Riformare il carcere, per civiltà e per realismo di Giuliano Pisapia* Avvenire, 7 agosto 2021 “Mi sento umiliato fino al midollo”. Scriveva così alla sua “cara Francesca”, Enzo Tortora. E rileggere questa frase estratta dalle “Lettere dal Carcere” ci permette di comprendere quell’oceano di disperazione che si vive - oggi come ieri - in diverse strutture di reclusione del nostro Paese. Come ha ricordato il presidente del Consiglio nel corso della visita al carcere di Santa Maria Capua a Vetere - dove vi sono state torture e violenze nei confronti dei detenuti - “le indagini in corso stabiliranno le responsabilità individuali, ma la responsabilità collettiva è di un sistema che va riformato”, perché “non può esserci giustizia dove c’è abuso e non può esserci rieducazione dove c’è sopruso”. Quale dignità, quale rieducazione si può immaginare in istituti penitenziari che hanno un tasso di affollamento del 113% come ricordato dall’Associazione Antigone nell’annuale rapporto? Dall’inizio dell’anno - è sempre Antigone a dircelo - sono 18 le persone suicidate in carcere mentre nel 2020 sono state 62, uno ogni 10mila detenuti, il tasso più alto degli ultimi anni. Sono situazioni che ogni volta indignano, fanno gridare ‘mai più’, anche se spesso tutto continua come se niente fosse. Ogni uomo e donna che decide di porre fine alla propria esistenza in una struttura di reclusione è una sconfitta per lo Stato. È una sconfitta per tutti noi. Ma ora abbiamo la possibilità di poter segnare un cambiamento anche perché, con il Pnrr, è previsto un investimento di 139,2 milioni per la costruzione e il miglioramento di padiglioni e spazi all’interno di strutture carcerarie, tra cui Santa Maria Capua Vetere. Con il Covid si è ridotta la presenza di anziani e malati all’interno delle strutture di reclusione. Bene. Ma, oggi, con un tasso di affollamento del 113% senza questa disposizione a che punto saremmo? In questi giorni si è parlato (e deciso) molto di prescrizione, di ragionevole durata del processo e di altri interventi legislativi che hanno come obiettivo una giustizia più celere, più garantista e anche più umana. Si parla poco o nulla di altre importanti riforme che possono contribuire positivamente a rispettare il principio costituzionale per cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione dei detenuti”. Tra queste la “giustizia riparativa”, la depenalizzazione di reati minori (con sanzioni non detentive, ma immediate), il risarcimento e la riparazione del danno. Tutte misure tese al reinserimento sociale di chi ha sbagliato, al risarcimento delle vittime e che, come ci confermano i dati più recenti, incidono positivamente sulla diminuzione della recidiva e quindi sulla sicurezza dei cittadini. Per decongestionare le carceri occorre rivedere anche la legge sulle droghe in modo da contrastare con più forza la criminalità e rafforzare la possibilità di recupero di chi della droga è schiavo. Troppe sono le reclusioni per detenzione di sostanze stupefacenti da parte di tossicodipendenti. Queste persone devono essere affidate ad altre strutture perché il carcere non è il luogo per la loro guarigione e per il loro reinserimento sociale e lavorativo. Dobbiamo realmente recuperare la logica dell’extrema ratio del carcere e, ancor di più, della carcerazione prima di una sentenza di condanna. Non scomodiamo più Voltaire o Dostoevskij che continuano a ricordarci che la civiltà di una nazione si misura dalle proprie carceri. È tempo di fare, di prendere decisioni coraggiose e di invertire la rotta, per il rispetto della nostra Costituzione e per il bene delle nostre comunità. Si stanno facendo passi in avanti importanti, evitiamo di cedere al qualunquismo o, ancora una volta, alla strumentalizzazione della giustizia per finalità che nulla hanno a che vedere con la giustizia. *Avvocato, parlamentare europeo Cancellare il fine pena mai: si può e si deve, senza paura di Andrea Pugiotto Il Riformista, 7 agosto 2021 Messa in mora dalla Corte costituzionale, la pena perpetua è ora in attesa di essere riformata dal Parlamento. Il volume a cura di Anastasia, Corleone e Pugiotto ha due obiettivi: accelerare la sua abolizione e spiegare alla politica perché è un’opportunità da non farsi scappare. Agosto è mese di letture, complice il tempo lungo delle sue afose giornate. Vale anche per deputati e senatori, specialmente se chiamati ad affrontare - alla ripresa dell’attività parlamentare - temi cruciali rimasti in sospeso, ma da risolvere a scadenza certa. Tra questi va annoverato il superamento dell’ergastolo ostativo. Com’è noto la Corte costituzionale nel maggio scorso, con ordinanza n. 97, ne ha accertata (ma non ancora formalmente dichiarata) l’illegittimità, “dando al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia”: un anno, entro il 10 maggio 2022. Ecco perché merita una segnalazione la pubblicazione del libro curato da Stefano Anastasia, Franco Corleone, Andrea Pugiotto, “Contro gli Ergastoli” (Futura, Roma 2021, pp. XII-250). Chi ne scrive qui è palesemente in conflitto d’interessi. Mi si può perdonare data la natura collettanea del volume cui contribuiscono dieci firme diverse, non solo quelle dei tre curatori. Esito di un progetto concepito un anno fa, le radici del volume sono in realtà ben più profonde. Risale infatti a oltre un decennio la pubblicazione - nella medesima collana de La Società della Ragione - di un volume intellettualmente provocatorio curato da Anastasia e Corleone, “Contro l’ergastolo” (Ediesse, Roma 2009, pp. 144). Quel libro individuava nel carcere a vita il tema per recuperare una riflessione costituzionalmente orientata su reati e pene. Lo faceva in un momento in cui “suscitare un nuovo moto di ribellione contro l’ergastolo” poteva sembrare una fuga in avanti, quasi un parlar d’altro. Ciò che è accaduto da allora, invece, attesta la lungimiranza di quella pionieristica pubblicazione. Il “fine pena mai”, infatti, è prepotentemente salito alla ribalta a più riprese, riproponendo tutte le sue croniche criticità. È accaduto con l’istituzione della Corte penale internazionale che, pur giudicando crimini di guerra e contro l’umanità, non contempla nel suo arsenale sanzionatorio pene perpetue. Spiega l’introduzione per legge di un limite temporale massimo alle misure di sicurezza detentive, fino a ieri causa di un ergastolo mascherato per gli internati sine die in manicomi giudiziari. Alimenta il complicato contenzioso, nelle aule parlamentari e delle Corti dei diritti, sull’accesso al giudizio abbreviato - con conseguente conversione della pena perpetua in trent’anni di reclusione - per gli imputati di reati puniti con l’ergastolo. Tracima oltreconfine quando la Corte di Strasburgo, condannando anche l’Italia, arriva a equiparare una pena de facto perpetua a un trattamento inumano e degradante. Esplode con la messa in discussione a Palazzo della Consulta della sua variante ostativa che - in assenza di collaborazione con la giustizia - costringe l’ergastolano dietro le sbarre fino alla morte. Oggi il nostro ordinamento è giunto a un bivio. Da un lato, sono mature le condizioni giuridiche per un definitivo superamento della pena perpetua, soprattutto in ragione delle accelerazioni impresse dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti, intrecciate da tempo in un fecondo dialogo. Dall’altro, mancano ancora le condizioni politiche per un simile cambio di paradigma, in una fase che fatica a scalzare l’egemonia di un bulimico pan-penalismo elettoralmente assai lucrativo. In ideale continuità con il libro precedente, il nuovo volume si ripropone due compiti: accelerare la rimozione degli ergastoli dall’ordinamento; offrire alla politica argomenti per non opporsi a tale mutamento di segno, cogliendone semmai le potenzialità di riforma conseguenti. In questo duplice obiettivo si sono riconosciuti autrici e autori del libro, pur diversi per competenze e formazione culturale. Il titolo del volume rivela che - se le parole hanno un obbligo di verità - dobbiamo abituarci a parlare di ergastoli, al plurale. Esistono infatti forme diverse di carcere a vita: comune, con isolamento diurno, ostativo alla liberazione condizionale, per folli rei quando condannati per delitti puniti con l’ergastolo. Così come c’è ergastolano ed ergastolano: essere condannati a vita a vent’anni d’età non è come esservi condannati a cinquanta; essere ergastolani sottoposti al c.d. “carcere duro” (art. 41-bis, ord. penit.) non è come scontare l’ergastolo in regime ordinario. Le sue pagine ci raccontano che se la rimozione della pena di morte è avvenuta meritoriamente per via legislativa, non così (o non ancora) è accaduto per la pena fino alla morte. È stato semmai il Giudice delle leggi a rimodellarne le varie tipologie, decretandone il definitivo superamento o un provvisorio adattamento costituzionale. Nel tempo, infatti, la Consulta ha indicato nella concessione della liberazione condizionale, da parte dell’autorità giudiziaria (sent. n. 204/1974), l’istituto che “consente l’effettivo reinserimento anche dell’ergastolano nel consorzio civile” (sent. n. 264/1974). Ha cancellato l’ergastolo minorile (sent. n. 168/1994). Ha abbattuto l’ergastolo ostativo estremo incapsulato in una norma dell’ordinamento penitenziario (l’art. 58-quater, comma 4) responsabile di una vera iperbole sanzionatoria (sent. n. 149/2018). Ha reso accessibili i permessi premio per tutti i reati ostativi, anche se puniti con il carcere a vita (sentt. nn. 253 e 263/2019). Ha accertato l’incostituzionalità dell’ergastolo senza scampo segnandone definitivamente la sorte, per via legislativa o per giudicato costituzionale (ord. n. 97/2021). Di tutte queste declinazioni possibili il libro rende conto criticamente, perché “l’ergastolo non è la soluzione, ma il problema da risolvere” (come recita il suo sottotitolo, citando Papa Francesco). Il pregio maggiore del volume - se posso dire - sta proprio nel guardare al “fine pena mai” da ogni latitudine. L’indice mette in fila più saggi che, come tante tessere collocate al giusto posto, restituiscono un puzzle completo. La tormentata storia del mancato superamento legislativo dell’ergastolo, ricostruita attraverso gli atti parlamentari e i relativi dibattiti in aula (Franco Corleone). Le sue progressive erosioni ad opera della Corte costituzionale (Andrea Pugiotto) e della Corte Europea dei diritti (Barbara Randazzo), delle quali si ripercorre tematicamente la pertinente giurisprudenza. I danni d’agonia conseguenti a una pena perpetua che stravolge le categorie esistenziali di tempo e spazio (Stefano Anastasia). La rivelazione delle sue effettive dimensioni numeriche, frutto di un’inedita ricerca condotta attraverso fonti ministeriali (Susanna Marietti). La sua diffusione nel mondo ma anche la sua cancellazione in numerosi paesi, a dimostrazione che una scelta abolizionista è possibile (Davide Galliani). La ricognizione del diritto vivente in tema di concessione della liberazione condizionale, a svelarne le ambiguità di un’applicazione peraltro assai scarsa (Riccardo De Vito). Le sue diverse alternative sanzionatorie, prefigurate più volte in sede ministeriale e qui ripensate con originalità (Giovanni Fiandaca). Impreziosito dalla prefazione di Valerio Onida dedicata all’ord. n. 97/2021 e al suo possibile seguito, il libro include anche un’illuminante e suggestiva appendice di testi di Papa Francesco, Aldo Moro, Salvatore Senese, Aldo Masullo; testi che meglio di altri svelano nel carcere a vita “una pena di morte nascosta” (come argomenta Grazia Zuffa, introducendoli). Il volume offre così al dibattito pubblico una ricchezza di elementi capaci di zittire il canto corale secondo cui in Italia, de jure o de facto, l’ergastolo non esiste più. E invece esiste, eccome, più di quanto non esista mediamente in Europa. Al 31 dicembre 2020 gli ergastolani in Italia erano 1784 (il 4,9% della popolazione carceraria), dei quali 1267 ostativi. Tra il 2008 e il 2020, solo 33 hanno beneficiato della liberazione condizionale, mentre 111 sono morti dietro le sbarre. Chi nega l’effettività dell’ergastolo, gioca con la vita degli altri; chi lo giustifica, legittima l’inaudito: volendo, poteva essere questa la frase in esergo al nostro volume. Buona lettura. Carceri, la ministra Cartabia chiede rapporto sui suicidi rainews.it, 7 agosto 2021 Un rapporto sulle cause dei suicidi in carcere - già 32 dall’inizio dell’anno, 62 nel 2020 - è stato chiesto al Dap dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, decisa a migliorare le condizioni di vita dei detenuti e di chi nelle carceri ci lavora. Intanto, per contrastare la tragica china, si punta al potenziamento degli spazi destinati alle attività di trattamento, quelle che aprono prospettive per il ritorno nella società, e sull’assunzione di educatori con idonea preparazione all’azione di recupero. In particolare, adesso, gli interventi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - come spiega Massimo Parisi direttore generale del personale e delle risorse del Dap, in una intervista a Euronews - si concentrano proprio sul drammatico dato dei suicidi che avvengono nelle prigioni sovraffollate al 113% (report dell’Associazione Antigone, che si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale) dove si vive male e, chi sta nel tunnel, non vede la luce. La riforma Cartabia prevede il riassetto complessivo del sistema con la costruzione di più strutture e la diminuzione del numero di reati per cui si ricorre al carcere. “Migliorare le condizioni di vivibilità è un aspetto prioritario”, sottolinea subito Parisi. “Stiamo lavorando su due fronti - aggiunge l’alto dirigente del Dap - il primo fronte è quello di applicare in maniera rigorosa tutti i protocolli che abbiamo con il servizio sanitario per prevenire gesti autolesivi. La ministra Cartabia ha chiesto un rapporto sulle cause dei suicidi degli ultimi anni per comprendere quali interventi organizzativi implementare per prevenire i gesti estremi. È importantissimo, e c’è un indirizzo politico ben chiaro su questo, migliorare le condizioni di vita”. “Abbiamo fatto poi - ed è il secondo fronte, prosegue Parisi - una scelta ben precisa: Il 30% del nostro budget sull’edilizia penitenziaria l’abbiamo riservato a interventi su spazi trattamentali. Crediamo che creare opportunità di inclusione, rendere la vita meno oziosa all’interno degli istituti, aumentare le opportunità di lavoro, creare una speranza sul “fuori” sia decisivo anche per intervenire su questi gesti, che non hanno sempre la stessa causa perché le motivazioni possono essere diverse, ma un intervento che tenda a migliorare le condizioni di vita non può che migliorare il benessere dei detenuti e anche quelli del personale”. I protocolli e le risorse economiche, dunque, ma l’inversione di tendenza è in atto anche sul numero - attualmente esiguo -degli educatori: 1 operatore ogni circa 92 detenuti. Per quanto riguarda gli operatori, Parisi si sofferma sulle misure in cantiere. “Con la scorsa finanziaria - rileva -abbiamo avuto un incremento della pianta organica di 100 unità da destinare proprio agli educatori, abbiamo anche un concorso in atto: si è conclusa la fase preselettiva nei giorni scorsi e a settembre ci saranno le prove scritte semplificate per accelerare le procedure concorsuali. A concorso ci sono altri 212 posti che saranno ampliati a 262. È un segno importante perché significa immettere nel sistema figure destinate esclusivamente al trattamento”. “L’amministrazione - conclude il direttore generale del personale e delle risorse del Dap - crede che attraverso la qualità delle relazioni con i detenuti, che può essere instaurata da chi ha una professionalità specifica, oltre che dal personale di polizia penitenziaria, si giochi molto della qualità della vita e del percorso di inclusione”. Nel dettaglio, ecco l’oggetto della richiesta sul report sui casi dei suicidi avvenuti nelle prigioni avanzata dalla ministra Cartabia ai