L’emergenza ignorata del disagio psichico nelle carceri di Stefano Colombo thesubmarine.it, 8 agosto 2021 Il Garante dei detenuti del comune di Milano, Francesco Maisto, ha scritto una lettera all’assessora regionale al Welfare, Letizia Moratti, chiedendole un incontro urgente per discutere dell’aumento del disagio psichico nelle carceri milanesi. Negli istituti della regione sono detenute 880 persone con patologie di natura psichiatrica. La situazione è aggravata dal fatto che le strutture in cui possono essere accolti autori di reati affetti da fragilità mentali sono pochi, e per questo motivo molti di loro rimangono “temporaneamente” in carcere. La situazione è critica sia a San Vittore che al carcere minorile Beccaria. Secondo il direttore del carcere di Opera Silvio di Gregorio, è fondamentale che vengano garantite le ore di supporto psichiatrico che, secondo la legge, lo stato dovrebbe erogare alle strutture penitenziarie: almeno venti ore di assistenza ogni cento detenuti. Tra i destinatari di queste cure si annoverano detenuti comuni, minorenni, e in alcuni casi migranti segnati dall’esperienza dei campi di detenzione in Libia, con evidenti segni di stress post traumatico. La situazione delle carceri in Italia è grave da anni, ma con la pandemia le criticità già esistenti sono peggiorate drasticamente. La scorsa settimana l’associazione Antigone ha presentato il proprio rapporto di metà anno sulla situazione delle carceri italiane, precisando che la violenza, emersa in modo eclatante con la vicenda di Santa Maria Capua Vetere, “non è l’unica emergenza che riguarda il sistema penitenziario italiano.” L’associazione sottolinea in particolare il tasso di affollamento, con il 113% di detenuti rispetto al totale di posti disponibili; la dipendenza da sostanze di un quarto dei detenuti; la sproporzione tra la presenza di un poliziotto ogni 1,6 detenuti e un educatore ogni 91,8. La cura della salute mentale gode di poche attenzioni da parte delle autorità pubbliche anche al di fuori del contesto carcerario: il sistema di cura della sanità mentale in Italia raggiunge un deficit del personale necessario che varia dal 25 al 75%, che potrebbe essere superato con l’apporto di circa 1000 psichiatri, 1500 psicologi e altrettanti assistenti sociali. In Italia però la spesa pubblica dedicata alla salute mentale è di competenza regionale e raggiunge in media solo il 3,5% rispetto l’8-15% degli altri paesi del G7, con ampie disuguaglianze sul territorio. Si passa da picchi dell’8% nelle provincie di Bolzano e Trento al 2% di Campania, Marche e Basilicata. Durante una visita al carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove i detenuti sono stati vittime di gravissimi abusi fisici e psicologici da parte delle forze dell’ordine nella repressione delle proteste dello scorso 6 aprile, Draghi e la ministra Cartabia hanno promesso che si occuperanno della situazione nelle carceri. Nella riforma della giustizia è in effetti previsto un minore ricorso al carcere e un incoraggiamento alle pene alternative. Né Draghi né Cartabia hanno però mai pronunciato le parole “amnistia” o “indulto,” la soluzione più rapida per tamponare il problema del sovraffollamento. Al contrario, il Pnrr va nella direzione della costruzione di nuove carceri, con otto nuovi padiglioni nelle strutture di Rovigo, Vigevano, Viterbo, Civitavecchia, Perugia, Ferrara e Reggio Calabria, che dovrebbero essere ispirati al modello del carcere di Bollate, considerato un esempio virtuoso da seguire. Cartabia si è detta anche a favore di un aumento della sorveglianza “capillare” nelle carceri attraverso l’installazione di videocamere, per ridurre la possibilità di abusi di polizia come quello emerso nelle scorse settimane. La ministra ha aggiunto che “occorre procedere subito ad assunzioni nel personale delle carceri. Servono più fondi e più impegno nella formazione permanente.” Attualmente, nelle carceri italiane sono recluse circa 53.600 mila persone, a fronte di una capienza totale di 47.445. Secondo Draghi, “i numeri sono in miglioramento, ma il sovraffollamento ostacola il percorso verso il ravvedimento.” La carenza di personale, come già detto, è grave soprattutto dal punto di vista dell’assistenza e del sostegno psichiatrico e psicologico per i detenuti. Ieri la ministra ha chiesto al Dap un rapporto sui suicidi in carcere e sulle loro cause, per “individuare quali interventi possono essere implementati per prevenire i gesti estremi tanto delle persone ristrette quanto del personale della Polizia penitenziaria”. Torna Sognalib(e)ro, individuati 17 istituti in cui sono attivi laboratori di lettura o di scrittura Corriere della Sera, 8 agosto 2021 Al via per il quarto anno il premio nazionale per le carceri “Sognalib(e)ro” promosso dal Comune di Modena fino al 9 marzo 2022, che mira a sostenere lettura e scrittura negli istituti penitenziari. Il tema sarà stavolta “Ho fatto una promessa a me stesso”, con il concorso che prevede due premi. Uno a un’opera valutata dai detenuti, l’altro a un elaborato degli stessi reclusi, che potrà essere pubblicato in ebook dall’editrice Dondolo. Sono stati individuati 17 istituti in cui sono attivi laboratori di lettura o di scrittura, tra cui Modena, Ravenna e Castelfranco Emilia. Nella sezione “Narrativa italiana” i gruppi di lettura delle carceri attribuiranno il premio scegliendo tra romanzi di Massimo Carlotto Paolo Cangelosi e Roberto Venturini. In 17 istituti carcerari il Premio letterario promosso da Comune, ministero della Giustizia e Bper Banca. I detenuti si esprimono sul tema “Ho fatto una promessa a me stesso”. Con l’ufficializzazione della giuria e la scelta dei libri che le persone detenute dovranno “votare”, prende ufficialmente il via per il quarto anno di fila il premio nazionale per le carceri “Sognalib(e)ro”, la rassegna che mira a promuovere lettura e scrittura negli istituti penitenziari e di reclusione come strumento di riabilitazione sociale. Dopo l’annuncio del tema di quest’anno, “Ho fatto una promessa a me stesso”, nei giorni scorsi la giunta ha approvato il progetto della kermesse promossa dal Comune di Modena, assessorato alla Cultura, in collaborazione col ministero della Giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e il sostegno di Bper Banca, attivando quindi il percorso che continuerà fino a marzo dell’anno prossimo. Di articolare rilievo umano, sociale e culturale, il progetto consiste in un concorso letterario che prevede l’assegnazione di due premi, uno a un’opera letteraria valutata dai detenuti, il cui autore indicherà poi alcuni titoli dei libri che hanno segnato la sua vita, che gli organizzatori doneranno alle biblioteche delle strutture carcerarie partecipanti al Premio; l’altro a un elaborato prodotto dagli stessi reclusi, che potrà essere pubblicato, da solo o in antologia con altri, in ebook dal Dondolo, la casa civica editrice digitale del Comune di Modena. Per la nuova edizione di “Sognalib(e)ro”, iniziativa ideata e diretta dal direttore di “TuttoLibri - La Stampa” Bruno Ventavoli in collaborazione con l’Amministrazione, sono stati individuati dal ministero della Giustizia 17 istituti, nei quali sono attivi laboratori di lettura o di scrittura creativa: la casa circondariale di Torino Lorusso e Cotugno, quella di Modena, la casa di reclusione di Milano Opera, quelle di Pisa, Brindisi, Trapani, Verona, Cosenza, Saluzzo, Pescara, Napoli Poggioreale, Sassari, Paola, Ravenna, e Castelfranco Emilia; e quelle femminili di Roma Rebibbia e Pozzuoli. Come già nelle precedenti edizioni, il concorso si articola in due sezioni. Nella sezione Narrativa italiana (che include anche il Premio speciale Bper Banca), una giuria popolare composta dagli aderenti ai gruppi di lettura delle carceri attribuisce il premio valutando il migliore di una rosa di tre romanzi: “E verrà un altro inverno” di Massimo Carlotto (Rizzoli, 2021); “L’uomo e il maestro” di Paolo Cangelosi (E/o, 2021); “L’anno che a Roma fu due volte Natale” di Roberto Venturini (Sem, 2021). Ciascun partecipante dovrà esprimere la preferenza attribuendo tre punti al libro migliore, due al secondo e uno al terzo. Ogni gruppo è seguito da un operatore che raccoglierà i voti e i commenti della giuria interna e li trasmetterà al Comune. Tutti i giudizi riferiti alla stessa opera, una volta sommati, determineranno il romanzo vincitore. Il premio, che sarà formalmente assegnato in un evento che si svolgerà in città in primavera, consiste nell’invio di titoli scelti dall’autore agli istituti di reclusione coinvolti, accrescendone così il patrimonio librario. Inoltre, lo scrittore vincitore, al quale Bper Banca destinerà un riconoscimento speciale, potrà presentare il proprio libro nelle carceri partecipanti. Nella sezione “Inedito”, invece, una giuria di esperti presieduta da Ventavoli e composta dagli scrittori Barbara Baraldi, Andrea Marcolongo e Simona Sparaco attribuirà il premio a un’opera inedita (romanzo, racconto, poesia) prodotta da detenuti o detenute sul tema “Ho fatto una promessa a me stesso”. La giuria sceglierà a maggioranza il miglior testo esprimendo la valutazione con un giudizio sintetico. Il riconoscimento consiste nella pubblicazione in un ebook, a cura del Dondolo; il Comune si riserva poi di assumere ulteriori iniziative di divulgazione dei testi in concorso. La partecipazione al Premio, che si concluderà il 9 marzo 2022, è aperta ai cittadini italiani e stranieri, comunitari ed extracomunitari, senza limiti di età, attualmente detenuti negli istituti penitenziari interessati dal progetto. Ogni detenuto potrà partecipare a una o a entrambe le sezioni, leggendo i romanzi “in gara”, per i quali ogni struttura dovrà far pervenire il punteggio complessivo attribuito dal proprio gruppo di lettura, o scrivendo e inviando una o due opere inedite, in italiano. Come cambia il processo dopo la riforma di Daniele Livreri Il Dubbio, 8 agosto 2021 Seppur tra luci ed ombre, il progetto approvato dalla Camera dei deputati marca una discontinuità su alcuni punti di rilievo con la proposta antecedente. Per una valutazione complete della c.d. riforma Cartabia si dovranno senz’altro attendere le concrete declinazioni delle deleghe conferite all’esecutivo. Tuttavia alcune differenze di fondo con il c.d. progetto Bonafede si possano vedere sin d’ora. Anzitutto può rilevarsi che la riforma c.d. Bonafede pretendeva di assicurare il rispetto dei tempi di durata del processo e delle indagini attraverso sanzioni disciplinari, lì dove però la violazione dei termini previsti configurasse una negligenza inescusabile. Si trattava all’evidenza di un mero flatus vocis: al di là delle difficoltà di qualificare come inescusabile la negligenza, le sorti del meccanismo previsto dall’art. 124 c.p.p. sembrano dimostrare che affidare il rispetto di norme processuali alla prospettiva di sanzioni disciplinari non funziona e comunque non ha gran rilievo per il prevenuto. Il progetto Cartabia mira invece ad assicurare il rispetto dei termini attraverso rimedi endoprocessuali. Al riguardo ci si riferisce non soltanto al noto meccanismo dell’improcedibilità, ma anche alla previsione, a fronte della stasi del procedimento dopo che sono spirati i termini delle indagini, di un intervento, la cui definizione è delegata al Governo, del giudice per le indagini preliminari. Sul tema merita una riflessione la tesi, autorevolmente sostenuta, secondo cui si sarebbero potuti configurare rimedi diversi dalle sanzioni disciplinari, ma pur sempre esoprocessuali, come quelli indennitari. Francamente non pare che in tal senso la legge Pinto abbia dato grande prova di sé. Ed inoltre meccanismi di tal fatta rischiano di far permanere l’interessato in un nuovo circuito giudiziario. Neppure l’ipotesi di una riduzione di pena in favore del condannato, trattenuto a giudizio oltre i termini previsti, sembra convincente, perché varrebbe per il solo condannato, penalizzando paradossalmente l’assolto. Sullo specifico tema poi dell’improcedibilità, pare opportuno procedere a dei brevi rilievi: in linea di principio la previsione di termini di durata del processo e quindi la certezza sui tempi dello stesso, prescindendo dalla prescrizione sostanziale, a parere di chi scrive è condivisibile, perché si può rimanere assoggettati ad una pubblica potestà per tempi limitati e predeterminati. In tal senso sembra apprezzabile che l’istituto riguardi impugnazioni per reati commessi dall’ 01.01.2020, cioè da quando è entrata in vigore la riforma che abolisce la prescrizione dopo il primo grado di giudizio; piuttosto non persuade la concreta declinazione dell’istituto. Far operare i termini processuali dell’improcedibilità a seconda della contestazione di un reato piuttosto che di un altro finisce per moltiplicare irrazionalmente i multipli binari del processo italico. E tutto ciò al netto di ogni problematica in ordine all’eventuale riqualificazione della contestazione. In secondo luogo sono previsti tali meccanismi di proroga dei termini e tali deroghe alla regola dell’improcedibilità che si rischia di frustrare l’intento della riforma; con riguardo alla paventata “strage dei processi” lamentata da taluni, a quanto già illustrato, deve aggiungersi che la rinnovazione dibattimentale in appello non rientra nel conteggio dei termini affinché scatti l’improcedibilità; Ma proseguiamo nelle accennate differenze progettuali. La c.d. riforma Bonafede cercava di assicurare la celerità del giudizio, prevedendo che le notifiche, successive alla prima, si effettuassero presso il difensore del prevenuto. In sintesi si introduceva un domicilio legale, prescindendo dal tema dell’assenza. Diversamente il progetto c.d. Cartabia ben coglie la stretta connessione tra i due temi, prevedendo che l’imputato conservi il diritto alle notifiche con cui si introduce il giudizio, anche d’appello. Il tutto in un contesto in cui il Governo è chiamato ad ampliare la possibilità di rimedi successivi a favore dell’imputato e del condannato giudicato in assenza senza avere avuto effettiva conoscenza della celebrazione del processo. Tuttavia sul punto mi pare che il progetto dell’attuale ministro erri nel prevedere l’abrogazione della notifica dell’estratto della sentenza in favore dell’assente, giudicato con il giudizio abbreviato. Quel meccanismo, proprio per evitare di travolgere l’intero