danno degli stessi detenuti. In sintesi le carceri italiane assomigliano oggi all’inferno dantesco e tra le tante celebrazioni per i 700 anni dalla morte di Dante, non sarebbe male far leggere l’inferno della Divina Commedia all’interno di una prigione, dove mai il contesto fu più vicino a quando cantato dal sommo poeta, riservando come sempre la prima fila ai vertici della politica italiana. Quel detenuto in carcere ha preso due lauree, è pericoloso di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 9 agosto 2021 Sorprendente motivazione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna nel “no” alla detenzione domiciliare per motivi di salute. In carcere, dove con l’ok dell’Antimafia veneziana sul suo distacco dal clan di camorra dei “casalesi” ha avuto alcuni permessi mentre sconta 18 anni per associazione mafiosa e sequestro di persona, ha investito tutta la sua speranza di futuro sullo studio: al punto da prendere con 110 e lode due lauree in Giurisprudenza e Economia, e un master per giuristi d’impresa. Salvo poi sentirsi rispondere dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna, nel “no” alla detenzione domiciliare per motivi di salute, non solo che la sua salute è compatibile con il carcere, ma anche che comunque, alla luce di una psicologia che sarebbe incline a ostentare superiorità, “la laurea conseguita in carcere e la frequentazione di un master per giurista di impresa si ritiene possano affinare le indiscusse capacità del ricorrente e dunque gli strumenti giuridici a sua disposizione per reiterare condotte illecite in ambito finanziario ed economico”. Una volta le mamme peroravano “studia, figlio mio, e diventerai qualcuno”, adesso giudici sembrano scrivere “se studi diventerai un boss più scaltro, quindi sei sospettabile di essere pericoloso”: “Ma così - ricorrono alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo il professor Giovanni Maria Flick e l’avvocato Francesca Cancellare - l’istruzione passa da primario strumento del trattamento penitenziario e volano di emancipazione per un futuro oltre la pena (come previsto dalla nostra Costituzione e dalle fonti sovranazionali) a sintomo di pericolosità sociale dei detenuti”. E se per primi non ci credono i giudici, chi deve credere nella risocializzazione dei detenuti? In precedenza la Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile (come nel 68% dei casi), barrando la crocetta sulla casella del prestampato: ricordarsene, quando ebbri di aziendalismo giudiziario si esaltano le “magnifiche sorti e progressive” di strumenti deflattivi finalizzati a falcidiare le impugnazioni “inutili”. Ministra Marta Cartabia, perché il carcere ha paura dei libri? di Carmelo Musumeci ultimavoce.it, 9 agosto 2021 Succede ogni tanto che mi scriva qualche detenuto sottoposto al regime di tortura democratica del 41 bis, per dirmi che vorrebbe leggere qualche mio libro. Io devo rispondere che questo non è possibile, se hanno proibito di far entrare nelle celle delle sezioni del 41 bis perfino un libro dell’attuale Guardasigilli. Signora Ministra Marta Cartabia, penso che bisognerebbe “condannare” i carcerati a leggere di più. Non potrebbe fare qualcosa per cambiare o modificare la norma che consente all’amministrazione penitenziaria di vietare ai detenuti sottoposti al regime di tortura del 41 bis di ricevere libri e riviste dall’esterno? Secondo alcuni professionisti dell’antimafia questo divieto consente di prevenire contatti del detenuto con l’organizzazione criminale di provenienza. Invece, a mio parere in questo modo si fa un “favore” alla mafia, perché? non si tiene conto che i libri potrebbero aiutare a sconfiggere l’anti-cultura mafiosa. Sì, è vero, ricevere un libro in carcere potrebbe essere pericoloso, ma tutto quello che entra nelle sezioni del 41 bis è controllato e letto, perché tutti hanno la censura e, comunque, pur correndo qualche rischio, i benefici sarebbero largamente superiori ai rischi, un po’ come il vaccino contro il coronavirus. Signora Ministra, ventisette anni di carcere duro mi hanno insegnato che prima di scrivere bisogna leggere. E dopo bisogna tentare di riflettere, con la mente e con il cuore. Subito dopo pero? bisogna avere il coraggio di scrivere quello che si pensa: è quello che ho deciso di fare ora scrivendoLe questa lettera aperta. Chi è favorevole al divieto di fare entrare i libri nelle sezioni del 41 bis, io credo lo sia perché a sua volta legge poco: forse perché? non ha tempo. Io, invece, in 27 anni di carcere, ho letto moltissimo. Potrei affermare che sono sempre stato con un libro in mano. E sono certo che senza libri non ce l’avrei fatta. Mi sono fatto la convinzione che noi siamo anche quello che leggiamo e, soprattutto, quello che non leggiamo. Le confido che nei libri ho vissuto la vita che non ho potuto vivere: ho sofferto, ho pianto, ho amato, sono stato amato, sono cresciuto, sono stato felice ed infelice nello stesso tempo. E sono morto e rivissuto tante volte. Una volta, un giornalista mi ha chiesto qual era il libro che mi era piaciuto più di tutti. Mi e? stato difficile rispondere, perché? i libri sono un po’ come i figli: si amano tutti, perché? tutti ti danno qualcosa. Alla fine ho detto che mi e? piaciuto molto il libro “Il Signore degli Anelli”, perché? molti prigionieri sono un po’ come i bambini. E per vivere meglio si immaginano di vivere in mezzo a boschi e palazzi incantati, fra meraviglie o incantesimi. Mi ha entusiasmato anche il libro “Il rosso e nero” di Stendhal, perché? mi ha insegnato che l’amore e? fatto di amore. Poi ho citato il libro “Delitto e castigo” di Fe?dor Michailovic Dostoevskij, perché? mi ha insegnato come si sconta la propria pena e che la vita e? fatta di errori, se no non sarebbe vita. Infine, ho elencati i libri di Hermann Hesse, fra cui “Siddharta” e “Il Lupo della steppa”, perché mi hanno insegnato che quello che penso io spesso lo pensano anche gli altri… Signora Ministra, mi permetta di affermare che nei libri non ci sono dei nemici. Anzi, essi aiutano a frugare meglio dentro se stessi. Solo gli sciocchi hanno paura dei libri. I libri sono stati la mia luce in tutti questi anni di buio, mi hanno anche aiutato a continuare a lottare e a stare al mondo perché?, come scrive Elvio Fassone (ex magistrato e componente del Consiglio della Magistratura, oltre che Senatore della Repubblica), nel suo libro “Fine pena ora”: Certe volte una pagina, una frase, una parola smuove delle pietre pesanti sul nostro scantinato. Signora Ministra, fin dall’inizio della mia lunga carcerazione ho sempre letto, all’inizio con la testa e alla fine con il cuore. L’ho fatto prima per rimanere umano, dopo per sopravvivere, alla fine per vivere. Mi creda, non e? stato facile leggere in carcere, perché spesso per ritorsione mi impedivano di avere libri e persino una penna per scrivere. E in certi casi mi lasciavano il libro, ma mi levavano la copertina. Penso che si dovrebbe fare una buona legge per “condannare” i detenuti sottoposti al regime democratico di tortura del 41 bis a ricevere e a tenere più? libri in cella e, forse, anche una norma per obbligare chi si occupa di giustizia e carcere a leggere di più, perché i libri rendono migliori le menti e i cuori delle persone, buone o cattivi che siano. Perché stare contro i due Mattei (e Bettini) sulla Giustizia di Stefano Feltri Il Domani, 9 agosto 2021 In fondo bisogna essere molto grati a Matteo Salvini e Matteo Renzi: offrono un grande servizio agli elettori di centrosinistra e a chiunque condivida valori anche solo vagamente progressisti. In una stagione di leader effimeri e ideologie gassose, i due Mattei svolgono la necessaria funzione di bussole politiche, di punti di riferimento. Basta guardare dove si collocano, che battaglie sostengono, per avere la granitica certezza che è meglio trovarsi dalla parte opposta. E non per ragioni tattiche: Pd, Leu e Cinque stelle governano, in formazioni variabili, con i due Mattei da quattro anni. Ma proprio per ragioni di principio, di merito. Renzi, d’accordo con Salvini, vuole abolire il reddito di cittadinanza perché la gente, specie se povera o disoccupata, “deve soffrire”. E dove si deve collocare un progressista se non all’estremo più lontano possibile da simili affermazioni, che fanno passare in secondo piano tutti i difetti del sussidio anti-povertà? Salvini, convinto che la priorità per la vita sociale degli italiani siano le discoteche a libero accesso (troppo tempo passato al Papeete), si batte come un leone contro il green pass e difende il diritto di scroccare la protezione vaccinale dagli altri senza neppure disturbarsi a fare una punturina. Ci sono dubbi su quale posizione tenere, anche solo per reazione? I due Mattei sono riusciti anche a rinviare a settembre la legge Zan contro l’omotransfobia che pure aveva avuto una maggioranza alla Camera e ne aveva una al Senato, prima che Italia viva iniziasse a pendere verso destra. Meglio stare con chi si preoccupa dell’incolumità di omosessuali, trans e altre minoranze o con chi teme che le proprie idee ed esternazioni vengano classificate (spesso a ragione) come omofobe? Sempre Salvini, sostenuto da Renzi e d’intesa con i radicali, vuole una serie di riforme della giustizia via referendum che hanno l’obiettivo di riformare il Csm, l’autogoverno dei magistrati (e ce n’è bisogno), ma soprattutto applicare il programma sempre sognato da Silvio Berlusconi: separazione delle carriere, nella convinzione che questo indebolisca l’accusa, meno misure cautelari per evitare restrizioni a chi potrebbe reiterare il reato di cui è accusato (ma se è un immigrato buttiamo la chiave, ovviamente) e cancellazione della legge Severino per permettere anche ai condannati di candidarsi, un problema che ovviamente riguarda soltanto alcuni politici, non certo i migliori. Ci sono dubbi su dove schierarsi? Il segretario del Pd Enrico Letta ha tentennato, ma si è tenuto saggiamente alla larga. Goffredo Bettini, punto di riferimento di pezzi del Pd, ha scritto sul Foglio invece che firmerà per i referendum: una fenomenale piroetta per il grande teorico dell’alleanza Pd-Cinque stelle che aveva come architrave la riforma Bonafede della giustizia, considerata troppo “giustizialista” dai tanti che nascondono dietro il garantismo la voglia di impunità. In un mondo complesso, insomma, chiunque cerchi punti di riferimento più solidi della eterea leadership di Enrico Letta, può sempre guardare ai due Mattei (o a Bettini) e poi mettersi con convinzione il più lontano possibile. Cosimo Ferri: “La riforma Cartabia è un punto di partenza: riporta le lancette sul diritto” di Giuseppe Sanzotta Il Capoluogo, 9 agosto 2021 Riforma Cartabia, parla l’On. Cosimo Maria Ferri, componente della II Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. “È un punto di partenza, ma tanto si deve ancora fare”. E sulla separazione delle carriere: “non si risolvono così i problemi della giustizia”. Cosimo Ferri la giustizia italiana la conosce bene. Magistrato in aspettativa, già leader di una corrente importante come Magistratura Indipendente, il più giovane membro eletto al Csm, il più votato all’Anm e successivamente sottosegretario alla Giustizia nei governi Letta, Renzi e Gentiloni, è stato eletto parlamentare nel 2018 nel Pd: ora fa parte del gruppo di Italia Viva e, naturalmente, nelle aule Parlamentari si occupa soprattutto della materia che meglio conosce. Un mondo che, dopo le vicende legate a Palamara, sembra aver perso la fiducia dei cittadini. Quella fiducia che aveva conquistato in coincidenza con la crisi della politica. Magistratura da riformare? Giustizia da cambiare? Qualcosa si muove, cancellata la riforma Bonafede, quella del fine processo mai. Il tema della prescrizione ha diviso il Parlamento, ha visto scendere in campo i Pm. Ma dopo mediazioni, correttivi e promesse di nuovi interventi, la riforma Cartabia, dal nome del ministro ha ricevuto il via libera della Camera, Per il via libera definitivo si dovrà pronunciare il Senato, ma la strada è segnata. E del “pensionamento” della legge Bonafede, parliamo proprio con l’onorevole Ferri. Ma non solo: due i temi scottanti d’attualità: le elezioni dei membri del Csm, e la separazione delle carriere. Su questi due aspetti l’onorevole Ferri avanza due proposte di radicale modifica. Onorevole Ferri, il suo gruppo ha sostenuto la riforma del processo penale, ma non è la soluzione ai problemi? Non si poteva fare di più? “Diciamo subito che quella che abbiamo votato è la riforma Cartabia, non è la nostra. Noi l’abbiamo sostenuta per lealtà perché rappresenta una rottura con i provvedimenti del governo Conte e del ministro Bonafede che invece di affrontare i veri problemi della Giustizia portavano all’infinito i processi con le norme sulla prescrizione. Bonafede non ha tenuto conto della riforma Orlando, su cui anch’io ho lavorato, che aveva raggiunto un giusto equilibrio e che meritava un serio monitoraggio, prima di spazzarla via. Già allungava i tempi di prescrizione, teneva conto dei reati più gravi e di allarme sociale. Non dimentichiamoci che con il Governo Renzi abbiamo approvato la riforma degli eco-reati votata anche dal movimento cinque stelle e che ha previsto, per esempio, il raddoppio dei termini prescrizionali per i reati ambientali. Con un’altra riforma abbiamo poi aumentato le pene per i reati di corruzione e i tempi prescrizionali. Punito l’auto riciclaggio, riscritto il falso in bilancio… potrei continuare per ore. Fatti, non parole. Bonafede ha spazzato via la riforma Orlando e ha proceduto per