vertici del Dap: “Un rapporto approfondito sui suicidi in carcere negli ultimi cinque anni per comprenderne le cause e individuare quali interventi possono essere implementati per prevenire i gesti e tremi tanto delle persone ristrette quanto del personale della Polizia penitenziaria”. Il degrado in cella può causare altri pestaggi rivolte e suicidi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 agosto 2021 Invece di pensare a difendere i processi eterni, gli episodi di violenza in carcere dovrebbero far riflettere e porre interrogativi sulle reali condizioni del mondo penitenziario e sulle auspicabili alternative alla detenzione. La riforma Cartabia non potrà mai mettere a rischio i processi, nemmeno quelli dove ci sono gli imputati accusati di tortura come nel caso del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Se invece si vuole un processo eterno, allora si manca di rispetto sia alle vittime bisognose di giustizia che agli imputati stessi. D’altronde uno Stato di Diritto prevede un giusto processo con tanto di ragionevole durata. Molte delle cause che ingenerano la violenza possono essere disinnescate prima che degenerino - Se si ha a cuore il problema carcerario, a partire dalle violenze interne, bisogna affrontarlo alla radice. Abbracciare la cultura del sorvegliare e punire non funzionerà mai. Invece di pensare a difendere i processi eterni, gli ennesimi pestaggi in carcere dovrebbero indurre tutti alla riflessione e porre interrogativi su quelle che sono le reali condizioni del mondo della realtà delle carceri e le auspicabili alternative ad esse. Se si opera in un posto con un clima pesante, con condizioni di degrado notevoli, se si è a contatto con persone che, per come sono costrette a vivere, sono più incattivite, è evidente che quel luogo diventi una pentola a pressione pronto ad esplodere prima o poi. Ma di questo, su queste pagine, se ne è parlato e se ne riparlerà. Molte delle cause che ingenerano la violenza possono essere disinnescate prima che degenerino in atti apertamente ostili. Se le cose saranno lasciate così come stanno, si attende il prossimo pestaggio o magari le prossime rivolte. Un eterno ritorno che fa bene solo ai giornali, compreso il nostro, in cerca di scoop. Il 31 luglio l’ultimo suicidio a Rebibbia - Uno dei segnali del malessere carcerario attuale sono la frequenza dei suicidi. Il 31 luglio scorso un detenuto di Rebibbia con problemi psichici si è tolto la vita dopo essersi coperto la testa con una busta e aver inalato del gas, proprio nel giorno del suo compleanno. L’intervento del presidente della Camera penale di Roma - Su questo episodio è intervenuto l’avvocato Vincenzo Comi, presidente della Camera penale di Roma. “Noi avvocati romani viviamo sulla nostra pelle la situazione delle carceri nel Lazio. Le condizioni sono disumane per il sovraffollamento e le strutture sono insufficienti a tutelare le persone malate che vengono abbandonate nelle celle in attesa di quel miraggio delle Rems (residenza per le misure di sicurezza) che, se ha sopito la coscienza di qualcuno, ha solo creato aspettative di un posto che non ci sarà mai!”, denuncia l’avvocato Comi. “A ciò - sottolinea sempre il presidente della Camera penale di Roma - si aggiungono costanti episodi di inconcepibile ritardo nelle iniziative a tutela della salute dei detenuti purtroppo anche frutto di un clima culturale di crescente ostilità per la tutela dei diritti fondamentali delle persone private della libertà personale”. Aggiunge: “E non si dica che i problemi negli istituti penitenziari della Regione derivano dall’emergenza sanitaria in atto perché è un’offesa alla nostra intelligenza. Si può privare una persona della propria libertà ma mai della propria dignità”. Infine l’avvocato Comi conclude: “E su questo la Camera penale e la sua Commissione carcere non faranno mai un passo indietro nell’impegno e nelle iniziative di denuncia. Intervenga subito la ministra Cartabia per fermare questa tragedia affinché venga assicurata una adeguata assistenza sanitaria in carcere e ripristinata la legalità della pena”. Morti in carcere: crowdfunding per il ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani fuoriluogo.it, 7 agosto 2021 Lanciato il crowdfunding per sostenere le spese del ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani contro l’archiviazione del procedimento sulla morte di 8 detenuti nel marzo 2020 nel carcere di Modena. Il tribunale ha archiviato la morte di 8 detenuti avvenuta durante le lotte del marzo 2020 nel carcere Sant’Anna di Modena, sostenendo che l’amministrazione penitenziaria non ha alcuna responsabilità. Ma quelle morti potevano essere evitate: lo dicono fatti, testimonianze, domande rimaste senza risposta. Giustizia non è stata fatta. Cerchiamo giustizia alla Corte europea! • Aderisci con il tuo contributo alla raccolta fondi inviando a: Associazione Sapereplurale, Iban IT64G0303201006010000091192, specificando la causale Ricorso Cedu Modena • Aderisci all’appello per verità e giustizia: https://www.dirittiglobali.it/coronavirus-morti-carceri/ L’archiviazione del procedimento per 8 dei 9 detenuti a Modena morti a seguito delle lotte del marzo 2020 da parte del Tribunale non è deve essere l’ultima parola (leggi il provvedimento: http://www.sapereplurale.net/images/PDF_DOC/carcere-modena-rivolta-archiviazione.pdf). La “insussistenza di alcuna ipotesi di responsabilità in capo ai soggetti intervenuti nel processo gestionale della sommossa”, come recita l’ordinanza del 16 giugno 2021, non risponde a tante, troppe domande circa i fatti e la loro dinamica, come il Comitato ha ripetutamente scritto e motivato (https://www.dirittiglobali.it/coronavirus-morti-carceri/); come ha sostenuto la difesa di uno dei detenuti morti nel carcere Sant’Anna di Modena, Hafedh Chouchane nell’opporsi all’archiviazione, e come hanno fatto il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e l’Associazione Antigone, le cui opposizioni, tuttavia, non sono state ammesse dal GIP. Giustizia non è stata fatta perché: • nessuno ha spiegato come mai, e per responsabilità di chi, Hafedh Chouchane non è stato soccorso e salvato, quando c’era tutto il tempo di farlo; • nessuno ha spiegato perché nessuno dei detenuti morti è stato salvato, quando proprio il furto di farmaci avrebbe dovuto far scattare un immediato piano di prevenzione e soccorso; • nessuno ha spiegato come sia possibile che la catena di comando non abbia saputo far fronte a un evento - una rivolta - che in carcere dovrebbe essere prevista e preventivata, senza adempiere al dovere primario di tutelare e garantire la vita di chi è detenuto; • nessuno ha spiegato perché non siano state effettuate accurate visite mediche, che avrebbero potuto salvare delle vite, nonostante la presenza di personale sanitario e ambulanze; • non tutti i testimoni diretti sono stati ascoltati, a cominciare dai detenuti presenti ai fatti; • sulle violenze ai danni dei detenuti, durante e dopo i fatti e durante e dopo le traduzioni ad altri istituti, non è stata fatta ancora luce. Giustizia non è stata fatta. E quando la giustizia di un paese non tutela i diritti umani fondamentali, quelli sanciti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, e non ne sanziona la violazione, allora si ricorre alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che ha sanzionato l’Italia più volte per le condizioni di detenzione. Questo farà la difesa di Hafedh Chouchane. Per lui, ma anche per tutti i 13 morti nelle carceri della disperazione e dell’abbandono. Se vuoi saperne di più leggi il Dossier sull’archiviazione: http://www.sapereplurale.net/images/PDF_DOC/comitato-verit-morti-in-carcere_dossier-archiviazione.pdf Come Comitato verità e giustizia sulle morti in carcere crediamo che la battaglia per la verità sia ancora aperta, che debba continuare a Strasburgo. Il ricorso alla Cedu è complesso, richiede risorse e molto lavoro da parte della difesa: vi chiediamo di contribuire e sostenere con noi il ricorso alla Cedu. Carceri: finché l’intento è “fargliela pagare”… di Daniele Simonazzi* settimananews.it, 7 agosto 2021 Volentieri condivido alcuni pensieri in ordine alla condizione carceraria. Non che sia convinto che questo possa cambiare - purtroppo - la condizione di coloro che sono “ospitati” nelle carceri e pure nell’istituto di Reggio Emilia, del quale sono cappellano. Può semmai servire ancora a riflettere sul nostro servizio di cristiani in carcere. Premetto che la mia ottica è senz’altro parziale: condivido alcune cose al fine di creare e suscitare emozioni, legami, comunione umana e di Chiesa. Quando parlo di sistema carcerario, penso a volti, a storie, a cammini di vita. Perciò dico che il sistema carcerario è fondato su un’assenza che mi pare una delle cause - se non la principale - per ritenere il carcere perfettamente inutile. L’assenza più grande è delle vittime dei reati. Lo Stato si sostituisce alle stesse: in questo modo non solo le isola, ma le ignora. Il sistema carcerario entra in gioco conferendo priorità al reato e a chi lo ha commesso. Se, altrimenti, si assumesse la condizione della vittima del reato - che si vede segnata la vita da un evento con tutta la famiglia e per sempre - penso che la vita del carcere potrebbe acquistare un suo ben diverso significato. Non porre il reato al centro - Il senso da acquisire è quello per il quale è chiesta una vera conversione. Arriverebbe dal coraggio di non porre più al centro del carcere il reato, bensì di partire dal reato per imbastire un cammino nuovo. Cosa accade ora? Si commina una pena tarata sul reato, in maniera tale che il legame che si ingenera tra detenuti, agenti e personale civile è un legame infetto, malato, velenoso, perché gli anni da scontare da parte dei detenuti o da far scontare da parte di agenti e personale, non hanno quale prospettiva il rimarginarsi delle ferite prodotte, ma una sorta di vuota espiazione nel dolore. L’intento è “fargliela pagare e basta!”. Inevitabilmente questa impostazione giustizialista, oltre a non suscitare alcuna novità di vita in una prospettiva che si possa considerare minimamente costruttiva, alimenta semplicemente sé stessa, nella presunzione del diritto dello Stato ad ergersi quale unico vindice di quanto avvenuto. Questo ha come effetto paradossale creare ulteriori vittime, tra fratelli e sorelle di una umanità stravolta dalla colpa. Ciò che è avvenuto a Santa Maria Capua Vetere, pertanto, non mi stupisce affatto, se non per il numero di agenti coinvolti e per l’efferatezza della violenza usata. Negli stessi giorni - nel nostro carcere di Reggio Emilia - era stata ordinata una perquisizione in una sezione che appariva fuori controllo. Sono giunti agenti da altri istituti ai quali è stata affidata la cosiddetta “carta bianca”. Le condizioni in cui hanno ridotto, al loro passaggio, le celle in cui le persone detenute vivono - tra l’altro in assenza degli stessi ospiti - mi ha fatto e ci ha fatto riflettere insieme ad alcuni amici e graduati della Polizia penitenziaria su almeno due aspetti: il primo legato al cuore, alla coscienza, alla mentalità di coloro che hanno eseguito la perquisizione o di chi li ha comandati o indotti a farlo; il secondo riguardo alla formazione degli agenti di Polizia penitenziaria. Mi è capitato rare volte di essere chiamato a tenere incontri di formazione circa la figura del cappellano presso la scuola degli agenti di Parma. Quando ho potuto far presente le istanze di cui parlo - legate appunto al superamento della priorità del reato nel cammino carcerario - ho raccolto solo vibranti proteste da parte di coloro che mi ascoltavano, soprattutto nel corso tenuto a coloro che si stavano preparando ad assumere i posti di responsabilità. Tornando a quella perquisizione: l’esito è risultato un telefonino sequestrato e una cospicua quantità di sigarette di proprietà di un solo detenuto: ritrovamenti evidentemente irrisori rispetto alla portata indotta nell’animo degli ospiti detenuti: amarezza, delusione, più che rabbia o volontà di vendetta. Una domanda agli agenti - È inevitabile a questo punto porre e condividere con gli agenti la domanda: cosa ti ha portato ad arruolarti, a scegliere questa professione piuttosto che un’altra? La risposta appare piuttosto scontata ed è legata al fatto che, a causa della mancanza di lavoro, soprattutto al Sud, le persone non hanno trovato niente di meglio da fare che questo mestiere. Tuttavia, se si vive un buon grado di prossimità e di amicizia con questi agenti, la risposta non risulta così scontata: si scopre che c’è un cammino in corso d’opera, in tutti. Se pure la motivazione iniziale è quella dello stipendio sicuro - e chi può biasimare questo? -, nel corso del tempo ci si accorge della possibilità di una cosa nuova che si fa strada nelle persone, anche nel deserto carcerario. Quando si entra in sezione, ci si rende da subito conto se la responsabilità di questa è affidata ad un agente che si pone in un “cammino nuovo”, ovvero che deve ancora maturare la decisione di intraprenderlo. Inevitabilmente, anche se in modi diversi, le domande che ci stanno davanti nel fondamentale passaggio di vivere la sezione, anziché solo l’ufficio della sezione, riguardano la totale inutilità del tempo, del lungo interminabile tempo che si trascorre in sezione e quindi in cella. Persone, la cui potenzialità e le cui capacità, se messe al servizio, potrebbero portare ad un grande giovamento collettivo, si vedono ridotte, loro malgrado, ad attività che, al di fuori del carcere, avrebbero al massimo la dignità degli hobbies: il gioco delle carte, il modellismo, la cura della propria stanza sino alla minuziosità (sino a quando non arriva improvvisa la perquisizione). Sono tutte attività prodotte dalla frustrazione. Può bastare allora un episodio a far sì che si possa intraprendere un’altra strada. Bastano due uova di fagiano - P.H., ad esempio, ha trovato in un campo all’interno delle mura di cinta delle uova di fagiano, le ha raccolte e, in stanza, le ha messe sotto una lampada come fonte di calore. Per farla breve, sono nate due piccoline che sono divenute, in carcere, la ragione delle sue giornate: non della sua vita, ma delle sue giornate, sì. Terminato ogni giorno il suo misero compito di lavorante, ora ha “qualcuno” che lo aspetta in stanza. Lascio a chi legge le considerazioni del caso. Certo è che P.H. ha pure detto che, chiunque avesse cercato di togliergli le sue piccole, ne avrebbe risposto con la vita. Ho fatto questo esempio, ma, salendo una certa scala di priorità, come dimenticare l’attenzione, la cura, la premura di alcuni ospiti che si fanno autenticamente - direi evangelicamente - prossimi di persone disabili a loro affidate!? Nei casi che ho in mente, succede che persone responsabili di reati “ostativi” - ossia con scarsa possibilità di ottenere benefici di pena - trattino come “loro carne” quella delle persone più fragili. Chi è dunque più prigioniero? Chi è ospite in carcere o chi continua a mettere al centro del carcere il reato che porta a vivere in questa condizione? Mi riferisco anche a direttori, educatori, criminologi, senza dimenticare gli stessi magistrati di sorveglianza. Certo, in una nuova prospettiva - di questo genere - qualche considerazione è dovuta anche al volontariato. Anche a chi si candida per tale ruolo, andrebbe posta la domanda: chi e che cosa ti porta a fare questa scelta? Quante persone giovani e meno giovani hanno iniziato un percorso di condivisione con i detenuti per scoprirsi poi, in qualche modo, “traditori”, ossia “consegnatori” (dal latino tradere) alla struttura!? Si potrebbe ovviare a tutto ciò se ci si rendesse conto che la vita in carcere è - e può essere - un’ottima palestra di convivenza. È l’unico posto al mondo che io conosca nel quale viene imposta la presenza di una persona senza chiedere il permesso a chi già vi abita. Chi di noi è capace di una simile accoglienza? Come non partire da questa ovvia constatazione