processo, andava confermato ed esteso anche al giudizio ordinario. In tema di dibattimento, il c.d. progetto Cartabia, delegando il Governo, seppur con dei limiti, a riformare la disciplina sulla riassunzione della prova dichiarativa in caso di mutamento del giudice, può aprire importanti spiragli per rimediare a SS.UU. Bajrami, che ha trasformato le trascrizioni da un mero strumento di ausilio alla memoria del giudice del dibattimento ad un mezzo di valenza euristica per il giudice che non ha mai partecipato all’assunzione della prova. Merita infine segnalarsi che in tema di giudizi di impugnazione, il nuovo progetto respinge il tentativo di restringere l’area della collegialità e tuttavia si assiste ad un regresso in tema di oralità e pubblicità del giudizio di impugnazione, poiché la trattazione scritta diventa il modello processuale del gravame, salvo diversa richiesta dell’interessato. In sintesi, seppur tra luci ed ombre, pare a chi scrive che il progetto approvato dalla Camera dei deputati marchi una discontinuità su alcuni punti di rilievo con la proposta antecedente. Conte annuncia (ancora) battaglia sulla giustizia di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 8 agosto 2021 Prescrizione ma anche i decreti delegati che attueranno la riforma del processo penale e nuovo Csm: l’avvocato del popolo avverte che i 5 Stelle torneranno a sfidare Cartabia. E la ministra si troverà a breve una maggioranza spaccata in due dai referendum radical-leghisti. Tra le prime cose dovrà occuparsi dell’espulsione di quei deputati che non hanno votato la riforma del processo penale (alla fine sono stati solo tre, anche se gli assenti ingiustificati erano molti di più). Espulsioni che dovrà spiegare bene, visto che nella sua prima uscita da leader dei 5 Stelle non più “in procinto di” ma incoronato ufficialmente ha annunciato che di quella riforma è pronto a smontare un pezzo. Non adesso, certo, ma quando gli elettori gli daranno la maggioranza per farlo. L’eventualità è ipotetica, ma il segnale è chiaro. L’intervista dell’ex presidente del Consiglio al simpatetico Fatto quotidiano annuncia nuove tensioni sulla giustizia tra i 5 Stelle e il resto della maggioranza. Per Conte il compromesso del regime transitorio, quello che prevede termini più lunghi per la prescrizione processuale (la ormai nota improcedibilità per la quale il processo che va oltre una certa durata muore), già non va più bene. O meglio, va bene che non sia transitorio: dovrebbe diventare la regola definitiva, così diluendo la portata della riforma Cartabia che ha come primo obiettivo (lasciamo perdere se perseguito bene o male) la riduzione del 25% dei tempi di durata dei processi penali. Il modo in cui la mette giù l’ex “avvocato del popolo” è chiarissimo dal punto di vista politico. Dice che durante il regime transitorio - da qui al 2024 - bisognerà monitorare l’impatto dei nuovi provvedimenti e poi lui, “in prossimità della scadenza” vigilerà “affinché la durata media dei processi sia davvero più breve”. Altrimenti ecco l’appello al popolo, che al più tardi nella primavera del 2023 si sarà già espresso, perché gli dia la forza elettorale per tornare indietro. Il ragionamento scorre meno bene dal punto di vista tecnico, visto che la legge appena approvata prevede che possano durare di più (3 anni invece di 2 in appello e 1,5 anni invece di 1 in Cassazione) i processi per i quali sia stata proposta impugnazione entro la fatidica data del 31 dicembre 2024. Dunque per sapere se quei tempi saranno o meno sufficienti per chiudere quei processi bisognerà aspettare quanto meno il 2027. Quel che importa è però il messaggio politico: l’annuncio di una battaglia che avrà occasioni assai più prossime per essere scatenata. Non solo sulla riforma del processo penale, ma a partire da questa che dopo l’estate andrà votata in seconda lettura in senato, in tempi brevi (prima che si apra la sessione di bilancio a fine ottobre) e senza modifiche. Poi andrà tradotta nei decreti legislativi che non riguardano la prescrizione ma tutto il resto delle norme sulle quali i 5 Stelle hanno comunque sollevato problemi. Come ad esempio la novità degli indirizzi di politica criminale del parlamento. Gli spazi per un (ennesimo) braccio di ferro sulla giustizia sono ancora più ampi. Perché a settembre dovrà ripartire il disegno di legge di riforma del Csm. Con altrettanta urgenza, perché a luglio 2022 il Consiglio superiore dovrà essere rinnovato e Cartabia punta a farlo con le nuove regole. Ai 5 Stelle non è sfuggito un passaggio nella relazione della commissione Luciani che ha proposto una prima bozza di emendamenti governativi in cui si illustra “il rovesciamento del disegno di legge Bonafede” sulla questione del ritorno in magistratura delle toghe che hanno tentato la strada della politica. E nemmeno si potrà accusare Conte di tirare troppo la corda, visto che da febbraio in avanti (dopo il giudizio della Corte costituzionale) si entrerà in una campagna elettorale per i referendum radical-leghisti sulla giustizia che vedrà una parte consistente della maggioranza (non solo Salvini, ma anche Forza Italia, calendiani e renziani) prendere una rotta diversa da quella della ministra Cartabia “Basta inchieste con titoli da film, sono colpevoliste” di Giuseppe Alberto Falci Corriere della Sera, 8 agosto 2021 Parla l’ex viceministro alla Giustizia Costa. Un tempo era il grande cinema a farsi tribunale: “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”. Ora è la giustizia a farsi film. Questo il pensiero di Enrico Costa, ex viceministro della Giustizia con Matteo Renzi, oggi deputato e capogruppo in Commissione giustizia di Azione: “Molte inchieste - argomenta - vengono rappresentate come fossero dei film. C’è un titolo, un trailer, una conferenza stampa nella quale si proiettano gli arresti, le intercettazioni anche vocali. Poi ci sono i protagonisti, ovvero i pubblici ministeri, che rilasciano interviste. Infine, c’è il botteghino di questo capolavoro che è la Rete. Eppure in questo film parla solo una campana, quella dell’accusa, la difesa non viene citata nemmeno nei titoli di coda. Le sentenze, specie di assoluzione, non interessano più a nessuno”. Costa, vuole silenziare i pm? “Buona parte dei pm lavora silenziosamente, e soffre la spettacolarizzazione che fanno pochi e rumorosi colleghi”. Perché ha presentato una proposta, accolta dal governo, che elimina i titoli lesivi alle inchieste? “Si tratta di una norma di civiltà. I nomi delle inchieste e le conferenze stampa sono un marchio indelebile sull’indagato e restano impresse anche sull’innocente in caso di assoluzione”. Non vedremo più indagini che si chiameranno “Mafia Capitale”, “Evasione continua”, “Pelli sporche”? “I nomi dovranno rispettare la presunzione di innocenza. Non dovranno evocare una condanna certa. L’esecutivo ha recepito la direttiva europea in linea con un mio emendamento”. Chi sono gli autori dei nomi delle inchieste? I pm? “Nessuna norma prevede di assegnare un nome, che è sempre colpevolista, alle indagini. Molto spesso nascono dalla polizia giudiziaria e i pm non si oppongono”. Non teme che il decreto possa subire modifiche nelle commissioni parlamentari? “L’impianto è chiaro ma potrà essere affinato”. Giuseppe Conte fa sapere che “se il M5S avrà i voti cambierà la riforma Cartabia”. “Queste parole qualificano una linea del tutto illiberale”. Riforma della giustizia: la strada è ancora lunga di Ottorino Gurgo Il Roma, 8 agosto 2021 Dopo aver superato molti ostacoli e composto altrettanti contrasti tra le forze politiche della maggioranza, la tanto attesa riforma della giustizia, è finalmente in dirittura d’arrivo. Mario Draghi e Marta Cartabia, ce l’hanno, dunque, fatta? Non vorremmo passare per pessimisti ad ogni costo, ma, detto in tutta sincerità, facciamo qualche fatica a unirci al coro di coloro che inneggiano al risultato raggiunto. Sia chiaro: l’impegno profuso per il raggiungimento di questo obiettivo dal presidente del Consiglio e dalla Guardasigilli alla quale potremmo, senza esitazione, assegnare l’oscar di miglior ministro dell’attuale compagine governativa, merita ogni elogio e non è minimamente in discussione. Il nostro scetticismo sulla tenuta dell’accordo raggiunto ha, tuttavia, più di una motivazione. Non a caso, per evitare che, al momento del voto, la sua maggioranza si sfaldasse, Draghi è stato costretto - nonostante l’elevato numero di consensi del quale, sulla carta, il governo dispone - a porre la questione di fiducia che è sempre una manifestazione non di Forza, ma di debolezza. Non è un mistero, del resto, che i Cinque Stelle abbiano ingoiato molto a malincuore il rospo di questa riforma che non hanno mai condiviso e che lo stesso Giuseppe Conte, che pure ha esortato i “suoi” a dire compattamente sì alla fiducia, non ha fatto mistero di considerarla negativamente. Non è, perciò, azzardato sostenere che di qui a settembre, quando il provvedimento approderà in Senato per l’approvazione definitiva, nuovi ostacoli verranno posti dai pentastellati sul suo cammino. Senza contare il ruolo paralizzante che inevitabilmente verrà svolto dalla burocrazia che, come è noto, è il vero potere occulto che tende a bloccare, per difendere le proprie prerogative, ogni iniziativa (per rendermene conto è sufficiente aver riguardo alle numerose leggi che, pur approvate dal Parlamento, sono bloccate per la mancanza del regolamento di attuazione). La riforma è, poi, esposta alla consolidata tendenza delle forze politiche del nostro paese a mettere permanentemente in discussione le intese raggiunte. Non vogliamo - e pure potremmo - andare troppo lontani nel tempo. Preferiamo limitarci, per fare un esempio, a un episodio relativamente recente, che ha segnato la turbolenta vita della cosiddetta Prima Repubblica. Pensiamo al “patto della staffetta”, stipulato, per iniziativa di Riccardo Misasi, tra la Democrazia cristiana e il Partito socialista, in una sede “neutrale”, un convento sulla via Appia, in virtù del quale si stabilì che Ciriaco De Mita sarebbe dovuto succedere a Bettino Craxi alla guida del governo. Ma, quando giunse il momento di dare attuazione alla “staffetta”, il segretario del Psi si tirò indietro. Non fu un bel l’esempio, ma rientrava nella tradizione italiana. Questa tanto sospirata riforma della giustizia della quale ci stiamo ora occupando, è importante non solo per i suoi contenuti, ma perché ce la chiede l’Unione europea che sta con gli occhi sgranati a osservare se siamo in grado di portarla a compimento. Come afferma un’espressione popolare, rivolta soprattutto agli italiani all’estero, “non facciamoci riconoscere”. La riforma Cartabia facilita l’archiviazione dei reati ambientali di Anita Ishaq L’Indipendente, 8 agosto 2021 Il primo agosto sono partite le discussioni sui numerosi emendamenti che sono stati suggeriti per la recente riforma della giustizia. Proposta dall’attuale ministro della giustizia Marta Cartabia, la legge è stata approvata all’unanimità dal Consiglio dei Ministri lo scorso 8 luglio, ma è stata poi pesantemente criticata. Ad attrarre le maggiori perplessità è stata l’introduzione del concetto di “improcedibilità” per processi che superino dei tempi limiti prestabiliti. Già accusata di favorire l’archiviazione di reati molto gravi come quelli di matrice mafiosa, l’improcedibilità potrebbe colpire anche i reati di disastro ambientale, annullando più di 20 anni di lotta che gli ambientalisti hanno condotto per vederli annoverati nel nostro codice penale. La riforma della giustizia proposta da Marta Cartabia ha origine nei rapporti italiani con l’Unione Europea e con il recente piano di ripresa post-pandemia. L’Italia è stata ripresa molte volte dall’Europa, nel corso degli anni, per la lentezza dei suoi processi penali e civili - che non ha eguali all’interno dell’Unione. Ora, l’UE ha deciso di imporre all’Italia una riforma dei tempi del suo sistema giudiziario, per poter accedere ai finanziamenti post-covid del programma Next Generation EU. Lo scopo della legge è quindi fondamentalmente quello di abbreviare i tempi giudiziari, e proprio per questo è stato introdotto il tanto discusso concetto di “improcedibilità”. Il superamento di certi termini temporali per il giudizio, di appello e di cassazione (rispettivamente due anni e uno) determina automaticamente che il caso non è più perseguibile. Si archivia il processo, anche se non scompare il reato. Questo servirebbe a rendere il procedimento più veloce ed efficiente, ma è stato criticato perché proprio la lentezza ed inefficienza strutturali del nostro sistema giudiziario potrebbero causare l’improcedibilità di molti crimini gravi. Un risultato piuttosto paradossale. Alcuni crimini considerati particolarmente gravi, come i reati di mafia, di terrorismo, violenza sessuale aggravata e traffico di stupefacenti, sono stati esclusi dall’improcedibilità. Questo non è però avvenuto per i reati di disastro ambientale, cui evidentemente non è stato dato molto peso. WWF, Legambiente e Greenpeace hanno contestato questa decisione negligente, e hanno proposto a loro volta un emendamento: inserire i reati di disastro ambientale nella lista dei reati non soggetti all’improcedibilità. “Senza la modifica chiesta da Legambiente, WWF e Greenpeace al testo presentato dal Governo, la cosiddetta riforma Cartabia, verrà di fatto tradita qualsiasi speranza di ottenere giustizia in nome del popolo inquinato”, hanno dichiarato in una nota. Il reato di disastro ambientale è stato ufficializzato in Italia con l’introduzione nel codice penale dell’articolo 452 quater. L’articolo definisce come disastro ambientale l’alterazione irreversibile (o reversibile ma particolarmente onerosa) dell’equilibrio di un ecosistema, soprattutto se comporta un’offesa alla pubblica incolumità. Questo provvedimento ha permesso di punire delitti ambientali come l’ex Ilva di Taranto, la discarica Resit in Campania, i Pfas in Veneto. Con la riforma Cartabia, si rischia di fare un enorme passo indietro in questo senso. Infatti, centinaia di casi di disastro ambientale potrebbero molto semplicemente essere archiviati come “improcedibili”. Secondo Legambiente, l’ecomafia è un business che vale quasi 20 miliardi di euro. È oltretutto un business in crescita costante, ma con i recenti aggiustamenti del sistema penale, ottenuti con grande fatica, si stava