Carceri senza mura di Marta Bonafoni Left, 6 agosto 2021 La logica dell’isolamento crea svantaggi ai detenuti, all’intero sistema della giustizia e ai quartieri dove sorgono le prigioni. Soltanto attraverso una relazione tra gli istituti di pena e lo spazio urbano si può garantire la sicurezza sociale. Il caso di Roma. Il carcere è uno spazio urbano. Non so quante volte ci capiti di pensarlo ma è esattamente così: gli istituti di pena sono parte integrante delle città, anche se pressoché ovunque risultano sottratti - espulsi - dalla dimensione vitale metropolitana. A Roma esistono tre carceri: quello storico di Regina Coeli, ospitato in un edificio della metà del ‘600 divenuto carcere alla fine del 1800, situato tre metri sotto il lungotevere della Farnesina. Il carcere di Rebibbia, edificato negli anni Settanta già “fuori” dalla città, a est, in una Roma allora metà agricola metà industriale e oggi preda di cantieri, traffico e capannoni del gioco d’azzardo. Infine l’istituto di pena minorile di Casal del Marmo, eretto anch’esso negli anni Settanta in mezzo alla campagna romana e ancora oggi sommerso nell’Agro romano, nell’estrema periferia nord di Roma. Tre carceri, tre caratteri distinti e distintivi della città eppure in un dialogo sottilissimo con essa. Anzi, in una relazione pressoché inesistente con gli abitanti di Roma. Se è vero che il carcere è spazio pubblico per eccellenza, perché ad esso è affidato il destino di una comunità serena e coesa, è altrettanto vero che del carcere e delle sue connessioni col governo delle città non si occupa praticamente nessuno e trovarne traccia nei programmi elettorali dei candidati sindaci è un’impresa praticamente impossibile. Ho pensato a questa cosa qualche giorno fa, quando sono stata invitata a portare i saluti istituzionali della Regione Lazio alla discussione della tesi di laurea di Davide, detenuto dell’Alta Sicurezza di Rebibbia. Sono entrata in carcere tante volte in questi anni da consigliera regionale, ma mai mi era capitato di presenziare all’atto finale di un progetto di alta formazione come quello, in questo caso portato avanti grazie all’università di Tor Vergata. È stata una bellissima emozione, e una lezione ricca di spunti per il lavoro da intraprendere, a partire dalla città che dobbiamo costruire. L’aula era telematica, fatta eccezione per quella della commissione presieduta dal professor Leonardo Becchetti. Noi eravamo tutti collegati dentro le finestre della piattaforma digitale: accanto a me sullo schermo c’erano alcuni docenti del corso di laurea di Davide, in un’altra finestra la compagna ed il figlio, in un’altra ancora il padre, collegato da casa e palesemente frastornato da quella “cerimonia” così speciale e forse mai neppure immaginata. A un certo punto l’agente ha fatto entrare Davide e così nella stanza grigia di Rebibbia ha fatto ingresso lui, camicia azzurra, barba curata. Ha prima salutato i suoi genitori - “che belli che siete!” - e poi il professore. Davide ha deciso di laurearsi in microeconomia con una tesi sul valore del lavoro in carcere: valore per il detenuto e la sua dignità, valore per la società a cui il detenuto verrà restituito alla fine della pena “perché senza lavoro le recidive sfiorano il 70% dei casi”. Durante la discussione ci ha parlato dei pochi esempi riusciti di avviamento al lavoro di detenuti ed ex detenuti, ma ha insistito ancor di più sui troppi ostacoli che ancora ci sono sulla strada del “recupero del reo”. “Ostacoli burocratici”, e poi - tantissimi - gli ostacoli dettati dal pregiudizio “fuori dal carcere”, da parte della società civile e dal mondo delle aziende. “Un sistema concepito come chiuso” che quindi fa mille volte più fatica ad entrare in relazione con il “fuori” una volta che si presenta l’opportunità di farlo. Parole semplici e pesanti come pietre per chi quel sistema lo aveva persino immaginato in osmosi con lo spazio esterno nella riforma penitenziaria del 1975. Alla fine Becchetti ha pronunciato la consueta frase: “Con il potere conferitomi la dichiaro dottore in Economia e Management col punteggio di 110 punti”. Ha preso anche la lode Davide. Una “promozione a pieni voti” che la politica continua a vedere lontanissima quando si tratta delle politiche per il carcere. A partire dalla relazione che gli istituti possono e debbono avere con la città in cui sorgono. Espulsi in periferia con la loro devianza, i ristretti sono alla fine dei conti paragonabili ai tanti “ultimi” che in questi anni le metropoli italiane e Roma in primis hanno rigettato sempre più lontano dal centro. Rendendo le periferie geografiche della città periferie sociali ed esistenziali. Eppure investire sullo scambio dentro/fuori, immaginare il lavoro come leva principale di questa relazione insieme alla salute, alla casa, alla formazione, alle interazioni col territorio, non sarebbe soltanto la via maestra per rispettare l’articolo 27 della Costituzione, ma anche il modo più certo per restituire senso alla parola “sicurezza”, che è sempre la presa in carico dei bisogni e delle responsabilità dell’individuo all’interno della comunità in cui vive. Nel caso dei detenuti e delle detenute prima dentro le carceri, quindi nel territorio a cui vengono restituiti. Oggi le carceri italiane sono tutt’altro: sulla relazione ha prevalso la cultura della separazione e dell’isolamento. Con evidenti svantaggi per tutti i soggetti coinvolti: la popolazione carceraria (fatta di detenuti ma anche di polizia penitenziaria, operatori e dirigenti), il sistema giustizia e l’equilibrio dei quartieri in cui gli istituti sorgono, divenuti paradossalmente cattedrali della paura anziché della rassicurazione sociale. Così oggi ci capita di vedere e sentire le persone che vivono la condizione detentiva soltanto quando per protestare salgono sui tetti, o battono le sbarre delle finestre, o urlano dalle loro celle. Ma a quel punto la città è già chiusa in casa a difendersi da un’istituzione nata invece “a difesa”. Senza la conoscenza e con la separazione, difficilmente si riuscirà a superare una contraddizione così profonda. Chi si candida a guidare le città, insieme agli altri ordini di governo, dovrà avere questo coraggio: il coraggio di scommettere su spazi ibridi dove carcere e libertà si incontrino, per rafforzare la democrazia. A partire dagli spazi urbani. Nella Commissione dare spazio a chi lotta per i diritti dei detenuti Il Riformista, 6 agosto 2021 Indagare sulle rivolte di marzo e sulle violenze denunciate è una necessità. Non può prevalere la logica per cui “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Alla ministra chiediamo di includere anche garanti e associazioni Appello alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia. La notizia dell’istituzione di una Commissione d’indagine da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, su Suo impulso, non può che essere accolta favorevolmente. Occorre far luce su una delle pagine più buie del nostro Paese dall’introduzione della Legge 26 luglio 1975 n. 354: un bilancio di tredici morti è una ragione più che sufficiente per sollecitare l’accertamento di eventuali responsabilità relative alla gestione dell’ordine e della sicurezza all’interno dei 27 istituti coinvolti nelle rivolte dei giorni 7, 8, 9 marzo 2020. Lo richiede a gran voce quell’ampia fetta di società civile a cui è stato precluso l’ingresso in carcere durante l’emergenza Covid-19, ma che ha continuato a prestare ascolto alle istanze di tutela provenienti da chi, a causa della paura e della penuria di informazioni provenienti dall’esterno, in quel periodo ha subito un ulteriore isolamento oltre a quello ordinariamente inflitto dalla pena. È così che associazioni del Terzo Settore e Garanti territoriali hanno contribuito a rendere meno ermetiche le mura dell’Istituzione totale, continuando quell’opera di partecipazione agli aspetti della vita penitenziaria da parte della collettività sociale richiamata in vario modo da fonti nazionali ed internazionali (si veda ad esempio l’articolo 7 delle Regole Penitenziarie Europee). Queste realtà sociali, sovente autorganizzate, hanno aiutato a concretizzare il principio costituzionale di emenda e risocializzazione delle persone che subiscono la pena. Lo richiedono pure i familiari dei tredici morti e tutti coloro che hanno denunciato a vario titolo episodi di violenze e trattamenti inumani e degradanti avvenute in quel periodo, da subito denunciate formalmente e pubblicamente da familiari, associazioni e garanti, e non solo relativamente alla “mattanza” di Santa Maria Capua Vetere. E non può prevalere la logica de “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Il tentativo di ricostruire una narrazione falsata dei fatti messo in atto dal personale della polizia penitenziaria coinvolto per coprire il proprio comportamento è un campanello d’allarme che non possiamo non ascoltare. Chiediamo, pertanto, che la rappresentanza dei membri della Commissione venga integrata anche dalle realtà associative, dai garanti territoriali e da quella parte di società civile attenta alla dignità e ai diritti delle persone recluse, credendo fermamente che soltanto una visione d’insieme possa garantire imparzialità e contribuire a gettare piena luce sulla vicenda. Sottoscrivono: Associazione Yairaiha Onlus; Legal Team Italia; Associazione Bianca Guidetti Serra; Osservatorio Repressione; Associazione Il Viandante; Associazione Memoria Condivisa; Associazione Papillon-Rebibbia, Bologna; Comitato verità e giustizia per le morti in carcere; Lasciatecientrare; Comitato verità e giustizia per la strage del S.Anna; Associazione Nazionale Giuristi Democratici; Associazione Voci di dentro OdV; Acad - Associazione contro gli abusi in divisa; Associazione Ex Don - Napoli; Associazione Carcere Vi.Vo.; M.G.A. - Sindacato nazionale forense; Partito della Rifondazione Comunista/Sinistra Europea; Potere al Popolo; Sinistra Universitaria; Casa dei diritti sociali, Cosenza; Associazione Luna, Lecce; SoS Rosarno; Associazione Ricreativa e culturale Gabbia/No - Roma; Special Servizi Coop Soc. - Roma; Associazione culturale Il Brigante - Serra San Bruno (VV). Adesioni individuali: Haidi Gaggio Giuliani; Laura Longo - ex presidente del tribunale di sorveglianza; Nadia Bizzotto - Comunità Papa Giovanni XXIII; Francesca De Carolis - scrittrice; Nicoletta Dosio - attivista; Eleonora Forenza - ex europarlamentare PRC/Sinistra europea; Sandra Berardi - pres. Yairaiha Onlus; avv. Simonetta Crisci; avv. Caterina Calia; avv. Giulia Lai; avv. Aurora d’Agostino; Giusy Torre - vice presidente Yairaiha; Angela Chiodo - educatrice e attivista Yairaiha; Carla Ventre - attivista Yairaiha; Yvonne Graf - attivista Yairaiha; avv. Lisa Sorrentino - Assessore beni comuni - comune di Rende; Chiara Colosimo - attivista Yairaiha; Elisabetta della Corte - docente Unical; Emanuela Belcuore - garante dei detenuti provincia di Caserta; Patrizia Sannino - collaboratrice garante dei detenuti provincia di Caserta; Adriana Corrado - familiare; Marilena Grippaldi - familiare; Anna Maria Cipriani - familiare; Elita Palloni - familiare; Maria Bianco - familiare; Yasmine Accardo - attivista Lasciatecientrare; Claudia Zito - educatrice; Maria Elena Scandaliato - giornalista; Jenny Federigi - Associazione Gabbia/No; avv. Monica Murru; avv. Maria Teresa Pintus; avv. Caterina Ceraudo; avv. Chiara Madia; avv. Daniela Torro; Elisa Torresin - attivista; avv. Valentina Colletta; Dana Lauriola - attivista; Giuseppina Vittozzi - pres. Ass. Ex Don; avv. Valentina