per imbastire percorsi che permettano di superare quell’individualismo sfrenato e ovunque imperante che è anche all’origine di tanti reati, oltre che di tanti mali? Se questo è ciò di cui ci si rende conto, il passaggio è necessario agli ospiti quanto agli agenti. Mi chiedo spesso cosa può attraversare il cuore e la mente di un agente quando rinchiude per 3 o 4 volte al giorno dentro a una cella una persona che può essere benissimo suo padre, suo figlio, suo fratello e anche suo nonno. Lo chiedo anche a loro: basta la giustificazione che è il tuo lavoro? Penso che ci sia una cosa che fa prendere in considerazione la possibilità di rivedere la vita nella quale una persona si è permessa di privare altri della loro incolumità, se non addirittura della vita, e sia sempre quella di riaddestrarti nella “palestra” della convivenza. La vita di sezione può uscire allora dalla sua inutilità devastante, governata da regole preoccupate dell’ordine esterno più che dell’interiorità delle persone. Per questo ritengo che la costruzione di nuovi penitenziari - più larghi e più moderni - sia pura insipienza. Si tratta invece di creare - credo! - penitenziari nuovi, radicalmente nuovi. La novità non verrà, come sempre, dai nuovi progetti edilizi, ma dalla novità dei cuori umani. Domande senza risposta - Concludo con la consapevolezza di avere solamente sfiorato la realtà che vivo da più di 30 anni. Lascio a tutti il compito di giungere a rispondere affermativamente - se possibile - ad almeno una delle seguenti domande che ogni tanto - tutti - dovremmo porci rispetto al carcere. Se fossi io al posto di chi sta in carcere - gli agenti non meno dei detenuti - vorrei essere trattato come loro? Ci sentiremmo tranquilli - come familiari di ospiti del carcere - di conoscere (come di fatto conosciamo) le condizioni in cui gli stessi vivono? Ci sentiremmo di accompagnare in sezione i familiari degli ospiti facendocene un onore per le condizioni in cui sono custoditi? Banalmente, ce la sentiremmo di usare i servizi igienici dei detenuti? Probabilmente a nessuna di queste domande è stata data ancora una risposta affermativa. Può essere un buon inizio di sensibilizzazione e di comprensione. Di seguito, potremmo tutti continuare a chiederci, ciascuno per sé: ho mai chiesto veramente perdono? So se mi sia mai stato concesso? E io ho perdonato? Dico, infine, dell’episodio di Augusto. Una domenica, alla preghiera dei fedeli, durante la messa, ha preso il microfono e, dopo interminabili secondi di silenzio, mi ha puntato il dito e mi ha chiesto in dialetto veneto: “Lei sarebbe disposto davvero a dare la vita per me?”. Augusto è morto senza ottenere la mia risposta. La prospettiva che Augusto sia ora in Paradiso offre a me ancora il tempo e la possibilità di non deludere (troppo) questa sua attesa. *Cappellano delle carceri di Reggio Emilia Diritto di difesa dei detenuti, sanata una ferita. Finalmente! di Riccardo Polidoro* Il Riformista, 7 agosto 2021 Nella riforma del processo è stato modificato l’articolo 123 del codice di procedura penale, che non prevedeva che la nomina del difensore effettuata all’ingresso in carcere fosse trasmessa anche al legale: una violazione evidente. Nell’ampio e acceso dibattito sulla riforma del processo penale licenziata dalla Camera e che arriverà nei primi giorni di settembre in Senato, non si è fatto alcun riferimento all’integrazione apportata all’art. 123 del codice di procedura penale. Le ragioni di questo silenzio sono probabilmente dovute alla mancanza di contrasto politico su una modifica che sana una palese violazione del diritto di difesa. Viene, dunque, spontanea una domanda. Perché ci è voluto tanto tempo affinché si provvedesse, nonostante vi fossero state reiterate richieste da parte dell’Unione camere penali italiane? Se vi era accordo tra le parti, perché tanto tempo per una piccola modifica, tra l’altro a costo zero? A queste domande vi è un’unica risposta: il tema dell’esecuzione penale e, in particolare, del carcere, non interessa affatto il mondo politico, alla ricerca costante di un consenso immediato e di facile approdo. Eppure il passaggio dalla libertà alla detenzione in carcere è uno degli avvenimenti più tragici che può travolgere la vita di una persona. Che si sia consapevoli di aver commesso un reato ovvero si abbia la certezza di essere estranei a quanto viene contestato, il momento è comunque drammatico e si vive in assoluta solitudine. A maggior ragione se si è del tutto impreparati e non si ha una struttura familiare solida e una cerchia di amici che possa supportare il terribile evento. Condotti nell’istituto penitenziario si pensa immediatamente alla nomina di un difensore e si riempie l’apposito modulo, nella certezza che di lì a poco l’Avvocato ne sarà informato. Ma il vigente art. 123 c.p.p., che disciplina le dichiarazioni e le richieste di persone detenute ed internate, non prevede alcuna comunicazione al difensore di fiducia nominato. Proprio nessuna! Né la nomina, né eventuali impugnazioni o altro. La norma, infatti, indica come necessarie la sola iscrizione nell’apposito registro e l’immediata comunicazione all’autorità competente. La violazione del diritto di difesa è evidente! Sia perché il detenuto ritiene che l’avvocato sia stato avvisato della nomina e quindi si sente tutelato, sia perché il legale, ignaro di quanto accaduto perché nominato a sua insaputa, da un lato non è messo nelle condizioni di rinunciare eventualmente all’incarico, dall’altro non potrà esercitare la sua attività professionale, né recarsi in carcere per il colloquio con l’assistito. L’avvocato avrà ufficialmente notizia della nomina da parte dell’autorità giudiziaria che procede, al momento della notifica del primo atto con obbligo di comunicazione al difensore. La riforma dell’articolo, pertanto, s’imponeva e l’Unione camere penali italiane, in questi anni ne ha più volte denunciato la necessità. Nel giugno del 2018, la Giunta e l’Osservatorio Carcere Ucpi scriveva al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, al Presidente della Commissione Giustizia del Senato Andrea Ostellari e a quello della Camera Giulia Sarti, facendo notare le evidenti lacune della norma, indicando la necessità d’inserire un comma 2 bis, che potesse prevedere l’obbligo di comunicazione anche al difensore nominato. Veniva inoltre specificato il testo: “Le dichiarazioni, ivi comprese la nomina di difensore, le impugnazioni e le richieste di cui ai commi 1 e 2 sono contestualmente comunicate anche al difensore nominato” e le modalità dell’informazione a costo zero, perché possibile con gli indirizzi di posta elettronica degli avvocati, il cui elenco era già in possesso dell’Amministrazione Penitenziaria. Il successivo dicembre, chi scrive, nella sua qualità di Responsabile dell’Osservatorio Carcere, veniva ricevuto dal Presidente della Commissione Giustizia del Senato e, nel corso dell’incontro, si convenne che la richiesta dell’Unione camere penali era non solo legittima, ma certamente “trasversale”, in quanto non avrebbe visto l’opposizione di alcun partito. Nel febbraio del 2019, la giunta Ucpi scriveva al Senatore Ostellari per far inserire la richiesta nei lavori della Commissione Giustizia. Solo il 29 luglio 2019, il deputato Lello Vitiello, che aveva recepito l’importanza dell’iniziativa dell’Unione, depositava alla Camera la proposta di legge (N.2034) di modifica dell’art. 123, che veniva assegnata alla II Commissione Giustizia. L’onorevole, nella premessa all’articolato proposto, che riprendeva testualmente quello indicato dall’Ucpi, auspicava, vista la delicatezza e l’importanza della questione, una tempestiva approvazione. La “tempestiva approvazione” non vi è stata, ma l’on. Vitiello, nel corso della discussione tenuta in Commissione Giustizia sulla riforma del processo penale, ha presentato un emendamento per la modifica dell’art. 123 c.p.p., in cui ha trasferito il contenuto della proposta di legge. L’emendamento ha avuto pareri positivi ed oggi, finalmente, la richiesta formalizzata dall’Unione camere penali nel lontano giugno 2018, si avvia ad essere legge e consentirà ai detenuti di beneficiare immediatamente della difesa tecnica. Il comma 14 dell’art. 2 della riforma inserisce, infatti, il comma 2 bis dell’art. 123 c.p.p., con la medesima formula indicata, all’epoca, dall’Unione camere penali italiane. *Avvocato - Responsabile Osservatorio Carcere UCPI Riforme, toghe all’attacco. Si rischia un autunno caldo di Valentina Stella Il Dubbio, 7 agosto 2021 L’Anm contraria ai ddl su penale e Csm. E può ritrovare il favore popolare col no al testo sulla presunzione d’innocenza: “Un bavaglio ai media...”. “Abbiamo la legislazione antimafia più evoluta al mondo, almeno prima della riforma Cartabia che mi auguro, sogno, fantastico non venga approvata in Senato”: se sia un’ironica iperbole o una reale speranza non lo sappiamo, ma le parole pronunciate dal procuratore Nicola Gratteri in un dibattito sulla legalità svoltosi due sere fa a Diamante aprono ufficialmente lo scontro in vista dell’approvazione della riforma penale in Senato. Come anticipato ieri, la strada per il governo è in salita, benché abbia incassato la fiducia e il voto finale alla Camera. I giocatori che si muovono sul tavolo del risiko avranno il mese di agosto per rafforzare gli schieramenti e prepararsi alla battaglia di settembre; tuttavia già iniziano a inviare segnali precisi. Lo ha fatto anche ieri, dalle pagine del Corsera, il presidente Anm Giuseppe Santalucia: sul sistema di proroghe per i giudizi complessi ha dichiarato che bisognerebbe prevederle anche per stalking, reati ambientali, infortuni sul lavoro. “Omissiva, scellerata, irragionevole” sono invece gli aggettivi che il magistrato Enrico Zucca, sostituto pg a Genova, ha utilizzato su Domani per bocciare la “mediazione Cartabia”. La magistratura si sta compattando per minare il risultato raggiunto da Draghi e dalla guardasigilli? Se ci sia un disegno, lo lasciamo dire ai complottisti, noi ci limitiamo a guardare ai fatti e proviamo a immaginare gli scenari futuri che comprendono altri possibili terreni di scontro sulle riforme in cantiere, tutte volte a rafforzare le garanzie costituzionali e a restituire credibilità al sistema giustizia. Il primo è quello sul decreto di recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Si tratta di un tema su cui la ministra della Giustizia ha richiesto sin da subito l’attenzione del Parlamento; messaggio colto immediatamente dal responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa che, nel day after dell’approvazione dello schema di attuazione in Cdm, dice: “Le denominazioni delle inchieste sono scelte sapientemente per rafforzare l’impianto accusatorio e per evocare una ‘condanna certa’. Spesso vengono smentite dalle sentenze, ma restano impresse nell’opinione pubblica ben più delle assoluzioni. Mai più nomi roboanti solo per i titoli dei giornali. Ora il provvedimento arriverà nelle commissioni parlamentari. Ci saranno resistenze conservative, ce le attendiamo: senza conferenze stampa e nomi alle inchieste in tanti usciranno dai riflettori e parleranno solo attraverso gli atti, come la civiltà giuridica stabilisce”. Sullo stesso fronte anche il deputato di Italia Viva Catello Vitiello (oggi con una intervista su questo giornale, nda), il cui ordine del giorno volto a incentivare la garanzia di segretezza delle indagini per tutelare l’indagato è stato accolto dal governo. Questo scenario sfida talmente tanto la magistratura che lo scontro è pronto ad accendersi. E infatti la prima resistenza arriva sempre dal vertice Anm, che su Repubblica avverte: “La direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza esiste, e bisogna tenerne conto. Ma non credo che le conferenze stampa potranno essere abolite, sarebbe un danno al diritto all’informazione”. Stessa posizione espressa da Mario Perantoni, presidente M5S della commissione Giustizia della Camera. Non è difficile pensare che soprattutto una parte della magistratura requirente sia pronta a compiere operazioni di distrazione di massa: intraprendere una battaglia contro il fronte garantista accusato di voler mettere il bavaglio alla stampa in modo da far dimenticare gli scandali che la attraversano da Milano a Roma, tanto per cominciare. Chi potrebbe giocare il ruolo del mediatore è il Pd. Se è vero che il governo ha accolto un ordine del giorno a prima firma del vice capogruppo dem alla Camera Piero De Luca a favore del recepimento tempestivo della direttiva stessa, lo stesso De Luca però precisa al Dubbio: “Comprendo e condivido le preoccupazioni del presidente Santalucia ma mi sento di tranquillizzarlo in quanto il recepimento integrale della direttiva non mette affatto in discussione il diritto all’informazione e alla libertà di stampa. Semplicemente mira a tutelare la dignità di una persona sottoposta a indagini e a non adoperare modalità informative che portino a considerarla già colpevole agli occhi dell’opinione pubblica. Noi lavoreremo per trovare una soluzione equilibrata senza cadere in alcun eccesso: nessuno vuole mettere bavagli ma argini a un eccesso di comunicazione sensazionalista che svilisce troppo spesso la presunzione di innocenza”. Un’altra strada impervia per il governo sarà nella riforma del Csm. Ad animare il dibattito non ci sarà solo la campagna referendaria promossa da Lega e Partito Radicale, ormai ad un ottimo punto di raccolta firme, ma anche l’ancestrale scontro tra chi vede in ogni proposta innovatrice un attentato all’autonomia dell’ordine giudiziario e chi desidera la “normalizzazione” di una magistratura viziata da troppi eccessi distorsivi della sua funzione. E sicuramente la magistratura associata farà una forte opposizione al sorteggio, a cui sarebbe affidato il compito di espellere il correntismo dal Csm. L’America ci dimostra perché la riforma Cartabia non può bastare di Paolo Itri Il Riformista, 7 agosto 2021 Secondo l’analisi basata sui dati forniti dal Ministero della Giustizia, nel 2020 è stato rilevato un ulteriore rallentamento della durata dei processi penali. In base al Disposition Time - ossia l’indice che la Commissione europea per l’efficienza della giustizia (Cepej) ha individuato con l’obiettivo di monitorare il lavoro dei Tribunali - si osserva, tra il 2019 e il 2020, un allungamento del 22,4% della durata media dei processi, essendosi passati dai 337 giorni del 2019 ai 413 del 2020. Il dato rappresenta un trend costante del nostro sistema processuale. Nonostante gli innumerevoli interventi normativi, sembra che nessuna riforma sia in grado di invertire la tendenza alle lungaggini processuali. Proviamo a spiegare quali sono le cause di questa situazione. Come abbiamo già avuto modo di osservare dalle colonne di questo giornale, il sistema statunitense - dal quale nel 1989 fu mutuato in Italia il processo accusatorio - si basa su tre capisaldi che, se da un lato ben rappresentano il tipico pragmatismo americano, dall’altro lato danno l’idea di quanto quel sistema sia alieno dai bizantinismi italiani. Quei capisaldi sono costituiti dalla discrezionalità dell’azione penale, dalla inappellabilità delle sentenze e dalla natura del verdetto pronunciato dalle giurie americane. Partiamo dalla prima. Nella tradizione anglosassone l’azione penale rientra nelle valutazioni discrezionali della pubblica accusa che decide se coltivare o meno la persecuzione penale in base a un calcolo di priorità tra i reati, ovvero di convenienza nella raccolta della prova per i reati più gravi, in base a una stima di natura economica tra costi e benefici. Al contrario, quando l’azione penale è obbligatoria come in Italia, è escluso che il pm possa discrezionalmente decidere se investire o meno il giudice della notizia di reato. Ovviamente, la possibilità per la pubblica accusa di perseguire o meno un reato incardina in capo al pubblico ministero una responsabilità di natura tipicamente politica che è