slogan come se prima non si fosse fatto niente. Ha introdotto un processo senza fine che certamente non tutela né la vittima né dà garanzie all’imputato. La riforma Cartabia riporta le lancette sul diritto, sulle garanzie e su un processo ragionevole e veloce. Per questa riforma si è speso il presidente Draghi e noi l’abbiamo sostenuta nella convinzione che rappresenti un’inversione di tendenza con l’epoca delle dirette via Facebook a cui ci aveva abituato Bonafede per preannunciare le modifiche e riforme epocali. Non si poteva andare avanti così. Alcune procure però hanno avanzato il timore che i nuovi termini della prescrizione possano non consentire di portare a termine i processi: i colpevoli non pagheranno e le vittime non avranno giustizia... Alcune delle osservazioni critiche sono condivisibili e non possono essere liquidate, ma vanno tenute presenti e meritano delle risposte. La riforma Cartabia deve essere un punto di partenza, la situazione deve essere monitorata e il sistema deve funzionare. Altrimenti chi ha criticato avrà ragione. Il punto politico della nuova riforma è la discontinuità rispetto al passato, ma al centro del nostro impegno ci deve essere un giusto processo caratterizzato dalla sua ragionevole durata a beneficio di tutte le parti: dell’imputato, ma anche delle vittime. Il sistema deve funzionare e i processi devono essere fatti nel rispetto delle garanzie e di una durata ragionevole che consenta di accertare la verità. L’improcedibilità non deve essere l’obiettivo. Ma per non incentivare appelli devi introdurre istituti che incentivino alla definizione in sede d’indagini o in dibattimento di primo grado. Nella riforma Cartabia non si prevede solo una riforma della prescrizione, ma ci sono tante novità importanti: processo penale telematico, digitalizzazione e deposito di atti telematici, allargamento di alcuni istituti come quello della messa alla prova, della tenuità del fatto, della giustizia Riparativa. Possibilità di rinunciare all’appello con uno sconto di pena di 1/6. Si prevede un ampliamento dei riti alternativi, anche se si poteva fare di più in questa direzione. Ma è chiaro che c’è altro da fare”. Cosa in particolare? Prevedere un percorso premiale per chiudere i procedimenti penali in corso perché c’è il rischio che si prescrivano i reati e che i magistrati lavorino a vuoto. Occorre poi investire in risorse tecnologiche e di politica di personale. Questo si potrà fare grazie alla riforma e anche alle risorse che arriveranno dall’Europa. Già in questi giorni andrà in gazzetta il Bando per un reclutamento straordinario di personale anche nel settore giustizia. Bisognerà poi concentrarci sull’organizzazione e la funzionalità delle corti d’Appello. Ci sono Corti, come a Napoli, Venezia, Roma, Catania dove per svolgere un processo ci vogliono anni e altre città dove bastano 200 giorni. Ciò non può essere più consentito alla luce della riforma Cartabia perché accentuerebbe una disparità di trattamento. Bisogna intervenire seriamente negli organici e nell’organizzazione per avere dei tempi certi, come ci chiede l’Europa e come prevede la nostra Costituzione. Riformare la Giustizia è un passo importante che ci veniva richiesto come condizione per ottenere i fondi del Next Generation Eu. Se non partivamo da qui i finanziamenti non arrivavano, invece nelle prossime settimane arriverà una prima parte della cifra. I problemi della giustizia non sono limitati alla lunghezza dei processi: ci sono temi che fanno parte della richiesta di referendum avanzata dai radicali e dalla Lega. Cosa pensa di questi referendum? Bisogna avere un grande rispetto per ogni forma di coinvolgimento dei cittadini. Il referendum è uno strumento di grande democrazia e partecipazione. Il Parlamento deve saper cogliere questo stimolo. Il referendum ha un significato anche politico; però non possiamo mettere la polvere sotto il tappeto, i problemi vanno affrontati. La sfiducia dei cittadini nei confronti della magistratura è purtroppo alta, una sfiducia che ha superato anche quella nei confronti della politica colpevole nel tempo di aver lasciato vuoto un terreno di intervento che le apparteneva. Oggi si deve tornare a stabilire un perfetto equilibrio tra i poteri dello Stato, senza invasioni di campo, senza pregiudizi ma anche senza timori. La politica deve legiferare nell’interesse dei cittadini e del Paese. Dopo le vicende che hanno coinvolto il Csm, si torna a parlare del sorteggio per le nomine… Sono stato tra i primi a sostenere all’interno della magistratura l’idea del sorteggio, ma ero isolato, ed all’opposizione in un periodo di comando dell’Anm di Area ed Unicost. Nessuno l’hai mai presa in seria considerazione. Non penso che purtroppo ci siano i voti in Parlamento per introdurre il sorteggio. Non mi sembra che sia questa la strada che intraprenderà la Ministra Cartabia e farà però un errore, perché le modifiche di cui si parla non spezzeranno in realtà il sistema, e non ci sarà un vero cambiamento. Questa è la sfida che la Ministra ha davanti. È evidente che un’eventuale ipotesi di sorteggio debba essere compatibile con la Costituzione tanto che si era pensato di portare il corpo elettorale a votare magistrati non scelti dalle correnti ma con un sorteggio. In questo modo si potrebbe intervenire con legge ordinaria e senza problemi di costituzionalità. Certo, io sono stato a capo di una corrente, ho creduto nell’associazionismo ma ne ho sempre evidenziato le criticità, tanto che non sono stato mai coinvolto nella Giunta, anche quando sono stato il Magistrato più votato. Le correnti sono nate per essere sede di confronto, di discussione, di proposte, purtroppo hanno perso poi questa nobile missione per diventare espressione anche di potere. Su questo devono fare tutti autocritica, questa è la verità. C’è un altro tema che torna d’attualità, la separazione delle carriere. Una volta era il cavallo di battaglia di Berlusconi. Non crede che sia il momento di separare i pm dai giudici? Non si risolvono i problemi della giustizia separando le carriere, anche se mi rendo conto che oggi il tema è sempre più sentito nell’opinione pubblica. Certamente il Pm deve recuperare però il ruolo di organo che dirige effettivamente le indagini, una parte pubblica che cerchi gli elementi a carico ma anche a favore dell’indagato, deve cercare la verità, rimanendo autonomo ed indipendente dal giudice ma anche dalla polizia giudiziaria. Il vero obiettivo da raggiungere è una maggiore tutela dell’indipendenza interna della magistratura. Questa indipendenza è la vera garanzia, e va cercata e rafforzata a tutti i costi. Il sistema ha bisogno di Pm e giudici indipendenti, non condizionati da chi ti possa valutare all’interno dei Consigli Giudiziari o del Csm. Chi decide sia come Pm che come giudice deve sentirsi sempre libero nella decisione senza aver timore nei confronti del collega che ti potrebbe valutare ai fini della tua carriera o promozione. Mi rendo conto che oggi sia molto attuale l’idea che si risolva tutto separando le carriere ma penso che i problemi siano altri e che si possa intervenire con altre soluzioni. Non dimentichiamoci che già la riforma Castelli Mastella ha introdotto alcuni paletti per rendere più difficili i cambi di funzione. Conosco però bravissimi Pm che hanno svolto prima funzioni da giudice e che quindi si portano dietro una cultura della giurisdizione importante. Penso invece che sia giusto prevedere un’Alta Corte che tratti la materia disciplinare formata da Presidenti Emeriti della Corte Costituzionale, Presidenti di Sezione in pensione della corte di Cassazione, professori universitari, persone però non elette dai magistrati, ma scelte con criteri oggettivi, completamente autonome e che non svolgano il doppio ruolo di componente del Csm e di giudice disciplinare. Scelte con sorteggio prendendo da un elenco speciale o nominati dal Presidente della Repubblica. Giustizia, Giulia Bongiorno: “Travaglio sbaglia, questo è soltanto l’inizio” di Pietro Senaldi Libero, 9 agosto 2021 La senatrice Bongiorno è, sicilianamente parlando, assicurata; la qual cosa non significa che è a godersi il sole e il mare sulla spiaggia di Mondello ma che è oberata di impegni, presa tra la riforma Cartabia, appena licenziata dalla Camera, i referendum della Lega per cambiare la magistratura, le votazioni agostane del Parlamento e le difese dei processi che la aspettano a settembre. Già, perché chi pensa che bastino le novità introdotte dal Guardasigilli per guarire la giustizia non ha capito niente. “Mi è capitato di essere fermata per strada da persone che esprimono soddisfazione per una riforma della giustizia che definiscono “epocale” e che pensano potrà cambiare tutto subito”, spiega l’avvocato leghista, “il punto è che la riforma Cartabia è solo l’inizio, un piccolo passo, una parte della grande riforma chiamata a rivoluzionare la giustizia: riguarda le regole organizzative, i tempi dei processi, le modalità di esecuzione della pena, il personale, la digitalizzazione... ma non interviene sui protagonisti dei processi. E invece è su questo aspetto che si deve lavorare. Si deve anche pensare a un nuovo esame per l’accesso alla professione forense e aun nuovo concorso in magistratura, mentre stiamo già raccogliendo le firme su referendum che permetteranno di rivedere i rapporti tra funzione requirente e funzione giudicante”. Allora M5S e Travaglio hanno ragione a dire che è una riforma annacquata? “No, semmai è l’inizio di un cambiamento possibile, anche perché le risorse che arriveranno sono un elemento importantissimo. Di certo, non è una riforma risolutiva di tutti i problemi della giustizia. Ricordiamo, comunque, che il ministro Cartabia è partita dal testo della riforma Bonafede, e lo ha stravolto, non solo tecnicamente”. Abolisce la riforma della prescrizione e taglia i tempi dei processi... “Sì, ma la differenza essenziale tra le due riforme non è soltanto tecnica, è nell’anima. Per la riforma Bonafede il processo era il luogo dove dev’essere affermata la responsabilità dell’imputato”. Una concezione della giustizia alla Davigo? “Esattamente. Si partiva dalla presunzione di colpevolezza: chiunque sia sotto processo è solo in attesa di una condanna, e la ratio del processo era affermare la responsabilità dell’imputato. Da qui l’indifferenza verso i tempi della giustizia e, con l’abolizione della prescrizione, la legalizzazione del processo eterno. La riforma Cartabia si fonda invece sulla necessità di dare tempi certi ai processi, maggiori garanzie agli imputati e un respiro più ampio al ruolo del Parlamento, che indicherà i criteri generali necessari ad assicurare efficacia e uniformità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi”. È il suo zampino nella riforma Cartabia, senatrice? “È uno dei profili che ho maggiormente condiviso. In qualità di responsabile giustizia della Lega ho dato suggerimenti prima a Bonafede e poi alla Cartabia. Ai tempi avevo provato ad inserire nella riforma Bonafede l’istituto dell’ufficio del processo, figure che aiutassero i giudici nell’organizzazione del lavoro. Nota dolente dei nostri tribunali, che vivono nel caos. I Cinque Stelle si erano opposti, temendo l’introduzione di soggetti esterni in grado di condizionare i magistrati... invece, si trattava soltanto di dare loro un ausilio. La Cartabia, al contrario, ha introdotto questo nuovo sistema di aiuto ai magistrati”. La Bonafede però è passata con la Lega al governo e ora vi accusano di aver cambiato idea dopo due anni perché siete diventati il partito di Draghi... “La ringrazio della domanda perché mi dà l’occasione di smontare questa menzogna. Qualcuno ricorderà che sin dall’inizio, e pubblicamente, definii l’abolizione della prescrizione “una bomba atomica”. Ai tempi M5S e Lega andavano d’amore e d’accordo, motivo per cui la mia frase suonò dirompente. In realtà, da avvocato - e ne approfitto per precisare che l’esperienza nella professione è un contributo decisivo per comprendere l’eventuale necessità di un intervento legislativo -, sapevo che il calendario delle udienze spesso viene compilato guardando le date della prescrizione, e abolirla avrebbe sancito l’ergastolo processuale per l’imputato e la paralisi di tutti i giudizi. Per questo la Lega, dopo una lunga discussione con Di Maio e Bonafede, congelò l’entrata in vigore della norma, subordinandola a una riforma del processo penale che potesse incidere sui tempi. Se Bonafede non avesse accelerato il processo noi ci saremmo opposti all’entrata in vigore, anche lasciando il governo”. Sì, però alla fine... “No. Quando l’ex Guardasigilli presentò la sua riforma, che non assicurava affatto tempi certi per la giustizia, noi, in un consiglio dei ministri del luglio 2019 durato fino a notte fonda, coerentemente con quanto sostenuto sino a quel momento abbiamo criticato aspramente il testo, inidoneo a disinnescare la bomba atomica rappresentata dall’abolizione della prescrizione. Fu l’inizio della rottura del governo gialloverde, che si spaccò anche sulla giustizia. Ecco perché oggi la Lega non può essere accusata di incoerenza”. Se la Cartabia è solo l’inizio, quali altri rimedi servono per curare la giustizia? “Snellire le regole organizzative non basta. È necessario prevedere un processo davvero incentrato sul sistema della parità tra le parti, abolendo ogni retaggio del sistema inquisitorio che, stratificandosi negli anni, ha impedito al nostro sistema processuale di compiere un’autentica svolta liberale. Svolta che, alla prova dei fatti, è rimasta soltanto una timida