piano piano arginando il problema. Il rischio è che tutti questi avanzamenti siano annullati con l’attuale riforma della giustizia. L’autunno caldo del Csm. La partita di Milano e gli incastri delle nomine di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 agosto 2021 Il doppio segnale del round vinto da Storari e del “no” a Palamara. Il Consiglio superiore della magistratura è chiuso per ferie, ma le questioni che lo tormentano restano aperte. A Palazzo dei Marescialli quest’anno le vacanze assomigliano molto a una tregua, dopo mesi di polemiche e tensioni che hanno coinvolto e diviso l’organo di autogoverno dei giudici, in vista di una ripresa che si annuncia niente affatto tranquilla. Per le questioni rimaste sul tavolo e per quelle che arriveranno. Nell’ultimo giorno di lavoro prima della pausa estiva sono arrivate due decisioni di segno contrapposto. Da un lato la Sezione disciplinare ha respinto la sospensione cautelare dall’ufficio e dalle funzioni di pubblico ministero del sostituto procuratore di Milano Paolo Storari, chiesta dalla Procura generale della Cassazione; dall’altro la Corte suprema ha confermato la radiazione dall’ordine giudiziario di Luca Palamara, sancita dall’organo disciplinare del Csm nell’ottobre scorso sempre su richiesta della Procura generale. Una sconfitta e una vittoria nell’arco di poche ore per l’ufficio guidato dal pg della Cassazione Giovanni Salvi, con un tempismo che proprio Palamara ha definito “perfetto”, intendendo dire sospetto. Sorvolando su ciò che la Cassazione ha ribadito, al di là di ogni narrazione: la famosa cena dell’hotel Champagne non era come tutte le altre rivelate dall’ex magistrato perché in quell’occasione Palamara “ha agito sulla base di motivazioni assolutamente personali” attraverso “manovre strategiche intese a collocare, in alcuni uffici giudiziari “sensibili”, magistrati programmaticamente selezionati unicamente in forza di convenienze strettamente personali”. Un segnale che indietro non si torna, mentre la sconfessione della Procura generale sul caso Storari ha sorpreso il pg e i colleghi che con lui si occupano di procedimenti disciplinari. Convinti che se non dev’essere sospeso e trasferito un pm che diffonde all’esterno della Procura verbali segreti e poi indaga su quella diffusione illegittima, chi mai bisognerebbe sospendere e trasferire? Ma il “tribunale dei giudici” ha stabilito diversamente, sembra all’unanimità, sezionando una ad una le tre contestazioni per cui era stato chiesto lo spostamento di Storari. Una riguardava la presunta scorrettezza nei confronti del procuratore Francesco Greco e dell’aggiunto Laura Pedio, accusati da Storari nel colloquio con l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo di “consapevole inerzia delle indagini” sulla ipotetica loggia Ungheria svelata dall’avvocato Amara, pur sapendo che c’erano attività in corso e senza comunicare ai superiori “il proprio dissenso per la mancata iscrizione nel registro di alcuni indagati”. Replica la Disciplinare: dagli atti non risulta “una chiara accusa di omessa iscrizione o di inerzia investigativa”, bensì solo una “preoccupazione sulle modalità di gestione del procedimento in presenza di una chiara divergenza di vedute in ordine all’iscrizione di alcune notizie di reato”. Individuare una differenza sostanziale tra le due ricostruzioni non è agevole, tuttavia s’è deciso che il comportamento di Storari non richiede un trasferimento cautelare. Forse anche per tenere un profilo basso ed evitare di surriscaldare ulteriormente il clima e gli animi. Tra i motivi non c’è la “sollevazione popolare” della Procura a sostegno del collega, ma l’ordinanza riporta quanto riferito dalla difesa dell’incolpato: “La quasi totalità dei magistrati dell’ufficio (54 magistrati su 64) ha firmato una nota in cui si afferma che “la nostra attività non è turbata dalla permanenza del collega, nell’esercizio delle funzioni, presso la Procura di Milano”. Difficile immaginare che quel documento non abbia pesato sulla decisione. Anche perché dopo l’estate il Csm sarà chiamato a scegliere il nuovo procuratore di Milano, e sarebbe stato impegnativo arrivarci con un provvedimento che avrebbe fatto spallucce dell’opinione del (quasi) intero ufficio. Tra l’altro lo stesso Consiglio ha approvato, prima delle ferie, un documento con non pochi rilievi al progetto organizzativo della Procura diretta da Greco, e c’è chi pensa che la ciambella di salvataggio lanciata a Storari sia anche un affondo verso il procuratore il quale, alla vigilia del giudizio cautelare, aveva ribadito le accuse di scorrettezza al suo sostituto schierandosi, di fatto, con l’accusa della Procura generale. Così hanno perso in due, in attesa del verdetto disciplinare nel merito e delle altre partite da disputarsi al Csm. A cominciare proprio dalle nomine. Per Milano due dei candidati più accreditati - Gianni Melillo e Nicola Gratteri, procuratori di Napoli e Catanzaro - hanno rinunciato a correre. Restano in lizza il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, il procuratore di Bologna Giuseppe Amato e altri dirigenti di Procure minori. Oltre all’attuale procuratore aggiunto milanese Maurizio Romanelli, unico aspirante “interno”; ma mai come stavolta la tradizione di un nome scelto dentro l’ufficio sembra in bilico. Tra l’altro alcune candidature si incastrano con le decisioni su altri uffici: Viola, ad esempio, insiste per prendere il posto di Michele Prestipino al vertice della Procura di Roma, dopo che il Consiglio di Stato ha accolto i suoi ricorsi; ma lì resta in lizza anche il procuratore di Palermo Franco Lo Voi, che potrebbe aspirare anche alla Procura generale di Palermo (dove Viola s’è ritirato) e per la Direzione nazionale antimafia. Alla quale sembra ambire pure Gratteri. Un difficile gioco a incastri, che renderà particolarmente caldo l’autunno del Csm. Frosinone. Incendio nel carcere, detenuti assaltano l’infermeria di Giovanni Magnante* area-c.it, 8 agosto 2021 Presso il penitenziario di Frosinone è accaduto che un detenuto ha appiccato il fuoco all’interno della propria cella. Conseguentemente la Polizia Penitenziaria ha encomiabilmente prontamente provveduto ad evacuare la sezione poiché i detenuti presenti hanno manifestato segni di intossicazione dal fumo prodottosi, danno subito dagli stessi agenti durante le operazioni. Queste persone, tutte insieme, sono giunte presso la Infermeria del carcere, ed il personale sanitario presente ha dovuto fronteggiare una situazione di estrema gravità senza avere a disposizione tutti i presidi occorrenti (in particolare l’ossigeno). Il personale sanitario si è trovato a dover tenere testa in condizioni estremamente precarie e solo per la sua grande esperienza e coraggio si è riuscito ad evitare il peggio, fino all’arrivo del 118 che ha dovuto utilizzare le sue apparecchiature in luogo di quelle carenti nel Penitenziario, e con il trasferimento in ospedale di alcune persone. Questo fatto è la cartina di tornasole della condizione nella quale si trovano i sanitari penitenziari e, conseguentemente, la popolazione assistita, sia la Polizia Penitenziaria che i detenuti. La sanità penitenziaria, per le particolari e spesso spaventose condizioni ambientali un cui opera, deve avere molti più presidi e risorse di quelle che ha, e che sono assolutamente insufficienti (per usare un eufemismo) a svolgere il suo importante e delicato compito. Non fornire dotazioni realmente adeguate significa non adempiere ad un dovere morale e giuridico da parte dei soggetti responsabili dell’organizzazione sanitaria. Si chiede quindi un adeguato e tempestivo intervento da parte degli organi preposti, ognuno per la propria competenza, perché si provveda ad adempiere fornendo tutte le congrue e doverose risorse occorrenti alla sanità penitenziaria e assicurando condizioni organizzative adeguate allo stato particolare, anzi unico, della realtà penitenziaria. Tutto quanto sopra enunciato a vantaggio dei lavoratori della sanità penitenziaria, della Polizia Penitenziaria, dei detenuti e della stessa pubblica amministrazione. *Presidente provinciale SNAMI, Sindacato Nazionale Autonomo Medici Italiani Frosinone. Morto il detenuto che aveva incendiato la cella frosinonetoday.it, 8 agosto 2021 L’uomo, trasferito in ospedale in condizioni molto difficili, non è riuscito a superare le difficili condizioni in cui si era ridotto. Non ce l’ha fatta a recuperare dalle gravi ustioni che si era provocato dando fuoco alla sua cella all’interno del carcere di Frosinone. Carmine Matrecano è morto in ospedale a causa delle ustioni riportate in tutto il corpo. Un vasto incendio che aveva anche provocato l’intossicazione di un altro detenuto e di cinque agenti della polizia penitenziaria che prontamente avevano provveduto ad evacuare la sezione poiché i detenuti presenti avevano manifestato segni di intossicazione dal fumo prodottosi, danno subito dagli stessi agenti durante le operazioni. Poi tutti insieme erano giunti presso l’infermeria del carcere ed il personale sanitario presente qui ha dovuto fronteggiare una situazione di estrema gravità senza avere a disposizione tutti i presidi occorrenti (in particolare l’ossigeno). La nota dello Snami - “Durante l’incendio tra il 3 ed il 4 agosto scorso nel carcere di Frosinone il personale sanitario si è trovato a dover tenere testa in condizioni estremamente precarie e solo per la sua grande esperienza e coraggio si è riuscito ad evitare il peggio, fino all’arrivo del 118 che ha dovuto utilizzare le proprie apparecchiature in luogo di quelle carenti nel Penitenziario, e con il trasferimento in ospedale di alcune persone. Questo fatto è la cartina di tornasole della condizione nella quale si trovano i sanitari penitenziari e, conseguentemente, la popolazione assistita, sia la Polizia Penitenziaria che i detenuti. La sanità penitenziaria - spiega in una nota il dott. Giovanni Magnante presidente provinciale Snami - per le particolari e spesso spaventose condizioni ambientali in cui opera, deve avere molti più presidi e risorse di quelle che ha, e che sono assolutamente insufficienti (per usare un eufemismo) a svolgere il suo importante e delicato compito. Non fornire dotazioni realmente adeguate significa non adempiere ad un dovere morale e giuridico da parte dei soggetti responsabili dell’organizzazione sanitaria. Si chiede quindi un adeguato e tempestivo intervento da parte degli organi preposti, ognuno per la propria competenza, perché si provveda ad adempiere fornendo tutte le congrue e doverose risorse occorrenti alla sanità penitenziaria e assicurando condizioni organizzative adeguate allo stato particolare, anzi unico, della realtà penitenziaria. Tutto quanto sopra enunciato a vantaggio dei lavoratori della sanità penitenziaria, della Polizia Penitenziaria, dei detenuti e della stessa pubblica amministrazione”. Vibo Valentia. Detenuto suicida, Ministero condannato a risarcire i familiari lametino.it, 8 agosto 2021 Il Ministero della Giustizia è stato condannato a risarcire i familiari di un uomo suicidatosi nel carcere di Vibo Valentia nel 2008 dove si trovava in esecuzione di un’ordinanza custodiale. Erano stati la moglie e i quattro figli a chiamare in causa il dicastero. Lo scorso 3 agosto la Corte di Appello di Catanzaro ha deciso, dopo un annullamento con rinvio della Cassazione, di condannare il ministero della Giustizia a pagare, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, una somma consistente per ciascuno dei 5 familiari, oltre agli interessi legali dalla data di pubblicazione della sentenza e il pagamento delle spese processuali. Una cifra rilevante che però non è stata resa nota. I familiari erano tutti rappresentati e difesi dagli avvocati Giuseppe Di Renzo, Nicola D’Agostino e Nazzareno Rubino, che esprimono soddisfazione per la decisione della Corte. Nelle motivazioni si legge che, secondo quanto valutato dalla Cassazione, “non può ragionevolmente affermarsi, nella specie, che l’amministrazione penitenziaria abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare l’evento”. Aggiungendo a ciò, inoltre, che nonostante non si evidenziassero ragioni di rischio il detenuto era stato sottoposto al regime di “grande sorveglianza” (guardato a vista ogni 20 minuti). “È incontestabile sul piano causale - è scritto nella sentenza - che, ove il detenuto fosse stato sottoposto a regime di detenzione comune, come peraltro espressamente richiesto dal pubblico ministero, i suoi intenti suicidari sarebbero stati impediti o comunque resi di assai più ardua realizzazione dalla presenza di altri detenuti”. Roma. Se la difesa del “decoro” diventa una guerra contro i poveri di Davide Maria De Luca Il Domani, 8 agosto 2021 Uno sgombero di senzatetto all’Esquilino mostra il segno sotto cui si giocherà la campagna elettorale: lotta al degrado, difesa del decoro. I reati in città sono in calo e la politica non è incline a campagne allarmistiche: così sono pulizia dei quartieri e il fastidio causato dai senzatetto i temi più dibattuti. Ma questa campagna ha anche dei rischi: senza soldi per risolvere i problemi alla radice, tutto quello che si ottiene è spostare il problema due strade più in là. Intanto, chi ci guadagnerà da questa campagna rimane ancora da decidere. La sera dello scorso 11 gennaio, otto senzatetto sono stati sgomberati dai portici di piazza Vittorio, a Roma, a due passi dalla stazione Termini. Erano accampati lì da giorni, al riparo dell’unica piazza porticata della città, tra cartoni e coperte, di fronte alle saracinesche dei negozi chiusi per il lockdown. Pochi giorni prima, i giornali avevano riportato la notizia della morte di nove senzatetto a causa del freddo. A far intervenire polizia e carabinieri è stata una diffida inviata a comune, municipio e forze dell’ordine da un gruppo di abitanti della piazza che denunciavano “il degrado ormai a livelli di guardia e i rischi per la salute pubblica” raggiunto dall’area intorno alla piazza. La lettera, firmata da oltre 700 residenti, tra cui parecchi dai nomi illustri, come il regista premio Oscar Paolo Sorrentino, elenca dettagliatamente una serie di casi di spaccio, degrado e microcriminalità avvenuti a piazza Vittorio e nel resto del rione Esquilino. Non è chiaro se le persone sgomberate quella sera avessero a che fare con gli episodi denunciati nella lettera, ma prima di