incompatibile con il nostro attuale assetto costituzionale. Sempre per quanto riguarda l’Italia, alla obbligatorietà dell’azione penale bisogna poi aggiungere l’atavica tendenza alla proliferazione delle fattispecie di reato, un fenomeno storicamente legato alla cultura dell’emergenzialismo degli anni di piombo, ma anche alla eccessiva ideologizzazione politica, tipica del nostro Paese, che porta spesso a utilizzare il diritto penale a mo’ di clava contro l’avversario politico. Il secondo caposaldo del sistema accusatorio americano è poi costituito dalla inappellabilità delle sentenze pronunciate dai giudici di primo grado. Nel modello di processo angloamericano, al giudizio di appello non si perviene mai per rivedere “in toto” quello di primo grado, ma solo per porre rimedio agli eventuali errori di diritto o di procedura. Nel nostro sistema, invece, l’appello è uno strumento di rivalutazione completa dei fatti da parte di un giudice a cui è consentito di riesaminarli da capo attraverso la sola lettura delle carte. Il terzo caposaldo del sistema anglosassone è, infine, il verdetto. Soprattutto tale ultimo aspetto incide non poco sulla durata dei processi. Mentre le sentenze italiane hanno infatti motivazioni di solito molto articolate, negli Stati Uniti l’atto finale del processo è il verdetto pronunciato dalla giuria popolare che non deve essere motivato. In altri termini, quindi, il processo penale italiano non solo moltiplica il numero dei reati e impone l’obbligo di perseguirli tutti senza eccezioni, ma pretende pure di assicurare a ogni reato e al relativo autore un triplice grado di giudizio che è sostanzialmente estraneo alla struttura del processo accusatorio, imponendo al giudice di motivare espressamente qualunque decisione egli prenda, non importa se si tratti di un processo per strage o per guida senza patente. Questi sono i motivi per i quali la riforma Cartabia non inciderà sull’attuale situazione, lasciando ancora una volta immutate le cause strutturali del problema che richiederebbe, invece, interventi di ben più ampio respiro, soprattutto a livello di riforme costituzionali. Le ragioni della crisi sono troppo profonde e complesse per poterne affidare la soluzione a “mini-riforme” di carattere settoriale o declamatorio, ovvero meramente abolitivo, come vorrebbero invece i promotori dei quesiti referendari. Cara Cartabia, spieghi la sua riforma e si difenda dai giudizi triviali ricevuti di Adriano Sofri Il Foglio, 7 agosto 2021 La ministra della Giustizia scelga una sede - una televisione, una piazza d’Italia, un posto che non abbia le regole, le limitazioni e i rituali del Parlamento - e degli interlocutori: i cittadini non hanno sentito i suoi argomenti, solo gli insulti. Ci sono giudizi opposti sulla riforma della giustizia, sia pure opposti alla maniera del mezzo pieno e mezzo vuoto come dopo il compromesso di un compromesso. Sembrano ora affidati alla verifica dei fatti. Ma c’è un capitolo compiuto che esigerebbe subito un bilancio. Una campagna molteplice ha additato la riforma cosiddetta Cartabia, così come era stata accettata dall’intera maggioranza (dopo essere passata dal presidente emerito della Consulta Lattanzi al sottosegretario Sisto, o dal ragionevole recupero della prescrizione all’improcedibilità, e così via) come un regalo alla mafia e ai delinquenti in genere. Pronunciamenti di vario stile ma concordanti sulla sostanza hanno dichiarato che migliaia, decine e centinaia di migliaia di processi sarebbero “andati in fumo”. Insulti triviali sono stati metodicamente rivolti a Marta Cartabia, specialmente (non solo) dal Fatto e dal suo direttore, il creativo inventore di formule come “la schiforma”, passata tal quale dai suoi pezzi alla prima pagina e ai comunicati dei 5 stelle originari: o inetta o complice della mafia. Anche dopo l’approvazione della legge, le rivendicazioni dei suoi riparatori, da Conte ai suoi parlamentari agli eminenti magistrati, ribadiscono di aver salvato la giustizia italiana dall’affossamento delle centinaia di migliaia di processi, a cominciare da quelli alla criminalità organizzata, e dall’universale salvaladri. Il procuratore antimafia e antiterrorismo, Cafiero De Raho, aria da persona seria, e infatti non guardava in camera mentre vaticinava, testualmente, conseguenze sulla democrazia e minata la sicurezza del paese se la legge Cartabia già approvata in Consiglio dei ministri fosse passata, ha commentato la legge emendata in Aula così: “Ora c’è la certezza che processi per reati gravi, come mafia e terrorismo si celebreranno” (più sbrigativamente il virgolettato dei titoli: “I processi per mafia si faranno”). Ma questo, e le frasi analoghe pronunciate da tutti gli esponenti del fronte dei salvatori in extremis della legge, vogliono dire, e dicono al pubblico, che con la legge disegnata da Cartabia e Draghi, quella per la quale era stato comunque annunciato il voto di fiducia, “i processi per mafia non si sarebbero fatti”. E così i processi per terrorismo, e i processi per i grandi disastri - la strage di Viareggio, il ponte Morandi, la funivia del Mottarone... E la stessa richiesta di inserire fra i reati di cui tutelare la persecuzione i disastri ambientali, assolutamente ragionevole per sé, implica la convinzione che senza quell’inclusione i crimini contro l’ambiente saranno improcedibili... In televisione abbiamo visto e ascoltato con dolore Ilaria Cucchi deplorare convintamente che con la legge Cartabia pre-emendamento i processi per Stefano non sarebbero avvenuti, e Gratteri confermare, oltre a proclamare la riforma la peggiore a memoria d’uomo, la sua. La domanda è: Marta Cartabia è disposta a passare oltre senza scrollarsi di dosso questa mole di asserzioni? Ha impiegato in Parlamento i suoi argomenti, certo. Ha mostrato che i tempi previsti dalla legge nella versione del primo compromesso erano già quelli rispettati dalla maggioranza delle procure e dei tribunali italiani, e clamorosamente mancati in altri. Ha sostenuto che la legge non sarebbe stata retroattiva, e che dunque l’elenco intimidatorio dei processi aperti sui casi più drammatici era infondato. Ha avvertito che i tempi stretti erano bilanciati da misure di rafforzamento di organici e collaboratori e risorse materiali. Eccetera. Mi pare che non basti. Mi pare che la ministra Cartabia potrebbe scegliere una sede - una rete televisiva, una piazza d’Italia, un posto che non abbia le regole, le limitazioni e i rituali del Parlamento - e degli interlocutori: non so, Ilaria Cucchi, i parenti delle vittime di Viareggio o di Rigopiano, De Raho, Gratteri... (non dico Travaglio, c’è un limite). Esempi come quello, riferito dal rettore di Napoli, del docente assolto dopo vent’anni, colpiscono, ma non abbastanza, e del resto Napoli è la città di Bassolino, e l’ha già scordato. Non sono affamato di spettacolarizzazione, al contrario. Cartabia ha argomentato la sua posizione in Parlamento, che è il luogo deputato. Ma la stragrande parte dei cittadini italiani non ha sentito. Hanno sentito e visto in casa loro, sugli schermi, in più e più repliche, De Raho e Gratteri, e Di Matteo e Ilaria Cucchi, e letto ogni sera nelle rassegne televisive i titoli in cui lei Cartabia era bugiarda, complice, incapace, poveretta, ministra del nulla e, l’apoteosi, guardagingilli. Penso che convenga reagire al rischio di passare alla storia, cioè alla rete, come la ministra della Giustizia che tentò di far passare una riforma salvamafiosi, salvacorrotti, salvaladri. (Successe già a persone degne in quel posto scomodissimo: Giovanni Conso, per dirne uno). Per non difendersi “dal processo”, ci vuole un giudice giusto di Vincenzo Vitale L’Opinione, 7 agosto 2021 Il nostro tempo si caratterizza, fra l’altro, per l’ossessiva ripetizione di frasi fatte, di slogan ribaditi in ogni dove e che, secondo chi li pronunci, dovrebbero sortire l’effetto di tacitare gli interlocutori di parere opposto: cosa che ovviamente raramente accade. Uno di questi slogan, ripetuto dai giornali, attraverso le televisioni ed altri canali di comunicazione, afferma che gli imputati dovrebbero “difendersi nel processo e non dal processo”. Di solito a ripeterlo sono i magistrati, i politici, i giornalisti che si collocano naturalmente nel solco del “politicamente corretto”, declamandolo con una sorta di saccente sicurezza, non esente da una punta di spavalderia istituzionale intrisa di ardore moraleggiante. Eppure, a ben guardare, si tratta di una enorme sciocchezza. Infatti, è la stessa storia del processo penale a dimostrare il contrario, perché le più gravi ingiustizie passate alla storia sono state consumate attraverso il processo e non fuori di esso. Si pensi emblematicamente al celebre caso Dreyfus, il capitano ebreo condannato in Francia alla deportazione perpetua per spionaggio a favore dei tedeschi, pochi anni dopo la dolorosa (per i francesi) sconfitta di Sedan. La Francia non era certamente, alla fine dell’Ottocento, uno Stato dispotico, tutt’altro; tuttavia Dreyfus fu condannato da innocente nel nome di una ragion di Stato che si sposava con le istanze militariste. Ne fu prova il fatto che a Rennes, la camera di consiglio che lo giudicò ebbe la durata di tre minuti esatti di orologio: il che alimentò la forza polemica di Zola, il quale appunto assunse, davanti al mondo intero, la difesa di Dreyfus “dal processo” e non certo “nel processo”, dal momento che la sentenza di condanna era evidentemente già scritta prima di dare inizio alla riunione dei giudici. La procedura dunque era stata rispettata in tutto e per tutto, nessuna irregolarità o violazione di norme processuali era stata consumata: ma quella procedura, quelle norme permisero la condanna di un innocente. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, perché le più grandi nefandezze della storia furono consumate nel processo, attraverso il processo e non fuori di esso e sarebbe bene rammentarlo ai moralisti di casa nostra. Ma qui invece conta un altro aspetto: conta capire che nessuna procedura, per quanto perfezionata, potrà mai impedire al giudice ingiusto di manipolarla a suo arbitrio. Per questo, accapigliarsi per mesi o per anni dietro un aggettivo da inserire in una norma (gli indizi debbono essere gravi oppure gravissimi?) oppure dietro un numerino (la improcedibilità la facciamo sorgere dopo due anni o dopo tre?) si fa cogliere - non me ne voglia la ministra Marta Cartabia - come una vera fatica di Sisifo: fatica inutile, sprecata, una sorta di superfluo gioco da bambini cresciuti troppo in fretta che non si accorgono del mondo reale intorno a loro. Si tratta invero del fenomeno messo in luce molti anni or sono dal politologo Ernst Fraenkel, il quale molto opportunamente parlava di “doppio Stato”, per indicare come anche se le procedure fossero improntate ai principi dello Stato di diritto, fossero pienamente democratiche, ugualmente esse lascerebbero ampi spazi di discrezionalità e in definitiva di arbitrio a chi sia chiamato a governarle, i giudici: da qui una inevitabile doppiezza del sistema, formalmente democratico, in realtà arbitrario. E da qui ovviamente la necessità di difendersi “dal processo”, cioè dal giudice che attraverso il processo potrebbe consumare una ingiustizia. Ed ecco perché Platone preferiva di gran lunga il giudice giusto rispetto ad ogni altra procedura pur raffinata: senza di questa permane sempre la “possibilità della ingiustizia”, sempre presente nell’esperienza umana; ma senza di quello si apre la porta alla “impossibilità della giustizia”, effetto enormemente più grave e devastante. Ovviamente, la figura del giudice giusto va letta qui non in senso assoluto, ma in controluce al suo riferimento negativo, il giudice ingiusto. Per questo, qui basterà notare in modo succinto e approssimativo il profilo di questo, per poi scorgere in modo positivo il profilo di quello. Diremo dunque che ingiusto non è soltanto quello corrotto o politicizzato; è anche il giudice pieno di sé, votato alla sicumera, convinto di esser capace lui soltanto di aggiustare le cose, incline a vedere negli avvocati gente che lo vuole gabbare - ma a lui, che è furbo, non gliela si fa - sensibile alle logiche correntizie e corporative, sostanzialmente autoreferenziale, insofferente alle esigenze delle parti e dei difensori: purtroppo esempi di tipi umani di questo genere fra i giudici in servizio non mancano. In senso contrario, diremo invece giusto il giudice che sia consapevole dei propri limiti, timoroso del potere che pur deve usare, consapevole di esser esposto all’errore, che insomma ascolta prudentemente e pazientemente tutti gli attori del processo con sensibilità umana e giuridica allo scopo di decidere sempre “con timore e tremore”: anche esempi di questi tipi umani per fortuna non mancano fra i giudici in servizio, ma sembrano ad esaurimento. E bisogna purtroppo rilevare come gli aspetti qui citati - quelli della formazione della coscienza giudicante - siano oggi completamente negletti e perfino ignorati dal legislatore, dalle Università, dai politici. In questa prospettiva, si capisce allora perché la più raffinata delle procedure, nulla potrà garantire se governata da un giudice ingiusto, che se ne farà insindacabile arbitro (basta, per esempio, non ammettere un teste a difesa di importanza essenziale, per aprire la strada verso una condanna pressoché certa); mentre, al contrario, la peggiore, la più rabberciata ed approssimativa delle procedure, nelle mani di un giudice giusto, sarà in grado di garantire i diritti di tutti. Ne viene che la presenza di giudici ingiusti rende necessaria la difesa “dal processo e non nel processo”, perché quest’ultima sarebbe del tutto inutile. Di converso - come notava il compianto Lanfranco Mossini, che non a caso dedicò molta attenzione alla figura biblica di Salomone (e non alle sue procedure) - chi riuscisse ad assicurarsi un giudice giusto non dovrà di altro preoccuparsi: il resto verrà da sé. Con qualsivoglia procedura. “Una legge per dire basta al traffico di notizie tra procure e giornali” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 agosto 2021 Il penalista e deputato di Italia Viva Catello Vitiello è primo firmatario di una proposta di legge che “interviene sul delicato rapporto fra giustizia e media e mira a trovare un punto di equilibrio tra le necessità investigative e le esigenze di pubblica informazione in occasione di vicende giudiziarie di pubblico interesse, da un lato, e il diritto dei cittadini alla tutela della loro riservatezza, soprattutto quando risultano estranei al procedimento, dall’altro lato”. Tema di grandissima attualità considerato che alla ripresa dei lavori dell’Aula si intensificherà il confronto sul decreto attuativo di recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Onorevole, possiamo dire che il vento è cambiato, tra la riforma penale e la direttiva sulla presunzione d’innocenza. Lei crede però che la magistratura possa compattarsi come baluardo di difesa della libertà di stampa contro il fronte garantista, di cui lei è parte, che invece mira a tutelare le vittime della gogna mediatica? Preliminarmente mi preme sottolineare che più di fronte garantista, parlerei di coloro che mirano al rispetto dei principi costituzionali e che credono occorra ancora fare qualcosa per attuare pienamente la Carta. Penso appunto alla presunzione d’innocenza che troppo spesso viene calpestata. Ho apprezzato dichiarazioni di tanti magistrati, come Spataro e Violante, che hanno visto nella “riforma di mediazione Cartabia” appena attuata un buon punto di partenza. In merito alla sua domanda accadrà senz’altro come accaduto nel 1988 quando cambiò il codice di procedura penale e nel 1999 con la modifica dell’articolo 111 della Costituzione: la magistratura ha sempre remato contro perché restia ai cambiamenti. In questi momenti l’autonomia della politica diventa fondamentale, per respingere il tentativo di sopprimere le garanzie fondamentali. Considero sacra la