intenzione del nostro attuale codice di procedura penale. Va ripensata l’abilitazione all’esercizio della professione: da tempi e modalità del praticantato, al fine di garantirne l’effettività, alle prove d’esame. Attualmente si registrano troppe differenze nelle percentuali di candidati ammessi all’orale tra le diverse Corti di Appello: non è ammissibile”. Torniamo ai giudici, i protagonisti... La Lega, con i radicali, raccoglie firme a sostegno di sei referendum contro la magistratura... “Contro? Io direi a favore”. Ma perché i referendum leghisti sarebbero a favore dei magistrati? “Un tempo, la prima domanda che mi facevano i clienti che ricevevo in studio era quanti anni di carcere rischiavano. Ora mi chiedono a quale corrente appartiene il giudice, se è politicamente schierato con il pm o se è un suo rivale, perché temono che il correntismo incida sulla sentenza più delle prove. Ciò mina la fiducia in tutto il sistema giustizia. Chi subisce una condanna normalmente la ritiene ingiusta, ma, da quando sono emerse le negoziazioni tra correnti di magistrati, la decisione è sistematicamente vissuta come il frutto di un disegno diretto a colpire l’imputato a prescindere dalle prove. Ci sono troppi sospetti nei confronti dei magistrati; anche di quelli del tutto indipendenti, purtroppo. È interesse dei magistrati per bene cambiare subito”. Il caso Palamara è stata la svolta? “Ha fatto emergere il tema delle lotte di potere e delle spartizioni di cariche tra le correnti. In tanti hanno provato a raccontarlo come un’anomalia isolata ma le storture del correntismo sono un problema concreto e capillare. Non si può dimenticare la chat, riportata dalle cronache, in cui Palamara, commentando con un autorevole collega, afferma che Salvini ha ragione sulla politica degli sbarchi, ma va perseguito a prescindere”. Palamara ha perso una guerra di potere e al suo posto c’è chi l’ha sconfitto? “Non le saprei dire chi ha vinto e chi ha perso. Hanno perso in molti. Di certo Palamara, nel momento in cui sono state diffuse intercettazioni inequivocabili che lo riguardavano, ha deciso di scoperchiare una situazione imbarazzante del potere in toga. E la sua radiazione non ha segnato la fine di questo sistema, che evidentemente non era confinato all’agire di un singolo”. L’obbligatorietà dell’azione penale si sta rivelando un boomerang per i pm? “È necessario intervenire per rimuovere la discrezionalità di fatto che preclude l’effettiva attuazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Anche per il cospicuo numero delle notizie di reato, le Procure scelgono cosa perseguire in via prioritaria”. Perché i referendum leghisti aiutano i giudici? “La maggior parte dei magistrati sono donne e uomini perbene, che studiano molto e decidono in modo imparziale. Purtroppo ce ne sono altri non all’altezza della loro funzione, e quanto apparso sui media ha inciso su tutti. Conosco magistrati retti che, se si chiede loro che mestiere fanno, preferiscono rispondere di essere dipendenti pubblici. Serve una svolta che valorizzi il merito, non l’appartenenza alle correnti. I referendum possono essere l’inizio di un cambiamento”. Più nel dettaglio? “Il referendum riguarda diversi temi della giustizia: i quesiti sono vari e tutti essenziali per costruire una riforma graduale, ma ampia, che tocchi direttamente le criticità mai risolte. Uno dei quesiti riguarda la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante. Sarebbe un cambiamento radicale, cardine di un’autentica riforma. Inoltre, puntiamo anche a eliminare il peso delle correnti, ad assicurare una valutazione più corretta della produttività”. Associazione Nazionale Magistrati e Consiglio Superiore della Magistratura la pensano diversamente... “Credo che le loro posizioni siano influenzate da un preconcetto. Da sempre, uno dei punti maggiormente criticati dall’Anm è la separazione delle carriere. A questo proposito, voglio ricordare le parole di Giovanni Falcone, che sosteneva che il pm “nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pm siano, in realtà, indistinguibili”. Oggi sono maturi i tempi perché questa sua visione ultramoderna e autenticamente liberale venga realizzata e possa essere condivisa dalla stragrande maggioranza dei magistrati”. Riforma della giustizia. Quei “difetti” ancora da migliorare per far tornare la fiducia di Alfonso Ruffo ilsussidiario.net, 9 agosto 2021 Anche dopo la riforma della giustizia varata dal Governo restano dei margini di miglioramento per quel che riguarda il processo penale. Il dibattito sulla riforma della giustizia, civile e penale ma soprattutto con riguardo a quest’ultima, si presenta a tratti surreale. Come tutti sanno, o dovrebbero sapere, uno dei nodi più duri da sciogliere riguarda i tempi della celebrazione dei processi con conseguente necessità di prevederne una fine. Questo, naturalmente, nella versione ragionevole della proposta Draghi-Cartabia, presidente del Consiglio e ministro della Giustizia, che supera la pretesa del precedente Governo Conte e del Guardasigilli Bonafede di tenere i procedimenti aperti in eterno con buona pace di chi attende di conoscere il suo destino. In entrambi i casi - si preveda o meno un termine all’azione della legge - sembra darsi per scontato che i processi debbano comunque celebrarsi in tempi lunghi e che per quanto ci si doti di buone intenzioni ci si dovrà rassegnare a questa deriva. Insomma, occorre accontentarsi del meno peggio. In realtà, le cose potrebbero migliorare di molto se ci si convincesse di voler rivoluzionare davvero il sistema alla base delle tante storture che per la loro evidenza e frequenza cominciano a diventare di dominio pubblico come il successo di firma dei referendum voluti da Radicali e Lega dimostra. Soffermiamoci sul processo penale. Il mestiere di chi accusa e di chi giudica è agli opposti: uno è di parte, l’altro è terzo. Non si capisce perché non si proceda celermente alla separazione delle carriere dato che i pubblici ministeri non hanno niente a che vedere con la somministrazione della giustizia. Anzi, armati del manganello dell’obbligatorietà dell’azione penale - istituto che andrebbe abolito - sono legittimati a prendere in considerazione qualsiasi evento possibilmente delittuoso ingombrando i tribunali di procedimenti che potrebbero essere ignorati o diversamente trattati. Al di là del velo delle parole, nei fatti l’obbligatorietà diventa l’altra faccia della discrezionalità perché è materialmente impossibile star dietro a ogni notizia di reato specie se si dà credito anche alle denunce anonime. La conseguenza è che alla fine si finisce per perseguire ciò che il singolo inquirente vuole. Che dire poi del ruolo della polizia giudiziaria? Al comando del pm di turno, finanzieri, carabinieri e poliziotti fanno di tutto per compiacere il loro dante causa e nella ricerca delle prove (in alcuni casi nella confezione delle stesse) mettono uno zelo superiore alla dose prescritta dai codici. Troppe volte, infatti, come le cronache rimandano, l’intera impalcatura del processo risente delle forzature fatte in sede d’interrogatori combinati per orientare le risposte dei testimoni esattamente dove la pubblica accusa desidera. Tutto deve corrispondere a un quadro spesso preconfezionato. L’inversione dell’onore della prova è ormai diventata una regola. Non è più l’accusatore a dover dimostrare la veridicità di quanto afferma, ma è l’accusato a dover smontare il castello delle offese alzato contro di lui. Un esercizio difficile e costoso che molte volte porta all’esaurimento fisico e mentale. Anche perché all’azione inquirente le procure affiancano un’offensiva mediatica alimentata da indiscrezioni così ben orchestrate da montare l’opinione pubblica contro l’imputato prima della sentenza. Tanto che l’attuale esecutivo ha dovuto limitare il ricorso a trionfalistiche conferenze stampa. In breve, i difetti del sistema sono ormai noti. Il crollo della fiducia dei cittadini nella magistratura è un dato di fatto. Non servono anni di dibattimento se la prova del reato esiste e non si deve creare nel frattempo. Più fatti e meno congetture aiuterebbero a una migliore organizzazione dei tempi. E, infine, è un obbrobrio giuridico che le procure propongano appello dopo una sentenza di assoluzione in primo grado perché se il principio è che si debba condannare solo in assenza di ogni ragionevole dubbio qualche dubbio può essere più ragionevole di una sentenza di assoluzione? Trent’anni dall’omicidio del giudice Antonino Scopelliti: agguato ancora avvolto nel mistero di Alessia Candito La Repubblica, 9 agosto 2021 Il delitto, ancora senza il nome di killer e mandanti, avvenne il 9 agosto 1991. Il magistrato che venne ucciso mentre era in vacanza al mare avrebbe dovuto rappresentare, qualche settimana dopo, l’accusa al maxiprocesso contro la Cupola di Cosa Nostra in arrivo in Cassazione. Mostre, commemorazioni, dibattiti. A 30 anni di distanza dall’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, la liturgia della memoria prosegue immutata. Ma è zoppa, monca, perché su quel delitto una verità ancora non c’è. Sono passati tre decenni da quel pomeriggio del 9 agosto 1991 che ha segnato la fine del giudice, sorpreso da un agguato a Piale, nei pressi di Villa San Giovanni, mentre tornava a casa dal mare. Identità dei killer, sconosciuta. Movente, mai del tutto chiaro. Di certo si sa che di lì a poco, a settembre, avrebbe dovuto rappresentare l’accusa al maxiprocesso contro la Cupola di Cosa Nostra in arrivo in Cassazione. E che questo sia dato imprescindibile per leggere il suo omicidio, lo ha messo nero su bianco anche Giovanni Falcone. Uno che con Scopelliti aveva avuto scontri durissimi, persino in diretta tv nel salotto di Corrado Augias. Tema, la scarcerazione dei mafiosi siciliani decisa dalla Cassazione del giudice Carnevale, avversata dal giudice siciliano, difesa dall’ermellino calabrese. Contrasti poi sanati? Non si sa. Di certo Falcone al funerale del collega c’era. E sulle pagine della Stampa del 17 agosto 1991 qualche indicazione su quell’omicidio che nelle prime fasi ci si intestardiva a leggere come “storia di lenzuola” l’ha data. “Anche se l’uccisione di Scopelliti non fosse stata direttamente collegata alla celebrazione del maxiprocesso, non ne avrebbe prescindere perché l’omicidio avrebbe pesantemente influenzato il clima dello svolgimento” scriveva pubblicamente Falcone. In camera caritatis, racconta Rosanna Scopelliti, la figlia del giudice ucciso “a mio zio Franco ha detto ‘dopo Nino, il prossimo sono io’”. Il perché non sono riusciti a spiegarlo, due processi diversi, ma ugualmente naufragati che a Reggio Calabria hanno portato per due volte alla sbarra l’élite di Cosa Nostra. E mai si è chiarito come mai fra gli imputati non ci sia mai stato un calabrese. Possibile che nella città stremata da cinque anni di guerra di ‘Ndrangheta, dove si stava cercando la pace dopo 800 morti ammazzati, omicidi eccellenti come quello dell’allora presidente delle Ferrovie Lodovico Ligato ed esercito nelle strade, nessun clan sia stato consultato? No, nessuno ci ha mai creduto. Neanche i pentiti - e sono tanti, siciliani e calabresi, quelli che ne hanno parlato come un “favore fatto dai calabresi a Cosa Nostra” - sono riusciti ad andare molto oltre. Tranne alcuni. A partire da Giacomo Ubaldo Lauro, uno dei primi collaboratori nella storia della ‘Ndrangheta, che racconta come quell’omicidio abbia portato ad una “pace che pace non è” grazie ad un intervento “non solo della ‘Ndrangheta calabrese ma anche della mafia siciliana e del crimine organizzato canadese legato ai calabresi”. Del resto - ha spiegato diversi decenni dopo l’inchiesta ‘Ndrangheta stragista, che ha provato la partecipazione dei clan calabresi alla stagione degli attentati continentali - c’erano affari più delicati e pericolosi da gestire. Ed erano cosa di tutte le mafie. Il mondo dei blocchi contrapposti stava venendo giù insieme al muro di Berlino, in Italia la democrazia bloccata sull’asse Dc/Psi iniziava a scricchiolare. Mafie, settori dei servizi, della massoneria e dell’eversione nera avevano necessità di individuare e imporre nuovi affidabili interlocutori politici in grado di garantire che tutto si modificasse, senza che nulla cambiasse davvero. Una “missione Gattopardo” - conferma la sentenza che ha significato l’ergastolo per il boss palermitano Giuseppe Graviano e il mammasantissima calabrese Rocco Santo Filippone - cui hanno partecipato tutte le mafie. E una stagione di sangue, bombe e trattative che in Calabria ha il suo alfa e il suo omega. Secondo alcune ipotesi investigative, inizia proprio quel 9 agosto del ‘91. O forse qualche tempo prima, quando un blitz improvviso della polizia interrompe un summit nella casa- fortino dello storico clan dei Tegano, frequentata spesso non solo da uomini di rango dei clan calabresi, ma anche da emissari dei Santapaola. E quella riunione doveva essere importante se è vero che al tavolo c’erano luogotenenti di rango e generali di famiglie di ‘Ndrangheta potenti e radicate non solo a Reggio o in Calabria. Gente come Salvatore Annacondia, oggi pentito, all’epoca uomo del “Consorzio” - accrocco milanese di tutte le mafie, all’epoca guidato dal boss di Platì, Antonio Papalia - mandato spesso in missione a Reggio Calabria. A interromperla un blitz della Criminalpol, all’epoca guidata in città da Mario Blasco. Di quell’irruzione però non c’è traccia, mai è stata redatta una nota, né in quell’occasione sono stati fatti arresti. Sempre Blasco, oggi in pensione dopo un