Restaino - MGA; Tiziana Barillà - giornalista, scrittrice; Alice Miglioli - attivista; avv. Francesca Trasatti; Marta Collot - portavoce PaP; avv. Maria Elena Muffato; avv. Anna Maria Spognardi; avv. Maria Grazia Felisio; avv. Ludovica Formoso; avv. Carla Serra; avv. Maria Luna; avv. Rachele Fortuni; avv. Pamela Donnarumma; avv. Giuseppina Massaiu; Brunella Giuseppina Bertucci - Comitato Piazza Piccola; Andreina Ghionna - Ass. Niki Aprile Gatti; avv. Brunella Chiarello; Bruna Nocera - ass. Yairaiha; Emilia Corea - mediatrice culturale; Rossella Le Piane - pres. Casa dei diritti sociali, Cosenza; Grazia Paletta - insegnante e volontaria penitenziaria; Fabiola Ottonello - Arci Genova; Luisa Barba - ricercatrice CNR; Giuseppina Severi - Pesaro; avv. Giovanni Russo Spena; avv. Gianluca Vitale; Gianluca Schiavon - Responsabile Giustizia PRC; avv. Cesare Antetomaso; Italo di Sabato - attivista Osservatorio; Michele Rech (Zerocalcare); Mario Pontillo - volontario Ass. Il viandante; Samuele Ciambriello - garante dei detenuti della regione Campania; Pietro Ioia - garante dei detenuti della città di Napoli; Carlo Mele - garante dei detenuti provincia di Avellino; Vincenzo Scalia - criminologo e attivista Yairaiha; Carmelo Musumeci - scrittore e attivista; Vincenzo Miliucci - Cobas; Prof. Carlo Pellegrino - medico chirurgo; Ilario Ammendolia - scrittore, politico; avv. Mario Marcuz; Vittorio Da Rios - intellettuale; Mario Arpaia - pres. Ass. Memoria condivisa; Pasquale De Masi - attivista Yairaiha; Domenico Bilotti - docente UMG; avv. Giuseppe Lanzino - Yairaiha; Valerio Guizzardi - pres. Ass. Papillon Rebibbia-Bologna; Damiano Aliprandi - giornalista; Riccardo Rosa - giornalista; avv. Luigi Romano; Giacomo Bianco - familiare; Paolo Conte - attivista; Maurizio Acerbo - segretario PRC; avv. Francesco Romeo; Raffaele Principe - attivista; Enrico Cortese - attivista; Francesco Lo Piccolo - giornalista, direttore della rivista “Voci di Dentro”; avv. Maurizio Nucci; avv. Nicola Giuseppe Madia; avv. Cataldo Intrieri; avv. Alessandro De Federicis; avv. Fabrizio Gallo; avv. Diamante Ceci; avv. Orazio Labianca; avv. Nicola Ferraro; avv. Emilio Capoano; avv. Salvatore Cavarretta; Prof. Giuseppe Antonio Di Marco; Antonio Perillo - PRC; Delfo Burroni - attivista; Pietro Lunetto - attivista; avv. Cosimo Damiano Matteucci - MGA; Umberto Baccolo - attivista; Giuliano Granato - portavoce Pap; avv. Renato Venditti; avv. Marco Grilli; avv. Flavio Rossi Albertini; Mario Spada - architetto; Francesco Campolongo - ricercatore universitario; Oscar Greco - Insegnante; Francesco Gaudio - Insegnante; avv. Adriano d’Amico; avv. Luca Sebastiani; avv. Francesco Antonio Pomito; avv. Francesco Cardosi; Andrea Devona - Consigliere comunale, capogruppo democratici e progressisti Comune di Crotone; Maurizio Alfano - ricercatore, scrittore; Antonino Campennì - docente Unical; Stefano Ammirato - Casa dei diritti sociali, Cosenza; Francesco Campobasso - pres. Associazione Luna, Lecce; Gioacchino Criaco - scrittore, giornalista; Peppe Marra - USB Calabria; avv. Leonardo Pompili; Giuseppe Pugliese - SoS Rosarno; William Frediani - scrittore; Sergio Pelaia - giornalista. Perché la riforma Cartabia non piace ai magistrati di Alberto Cisterna Il Riformista, 6 agosto 2021 La prescrizione non scompare dal radar del processo penale, come pur sarebbe stato logico attendersi per dare un senso compiuto alla riforma Cartabia. Resta semisommersa, a pelo d’acqua come quei tronchi che galleggiano tra le onde e che tanto angosciano i piccoli battelli. Il procedimento penale nasce sotto il segno del tempo. La notizia di reato deve essere iscritta senza indugio nell’apposito registro e, da quel momento, il codice del 1989 detta le sue scansioni per le indagini preliminari. La clessidra parte, per poi essere girata sei mesi dopo e dopo altri sei mesi sino a che il tempo - un po’ più lungo per i reati gravi - non scorre del tutto e il pubblico ministero deve decidere se archiviare o rinviare a giudizio l’indagato. Se si intraprende questa seconda strada il metronomo si ferma, il tempo processuale smette di correre e la prescrizione torna a galleggiare tra i flutti del procedimento penale. Con la riforma Bonafede, interamente confermata dalla Cartabia, è la prescrizione l’unica soglia temporale che occorre rispettare per la sentenza di primo grado. Uno spazio che varia da reato a reato e, quindi, da imputato a imputato: uno risponde di un delitto commesso nel 2020, l’altro di una contravvenzione del 2021; è chiaro che la prescrizione maturerà in momenti diversi. Nulla di anomalo se non fosse che il dibattimento di primo grado non ha un proprio orizzonte temporale per essere concluso se non quello della prescrizione. Ci sono reati che si prescrivono in decenni e, potenzialmente, nessuno mette fretta al giudice di primo grado perché arrivi a una conclusione con ragionevole durata. La riforma Cartabia, invece, prevede un unico termine per la definizione del giudizio d’appello e di cassazione, indipendentemente dal reato per cui si procede e dall’epoca della sua commissione. Certo, con le eccezioni imposte dall’ultima mediazione politica, ma nel complesso si torna alla clessidra delle indagini preliminari che, fermatasi in primo grado, ricomincia il suo corso nelle fasi successive sotto spoglie diverse. È chiaro che l’ircocervo non possa piacere ai puristi del protocollo penale. La fugace apparizione della prescrizione sino al primo grado giudizio e l’espandersi - dopo quella fase - della nuova improcedibilità, tendenzialmente uniforme e isocrona, lascia interdetti alcuni decenni di scuola penalistica. La prescrizione esprime in modo esemplare una concezione dello Stato e della pena. Se il legislatore è sovrano nello stabilire quali condotte siano meritevoli di sanzioni, parimenti è intangibile nella sua sovranità quando decide che il tempo passato dalla commissione del reato rende manifestamente superflua la pena. Prescrizione, amnistia, indulto costituiscono il triangolo perfetto della discrezionalità parlamentare. A latere c’è la grazia presidenziale. Un giardino proibito alla giurisdizione che nulla può fondatamente opporre alle scelte del Parlamento che intervengano su questi profili della potestà punitiva dello Stato. L’aver optato, con la riforma Bonafede, nel senso che dopo la sentenza di primo grado permane a vita l’interesse dello Stato a conoscere dell’innocenza o della colpevolezza dei propri cittadini è una scelta francamente illiberale, prossima allo Stato etico che ha di mira una sorta di irraggiungibile purezza della cittadinanza. È una Stato che immagina di poter passare a setaccio i propri sudditi perché nessun delitto resti impunito; da ridere in una nazione che conosce milioni di reati commessi da ignoti di cui nessuno si cura. Una forma di eugenetica giudiziaria che punta alla selezione di una classe di cittadini immacolati e che è mossa dal morboso desiderio di sapere se una persona abbia o meno commesso la più minuta delle infrazioni. Con la riforma Bonafede una guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze psicotrope per cui intervenga la sentenza di primo grado non si prescrive mai; poi duri quel che duri il seguito del processo non avrebbe avuto alcuna importanza. Con le modifiche della Cartabia almeno sappiamo che l’appello si deve completare in due anni e la cassazione in uno. Nulla per cui caschi il mondo e nulla di insopportabile. La gran massa dei reati (oltre il 70%) oggi si prescrive durante le indagini o in primo grado e questo né la riforma Bonafede né quella Cartabia potranno impedirlo, salvo qualche marginale pannicello caldo. Il restante 30% scarso si prescrive prevalentemente in appello, in minima parte innanzi alla Cassazione. Per impedire che questo, tutto sommato, modesto cluster di prescrizioni si verificasse il governo gialloverde ha deciso di adoperare un cannone contro un moscerino (rispetto ai reali problemi della nazione) che aveva quale conseguenza la soggezione dei cittadini ai tempi incerti e variabili della giustizia, teoricamente usque ad sidera. Ora si profila una riduzione di questa incerta prospettiva con il rimedio dell’improcedibilità. Resta da chiedersi perché la riforma Cartabia piaccia così poco ad alcuni settori della magistratura. Innanzitutto, perché trasla dal legislatore ai magistrati il buon governo del processo e dei suoi esiti. Lo Stato proclama che è interessato a sapere dell’innocenza o della consapevolezza dei propri cittadini, a patto però che la magistratura gli consegni un risultato in tempi accettabili. La prescrizione è quella prevista dalla legge poi spetta ai magistrati il tentativo di arrivare in tempo alla chiusura del processo. Ora l’improcedibilità disloca per intero sulle toghe, sulle loro capacità organizzative, sulla loro forza di dotarsi di standard affidabili di produttività a dispetto delle sacche corporative, sulle opzioni manageriali dei loro dirigenti degli uffici la missione di impedire che i processi vadano in fumo. La prescrizione resta, da un certo punto in poi, fuori dal processo, cristallizza l’interesse dello Stato alla sentenza finale, l’improcedibilità rappresenta invece il motore pulsante della giustizia penale. Prima delle prescrizioni non rispondeva praticamente nessuno, tra tante fasi e scansioni chissà chi era il responsabile del tempo impiegato; da domani ogni improcedibilità si ascrive al capo di corte e a un collegio che dovranno rendere conto del proprio operato e che, solo sino a un certo punto, potranno invocare le perenni emergenze della macchina giudiziaria a propria giustificazione. Meno conferenze stampa per pm e polizia giudiziaria di Giulia Merlo Il Domani, 6 agosto 2021 Il Consiglio dei ministri ha approvato la bozza del decreto legislativo sulla presunzione di innocenza, che recepisce nel nostro ordinamento una direttiva Ue che risale a cinque anni fa e a cui non era mai stata data attuazione. Il tema sembra tautologico, visto che la presunzione di innocenza è prevista in Costituzione, invece il decreto legislativo implementa una serie di norme che hanno l’obiettivo di bloccare il cortocircuito che spesso si crea tra informazione e palazzi di giustizia, ai danni del cittadino indagato. Il termine per il recepimento scade l’8 agosto, ma i partiti di maggioranza si erano impegnati ad approvare il pacchetto di norme con un ordine del giorno votato la scorsa primavera. Nello specifico il decreto legislativo esplicita il divieto di indicare come colpevole l’indagato o l’imputato che non sia ancora stato giudicato con sentenza definitiva. Se questo accade, “ferma l’applicazione delle eventuali sanzioni penali e disciplinari, nonché l’obbligo di risarcimento del danno, l’interessato ha diritto di richiedere all’autorità pubblica la rettifica della dichiarazione”. Inoltre è prevista espressamente una limitazione della diffusione di informazioni sui processi penali, prevedendola nei soli casi in cui incorrano “rilevanti ragioni di interesse pubblico” e limita anche la possibilità per i pm di pubblicare singoli atti o parti di essi ai soli casi in cui sia “strettamente” necessario. Un principio di continenza, che dovrebbe evitare l’eccessiva mediatizzazione dei processi e la prassi - diversa da procura a procura - di rendere o meno note le notizie sui procedimenti in corso. Le limitazioni diventano le rilevanti ragioni di interesse pubblico, togliendo arbitrarietà alla decisione. Le conferenze stampa. Ma soprattutto - e questo è l’aspetto più controverso - il decreto legislativo disciplina nel dettaglio le regole di comunicazione nel caso di processi ancora in corso. La nuova norma prevede che sia il procuratore della Repubblica ad autorizzare la polizia giudiziaria a fornire “tramite comunicazioni ufficiali o conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato” e le informazioni sui procedimenti in corso devono essere fornite “in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende e ad assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata”. Non solo, al fine di vigilare, il procuratore generale presso la corte d’appello è tenuto a inviare al procuratore generale presso la Cassazione almeno ogni anno una relazione, che illustri come è stata gestita la comunicazione. In concreto, la polizia giudiziaria non potrà più convocare conferenze stampa e divulgare informazioni in autonomia, come i video con il logo del corpo che ha svolto l’indagine. Controverso è, invece, se possano farlo i singoli sostituti procuratori. Politicamente questo decreto legislativo è stato ottenuto grazie all’approvazione di un emendamento a firma del responsabile giustizia di Azione, Enrico Costa, che ha definito “i limiti alle esternazioni dei pm una nostra vittoria”. La legge è salutata con favore anche dal Pd: la responsabile giustizia, Anna Rossomando, ha parlato di “un primo importante passo su un argomento che peraltro il Pd ha sollevato prevedendo interventi specifici con gli emendamenti alla riforma del Csm”. Ora l’iter prevede che, dopo l’esame in Consiglio dei ministri, il testo venga inviato alle commissioni parlamentari competenti per un parere, che però non è vincolante. Tuttavia la ministra della Giustizia Marta Cartabia sarebbe favorevole all’ipotesi di correzioni che recepiscano eventuali indicazioni del parlamento. Proprio questo, però, potrebbe diventare nuovo terreno di scontro. Italia viva con Catello Vitiello ha sottolineato che per completare l’opera e tutelare in concreto la presunzione di innocenza è “necessario modificare il segreto investigativo e sanzionare l’odiosa fuga di notizie dalle procure”. La questione potrebbe dar vita all’ennesimo scontro interno alla maggioranza sul terreno della giustizia. Indagati, ma presunti innocenti: le nuove regole non solo per i pm di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 6 agosto 2021 Recepita dopo cinque anni una direttiva Ue: gli inquirenti ma anche tutte le “autorità pubbliche” non potranno ignorare il principio di non colpevolezza. Il decreto legislativo va all’esame delle commissioni. “Rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza”, è questo l’obiettivo del decreto legislativo proposto dalla ministra della giustizia Cartabia e passato ieri sera dal Consiglio dei ministri. Il testo andrà al parere delle camere prima della via libera definitivo del governo, si tratta infatti di un decreto che segue la legge di delegazione europea dello scorso aprile. Allora era stata - finalmente - recepita una direttiva dell’Unione europea vecchia di cinque anni (2016/343) con la quale si dava agli stati membri l’obiettivo di garantire i diritti degli indagati e degli imputati, che non devono essere presentati come colpevoli prima del tempo. L’articolo 2 del decreto approvato ieri stabilisce allora che “È fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a che la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”. L’obiettivo è quello di evitare che gli inquirenti, procuratori della Repubblica o ufficiali di polizia giudiziaria, presentino le loro indagini come verità accertata. Ma la formula “autorità pubbliche” è tanto vasta da comprendere anche i politici in funzione di governo, ed è bene ricordarselo visto che abbiamo avuto anche un ministro dell’interno - Salvini - che invitava a buttare la chiave un minuto dopo il primo fermo di polizia. Già oggi la legge, in astratto, prevede che siano solo il procuratore capo o un magistrato da lui delegato a dare informazioni alla stampa, il nuovo decreto aggiunge che “la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando sia strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico”, formula quest’ultima che dovrebbe garantire il diritto all’informazione. In ogni caso il procuratore potrà rivolgersi ai media solo con comunicati stampa o “in casi di particolare rilevanza pubblica” con una conferenza stampa. E dovrà fare in modo di “chiarire la fase in cui il procedimento pende”, evitando cioè di presentare gli indagati come già colpevoli. Il decreto si occupa anche di porre un freno alla pratica di assegnare alle operazioni di polizia giudiziaria quei nomi che alludono chiaramente alla colpevolezza accertata, prevede novità anche per le ordinanze dei pubblici ministeri. Sono quegli atti che, essendo immediatamente disponibili alle parti, consentono la conoscibilità alla stampa e ai cittadini degli elementi essenziali dell’indagine. Atti che frequentemente contengono anche quelli elementi, come le intercettazioni telefoniche o ambientali, che più si prestano a un anticipo di giudizio presso l’opinione pubblica. Il decreto legislativo prevede che “l’autorità giudiziaria limita i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento”. Formula assai faticosa, ma va anche peggio quando il decreto cerca di impedire che l’indagato sia presentato come colpevole fino a sentenza definitiva anche negli atti di indagine. Perché che deve necessariamente escludere dal divieto proprio gli atti del pm che quella colpevolezza, evidentemente, presuppongono. Soddisfazione per il decreto legislativo è stata espressa dal Pd, “il diritto all’informazione è il presupposto di qualsiasi democrazia liberale, ma siamo contro la spettacolarizzazione delle indagini” ha detto la responsabile giustizia Anna Rossomando, e da Azione +Europa. Assai più guardingo il M5S. Enrico Zucca: “La riforma Cartabia tradisce le promesse fatte in carcere” di Nello Trocchia Il Domani, 6 agosto 2021 “Omissiva, scellerata, irragionevole”. Sono gli aggettivi che il magistrato Enrico Zucca, sostituto procuratore generale a Genova, utilizza per definire la riforma Cartabia. Il Comitato dei ministri del consiglio d’europa ha specificato che la legge sulla tortura approvata dall’Italia, che prevede 18 anni come termine di prescrizione, era insufficiente perché il reato deve essere imprescrittibile. Non possiamo per questo credere alle promesse fatte nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. La ministra ha fatto esattamente il contrario e Zucca, pubblico ministero nei processi per le violenze al G8 di Genova, parla di promesse tradite. Come giudica la riforma della giustizia Cartabia? Un sistema processuale penale è fatto di delicati equilibri e va visto perciò nel complesso su come bilancia tutela dei diritti e efficacia. Il nostro è un sistema piuttosto complicato che si articola quasi immancabilmente su tre gradi di giudizio per la stragrande maggioranza dei reati. La giustizia negoziata è in percentuali irrisorie, di fronte a una media che oscilla tra il 60 e il 90 per cento degli altri sistemi a noi vicini. Chiaro che ci mettiamo più tempo ad arrivare a una decisione finale. Ogni paragone quindi è fuorviante. Invece che chiedersi come mai questa differenza e nella incapacità evidente di una analisi condivisa si è preferita la soluzione del nodo gordiano, cioè un rimedio brutale che appunto ha tagliato corto. Mi riferisco ovviamente a quello che sembra essere il cuore della riforma, cioè la prescrizione processuale. Un tempo prestabilito di durata in appello e in cassazione non è utile per garantire la ragionevole durata dei processi? Ci insegna la Corte europea dei diritti umani, che è quella che spesso ci ha condannato per la durata irragionevole del processo, che la ragionevolezza del tempo impiegato è legata al caso concreto e a una valutazione degli interessi in gioco. Questa valutazione è stata espressa chiaramente proprio nel caso Cestaro sui fatti della Diaz quando la Corte, di fronte a un processo durato undici anni, ha riconosciuto che nel rispetto delle garanzie dell’equo processo quel caso ha dovuto richiedere un tempo obiettivamente lungo. A proposito, quel caso non sarebbe rientrato nelle eccezioni proposte dalla riforma (sarebbe stato cancellato, ndr). Questo vuol dire che un termine astratto non è la soluzione più ragionevole. L’approccio della valutazione del caso concreto del resto è quella adottata nei pochi ordinamenti che hanno qualcosa di simile. L’ultima versione della riforma prevede l’esclusione dei reati di mafia, è un passo avanti? Sono aggiustamenti, ma la riforma resta uno strumento irragionevole. Ogni partito aveva il suo catalogo, non è questo il problema. È la conseguenza che urta contro principi essenziali, primo fra tutti quello della uguaglianza, che come ben sa la ministra costituzionalista richiede di non trattare casi diversi con lo stesso rimedio. Che i casi diversi siano solo quelli del nuovo catalogo di reati esclusi dalla tagliola o dal suo operare immediato è altamente opinabile. Non parliamo del possibile contrasto con la obbligatorietà dell’azione penale, altra declinazione del principio di eguaglianza. Un reato non prescritto il cui accertamento è a un certo punto abbandonato. Qui si va anche contro il fine del processo nella nostra tradizione storico culturale, cioè quello dell’accertamento dei fatti. L’Europa ci chiedeva di accelerare l’accertamento, non di mettere in moto una macchina, far lavorare giudici, sprecare risorse e buttare tutto al macero. Del resto la commissione ministeriale non aveva prospettato solo lo strumento bizzarro prescelto. Ma qui non è stata seguita. Perché? Incomprensibile questa scelta. In Germania quando si introducono le riforme si sperimentano in un tribunale. Da noi non riusciamo neanche a monitorare sul campo le riforme introdotte. Né la riforma Orlando, né quella Bonafede avevano ancora prodotto i loro effetti eppure le abbiamo cambiate prima di misurarne l’efficacia. Questa pare un’operazione simbolica. Bisognava solo dare un segnale in attesa della vera riforma. Quale? Quella che porterà al governo dell’azione penale, quindi alla separazione delle carriere che porterà il pubblico ministero sotto l’orbita del potere esecutivo o comunque della politica. Questa riforma rappresenta il primo passo per neutralizzare l’indipendenza della magistratura. È chiaro che la lentezza del sistema è attribuita ai giudici. Ma non c’è uno straccio di prova per sostenere questo. Basta comparare gli organici dei giudici europei. Perché Cartabia si intesta questa riforma? Dobbiamo prendere atto che tutti i ministri della giustizia che abbiamo conosciuto si sono bruciati. Anche illustri giuristi. Quello è un ministero politico. In Italia è prevalente una narrazione che vede uno strapotere giudiziario ed è insofferente al controllo di legalità che genera talora forte tensione tra potere giudiziario ed esecutivo. Dovremo preoccuparci di più qualora ci fosse armonia perfetta, almeno così è da questa parte del mondo occidentale. Il sistema penale non può essere aggiustato avendo di mira i pochi casi sensibili, ma il corpo di un sistema ingolfato, come tutti i sistemi penali oggi, anche nei paesi ad azione discrezionale. I sistemi funzionano bene e sono rapidi per le categorie di utenti che si ritengono “ordinarie”. Non si prescrivono i furtarelli, ma i reati dei colletti bianchi. Le galere sono piene di umanità dolente. Le diseguaglianze della società sono moltiplicate in modo esponenziale nei sistemi penali. Diciamo le