libertà di stampa, tanto è vero che nella legge che ho proposto insieme ad altri colleghi di diversi partiti ho riversato il concetto per cui il carcere non rappresenta il giusto deterrente per i giornalisti in caso di diffamazione. È altrettanto vero che la libertà di stampa è un valore da coniugare con altri, come il diritto di difesa, la reputazione, la riservatezza e, in definitiva, la dignità umana dei soggetti coinvolti nelle indagini, che siano essi indagati oppure no. In questo quadro i media dovrebbero prestare maggiore attenzione e sensibilità nel non calpestare quei diritti appena elencati. Oggi abbiamo la copertura della direttiva 343/ 2016 per cui la libertà di stampa non può prevalere su quella alla reputazione. Qual è il cuore della sua proposta? Sono due le direzioni che indico: la prima è quella di rimettere mano al segreto investigativo. La norma punta a un rafforzamento della tutela del segreto investigativo, non solo per evitare la compromissione della fase investigativa, ma soprattutto per tutelare i privati cittadini da vere e proprie fughe di notizie non dettate dalla volontà di boicottare l’indagine bensì dalla possibilità di offendere la reputazione di un individuo coinvolto in un procedimento penale. Quello che vorrei far capire è che non vogliamo porre un freno ai cosiddetti scoop giornalistici, ma a quelli fatti a scapito della vita delle persone. Purtroppo oggi noi facciamo la differenza tra divieto di rivelazione e quello di pubblicazione: questo giochetto consente che la notizia esca dagli uffici di procura o di polizia giudiziaria. Invece, il rapporto che intercorre tra le condotte di rivelazione e di informazione è molto stretto, in quanto la rivelazione costituisce un passaggio prodromico essenziale rispetto alla pubblicazione. Quindi quello che proponiamo è che la normativa del segreto di ufficio si estenda anche all’arco temporale in cui gli atti di indagine sono conosciuti dalle parti, cioè fino a quando non inizia il processo vero e proprio. In quest’ultimo caso il ruolo della stampa si rivela invece fondamentale, quando nel contraddittorio e con un giudice terzo si forma o meno la prova. In questo caso la cronaca giudiziaria ha il dovere di far conoscere quando sta avvenendo nell’aula di tribunale, anche per vigilare su eventuali abusi di potere della giurisdizione. Chi frequenta le aule giudiziarie sa che alcuni giornalisti si vedono solo nel giorno delle conferenza stampa delle procure e quando arriva la sentenza... Per questo è importante creare un’alta specializzazione per chi è addetto ai lavori e una maggiore responsabilizzazione. Ed è questa la seconda direttrice di marcia della mia proposta: occorre alzare l’asticella per far capire a chi sbaglia che c’è una sanzione, che farà da deterrente. Ma spero sempre che prima di dover applicare una sanzione, cambi il trend culturale della comunicazione giudiziaria. Questo ci espone anche a pesanti critiche da parte della stampa, anche se ammetto con sincerità che il lavoro di tanti magistrati e giornalisti è un lavoro onesto e rispettoso delle regole. Però se in una percentuale minima si violano quelle regole si rischia di rovinare la vita di una persona, i suoi rapporti di lavoro, legami familiari e di amicizia che vengono stravolti quando il suo nome finisce a caratteri cubitali su un giornale. Dal punto di vista sanzionatorio quale cambiamento propone la proposta di legge? Per colpire davvero il disvalore delle fattispecie di rivelazione, bisogna attribuire la responsabilità a coloro che, in definitiva, sono i veri “custodi” del segreto. Il nostro testo propone l’inserimento di una nuova fattispecie che riguarda la forma di rivelazione aggravata dalla qualifica soggettiva di chi commette la violazione. La giustizia per donne e figli di Linda Laura Sabbadini La Repubblica, 7 agosto 2021 Una democrazia ha bisogno di un efficace funzionamento della giustizia per garantire i diritti dei cittadini. E il nostro Paese non ce l’ha ancora. O meglio, è stata lanciata una importante sfida con la riforma del processo penale approvata pochi giorni fa. Che dovrà essere vinta nell’attuazione. Ora la sfida si allarga alla riforma del processo civile. E allora, attenzione, ci sono alcune questioni delicate che dovremo saper affrontare bene, con equilibrio, perché riguardano i diritti dei nostri bambini e delle madri che subiscono violenza. Succede che in un processo per separazione dei coniugi si decida per l’affido di un figlio ai due genitori, in presenza di una violenza domestica da parte del padre sulla madre. E che si deliberi l’affido condiviso prima della conclusione del processo penale. O che non se ne tenga proprio conto. La Convenzione di Istanbul lo vieta, perché l’affido condiviso dei figli in presenza di violenza domestica mette a rischio la vita di donne e bambini. L’indagine della Commissione Femminicidio presso i tribunali ha fatto emergere una forte criticità nei rapporti tra procedimento penale e civile. La prassi di acquisire sempre atti e provvedimenti del procedimento penale che riguardano le persone coinvolte nella causa civile nei casi di presenza di violenza domestica, è praticata da meno di un terzo dei Tribunali civili. E anche se gli atti vengono acquisiti, solo due terzi di questi vengono sempre considerati dai consulenti tecnici d’ ufficio, ai quali i giudici si rivolgono per essere supportati. E qui i dati evidenziano un ulteriore problema. E cioè che nei tribunali civili si ritenga sostanzialmente sufficiente che il consulente possieda una professionalità di tipo generico, mentre non viene richiesta una specifica specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica. Inoltre, troppo spesso vengono delegate ai consulenti funzioni che invece devono essere esercitate dai giudici. Cosa preoccupante, visto che stiamo parlando di casi gravi che mettono in gioco il futuro dei bambini e delle madri che subiscono violenza dal partner. Dovremo operare per una diversa selezione dei consulenti e una loro formazione adeguata, e per un ruolo più autonomo del giudice. Succede anche che il bambino sia affidato solo al padre o in casa famiglia anche se ha espresso un rifiuto a vedere il padre. E che la madre sia ritenuta responsabile del rifiuto del figlio. E per questo allontanata da lui o a causa di una patologia non esistente, la Pas, non riconosciuta dagli organismi scientifici internazionali o sotto altri analoghe denominazioni in nome di manipolazioni materne. Ma il rifiuto potrebbe nascondere una violenza contro la madre o contro il bimbo stesso. Confermata magari dalle dichiarazioni anche della madre. Sono situazioni delicatissime che pongono il problema di garantire un adeguato ascolto del minore, e della donna che dichiara di subire violenza. È necessario avviare un riordino delle disposizioni di ascolto dei minori. I giudici non dovrebbero poter delegare ad altri il loro ascolto. Dovrebbero esserci un obbligo di avvalersi anche di un esperto psicologo, ma non in sostituzione del giudice, l’obbligo della videoregistrazione dell’ascolto in modo da non doverlo ripetere, sovraccaricando il bambino di tensione, l’obbligo di coordinamento con altre autorità giudiziarie per non stressare troppo il minore. La bigenitorialità è un diritto dei bambini; non dei genitori, che hanno diritto/dovere all’esercizio della propria genitorialità fin quando non recano danno al proprio figlio o ad altri familiari perché violenti o incapaci di garantirne il benessere. E sta al giudice valutare. È evidente che su questi aspetti è fondamentale intervenire e adottare correttivi. La Commissione Femminicidio presieduta da Valeria Valente ha proposto emendamenti a maggioranza. La ministra Cartabia è molto sensibile a questi temi. Troverà la strada per sciogliere nodi così delicati. *Direttora centrale Istat Milano. Carceri, ecco i nuovi manicomi di Andrea Gianni Il Giorno, 7 agosto 2021 Boom di detenuti con patologie psichiatriche: 880, pari all’11%, negli istituti lombardi, il doppio rispetto al 2019 e mancano le strutture. Detenuti nelle carceri lombarde reduci dai campi di detenzione libici, con “segni evidenti di stress post-traumatico legato alle violenze e alle sevizie subite”. Minorenni, al Beccaria di Milano, pieni di rabbia che esplode contro coetanei ed educatori. Tossicodipendenti con problemi mentali legati anche ad anni di sostanze. Le carceri lombarde sono una polveriera: aumentano i detenuti con fragilità, e gestirli diventa sempre più difficile. Sono 880 le persone con problemi conclamati (672 con diagnosi di patologia psichiatrica e 208 con disturbi comportamentali), su un totale di circa 7.745 detenuti. E il garante del Comune di Milano, Francesco Maisto, ha scritto una lettera all’assessore al Welfare Letizia Moratti, chiedendo un confronto urgente sul tema, affrontato ieri anche in commissione a Palazzo Marino. Le conseguenze sono un aumento delle aggressioni nei confronti degli agenti, dei suicidi e degli atti di autolesionismo: secondo gli ultimi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) nel 2020 in Italia 61 detenuti si sono tolti la vita. Le radici del problema affondano anche nella riforma che ha istituito le Rems, strutture sanitarie che accolgono gli autori di reato affetti da fragilità mentale. “I posti sono pochi e le liste d’attesa lunghe - spiega il direttore del carcere di San Vittore, Giacinto Siciliano -, i soggetti con disturbi psichici vengono collocati temporaneamente nelle carceri”. Carceri che scontano già tutti i problemi connessi al sovraffollamento. La Lombardia, dai dati del Dap, è la regione con il divario maggiore tra numero di detenuti e capienza regolamentare: 7.745 detenuti per 6.139 posti. “Dal 2015 si è registrato un crescendo di aggressioni nei confronti del personale - aggiunge Maisto - il 2020 è stato l’anno peggiore anche per effetto della pandemia, ma nel 2021 potremmo avere il doppio dei casi del 2019 e il triplo rispetto al 2015”. Per il garante bisognerebbe assumere personale specializzato e aumentare i posti nelle Rems, che hanno sostituito i vecchi Opg. Nel carcere di San Vittore, ad esempio, ci sono tre detenuti in attesa di essere ospitati nelle Rems “ricoverati in strutture esterne, perché sono assolutamente ingestibili”. Anche al Beccaria sono aumentati i ragazzi con disturbi. “Vanno garantite le ore di supporto che per legge il servizio pubblico deve destinare alle strutture penitenziarie”, sottolinea il direttore di Opera, Silvio Di Gregorio. Venti ore di assistenza ogni 100 detenuti, solo sulla carta. Napoli. Non è ancora in fin di vita, così i giudici dicono no ai domiciliari per Tullio di Viviana Lanza Il Riformista, 7 agosto 2021 Il 71enne, diabetico e cardiopatico, si trova a Poggioreale per un residuo di pena. Avrebbe bisogno di cure, ma la Sorveglianza gli nega la scarcerazione: per i magistrati, forse, non è abbastanza malato. La teoria dice che la reclusione in carcere deve essere l’extrema ratio. L’attualità ricorda come il sovraffollamento sia ancora un problema molto grave, lo ha ribadito anche il ministero Marta Cartabia al termine della sua visita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere un mese fa e lo confermano dati e statistiche. Inoltre, con la pandemia in atto, la vita e la gestione dei detenuti all’interno degli istituti di pena è diventata sempre più difficoltosa. Da Napoli arriva la storia di Tullio, 71 anni, cardiopatico, con un residuo di pena di cinque anni di reclusione da scontare: per uno come lui il carcere è davvero l’extrema ratio? Per l’avvocato Paolo Cerruti, suo difensore, la risposta è no: la difesa aveva presentato un’istanza ai giudici della Sorveglianza chiedendo di applicare la misura alternativa degli arresti domiciliari. Per il magistrato di Sorveglianza che ha valutato l’istanza, il carcere è invece l’unica soluzione possibile. Ma Tullio è anziano, è malato, ha bisogno di controlli periodici, dovrebbe vivere in un ambiente salubre: sono le questioni sollevate dal difensore. La storia di Tullio è sovrapponibile a quella di una gran parte delle 3mila persone detenute in Campania con un residuo di pena non superiore ai cinque anni. La difesa di Tullio aveva fatto riferimento anche a una serie di argomentazioni tecniche, in punta di diritto, richiamando sentenze della Cassazione e della Corte Costituzionale. Per la difesa di Tullio, insomma, per età e condizioni di salute il 71enne non dovrebbe trovarsi recluso in un carcere, tra l’altro sovraffollato come quello di Poggioreale. Il detenuto Tullio, 71 anni, in carcere dopo che la sentenza è diventata definitiva a dicembre scorso e con un fi ne pena fissato per il 21 settembre 2026 per un cumulo di reati di truffa e ricettazione, “soffre di diabete mellito, ipertensione arteriosa e dislipidemia in relazione alle quali viene attestato che presenta condizioni cliniche stabili”, si legge nella relazione sanitaria del carcere che il magistrato di Sorveglianza riporta nel provvedimento con cui nega ogni altra misura diversa dal carcere, ritenendo che in carcere, a Poggioreale, Tullio sia assistito h24 da personale medico. “Non vi sono i presupposti per la concessione del differimento della pena, non essendo stato evidenziato dalla relazione sanitaria un attuale o imminente pericolo quoad vitam o una patologia che non possa essere fronteggiata in istituto anche con il ricorso a ricoveri e visite presso strutture sanitarie esterne”, scrive il magistrato per motivare il rigetto dell’istanza. Come a dire che, per un detenuto come Tullio, la decisione sull’eventuale concessione di misure alternative al carcere andrebbe considerata solo in caso di pericolo di vita. Del caso del 71enne si era interessato anche il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, affinché gli fossero assicurati le cure e i farmaci salvavita di cui ha bisogno. Stando alla mole di istanze che pendono dinanzi al Tribunale di Sorveglianza di Napoli, casi come quello del detenuto 71enne se ne potrebbero contare a centinaia. In questo periodo si parla tanto di svuotare le carceri per risolvere il dramma del sovraffollamento e rendere le celle più vivibili e una delle proposte sul tavolo della politica è quella di allargare l’applicazione di misure alternative tra chi ha da scontare pene lievi. In Campania, se si considera il tetto dei cinque anni di reclusione come residuo massimo di pena da poter scontare anche con misure alternative, si parla di una popolazione di 3.002 persone. Se invece si considerano i residui pena entro i tre anni, si parla di 2.128 individui. Significherebbe alleggerire le strutture penitenziarie campane di circa un terzo dell’attuale popolazione detenuta. Significherebbe anche poter meglio gestire e realizzare percorsi di rieducazione e responsabilizzazione dei reclusi e ridare alla pena la sua originaria funzione di recupero e non di mera punizione. In poche parole: rispettare la Costituzione. Spoleto (Pg). “Ha 3 lamette nello stomaco da 15 giorni, portatelo in ospedale” di Rossella Grasso Il Riformista, 7 agosto 2021 Quella di Ciro Esposito, 43 anni, è un’epopea senza fine. Tutto è iniziato quel maledetto 6 aprile 2020 nel Carcere di Santa Maria Capua Vetere dove era detenuto. Subì quella “orribile mattanza”, la “perquisizione straordinaria”, che diventò violenza sui detenuti da parte di poliziotti in assetto anti sommossa. Quelle immagini del sistema di videosorveglianza fecero il giro del mondo. Ciro denunciò ai carabinieri quelle violenze e con lui sua moglie Flavia. Nei giorni in cui scoppiò il caso e furono emesse 52 misure cautelari tra agenti di Polizia Penitenziaria e funzionari accusati a vario titolo di tortura, lesioni aggravate, maltrattamenti aggravati, falso, calunnia, favoreggiamento, frode processuale e depistaggio, Flavia disse in varie interviste di aver subito varie pressioni da parte degli agenti affinché ritirassero le denunce. Ma Flavia e suo marito Ciro non ne hanno voluto sapere “perché quello che è successo è troppo brutto e chi ha sbagliato deve pagare”, aveva detto Flavia ai microfoni di varie testate. Ciro prima fu trasferito al carcere di Secondigliano e poi ancora più lontano, a Spoleto. Ha più volte chiesto il riavvicinamento. Lo ha fatto anche in una lettera pubblicata dal Riformista, in cui raccontava la sua situazione, minacciando anche il suicidio. “Io ho già avuto un brutto periodo nel passato e sto ancora qua grazie a una dottoressa del carcere di Benevento che mi ha salvato la vita quando stavo morendo nel carcere di Benevento per il mio gesto estremo. Ora prendo ancora farmaci ma solo per dormire, perché come inserimento non c’è nulla. Ora ho ricevuto ancora un altro regalo del Dap: essere trasferito a Spoleto. Dopo ciò che è accaduto le conseguenze chi le sta pagando? Io e la mia famiglia che mi è impossibile rivedere. Questa cosa mi sta uccidendo”, scriveva Ciro nella lettera. Da allora la paura è tanta e Ciro, che prende psicofarmaci ed è un soggetto fragile, per paura che anche nel carcere di Spoleto qualcuno gli possa far male ha iniziato a camminare con tre lamette in bocca. “Una notte, nel sonno, le ha ingerite senza accorgersene - racconta Flavia al Riformista - Da allora sono passati 15 giorni. Dalla tac è emerso che si sono divise in 3 organi diversi ma non lo portano in ospedale. La dottoressa gli ha detto che deve espellerle per via naturale, mangiando patate. Io penso che così poteva succedere dopo 1 o 2 giorni, ma non 15 giorni dopo. E adesso quelle lamette stanno ancora là con il rischio per la sua salute. Perché non si decidono a portarlo in ospedale?”