allontanarli i carabinieri li hanno sanzionati con un Daspo urbano. La multa per bivacco ammonta a cinquecento euro, come da ordinanza 2009 dell’ex sindaco Gianni Alemanno. A Roma si voterà per scegliere il nuovo sindaco il prossimo autunno. Con i reati in calo e un clima politico poco incline agli allarmismi sull’emergenza criminalità o immigrazione, questa stanca ed estiva campagna elettorale sembra che si giocherà sui temi sollevati dai residenti di piazza Vittorio: pulizia, decoro e degrado. Il rischio, è che in questa corsa a promettere una città più presentabile, il prezzo venga pagato dagli ultimi e i dimenticati, come i senzatetto sgomberati di piazza Vittorio. Microcosmo Esquilino - “Questo è quello che accade quando un’amministrazione comunale perde il controllo della città”, dice Giuseppe Longo, uno dei firmatari della diffida che ha messo in moto lo sgombero di Piazza Vittorio. Longo è un energico 57enne dai modi decisi e dalle idee chiare, conosciuto tanto dalla politica locale, “sono un rompicoglioni”, quanto dagli abitanti del quartiere. È stato lui, racconta, a convincere Paolo Sorrentino a firmare la diffida. La famiglia di Longo gestisce da due generazione la farmacia più antica del quartiere. Lui stesso lavora sotto i portici della piazza da quasi quarant’anni. La piazza e il quartiere che la circonda, il Rione Esquilino, sono un microcosmo dei conflitti che attraversano la città di Roma. Situato a due passi dalla stazione, l’Esquilino è un quartiere dove artisti, giornalisti, dirigenti pubblici e pensionati convivono a poche strade di distanza dalle comunità cinesi, bengalesi e nordafricane. Da decenni è una delle aree più problematiche del centro di Roma, ma negli ultimi anni ha vissuto un momento di rinascita, a cui ha contribuito anche la riqualificazione della piazza, diventata uno degli spazi pubblici più accoglienti della capitale, dove ogni giorno si possono trovare famiglie proveniente da una mezza dozzina di nazioni diverse. Ma la crisi economica, il Covid e il collasso dei servizi comunali, dalla pulizia delle strade ai servizi sociali, hanno fatto esplodere i contrasti latenti di questo quartiere così eclettico. Negli ultimi tempi, le denunce di una parte degli abitanti del quartiere, esasperati da sporcizia, piccolo spaccio e bivacchi di senzatetto, si sono moltiplicate. Per la destra è “invasione” - Longo potrebbe citare decine di questi episodi. Qualche tempo fa, ad esempio, insieme ad altri abitanti del quartiere, si è occupato di un ragazzo straniero che girava per il quartiere nudo, avvolto solo da una coperta e che inizialmente era così spaventato che mangiava nascosto nei cassonetti ed evitava chiunque cercasse di avvicinarsi. Non dovrebbe essere compito dei cittadini o delle associazioni di volontari occuparsi di queste situazioni, dice Longo: “Altrimenti perché pagheremmo le tasse?”. Longo dice che il quartiere non è rappresentato dai comitati vicini alla destra radicale, che parlano di “invasione” e della minaccia rappresentata dagli esercizi commerciali gestiti da stranieri. “Ci sono persone che non vogliono fare nulla per risolvere i problemi, anzi: li vogliono esasperare per farci sopra speculazioni politiche”. La maggioranza del quartiere, almeno quella italiana, la pensa come lui, sostiene. La sua farmacia ha un’insegna scritta in italiano, cinese ed arabo. Alle ultime elezioni ha votato Virginia Raggi, sperando nella sua promessa di cambiamento, ma ora apprezza molto il lavoro fatto dal primo municipio, guidato dal Pd. “Perché a queste persone a cui diamo il reddito di cittadinanza non facciamo pulire le strade?”, si domanda. Una proposta che circola da tempo e che di recente ha fatto sua anche Carlo Calenda, l’ex ministro che si è candidato da indipendente a sindaco di Roma. Ma il problema di queste proposte è che molti dei percettori del reddito di cittadinanza hanno già un lavoro oppure non sono in grado di lavorare. Dipendenze, disabilità o familiari disabili a carico sono tra i principali fattori che spingono le persone in povertà. Nemmeno gli sgomberi, però, sono la soluzione. I senzatetto sono stati semplicemente spostati qualche strada più in là, in via principe Eugenio. “La repressione ha questo limite, dura un po’ e poi si torna indietro”, dice quasi rassegnato. Alla domanda se il quartiere dove vuole vivere è un quartiere pulito, ma i cui problemi sono stati allontanati nell’isolato vicino, risponde che no, non è quello il posto dove vorrebbe vivere. Decoro e degrado - La situazione politica a Roma è cambiata da quando nel 2007 il segretario del Pd ed ex sindaco di Roma Walter Veltroni faceva la sua controversa dichiarazione sulle responsabilità dei cittadini rumeni per la criminalità in città. O da quando nel 2009, Gianni Alemanno vinceva una campagna elettorale in gran parte giocata sulle violenze sessuali perpetrate da stranieri. La criminalità, comune o organizzata, e la sicurezza dei cittadini che hanno dominato le ultime campagne elettorali in città oggi sembrano scomparse dall’agenda politica. Secondo un sondaggio realizzato lo scorso maggio, i romani mettono la sicurezza all’ultimo posto tra le loro priorità più urgenti. I candidati sindaci che si affrontano in vista delle elezioni comunali del 3 e 4 ottobre preferiscono parlare di sporcizia, di degrado e, soprattutto, di “decoro”. Mentre la sindaca Virginia Raggi posta sui social fotografie di vie rifatte e marciapiedi rinnovati, i suoi rivali pubblicano immagini di cassonetti pieni, strade buie e bivacchi di senzatetto. “Il discorso sulla sicurezza è diventato più politically correct rispetto a qualche anno fa - dice Vincenzo Carbone, docente di sociologia all’università di Roma Tre - Ma non sono cambiati i processi securitari che mette in moto”. Lo sgombero dell’Esquilino, spiega, è un caso da manuale di come a un problema di esclusione sociale e disagio sia stata data una risposta soltanto in termini di sicurezza e di forza di polizia. Carbone conosce bene l’Esquilino, dove lavora da anni e dove ha sede uno dei dipartimenti della facoltà di sociologia della sua università. A ottobre, ha curato una monografia di studi interamente dedicata al quartiere e ha passato mesi a intervistare i senzatetto e gli altri frequentatori della piazza. Tra loro c’erano persone come Svetlana, una cittadina ucraina che lavorava come badante a tempo pieno. Con l’arrivo del Covid, Svetlana è stata licenziata e all’improvviso si è trovata senza una casa dove dormire. Per due notti è stata una dei senzatetto di Piazza Vittorio. “L’Esquilino è un quartiere ricco, abitato prevalentemente da funzionari, pensionati, giornalisti e intellettuali - dice Carbone - Questa élite produce una visione del quartiere in cui non c’è spazio per una badante rumena senzatetto. L’élite vorrebbe vivere tra negozi della Galleria Alberto Sordi, non tra le strade sporche, in mezzo ai negozi cinesi e ai ristoranti etnici”. Carbone la definisce una “violenza simbolica percepita” che non necessariamente corrisponde a un aumento della violenza reale. Il numero di reati a Roma è in calo da anni e per abitante è inferiore a quello di Milano e Napoli. Roma è considerata una delle capitali più sicure d’Europa e l’Esquilino non è un rione particolarmente pericoloso rispetto agli altri. Non voler vivere nella sporcizia e chiedere che lo stato si occupi delle persone in difficoltà senza abbandonarle per strada sono richieste legittime da parte di qualsiasi cittadino, ma, si chiede Carbone, quali rischi si corrono a occuparsi di questa problemi senza occuparsi delle loro cause: “Come si possa parlare dell’Esquilino senza parlare del resto di Roma? Come si può parlare di senzatetto senza citare i requisiti del reddito di cittadinanza che escludono la gran parte degli stranieri più fragili? Non affrontare questi nodi, significa soltanto spostare il problema nella strada accanto”. Un concetto problematico - L’accusa di Carbone è la stessa che una parte della sinistra lancia da anni. Parlare di “ripristinare il decoro” è diventato un modo di occuparsi di una serie di problemi della nostra società senza risolverli alla radice, ma semplicemente eliminando alcuni sintomi molto visibili. “Il decoro urbano come categoria presenta dei rischi, sia sul tema dei diritti che su quelli dell’inclusione sociale, è un problema spesso citato nella letteratura sulle grandi città”, dice Giuseppe Ricotta, anche lui sociologo, ma all’università La Sapienza e specializzato nei temi della percezione della sicurezza. “I rischi sono la criminalizzazione di fenomeni non criminali: colpire con ordinanze e azioni repressive le persone ultravisibili in quanto marginali, ma invisibili per i diritti e per i servizi”. Decoro e sicurezza sono un tema centrale nella politica locale almeno dagli anni Novanta, quando, spiega Ricotta, il centrosinistra ha cercato di sviluppare un discorso pragmatico sulla sicurezza urbana. A partire dai sindaci dell’Emilia-Romagna dell’allora Pds, si è diffusa l’idea che la sicurezza fosse un tema “né di destra né di sinistra” e che all’insicurezza percepita dei cittadini bisognasse dare in ogni caso una risposta. Anche perché, era la giustificazione non infondata, della mancanza di sicurezza soffrivano proprio i più deboli, gli emarginati e le donne. La situazione, però, negli ultimi anni sembra essere andata fuori controllo. Con parole come degrado e decoro ormai si mettono insieme fenomeni diversissimi, che hanno cause e soluzioni differenti. Dalla movida notturna al problema dei senzatetto, dalla microcriminalità alla sporcizia nelle strade. Nel centrosinistra, la consapevolezza di questa situazione sta iniziando a farsi strada. “Non amo mettere il decoro insieme ai senzatetto”, dice Sabrina Alfonsi, presidente del primo municipio di cui fa parte l’Esquilino. Alfonsi è un esponente del Pd, il partito che controlla da decenni il centro di Roma e che ha un suo feudo storico proprio all’Esquilino. “Cassonetti vecchissimi, giardini incolti, cartoni dei negozi messi fuori. Questo è il decoro”. Alfonsi ammette però che come presidente di Municipio le sue competenze e le sue risorse sono limitate. Quando i cittadini si lamentano, soprattutto quando le lamentele provengono non dagli estremisti, ma da elettori, presenti o passati, del partito, la politica deve agire. Ma non è molto quello che può fare. A gennaio, la pubblicazione della diffida degli abitanti di piazza Vittorio ha portato a una riunione sulla sicurezza in prefettura, alla creazione di una commissione speciale al Municipio e poi l’intervento dell’11 gennaio. Dei senzatetto fermati, due hanno accettato l’aiuto della sala operativa sociale del comune. Tanto di loro quanto degli altri sei si sono presto perse le tracce. Il bivacco - Non sono problemi solo di Roma, ma nella capitale sono magnificati e particolarmente visibili. Il centro città invecchia e si spopola. Le persone sono sempre più sole e quindi spaventate. L’arrivo di persone diverse, spesso in condizioni economiche o sociali difficili, aumenta la tensione. Ma una politica senza soldi e spesso senza energie politiche da spendere, alla domanda di intervento interviene soltanto con l’azione repressiva. E in questo terreno la destra è molto più abile della sinistra e quando questi temi hanno incendiato il dibattito, è stata la destra a catalizzare il consenso. Come nel resto di Roma, anche all’Esquilino le forze politiche si preparano alla campagna elettorale. Ma chi avrà la meglio questa volta non è scontato. Lo scorso 8 luglio, alcuni comitati di quartiere vicini al centrodestra hanno convocato una manifestazione contro il degrado e a sostegno delle forze dell’ordine. La loro idea di città era chiara. Alexia, una dell’organizzatrici, ha gridato in un megafono che la situazione dell’Esquilino era divenuta insostenibile a causa di un comune concentrato sulle periferie e che si è dimenticato del centro. Insime a lei c’erano diversi consiglieri comunali di Forza Italia e Fratelli d’Italia, o aspiranti tali. CasaPound si è tenuta lontana e così i comitati di quartiere più estremisti. Quella mattina, Longo, il farmacista di piazza Vittorio, li prendeva in giro e pronosticava che sarebbero stati “quattro gatti”. Alla fine, non più di 150 persone hanno sfilato. Nel frattempo, sotto i portici di piazza Vittorio, un senzatetto è tornato a dormire. Questa volta non di fronte alle saracinesche e davanti ai passanti, ma sulla strada, nascosto tra un pilastro e un cassonetto stracolmo. Perugia. “Anche i piccioni hanno le ali”: il carcere visto con gli occhi della bellezza umbriaecultura.it, 8 agosto 2021 Tra immagini fotografiche e video “Anche i piccioni hanno le ali” animerà il centro storico di Perugia dal 7 al 30 agosto. A cura di Vittoria Corallo, l’iniziativa è nata nell’ambito di Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza, progetto promosso a livello nazionale da Acri, l’Associazione delle Fondazioni di origine bancaria e sostenuto da un nucleo di Fondazioni di origine bancaria, tra cui la Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, con l’obiettivo di tracciare un percorso che metta insieme le migliori esperienze di teatro in carcere presenti in diversi contesti territoriali, facendoli dialogare e diffondendo l’approccio anche a beneficio di altri contesti e operatori. Frutto della terza annualità del progetto, che in Umbria insieme alla Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia vede coinvolti il Teatro Stabile dell’Umbria e la Casa Circondariale di Capanne, “Anche i piccioni hanno le ali” è una prima restituzione del percorso creativo sviluppato nel 2021 dai detenuti-attori della casa Circondariale di Capanne grazie ad uno scambio epistolare con alcune persone che hanno risposto per partecipare a questa collaborazione artistica. Nonostante le difficoltà causate dall’emergenza sanitaria le attività non si sono fermate ed hanno portato alla produzione di una serie di scatti fotografici, protagonisti della mostra “Abito persona”, e di alcuni percorsi video riuniti sotto il titolo “Lenti”, che verranno disseminati tra le vie del centro storico di Perugia. “Abito persona”, allestita in collaborazione con l’Associazione Fiorivano le Viole nell’ambito di Perugia Art Festival organizzato dalla Confraternita Sopramuro, sarà visitabile sabato 7 e domenica 8 agosto in via Cartolari e in via della Viola alla