cose come stanno: la prescrizione o la durata ragionevole spesso si trasformano in privilegi di categoria sociale. Tra i reati che godranno di possibili proroghe non c’è quello di tortura. Un altro buco di questa riforma? Un buco? Una deliberata omissione che faccio fatica ad accostare a persone candidate ad essere la massima magistratura del paese. La tortura come disegnata dalle convenzioni internazionali ha uno statuto specifico che la distingue da ogni altro reato. Si tratta di proteggere con quel reato diritti fondamentali incomprimibili, possiamo dire whatever it takes. Per questo è considerata imprescrittibile. Imprescrittibile? Il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, organo che presiede alla esecuzione delle sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha ancora sotto stretta supervisione l’esecuzione della sentenza Cestaro del 2015 per i fatti della Diaz e di quelle successive del 2017 per i fatti di Bolzaneto. Nelle sentenze la corte, avendo rivelato difetti strutturali, ci ha dato diverse indicazioni. Tra le indicazioni c’è quella che la tortura e i trattamenti inumani e degradanti devono essere imprescrittibili, ma non solo. Periodicamente il comitato ci ha chiesto aggiornamenti per valutare i rimedi adottati. Nell’ultima riunione, nel dicembre 2019, ha specificato che la legge sulla tortura approvata dall’Italia, che prevede 18 anni come termine di prescrizione, era insufficiente perché il reato deve essere imprescrittibile e aveva salutato favorevolmente la prospettata riforma Bonafede. Del resto la nostra storia dimostra che ci sono diversi casi nei quali la tortura è stata scoperta oltre quel termine. Il governo era chiamato a rispondere su questo punto e anche sui codici identificativi. Il governo non ha risposto nonostante ci fosse un termine: il 30 giugno 2020. La risposta era dovuta non all’Europa della moneta ma a quella della civiltà e dei valori. Ora dovrà dire che si è pensato ad altro, ma non alla tortura. La riforma Cartabia parte con questo atto di scellerata noncuranza. Non possiamo per questo credere alle promesse fatte nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Neppure al conformismo delle tardive indignazioni per il ventennale del G8 genovese, evidentemente anche queste un lip service. Sisto: “Questa riforma ha riportato in auge il diritto di difesa” di Simona Musco Il Dubbio, 6 agosto 2021 Intervista al sottosegretario alla Giustizia: “C’è un clima nuovo rispetto a periodi in cui, probabilmente, le procure avevano il sopravvento sulla tutela dei diritti. Ma è acqua passata”. “Questa riforma ha riportato in auge il diritto di difesa. C’è un clima nuovo rispetto a periodi in cui, probabilmente, le procure avevano il sopravvento sulla tutela dei diritti. Ma, per fortuna, è acqua passata”. A parlare è Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia, penalista d’aula, che promuove la riforma del processo penale. La riforma la soddisfa completamente? Non è una riforma universale del processo, bensì la sua velocizzazione costituzionalmente orientata. Alla domanda dell’Europa si è data una risposta precisa, ipotizzando una serie di terapie diversificate, tutte tendenti ad un solo scopo: ridurre del 25% i tempi del processo fino al 2026. Per farlo sono stati mutati i criteri dell’archiviazione e del proscioglimento in udienza preliminare, si è ampliato il ricorso ai riti alternativi, rendendoli più appetibili, si è abbandonato il binomio libertà-carcere, per introdurre una serie di sanzioni alternative e più specifiche, privilegiando, quindi, anche la finalità rieducativa della pena. E si è finalmente stabilito che il “fine processo mai” non appartiene alla civiltà giuridica di questo Paese. Si tratta, quindi, di una sorta di ritorno al futuro, di resurrezione efficace della Costituzione. La mediazione raggiunta contro il fine processo mai le sembra efficace? Innanzitutto era indispensabile intervenire sulla ragionevole durata del processo, cancellata all’epoca dall’emendamento Bonafede, visto che non chiamerei quella una riforma. La soluzione finale comunque costituisce un enorme passo avanti. Ma a questo quadrante della riforma ritengo sia stata data troppa importanza, ignorando il dato che le altre terapie sono altrettanto fondamentali. Non ritengo, in ogni caso, che la giustizia penale sia il software con cui governare il Paese: il suo perimetro è solo quello di accertare le responsabilità e punire i colpevoli, rispettando i principi della Costituzione. E tornando alla prescrizione, a coloro che l’hanno pesantemente criticata dico soltanto che la prescrizione sostanziale, quella che decorre dal momento di commissione del reato, oggi, nel nostro Paese, ha una durata incredibilmente lunga. Ci sono reati che pur avendo una capacità sanzionatoria medio/alta si prescrivono anche in 20 anni. A ciò vanno aggiunti secondo grado e Cassazione: mi sembra che di tempo ce ne sia abbastanza. Né si può pensare di dover parametrare la ragionevole durata del processo alle disfunzioni ordinamentali e logistiche: bisogna eliminare la patologia, non adeguarsi alla sua esistenza. Un cittadino non può rimanere bloccato da un processo penale per un numero di anni tale da comportare che sia lo stesso processo, e non la sentenza, a diventare la sanzione. Il meccanismo ipotizzato non sarà il migliore, ma certamente consente di mettere un punto fermo. A mo’ di work in progress, vedremo durante la sperimentazione se sarà necessario intervenire nuovamente, senza però mai più tornare a quello che c’era. Rispetto alla prima formulazione della proposta, cosa sarebbe stato giusto far arrivare in aula? Ho seguito i lavori della Commissione Lattanzi, animata da giuristi di sicura qualità, e il loro contributo è stato assolutamente pregevole. Anche in quel contesto ci sono state opinioni diversificate, ma devo dire che se avessimo, soprattutto su alcuni temi, seguito i suggerimenti della Commissione male non avremmo fatto. È stato un bel confronto, produttivo di reale piacere giuridico. C’è qualcosa che non la convince? Si poteva fare certamente di meglio, ovviamente. Ma la riforma è necessaria e urgente, e, come tutte le cose necessarie ed urgenti, ha comportato qualche sacrificio di tutti. Esemplificativamente, un più coraggioso ampliamento dei riti alternativi, apportando così loro maggiore appeal, non sarebbe stato male per alleggerire maggiormente il dibattimento. Cosa risponde a chi vede come un rischio per la sicurezza ridurre le occasioni in cui la pena coincide con il carcere? Le misure alternative rispondono meglio alle esigenze di commisurazione della pena al soggetto e al fatto. Ma non ci sono automatismi, bensì la facoltà di applicarle. Si possono ipotizzare tutte le soluzioni possibili in alternativa al carcere, ma ci deve essere sempre qualcuno che le deve ritenere appropriate alla singola fattispecie. È una riforma che, anche in questo frangente, presuppone la massima fiducia nei confronti di chi applica questa regole, cioè il giudice. Il futuro, infatti, passa attraverso un nuovo “patto per la Giustizia” fra avvocatura, magistratura e politica, nella consapevolezza responsabile che, nel rispetto delle condizioni del Paese, non ci devono più essere ostilità “per appartenenza”. Sul Dubbio il professore Pulitanò ha sottolineato che il potere discrezionale del giudice di allungare i tempi di giudizio potrebbe creare problemi di costituzionalità. Come risponde? Indubbiamente è un compito che, per essere correttamente adempiuto, necessita di una motivazione molto attenta, che tenga conto più dei dati oggettivi che di quelli soggettivi. Un processo con molti imputati può facilmente risultare più difficile da definire in tempi brevi; la perplessità può sorgere se ci si riferisce, per applicare la proroga del termine di improcedibilità, alla complessità delle questioni giuridiche: in tal caso, in base alle verifiche da farsi a regime, potrebbe essere necessaria un’ulteriore riflessione. Ma anche questo risultato è il frutto della mediazione politica. Alla sessione ulteriore del Congresso nazionale forense lei ha dichiarato che con questo governo l’avvocatura è tornata in Parlamento. In che modo? Abbiamo scritto una nuova legge sugli esami da avvocato, che con molta probabilità, con qualche correttivo, verrà riproposta l’anno prossimo, visto il buon successo che ha avuto l’esame quest’anno. Abbiamo scritto la legge sull’equo compenso, con l’aggiornamento delle tariffe, che tornerà in aula a settembre dopo un piccolo aggiustamento dal punto di vista delle coperture ed in queste ore prende corpo il decreto legislativo sulla presunzione di innocenza. C’è, poi, la riforma del processo penale che ripristina, in qualche modo, un più corretto rapporto tra giudice, accusa e difesa e in cui quest’ultima vede ripristinati alcuni, fondamentali diritti secondo Costituzione. E soprattutto l’efficienza del processo non è passata dalla riduzione del diritto di difendersi: per migliorare l’offerta di Giustizia, non bisogna di certo ridurre la domanda. Credo così che anche la funzione dell’avvocato rientri tra quei beni che la riforma ha riportato in primo piano, e proprio in virtù di un new deal più garantista. La magistratura, invece, rimane ancora sul chi va là. Il presidente dell’Anm, Santalucia, ha ribadito l’auspicio che possano aumentare i reati per i quali escludere la prescrizione... Bisogna stare molto attenti alla “sindrome della lista della spesa”. Sarei molto cauto in questa operazione di continua integrazione/riscrittura dell’elenco dei reati, perché ognuno ha la propria sensibilità e si corre il rischio che, integrazione dopo integrazione, l’eccezione diventi la regola, vanificando completamente la disciplina introdotta. Appena in vigore la legge, sarà necessario crederci ed applicarla: vuoi vedere che siamo riusciti davvero a rendere la Giustizia penale migliore? La trappola referendaria sulla giustizia di Cataldo Intrieri Il Foglio, 6 agosto 2021 Dal 1° luglio è iniziata la raccolta delle firme per poter proporre sei referendum sulla giustizia promossi da Radicali e Lega. Si tratta di sei quesiti assai eterogenei e a tratti di faticosa decrittazione: come noto essi investono la definitiva e irreversibile separazione delle funzioni (e non delle carriere, attenzione) tra pm e giudici, la limitazione della custodia cautelare ai soli casi di pericolo di fuga e inquinamento probatorio e di reiterazione di reati di terrorismo e criminalità organizzata, la possibilità di poter citare direttamente il magistrato per i danni causati nell’esercizio delle funzioni, l’estensione agli avvocati del diritto di poter votare nei consigli giudiziari, l’abolizione dell’interdizione elettorale per i condannati e la modifica dei requisiti delle candidature dei magistrati al Csm. Una premessa va fatta: si tratta non di un piano organico di riforma ma di un’iniziativa a sfondo e destinazione prettamente politici e, non ci si scandalizzi del termine, vagamente populisti: esiste, infatti, una pericolosa convergenza tra due “opposti populismi”: quello della Lega e quello radicale. Il fatto che i radicali trovino come espliciti alleati i leghisti della “legittima difesa sempre e comunque” non è un accidente della storia ma una logica conseguenza dell’impostazione della campagna incentrata sull’ondata di sdegno causata dai recenti e noti scandali che hanno investito la magistratura. Il populismo è caratterizzato dal desiderio di rivalsa della massa verso ciò che avverte come casta privilegiata e di