. L’avvocato Rolando Iorio che difende Ciro e la sua famiglia, gli ha fatto visita in carcere a Spoleto. Quello che ha visto è una situazione drammatica. “L’ho trovato molto dimagrito, invecchiato, si muoveva lentamente - racconta l’avvocato al Riformista - Parlava piano e aveva difficoltà anche a rispondere alle mie domande. Ma la situazione che più mi preoccupa sono quelle lamette nel suo corpo. Ancora non è stato previsto nessun intervento per togliergliele”. L’avvocato spiega che Ciro già prendeva psicofarmaci perché ha problemi mentali. È un soggetto fragile e la situazione sta via via peggiorando. “Non so se stia prendendo gli stessi farmaci ma sicuramente non l’ho trovato bene - continua l’avvocato - Gli hanno fatto una tac e hanno visto che queste lamette sono ora in posizioni diverse. È assurdo che non ci sia in programma un modo per rimuoverle”. Non occuparsi di lui può essere una ritorsione dopo le denunce? “Non ci voglio nemmeno pensare a una ipotesi di questo tipo - dice Iorio - Non credo che ci siano connessioni con i fatti di Santa Maria Capua Vetere. Non credo ci sia malafede, solo ritardo, ma bisogna intervenire perché la situazione è grave”. Intanto Flavia spera che l’istanza di riavvicinamento sia presa in considerazione e che Ciro venga trasferito in un altro carcere più vicino a casa. Perugia. “Anche i piccioni hanno le ali”, il teatro in carcere anima le vie del centro storico umbriacronaca.it, 7 agosto 2021 “Anche i piccioni hanno le ali”. L’iniziativa, a cura di Vittoria Corallo, è realizzata nell’ambito della terza edizione di Per Aspera ad Astra, progetto nazionale promosso da Acri sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e realizzato in collaborazione con il Teatro Stabile dell’Umbria e la Casa Circondariale di Capanne. Tra immagini fotografiche e video “Anche i piccioni hanno le ali” animerà il centro storico di Perugia dal 7 al 30 agosto. A cura di Vittoria Corallo, l’iniziativa è nata nell’ambito di Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza, progetto promosso a livello nazionale da Acri, l’Associazione delle Fondazioni di origine bancaria e sostenuto da un nucleo di Fondazioni di origine bancaria, tra cui la Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, con l’obiettivo di tracciare un percorso che metta insieme le migliori esperienze di teatro in carcere presenti in diversi contesti territoriali, facendoli dialogare e diffondendo l’approccio anche a beneficio di altri contesti e operatori. Frutto della terza annualità del progetto, che in Umbria insieme alla Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia vede coinvolti il Teatro Stabile dell’Umbria e la Casa Circondariale di Capanne, “Anche i piccioni hanno le ali” è una prima restituzione del percorso creativo sviluppato nel 2021 dai detenuti-attori della casa Circondariale di Capanne grazie ad uno scambio epistolare con alcune persone che hanno risposto per partecipare a questa collaborazione artistica. Nonostante le difficoltà causate dall’emergenza sanitaria le attività non si sono fermate ed hanno portato alla produzione di una serie di scatti fotografici, protagonisti della mostra “Abito persona”, e di alcuni percorsi video riuniti sotto il titolo “Lenti”, che verranno disseminati tra le vie del centro storico di Perugia. Abito persona, allestita in collaborazione con l’Associazione Fiorivano le Viole nell’ambito di Perugia Art Festival organizzato dalla Confraternita Sopramuro, sarà visitabile sabato 7 e domenica 8 agosto in via Cartolari e in via della Viola alla presenza dell’artista Vittoria Corallo. Il percorso fotografico, che resterà aperto fino al 30 agosto, cerca di ascoltare la voce dell’abito, immaginandolo come una maschera quotidiana, segno della persona che amplifica l’identità, convenzione estetica della propria immagine e condizionamento visivo capace di definire il ruolo sociale dell’individuo. Ci sono abiti senza testa e volto, abiti riconoscibili che possono rimandare a contesti specifici, e abiti estranei all’immaginario comune, come se l’abito parlasse lingue diverse, alcune più comprensibili di altre. I passanti che incontreranno i ritratti fotografici, grazie alla presenza dell’artista Vittoria Corallo avranno la possibilità di registrare un racconto vocale sull’identità della persona che indossa l’abito, e le voci registrate saranno riprodotte lungo le vie. Inoltre in alcuni locali di piazza Matteotti con Lenti sarà possibile fruire dei video, visualizzabili con i codici QR, attraverso un’esplorazione visuale in cui il linguaggio simbolico incrocia lo spazio e il tempo urbano creando dei cortocircuiti. Lenti, come lenti di ingrandimento o lenti deformanti, si concentra sul concetto di condizionamento come forza a cui l’individuo non può sottrarsi, proponendo una visione espansa e rarefatta che richiede uno sguardo immersivo e invoca l’attenzione che si raccoglie durante una pratica teatrale che amplifica le percezioni, intensifica la rete connettiva dei corpi nello spazio e cambia il respiro del tempo. “Siamo profondamente soddisfatti - afferma la Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Cristina Colaiacovo - di essere riusciti a portare avanti la terza edizione di Per Aspera ad Astra nonostante le limitazioni dovute all’emergenza sanitaria. Abbiamo aderito al progetto perché siamo fermamente convinti del suo valore culturale ed umano e ringraziamo il Teatro Stabile dell’Umbria e la Casa Circondariale di Perugia per aver ancora una volta dato il loro prezioso contributo, grazie al quale anche quest’anno i detenuti-attori si sono messi alla prova traducendo la loro esperienza formativa in una serie di immagini fotografiche e video che, grazie all’iniziativa “Anche i piccioni hanno le ali”, potranno essere fruibili al pubblico esterno”. Napoli. Carceri, il Garante presenta rapporto su habitat e affettività ansa.it, 7 agosto 2021 “Abbiamo ritenuto che da entrambi questi temi (habitat e affettività), occorre ripartire per riportare al centro dell’attenzione il dettato costituzionale che assegna alla pena una funzione rieducativa e non afflittiva. Habitat e affettività intesi come un insieme di sentimenti, emozioni, stati d’animo e passioni, in grado di garantire l’espressione degli aspetti fondamentali della personalità. Carcere e affettività sembrano due parole inconciliabili per chi vive e chi si occupa di carcere”: così Samuele Ciambriello, Garante campano dei detenuti presentando in Consiglio Regionale il secondo volume di Quaderni di ricerca su habitat e affettività, promosso dal suo Ufficio d’intesa con l’Osservatorio regionale sulla detenzione. L’incontro è stato introdotto dal presidente del Consiglio Regionale della Campania Gennaro Oliviero: “È grazie al lavoro di Samuele e alla sua collaborazione con il consiglio che siamo in grado di avere un focus e un’apertura costante sugli ambienti carcerari. Il sovraffollamento da un lato e la difficoltà di garantire l’affettività e un rapporto costante con la famiglia, devono essere stigmatizzati dalla politica che devono indicare le soluzioni. Dobbiamo ricordare che in carcere non c’è una belva ma una persona che ha sbagliato e deve scontare una pena certa ma passa attraverso la certezza dei suoi diritti”. La pubblicazione, 60 pagine, raccoglie contributi di diversi professionisti, di altri garanti, testimonianze, e una proposta di legge in materia di “tutela delle relazioni affettive intime delle persone detenute” primo firmatario la senatrice Monica Cirinnà. All’incontro hanno preso la parola alcuni autori di questi contributi: il Garante di Napoli Pietro Ioia, che ha raccontato la sua esperienza in un carcere spagnolo in cui ha avuto la possibilità di concepire una figlia durante la detenzione, Riccardo Polidoro responsabile Osservatorio Unione Camere Penali Italiane, Anna Malinconico presidente della cooperativa Città della Gioia, Claudia Felline coordinatrice dell’Osservatorio Regionale sulla detenzione. Durante la presentazione Ciambriello ha stigmatizzato “i campi di calcio inutilizzati negli Istituti penitenziari, i passeggi ricavati tra edifici impersonali, le dotazioni igieniche insufficienti nelle celle, il sovraffollamento delle stesse, la mancanza di spazi per la socialità nei reparti, il non utilizzo nelle aree verdi per i colloqui con i propri cari, rappresentano un carcere che non è in grado di tutelare la dignità dei detenuti, dei minori e delle loro famiglie”. La strada giusta è la solidarietà di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 7 agosto 2021 Problema vaccini: l’obiettivo è sconfiggere l’intolleranza, dobbiamo scongiurare l’ulteriore diffusione di conflitti sociali. Per risolvere la complessa problematica dei vaccini, non c’è altra strada che abbattere l’intolleranza e sviluppare la cultura della solidarietà. D’altra parte la storia ma anche più semplicemente la cronaca di questi giorni, comprovano che una mera e non argomentata disapprovazione verso chi rifiuta di vaccinarsi può condurre ad un risultato opposto da quello voluto poiché fomenta una discriminazione che, a ben vedere, fonda sul pregiudizio che, paradossalmente, è ciò che caratterizza chi si oppone ai vaccini. Purtroppo i pregiudizi oltre ad essere resistenti, in forza della naturale propensione a preservare le nostre opinioni misconoscendo ciò che le contraddice, tendono a rinforzarsi quando le ragioni poste in loro contrapposizione vengono percepite come strumentali. Ecco quindi che non è sufficiente limitarsi a demistificare le false credenze tra le quali, ad esempio, che attraverso i vaccini vengono iniettate microspie per controllarci oppure che i vaccini sono armi di distruzione di massa, ma devono essere fornite informazioni documentate volte a rinforzare la fiducia verso la ricerca scientifica. In definitiva dobbiamo prendere atto che siamo esposti a un conflitto ideologico prima ancora che giuridico, tra i favorevoli e i contrari alla vaccinazione, la cui soluzione implica una analisi della composita rappresentanza di questi ultimi che, come documenta una recente indagine Ipsos, è per lo più costituita da persone anziane, meno istruite e in difficoltà economiche. Non solo; l’ambiente culturale e sociale degli oppositori al vaccino, è distinto tra i no-vax (il 7%), che sostengono la pericolosità o quantomeno la inefficacia assoluta dei vaccini per la salute, e i free-vax (il 10%) che, a prescindere dalla dannosità dei vaccini, che potrebbe anche non sussistere, ritengono che la scelta debba essere assolutamente individuale. In questo caso il rifiuto è verso l’obbligo vaccinale e non del vaccino in sé. Sono aspetti, come è agevole comprendere, tutt’altro che trascurabili ai quali va ad aggiungersi la non secondaria circostanza che il 24% non vuole il green pass. Che non si tratti solo di una battaglia giuridica contro la “illegittimità costituzionale”, come viene normalmente argomentato nelle varie iniziative giudiziarie promosse, in particolar modo dagli operatori che ritengono di essere ingiustamente e illegalmente costretti a farsi iniettare un prodotto che potrebbe determinare ricadute negative sulla loro salute, basti considerare che viene sistematicamente ignorato il consolidato orientamento della Corte Costituzionale che, a partire da sentenze ormai datate (la n. 218 del 1994), ha stabilito che in presenza di un pericolo per la salute dei terzi, è incostituzionale una legge che non preveda l’obbligo del lavoratore, portatore del rischio, di sottoporsi a trattamento sanitario obbligatorio. In questo surreale panorama le priorità sono la tutela della salute pubblica, essendo un dato incontrovertibile che in difetto di una cura l’unico fronte possibile alla diffusione della malattia è rappresentato dai vaccini, e scongiurare l’ulteriore diffusione di conflitti sociali. Per rendere efficace questa prospettiva va chiarito che non è in discussione la inviolabilità del diritto a non curarsi o, se si preferisce, a non essere sottoposti ad alcun trattamento sanitario obbligatorio se non per disposizione di legge che, peraltro, allo stato non vi è. Bensì che il valore della solidarietà impone non soltanto l’adempimento di doveri obbligatoriamente imposti, ma anche di agire spontaneamente per soddisfare il presupposto di socialità che, a prescindere da qualsivoglia calcolo utilitaristico, sempre deve occupare una posizione centrale in uno Stato costituzionale. Com’è difficile tenere insieme la libertà e la responsabilità di Mauro Magatti Corriere della Sera, 7 agosto 2021 Con il vaccino per Covid siamo dentro una grande sperimentazione di massa in cui il confine tra ciò che sappiamo e ciò che ignoriamo rimane molto labile. In questa situazione, hanno sostenuto in un recente post Giorgio Agamben e Massimo Cacciari, occorre stare attenti a non introdurre surrettiziamente pratiche discriminatorie che trasformano automaticamente i non vaccinati in cittadini di serie B. In gioco è la nostra stessa libertà con l’affermazione di nuovi regimi dispotici. Difficile non essere d’accordo sulla delicatezza e i pericoli di questi lunghi mesi pandemici. Ma le ragioni di preoccupazione mi paiono diverse da quelle indicate dai due filosofi italiani. Nei mesi del coronavirus, l’alleanza tra scienza e governi ha portato a una serie decisioni che hanno oggettivamente ridotto la libertà personale. Tali decisioni, inoltre, prese in condizioni di emergenza e sulla base di conoscenze necessariamente parziali, hanno accelerato - e in certa misura forzato - i normali percorsi della decisione democratica. Indubbiamente, il modo di procedere di questi 18 mesi - un tempo già lunghissimo, che rischia di protrarsi ad libitum - si porta dietro molte insidie. A ben guardare, quello che è accaduto nell’ultimo anno e mezzo ricalca perfettamente il copione seguito nel 2001 del 2008, cioè nei due precedenti shock che hanno colpito le società globalizzate. L’aggiustamento si è prodotto su due piani: rimodellando i rapporti di potere dentro e fuori i singoli Paesi e introducendo una forte stretta sul piano regolativo. Che nel caso del 2001 ha riguardato soprattutto gli aeroporti e più in generale la mobilità delle persone; e che nel 2008 si è tradotto in una serie di vincoli formali posto alla attività creditizia. Con il Covid, la regolazione ha toccato direttamente la vita personale: col lockdown, le mascherine, il distanziamento, la vaccinazione, il green pass. In società sempre più complesse e basate su un’idea individualistica di libertà - e dove di conseguenza si sono assottigliati i riferimenti etico-culturali comuni e soprattutto si è rinunciato a far leva sulle risorse morali della persona - il ricorso alla stretta regolativa è la risposta automatica che il sistema adotta per far fronte all’emergenza. Ma occorre domandarsi: si tratta di un effetto o di una causa? Rispondere a questa domanda è decisivo. Come scrivono Cacciari e Agamben, i rischi per la libertà sono molto seri. Ma è lo svuotamento a cui la libertà è andata incontro ad esporla al pericolo di una deriva involutiva. Non si tratta di qualcosa di nuovo, ma di una malattia ricorrente della vita democratica, tanto che già a metà dell’800, Alexis de Toqueville ne aveva parlato in un brano di straordinaria attualità: “Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri, estraneo al destino gli altri degli altri... al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite... Così ogni giorno esso rende meno necessario e più raro l’uso del libero arbitrio, restringe l’azione della volontà e toglie poco a poco a ogni cittadino perfino l’uso di se stesso... Così dopo aver preso nelle sue mani potenti ogni individuo e averlo plasmato a suo modo, il sovrano estende il suo braccio sull’intera società; ne copre la superficie con una rete di piccole regole complicate, minuziose e uniformi, attraverso le quali anche gli spiriti più originali e vigorosi non saprebbero come mettersi in luce; esso non spezza le volontà, ma le infiacchisce le piega e le dirige; raramente costringe ad agire, ma si sforza continuamente di impedire che si agisca; non distrugge, ma impedisce di creare; non tiranneggia direttamente, ma ostacola, comprime, snerva, estingue...”