presenza dell’artista Vittoria Corallo. Il percorso fotografico, che resterà aperto fino al 30 agosto, cerca di ascoltare la voce dell’abito, immaginandolo come una maschera quotidiana, segno della persona che amplifica l’identità, convenzione estetica della propria immagine e condizionamento visivo capace di definire il ruolo sociale dell’individuo. Ci sono abiti senza testa e volto, abiti riconoscibili che possono rimandare a contesti specifici, e abiti estranei all’immaginario comune, come se l’abito parlasse lingue diverse, alcune più comprensibili di altre. I passanti che incontreranno i ritratti fotografici, grazie alla presenza dell’artista Vittoria Corallo avranno la possibilità di registrare un racconto vocale sull’identità della persona che indossa l’abito, e le voci registrate saranno riprodotte lungo le vie. Inoltre in alcuni locali di piazza Matteotti con “Lenti” sarà possibile fruire dei video, visualizzabili con i codici QR, attraverso un’esplorazione visuale in cui il linguaggio simbolico incrocia lo spazio e il tempo urbano creando dei cortocircuiti. Lenti, come lenti di ingrandimento o lenti deformanti, si concentra sul concetto di condizionamento come forza a cui l’individuo non può sottrarsi, proponendo una visione espansa e rarefatta che richiede uno sguardo immersivo e invoca l’attenzione che si raccoglie durante una pratica teatrale che amplifica le percezioni, intensifica la rete connettiva dei corpi nello spazio e cambia il respiro del tempo. “Siamo profondamente soddisfatti - afferma la Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Cristina Colaiacovo - di essere riusciti a portare avanti la terza edizione di Per Aspera ad Astra nonostante le limitazioni dovute all’emergenza sanitaria. Abbiamo aderito al progetto perché siamo fermamente convinti del suo valore culturale ed umano e ringraziamo il Teatro Stabile dell’Umbria e la Casa Circondariale di Perugia per aver ancora una volta dato il loro prezioso contributo, grazie al quale anche quest’anno i detenuti-attori si sono messi alla prova traducendo la loro esperienza formativa in una serie di immagini fotografiche e video che, grazie all’iniziativa “Anche i piccioni hanno le ali”, potranno essere fruibili al pubblico esterno”. Referendum sull’eutanasia legale: “I Tg nazionali non informano sulla raccolta firme” di Luisiana Gaita Il Fatto Quotidiano, 8 agosto 2021 La denuncia dell’Associazione Coscioni. L’Associazione chiede all’Agcom di verificare il rispetto della sua stessa delibera datata 29 luglio 2021, atto di indirizzo “in materia di correttezza e completezza dell’informazione con riferimento alla raccolta firme per i referendum abrogativi in materia di giustizia e di eutanasia legale”. “I telegiornali nazionali non hanno ritenuto di dover continuare a informare debitamente circa le varie tappe della raccolta firme in corso, né di organizzare momenti di approfondimento esclusivamente dedicati alla tematica della legalizzazione dell’eutanasia nei pochi contenitori in onda durante l’estate”. È la denuncia dell’Associazione Luca Coscioni, che lo scorso aprile ha depositato in Corte di Cassazione il testo di un quesito referendario per la parziale abrogazione dell’articolo 579 del Codice penale. E che segnala all’Agcom quello che sta accadendo dopo il deposito del quesito e durante la campagna referendaria che ilfattoquotidiano.it promuove e alla quale ha dedicato una sezione ad hoc. L’Associazione chiede all’Agcom di verificare il rispetto della sua stessa delibera datata 29 luglio 2021, atto di indirizzo “in materia di correttezza e completezza dell’informazione con riferimento alla raccolta firme per i referendum abrogativi in materia di giustizia e di eutanasia legale”. Nel documento si ricorda che “tutte le trasmissioni di informazione (dai telegiornali ai programmi di approfondimento) devono rispettare rigorosamente, con la completezza dell’informazione, la pluralità dei punti di vista e la necessità del contraddittorio” e, al contempo, “ai direttori, ai conduttori, a tutti i giornalisti che operano nell’azienda concessionaria del servizio pubblico di orientare la loro attività al rispetto dell’imparzialità, avendo come unico criterio quello di fornire ai cittadini utenti il massimo, di informazioni, verificate e fondate, con il massimo della chiarezza”. Secondo l’associazione questo non sta accadendo, nonostante si tratti di “un tema che parla al vissuto delle persone e che, ove mai fosse ritenuto necessario discutere prevalentemente di temi popolari, gode del favore di percentuali intorno al 65% di chi è stato sondato professionalmente”. Da qui l’invito ad avviare “il monitoraggio necessario affinché i fornitori di servizi di media audiovisivi e radiofonici, pubblici e privati, assicurino nei programmi di informazione un’adeguata trattazione dell’argomento della raccolta delle firme per la promozione dei Referendum nel più rigoroso rispetto dei principi di pluralismo, obiettività, completezza ed imparzialità”. Proprio nei giorni scorsi il Comitato promotore del Referendum per l’Eutanasia Legale ha reso noto di aver superato con le sole firme raccolte ai tavoli (alle quali andranno aggiunte quelle raccolte nei Comuni) quota 320mila firme, delle 500mila necessarie per convocare il referendum. Ma “mentre in Spagna si inizia ad applicare la legge sull’eutanasia - ha denunciato il tesoriere dell’associazione, Marco Cappato - in Italia il Parlamento ha già insabbiato il testo di legge di recepimento della sentenza ‘Cappato-Antoniani’ pronunciata nel 2019 dalla Corte costituzionale sull’aiuto alla morte volontaria del 2019. Di fronte al menefreghismo assoluto che unisce i capi di tutti i ‘grossi’ partiti italiani, Salvini, Letta, Meloni, Conte, Grillo, Berlusconi - ha aggiunto - si sono mossi finora oltre 320mila cittadine e cittadini che hanno firmato il referendum per l’eutanasia legale”. Nonostante il “silenzio dei vertici partitici”, si sono invece mobilitati sindaci, assessori, parlamentari, esponenti locali e strutture di partito a livello regionale o cittadino. Sono almeno 78 i sindaci che hanno aderito alla campagna referendaria, tra cui Chiara Appendino (Torino), Virginio Merola (Bologna), Luigi De Magistris (Napoli), Federico Pizzarotti, (Parma), Leoluca Orlando (Palermo), Giuseppe Falcomatà (Reggio Calabria), Matteo Biffoni (Prato) Carlo Salvemini (Lecce), Gian Carlo Muzzarelli (Modena), 83 i consiglieri regionali, 704 tra consiglieri, assessori comunali, presidenti e vicepresidenti di circoscrizione. Tra i parlamentari hanno pubblicamente aderito 31 deputati e 9 senatori. Tre i rappresentanti del Governo Draghi: il viceministro delle Infrastrutture Teresa Bellanova, il sottosegretario all’Interno Ivan Scalfarotto e il sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova. Con i crimini informatici a rischio diritti fondamentali di Maria Elisabetta Alberti Casellati Corriere della Sera, 8 agosto 2021 L’azione dell’Europa decisiva per vincere la sfida. Fermare le minacce subdole. Bene l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale, è un primo passo. Caro direttore, a pochissime ore dalla scoperta dell’attacco informatico alla Regione Lazio, l’istituzione dell’Agenzia per la Cybersicurezza nazionale (Acn) è una bella notizia. Da domani avremo una risorsa strategica per fronteggiare minacce che attaccano il cuore delle nostre libertà e compromettono il buon funzionamento dei nostri servizi pubblici. È evidente che dobbiamo cambiare velocità nella lotta per contrastare efficacemente i crimini informatici. È una delle conseguenze della digitalizzazione di massa e quindi della digitalizzazione dei comportamenti criminali. Il cyberspazio è sempre di più il terreno dove si costruisce la ricchezza e la prosperità delle società post-industriali e si definisce la loro capacità di reagire a crisi globali come quella innescata dal Covid-19. Il nostro futuro condiviso sta già prendendo forma nelle infrastrutture digitali. Come per altri grandi cambiamenti della storia dell’umanità, però, anche la digitalizzazione può costituire la nuova arena della competizione per la supremazia. Può comportare quindi gravi rischi che vanno dalla sorveglianza di massa agli attacchi informatici verso infrastrutture critiche, fino alla disinformazione alimentata ad arte per alterare il dibattito politico. Così si mina la democrazia. Si tratta di minacce subdole che non hanno confini, né limiti, potendo investire tutti gli ambiti della nostra vita, sia quelli privati che quelli comuni, fino a toccare quelli più delicati e sensibili come i dati personali e la sanità. Quanto accaduto alla Regione Lazio è sicuramente una violazione molto grave dal punto di vista giuridico. Ma ancora più grave è il danno provocato ai tanti cittadini che, a causa della temporanea interruzione del servizio di prenotazione delle vaccinazioni contro il Covid-19, hanno visto fortemente compromesso l’accesso ad un servizio essenziale per il diritto alla salute, tutelato dall’articolo 32 della Costituzione. Per analogia, attacchi informatici a infrastrutture critiche rischiano di minare la tutela di altri diritti costituzionali. Basta accoppiare ad ogni infrastruttura critica un diritto garantito dalla nostra Costituzione e l’elenco diventa impressionante: un attacco alle ferrovie provocherebbe la sospensione parziale del diritto alla mobilità sancito dall’articolo 16 della Carta; un attacco ai sistemi informativi delle scuole e delle università comporterebbe la compressione del diritto allo studio (ex articolo 34 della Costituzione); un attacco alle banche dati provocherebbe una gravissima lesione del diritto alla riservatezza. E, purtroppo, l’elenco potrebbe continuare. L’Agenzia per la cybersicurezza nazionale è solo un primo passo di fronte all’entità della sfida. E qualsiasi sforzo il governo italiano o altri governi dovessero fare, appare evidente che, in un mondo segnato dalla competizione geopolitica per il primato tecnologico, è solo attraverso il multilateralismo che possiamo fare prevalere una visione di libertà e di responsabilità dei processi di digitalizzazione. In questa direzione si muove la visione per un “decennio digitale europeo” presentata a marzo dal vicepresidente esecutivo della Commissione europea, Margrethe Vestager, insieme all’Alto rappresentante per la Politica estera e la Sicurezza, Josep Borrell. Una visione che intende mettere l’Europa in prima linea nella rivoluzione digitale di oggi puntando sui valori di fondo delle nostre tradizioni costituzionali comuni: società aperte, stato di diritto e tutela delle libertà fondamentali. In questo approccio sta il valore e la forza della dimensione europea. Perché se i sistemi autoritari utilizzano le tecnologie digitali come strumenti di sorveglianza, repressione e concorrenza sleale, la democrazia europea ci consente di mettere il paradigma liberale, che ha plasmato il nostro cammino comune, al centro della digitalizzazione come sfida della contemporaneità Migranti. “Gli schiavi delle angurie sono ancora qui” di Biagio Valerio La Repubblica, 8 agosto 2021 Così nel Leccese il caporalato sopravvive alle leggi e ai controlli. E il Covid peggiora le cose. In Salento almeno mille migranti restano in balia degli sfruttatori. Anche il fiore all’occhiello dell’accoglienza, il campo di Boncuri, causa pandemia ha dovuto dimezzare la sua capienza lasciando nelle mani dei caporali la gran parte dei lavoratori. La lotta al caporalato è “zoppa”, nel distretto delle angurie. Trasporti e intermediazione del lavoro continuano ad essere nella zona d’ombra in cui operano i faccendieri con le istituzioni che fanno ancora fatica a inquadrare il fenomeno in una cornice normativa ed operativa, nonostante l’arrivo di centinaia di braccianti si ripeta sin dagli anni Ottanta. Risolto quasi del tutto il problema del vitto ma non grazie ai “laici”: è la Chiesa locale, attraverso una mensa sostenuta anche con fondi pubblici (l’anno scorso persino attivata dentro il campo di Boncuri, l’unico attrezzato per l’ospitalità dei braccianti in provincia) e gestita da associazioni afferenti alla Caritas diocesana a fornire il servizio. L’area pianeggiante tra Nardò, Leverano, Copertino, Galatina, Veglie, Aradeo e Porto Cesareo è interessata da oltre duemila ettari di terreno destinati alla coltivazione intensiva. Il centro neritino, denominato in passato Anguria City, rappresenta la “capitale” della produzione con circa 1500 ettari pari a duemila e duecento campi da calcio grandi quanto San Siro. Gli addetti alla raccolta (molti dei quali si trattengono anche per ortaggi e pomodori) si stima siano tra mille e duemila ma è impossibile un censimento attendibile. Le aziende agricole e di trasformazione e spedizione nei mercati di tutta Europa, soprattutto centrale e settentrionale dove il prodotto “Anguria di Nardò” è richiestissimo, sono diverse centinaia. Intorno a questo fenomeno, che ha iniziato a crescere alla fine degli anni Ottanta e poi è diventato la locomotiva dell’economia di queste terre affacciate sullo Ionio, sono nati servizi necessari per dare sostegno a centinaia di lavoratori, i cosiddetti “migranti delle angurie”, braccianti specializzati che girano l’Italia (soprattutto Campania, Puglia e Sicilia) per cercare lavoro. Che a volte non si trova. Perciò i lavoratori restano in balia di faccendieri. In città sono diverse le “cartine di tornasole” che dimostrano questi numeri. La mensa della comunità della Caritas è una di queste: l’anno scorso, dal primo gennaio al 21 settembre (momento in cui l’emergenza si attenua), sono stati erogati 40.473 pasti, quasi il doppio dello stesso periodo del 2019. Gli stranieri assistiti dalla mensa sono praticamente raddoppiati (dai 7mila pasti nel 2018 e gli 8mila del 2019 agli oltre 16mila di questo “parziale” del 2020) mentre la provenienza ricalca esattamente la nazionalità dei braccianti impiegati in agricoltura, provenienti da 36 nazioni tra le quali spiccano Sudan, Tunisia, Mali, Marocco, Senegal, Costa D’Avorio, Burkina Faso, Gambia, Guinea. Si tratta di un servizio prestato dalla Chiesa che ha sgominato una delle attività principali dei caporali, quella del pasto quotidiano. Gli intermediari arrivavano a chiedere due euro soltanto per una bottiglietta d’acqua. In passato, invece, sempre queste persone, in genere cittadini nordafricani con buona conoscenza