finale di carriera nei servizi, è il primo ad arrivare a Piale, dove Scopelliti giace cadavere. Ed è lui che in aula conferma che quell’omicidio era stato rivendicato dalla Falange armata, sigla che dall’omicidio dell’educatore carcerario Umberto Mormile, ammazzato per aver scoperto e minacciato di denunciare i rapporti fra il boss calabrese Mico Papalia e i servizi, è tornata ripetutamente a firmare omicidi, stragi e attentati di mafie. Peccato che per l’omicidio Scopelliti quella firma non sia mai stata considerata una pista. Tasselli che la procura di Reggio Calabria, guidata da Giovanni Bombardieri, oggi sta lavorando per mettere insieme. Necessari anche per colmare alcuni vizi logici nell’attuale ricostruzione ufficiale. Pur consapevole dell’importante e delicato incarico, il giudice non ha mai cambiato abitudini, né percorso nei suoi quotidiani andirivieni da casa al lido Gabbiano. E dire che Piale è sempre stata zona militarmente controllata dal clan Garonfalo. Ma il giudice viaggiava solo sulla sua auto ed era tranquillo. Solo qualche giorno prima dell’omicidio, secondo alcune fonti in seguito ad una trasferta in Sicilia, avrebbe radicalmente cambiato atteggiamento, mostrando preoccupazione e angoscia. “È un’apocalisse” confidava ad un’amica al telefono. Senza spiegarle il perché, né adottare particolari misure di sicurezza. È uno dei tanti misteri della vita e della morte del giudice, che da decenni in Calabria tornava solo per le vacanze e a Roma era persona nota e considerata in Vaticano, come nei salotti democristiani di matrice andreottiana che gravitavano attorno ai reggini Claudio e Vilfredo Vitalone. Ambienti crocevia di discussioni delicate in quegli anni in cui un sistema - politico, economico, diplomatico, relazionale - crollava e un altro, alternativo, si andava forgiando, nei processi reggini rimasti quasi solo a colorare lo sfondo. Se e in che misura abbiano avuto un ruolo è pista che Reggio Calabria sta esplorando. Nel 2019, per l’omicidio del giudice Scopelliti il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha iscritto sul registro degli indagati 17 persone. E per la prima volta in elenco sono comparsi anche i calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Paquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti. Insieme, quasi totale rappresentanza dei vertici della ‘Ndrangheta visibile, più almeno due elementi della componente riservata dei clan calabresi. Una cupola senza capi, un organismo collegiale e sconosciuto ai ranghi bassi dell’organizzazione, l’unico in grado di discutere con i “cugini siciliani” un affare delicato come l’omicidio di un giudice. Dettagli sembrava potessero venire dall’ex collaboratore Maurizio Avola, che nel 2018 ha fatto ritrovare il fucile che sarebbe stato usato per uccidere il giudice Scopelliti. E che quell’arma potesse lo hanno confermato alcune fibrillazioni registrate in carcere, mentre Avola di fronte ai pm e nelle aule di giustizia ha puntato il dito contro Salvo Lima, “fu lui a darci le indicazioni sulle abitudini del giudice” e contro il superlatitante di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, che “era uno dei killer del commando”. Ma sul pentito, che a distanza di più di vent’anni ha ritrovato la favella, i magistrati reggini hanno deciso di andarci con i piedi di piombo. Una strategia corretta, alla luce delle nuove “rivelazioni” sulle stragi siciliane che Avola non ha affidato ai magistrati, ma ad un libro e tentano di riscrivere la storia di quella stagione escludendo mandanti politici. Patacche facili da smentire hanno detto subito da Palermo e Caltanissetta, sbattendo in faccia all’ex pentito dati inequivocabili, come quel braccio rotto che rende impossibile la sua partecipazione da protagonista alla strage di via d’Amelio. Ed è indagine nell’indagine. Avola ha mentito anche su Scopelliti? O come spesso accade nella storia dei depistaggi all’italiana, quella era un pezzo di verità immolata a riscontro di tante menzogne? Iniziativa autonoma o su mandato di qualcuno? E di chi? Domande che si aggiungono a quelle sulla morte del giudice Scopelliti. Tutte ancora senza risposta. Maria Cristina Soldi in politica, correrà con i Moderati: “Darò voce ai fragili” di Giulia Ricci Corriere di Torino, 9 agosto 2021 Suo fratello Andrea ha perso la vita durante un Tso. “Ho trasformato quel dolore in amore per gli altri”. “Mi candido per dare voce a chi non ce l’ha. Perché quello che è successo a mio fratello non accada più”. Maria Cristina Soldi è la sorella di Andrea Soldi, il giovane che il 5 agosto 2015 perse la vita durante un Tso. Da quel giorno non ha mai smesso di combattere “per fare giustizia”. E ora ha deciso di candidarsi con i Moderati nel centrosinistra per aiutare “da dentro” i fragili e le loro famiglie. “Accogliamo con orgoglio - sono le parole di Giacomo Portas, Silvio Magliano e Carlotta Salerno - la candidatura di una persona generosa e preparata, i cui valori condividiamo completamente”. La prima domanda è sempre la stessa: perché candidarsi? “È stata una sorpresa. Il 26 luglio ho compiuto 56 anni: la mattina mi chiama Silvio Magliano, conosciuto all’inaugurazione della targa sulla panchina in memoria di Andrea. “Ma dai, ti sei ricordato del mio compleanno”. Lui gli auguri me li fa, ma non era quello il motivo della chiamata”. Le ha proposto di correre? “Due parole e ci siamo incontrati. Da quando è morto mio fratello la mia vita è cambiata, ho subito sentito il desiderio di giustizia. Ma senza gridare vendetta, sempre dalla parte dello Stato. Da quel giorno si sono avvicinate a me tantissime persone con problematiche familiari simili”. Cos’ha pensato della proposta? “Sono stata combattuta per due giorni, sono sempre stata lontana dalla politica. Ma due amici mi hanno fatto dire sì. Prima una persona fragile che dopo la cerimonia alla panchina mi ha detto “Sei vicina al percorso giusto, perché ci dai voce”. L’altra è una giovane di Amnesty, che mi chiama dopo essere venuta quel giorno a Torino per la cerimonia (mi aveva sentita parlare nei loro campus): le racconto e mi dice di accettare, “Se apri un varco mi dai la forza per cambiare le cose”. A quel punto ho chiamato Silvio e ho accettato”. La morte di Andrea le ha cambiato la vita? “Se ti muore un fratello in quel modo la tua vita può uscirne devastata. Ho trasformato quel dolore in amore per altri. È la mia forza tutti i giorni, insieme a quelle foto che lo ritraggono sorridente, come quelle delle persone che ho conosciuto dopo, che cancellano l’immagine di lui nero e con i segni delle manette. Ancora la scorsa notte mi sono svegliata due volte perché mi sentivo stringere il collo. Andrea era buono, non doveva essere ucciso. Ma la sua vita non sarà sprecata se non accadrà più. E allora ho iniziato a parlare di Tso, assistenza alla famiglia, psichiatria, giovani e quel suo amore per lo sport, fondamentale”. Come ha fatto a trasformare quel dolore? “All’inizio impazzisci, ero come ubriaca, andavo avanti e indietro tra Torino e Milano. È stato lacerante, la polizia ha sbagliato, il suo medico l’ha lasciato solo. Poi ho pensato ad altri seduti su quella panchina e mi sono detta “Se non fosse stato solo, sarebbe ancora qui”. Ho cercato la psichiatria buona, gli ho dato voce. Quella che serve è una assistenza continua, centri aperti 24 ore su 24, non un medico che ti fa una puntura, ti parla 5 minuti e via”. È questo che intende portare in Comune? “Sì, la mia esperienza con i malati psichiatrici, che sono persone con esigenze diverse che devono essere introdotte nella società. Voglio sostenere i fragili, come facevo da giovane quando cantavo ai malati di Lourdes, e le loro famiglie, lasciate sempre sole, senza strumenti”. Tornerà a vivere a Torino? “Per ora no, amo Peschiera e il mio lavoro. Ma sono spesso a Torino, nella bella casa di mio papà. Poi, chissà, nella vita tutto può succedere”. Calabria. Ferragosto in carcere per i Radicali. “Verificare le condizioni dei detenuti” Il Riformista, 9 agosto 2021 I Radicali nelle carceri. È l’iniziativa promossa per il giorno di Ferragosto al fine di verificare le condizioni dei detenuti. L’ex deputata, Rita Bernardini, presidente di “Nessuno Tocchi Caino” e Giuseppe Candido, segretario dell’associazione “Abolire la miseria - 19 maggio”, hanno deciso di entrare nelle case circondariali di Vibo Valentia e Catanzaro, domenica 15 agosto e lunedì 16 agosto. “Non solo tavoli per i sei referendum per una giustizia più giusta e l’eutanasia legale. Visite in carcere per verificare le condizioni di detenzione. L’estate, e in particolare i giorni di ferragosto, come ci ha insegnato Marco Pannella, per il Partito Radicale, da sempre, sono giorni di mobilitazione politica a favore degli ultimi, dei detenuti nelle carceri, ma anche dei detenenti: agenti, educatori, direttori degli istituti penitenziari” si legge in una nota. “Per la vita del Diritto, che è fonte del diritto alla vita e dei diritti umani inalienabili, domenica 15 agosto saremo in visita ai detenuti e ai detenenti del carcere di Vibo Valentia e, lunedì 16, saremo alla casa circondariale Ugo Caridi di Catanzaro” affermano Rita Bernardini e Giuseppe Candido. La delegazione, che è stata autorizzata dal DAP (dipartimento amministrativo penitenziario), che visiterà il carcere di Vibo Valentia domenica 15 agosto - guidata da Rita Bernardini - sarà composta da Sergio D’Elia, Gianmarco Ciccarelli, Donatella Corleo, Sabrina Renna, Antonio Coniglio, Giuseppe Candido, Rocco Ruffa e Giovanna Canigiula. Il giorno dopo, invece, a Catanzaro saranno presenti Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Giuseppe Candido, Gianmarco Ciccarelli, Antonio Coniglio, Donatella Corleo, Sabrina Renna, Rocco Ruffa, Giovanna Canigiula, Carmine Canino, Antonio Giglio. Milano. Un giardino in carcere per incontrare i parenti: “Dopo diciotto mesi ho rivisto mia figlia” di Manuela Messina La Repubblica, 9 agosto 2021 Con un’area protetta esterna anti-Covid ripresi i colloqui sospesi dal 2020. Il primo è nato a San Vittore. Il “paradiso” dentro il carcere è ombra e piante, prato, sgabelli e tavoli per bambini. È stata inaugurata una nuova area verde dentro il carcere di San Vittore: se l’emergenza sanitaria ha alzato muri sempre più alti tra i detenuti e il mondo esterno, rendere possibili i colloqui negli spazi aperti oggi significa restituire dignità. E affettività. L’ha voluta fortemente il Garante dei detenuti del comune di Milano Francesco Maisto, che nei mesi scorsi ha messo a punto un progetto articolato per consentire gli incontri con le famiglie riducendo al minimo il rischio di contagio. Un anno e mezzo di chiusura è un arco di tempo importante: per qualcuno ha significato un figlio nato e mai incontrato, altri hanno subito perdite, mancati appuntamenti. La direzione ha selezionato sei detenuti giardinieri, che hanno lavorato alla messa a dimora e alla potatura delle piante, alla sistemazione di spazi e arredi. Il risultato è da un mese sotto gli occhi di tutti. Un’area verde maschile e l’altra femminile, per gli incontri al riparo di gazebi e ombrelloni. “Quel giardinetto che per molti può sembrare insignificante, per me vuol dire tutto, gioia, speranza, felicità e allo stesso tempo malinconia. Sono stato costretto a guardare mio figlio mentre con le lacrime agli occhi se ne andava e con lui se ne andava anche la mia anima”, ha raccontato Nicolas, in una lettera scritta a mano, dopo che il 10 luglio ha incontrato in quell’area il suo bambino dopo 18 mesi. Il progetto è per il momento destinato agli ospiti con trattamento avanzato, che possono aspirare a misure alternative al carcere. Tra questi, i detenuti de “La Nave”, il reparto che sotto la guida della dottoressa Graziella Bertelli con la sua équipe dell’Asst Santi Paolo e Carlo, si occupa di chi ha problemi di tossicodipendenza. “Il Covid ha portato una grande sofferenza negli istituti di pena - ragiona Maisto - e nei mesi più bui della pandemia, nella primavera 2020, oltre allo stop ai colloqui c’è stato anche un black out informativo. A ciò, solo in seguito, si è provato a porre rimedio con le video chiamate”. Ricorda Maisto che, così come è avvenuto per altri aspetti del vivere collettivo nel mondo fuori dal carcere, la disciplina dei colloqui è stata legata all’andamento della curva epidemica, e da maggio 2021 sono iniziati i primi incontri tra detenuti e familiari divisi dal plexiglass. Alla fine di giugno, prima a San Vittore tra gli istituti di pena per adulti e poi al Beccaria tra quelli minorili, si è dato il via ai colloqui nelle aree verdi. “La grande rivoluzione c’è stata quando abbiamo iniziato a pensare in modo alternativo: se quasi tutto si può fare all’aperto, allora perché non creare questa possibilità anche in carcere? La battaglia portata avanti dal mio ufficio è stata un piccolo e primo passo verso il riconoscimento dell’affettività per i detenuti”, prosegue. Giuseppe descrive così l’incontro avuto con la compagna e con il figlio di 13 anni, a dieci mesi dal suo arresto. “È stata un’esplosione di emozioni tra pianti e sorrisi, con un po’ di imbarazzo agli occhi della polizia penitenziaria che era lì a due passi da noi, ma dopo tutto è stato piacevole”. Carmelo racconta così il suo incontro: “Eravamo cinque famiglie, mia figlia mi è corsa subito incontro chiamandomi “Papiiiii”, mi è saltata addosso dandomi tantissimi baci e abbracciandomi, ho visto quanto era cresciuta sia in peso che in altezza. Poi sono andato incontro a mia moglie, che mi ha accolto con un abbraccio degno di un amore vero. Posso dire