cui scopre la similitudine con sé stessa e i propri vizi. Il rischio di operazioni come queste è che causino guasti maggiori di quelli che si proporrebbero di riparare, ammesso che vogliano costruire e non solo divellere. Il populismo ancorché laico e radicale è malattia perniciosa quanto il qualunquismo anarcoide della destra. Sul punto, che “il sistema” abbia creato un diffuso senso di impunità e privilegio tra i ranghi delle toghe è dato acquisito e condiviso, così come avvenne dopo il dramma umano di Enzo Tortora. Ma all’epoca i referendum dei Radicali per la responsabilità civile dei giudici come quelli a venire sulla separazione delle carriere trovavano giustificazione in una situazione stagnante politicamente. In quel clima l’iniziativa radicale scuoteva effettivamente un sistema consolidato e stagnante come quello che tutelava i magistrati. Oggi, invece, il termine di paragone non può essere più una “casta” squassata da una forte ondata di discredito che barcolla e fatica a trovare dentro di sé la spinta per cambiare, incapace di andare oltre bolsi “niet” come gli agonizzanti apparatniki sovietici, bensì un riformismo legislativo che sembra avere la capacità culturale e lo spazio di manovra per avviare seri e concreti cambiamenti. Certamente l’esito della riforma Cartabia è stato frenato dal solito compromesso (speriamo che esso non costi caro) ma resta comunque come valore da tutelare una “teoria della giustizia” diversa da ciò che la ha preceduta. L’idea di fondo è il superamento del processo come “modello unico” di risoluzione delle controversie: esistono percorsi di giustizia alternativa oltre le aule di giustizia. Se la polemica su prescrizione/improcedibilità assorbe quasi per intero il dibattito politico, la vera novità introdotta dal ddl è l’introduzione della “giustizia riparativa” nell’ordinamento penale. Si tratta di un circuito extra processuale e parallelo che tramite atti di concreta riparazione tende a promuovere ove sia possibile un dialogo tra la vittima e il colpevole. Un esperimento sociologico nato negli anni 70 in una cittadina degli Stati Uniti, Kitchener, per consentire il recupero di due minori autori di atti di vandalismo e poi diffusosi negli anni 80 anche in Europa. In Italia qualche anno fa un professore di criminologia, Adolfo Ceretti, e un gesuita, Guido Bertagna, promossero una serie di incontri tra le vittime del terrorismo e i reduci di quella stagione condannati per i reati commessi come militanti. In un libro entrambi hanno raccontato quella esperienza e i momenti toccanti che hanno vissuto: non si tratta di retorica buonista ma di uno strumento tramite cui il dolore della sofferenza e quello del rimorso si incontrano. Soprattutto, giustizia riparativa vuol dire rifiutare il concetto di giustizia racchiuso nel solo lato della repressione, nella violenza ripagata con la sola violenza, quella della brutalità carceraria di cui ipocritamente si finge di sdegnarsi e di cui sbagliando si ritengono colpevoli i soli agenti di custodia. È vero invece che è mancato il coraggio di completare la riforma ampliando il ricorso a riti alternativi o a forme alternative di definizione anticipata (la cosiddetta “archiviazione meritata”) e che il ricorso a una nuova causa di estinzione del processo (se appello e cassazione non vengono celebrati entro quattro anni e sei mesi complessivi e poi tre anni dal 2024, dopo l’impugnazione della sentenza di primo grado fatta eccezione per i reati più gravi) e non più del reato, com’era la prescrizione prima di Bonafede, può essere macchinoso e creare squilibri di sistema. Infatti, se non si riuscirà a garantire una minore quantità di processi con meccanismi di definizione anticipata delle vertenze giudiziarie anche questa riforma fallirà. E tuttavia lo spirito dell’iniziativa legislativa del governo che rifiuta l’ottusa logica giustizialista è da condividere e salutare con favore. Non mancano invece critiche e distinguo e diverse freddezze cui fa da contraltare il successo che sta incontrando l’iniziativa referendaria dell’inedita alleanza radicali-estrema destra. Tranne che per quelli promossi da Berlusconi nel 2005 e Renzi nel 2016 sulla forma parlamentare, pare che sia vietato parlar male dei referendum. Essi hanno contrassegnato tra gli anni 70 fino ai primi anni 2000, stagioni importanti di cambiamento e partecipazione popolare. Ma l’opinione pubblica di quei tempi si formava ancora tramite il dibattito politico e l’informazione dei media. Oggi quel mondo è sparito e l’informazione popolare è quella inquinata sui social da tesi complottiste e manipolazioni dei flussi di notizie. Dai social provengono i nuovi movimenti come i Cinque stelle o i nuovi leader di partiti che solo apparentemente mantengono legami con le vecchie forme di partito ma che in realtà trasmettono una comunicazione sostanzialmente ed esclusivamente plebiscitaria tramite le varie app. Tocca allora chiedersi cosa sia lo strumento referendario e di consultazione oggi: la parola al popolo sovrano è uno strumento riequilibratore o rischia di scardinare la fragile democrazia odierna verso una deriva peronista? I referendum promossi dai radicali non sfuggono a questa contraddizione: alcuni di essi hanno un valore poco più che simbolico come quello improvvisamente definito “sulla separazione delle carriere”, che invece si limita a completare un semplice percorso di distinzione delle funzioni già in atto dal 2006. Sarebbe più utile che leghisti, Fratelli d’Italia e Lega accompagnassero in parlamento il ddl, anch’esso di iniziativa popolare, promosso dalle camere penali, che prevede un doppio Csm per pm e giudici, che effettivamente realizzerebbe lo scopo. Al grido di “chi sbaglia paghi” si chiede la citazione diretta in giudizio dei magistrati per i danni causati da decisione errate, ma spiace disilludere: tutti gli appartenenti all’Ordine giudiziario godono di coperture assicurative abbastanza confortevoli. Difficilmente pagherebbero di tasca loro. Già oggi peraltro in caso di dolo o colpa grave un magistrato può essere perseguito direttamente in sede penale per vere e proprie ipotesi di reato, salvo ovviamente l’onere della prova a carico di chi denuncia. L’esempio delle molte incongruenze causate dall’alleanza populistico-referendaria proviene proprio dal quesito sulla custodia cautelare che in teoria dovrebbe essere quello più marcatamente garantista. Invece il quesito, assai macchinoso, sulla soppressione delle ultime righe dell’art. 274 cpp, se accolto avrebbe effetti paradossali: sarebbe più facile mantenere libero un borseggiatore seriale che non un incensurato ingiustamente accusato di essere un mafioso. Per il primo la nuova formulazione della legge renderebbe possibile l’arresto solo in caso di fuga o di inquinamento delle prove mentre nel caso del secondo indagato la semplice accusa di essere un colluso con un’associazione terrorista o di criminalità organizzata lo porterebbe in galera. Paradossalmente il limite costituto dal populismo forcaiolo della estrema destra è invalicabile anche per i radicali che 40 anni fa si schierarono con Enzo Tortora e con Toni Negri. Oggi Tortora e Negri come ieri finirebbero in galera. Il vero garantista sa che non conta il reato ma il metodo dei processi. È l’idea del processo penale l’unità di misura del tasso di civiltà e rinnovamento di un sistema giudiziario, non serve un confuso ribellismo sposato e accompagnato da chi come la Lega vuole vendicarsi dei magistrati e contemporaneamente si schiera con i massacratori dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Che senso ha scandalizzarsi per quei filmati come fa il buon Nello Trocchia su Domani e poi invocare che si tenga la gente di più in galera allungando i processi? Possibile non si colga la contraddizione? Chi oggi firma i referendum è probabilmente lo stesso pubblico che si schiera con Gratteri, De Raho e tutti i paladini del carcere “infinito”. Da questa eterogeneo pubblico di No vax, antigarantisti senza un progetto e un’idea organica difficilmente può venire qualcosa di buono: lo scorpione giustizialista affogherà alla fine l’illusione garantista di chi se lo metterà sulle spalle. Giustizia penale: archiviazione in almeno 60% procedimenti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2021 La giustizia penale in Italia non è un percorso lineare, con l’archiviazione come finale più probabile in oltre la metà dei casi e con la pandemia che ha riportato ben oltre l’anno il tempo medio minimo per lo svolgimento di un processo. Tra mancanza di mezzi e burocrazia organizzativa dei tribunali, la situazione è a macchia di leopardo sul territorio. Ecco una fotografia della situazione della giustizia penale in Italia, ottenuta da Adnkronos in collaborazione con Expleo e basata sulla grande mole di dati messa a disposizione dal Ministero di Giustizia. In particolare sono stati analizzati i dati condivisi da Dg-Stat, cioè la Direzione generale di statistica e analisi organizzativa del Ministero, istituita con decreto del Presidente della Repubblica nel 2001, collocata presso il Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi (Dog), fa parte del Sistema Statistico Nazionale. Quanto segue è un’analisi basata sui dati relativi al periodo 2014-2020, seguendo quindi la nuova geografia giudiziaria entrata in vigore a settembre 2013. Per i processi penali, emerge come la conclusione più probabile sia l’archiviazione, che sopravviene in almeno 60% delle occasioni. Rapportando il numero di decreti di archiviazione al numero dei procedimenti totali definiti nel 2020, per Distretto, si nota che, per tutti, più della meta? delle definizioni avviene tramite archiviazione, se si considera che il rapporto percentuale più basso e? del 60%, nei Distretti di Lecce e di Reggio Calabria. I Distretti che presentano il rapporto più elevato, invece, sono quelli di Brescia (84%), Campobasso (84%) e Potenza (83%). Analizzando in dettaglio quanto avvenuto nel solo 2020, i primi cinque Tribunali ordinari Gip e Gup per numero di procedimenti definiti tramite decreto di archiviazione sono: 1. Roma, 19mila archiviazioni su 25mila definiti; 2. Brescia, 14mila archiviazioni su 15mila definiti; 3. Napoli, 12mila archiviazioni su 16mila definiti; 4. Milano, 10mila archiviazioni su 14mila definiti; 5. Torino, 8mila archiviazioni su 11mila definiti. Per tutti e cinque i Tribunali, il rapporto tra decreti di archiviazione e il totale dei procedimenti penali definiti e? superiore al 70% (in ordine: 79%, 88%, 76%, 72%, 76%). Osservando il trend dei cinque Tribunali con il maggior numero di procedimenti definiti con decreto di archiviazione, nel periodo 2014- 2020, vediamo che, per tutti, il numero decresce nel corso degli anni: la variazione più significativa e? del Tribunale di Torino che passa da 32.705 decreti di archiviazione nel 2014 a 8.594 nel 2020 (-74%). Il Tribunale di Brescia presenta un andamento altalenante: dopo un iniziale decremento, a partire dal 2018 si assiste ad un incremento, passando da 11.363 a 14.069 archiviazioni nel 2020. Tra i grandi tribunali il più virtuoso è Napoli - Tribunali italiani con un numero medio di sopravvenuti oltre i 50.000, nel periodo 2019-2020, sono Milano, Roma, Napoli, Torino e Brescia. Confrontando il Clearance rate di questi Tribunali, con i primi 5 per sopravvenuti nella fascia 25.000-50.000, del medesimo periodo, si nota come, in generale, vi sia stata una variazione negativa per tutti i Tribunali, in particolare per quello di Milano (-18%). Tra i grandi