del territorio, offrivano servizi all’aperto, sotto i ponti del canale Asso (un corso d’acqua che attraversa parte della provincia di Lecce) o in casette diroccate, cucinando per i lavoratori. Un altro business è sicuramente quello dei trasporti, da e per il luogo di lavoro dei raccoglitori (cinque euro a viaggio), che le istituzioni, nonostante diversi tavoli tematici che si susseguono ogni anno, non sono riusciti a debellare del tutto con un servizio pubblico. La pista ciclabile per “avvicinare” il campo alla città, prevista in contrada Mangàni, per ora è rimasta sulla carta e forse in autunno si farà la gara per affidare le opere che consistono in segnaletica e illuminazione. L’importo consentirebbe anche la pavimentazione del campo e la costruzione di marciapiedi. Finanziata dal Ministero dell’Interno con 500mila euro, l’opera appare intonata con le esigenze del “popolo delle biciclette”, come venne definita la comunità dei braccianti in occasione del funerale di una giovane donna nigeriana morta a Nardò probabilmente per una grave infezione. Quel giorno la piazza della cattedrale, durante il funerale della donna, diventò un enorme parcheggio di biciclette. I braccianti utilizzano la bici come principale o esclusivo mezzo di spostamento ma attraversare la pericolosa bretella di collegamento con la statale 101 è veramente una impresa difficile, soprattutto di notte. Questa lontananza effettiva del campo di Boncuri dal centro abitato ha trasformato il campo in una sorta di ghetto autosufficiente, terreno fertile anche per i caporali o quanti approfittano di questa situazione. Ridurre le distanze, anche fisiche, è la premessa di una nuova socialità. La grande nebulosa, però, è ancora quella del procacciamento del lavoro. E qui interviene la Cgil che da diversi anni ha un punto di osservazione privilegiato proprio dentro il campo allestito in località Boncuri dalla Regione Puglia per la prima volta nel 2017. Una struttura con 80 container climatizzati e servizi comuni, con vigilanza e presidio medico sanitario e assistenza. La foresteria è provvista di bagni, docce, spazi comuni, ambulatorio medico ed uffici per attività burocratiche e sindacali. Il Covid, però, ha tirato un piano al progetto perché l’ospitalità del campo è stata ridotta da 400 persone a meno della metà con una nuova e conseguente dispersione degli ospiti nelle campagne o in alloggi di fortuna, comunque non monitorati. Quest’anno, mediamente, sono stati 150. E gli altri dove finiscono? Quali servizi utilizzano? Da due anni le attività del campo sono coordinate, in maniera molto efficiente, dalla Croce rossa italiana. “La novità di quest’anno - spiega Monica Accogli, segretaria generale della Flai Cgil Lecce - è che oltre alla registrazione si richiede il tampone a tutti gli ospiti. Si accede al campo solo con regolare contratto in essere o iscrizione nelle liste dell’ufficio del lavoro. Ma, nonostante il modello che Nardò ha messo in piedi negli ultimi anni sul piano dell’accoglienza - di concerto con Prefettura, istituzioni, sindacati, associazioni datoriali e del Terzo Settore - la piena integrazione di questi giovani braccianti è ancora un miraggio. Non tutto quel che è previsto dalla legge 199 del 2016, per contrasto del caporalato e dello sfruttamento di questa manodopera, è stato applicato. Ad esempio, la realizzazione della rete del lavoro agricolo di qualità è ancora in alto mare, visto che sono solo cinque le aziende agricole salentine ad aver aderito alla Rete. Il dialogo tra gli enti interessati che dovrebbe portare alla Sezione territoriale del lavoro agricolo, istituita nel 2019, è balbettante. Dal punto di vista normativo non c’è più nulla da inventare, bisogna solo applicare la legge, far funzionare la rete istituzionale, rispettare il Contratto provinciale di lavoro”. Una situazione che esiste da quarant’anni e per la quale si parla ancora di emergenza. “Pensiamo ad un fatto - conclude Accogli - e cioè che esista ancora il tavolo prefettizio che si riunisce per fronteggiare l’emergenza, nonostante questo fenomeno sia noto da anni, ed ogni anno si ripete. Considerarlo ancora un evento straordinario è impensabile: è l’ora che tutti gli ingranaggi di questa rete funzionino correttamente. I nodi da sciogliere ci sono ancora e riguardano mercato del lavoro e quindi reclutamento della manodopera e trasporti: nonostante le promesse di impegno, non si riesce a venirne a capo”. Migranti. Al confine tra sofferenza e rabbia di Elena Stancanelli Il Dubbio, 8 agosto 2021 È come un videogioco e infatti lo chiamano il “game”. I migranti devono camminare, nuotare, arrampicarsi, strisciare a terra, devono muoversi da soli, in gruppo, con le famiglie. I migranti a volte sono bambini, neonati, a volte sono anziani. Devono superare i muri, non affogare in mare, evitare le guardie, schivare i colpi dei bastoni e le pallottole. A volte vengono fermati e devono trascorre un po’ di tempo in qualche luogo di detenzione altre vengono rispediti al punto di partenza. Ma qualunque cosa accada loro vanno avanti, ripartono, non si fermano. Non hanno altra scelta, non possono cambiare idea: devono andare avanti, semplicemente. Una, due, cento, mille volte fin quando non ci riescono. Le nostre vite sono piene di cose, di pensieri, di opportunità e fallimenti, le loro hanno un unico obiettivo: attraversare il confine, venire di qua. La rotta balcanica passa per la Grecia, la Macedonia la Serbia la Croazia, la Slovenia e l’Austria… ci vogliono settimane, mesi, stagioni diverse, giorni e notti che sono una ordalia. L’ultima tappa prima di entrare in Italia è il Carso. Lo si passa al buio, e in fondo c’è Trieste. I migranti, in questa loro lotta mostruosa contro la natura e le nazioni che li respingono, fanno tutto quello che possono col poco che hanno a disposizione. Amici o nemici che siano tra loro - afgani, pachistani, siriani, iraniani - si passano, per quanto è possibile, le informazioni. I boschi intorno a Dolina, sopra la Val Rosandra, nel Carso triestino, sono diventati, negli anni, una tappa, un livello da superare: il luogo di una prova. Che consiste nel travestirsi in modo da rendersi invisibili, somigliare il più possibile a noi, gli italiani, quelli che dovranno confondere per evitare di essere riconosciuti e fermati, o rimandati indietro. Di notte, in quel bosco, i migranti abbandonano quello che sono stati fino a quel momento, gli abiti stracciati dal viaggio, le bibite con marchi diversi da quelle che beviamo noi, le coperte con le sigle delle onlus incontrate nei campi profughi, gli zaini. Le scarpe soprattutto, distrutte come quelle dei soldati dopo le marce peggiori. La loro identità. Sanno che quello è il confine, tra la loro vita precedente e quello che devono fingere di essere per poterla cambiare, cercare un lavoro, proseguire il cammino verso nord e raggiungere amici o parenti. In quel limbo buio si trasformano. Le spoglie della vecchia esistenza rimangono lì, come la pelle del serpente, e servono da indicazione a chi arriverà dopo di loro. Resta a terra nei boschi di Dolina tutta quella sofferenza incrostata negli abiti, negli oggetti. Dove trovano il nuovo abbigliamento, il costume da cittadino italiano modello, lo avranno portato con sé per tutto il viaggio? Oppure altri di loro che ce l’hanno fatta nascondo nel bosco per loro magliette, pantaloni, scarpe Forse anche qualche italiano di buon cuore li rifocilla e li prepara per la nuova sfida. Di certo quel che resta nel bosco, le vecchie cianfrusaglie, scompaiono, finiscono nella spazzatura. Nessuno di loro potrà mai tornare in quei panni. Non per molto tempo, non fino a quando il game non sia finito. Allora, quando si saranno finalmente sistemati, saranno diventati degli ircocervi, mezzi noi e mezzi quello che hanno lasciato nel bosco. E molta, molta giustificata rabbia nel mezzo. Migranti. La Germania nega respingimento in Italia: “Rischiano trattamenti inumani” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 8 agosto 2021 La decisione dell’Alta Corte amministrativa del nord Reno-Westfalia per 2 richiedenti asilo. Il 20 luglio scorso l’Alta Corte Amministrativa del Nord Reno Westfalia, in Germania, ha emesso due sentenze che aprono uno scenario a tratti inedito e dipingono un quadro non certo edificante, a dir poco, per quanto riguarda la politica sui richiedenti asilo dell’Italia. La decisione dei giudici tedeschi riguarda due cittadini stranieri (un maliano e un somalo) arrivati in Germania dopo aver fatto domanda di protezione internazionale sul suolo italiano. Per l’Alta Corte i due rifugiati non possono essere rispediti in Italia perché rischierebbero “un trattamento inumano e degradante”. Parole chiare che sottolineano alcune criticità e segnalano problematiche ben più complesse. Per il Tribunale amministrativo infatti - si legge nel comunicato del Land - “i richiedenti asilo e i beneficiari di protezione che si sono trasferiti dall’Italia in Germania e non hanno prospettive di alloggio e lavoro (in Italia ndr.) non posso essere ritrasferiti”. I due cittadini, un somalo, già titolare di protezione in Italia, e uno proveniente dal Mali che aveva anch’esso chiesto asilo a Roma. Le loro domande di protezione in terra tedesca sono state giudicate non respingibili perché “sussiste il grave rischio che in caso di rientro in Italia, i loro bisogni più elementari non vengano soddisfatti a lungo termine”. Il Tribunale della Renania Nord- Westfalia ha così respinto la richiesta di inammissibilità portata avanti da altri Corti ma di rango inferiore, il Tribunale amministrativo di Munster e quello di Minden, accogliendo i ricorsi dei due rifugiati. L’Ufficio federale per la migrazione e i rifugiati tedesco aveva infatti respinto la domanda di protezione internazionale del somalo proprio perché già concessa. Contestualmente i giudici di Munster avevano motivato la loro decisione affermando che i beneficiari di asilo in Italia hanno (avrebbero) diritto a vivere per sei mesi nei centri di accoglienza e inoltre possono accedere ai bandi per l’assegnazione di case popolari. Allo stesso modo non gli è precluso il mercato del lavoro e godrebbe delle prestazioni sociali. Secondo la Corte di Munster poi il cittadino somalo, che è giovane e in buone condizioni di salute, non sarebbe minacciato da difficoltà materiali estreme e, anche in mancanza di sostegno da parte dello stato, potrebbe cercare un’attività retribuita e a occuparsi del proprio sostentamento. Diversa invece la situazione dell’uomo arrivato in Europa dal Mali. La Corte di Minden infatti aveva ritenuto inammissibile la sua richiesta di asilo in Germania perché il cittadino africano aveva già iniziato la stessa procedura in Italia e dunque la competenza sull’eventuale accoglimento spettava a Roma. In ogni caso il Tribunale amministrativo della città della Renania aveva riconosciuto che il maliano aveva diritto in ogni caso a portare avanti la sua azione in quanto “in Italia all’attore sarebbe stato sottratto il diritto all’alloggio tramite una procedura standardizzata e regolarmente eseguita; egli non avrebbe i mezzi economici sufficienti per guadagnarsi da vivere, né avrebbe in Italia dei conoscenti, che possano sostenerlo, né troverebbe in Italia un lavoro che gli avrebbe dato un adeguato reddito per finanziarsi un alloggio dignitoso e le condizioni elementari di sopravvivenza”. Da tutto ciò il ricorso dei due richiedenti asilo e il dispositivo emesso dall’Alta Corte: “Le domande di asilo presentate dagli attori non possono essere respinte come inammissibili, poiché nel caso venissero rimpatriati in Italia, correrebbero il serio rischio di esser sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. I ricorrenti in Italia si troverebbero in una situazione di estremo bisogno materiale, indipendentemente dalle loro volontà e dalle loro decisioni personali, in quanto per un periodo prolungato non troverebbero alloggio e lavoro. Entrambi i ricorrenti in caso di rientro in Italia non avrebbero accesso a una struttura di accoglienza e alle misure di sostentamento collegate”. Tutto dipende in realtà dal Decreto Salvini del 2018 che limitava fortemente i diritti dei titolari di protezione internazionale. Sebbene nel 2020 sia stata in parte modificato, la parte riguardante la decadenza dell’alloggio in un centro di accoglienza rimane valida. Lo dimostra il fatto che negli ultimi lo stato italiano abbia applicato tale norme vessatorie in almeno 100mila casi. Ci si trova dunque di fronte al paradosso che chi non presenta particolari condizioni di vulnerabilità, come famiglie con figli o malati, non ha diritto all’assistenza alloggiativa dello stato se non in maniera estremamente temporanea. Anche per quanto riguarda le case popolari la situazione è estremamente difficile per i titolari di asilo in quanto la partecipazione ai bandi è possibile solo dopo un soggiorno sul territorio italiano di diversi anni. Tutte condizioni che i rifugiati difficilmente riescono a soddisfare. Migranti. Lesbo, il destino incerto dei profughi che l’Europa non vuole vedere di Roberto Zuccolini Corriere della Sera, 8 agosto 2021 Gli sbarchi in Grecia sono scesi dai 50mila di due anni fa ai poco più di mille di quest’anno, è il momento ideale che trovare soluzioni vere. “Moria 2”, “New Kara Tepe” (che vuol dire collina nera), “Mavrovouni”. Nella perenne incertezza di questo Purgatorio ai confini tra l’Europa e il mondo, ognuno lo chiama come vuole. Tanto a che serve saperlo? Non ne parla più nessuno e nessuno sa esattamente quale sarà il destino delle 4.200 anime che lo abitano, alcune da oltre due anni. Eppure, è il campo profughi che negli ultimi anni ha reso nuovamente famosa Lesbo, isola greca a 7 chilometri dalle coste turche. Tanto da contendere il primato dei migranti sbarcati a Lampedusa, da ricevere la visita di Papa Francesco, da subire un devastante incendio nel settembre scorso, da suscitare il miraggio di una nuova vita a migliaia di uomini e donne del Sud del mondo, negata però tragicamente ai troppi che non ce l’hanno fatta, come il piccolo Alan Kurdi, morto a 3 anni sulla spiaggia della turca Bodrum prima che partisse il suo gommone. Una foto che fece il giro del mondo ma che ormai è archiviata. Eppure ancora oggi a Lesbo, quasi dimenticato, c’è il più grande campo profughi d’Europa. Chi se ne ricorda nel vecchio continente in questi