che in quell’ora non mi sembrava di essere in carcere” Torino. Carceri, i Radicali scrivono a Cirio iltorinese.it, 9 agosto 2021 Lo scorso 2 agosto una delegazione del Partito Radicale, guidata da Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino, Mario Barbaro, delle Segreteria del Partito Radicale e Sergio Rovasio, Presidente dell’Associazione Marco Pannella di Torino, insieme ai Garanti dei detenuti del Piemonte, Bruno Mellano e del Comune di Torino, Monica Gallo, hanno inviato una lettera urgente al Presidente della Regione Alberto Cirio e all’Assessore alla Sanità della Regione Luigi Icardi per chiedere interventi urgenti riguardo l’assistenza sanitaria quasi del tutto inesistente nel Carcere Lorusso-Cotugno delle Vallette di Torino. Nella lettera si fa riferimento a dati oggettivi e dettagliati riguardo gravi carenze sanitarie riscontrate all’interno del carcere, in particolare vengono sollecitati interventi urgenti di competenza regionale che negli ultimi due-tre anni si sono acuiti. E’ stata segnalata l’assenza quasi totale di medici specialisti con gravi carenze di tipo strutturale, tra tutte la cardiologia. Persone detenute con gravi problemi psichiatrici in reparti non adeguati, in aree in comune con altre detenute nel reparto femminile. Viene inoltre segnalata la mancanza di un referente regionale che possa con celerità riscontrare le varie disposizioni in materia di prevenzione di diffusione del Virus Covid-19 che consenta alla popolazione detenuta di poter incontrare in sicurezza e in appositi spazi all’aperto (Aree Verdi) i parenti, così come previsto recentemente dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e la totale mancanza di adeguata informazione tra la popolazione detenuta e il personale penitenziario sui benefici del vaccino anti-Covid con percentuali piuttosto elevate di persone. Il personale adibito alla sicurezza (solo il 60% degli agenti del corpo della polizia penitenziaria si è sottoposto a vaccinazione) - che lo rifiutano e che si trovano in situazione di promiscuità con rischi elevati di diffusione del virus all’interno del carcere. Le condizioni igieniche carenti dovute a scarsa/inesistente manutenzione, in particolare per mancanza di adeguata disinfestazione di tutte le aree con ambienti degradati e spazi inadeguati sotto il profilo igienico-sanitario e conseguente presenza costante di blatte, scarafaggi e topi e gravi ritardi sulla consegna dei medicinali di cui necessitano i detenuti (attesa anche di oltre un mese dalla richiesta); Nella lettera viene sottolineato che tali problematiche si riversano gravemente sulle condizioni di detenzione dei detenuti e riguardano direttamente anche il personale che opera all’interno del Carcere delle Vallette della Casa circondariale Lorusso-Cotugno (Polizia Penitenziaria, dirigenti, educatori, assistenti, insegnanti, volontari e personale amministrativo). Messina. Michele e Cettina, una vita dedicata al recupero di detenuti di Claudia Benassai Gazzetta del Sud, 9 agosto 2021 Nomen Omen. In premessa lo dice subito quando presenta ciò che fa: “Il mio cognome già indicava una strada”. Michele Recupero, classe 1967, in una parola, può essere definito missionario a tempo pieno, e la sua opera, che oggi si concentra nelle carceri italiane con Crivop Italia Odv, l’associazione che presiede, è nata nella città dello Stretto. E la porta avanti con zelo e fede assieme a sua moglie Cettina. Vivendo praticamente in camper: “Era il 2006 quando ho mosso i primi passi nel mondo del volontariato - racconta Michele - e andavo a trovare i senzatetto. Allora facevo la guardia giurata, lavoro che poi ho lasciato, e mi appoggiavo ad altre associazioni e enti caritatevoli, tra cui ricordo il Don Orione, che preparava i pasti che ci tenevo a portare direttamente io. Sentivo in cuor mio che dovevo dare un contributo, anche se in tanti mi dicevano che non sarei riuscito a portare avanti questa mia “vocazione”“. Un giorno, però, sulla Gazzetta del Sud, Michele vede un annuncio per un corso di formazione di una comunità terapeutica che lo incuriosisce, organizzato dalla Lelat. Non ci pensa due volte e si presenta: “Conobbi Anna Maria Garufi - continua - e i primi detenuti che nella realtà da lei diretta scontavano la pena alternativa al carcere. Mi attiravano queste persone e soprattutto le loro storie di vita vissuta, e non appena la Garufi mi propose di andare a Gazzi ad incontrare i ragazzi con problemi di tossicodipendenza accettai di buon grado. Era il 2007”. Michele si sentiva utile per quei volti che incrociava e dal momento che le richieste diventavano sempre più numerose decise di fondare un’associazione che operasse nelle carceri, la Crivop Onlus, inizialmente, un acronimo che sta per cristiani volontari penitenziari. “Eravamo in tre nel 2008 ma ricordo che le richieste piovevano da tutta Italia, anzi erano gli stessi i ragazzi che una volta trasferiti ci chiedevano se li potessimo raggiungere. E dalla Sicilia abbiamo cominciato un vero pellegrinaggio salendo per lo Stivale e via via abbiamo assoldato nuovi volontari formandoli”. Un giorno però qualcosa nella famiglia Recupero dà una scossa di cambiamento. Sua figlia Deborah, infatti, dopo la maturità, decide di trasferirsi in Piemonte per fare un corso alla “Bulgari”: “Grazie a lei siamo approdati al Nord e nel febbraio del 2014 abbiamo fatto il primo corso a Marassi (Genova). Nel 2015 abbiamo costituito la Federazione Crivop Italia Onlus, con l’intento di raggruppare Sicilia, Calabria, Campania e Liguria, fino a quando nel dicembre del 2019 la Federazione Crivop Italia Onlus si è trasformata in una vera e propria organizzazione di volontariato nazionale. Le Crivop regionali sono state dismesse e oggi la Crivop Italia Odv conta oltre 130 volontari che portano speranza”. I coniugi, però, ad un certo punto ricevono quello che definiscono un miracolo dal cielo, quando un loro sostenitore, che supporta la loro missione, li chiama per consegnargli una cosa che bramavano da tempo, un camper: “Sembrava un sogno ad occhi aperti perché spesso andavamo in concessionaria ma uscivamo a mani vuote non potendocelo permettercelo. E dal primo agosto del 2015 io e mia moglie, che considero il secondo miracolo, dopo lo speciale mezzo a 4 ruote, l’abbiamo trasformato nella nostra casa. E non ci siamo più fermati con la nostra opera. Raggiungendo anche l’estero e smisurate realtà penitenziarie”. E tanti sono i volti incrociati in questi anni. Tra questi Francois, ex narcotrafficante con un curriculum criminale pesante che definiscono oggi un uomo nuovo che sta scontando la sua pena pensando a un nuovo domani: “La sua storia è da incoraggiamento e ci porta a continuare anche se quotidianamente ci sono un sacco di ostacoli da superare. E quando le persone ci dicono “che venite a fare...”, io penso a quelli come lui e al fatto che le persone possono davvero cambiare. Anche se spesso in Italia chi commette un reato resta marchiato per sempre”. E in cantiere ci sono tanti altri progetti: “Ho un sogno grande. Realizzare il Crivop Village. Un luogo dove i detenuti possono essere accolti dopo che vengono scarcerati. Dove possano trovare un aiuto e non decidano di tornare a delinquere come spesso succede. Un architetto gratuitamente ha già fatto il progetto. Sono fiducioso”. Michele Recupero e sua moglie Cettina vanno avanti sorretti da una fede smisurata e spinti da un grande amore, facile da predicare e difficile da praticare: “Ci spinge l’amore verso il prossimo. - conclude - E verso gli ultimi. E quando varchiamo le sbarre non ci soffermiamo sulle colpe da espiare ma sulla possibilità che si può dare”. Come fece, in fondo, Cristo con uno dei ladroni in Croce. La religione populista di Loris Zanatta Il Foglio, 9 agosto 2021 Gridano libertà, onestà, sovranità. Invocano “il popolo” e ce l’hanno con “l’élite”, sono la “gente” il resto “l’establishment”, loro “la piazza” gli altri “il palazzo”. Da qualche parte, ne sono certi, c’è una Trilaterale che complotta, un Bilderberg che tira le fila, una Mont Pelerin Society che pilota, una Troika e i “poteri forti” che governano il mondo. Sorvoliamo su scie chimiche, ripetitori 5G, microchip sottocutanei, terre piatte. Un tango mortifero, “una bambolina che fa no no no”. Se qualcuno credeva di avere scavallato, di avere superato la stagione populista, farà bene ad armarsi di pazienza: ne vedremo ancora delle belle, ne sentiremo ancora delle grosse, le stiamo già udendo. Il populismo è tra noi, è un ingrediente della democrazia, è qui per restare. So già l’obiezione: basta usare il populismo come epiteto per screditare, delegittimare, criminalizzare! E conosco la reazione, già vedo il petto gonfio: viva il populismo, siamo tutti populisti! Non è la mia intenzione. Rimane il fatto che un filo rosso tiene insieme quell’improbabile galassia, un cemento invisibile ma potente unisce l’odio antieuropeo e l’insofferenza verso la scienza, l’ossessione complottista e l’ecologismo radicale, gli inni alla Pachamama e l’astio verso “il progresso”, il sovranismo e l’idealizzazione del “popolo”, l’anticapitalismo e l’antiliberalismo. E che quel filo rosso, quel cemento, avranno anche mille nomi e altrettante anime ma si esprimono in un concetto: populismo, per l’appunto. Purché tale concetto sia usato in modo chiaro e corretto, non come un volgare randello o una pacchiana medaglia. E si consideri che è un concetto speculare, ossia che ciò che di esso appare a taluni, come me, nefasto, è ciò che per altri ne fa miele per le api. La questione, si badi bene, non è se quelle crociate contro tutto e tutti, contro questo o quello, abbiano o no fondamento. Alcune più, altre meno, certe nessuno. Ma tutte, anche le più balzane, esprimono proteste lecite, interessi legittimi, idee opinabili, finché pacifiche. E’ la democrazia. Più del loro contenuto specifico - l’Europa, la globalizzazione, l’alta velocità, gli ulivi, i vaccini, chi più ne ha più ne metta - ciò che qui importa è il loro schema ideale. E’ in esso che sta il populismo. Mi spiego. Ridotto all’osso, il populismo è nostalgia di assoluto, bisogno di certezza, rimpianto di un popolo puro e incontaminato che assicuri appartenenza, coesione, protezione, identità. Esprime nel mondo secolare ciò che in quello dominato dal sacro s’esprimeva nei miti religiosi, nella purezza del Giardino dell’Eden, nella radiosità della terra promessa. Quei beni, come non notarlo, sono beni rari, per non dire illusori, in una società moderna e complessa fondata su un patto più o meno razionale, di sicuro istituzionale. Ma sono facili da immaginare in una comunità “naturale” basata sull’etnia, la religione, la nazione dove il popolo è uno e omogeneo, in una comunità di fede fondata su simboli, rituali, misteri condivisi. Magari, perché no, sulla ferrea convinzione che quella moneta o quel certificato medico, quel gasdotto o quel tunnel ferroviario siano questione di vita o morte, di essere o non essere, cause intorno alle quali cristallizzare una identità, riconoscersi in una comunità. Tra i primi a cercare di decifrarlo, non a caso, Isaiah Berlin notò che il populismo esprime proprio questo, una vocazione comunitaria. Da ciò il suo afflato manicheo e millenarista, l’irrefrenabile pulsione a pontificare, ad assolvere e scomunicare che rende così pretenziosi e ridicoli personaggi come Grillo o Chávez agli occhi di uno sguardo secolarizzato, ma così magici e ispirati a quelli di un devoto in cerca di fede. Tant’è: quale che sia il nucleo ideale intorno a cui s’articola, quale che sia l’oggetto della sua battaglia, dall’identità nazionale al ponte su uno stretto, al dibattito razionale il populismo oppone lo scontro di civiltà, alla dialettica politica la guerra di religione, la lotta a morte tra onesti e disonesti, misericordiosi e cinici, libertari e tiranni. Bene e Male, insomma. Di nuovo: la politica intesa come religione, una religione politica. Ma non è tutto. Cosa, infatti, unisce idealmente cause tanto disparate? Perché l’Europa matrigna e l’oltraggio alla natura, i mercati e i vaccini, la finanza e la globalizzazione? Perché proprio quelle? Cosa diavolo rappresentano? Opps, l’ho scritto: il diavolo, appunto. Come in un testo magisteriale ha scritto uno che di diavoli se ne intende, papale papale, gli “ultimi duecento anni” hanno causato il “deterioramento del mondo e della vita di gran parte dell’umanità”. Nientemeno. Nulla di buono hanno portato la rivoluzione scientifica e industriale, vaccino incluso suppongo; nulla il liberalismo e il costituzionalismo, nulla il libero commercio e le nuove tecnologie, le libertà individuali e la laicità se non “deterioramento”, disincanto, disillusione, alienazione. La perdizione del mondo coincide guarda caso con lo scardinamento delle antiche certezze religiose, del senso d’assoluto che permeava il mondo sacralizzato, del comunitarismo che rassicurava e proteggeva l’individuo in una rete - una gabbia? - di credenze e consuetudini. Dei beni, insomma, di cui il populismo va disperato in cerca ovunque. Razionalismo e illuminismo, cosmopolitismo e secolarismo sono i mali che da due secoli ammorbano il mondo. La storia è male, è corruzione dello stato di natura. Amen. Di tale apocalittica filosofia della storia, di tale astratta litania che mai si chiede come, concretamente, si viveva un tempo e si vive oggi, i più poveri non meno dei più ricchi, i populismi sono la bassa cucina, la traduzione in lingua volgare. D’altronde è logico: se, come essa recita, la purezza del popolo s’è perduta, la sua unità s’è frammentata, la