Tribunali, il più virtuoso risulta essere quello di Napoli, che, nonostante il carico di lavoro più elevato, nel 2019 risulta più efficiente di Tribunali più piccoli come Catania, Palermo, Genova e Firenze. Utilizzando il Disposition Time come base di confronto, nel periodo 2019-2020, si osserva una variazione in negativo per tutti i Tribunali, a eccezione del Tribunale di Brescia, che invece registra un miglioramento di 38 giorni. Da segnalare il Tribunale di Palermo, che nel 2019 supera in negativo tribunali più grandi come quello di Roma o Milano, e quello di Napoli, che invece risulta tra i primi 3 migliori in termini di Disposition time. Covid: con pandemia cala numero processi penali chiusi, Friuli e Trentino le regioni più veloci - In termini di Clearance Rate, osservando le aree geografiche, e? possibile constatare come nel 2020 tutti i tribunali di Italia hanno registrano un calo delle performance in ambito penale. Il NordOvest ha registrato il decremento maggiore della performance, riuscendo a definire quasi il 7% in meno rispetto ai casi sopravvenuti; a seguire il Sud e le Isole con -6% circa. L’area geografica che ha subito meno l’impatto della pandemia risulta essere il Nord Est, che, rispetto al 2019, registra un decremento di solo il 2,4%. Il Clearance Rate, a livello regionale, nel 2020, mostra un quadro della performance dei tribunali, in ambito penale, fortemente appesantito dalla pandemia. Le uniche regioni che hanno mantenuto una performance superiore al 100% sono Toscana e Calabria, che registrano un CR del 101,4%. Guardando l’aspetto del Disposition Time, si nota invece il virtuosismo delle regioni Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, che registrano nel 2020 rispettivamente 245 e 272 giorni. Pandemia rallenta giustizia, nel 2020 più di 400 giorni per un processo penale - L’emergenza Covid è costata al sistema penale un generale rallentamento nel 2020, riportando la stragrande maggioranza dei processi penali a necessitare di oltre 400 giorni per concludersi. Considerando l’Italia dei processi penali suddivisa in cinque aree (Nord Est; Nord Ovest; Centro; Sud; Isole) in base al Disposition Time, dal 2014 al 2020, l’andamento della durata media in giorni dei processi penali italiani, costruisce un grafico altalenante. L’area geografica che si dimostra più rapida in termini di durata attesa di un procedimento penale è il Nordest, che, negli anni 2016, 2018 e 2019 assume valori di Disposition Time al di sotto dei 300giorni. Il Centro e le Isole impiegano invece generalmente più tempo nello smaltire i procedimenti penali. In tutta Italia si osserva un rallentamento complessivo nel 2020. In base al Disposition Time e? possibile osservare, tra il 2019 ed il 2020, un allungamento della durata media dei processi penali del 22,4%, passando da un valore complessivo italiano di 337 giorni del 2019 a 413 del 2020. Osservando le aree geografiche e? possibile constatare come il Nordovest abbia registrato l’aumento maggiore della durata, il 26,7% in più di giorni attesi, a seguire il Sud e le Isole con un aumento del 23,6% c.a. Il Centro ha visto un aumento del 21% e il Nordest del 15,3%. Calano procedimenti penali in tutta Italia, -29,4% tra 2014 e 2020 - Dal 2014 è in calo il numero dei procedimenti penali in tutta Italia, che segna, nel 2020, un -29,4% rispetto al dato di sei anni prima. Analizzando i dati relativi alle Procure italiane, la maggioranza dei procedimenti per reati ordinari sopravvenuti negli anni tra il 2014 e il 2020 si registra tendenzialmente nelle regioni del Sud Italia e del Nord Ovest, mentre a livello nazionale il numero e? complessivamente in discesa dal 2014. Rispetto a quell’anno, infatti, nel 2020, i sopravvenuti in Italia sono diminuiti del 29,4%. Il calo più consistente si registra al Nord Ovest, circa il 34,5% in meno. Relativamente al 2020, il numero più alto di procedimenti per reati ordinari sopravvenuti appartiene al Sud, che detiene circa il 27% del totale. Segue il Nord Ovest con il 24%. Ultime le Isole con il 13% sul totale. Rapportando lo stesso numero con quello della popolazione (fonte Istat), risulta che il valore più alto appartiene al Sud, con quasi 2 casi ogni 100 abitanti, a seguire le Isole. Il rapporto più basso si registra invece nelle Regioni del Nord Est. Analizzando i dati della giustizia penale italiana, relativi al periodo 2014-2020, risulta che il maggior numero di dibattimenti sopravvenuti presso la Corte d’Assise si registra al Sud. A livello nazionale l’andamento del valore negli anni non e? costante e si nota una riduzione complessiva nel 2017 (250 casi totali). Il 2018 e? invece caratterizzato da un aumento dei casi totali sopravvenuti a livello nazionale, pari a 318. Relativamente all’anno 2020, il maggior numero di dibattimenti sopravvenuti si registra al Sud, con il 41% del totale. Segue il Nordovest con il 18% sul totale. Ultimo il Nordest, 9%. Rapportando il numero dei sopravvenuti alla popolazione dell’area geografica interessata, ancora il Sud registra il valore relativo maggiore, con 8 casi per milione di abitanti, seguito dalle Isole con quasi 7 casi per milione di abitanti. Il rapporto più basso appartiene al Nord Est, con 2 casi per milione di abitanti. Comparando il numero dei procedimenti penali sopravvenuti in Italia con il numero deli reati denunciati alla Polizia di Stato, forniti dal Ministero dell’Interno, per gli anni 2017-2019, si nota una riduzione di entrambi. In particolare, dal 2017 vi e? stato un calo di circa il 5% per i reati denunciati e del 4% dei procedimenti penali sopravvenuti. La giustizia lumaca frena la ripartenza del Mezzogiorno di Lia Romagno Quotidiano del Sud, 6 agosto 2021 Mille e più giorni (1.142 per la precisione) contro 671: sono i tempi del processo civile al Sud e al Nord e raccontano ancora una volta il divario tra le due Italie. Numeri che hanno ricadute sulla vita dei cittadini ma anche delle imprese. E che frenano lo sviluppo di un territorio, rendendolo poco attrattivo per gli investimenti nazionali e internazionali. Le risorse del Recovery Plan offrono al Mezzogiorno l’occasione di una ripartenza e di un riallineamento con il resto del Paese e l’Europa: garantire legalità e giustizia da un lato e dall’altro rimuovere gli ostacoli riconducibili a una giustizia lenta e complessa, con processi lumaca - lunghi il doppio rispetto quelli celebrati nelle aule dei tribunali e delle corti del Nord, ma anche del Centro - diventa quindi “strategico”, ed è indicativo che la Commissione Europea, nel sollecitare all’Italia la riforma della giustizia abbia messo nel mirino proprio il fattore “tempo”. Ad aggredire i lunghi tempi della giustizia meridionale punta la Commissione interministeriale per la Giustizia nel Mezzogiorno varata a maggio dalla Guardasigilli Marta Cartabia e dalla ministra per il Sud e la Coesione territoriale, Mara Carfagna - tra i mugugni e gli appelli al boicottaggio di alcuni magistrati che l’hanno bollata come “inutile e offensiva” - riunitasi ieri per la prima volta. Il gruppo di lavoro, composto da magistrati, dirigenti amministrativi, avvocati, docenti universitari, tecnici - provenienti tutti dal Mezzogiorno d’Italia - e dirigenti del ministero, dovrà effettuare una “ricognizione delle esigenze specifiche degli uffici giudiziari e delle buone pratiche esistenti in un’area strategica del Paese, fulcro degli investimenti del Pnrr”, ha spiegato Cartabia che - come ha raccontato nel suo saluto alla Commissione - ha inaugurato un giro di visite nelle Corti di Appello di alcune città meridionali, incontrando situazioni d’eccellenza e altre critiche, come quella del tribunale di Napoli Nord, in difficoltà perché creato da poco, in una realtà complicata e un bacino molto ampio, con problemi legati a carenza di personale, strutture e attrezzature. La Commissione, ha aggiunto la Guardasigilli, è “un’occasione aggiuntiva, per far compiere un salto di qualità al servizio giustizia. Edilizia giudiziaria, digitalizzazione, organico: occorre andare a fondo delle necessità dei singoli distretti. Abbiamo bisogno dei migliori modelli organizzativi, per utilizzare al meglio le risorse del Pnrr. Il rilancio dell’intero Paese - ha quindi sostenuto - può partire dalle esigenze degli uffici giudiziari del Sud”. La ministra Carfagna ha invece ricordato che dietro ai numeri che registrano il divario sui tempi della giustizia civile tra il Nord e il Sud “ci sono cittadini, famiglie e imprese su cui grava una pesante incertezza che coinvolge la loro quotidianità, il loro lavoro, i loro contratti, i loro diritti”. Ancora una volta sono in gioco i diritti di cittadinanza, quindi. La lunghezza dei processi, ha sottolineato Carfagna, incide “sulla fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nello Stato”, come “sulla capacità del Mezzogiorno di attrarre investimenti”. Una giustizia rapida e efficiente, infatti, stimola la concorrenza, agevola l’accesso al credito. Si stima, poi, che una riduzione della durata dei procedimenti civili del 50 % possa accrescere la dimensione media delle imprese manifatturiere italiane di circa il 10 %, mentre una riduzione da 9 a 5 anni delle procedure fallimentari possa generare un incremento di produttività dell’economia italiana dell’1,6%. Nel Sud intanto si parte da una durata media dei procedimenti civili di fronte ai tribunali ordinari che 2019 ha raggiunto i 583,2 giorni, contro i 312,6 per il Centro-Nord, con un Nord Ovest e un Nord Est che si fermano rispettivamente a 237,9 e 286,1. Tutte le regioni del Mezzogiorno hanno una media superiore al dato nazionale - 420,9 - tranne l’Abruzzo con 341,5 giorni che si avvicina alla media delle regioni settentrionali, seguono Molise (421,7 giorni) e Sardegna (491,6) più vicine e Basilicata (759,8) e Calabria (755,1) decisamente molto lontane. Carfagna ha messo in rilievo il ruolo della magistratura “nella complessa e inedita fase storica che attraversiamo e nella colossale operazione di salvezza nazionale avviata col Pnrr”, ricordando le straordinarie opportunità, ma anche “i grandi rischi legati agli investimenti del Piano di Ripresa e Resilienza che andranno protetti da appetiti e infiltrazioni criminali”. “È un’impresa collettiva - ha detto - da portare avanti nel segno dell’efficienza e della legalità”. “La politica se ne frega delle querele temerarie e della libertà di stampa” di Giulia Merlo Il Domani, 6 agosto 2021 Il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci, parla delle 175 querele subite e della mancanza di tutele contro quelle intimidatorie: “Così si omologa l’informazione”. Proprio dopo aver concluso l’intervista, arriva la notizia che Report ha vinto la battaglia legale contro Andrea Monorchio, che aveva chiesto in sede civile un risarcimento danni per diffamazione dopo un servizio sui suoi incarichi professionali e le attività lavorative del figlio. “Con condanna anche a pagare le spese di lite”, specifica Sigfrido Ranucci, volto della trasmissione e giornalista d’inchiesta da trent’anni che analizza la questione dopo la richiesta a Domani dell’Eni di pagare 100.000 euro per un articolo sgradito prima ancora di aver avviato un’azione civile. Nel corso del tempo e soprattutto da quando lavora a Report, lui e la sua squadra hanno subito 175 querele e richieste di risarcimento danni, per un totale di molti milioni di euro. “E non ne ho mai persa nessuna”, precisa. Alcune di queste si trascinano anche per decenni, anche perché la richiesta di risarcimento del danno civile si può proporre