. L’esperimento di massa sta qui: immaginare di risolvere i grandi problemi che abbiamo davanti (a cominciare dalla pandemia, per proseguire col riscaldamento globale o la gestione dell’immigrazione etc.) proclamando certezze che non ci sono e così rinunciando a chiedere a ogni cittadino - come insegnante, medico, imprenditore, amministratore, giornalista, sportivo, genitori, nipote etc. - di dare il proprio contributo per raggiungere un obiettivo incerto ma comune. E ciò perché sembra impossibile alla nostra cultura riuscire a tenere insieme il valore della libertà con quello della responsabilità. Che invece è il punto fondante di ogni libertà che non si autodistrugga. Ognuno ha il diritto di vaccinarsi oppure no. Ma se decido di non farlo, ne consegue che, per responsabilità nei confronti degli altri, accetterò di rinunciare a prendere parte a manifestazioni e attività in cui posso trasmettere il virus. È quando la libertà fallisce questa responsabilità che si spalanca la porta del nuovo potere tutelare che oggi prende le forme della regolazione tecnico-burocratica. È l’infragilimento della nostra libertà lo spettacolo preoccupante di questi mesi. Che in qualche momento dà la sensazione che sia ormai impossibile intendersi su qualsiasi cosa. Anche sulle più elementari. Nell’illusione (tanto ricorrente quanto vana) che un mondo senza l’incertezza, l’insicurezza, il rischio, il dubbio sia possibile e desiderabile. Senza tornare a credere e a investire sulla responsabilità delle persone, la libertà finisce sempre per costruirsi da sé la sua prigione. La propaganda di una ripresa fiacca e precaria di Alfonso Gianni Il Manifesto, 7 agosto 2021 Sia in positivo che in negativo, a seconda della sua collocazione rispetto al governo, per il quale “L’Italia sta vivendo una vera e propria fase di boom economico. Bisogna rivedere le stime verso il 6%.” Il tutto basato sulle cifre fornite dal Bollettino economico di Bankitalia del 16 luglio relative all’ultimo trimestre. L’Istat era stata più prudente, stimando possibile una crescita del 4,8% per l’anno in corso. Mentre il rapporto dell’Ufficio parlamentare per il bilancio (Upb) considera anch’esso il 6% un obiettivo raggiungibile. Tutto bene quindi? Non proprio. L’effetto rimbalzo indubbiamente c’è ed è sensibile, ma dobbiamo ricordare che siamo ancora al di sotto dei livelli prepandemici (-3,8%), e già non ce la passavamo bene. Eurostat vede una crescita nel secondo trimestre sia per l’Eurozona che per la Ue, con la Germania in difficoltà, ma sottolinea che - a differenza di Usa e Cina - nel nostro continente il Pil è ancora del 3,4% inferiore a quello della fine del 2019. Con l’aggravarsi delle differenze interne ai singoli paesi. Per l’Italia la Svimez calcola che nel biennio 2021/2022 il contributo del Pnrr alla ripartenza del Mezzogiorno non sarà sufficiente ad accorciare le distanze con il resto del paese. Si è detto che al Sud andranno il 40% delle risorse previste dal Pnrr. Il Piano finanzia con 182 miliardi nuovi progetti e con 53 miliardi vecchi progetti, ma, secondo la Svimez “non è nota la ripartizione territoriale delle due voci”, quindi non è affatto improbabile un ulteriore ridimensionamento della quota di risorse spendibili per il Mezzogiorno. Sul lavoro Draghi non poteva evitare la tragica statistica dell’incidentistica mortale. Nei primi sei mesi del 2021 sono 538 le vittime del lavoro, un tetro record. Ma non ha detto come intende provi rimedio. Eppure è un compito che lo Stato non può lasciare al delegato sindacale sulla sicurezza, quando c’è. L’ultimo Rapporto annuale 2019 sul tema rende noto che il personale ispettivo assomma a 2.561 unità. Ma gli ispettori a tempo pieno che visitano i luoghi di lavoro non sono più di 1.550, tra i quali solo 222 posseggono una specializzazione nel campo della salute e della sicurezza. Che fine ha fatto il concorso bandito nel 2019 per 619 ispettori del lavoro e per 131 funzionari? Nessuno glielo ha chiesto. Lo stesso report dell’Upb - ne hanno scritto su queste pagine Calistri e Romano - ci parla di un alto grado di sottoutilizzo del fattore lavoro, pari a circa un quarto dei disponibili a lavorare ma non in cerca di lavoro. Ovvero la disoccupazione reale nel nostro paese è ben più del doppio di quella ufficiale, un dato intermedio tra il 20 e il 25%. Ma anche se stiamo ai criteri di calcolo ufficiali il quadro è assai fosco. In primo luogo tutti i dati si riferiscono a prima dello sblocco dei licenziamenti, i cui guasti sono sotto gli occhi di tutti e siamo appena all’inizio. In secondo luogo perché, mentre diminuiscono i lavoratori autonomi, cresce la schiera di quelli precari. Infine si tratterà di valutare se l’aumento degli occupati recentemente registrato sia frutto di rientri di lavoratori messi in Cig (che oltre i tre mesi uscivano dalla qualifica di occupati) oppure sia determinato da nuove assunzioni. Un rimbalzo a suon di precarietà quindi, o peggio ancora una ripresa jobless. La ragione sta nel freno all’intervento pubblico, nella sua scarsa qualità, nell’assenza di un vero progetto trasformativo. Serve molto maquillage e qualche reprimenda. Qualche giorno fa l’editoriale del Sole 24 Ore ammoniva: “Mettere in difficoltà Draghi sarebbe un peccato mortale, sarebbe soffocare nella culla la nascente ripresa economica il debito pubblico è di poco al di sotto del 160% del Pil. Un livello che, senza Draghi presidente del Consiglio, è insostenibile”. Ovvero il governo degli intoccabili, e il cerchio si chiude. Il rischio di erodere le basi dei nostri diritti umani di Raffaele Romanelli Il Domani, 7 agosto 2021 Le dichiarazioni dei diritti sembrano costituire la bussola che orienta il mondo d’oggi. La Dichiarazione dell’Onu del 1948, ricalcata alla lettera sulle dichiarazioni americana del 1776 e francese del 1789, è stata sviluppata in seguito da molte altre dichiarazioni di diritti (delle donne, dei fanciulli, dei “popoli indigeni”), e in Europa dalla Carta di Nizza, del 2000, per la quale “la tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità”. I princìpi elencati nei sei capitoli della Carta - dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia - non hanno vita facile. Non l’hanno mai avuta, in realtà. Da più parti contestati fuori d’Europa, la loro stessa evoluzione rischia di dissolverne l’essenza prima. Già la proclamata estensione globale della Dichiarazione del 1948 non fu semplice. I paesi dell’area islamica tardarono a firmarla - l’Egitto solo nel 1969 -, più volte dichiarando l’inconciliabilità dei valori occidentali con i precetti islamici e firmando nel 1990 una Dichiarazione dei diritti umani nell’Islam. Le tre conferenze - Del resto nel 1948 gran parte del mondo viveva ancora in regime coloniale. Superato quello, venne un momento in cui l’Onu stessa ormai globale tentò di adattare i diritti alle varietà regionali. Furono convocate tre conferenze, a Bangkok per i paesi asiatici, a Tunisi per quelli africani e a San José per quelli latino-americani. La conferenza dei paesi riuniti a Bangkok tra il marzo e l’aprile 1993 affermò un relativismo sui diritti civili per il quale ogni paese aveva i propri modelli culturali. Furono elaborati presunti “valori asiatici”, vagamente ispirati a una tradizione di pensiero confuciana che mettevano l’accento sulla comunità e sulla famiglia piuttosto che sull’individuo. Di qui l’enfasi sulla coesione sociale, sul consenso (rispetto al conflitto), sui doveri anziché sui diritti, sull’ordine, la disciplina e l’armonia (anche “razziale e religiosa”). Infine, reclamarono un “diritto allo sviluppo” - caro soprattutto agli africani - un diritto che con una apposita Dichiarazione del 1986 venne fatto proprio dall’Assemblea dell’Onu, riferendolo non solo alle collettività, ma anche agli individui, come era nello spirito della Carta. Col tempo, molti dissero che ciò che era inteso come universale, era da intendersi come occidentale: l’Europa, scrisse uno storico indiano, era diventata una provincia del mondo. Peraltro, tensioni e conflitti interni a quella provincia non erano mai mancati. Innanzitutto, in controtendenza rispetto al cammino dei diritti si erano mossi i conservatori, i nemici dell’89, che sostenevano valori sia nazionali, sia familiari-religiosi. Come fanno oggi sovranisti o familisti. L’assolutezza dell’individuo - Che l’assolutezza dell’individuo singolo fosse una astrazione forse storicamente necessaria, ma impossibile, era evidente fin dall’inizio, quando fu dichiarata a gran voce l’irrealtà di un individuo declinato soltanto al maschile. Da allora, alterne vicende hanno scandito un percorso di emancipazione delle donne, o di parità tra i sessi, che ha segnato battaglie d’ogni tipo e non è ancora compiuto. Anche altri valori insidiavano la preminenza dell’individuo. Le differenze dettate dalle fedi avevano una lunga storia all’interno del mondo cristiano, anzi erano alla base della modernità europea, ma non per questo erano superate, come sempre più si sarebbe visto nel caso della presenza islamica in Europa. A lungo hanno poi operato le identità di classe, oppure quelle nazionali, a base linguistica o etnica. L’uguaglianza nei diritti infatti è per sua natura legittimata e garantita dalle istituzioni, con le loro leggi, e i loro codici. E le istituzioni a noi note hanno base statale, e per quanto si invochi pluralismo e convivenza gli stati hanno matrice nazionale, ciò che ha prodotto le “minoranze” e i loro diritti, ma anche le connesse dinamiche nazionalistiche, che oggi chiamiamo “sovraniste”. Nel complesso, si tratta di differenze, di tensioni e conflitti che agitano il mondo dei diritti, ma che finora sono sembrati disposti in un ordine lineare, tra conservazione e progresso, tra il mondo che è, o è stato, e quello che vorremmo che fosse, verso il futuro, il mondo della libertà. Invece oggi siamo di fronte a un singolare cortocircuito. Viene il sospetto che proprio la marcia di diritti ne contraddica alcune fondamenta, ne eroda le basi. Intaccare l’essenza - L’intensificazione, la specificazione, la “pluralizzazione” subita dai diritti rispetto alla relativa semplicità del 1789 hanno finito con l’intaccare la loro stessa essenza e gli stessi pilastri su cui essi si reggono. Se infatti in origine i diritti non differenziavano i soggetti su base religiosa, culturale, o etnica, sembra che oggi sia proprio ciò che si chiede loro di fare. Si pensi alle tradizioni storiche risalenti, alle identità culturali più profonde di tipo etnico, religioso, linguistico, materia delle rivendicazioni nazionali ottocentesche, ora negate in nome di identità sub-nazionali, o prenazionali. Dal Québec alle Fiandre alla Catalogna, e tipicamente nel Regno Unito, dove Galles e Scozia contestano appunto le forme di quell’unione, non sono messi in discussione i processi di nation building, di formazione delle cittadinanze statali, ma vengono rivendicate cittadinanze “differenziate”. Il premoderno sembra così riemergere a nuova vita in età “postmoderna”. Del tutto peculiare a questo proposito è la vicenda degli Stati Uniti, dove l’identità “nazionale” del paese non sente il peso di un denso retroterra storico ma è fondata sull’integrazione di popolazioni diverse, come vuole la metafora corrente del melting pot. La maggiore sofferenza di una comune “nazionalizzazione” su base civica è avvertita non tanto con riferimento alle popolazioni autoctone, amerindie - semplicemente sterminate -, e nemmeno attorno alle varie popolazioni che hanno alimentato e alimentano il flusso dell’immigrazione, bensì attorno all’integrazione della popolazione nera un tempo schiava e a lungo oggetto di pesanti discriminazioni. È qui che la dipendenza schiavile si dimostra intrinseca alla modernità dei diritti, e minaccia di metterla in crisi. L’espressione iconica di questa nazionalizzazione civica è il celebre discorso in cui nel 1963 Martin Luther King jr invocava una emancipazione che doveva essere perseguita nelle forme già sperimentate dalle social-democrazie: l’uguaglianza non solo formale, ma anche sostanziale, con provvedimenti intesi a riequilibrare le disuguaglianze, seguendo la logica di una “social justice”, una giustizia “retributiva”. Molti tuttavia ritengono menzognero e irreale quel percorso di integrazione perché incapace di intaccare l’essenza stessa della cittadinanza, della quale la discriminazione schiavile non è una pagina oscura da rimuovere, ma l’essenza, che i rapporti tra bianchi e neri quotidianamente segnalano. Per questo c’è chi ha proposto che invece del 1776 sia dichiarato anno di fondazione degli Stati Uniti il 1619, quando la prima nave carica di schiavi è approdata sulle coste della Virginia: l’identità del paese dovrebbe essere nella schiavitù, non nella Dichiarazione dei padri fondatori (che tra l’altro per lo più possedevano schiavi). Alla pretesa neutralità e universalità dei diritti dell’uomo affermata nel 1776 si oppone dunque l’argomento che quei diritti non sono affatto neutrali, ma in quanto occidentali, in quanto riconosciuti come “provinciali”, sono modellati sull’etnia dominante che conferisce la cittadinanza, nel caso di cui parliamo l’etnia bianca, di matrice europea e cristiana (nonché maschile). Come in effetti indubbiamente è. Questo è il punto: la critica ai diritti non viene mossa all’occidente dall’esterno, da civiltà altre, ma viene dall’interno, e non è agitata soltanto dai nemici storici dell’89 - i conservatori, i “reazionari” - ma appare anche come esito dello stesso ampliamento dei diritti. Nasce infatti in una opinione che avendo dato la massima estensione ai diritti denuncia quanto debba la propria civiltà alla loro passata negazione. La cultura della colpa - Non lo sopporta, ed è incline a interiorizzare le accuse all’occidente, una introiezione magnificamente rappresentata nell’isola di Goré e, in Senegal, dalla quale partivano le navi negriere, allorché nel 1992, il pontefice Giovanni Paolo II implorò il perdono del cielo per i misfatti dei cristiani. Può darsi che il Dio dei cristiani li perdoni. Essi comunque sentono la colpa. Giunto con le dichiarazioni dei diritti a un culmine della propria