giorni di Olimpiadi, variante delta e rinascenti litigi politici, in Italia, all’inizio del semestre bianco? Loro sono ancora là, destinati a restarci fino a nuovo ordine: per lo più afghani, la nazionalità più rappresentata, ma anche tanti africani, soprattutto somali, congolesi, togolesi, camerunesi. Tutti provenienti dalla Turchia, le cui coste sono talmente vicine da riconoscere le case quando il cielo è limpido. Siriani? Pochissimi ormai, perché l’accordo con Erdogan ha stabilito che il suo Paese sia per loro un approdo sicuro e quindi vengono bloccati in partenza o rimandati indietro. Dai 20 mila, cifra raggiunta poco più di un anno fa nel vecchio campo di Moria, che ospitava ripari di fortuna in un’enorme distesa di ulivi, si è scesi alla più gestibile cifra di 4.200, tutti censiti, in tende e tendoni (ora numerati) oppure container in cui è arduo sopravvivere quando il termometro segna 40 gradi all’ombra. Tra i rari amici, che si sono ricordati di loro, i 250 volontari della Comunità di Sant’Egidio, giovani e adulti provenienti da tutta Europa, che da metà luglio alla fine di agosto, hanno scelto di passare qui, a turno e a loro spese, una parte delle vacanze. Hanno montato la Tenda dell’Amicizia, rossa, ben visibile, proprio accanto al campo profughi, dove - grazie ad un accordo con le autorità greche - si invitano afghani e africani a mangiare, finalmente seduti attorno ad un tavolo e dove la mattina i loro bambini possono giocare, studiare e fare altre attività (si chiama “Scuola della Pace”) senza essere costretti a sedere per terra fra la polvere e il caldo insopportabile. Poco più in là ci sono altri gazebo dove gli adulti imparano l’inglese, lingua che serve come il pane per il loro futuro. In altre parole si offre dignità, diritto universale che dovrebbe essere garantito sempre e a tutti. Si offre l’Europa. Invasione di profughi? Difficile ormai sostenerlo: gli ospiti del campo sono un quinto rispetto ad un anno e mezzo fa e la situazione appare, per tanti aspetti, “sotto controllo”. I problemi però restano gli stessi. Forse perché si pensa (ma è filosofia europea) che la cosa migliore sia contenere il fenomeno, non gestirlo offrendo risposte adeguate. Si pagano i turchi, si costruiscono nuovi hotspot anche in altre isole greche, con i fondi europei, ma difficilmente si trovano vere soluzioni. Per lo più rinvii o delocalizzazioni di difficoltà, “grane” che è meglio scaricare, a turno e vicendevolmente, su altre autorità o altri Paesi. E pensare che per l’Europa sarebbe il tempo opportuno per agire: basta sapere che gli sbarchi in Grecia sono scesi dai 50 mila di due anni fa (35 mila solo a Lesbo) ai poco più di mille di quest’anno, l’ideale quindi per trovare risposte a persone che fuggono da guerre o condizioni di vita insostenibili nei loro Paesi di origine. Si preferisce invece restare prigionieri dell’incertezza, dettata da regole che non riescono a sbloccare la situazione. Una soluzione per un gruppo di loro c’è già stata e resta ancora aperta. Si chiama Corridoi Umanitari, nella versione di una relocation offerta in Italia da Sant’Egidio e avviata, in questo caso, dallo stesso Papa Francesco, che affidò alla Comunità i profughi portati via da Lesbo, direttamente con il suo aereo, alla fine della sua visita, il 16 aprile 2016. Il patto ottenuto recentemente con le autorità italiane è per 300 persone, una via sostenibile perché si basa sull’integrazione: volontariato, società civile che organizza l’ospitalità, iscrizione a scuola dei minori, aiuto per l’inserimento nel mondo del lavoro una volta ottenuto lo status di rifugiato. Il tutto a spese proprie e non a carico dello Stato. Un modello che è riuscito a integrare in Europa - in Italia, Francia, Belgio e Andorra - oltre 3.700 profughi provenienti da aree critiche del mondo come la Siria e il Corno d’Africa. Replicabile, certamente. Ma ci sarebbero anche altre soluzioni, come prevedere ingressi regolari - attualmente, di fatto, inesistenti - in un’Europa che ne avrebbe estremo bisogno anche per la sua economia, nonché per i servizi alla persona: chi si è occupato, se non gli stranieri, dei nostri anziani in questo tragico tempo di pandemia? Non dimenticare Lesbo vuol dire oggi non dimenticare l’Europa. Bosnia Erzegovina. “Negare Srebrenica è reato”. Scontro sulla memoria di Alessandra Briganti Il Manifesto, 8 agosto 2021 Dopo la decisione dell’Alto rappresentante Onu. Nell’ufficio della procura in Bosnia-Erzegovina sono piovute ventidue denunce in dieci giorni, tutte contestano lo stesso reato: aver negato il genocidio di Srebrenica. La prima è stata sporta da Camil Durakovic, ex sindaco della cittadina, teatro della più aberrante pagina che sia mai stata scritta nella storia del secondo dopoguerra in Europa, contro Branimir Djuricic, giornalista dell’emittente pubblica della Republika Srpska (una delle due entità di cui è composta la Bosnia-Erzegovina, a maggioranza serba, ndr). Da appena un giorno era entrata in vigore nel Paese la modifica al codice penale voluta dall’Alto rappresentante dell’Onu, Valentin Inzko, che prevede la reclusione da 3 mesi a 5 anni per chi nega il genocidio di Srebrenica e glorifica i criminali di guerra, che essi siano serbi, croati o bosniaco-musulmani. Per la prima volta dopo più di decennio il “guardiano dei trattati di pace”, figura prevista dagli accordi di Dayton che misero fine alla guerra degli anni Novanta, è ricorso nuovamente ai cosiddetti poteri di Bonn per imporre una legge nel Paese, concludendo quello che era stato un tacito accordo della comunità internazionale: interferire il meno possibile negli affari interni, lasciando che il Paese camminasse - dentro gli accordi di Dayton - con le proprie gambe. Dopo 12 anni, a fine mandato, Inzko ha ammesso che il calcolo era sbagliato: le fondamenta dello Stato erano ancora troppo fragili, il processo di riconciliazione, appena iniziato, non era ancora maturato. La diffidenza alimentata dalla retorica nazionalista ha preso il sopravvento sulla condivisione della memoria e questo non ha fatto altro che approfondire ancor di più le divisioni create dalla guerra. La riprova del fallimento del processo di riconciliazione sta nella stessa necessità di un intervento esterno per porre un argine ai deliri nazionalisti che negano un’evidenza storica, con il rischio per di più che questi stessi deliri siano amplificati piuttosto che ridotti. Da una parte, infatti, l’introduzione del reato ha portato a un beneficio immediato: non solo sono iniziate a fioccare le denunce, ma anche il linguaggio sui social è stato più contenuto. Quando è stata annunciata la decisione di Inzko, il portale di giornalismo investigativo BIRN ha contato 70 post negazionisti su Twitter, un numero calato drasticamente nei giorni successivi all’entrata in vigore del provvedimento, appena 4 dopo una settimana. A livello istituzionale e politico, invece, la reazione dei rappresentanti della Republika Srpska è stata violenta e quel che è peggio, compatta. Dapprima maggioranza e opposizione hanno minacciato il blocco delle istituzioni, dopo hanno approvato insieme una legge per impedire l’applicazione del divieto nell’entità a maggioranza serba. “Chiedo a tutti in RS di riferire agli organi di polizia competenti qualsiasi informazione su possibili azioni della SIPA (polizia di stato bosniaca) o dei servizi di intelligence”, ha tuonato il membro serbo della presidenza tripartita, Milorad Dodik, che ha definito la decisione di Inzko “l’ultimo chiodo sulla bara della Bosnia-Erzegovina”. Solo poche settimane fa, il sindaco di Banja Luka e leader dell’opposizione serbo-bosniaca, Draško Stanivukovic, aveva incontrato nel capoluogo della RS la sindaca di Sarajevo, Benjamina Karic. L’abbraccio tra i due leader della generazione del dopoguerra aveva aperto un timido spiraglio per rimettere in moto quel meccanismo interrotto dieci anni fa. Quello spiraglio sembra quanto di più lontano ora che l’opposizione si è allineata alla maggioranza, facendo cadere l’ennesima maschera di un cambiamento mai realmente maturato. A gettare benzina sul fuoco anche il presidente della Serbia, Aleksandar Vucic e del ministro degli Esteri croato Grlic Radman, che hanno espresso delle perplessità sulla decisione dell’Alto rappresentante e sulla sua stessa figura, definita da Radman un “relitto del passato”. E d’altronde l’elezione del successore di Inzko, Christian Schmidt, è stata duramente contestata da Mosca che in una sessione del Consiglio di Sicurezza Onu ha cercato di impedire la nomina con l’obiettivo di cancellare del tutto l’istituzione e magari spianare la strada a una definitiva implosione della Bosnia. Stati Uniti. Slahi, sopravvissuto a Guantánamo per raccontare una favola pacifista di Angiola Codacci-Pisanelli L’Espresso, 8 agosto 2021 Quattordici anni in carcere senza processo, tra abusi e torture. Poi la libertà, un film e adesso un libro. La nuova vita di “The Mauritanian”. Senza rancore. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia della cultura araba. Cosa fai quando riesci a uscire da Guantánamo, quando sopravvivi a 14 anni di carcere ingiustificato, di abusi e di torture? Come esci dalla spirale di odio e rancore che minaccia di travolgerti? Mohamedou Ould Slahi ci è riuscito scrivendo una favola. Una favola che in realtà promette di essere realistica, a partire dal titolo: “The Actual True Story of Ahmed and Zarga”, cioè “La storia proprio vera di Ahmed e Zarga” (lo pubblica Ohio University Press nella collana Modern African Writing). Il nome di Slahi forse non dice molto, perché è più conosciuto come “The Mauritanian”, dal titolo del film tratto dal suo diario di prigionia, “Guantanamo Diary”. Un film Prodotto da Benedict Cumberbatch e firmato da Kevin Macdonald. Jodie Foster interpreta l’avvocato che ha cercato per anni di tirare fuori l’uomo, accusato del tutto ingiustificatamente di essere uno dei mandanti dell’attentato dell’11 settembre: un ruolo che sembrava scritto su misura per lei e che in fatti le è valso un Golden Globe come migliore attrice. Nei panni di Slahi invece c’è Tahar Rahim, attore franco-tunisino già protagonista del “Profeta” di Jacques Audiard. Molto apprezzato negli Usa ma ostacolato dalla pandemia per le uscite nel resto del mondo, “The Mauritanian” è da poco arrivato su Amazon Prime Video. Nel libro, firmato con lo scrittore e attivista per i diritti umani Larry Siems (dirige il Knight First Amendement Institute e ha appena pubblicato “The Torture Report: What the Documents Say About America’s Post-9/11 Torture Program”), Slahi dà prova di quella serenità che ha convinto Macdonald che valesse la pena di impegnarsi per girare un film su di lui, e del buonumore che gli ha permesso di sopravvivere alla sua disavventura senza rovinarsi la vita e senza inaridirsi. Un carattere unico che lo ha portato a diventare amico di uno dei suoi carcerieri, come racconta un breve documentario prodotto dal Guardian, “My brother’s keeper”. Del resto, come Slahi ha detto riguardo ai film americani che gli venivano proposti a Guantanamo (una strategia “soft” per far apprezzare i valori occidentali ai detenuti sospettati di essere terroristi islamici), il suo preferito era il fantozziano “Grande Lebowski”: “Perché lui viene confuso con un altro che ha il suo stesso nome e questo lo porta attraverso grandi problemi, dolori e confusione, nessuno gli crede. Era proprio la mia storia”. La storia “proprio vera” di Ahmed e Zarga invece è del tutto differente. La trama è semplicissima: il cammelliere beduino Ahmed parte in cerca di un cammello perduto, ed per ritrovarlo dovrà affrontare una quantità di prove e di pericoli: quelli del deserto, della superstizione, ma anche quelli causati dalla cattiveria umana. Che tutto quello che racconta sia vero, il narratore lo garantisce perché lo ha saputo da sua sorella “che l’ha sentito da Zia Aisha, la nostra vicina, che sa tutto sulle nostre tradizioni, che conosce tutte le storie dei beduini e del grande Califfo Harun al-Rashid, e di come lui costruì il suo giardino pensile sulla riva del mare alla fine del mondo. Si dice, e lei non lo nega, che sia una discendente diretta di Shahrazad...”. Figlio nipote e pronipote di cammellieri, Ahmed non sa quanti siano i suoi cammelli, perché contarli porta sfortuna. Ma li conosce tutti, uno per uno. Quindi si accorge subito quando sparisce Zarga, quella cammella di due anni e mezzo che si chiamava con una parola che in arabo vuol dire blu perché, spiega con sicurezza, “era un cammello blu, cioè con il mantello nero chiazzato di bianco”. Partire alla sua ricerca significa entrare nel mondo delle leggende beduine: un mondo di miraggi e di presagi, di spiriti e magia (“hajjaba” beduine, “grigri” senegalesi...) ma anche di rischi più concreti: la disidratazione porta alla follia, il morso dei serpenti alla morte. Lungo il cammino, fanno compagnia ad Ahmed meditazioni filosofiche sulle meraviglie, i rischi e le lezioni della vita dei beduini, e divagazioni religiose che presentano al lettore una versione dell’Islam tipica dell’Africa occidentale. Un Islam intimamente pacifista, contrario non solo a ogni violenza ma ad ogni resistenza al destino - che sia l’invasione francese, il morso di un serpente o l’aggressione dei predoni. Un Islam insomma lontano anni luce da quello che gli americani hanno cercato di combattere a Guantanamo. Il ritratto della vita quotidiana nel deserto è l’idillio di chi non chiede di meglio che vivere come hanno fatto suo padre e suo nonno, e prima di loro padri e nonni e indietro così fino ai tempi del Profeta, in una tradizione che nessun progresso potrebbe migliorare (con l’unica eccezione di coltellini svizzeri e unguenti cinesi). Anche quando spera una vita migliore per suo figlio Abdallahi, Ahmed non vuole per lui “una vita diversa”, ma solo che possa studiare meglio il Corano e il diritto malakita: “neanche lui sarebbe andato alla scuola francese”, assicura Ahmed, perché sua nonna era stata chiara: “Dire una sola parola in francese significava che per quaranta giorni le sue preghiere non avrebbero avuto effetto”. Il rapporto con i francesi porta all’altro tema inevitabile di una storia ambientata in Mauritania: l’influenza delle potenze occidentali. Da pochi cenni sparsi in questo breve libro nasce un ritratto inedito delle ingerenze del colonialismo e del post-colonialismo