natura s’è corrotta, la morale s’è smarrita, la cultura s’è inquinata, l’identità s’è spezzata, qualcuno dovrà averne la colpa! Ci dev’essere un capro espiatorio! Ecco così spiegato l’insopportabile vittimismo che trasuda in ogni campagna populista; ecco l’origine del cospirativismo che offre facili bersagli e comodi alibi. L’Europa cosmopolita diventa così l’assassina delle piccole patrie, l’euro il killer dello strapaese affezionato alla lira, i vaccini l’arma con cui la scienza e le multinazionali raderanno al suolo la fede dei nostri avi, le trivelle i mostruosi artefatti che distruggono l’arcadia del chilometro zero, la finanza l’orco crudele che sterminerà i bottegai sotto casa. Lo vediamo di nuovo in questi giorni, quando la complessa discussione sul green pass dovrebbe indurre a un po’ di buon senso, a un confronto duro ma fondato su competenze tecniche e basi scientifiche, dato che l’uscita dalla pandemia e la ripresa economica si suppone siano obiettivi di tutti. Invece no, invece fioccano profezie apocalittiche e slogan preconcetti, sospetti grotteschi e teorie cospirative. Nulla di più lontano da un’arena pubblica in cui ognuno offre il suo contributo alla soluzione di un problema, di un’intelligenza collettiva in azione per emendare errori e ottimizzare risultati, nulla di più vicino a una guerra contro l’infedele, un tiranno in pectore che trama contro la “libertà”. Abbasso il fascismo, gridano i no green pass, il nazismo è alle porte, rincarano i ni vax, Draghi come Hitler, ringhia un deputato dagli schermi tivù agitando Agamben neanche fosse il libretto rosso di Mao. Non fosse penoso, non facessero un po’ paura e molto torto alla nostra intelligenza, sarebbe da spanciarsi dal ridere. A ben vedere, è il classico caso del bue che dà del cornuto all’asino. Ma è ancor più l’ennesimo sintomo di una radicata difficoltà a fare i conti col mondo per quello che è invece che col mondo come vorremmo che fosse, quintessenza della cultura riformista. Cultura agli antipodi del retaggio messianico di cui i populismi sono espressione, che induce a vivere la modernità, bella o brutta che sia, bella e brutta com’è, come colpa da redimere e peccato da espiare. Dinanzi ai suoi dilemmi e alle sue contraddizioni, alle sue brutture e alle sue opportunità, non si curano di superare gli ostacoli, sciogliere i nodi, aggiustare il tiro, di avanzare proposte sostenibili e misure attuabili. Preferiscono levare il grido al cielo, evocare magie salvifiche, additare il peccatore e come la bambolina fare “no no no”. Fino a quando, investiti di responsabilità di governo, costretti a cercare l’arrosto sotto il fumo e la realtà tra i miti, fingeranno di non conoscere i se stessi del passato. Come Di Maio, per dire. Nelle piazze, intanto, nuovi Messia imboniranno vecchie folle o nuove folle invocheranno vecchi Messia: lo stiamo vedendo. In sintesi: dinanzi alla percezione che il nostro mondo si stia disgregando sotto i colpi di infinite cause - dal mercato all’immigrazione, dai social alla pandemia, dalla perdita della fede alla velocità di internet - il populismo offre una medicina all’apparenza portentosa: promette di proteggere l’identità minacciata, di restaurare la comunità perduta, di salvaguardare la libertà usurpata. Poco importa che la sua guerra alla disgregazione non la arresterà, che la sua ansia redentiva non dia risposte adeguate ai nostri problemi, che la storia sia un flusso caotico e ininterrotto di frammentazioni e ricomposizioni di legami e culture. A renderlo così popolare è la sua offerta di beni che una visione disincantata del mondo, con pudore, evita di offrire: senso e appartenenza, comunità e omogeneità, certezza e assoluto. Ma non solo il populismo offre una narrazione storica: la condisce di una vera e propria epica; e lo fa semplificando al massimo la realtà, riducendola ai minimi termini del suo schema manicheo che interpreta il mondo come un’eterna lotta tra bene e male combattuta da un noi e un loro. Quale altra epica può competere con questa? Quale approccio disincantato potrà scaldare altrettanto i cuori e mobilitare le passioni? Su questo piano, il populismo non ha rivali. Intriso di immaginario religioso, la sua portentosa forza è la stessa che da secoli alimenta le grandi religioni. A chi guarda al mondo con disincanto non rimane che armarsi di immensa pazienza e, volta a volta, smontare certezze, raffreddare ardori, svelare inganni, sgonfiare petti, ridare cittadinanza alla ragione e alla complessità. L’infame e planetaria violenza sulle donne di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 9 agosto 2021 Nel Vicino Oriente, e soprattutto in Arabia Saudita e negli Emirati, i casi più clamorosi. Ma anche in Occidente, Italia compresa, non si fa eccezione. Negli USA il presidente Biden chiede le dimissioni del governatore di New York, Andrew Cuomo. È angosciante seguire ogni giorno le atroci violenze compiute contro le Donne. Purtroppo la ferocia abita dappertutto, anche nella nostra Italia. In Russia può diventare una vera persecuzione, soprattutto per le oppositrici del regime. Negli Stati Uniti è intervenuto persino il presidente Joseph Biden per censurare il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo, chiedendone apertamente le dimissioni. Cuomo è anche uno dei più noti elettori di Biden: democratico a parole e aguzzìno e molestatore nel privato. Ma nel Vicino Oriente la situazione è diventata davvero insostenibile. Gravissima dove vincono le tradizioni musulmane più barbare, quindi dove la Donna è soltanto proprietà privata, come una casa, un mobile o un orologio. E sapete dove è davvero infame? In Arabia Saudita e negli Emirati, Paesi che grondano ricchezza e violenza. Faccio subito un chiaro esempio, e credo sia comprensibile a tutti. Sono grato a Matteo Renzi per aver scatenato la crisi che ha condotto alla scelta di Mario Draghi come capo del governo. Scelta di un vero galantuomo, preparato, coraggioso, di poche parole, e soprattutto con la schiena dritta. Però non tollero che l’ex premier Renzi abbia parlato di “rinascimento saudita” e degli Emirati, ricevendo lucrosi premi mentre rappresentava il nostro Paese. Mi sono persino offerto, via Facebook, di fargli qualche gratuita, anzi assolutamente gratuita lezione mediorientale, per evitare dichiarazioni avventate e ridicole. Pensate che a Dubai, che conosco come le mie tasche e dove sono stato a lungo per seguire la guerra del Golfo, in attesa di visti, si viveva e si continua a vivere in un clima da nababbi. Dubai e gli altri Stati della Confederazione sono infatti onusti di gloria finanziaria. E mi spiace che vi siano persone, anche amici miei, che vivono laggiù e ignorano la ferocia nascosta e privata di ricconi che tengono prigioniere mogli, figlie e sorelle, negando loro la libertà. Una Donna del regno di Giordania è riuscita a fuggire, grazie al legame con la famiglia di Re Abdullah II, ma per tutte le altre è un vero inferno. Per non parlare dell’Arabia Saudita dove molte. Donne facoltose, costrette a vivere come recluse, una volta salite sull’aereo non certo appartenente alla flotta del regno, si tolgono il velo e sarebbero prontissime a spogliarsi inneggiando alla libertà. Già, la libertà. Vorrei soltanto accennare al brutale assassinio di Noor, una ragazza di appena 27 anni, appartenente ad una delle famiglie più importanti dell’intero Pakistan. Un suo quasi coetaneo, anch’egli di grande famiglia, la invita a casa sua per salutarla prima della partenza per gli Stati Uniti. La povera Noor accetta l’invito e segna la sua fine. L’uomo la violenta, la stupra, la picchia brutalmente, e alla fine, dopo averla massacrata di botte, la decapita. Probabilmente lei si era sottratta al matrimonio infame deciso della famiglia. Non è il primo caso, ma di Noor ve ne sono migliaia in quel lontano Paese come hanno raccontato sul Corriere della Sera le nostre bravissime giornaliste. È evidente che oggi, con la spinta dei giovani, stanchi di vecchie tendenze e proiettati nel futuro con l’aiuto della componente più sana dei social, molte cose stanno cambiando e cambieranno. Coraggio, sono certo che ce la faremo a proteggere le Donne che vogliono la libertà. Le garanzie del lavoro dimenticate in epoca di pandemia di Ezio Mauro La Repubblica, 9 agosto 2021 Quante dimensioni contiene il concetto di lavoro? Ci ha salvati durante la fase acuta della pandemia, nei giorni blindati del lockdown, quando un popolo sotterraneo usciva ogni mattina dalle case dove noi ci eravamo rifugiati per sfuggire all’assedio del virus, e teneva accesa la macchina del sistema trasportando le merci, aprendo i supermercati, preparando il pane, garantendo i servizi, sorvegliando le reti informatiche che ci consentivano di rimanere connessi col mondo: attraverso il lavoro una struttura servente ci consentiva di proteggerci, quasi fosse una casta condannata a rischiare la sua incolumità per la sicurezza di tutti. Dunque il lavoro aveva dentro di sé non soltanto l’obbligazione volontaria alla necessità, ma anche l’elemento spontaneo e naturale della solidarietà, un fattore sociale, addirittura morale, immediatamente politico nel senso più alto del termine. Poi è sempre il lavoro che ha agito come leva fondamentale della ripartenza, e appena il Paese ha riaperto i battenti ha rilanciato la produzione, portando il Pil a sormontare la soglia critica dell’infezione e nelle previsioni addirittura a superare le percentuali più ottimistiche, come se il peggio fosse passato e si potesse ricominciare a sperare. Proprio in questa fase di ripresa (una finestra tra la copertura dei vaccini e il rischio di una nuova ondata con varianti), le morti in fabbrica vengono a dirci che il lavoro contiene in sé anche il rischio di un arretramento. Succede quando si spezza l’equilibrio sociale costruito nel Novecento tra lavoro e salute, sicurezza e profitto. Avevamo trovato una composizione tra questi interessi concorrenti attraverso l’invenzione del welfare, che traduce nella pratica quotidiana l’alleanza europea tra il capitalismo e il lavoro, sorvegliati dagli istituti della democrazia rappresentativa, il terzo vertice del triangolo della modernità. Il capitalismo orientava le trasformazioni della produzione, nella logica del profitto, il lavoro conquistava ed espandeva i diritti, distribuendo in fabbrica e fuori la coscienza attiva della cittadinanza. Oggi quel patto rischia di entrare in crisi, come se dalla pandemia si uscisse più egoisti dei propri interessi, più gelosi del proprio spazio sociale, meno disponibili a trovare un punto d’incontro. Ma se le ragioni del profitto si sganciano dalle ragioni del lavoro, manca una prospettiva comune e molto semplicemente il sistema rischia poco per volta di non essere più governato. Il primo effetto, come vediamo, è che la logica della produzione si separa dalla logica delle garanzie, naturalmente in nome dell’eccezionalità della fase che stiamo attraversando e dell’imperativo della necessità: bisogna recuperare il tempo perduto e il mercato smarrito, questa esigenza si impone su qualsiasi altro obiettivo, poi - si dice - riconquistate le quote e le posizioni che il virus ci ha fatto cedere, ci sarà tempo per riequilibrare le cose aggiustando il tiro. Si capisce la preoccupazione per la competitività del sistema e ancor più l’impegno per non accettare il ridimensionamento di mercato causato dal virus: ma la questione del lavoro va vista appunto in tutte le sue dimensioni, senza ridurlo soltanto a strumento di produzione, salvo pagare dei prezzi inaccettabili in termini di inclusione, partecipazione, coesione e responsabilità. Tre morti al giorno sul lavoro sono appunto un costo insopportabile per un Paese civile. E il caso di Laila El Harim, la giovane donna maciullata dalla macchina fustellatrice a Camposanto, vicino a Modena, perché il sistema di sicurezza non interveniva col blocco automatico dell’impianto in caso d’emergenza, ma era stato spostato in modalità manuale, ci dice che la morte in fabbrica all’inizio di maggio di Luana D’Orazio, risucchiata a Prato dall’orditoio della filatura, non ci ha insegnato nulla. Ci ritroviamo a fare i conti con la morte meccanica, come quando cent’anni fa entrava nelle officine la civiltà delle macchine e i lavoratori guardavano i primi telai con le schede automatiche come nemici. Una regressione, quasi che la pandemia avesse cancellato di colpo un secolo di tutele crescenti, garanzie progressive, diritti riconosciuti. La verità è che la crisi non è mai neutrale. Il virus minaccia tutti dal punto di vista sanitario, come se fosse imparziale, ma sul piano sociale agisce sulle disuguaglianze, accentuandole. In più ci ricatta, dopo aver compresso per mesi la nostra dimensione pubblica, riducendoci alla sfera privata, mentre limitava i nostri movimenti, mutilava la nostra rete di relazione, modificava il meccanismo del nostro lavoro. Era probabilmente inevitabile che si uscisse da queste costrizioni puntando sulla piena riconquista dell’indipendenza, nel mondo del lavoro e nel consumo del tempo libero. Ma proprio per questo serviva una pedagogia politica capace di unire l’autonomia riconquistata con la responsabilità necessaria, per sé e per gli altri. La destra populista invece ha fatto l’opposto, intercettando questa voglia di ridiventare padroni del nostro spazio e del nostro tempo per trasformarla in senso comune ideologizzato, scagliato contro le regole, la sicurezza, la prudenza, all’insegna della “libertà” del commercio e dell’impresa, senza più vincoli e senza condizionamenti: nemmeno