entro cinque anni: “Ci sono capitati casi in cui la causa iniziava dopo quattro anni e mezzo dalla trasmissione del servizio ed era necessario ricordare i dettagli per difendersi, recuperare le carte e i documenti dell’inchiesta”. Soprattutto quando la querela è temeraria, cioè si basa su una pretesa infondata e ha l’obiettivo di intimidire o mettere in difficoltà anche economica il giornalista e l’editore che la subiscono. “In questo mi considero un privilegiato, perché lavoro con la Rai che ha le spalle larghe e può sostenere le spese legali”, dice Ranucci, che tuttavia sottolinea come nei contratti Rai sia previsto che, in caso di soccombenza e di dimostrazione del dolo del giornalista, l’azienda possa rivalersi sul professionista per recuperare le spese a cui è stata condannata. Diverso, invece, è se la querela temeraria viene intentata contro un giornalista freelance o che lavora per piccole testate locali, perché è su di loro che una querela esercita maggior pressione, soprattutto se manca il capitale per affrontare anche solo le spese legali del giudizio. Eppure, tutte le proposte di legge per introdurre una tutela maggiore per i giornalisti contro le querele a fini intimidatori sono finite nel nulla. La politica silente - Il nodo è tutto qui, secondo Ranucci: una politica silenziosa e inerte, a cui conviene rimanere tale. “A questo parlamento la libertà di stampa non interessa per nulla” scandisce. E citando in particolare la sua esperienza a Report, aggiunge che “c’è stato anche un accerchiamento dei giornalisti attraverso le authority di garanzia come l’Agcom. Poi ricordo che l’ultima sentenza del Tar ci ha paragonato a dei funzionari del catasto, chiedendoci di rivelare fonti e metodo di lavoro”. Un silenzio, quello della politica, che è tanto più assordante quanto più si sbilanciano i rapporti di forza. È ancora fresca, infatti, la durissima polemica tra Report e il deputato di Italia viva, Luciano Nobili, che aveva presentato un’interrogazione parlamentare contro un servizio della trasmissione di Rai 3 su Matteo Renzi, contenente illazioni non veritiere come il fatto che la trasmissione avesse pagato la fonte. “A fronte di sistemi di controllo dell’informazione quasi spietati, in Italia assistiamo a un totale non controllo sull’operato dei parlamentari, che divulgano dossier falsi sul lavoro dei giornalisti e non incorrono in alcuna conseguenza”. Lo scontro molto duro tra Report e Nobili, però, non ha visto prese di posizione da parte della commissione di Vigilanza sulla Rai “che è sempre molto attenta a vigilare su cosa fanno i programmi, ma forse dovrebbe anche tutelare la Rai dai politici che la attaccano”. I rischi per l’informazione - I numeri pubblicati in un report dell’Istat del 2016 parlano di 9.039 querele sporte per articoli di stampa: le archiviazioni sono state 6.317, pari al 67 per cento, l’azione penale è iniziata in 2.722 casi, pari al 30 per cento ma le condanne sono state 287. Anche solo questo basterebbe a far ritenere che serva inserire un meccanismo di deterrenza. “In Gran Bretagna, quando si scomoda la giustizia civile bisogna lasciare una cauzione, che si perde se viene intentata una causa riconosciuta come temeraria. Se fosse così anche in Italia, i nostri politici non querelerebbero più nessuno”, dice Ranucci. Rimane un interrogativo: quali risultati produce questo disinteresse verso la tutela della stampa indipendente? “Il risultato indiretto di questa situazione è quello di indebolire e omologare l’informazione. Ciò a cui ho assistito in questi anni è che buona parte dei giornali non si occupa di alcuni argomenti per non avere problemi. Per la prima volta, poco tempo fa, mi è successo di ricevere un no da parte di un importantissimo giornale nazionale a cui avevo offerto di dare in anteprima una notizia su un politico di spicco. Mi è stato risposto che su quel giornale di quel politico non si parla. E questa è una deriva molto preoccupante”. In sintesi, per fare informazione libera, che spesso è anche sinonimo di scomoda, soprattutto per il potere e i potentati locali, servono denaro ma anche grande credibilità per sostenere gli attacchi, “mentre tutto diventa molto più difficile se si è di piccole dimensioni e soli a doversi difendere”. L’alternativa è, appunto, l’omologazione. Questo accade perché molte testate, soprattutto quelle piccole e medie, sono pesantemente condizionate dal groviglio del potere politico e imprenditoriale locale, dato che vivono anche dei contributi e delle sponsorizzazioni dei comuni o delle imprese. “E allora salta subito agli occhi come in queste situazioni è difficile esercitare liberamente l’attività di giornalista, soprattutto se si tratta di indagare sul sindaco di turno”. E allora cosa servirebbe, secondo Ranucci? “Una presa di coscienza della politica e dei singoli poliitici, perché si rendano conto che dimenticare il valore della libertà di stampa, non accettare il contraddittorio nei dibattiti e affidarsi ai monologhi sul web è come staccare un assegno in bianco dal capitale della democrazia”. Lazio. Garante dei detenuti, Anastasìa confermato dal Consiglio regionale Il Riformista, 6 agosto 2021 Stefano Anastasìa è stato confermato dal Consiglio regionale del Lazio Garante dei detenuti. “Ringrazio il Consiglio regionale per l’apprezzamento del mio impegno e la fiducia che mi ha riconosciuto, confermandomi nelle funzioni di Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio per il quinquennio 2021-2026”. Con queste parole Stefano Anastasìa ha accolto positivamente la decisione del Consiglio, che lo ha eletto per la seconda volta Garante dei detenuti. Una conferma che nasce dall’impegno di Anastasìa sui temi del momento e le sfide di sempre: superare il sovraffollamento, riportando il carcere alle sue strette necessità per i reati più gravi e le pene più lunghe, potenziando la rete dei servizi socio-sanitari di assistenza alle persone disagiate spesso e ingiustamente custodite in carceri e Rems. Pregnante è l’impegno nella qualifica e promozione dell’integrazione dei servizi socio-sanitari sin dai luoghi di detenzione, così come il potenziamento dell’offerta di servizi per l’istruzione, la cultura, la formazione professionale e l’inserimento lavorativo e il reinserimento sociale dei detenuti, Infine, è necessario garantire i rapporti affettivi delle persone private della libertà e integrare il carcere nel territorio anche attraverso le nuove tecnologie della comunicazione. “Abbiamo alle spalle anni molto difficili - ha detto Anastasìa dopo la seduta del Consiglio - precipitati nel durissimo lockdown imposto dalla pandemia alle carceri, alle residenze per le misure di sicurezza, al centro di detenzione per stranieri di Ponte Galeria e a ogni altro luogo di residenza forzata per motivi di giustizia, di polizia o di salute. Un’esperienza difficilissima affrontata con senso di responsabilità e di sacrificio da parte delle persone private della libertà, sostenute dalla dedizione e dalla professionalità degli operatori penitenziari, sanitari e delle altre amministrazioni pubbliche competenti e dall’impegno dei volontari, dove e fin quando hanno potuto svolgere il loro prezioso ruolo di ausilio e integrazione sociale”. Anastasìa è convinto che l’azione della Regione Lazio possa avvalersi dell’impegno delle competenti amministrazioni dello Stato e quella degli Enti locali, “dimostrando che il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e la finalità rieducativa della pena si perseguono efficacemente solo grazie all’impegno di tutte le istituzioni, locali e nazionali, della società civile e della cittadinanza attiva”, ha concluso Anastasìa. Padova. Il carcere e la città, modello virtuoso di Giambattista Marchetto lapiazzaweb.it, 6 agosto 2021 Padova è un esempio nella gestione del sistema penitenziario. E lo è perché nella città del Santo esiste da quasi mezzo secolo un modus operandi basato sull’abbattimento ideale di quel muro tra “dentro” e “fuori” dal carcere. Partono da questo assunto Andrea Guolo e Tiziana Di Masi che danno al caso-Padova un risalto speciale tra le tante storie di volontariato raccontano nel libro “#Iosiamo. Storie di volontari che hanno cambiato l’Italia (prima, durante e dopo la pandemia)”, uscito a giugno per le Edizioni San Paolo. Dal 2018, Di Masi (attrice) e Guolo (autore) portano in scena in tutto il paese lo spettacolo teatrale “#Iosiamo” che racconta storie vere di personaggi, associazioni, sportelli, centri di accoglienza, centri di ascolto. Ora il libro ripercorre in 12 capitoli dodici aspetti diversi dell’aiuto a chi è più debole, a chi si vede negare i propri diritti, a chi deve ricostruire la propria vita, a chi ha bisogno di sostegno nella malattia e nelle calamità naturali, ai bambini, al patrimonio artistico del nostro Paese. Dolcezza dietro le sbarre - Nel libro gli autori raccontano l’esperienza di apertura al territorio del penitenziario padovano, “un sistema partecipativo nato dal basso - scrivono - e diventato un motivo d’orgoglio per gli stessi padovani, anche per merito di un dolce: il panettone di Giotto”. Sfornato a Padova, dai detenuti del Due Palazzi, questo prodotto si è imposto oltre le mura della città come simbolo di riscatto morale e tra i più “ghiotti” del panettone padovano ci sono i due Papi. Nella dispensa della cooperativa troviamo le colombe a Pasqua, vari tipi di biscotti, torroni, la tradizionale Noce del Santo premiata dall’Accademia della Cucina Italiana, e poi torte, cioccolatini e gelati rigorosamente artigianali. “Ci lavorano 38 detenuti, sotto la guida di tre maestri pasticceri - svela #iosiamo - A sua volta, la pasticceria rappresenta la punta di un iceberg, il fiore all’occhiello di un progetto, avviato nel 2004 e più articolato, per il recupero sociale e professionale dei detenuti di un carcere tra i più difficili del nord Italia, la cui storia si accompagna a quella di una città che ha sempre lottato per non dimenticare i reclusi, fin dai tempi di Sant’Antonio”. Il carcere nella città - “Noi siamo il frutto di quarant’anni di sensibilità che Padova ha dimostrato verso il suo carcere”, spiega agli autori Nicola Boscoletto, socio fondatore e presidente della cooperativa Giotto. Il terreno era fertile per trasformare un seme in pianta. Con il coinvolgimento della società civile, con le attenzioni a 360 gradi del mondo no profit, del mondo profit e anche delle istituzioni, inizia un percorso che porta alla creazione di un progetto più articolato. Si chiama Progetto Carcere e prende il via nel 1988. “Fu concepito - ricorda Boscoletto - come una città nella città. E quando nel 1990 l’istituto di pena si spostò dal centro alla periferia, fu chiaro a tutti che il trasferimento al Due Palazzi, appena realizzato, implicava una necessità ancor più impellente di non perdere contatto con quella comunità messa in un angolo lontano”. Da allora a Padova ne sono cambiate di cose, ma nessuna trasformazione ha mai messo in discussione il progetto e la necessità di tendere la mano a quel capitale umano così complesso. Oggi sono oltre 400 i volontari coinvolti nelle attività a supporto dell’amministrazione penitenziaria. Oltre alla Giotto, con le sue attività e iniziative, il libro racconta le altre realtà, come le cooperative Altra Città e Work Crossing. Vengono formati artigiani che realizzano valigie, tacchi per l’alta moda, componenti per auto e moto, sistemi di fissaggio certificati, oltre a gestire una legatoria e un servizio di digitalizzazione di documenti cartacei. I detenuti sono coinvolti in progetti come il teatro o in gruppi di ascolto. C’è poi Palla al piede, la squadra di calcio formata dai detenuti, che milita in terza categoria e può vantare un primato unico nel suo genere: gioca sempre in casa, perché in trasferta proprio non ci può andare. E c’è anche una redazione, quella di “Ristretti Orizzonti”, che produce una newsletter e una rivista. Rovigo. In carcere, quanti ne “aggiustiamo”? di Guido Pietropoli* rovigooggi.it, 6 agosto 2021 Se la città continuerà a vedere il carcere come una pustola da espellere non potrà contribuire alla riabilitazione dei detenuti. Anni fa fui ricoverato in ospedale e dissi ad un infermiere: “dev’essere dura la vostra vita, tutto il giorno tra persone sofferenti”. Dopo un attimo d’esitazione, mi rispose: “È vero, però qualche volta riusciamo ad aggiustarli!”