storia, l’occidente ne pronuncia una condanna radicale, di portata pari all’universalità delle sue affermazioni, concettuali e materiali. Così l’estensione dei diritti applica la cultura della colpa all’intero processo storico della modernità. E poiché la modernità si è manifestata nei rapporti dell’Europa col mondo, una visione semplificata della storia ma essenzialmente pertinente individua quei rapporti nei processi di espansione, conquista, evangelizzazione, sfruttamento e sottomissione. Ne conseguono inarrestabili tendenze a ripudiare, a disconoscere il passato, e a porre al centro dei diritti l’alterità. Documento esemplare di questa inclinazione è, tra le tante pronunciate dall’Onu, la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni del 2007, laddove i “popoli indigeni”, mai definiti, sono intesi complessivamente come “diversi” (onde “il diritto di essere diversi”), una diversità implicitamente individuata dall’essere vittime di “ingiustizie derivanti dalla colonizzazione”. Individui e persone, protagonisti della storia dei diritti, scompaiono, lasciando il posto agli “indigeni”. Così era per i primi conquistadores, e così è oggi, ma con una inversione di valori e gerarchie. Spasmi di iconoclastia - Intanto c’è chi si sforza di cancellare i segni, i reperti, le tracce e i simboli della storia coloniale, che sono ovunque. Uno spasmo di iconoclastia caratterizza tutte le fasi storiche di passaggio, quando si distruggono vestigia del passato e se ne edificano di nuove. Ai contemporanei sono familiari gli eccessi cui sono pervenute fazioni del variegato mondo islamico quando sono arrivate a controllare un territorio e a farsi stato, come nel caso dei talebani in Afghanistan o dello stato islamico dell’Iraq e della Siria (Isis). In quei casi, hanno dichiarato guerra a ogni vestigia artistica delle civiltà passate, anche preislamiche, che mai prima un movimento musulmano aveva aggredito. Così sono state fatte esplodere le grandi statue di Buddha scolpite tra il III e il IV secolo a Bamiyan, in Afghanistan, e l’Isis ha sistematicamente distrutto, oltre a chiese, tombe, santuari, necropoli e siti archeologici. L’iconoclastia oggi a opera degli occidentali è diversa, perché rivolta contro sé stessi. Nel caso degli Stati Uniti sono stati presi di mira la stessa identità del paese, i padri fondatori e il loro 1776, come si è detto. Sotto attacco è poi l’intera vicenda delle scoperte geografiche. Cristoforo Colombo è additato come genocida e responsabile dei secoli di razzismo a seguire perché con la “scoperta dell’America” ha aperto la via alle esplorazioni. Anche in Europa, come negli Stati Uniti e in Canada, l’attacco al ciclo coloniale della storia europea ha portato a numerosi e frequenti atti di cancellazione, rifiuto e rimozione che hanno travolto tutte le arti e il pensiero classico. Accortasi che il Cristo è tradizionalmente raffigurato come biondo dagli occhi azzurri, lui che era palestinese, la cattedrale anglicana di St. Albans, nello Hertfordshire, ha posto all’altare principale una rivisitazione dell’ultima cena leonardesca con un Cristo nero e il capo della chiesa d’Inghilterra ha dichiarato: “Rivediamo il Gesù bianco e le statue nella cattedrale di Canterbury”. Ed anche qui, di pari passo con la cancellazione di ogni riferimento al colore nero procede la diffusa richiesta degli studenti universitari - che risulta in genere accolta - di “decolonizzare” i programmi eliminando i classici, da Platone a Cartesio o Kant. Insegnamenti universitari vengono così censurati, mentre la biblioteca dell’Università di Princeton ha preso in considerazione l’ipotesi di non acquistare più libri di storia greca e romana perché società schiaviste. I colpevoli, gli invasori colonialisti, sono connotati razzialmente, essendo sia le popolazioni amerindie, sia gli schiavi neri vittime della tratta, tutti di ceppo diverso dal bianco caucasico, o come altrimenti si voglia definirlo. Così come è accaduto al “popolo deicida”, il popolo ebraico, il cui delitto originario ha inseguito le generazioni attraverso i secoli, similmente i “bianchi” sono a priori corresponsabili dello sterminio dei nativi e della schiavitù dei neri, e lo è oggi ogni singolo bianco, quali che siano i suoi gesti o le sue opinioni. Cancel culture - La “cancel culture”, cultura dell’annientamento, con l’ostracismo sancito per ogni manifestazione di pensiero dissenziente, con la negazione di ogni prospettiva storica, l’appiattimento, l’”attualizzazione” del passato, nonché l’adozione del principio della “responsabilità collettiva” che assorbe e nega il soggetto individuo, rischia di decostruire le basi stesse sulle quali erano stati fondati i diritti umani. Tutelare la stampa è possibile. L’esempio di Usa e Finlandia di Giulia Merlo Il Domani, 7 agosto 2021 Al contrario dell’Italia, i paesi anglosassoni hanno norme avanzate in tema di Slapp, ovvero le querele temerarie Affrontano il problema prevedendo una rapida archiviazione e danni punitivi se l’azione è infondata. Le querele temerarie ai giornalisti non sono un problema solo italiano, ma esistono ordinamenti che più del nostro tutelano la stampa da chi sceglie la strada dell’azione giudiziaria civile per inibire o intimorire, a partire dalla denuncia penale per diffamazione. In gergo questo tipo di azioni legali vengono chiamate Slapp - dall’acronimo coniato negli Stati Uniti di strategic lawsuit against public participation, ovvero causa strategica contro la pubblica partecipazione - e i numeri di queste azioni legali in Italia sono preoccupanti. Anche Domani ha ricevuto una richiesta di pagamento di 100mila euro da parte di Eni per un articolo sgradito, prima ancora di aver avviato un’azione civile contro il giornale. Secondo un report basato sui dati Istat e prodotto da Ossigeno per l’informazione, l’Osservatorio su informazioni giornalistiche e notizie oscurate, nel 2016 sono andate in decisione 9.039 querele sporte per articoli di stampa: le archiviazioni sono state 6.317, pari al 69,88 per cento. L’azione penale è iniziata in 2.722 casi, pari al 30,12 per cento. Nel 2016 i condannati con sentenza irrevocabile sono stati 287. In pratica, due terzi delle querele sono infondate e in meno del 10 per cento dei casi il giudizio prosegue per accertare la responsabilità. Uno studio comparato del Resource centre on media freedom in Europe del 2017, infatti, mostra come le regioni Ocse applichino in modo diverso le leggi a tutela dei giornalisti: “Le leggi penali sulla diffamazione continuano ad essere applicate con una certa regolarità nella zona Osce, anche contro i mezzi di comunicazione. Zone particolarmente problematiche restano l’Europa meridionale (specialmente la Grecia, l’Italia, il Portogallo e la Turchia), l’Europa centrale (specialmente l’Ungheria), l’Asia Centrale e l’Azerbaijan, anche se saltuari arresti di giornalisti continuano ad avvenire in paesi tipicamente considerati forti difensori della libertà di stampa, quali Danimarca, Germania e Svizzera”. Onu e Ue - Sul tema della libertà di stampa e della sua difesa sono intervenute le Nazioni unite, sottolineando l’obbligo degli stati di promuovere l’esercizio dei diritti e l’assicurazione di un giusto processo, “proteggendo i cittadini da cause civili prive di fondamento”, si legge in un documento del 2016 dell’Onu. Anche il parlamento europeo ha sottolineato in più risoluzioni la necessità di “proporre una direttiva anti Slapp che protegga i media indipendenti da azioni legali vessatorie” e ha invitato la Commissione e gli stati membri a presentare proposte per la protezione dei giornalisti, tuttavia la questione è ancora aperta, nonostante il finanziamento di diversi progetti europei di monitoraggio e difesa della libertà di stampa. Inoltre, armonizzare i diversi ordinamenti è complicato, soprattutto sul piano del diritto civile. Paesi scandinavi - Interessante è il caso di Danimarca e Svezia, raccontato dall’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, che nel 2019 ha partecipato a una missione per indagare le best practices dei paesi scandinavi. In questi paesi, infatti, si assiste alla quasi totale assenza di casi e di minacce di Slapp, nonostante sussista il reato di diffamazione e la pena del carcere nei casi più gravi. Secondo gli interlocutori scandinavi, composti da giornalisti, sindacalisti e giuristi, i deterrenti contro l’abuso di querele temerarie sarebbero elementi insiti ai sistemi legali e sociali. Secondo il report, infatti, in entrambi i paesi “nei pochi casi affrontati in tribunale l’esito è quasi sempre a favore del giornalista. Inoltre, la questione ha anche un risvolto reputazionale: querelare un giornalista semplicemente non sta bene, è qualcosa di cui ci si dovrebbe vergognare”. In aggiunta, nei rispettivi codici civili “i risarcimenti per danni alla reputazione sono molto bassi: oltre ad essere sconvenienti sotto il profilo sociale, le cause contro i giornalisti non convengono sotto il profilo economico, le spese sono alte e gli eventuali danni invece molto bassi. E se i danni sono bassi, viene meno anche l’effetto raggelante dei risarcimenti esorbitanti, per cui la minaccia di una querela perde tutto il suo potenziale intimidatorio”. Evidentemente si tratta di una sorta di deterrenza a priori difficilmente esportabile, a meno che anche in Italia non si sviluppi un dibattito pubblico che porti a considerare “socialmente riprovevole” l’attacco alla libertà di stampa. America e Canada - Negli Stati Uniti, dove l’acronimo Slapp è stato coniato e dove vige un sistema di common law, la tutela per i giornalisti è maggiore rispetto ai paesi di civil law come l’Italia. Più di 30 stati americani hanno adottato leggi anti Slapp, che offrono ai querelati un metodo quasi automatico per far archiviare in modo rapido le querele prive di fondamento, appellandosi al primo emendamento della Costituzione, che tutela la libertà di stampa e di parola. Queste previsioni servono a neutralizzare alla radice il problema: invece che prevedere eventuali risarcimenti successivi, impediscono che la controversia produca cause anche molto lunghe, i cui costi diventano principalmente quelli legali, che producono quello che, in un report dell’associazione Reporters committee for freedom of the press, viene chiamato “effetto paralizzante sulla libertà di parola”. In Canada, invece, tre province hanno approvato delle leggi anti Slapp, molto diverse tra loro. La più efficace è considerata quella della British Columbia, che accelera il procedimento di archiviazione delle querele che interferiscono con la libertà di espressione e prevede la possibilità per l’attore di venire condannato al pagamento dei cosiddetti “punitive damages”, ovvero i danni punitivi per aver intentato una causa temeraria. Questo tipo di legge, che neutralizza su due fronti - quello della celerità di archiviazione e della deterrenza dei danni punitivi - è probabilmente il più tutelante per i giornalisti e per la libertà di stampa come principio di democrazia. Marocco. Su Ikram Nazih è calato un silenzio complice di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 7 agosto 2021 L’impegno per la liberazione di Ikram Nazih, la cui vicenda è passata in sordina, dovrebbe essere l’occasione per chiedere la liberazione di tutti i condannati per blasfemia, numerosi in tutto il mondo, alcuni dei quali rischiano la pena di morte, uno strumento usato spesso da regimi autoritari per eliminare gli oppositori. Perché tanta reticenza da parte dei media a parlare del caso di Ikram Nazih, paragonato a quello di Patrick Zaki? Ikram, giovane ventitreenne italo-marocchina è stata condannata in Marocco a tre anni e mezzo di carcere e a una multa di 50mila dirham, poco meno di 5mila euro, per blasfemia. La colpa: aver condiviso una vignetta su Facebook in cui si ironizzava sulla sura 108 del Corano - detta dell’Abbondanza - definendola un “versetto del whiskey”. Di fronte alle reazioni ostili provocate, Ikram aveva cancellato il post che però era già stato notato da un’associazione religiosa marocchina che l’aveva denunciata per blasfemia. Il fatto è del 2019. Ikram Nazih, nata a Vimercate (vicino a Monza) da genitori marocchini, ha frequentato il liceo a Bergamo e ha acquisito la cittadinanza italiana, oltre a quella marocchina. A Marsiglia, dove frequentava l’università, stava per ottenere la laurea in giurisprudenza, quando si è recata in Marocco per trascorrere con i parenti la festa del Sacrificio. Al suo arrivo è scattato però l’arresto per la denuncia dell’associazione religiosa e la successiva condanna di primo grado. Contrariamente al caso di Zaki, ancora in attesa di giudizio dopo 18 mesi di carcere, per Ikram la sentenza è stata rapida. Inspiegabile l’indifferenza - a parte una petizione che circola su change.org e che ha ottenuto finora circa 40mila firme - di fronte a un caso che dovrebbe interpellarci direttamente: una donna condannata per blasfemia, in nome della difesa della religione - in questo caso l’islam. Il reato di blasfemia è molto insidioso e permette in nome di una interpretazione religiosa di condannare a pene pesanti (fino alla morte) cittadini che rivendicano un pensiero laico. Finora non sono valse le promesse della Farnesina, espresse come risposta a una interrogazione in Senato, per trovare una soluzione al caso. Anzi, la doppia nazionalità della giovane donna, italiana e marocchina, sarebbe di intralcio: la convenzione dell’Aia, infatti, non prevede una protezione diplomatica di un cittadino con doppia cittadinanza in uno dei due paesi coinvolti. Quindi l’Italia non può intervenire in Marocco a favore di Ikram Nazih! Allora c’è da chiedersi a che cosa può servire la cittadinanza italiana per Patrick Zaki chiesta al governo con una mozione approvata dalla Camera dei Deputati. Un bel gesto per mettersi la coscienza a posto? La coscienza sporca invece è sicuramente quella di Davide Piccardo, direttore della rivista islamica La luce, che in una lettera al re Mohammed VI del Marocco ha chiesto la grazia - non concessa - in occasione della festa del Sacrificio per la “scriteriata sorella”, Ikram. C’è anche una pregiudiziale di genere in questo giudizio e nell’indifferenza di chi ritiene che le donne se la vanno sempre a cercare? Una grazia chiesta da Piccardo non perché un simile reato dovrebbe essere abolito in tutto il mondo, anzi “la blasfemia è una colpa grave - sostiene - nei confronti di Dio e verso i credenti e non metto in discussione il diritto-dovere dello Stato marocchino di procedere in giudizio per reprimerla”. Fortunatamente in Italia il reato di blasfemia è stato abolito anche se solo nel 1999 e fino al 1995 riguardava solo la fede cattolica, fino al 1984 religione di Stato. L’impegno per la liberazione di Ikram Nazih dovrebbe essere l’occasione per chiedere la liberazione di tutti i condannati per blasfemia, numerosi in tutto il mondo, alcuni dei quali rischiano la pena di morte (Mauritania, Pakistan, Iran, Nigeria), uno strumento usato spesso da regimi autoritari per eliminare gli oppositori: come si può infatti intervenire su una interpretazione del credo religioso? Tanto più che nell’era dei social network basta la condivisione di un post anche se subito cancellato o un click per incorrere in una pena capitale. La notizia dell’ultimo caso della strumentalizzazione di questo reato arriva proprio mentre scriviamo: la liberazione da parte della polizia di un ragazzo di undici anni (con problemi mentali) accusato di blasfemia per aver urinato vicino a un seminario locale nel Punjab (Pakistan) che ha provocato l’assalto a un tempio hindu da parte di un gruppo di musulmani. La reazione così blanda nei confronti del Marocco è forse dovuta all’opinione diffusa che l’islam praticato nel regno di Mohammed VI è considerato “moderato” o per il timore di essere accusati di islamofobia? Quando si tratta di diritti umani, soprattutto di diritti delle donne, non esistono differenze tra le varie interpretazioni religiose.