dalla realtà del rischio virale. In questo modo il primato assoluto della ripartenza crea un clima sociale in cui metà del Paese si considera sciolto dal dovere di fronteggiare la minaccia pandemica e autorizza se stesso a ribellarsi alle misure di contrasto e di precauzione: mentre accusa il governo e la sinistra di perseguitare gli italiani con la loro ossessione regolatoria. Nel rifiuto delle regole, nella frenesia di ripartire comunque, diventa lecito sospendere i meccanismi di sicurezza sul lavoro, se questo serve a sveltire la produzione; diventa normale chiedere ai neo-assunti come Laila di lavorare fino alle undici di sera se i picchi di domanda lo richiedono, diventa accettabile tagliare sulla formazione e sui controlli. Da investimento, la sicurezza torna ad essere un costo, e nient’altro. Tutto questo dimostra l’ipocrisia del concetto di libertà, quando è svilito a sinonimo di mano libera, invece di significare liberazione, nella piena espressione dei propri diritti e delle proprie facoltà. Anzi per questa via la libertà da ogni regola e da qualsiasi compatibilità, in nome dell’autonomia del capitale, acquista addirittura un connotato di classe, in stupefacente ritardo sulla fine del Novecento e sulla morfologia sociale del nuovo secolo. Viene da chiedersi quale sia il modello di società che ha in mente la destra quando separa il profitto dalla salute e la produzione dalla sicurezza, nell’incapacità di cogliere l’energia sociale del lavoro, la sua costruzione continua di un orizzonte di emancipazione e di diritti, a vantaggio di tutti e soprattutto della cifra concreta di qualità della democrazia. La destra non lo sa e la sinistra lo ha dimenticato: perennemente alla ricerca della sua identità, fatica a riconoscere la bandiera del lavoro come il suo segno di riconoscimento più naturale e soprattutto più autentico, anche nella modernità. Il risultato è la nuova solitudine politica del lavoro: con Laila sola, lei e la macchina, in un Paese che manifesta contro il Green Pass ma tace mentre lei muore di lavoro. Qual è il vero scandalo della democrazia? Eutanasia. “Mister qualcuno” e il diritto di morire di Giusi Fasano Corriere della Sera, 9 agosto 2021 Il caso di un uomo del quale l’azienda sanitaria dovrebbe verificare che esistano le condizioni per la morte medicalmente assistita. Invece da un anno ignora o nega ogni richiesta. C’è un uomo tetraplegico che chiede una visita medica e “mister qualcuno” non la concede. C’è una sentenza nientemeno che della Corte Costituzionale a stabilire dei criteri per accedere al suicidio assistito ma “mister qualcuno” non la ritiene applicabile. C’è il tribunale di Ancona che ordina di fare quella benedetta visita ma niente; “mister qualcuno” non ci pensa nemmeno. Chi è l’uomo misterioso che sceglie di non fare? Perché - a logica - ci sarà pure qualcuno che decide la non azione: un nome e un cognome, magari più di uno ma comunque facce, occhi, mani... non l’impersonale Asur, che poi sarebbe l’Azienda sanitaria delle Marche. Alla Asur è stato indicato, sollecitato, ordinato di visitare Mario, che ha 43 anni, è immobile e sofferente dal 2010 (dopo un incidente stradale) e sogna di morire in pace con il suicidio assistito. L’azienda sanitaria dovrebbe semplicemente verificare che esistano le condizioni per la morte medicalmente assistita (servirebbe poi la pronuncia del comitato etico). Ma è da agosto dell’anno scorso che “mister qualcuno” ignora o nega ogni richiesta e piuttosto che decidere per la visita medica sceglie che la Asur finisca nei guai penali promessi da Mario e dai suoi legali per omissione di atti d’ufficio. Tutto questo è la triste dimostrazione di quanto alcuni temi - certamente il suicidio assistito e l’eutanasia - siano sabbie mobili in cui spesso finisce la ragione. Vale la pena ricordare che dal 1979 (fu allora la prima raccolta firme sull’eutanasia) la politica si occupa di fine vita con leggi incompiute e discussioni parlamentari mai risolutive. Oggi, se esistesse una medaglia olimpica per la pazienza e la perseveranza umana e giuridica, andrebbe (ex aequo) a Marco Cappato e a Filomena Gallo, lui tesoriere e lei avvocata e segretario dell’Associazione Luca Coscioni. Sono attivisti da sempre al fianco di persone segnate da malattie irreversibili e dolori inenarrabili. Persone che avrebbero il diritto, il coraggio e il disperato desiderio di morire in modo, luogo e tempi umanamente accettabili. A luglio l’Associazione ha avviato la raccolta firme per il referendum sull’eutanasia. Obiettivo (vicino): 500 mila firme entro fine settembre. Se lo annoti, caro “mister qualcuno”. Se passa il referendum avrà vinto un po’ di libertà anche lei che la sta negando a Mario. Quando l’8 agosto 1991 più di 20000 persone in fuga dall’Albania furono accolte con umanità di Mirco Dondi Il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2021 Il crollo del muro di Berlino nel 1989 ha accelerato gli spostamenti di popolazione da est a ovest del continente europeo. Per l’Albania la spinta verso l’occidente significa Grecia e, ancora di più, Italia, vista come una terra piena di allettanti prospettive. Nella mattina dell’8 agosto 1991 raggiunge il porto di Bari la nave albanese Vlora, un mercantile costruito in Italia negli anni Sessanta lungo 147 metri e 70 centimetri e largo 19 metri. Il comandante è costretto a navigare senza radar e durante la traversata si salva da una collisione. Le persone, in gran parte giovani, sono una sull’altra “non c’è posto neanche per una mela” - per usare un’espressione albanese - hanno viaggiato per oltre 12 ore in piedi senza cibo né acqua, molti sono a dorso nudo, in costume o scalzi. Sono stimati in 20.000, in assenza di una cifra esatta. L’Albania, in una fase di transizione, si portava dietro i segni della dittatura comunista. Per decenni è stata una nazione isolata dentro ai suoi confini. I bunker costruiti per difendersi dall’esterno sono poi serviti per impedire gli espatri. Chi veniva sorpreso cercando di oltrepassare la frontiera finiva fucilato e il suo corpo rimaneva insepolto, a monito per chi volesse provarci. Una nazione da un lato protesa alla modernità, abbacinata dai lustrini della televisione italiana (vista grazie a un potente ripetitore installato in Montenegro) dall’altro lato, specie nelle campagne, una società ancora arcaica con i suoi clan e le sue stereotipate diffidenze come quella verso la bellezza femminile, facilmente associata a costumi libertini. L’Albania è il Paese più povero d’Europa, il suo Pil nel 1986 era pari a quello dello Zimbabwe, la piena elettrificazione - secondo la fonte ufficiale del regime - giunse soltanto nel 1984. A marzo del 1991 il Partito socialista (erede del partito di regime) vince le prime elezioni libere. Il riformismo incerto di Ramiz Alia (dal 1985) e di Fatos Nano poi (dal 1991) contribuisce a far smarrire anche le vecchie direttrici: va male l’agricoltura, diversi terreni non vengono più coltivati il che significa fame e carestia. Nessun investimento sui beni di consumo, il mezzo di trasporto più diffuso è ancora la bicicletta ed esiste un’unica fabbrica statale di abbigliamento. Dal 1989 il Paese è attraversato da manifestazioni di dissenso, soprattutto da parte di studenti e operai. Nel 1990 è introdotto il pluripartitismo, ma le proteste continuano e raggiungono l’apice nel 1991, con il simbolico abbattimento a Tirana della grande statua di Enver Hoxha, il dominus comunista che ha controllato l’Albania per quarant’anni fino alla morte nel 1985. All’inizio del 1991 gli albanesi cominciano i tentativi di fuga via mare. Dal 28 febbraio all’8 marzo matura un esodo ancora più consistente di quello di agosto con circa 27.000 persone che raggiungono Brindisi su diversi tipi di imbarcazione: in città c’è un albanese ogni tre brindisini. Il sindaco Giuseppe Marchionna sistema i rifugiati nelle scuole. Diversi cittadini scendono in strada e portano cibo e indumenti, impietositi dai rifugiati vestiti alla meglio anche con teloni. Una prima emergenza, gestita all’insegna dell’umanità e del buon senso. Il 7 agosto sbarcano a San Foca di Lecce 632 profughi provenienti da Valona. A un centinaio di metri dalla costa si buttano in mare. Non hanno niente, sono stremati e ricevono i primi soccorsi dai turisti. In quello stesso giorno a Durazzo, la terza città dell’Albania, si diffonde la voce (falsa) che l’accesso all’Italia era consentito nonostante l’emigrazione rimanesse ufficialmente proibita. La nave Vlora - appena tornata da Cuba - si stipa di persone che semplicemente colgono l’occasione, proprio come, all’improvvisa apertura del muro, i berlinesi dell’est erano andati a vedere che cosa c’era di là. Il comandante Halim Milaqi è costretto da uomini armati a salpare per l’Italia. La nave è diretta a Brindisi, ma le autorità italiane la dirottano su Bari per guadagnare tempo con l’accoglienza. Con lo sbarco il molo Carboni si presenta come un immenso formicaio di corpi, di teste, di pelli attaccate una all’altra. La gran parte dei passeggeri, straziati dalla stanchezza e dalla sete, viene concentrata nel vecchio stadio della Vittoria, vicino al porto, dove molti restano per una settimana, destinati a essere rispediti nel paese di origine con un altrettanto massiccia operazione di rimpatrio. L’assenza di organizzazione nelle operazioni di sbarco avrebbe reso più umano il trattamento dei migranti, attenuato dall’aiuto della popolazione e dall’impegno del sindaco Enrico Dalfino. La novità sconvolge il Paese tra sciacallaggio politico e paura di un’invasione. L’Italia come l’Europa erano ancora ferme al loro vecchio mondo, senza capire che la grande mutazione degli equilibri politici mondiali aveva investito anche l’Occidente. Africa. Impennata di vittime da Covid e campagna vaccinale a rilento di Ludovica Jona Il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2021 Secondo alcuni studi il prezzo dei vaccini potrebbe raggiungere 148 volte il costo di produzione, dopo i nuovi rincari che Pfizer e Moderna si apprestano a varare. La diffusione di nuove varianti mantiene elevato il fabbisogno di dosi che, per ora, sono andate nella quasi totalità ai paesi più ricchi, in grado di pagarli. La liberalizzazione dei brevetti appoggiata da oltre cento paesi tra cui gli Stati Uniti potrebbe aiutare ma l’Unione europea, Italia inclusa, si oppone. Mentre nell’Unione Europea e negli Stati Uniti ci avviamo a organizzare la nostra vita in base al green pass, in Africa - dove sono state somministrate in totale solo 65 milioni di dosi (al 28 luglio) su una popolazione di 1,4 miliardi di persone - si registrano impennate nelle morti da Covid-19. Nell’ultimo mese l’Oms (Organizzazione Mondiale della Salute) ha registrato un aumento del 43% dei decessi nel continente africano (6273 nella settimana conclusa il 11 luglio 2021 rispetto ai 4384 della precedente). Un dato preoccupante per tutti, perché la popolazione di Europa e Stati Uniti pur se immunizzata, non può sentirsi al sicuro se non lo è anche il resto del mondo. Ad oggi i paesi in via di sviluppo hanno ottenuto dosi di vaccini soprattutto attraverso il programma Covax gestito dalla fondazione internazionale Gavi, che distribuisce le dosi di vaccino donate dagli Stati. Secondo Gavi ad oggi sono state spedite 180 milioni di dosi di vaccini a 138 Paesi. In parte provengono dagli Stati Uniti, che hanno spedito “oltre 110 milioni di dosi di vaccino anti-Covid a oltre 60 Paesi” ha reso noto la Casa Bianca nei giorni scorsi definendo la donazione “un anticipo” della promessa fatta da Biden, che a giugno ha parlato di 500 milioni di dosi del vaccino Pfizer da spedire nei Paesi bisognosi. I leader del G7 di recente hanno promesso di donare insieme un miliardo di dosi di vaccino anti Covid. Per le organizzazioni impegnate per la salute globale le dosi di vaccino regalate non bastano: “Il bisogno di donazioni è sintomo di un sistema malfunzionante, in cui i vaccini sono stati resi artificialmente scarsi e molto costosi”, afferma Sara Albiani di Oxfam Italia, per cui la soluzione sta invece nella sospensione della proprietà intellettuale sui farmaci e altre tecnologie anti-Covid 19 per tre anni, come proposto da India e Sudafrica all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto/Omc): il cosiddetto Trips waiver (moratoria sulla proprietà intellettuale). L’iniziativa, che ha l’obiettivo spingere la produzione di tecnologie anti-Covid per fermare la pandemia è appoggiata da oltre 100 Paesi del mondo - anche gli Stati Uniti di Biden si sono espressi a suo favore - ma finora è stata osteggiata dalla Commissione europea e dal governo Draghi. Pochi giorni fa il Financial Times ha reso noto l’imminente aumento dei prezzi dei vaccini a mRna - da 15,50 euro a 19,50 per una dose di Pfizer e da 22,60 a 25,50 per Moderna (mentre secondo uno studio recentemente pubblicato da Public Citizen, in caso di sospensione della proprietà intellettuale, questi vaccini potrebbero essere prodotti con un costo di circa 1,2 dollari a dose). I deputati del M5S in commissione Affari sociali hanno presentato un’interrogazione a Draghi, chiedendo cosa intenda fare di fronte alla speculazione delle aziende farmaceutiche sui prezzi dei vaccini, considerando che “si stima che i richiami per le varianti potrebbero costare fino a 175 dollari a dose, 148 volte il costo stimato di produzione”. “Secondo quanto riferito dal Financial Times, l’Unione europea sarà costretta a spendere 8 miliardi in più rispetto ai prezzi della prima fase di commercializzazione - afferma la deputata cinque stelle Angela Ianaro, professoressa associata di farmacologa all’Università di Napoli - ma quanto sarebbero utili quei fondi per rinforzare le terapie intensive e la medicina territoriale in chiave anti Covid?”