che partono dall’indicazione dei confini, un’imposizione del tutto innaturale per popolazioni nomadi del deserto. Come Slahi ci fa ricordare, i limiti tra Mauritania, Senegal e Marocco sono un’invenzione europea, disegnata senza nessun riguardo non solo per la storia e le tradizioni locali, ma nemmeno per la geografia. “Afghanistan come la Siria”. L’Onu teme per civili e migranti di Giuliano Battiston Il Manifesto, 8 agosto 2021 Servono aiuti per 18,5 milioni di persone, ma Ue e Usa si preoccupano solo dei loro cittadini. I Talebani conquistano un altro capoluogo di provincia al confine con il Turkmenistan. I Talebani conquistano un secondo capoluogo di provincia, mentre la rappresentante speciale dell’Onu per l’Afghanistan parla con preoccupazione di “una nuova fase, più sanguinosa e drammatica” del conflitto, simile a quanto già visto in Siria e molti anni prima a Sarajevo. Sono notizie particolarmente drammatiche quelle che arrivano dal Paese centro-asiatico a tre settimane dal ritiro completo delle truppe americane, previsto entro la fine di agosto. Dopo aver conquistato venerdì Zaranj, capoluogo della provincia di Nimruz, al confine con l’Iran, ieri i Talebani hanno annunciato la conquista di un altro capoluogo. Si tratta di Shiberghan, nella provincia settentrionale di Jawzyan. Le truppe e le autorità governative si sono asserragliate nell’aeroporto cittadino. Il resto della città, da molti giorni contesa come raccontato su questo giornale, è nelle mani dei militanti islamisti. La conferma della conquista è stata data da Qader Madia, vice-governatore della provincia che confina con il Turkmenistan e da cui passano importanti corridoi commerciali verso l’Asia centrale. Nelle scorse ore sono intensificati gli scontri anche intorno alla città di Kunduz, nell’omonima provincia settentrionale. Kunduz in passato è già finita sotto il controllo talebano, ma per periodi brevi. Ora i Talebani tentano di riprenderne il controllo, consolidando la presa sul nord del Paese. L’offensiva militare territoriale iniziata tra metà aprile e inizio maggio, quando il presidente Biden ha confermato il ritiro delle truppe, è partita proprio dal nord portando alla progressiva occupazione di molti distretti. Mossa strategica preventiva che serviva a impedire la nascita della “seconda resistenza”, quella seconda “Alleanza del nord” che avrebbe dovuto contrastare l’avanzata degli studenti coranici, come negli anni Novanta. La conquista di Shiberghan, città simbolo dell’ex signore della guerra e ora maresciallo Abdul Rashid Dostum, segnala l’efficacia della mossa preventiva dei Talebani. Rientrato pochi giorni fa dall’estero, Dostum si fa fotografare ogni giorno in tenuta militare nelle riunioni con il presidente Ashraf Ghani o con gli altri ex leader jihadi. Ma appare impotente, come i Talebani non smettono di ricordare nella loro campagna di propaganda. E Yar Mohammad Dostum, il figlio lasciato a combattere sul campo, si è dovuto ritirare. L’offensiva militare sulle città segnala una nuova fase del conflitto, con lo spostamento della guerra nei centri urbani. Zaranj e Shiberghan sono cittadine di modeste dimensioni, ma importanti città del Paese, come Kandahar ed Herat, sono sotto assedio da giorni. Si continua a combattere anche dentro Lashkargah, capoluogo della provincia meridionale dell’Helmand, stretta tra i bombardamenti dall’alto e gli scontri dal basso. Proprio ieri Emergency, che a Lashkargah gestisce dal 2004 un ospedale per feriti di guerra, ha ribadito che le strutture sanitarie non sono un obiettivo militare, condividendo pubblicamente le coordinate geografiche dell’ospedale, a ridosso del fiume. La guerra per le città ha conseguenze pesantissime sulla popolazione, ha ricordato venerdì, nel corso di una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, Deborah Lyons, la rappresentante speciale dell’Onu. I Talebani ne sono consapevoli ma avrebbero messo in conto “la carneficina inevitabile”. Solo nell’ultimo mese, soltanto nelle città di Herat, Kandahar e Lashkargah, “sono almeno mille le vittime civili”, tra morti e feriti. Lo scenario che si configura ricorda “quanto avvenuto in Siria o a Sarajevo”. Una catastrofe che si aggiunge alla crisi umanitaria già in corso. Deborah Lyons ha ricordato che metà della popolazione, 18,5 milioni di persone, ha bisogno di assistenza umanitaria. E l’Onu si aspetta che i numeri delle migrazioni regolari e irregolari dall’Afghanistan raddoppino quest’anno. Ma i Paesi confinanti alzano muri, l’Europa si preoccupare del personale diplomatico delle ambasciate di Kabul, mentre Stati uniti e Regno unito hanno sollecitato ieri tutti i propri cittadini a lasciare al più presto il Paese. Dopo vent’anni di false promesse il caos sta lacerando l’Afghanistan di Filippo Rossi L’Espresso, 8 agosto 2021 I combattimenti sono ancora più intensi dopo il ritiro dela Nato. E al confronto armato tra governo e talebani si aggiungono le milizie che controllano intere aree del Paese. L’Afghanistan si trova nella situazione peggiore della sua storia. La ragione principale è il ritiro della Nato, fuggita in un momento in cui i combattimenti non fanno che intensificarsi e ogni giorno muoiono centinaia di afghani. Il fatto peggiore da digerire è che ora, senza un attore forte come gli Usa, governo e talebani faranno fatica a trovare un accordo. Non c’è fiducia fra le parti e nessuno sa come andrà a finire”. L’analista Nasratullah Haqpal ama ripetere questo concetto: quando le cose sembrano collassare l’incertezza offusca ogni tipo di proiezione futura. “L’incertezza per il futuro ha ripercussioni sull’economia, la vita sociale, l’educazione e la sicurezza. In questo caso il principale responsabile è il governo americano che lascia gli afghani nella situazione di 20 anni fa. Se c’è qualcuno che ha la capacità e la responsabilità di trovare un accordo fra governo e talebani, sono loro”. La dichiarazione fatta da Joe Biden un mese fa, secondo cui gli Usa “non sono andati in Afghanistan per fare “Nation-building”“ ha fatto infuriare gli afghani: “Siamo forse noi afghani ad aver invitato gli americani e la Nato? Hanno occupato il paese dicendo che volevano sradicare il terrorismo, portare la prosperità e la democrazia”, continua Haqpal. “Dov’è la democrazia? E La prosperità? Se non sono venuti per fare “Nation building”, allora sono rimasti per ucciderci? Sono riusciti a dividere la popolazione più che mai. E ora che dovrebbero risolvere il problema scappano, addossando la colpa agli afghani”. Una cosa che rende tutti unanimi in Afghanistan è la gioia nel vedere gli stranieri lasciare il paese. Tutti hanno perso fiducia nei loro confronti, giudicando l’operato e il lavoro di 20 anni di presenza come inutile. Un fiasco totale costato trilioni di dollari. Il riflesso di tutto ciò si manifesta nel ritiro affannoso delle forze Nato degli ultimi mesi. In particolare, l’abbandono inatteso della base aerea di Bagram. È successo venerdì 2 luglio, in mezzo alla notte, quando l’ultima compagnia di soldati americani è decollata dalla pista, lasciando sguarnita la base, senza avvertire gli afghani. “Ci siamo accorti che erano partiti dopo due o tre ore. Nessun afghano aveva il diritto di entrare nella zona. La notte abbiamo sentito i rumori degli aerei. Una cosa normale, come ogni notte. Quando abbiamo notato che era stata smantellata, abbiamo colmato subito il vuoto mandando i soldati a controllare il perimetro”, racconta il generale Mir Asadullah Kohistani, divenuto comandante di tutta la base aerea dopo la partenza americana. Un comportamento criticato che però Kohistani tiene a difendere: “Siamo militari. Abbiamo dei codici per proteggere le missioni. Gli americani ci avevano avvertito che sarebbero partiti, ma senza darci un giorno e un’ora esatti”. L’abbandono di Bagram è stata una sorpresa, anticipando di quasi due mesi l’11 settembre, data simbolica annunciata da Biden come limite per completare il ritiro. Soprattutto per i miliardi di dollari investiti per sviluppare la base, il simbolo dell’occupazione Nato e una vera e propria cittadina che ospitava circa 70 mila persone, con centinaia di voli alla settimana, 3500 edifici e tutte le infrastrutture di un normale centro urbano. Bagram oggi è deserta, silenziosa. Girare per le sue strade, osservare la segnaletica e l’architettura, richiama più una cittadina remota e desertica del Nevada in decadimento. C’è da immaginarsi quindi la sorpresa delle forze afghane nell’assistere a tale spettacolo: tutto vuoto, niente elettricità, negozi svuotati di ogni bene. Una città fantasma. Fra le forze afghane c’è fierezza e amarezza: “Siamo fieri di poter controllare la base, ma gli americani ci hanno traditi. Lasciare l’Afghanistan sì, ma non Bagram”, commenta un sergente. Senza dimenticare i dubbi circa le capacità delle forze afghane di mantenere il controllo sulla base, visto che nelle provincie faticano a resistere agli attacchi dei talebani. “I Talebani hanno annunciato che avrebbero attaccato, ma la difenderemo a ogni costo. Chi controlla Bagram, controlla l’Afghanistan”. Questi timori derivano dalla situazione militare. L’esercito è stato criticato per le sconfitte subite sul campo oltre alle migliaia di diserzioni e perdite. I Talebani hanno conquistato molto territorio, accerchiando le principali città e conquistando i principali valichi di frontiera, mettendo alle strette il governo e la popolazione. Tuttavia, Haqpal dice che secondo “alcune teorie, l’esercito si sarebbe ritirato da territori difficili e remoti per concentrarsi sulle città. I soldati sono demoralizzati perché non credono nei loro leader, non perché non sono ben armati o addestrati”. Ma lo scacchiere afghano non si limita a talebani contro governo. Oltre a una guerra mafiosa collaterale e conflitti fra gruppi tribali, c’è un dettaglio che molti non hanno voluto vedere per molto tempo e che oggi rappresenta un vero pericolo: per contenere gli attacchi incessanti dei Talebani, da ormai più di un anno governo e servizi segreti hanno fatto ricorso alla creazione e alsostentamento di centinaia di milizie, chiamate oggi forze di insurrezione popolare. In mano ai molti signori della guerra diventati improvvisamente paladini democratici nel governo, controllano interi territori, rischiando di diventare la spina nel fianco di qualsiasi possibile soluzione politica. Da anni ormai, molti politici corrotti a Kabul, parlamentari ma anche alti ranghi del governo, armano le milizie o le sostengono in base ai propri interessi. Le appoggiano spesso anche con il benestare di Stati terzi, impauriti di perdere privilegi e potere, con il possibile ritorno dei talebanii. Solamente a Kabul ci sono interi quartieri dove l’esercito e la polizia non hanno giurisdizione. Uno sviluppo preoccupante che negli ultimi due mesi ha visto un peggioramento. Con il deterioramento della situazione, infatti, migliaia di civili hanno raggiunto nuove milizie, spesso senza saper combattere. Per ora affiancano l’esercito governativo ma rimane un punto interrogativo: “Bisognerà vedere se queste milizie si allineeranno con il governo oppure seguiranno i loro leader su base etnica, come in passato. Possono essere sia un grande appoggio che un pericolo per la stabilità del governo”, commenta il professore Fahim Sadat. Haqpal è molto negativo: “Come nel passato, queste milizie commettono abusi. Uccidono per il beneficio di pochi e potrebbero far scoppiare una guerra interetnica diventando un attore incontrollato in un conflitto fra esercito governativo e talebani”. Il parlamentare della provincia di Parwan Abdul Zaher Salangi, lui stesso parte di una milizia, la vede però differentemente: “Sono essenziali. La gente dovrebbe avere le armi e combattere i talebani. Dopo l’arrivo della Nato, i programmi di disarmo nelle province non hanno fatto altro che regalare territorio ai talebani. Ora la Nato se ne va, lasciando l’inferno agli Afghani”. Se nelle provincie i cannoni tuonano, paradossalmente a Kabul, nell’ultimo mese, la situazione si è calmata con meno esplosioni e meno bombe magnetiche sulle macchine. Ma è una calma apparente. I prezzi dei viveri di base sono alle stelle e non si capisce se il governo crollerà, se ci sarà un accordo con i Talebani oppure se questi prenderanno le città principali con la forza. Moltissimi cercano di scappare dal paese (circa 5 mila passaporti sono emessi ogni giorno). “I Talebani sanno di non essere in grado di controllare le città. Non conquisteranno Kabul”, dice Haqpal. “Se prendessero Kabul con la violenza, cosa che avrebbe un costo umano altissimo, perderebbero sicuramente molta legittimazione. Sembra piuttosto che vogliano mettere pressione per avere più potere sul tavolo dei negoziati di fronte alla comunità internazionale”. Fahim aggiunge che “sono forti nel conquistare, ma come si è visto in varie occasioni, non riescono a mantenere una regione e a gestirla. Ora vogliono capitalizzare il momento del ritiro americano”. ?Fra chi prima vedeva nei Talebani un movimento di liberazione, oggi, con i molteplici abusi dei diritti umani, la distruzione di moschee, e le violenze contro soldati e civili, molti si stanno ricredendo. Anche se la leadership talebana di Doha nega e condanna gli atti criminali delle truppe sul campo, la fiducia viene meno. Nel campo governativo invece, i politici a Kabul - come il presidente Ghani - sono nel panico, minacciano giornalisti e attivisti, arrestando chi critica il loro operato. Tutti sembrano fare i propri interessi. “I Talebani, reprimendo, mostrano che non hanno le capacità di governare. Mentre il governo, oltrepassando ogni limite della costituzione democratica che dice di difendere, mostra il suo vero volto”, tuona Haqpal. Ma una certezza sembra risiedere in una frase di Salangi: “Non ci sarà pace fintanto che la comunità internazionale non la vorrà. Ci impongono una guerra e noi dobbiamo combatterla”. In Afghanistan lo sanno benissimo tutti: che sia con milizie, governo o talebani, è una guerra per procura. Gli interessi degli stati regionali e della comunità internazionale hanno molto peso. Tutti gli attori sul campo sono delle pedine, carne da macello, che sembrano più che altro sostentare un’economia di guerra piuttosto che difendere le loro idee. Il caos sta lacerando l’Afghanistan e gli afghani. E la causa risiede molto in 20 anni di false promesse.