. In un appello a Draghi Ianaro chiede quindi “un’azione internazionale coordinata per arrivare alla sospensione dei brevetti”. Il negoziato per la sospensione dei brevetti sui farmaci anti-Covid é attualmente in fase di stallo. Metterebbe a rischio gli enormi profitti annunciati dalle aziende farmaceutiche per i prossimi mesi: Pfizer ha previsto 33,5 miliardi di euro ricavi nel 2021 per la vendita di 2,1 miliardi di dosi di vaccino mentre Moderna ha rivisto al rialzo le stime di vendita per quest’anno prevedendo ricavi, dal solo siero anti-Covid, per 19,2 miliardi di euro. Inoltre, gli ultimi esami di laboratorio hanno dimostrato che il vaccino di Moderna potrebbe di produrre anticorpi contro la variante Delta e gli analisti di Goldman Sachs stimano che l’azienda potrebbe commercializzare una combinazione di un vaccino anti-influenzale e anti-Covid-19 già nel 2024. Vi racconto la mia lotta contro la macchina del regime bielorusso di Svetlana Tikhanovskaja La Repubblica, 9 agosto 2021 La leader democratica a un anno dalle contestate presidenziali: “La nostra battaglia per la libertà è la battaglia di tutta l’Europa. Sto combattendo contro le macchine, letteralmente, sto combattendo contro il sistema. Un pezzo alla volta, spremendo fuori da me uno schiavo, una vittima e un impostore. È quello che facciamo tutti, l’intera nazione bielorussa. È quello che fanno tutte le donne, soprattutto in Bielorussia. Stiamo combattendo contro il sistema, contro l’invisibile. Siamo intrappolati nel circolo vizioso di una lotta per la libertà e una protesta pacifica che dura da oltre 365 giorni perché vogliamo evitare altre vittime. Non vogliamo usare gli stessi strumenti manipolativi e violenti che usa il regime totalitario. Eppure, sempre più persone vengono torturate e uccise. È una realtà dell’intera nazione bielorussa che è intrappolata da 27 anni in una relazione abusiva con un dittatore. Questa sono io, Svetlana Tikhanovskaja, una leader della Bielorussia democratica. Un anno fa ho rischiato tutto candidandomi alla presidenza al posto di mio marito Serghej, che è stato imprigionato dalle autorità e a cui era stata negata la possibilità di candidarsi in prima persona. Serghej, insieme a più di 600 altri prigionieri politici, uomini e donne senza paura, resta dietro le sbarre già da più di un anno. Tuttavia, per una volta, dopo l’ennesima elezione fraudolenta, la nostra nazione si è svegliata e sta combattendo disperatamente e degnamente per la sua libertà dalla primavera del 2020. A volte ci sentiamo lasciati soli con la nostra lotta. A volte vediamo a malapena la luce alla fine di un tunnel. Soprattutto quando leggiamo l’ennesima storia di torture o di un altro tentativo di suicidio da parte di un prigioniero politico. Oltre 36mila persone innocenti hanno subito repressioni brutali. E questo numero cresce ogni giorno. Dopo l’ennesimo annuncio ridicolo, l’udienza in tribunale del processo contro la suonatrice di flauto e mia compagna nella campagna elettorale per le presidenziali Maria Kolesnikova e l’avvocato Maksim Znak, eminenti combattenti bielorussi per la libertà, sarà tenuta segreta. Chiusa al pubblico. Il regime totalitario non vuole nessuna pubblicità perché il desiderio di libertà di Maria e Maksim non è stato piegato da un anno di carcere. Il processo con prove inventate che vede imputato mio marito Serghej Tikhanovskij dura già da più di un mese e mezzo. Rischia fino a 15 anni di carcere. Diverse figure di spicco sono accusati nello stesso processo, tra cui il noto giornalista Igor Losik. Non dite che questa è una crisi interna della Bielorussia. Dopo il dirottamento dell’aereo Ryanair, è diventata la crisi di tutta l’Europa. Abbiamo a che fare con un regime imprevedibile e irresponsabile pronto ai crimini più brutali. Tuttavia, dopo il momento della delusione, arriva il momento dell’ispirazione. Quando vedo gente in strada che, nonostante il terrore, continua a protestare, appendendo bandiere, tenendo comizi, distribuendo volantini, mi sento ricaricata di energia. Dopotutto, il genio è uscito dalla lampada e nessuna macchina al mondo può rimetterlo dentro. I bielorussi che sono scesi in piazza un anno fa hanno detto forte e chiaro che ci siamo e non ci arrenderemo. E questo mi dà la forza di continuare la lotta insieme a loro. E, soprattutto, non siamo soli in questa lotta. L’Europa e l’intero mondo libero sono con noi. E andiamo avanti, passo dopo passo. Sì, tutti vorremmo che fosse più veloce, che fosse più facile. Ma dobbiamo essere pazienti. Sappiamo che stiamo seguendo l’obiettivo giusto. E sappiamo che il nostro cammino verso la democrazia, per quanto difficile, è necessario. Lungo la strada e in questa lotta, troviamo amici e alleati. Sono Svetlana Tikhanovskaja, una donna bielorussa arrivata in politica senza alcun background. Ho dovuto imparare in fretta. Insieme al popolo bielorusso, sto combattendo queste macchine, il sistema totalitario. Mi starete vicino? Egitto. Zaki, un anno e mezzo nel buio del carcere di Alessandra Mujglia Corriere della Sera, 9 agosto 2021 Gli amici: condizioni disumane, l’Italia alzi la pressione. Durante l’ultima visita in carcere, Patrik Zaki ha consegnato ai suoi genitori delle pedine di scacchi chiedendo che le riponessero a casa, nella sua stanza. Sono fatte di sapone, metà di color nero, metà in giallo ocra. Alcune riportano inciso il suo nome, altre quello dei suoi compagni di prigionia. È stata una loro iniziativa: le stavano preparando per lui nella cella accanto, e quando Patrik se n’è accorto, lo hanno coinvolto, gli hanno insegnato a intagliarle e lui ne ha realizzate un paio. “Gesti così sentiti in un luogo pieno di disperazione vanno al di là di qualsiasi forma di solidarietà” osservano sui social gli amici attivisti del gruppo “Patrick Libero” che neanche d’estate, in pieno agosto, chiudono per ferie. Ieri hanno postato l’ennesimo appello per la sua liberazione, ricordando a vacanzieri distratti e politici inerti che proprio oggi Zaki completa il suo (primo) anno e mezzo in carcere: il ricercatore egiziano dell’università di Bologna dall’8 febbraio 2020 dorme per terra, sempre più sofferente, la vita sospesa. “Patrick soffre nella sua cella in condizioni disumane”. Da diciotto mesi esatti aspetta di sapere che ci fa in quell’inferno, gelido d’inverno e torrido d’estate, avvilito, provato ma con la voglia di resistere. Gli scacchi, una sorta auspicio di come Zaki dovrebbe poter giocare la sua partita con le autorità egiziane.Ma di logico e razionale c’è purtroppo ben poco in questa drammatica vicenda. In teoria Patrick è in detenzione preventiva con l’accusa di “propaganda sovversiva”, formula usata dal regime di Al Sisi per mettere a tacere molti che come lui si impegnano a favore dei diritti umani. Di fatto si trova nel carcere di Tora senza processo e senza sapere fino a quando, logorato dai tanti rinvii della custodia cautelare. Mancano ora 6 mesi al periodo massimo dei due anni, un tetto che però potrebbe essere superato ricorrendo a un nuovo capo d’accusa. “Il sistema è collaudato e ha persino un nome: tadweer, “rotazione” spiega al Corriere Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international, a proposito delle carceri egiziane “con porte girevoli”. “Di solito detenuti come Zaki sono trattenuti il più a lungo possibile, poi ogni tanto qualcuno viene rilasciato in concomitanza di qualche festa come accaduto per la festa del sacrificio, a luglio, quando sono stati liberati 6 detenuti”. Tra loro l’attivista egiziana Esraa Abdel-Fattah, uno dei simboli della rivoluzione del 2011. La pressione da parte degli Stati Uniti sarebbe stata fondamentale. “Purtroppo invece il governo italiano procede con la sua strategia inconcludente, basata su silenzio, cautela, e dialogo. Tre mesi fa la Farnesina ha chiesto espressamente il silenzio sul caso come se Zaki fosse detenuto da un gruppo armato e non da un Paese amico”. Un silenzio controproducente anche per Lia Quartapelle, capogruppo Pd alla Commissione esteri della Camera. “Basta vedere a cosa ha portato questa strategia nei Paesi europei che l’hanno adottata, come l’Austria: lo studente di Vienna, sorta di Zaki austriaco, è stato condannato a maggio a 4 anni di carcere”, ricorda la deputata al Corriere. L’Italia deve fare pressione usando tutti gli strumenti a disposizione, a partire dal riconoscere Zaki cittadino italiano”. Dall’Egitto arrivano via Facebook le parole vibranti della sorella Marise: “In questo clima che brucia e deprime, con le file per il pane, ascoltando le discussioni sulle Olimpiadi, sulle vicende di Messi, vi dico soltanto che Zaki avrebbe partecipato a queste discussioni con passione, ma lui è in carcere da un anno e mezzo. Sei nella mia mente, sempre, ci manchi mio caro!” Afghanistan. La guerra lampo dei talebani, cadono Kunduz e altre due città di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 9 agosto 2021 Sono ormai cinque i capoluoghi in mano talebana sui 34 complessivi. Ecco perché in Afghanistan gli islamisti avanzano così velocemente. In Afghanistan i talebani mirano ormai decisamente alla conquista militare dei centri urbani. Nella sola giornata di ieri si sono impadroniti di ben tre capoluoghi di provincia: Kunduz, che con i suoi quasi 380.000 abitanti è una delle città più importanti delle regioni settentrionali, oltre alla vicina Sar-e-Pol, capoluogo della provincia omonima, e Taloqan, capoluogo del Takhar. Se si sommano a quelle catturate tra venerdì e sabato, Sheberghan (sempre nel nord) e Zaranj, nella provincia meridionale di Nimroz sul confine con l’Iran, sono ormai cinque i capoluoghi in mano talebana sui 34 complessivi. Ma la situazione reale è molto più drammatica. Non sembra sbagliato riprendere le dichiarazioni talebane, per cui circa l’80 per cento del Paese sarebbe sotto il loro controllo, o comunque non più in mano ai lealisti del presidente Ashraf Ghani. Le ultime cronache rivelano che gli assedi contro Herat, Lashkar Gah e Kandahar sono vincenti su tutta la linea. Le truppe governative restano asserragliate in pochi edifici e caserme isolati, iniziano a mancare le munizioni, gli aeroporti sono chiusi o funzionanti a singhiozzo, i raid dell’aviazione di Kabul, sostenuta soltanto in parte da quella americana e adesso in difficoltà a causa dell’evacuazione dei contractor stranieri, non riescono a rallentare l’assedio. Joe Biden ha fissato al 31 agosto la data finale del ritiro americano, assieme a quello dell’intero contingente internazionale. Ma per allora la stessa capitale potrebbe già vivere l’incubo dell’assedio, con il ritorno delle milizie etniche in guerra tra loro e la fuga di massa verso l’estero dei civili, decisi a non tornare a vivere sotto il tallone della teocrazia talebana, come fu nel periodo compreso tra la metà degli anni Novanta e l’attacco americano nell’ottobre-novembre 2001 in risposta agli attentati di Al Qaeda dell’11 settembre. Per comprendere l’impatto dell’offensiva aiuta osservare la cartina del Paese ed è subito evidente che le loro forze si muovono come un esercito ben organizzato su più fronti contemporaneamente, dalle zone a maggioranza pashtun nel Sud-Est a quelle hazara nell’Ovest, armato a sufficienza e con una strategia precisa. In un primo tempo hanno occupato le zone rurali e le cittadine minori, adesso puntano alle concentrazioni urbane. Hanno studiato le battaglie della coalizione alleata contro l’Isis in Siria ed Iraq: sanno bene che per i droni e jet americani, che ormai partono da lontano, sarà ora molto più complicato operare con efficacia. I maggiori analisti internazionali continuano a puntare il dito sull’antica alleanza con le forze militari pachistane, che adesso tornano a giocare un ruolo determinante. Dagli accordi di pace con il presidente Trump nel febbraio 2020, i talebani hanno metodicamente evitato di attaccare i contingenti stranieri, ma si sono concentrati contro i governativi locali. Ed è stato subito evidente che, nonostante i miliardi di dollari e le infinite ore di lavoro investiti dagli Usa e dai loro alleati (inclusa l’Italia) in oltre un quindicennio di addestramento e armamento delle forze di sicurezza afghane, queste non sono in grado di combattere da sole. “Potrebbero venire battute entro sei mesi”, ammetteva in giugno lo stesso Scott Miller, che sino al 12 luglio era il generale americano al comando del contingente Nato nel Paese. Non è da escludere possa avvenire prima. Va però sottolineato che le odierne vittorie talebane non sono affatto un fulmine a ciel sereno, bensì rappresentano la sommatoria di una lunga serie di errori e passi falsi commessi dalla coalizione alleata sin dalla metà del 2002, quando, a meno di un anno dall’invasione dell’Afghanistan, l’amministrazione Bush decise di preparare l’attacco contro il regime di Saddam Hussein in Iraq. I talebani ebbero così modo di riorganizzarsi quasi indisturbati. Soltanto tre anni dopo gli alleati scelsero di operare sull’intero Afghanistan. Le organizzazioni civili internazionali al seguito si coordinarono poco tra loro, sprecando fiumi di dollari, che in gran parte alimentarono la corruzione locale. Nel 2010 oltre 100.000 soldati alleati non furono più in grado di sconfiggere i talebani, che tra il 2015-16 presero Kunduz ben due volte. Già allora fu ovvio che la terza volta sarebbe stata soltanto una questione di tempo.