. Credo che il paragone tra il carcere e l’ospedale non sia fuori luogo; anche i detenuti possono essere considerati malati, malati di violenza familiare, di sopraffazione e ricerca di espedienti per la sopravvivenza, di fragilità nel rapportarsi agli altri in una società competitiva. Con questo non voglio attribuire alla società tutte le colpe che imponiamo di scontare a ogni detenuto; in carcere ho incontrato anche persone estremamente consapevoli, di rara cultura e intelligenza; il giudizio su questi può essere meno pietoso ancorché sempre rispettoso di trovarsi di fronte a una persona con le sue colpe, ma anche con i suoi diritti. In un’ottica di efficientismo qualsiasi impresa economica che ha una mission s’interroga periodicamente sui successi e sugli insuccessi; se la risposta è: “recidiva al 70/80%” qualsiasi impresa dovrebbe chiudere i battenti. Queste cifre sono i risultati “normali” dell’impresa “carcere italiano”. Schematizzando si può affermare che le mission dell’istituzione carceraria sono due: sottrarre dalla società gli individui pericolosi facendo scontare il loro debito nei riguardi della Giustizia e l’altra, che sembra meno interessar il cittadino comune, di restituire alla vita civile individui “aggiustati” cioè risanati dalla loro attitudine a delinquere e resi adatti al reinserimento nella vita civile. Il mondo della politica sembra interessarsi delle carceri solo per garantire al cittadino la certezza della pena: “hai sbagliato e ora paghi”. Non c’è ritorno di voti per chi s’interessa di capire cosa veramente succede tra le alte mura; anzi i voti piovono generosamente solo quando il politico si dimostra favorevole a richiudere il delinquente e a buttare le chiavi. Ma l’impresa ‘carcere’ ha anche un significativo versante economico: un detenuto costa molto di più di un infermiere, di un vigile urbano, di un operaio. Qual è il risultato che vogliamo ottenere? Non sarebbe meglio che chi ha pagato il suo debito, invece di restare inebetito fuori dal cancello del carcere, sia messo in grado di rifarsi una vita e di rendersi utile alla società? È questo il versante di maggior interesse dell’Istituzione che non può ridursi a una contabilità tribale: “hai sbagliato e ora paghi” ma che deve puntare sull’uso più attento e fruttuoso del periodo di detenzione per offrire la possibilità d’imparare un lavoro, di studiare, di coltivarsi, di aumentare la propria umanità. A questo fine devono lavorare le strutture carcerarie aiutate dai familiari, dai volontari e dalla città. Se la città continuerà a vedere il carcere come una pustola da espellere e non come un ospedale speciale per soggetti difficili non potrà aprirsi a questo mondo di dolore e non potrà contribuire alla riabilitazione di soggetti che hanno la necessità d’essere aiutati. Il problema di Rovigo non è il sovraffollamento - che fortunatamente non c’è - è il rispetto per il difficile lavoro del “personale sanitario” (leggi i dirigenti, le guardie, gli addetti ai servizi) e il rispetto e la cura per i “malati” (leggi i detenuti) perché alla fine, se non riusciamo ad “aggiustarli”, che società siamo? *Garante provinciale dei diritti dei detenuti di Rovigo Barcellona P.G. (Me). Diciottenne trattato da pedofilo nella sentenza e in cella: rischia la vita di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 agosto 2021 A 18 anni ha avuto un video di un minore in chat, condannato senza che il difensore precedente facesse appello. Ha subito episodi di violenza da detenuti. Ha gravi problemi fisici e psichici. Presentata la richiesta di grazia a Mattarella. Ha vent’anni e si trova in gravissime condizioni di salute fisica tanto da portare un catetere nonostante la giovane età. Tutto ciò, in aggiunta ai problemi psichici causati dal travaglio giudiziario scaturito in una condanna definitiva. Come se non bastasse, durante il periodo detentivo nel carcere siciliano di Barcellona Pozzo di Gotto, avrebbe ricevuto brutali violenze da parte di altri detenuti, compreso il fatto che l’avrebbero costretto a bere urina. Come mai? È stato condannato per un reato che, nella cultura del mondo carcerario, viene definito “infame”. La sua vicenda, come vedremo, ha avuto un destino drammatico. Una storia davvero “infame” quella di Marco, nome di fantasia per proteggere per ovvie ragioni la sua identità. L’incubo è iniziato per un video ricevuto in chat da uno sconosciuto - L’anno scorso è stato condannato a sei anni di carcere perché, quando era appena 18enne, tramite una chat per adulti ha ricevuto un video che riproduceva parte intime di una persona a lui sconosciuta. Si scoprii poi, durante le indagini fatte proprio nei confronti dello sconosciuto, per una inchiesta sul videogioco Blue Whale, che si trattava di un 14enne. Quindi un minorenne. Per questo motivo - ribadiamo che all’epoca dei fatti aveva appena compiuto 18 anni -, Marco è stato condannato per il reato di produzione di materiale pedopornografico. Ora ad assisterlo è l’avvocato Fausto Malucchi del foro di Pisa, prima Marco è stato difeso da un legale che non ha fatto nemmeno appello alla sentenza di primo grado. Il suo difensore: “Giura e spergiura di non essere colpevole” - Il caso è stato portato a conoscenza di Rita Bernardini del Partito Radicale, tanto da constatare che il ragazzo sta veramente male e rischia moltissimo. Il Dubbio ha contattato l’avvocato Malucchi per approfondire la vicenda. “Il mio assistito giura e spergiura di non essere colpevole - racconta l’avvocato Malucchi -, aveva solo diciotto anni quando qualcuno, dal cellulare di sua madre, ma in uso a lui, chatta per circa un’ora con una persona mai vista e conosciuta ed abitante a mille chilometri di distanza. Poi chiude facendosi inviare materiale riproducente il pene dello sconosciuto interlocutore”. Qualche anno dopo Marco viene condannato dal Gip Tribunale di Perugia perché quella foto sul suo cellulare l’ha inviata un adolescente di quattordici anni, in barba alle regole che riservavano la chat in questione solo ai maggiorenni. La condanna è stata definita in due anni e otto mesi di reclusione - Parliamo di una condanna avvenuta il 15 settembre del 2020. La pena base era di sei anni. Sono state concesse le attenuanti generiche arrivando a quattro anni di reclusione ed infine con lo sconto per il rito abbreviato è la condanna è stata definita in due anni e otto mesi di reclusione. Però per quel reato (art. 600 ter c.p., produzione di materiale pedopornografico) non si può chiedere alcuna misura alternativa alla detenzione. Si va subito in prigione, e solo dopo un anno di osservazione in istituto si può richiedere l’affidamento in prova ai servizi sociali, la detenzione domiciliare e tutte le altre misure. L’avvocato precedente non ha presentato ricorso in appello - Il fatto drammatico è che l’avvocato precedente non avrebbe comunicato l’esito della sentenza al ragazzo. Non solo. Il legale non è ricorso in appello, e per tale ragione la stessa sentenza è diventata così definitiva. Accade così che il 17 marzo del 2021, Marco viene raggiunto dall’ordine di esecuzione pena e quindi condotto presso l’Istituto Penitenziario calabrese di Vibo Valentia per scontare la pena complessiva di anni due e otto messi. Il reato contestato è ostativo, quindi Marco ha la possibilità di poter accedere alle misure alternative solo dopo un anno di osservazione in carcere. Come spiega l’avvocato Malucchi, il ragazzo è già affetto da diverse patologie, ma fino a quel momento estraneo ad ogni esperienza di carattere penale. Marco manifestava fin da subito un preoccupante disagio associato a un rapido peggioramento delle sue condizioni generali di salute. In particolare, non accettava il fatto di non aver svolto alcuna attività difensiva poiché ciò gli era stato consigliato dal legale precedente il quale lo aveva sempre rassicurato. Ma così non è stato. Il ragazzo ha un malessere psichico tanto da lasciarsi andare, auto isolarsi - Come emerge dalle letture del diario clinico, il ragazzo è precipitato in una spirale di malessere psichico tanto da lasciarsi andare, auto isolarsi e attuare scioperi della fame e della sete. Azioni che gli hanno peggiorato il quadro di salute fisica già in precedenza precaria. Per far fronte a queste crisi, dal carcere di Vibo Valentia lo hanno mandato per un mese a quello di Barcellona Pozzo di Gotto. Ex Opg, con sezioni adibite alle terapie psichiatriche. Da poco è ritornato al carcere calabrese e ha reso noto all’avvocato che, nel carcere siciliano, sarebbe stato picchiato e bullizzato da altri detenuti, perfino costretto a bere urine, fino a rendersi necessario il suo isolamento.Il reato, ricordiamo, è stato commesso nel 2017. Al di là della vicenda in sé che desta molti punti interrogativi su come andarono effettivamente i fatti (ha commesso davvero il reato contestato?), fin da quella fatidica data in poi, Marco ha avuto una condotta di vita ineccepibile. Come ha ben spiegato l’avvocato Malucchi, il ragazzo ha supportato le modeste condizioni economiche della famiglia di cui fa parte con lo svolgimento di occasionali lavori e soprattutto iscrivendosi al Corso di Laurea in Mediazione Linguistica con specializzazione in Criminologia ed Intelligence che si tiene nella città di Vibo Valentia. È stata presentata una domanda di grazia al presidente della Repubblica - Recentemente è stata presentata una domanda di grazia al presidente della Repubblica Sergio Mattarella con richiesta al magistrato di Sorveglianza di differimento facoltativo della pena. Ma la procedura ha le sue regole e il magistrato ora è in ferie. Riportiamo alcuni passaggi della richiesta della grazia, istanza a firma dell’avvocato Malucchi. La carcerazione del ragazzo “frutto esclusivo di un processo caratterizzato dall’assenza di difesa - si legge nella richiesta -, ha destato sconcerto e sconforto tra i docenti che hanno avuto modo di valutare la sua personalità e le sue doti in questi anni di studi e di impegno. E la loro incredulità si è trasfusa in un’importante deliberazione con la quale non hanno protetto un criminale ma hanno espresso un qualificato parere su una persona con cui hanno quotidianamente condiviso giornate di studio e di lavoro, proprio nella ricerca e nell’attuazione dei mezzi più importanti per il contrasto al crimine”. Prosegue l’istanza: “In ultimo resta da evidenziare le gravi condizioni di scadimento psicofisico che oggi caratterizzano (…). Condizioni sicuramente conseguenti alla sua carcerazione e soprattutto all’impossibilità di metabolizzare una condanna per un reato in ordine al quale gli è stato prima “consigliato” di non difendersi e successivamente gli è stata preclusa l’impugnazione non avendogli comunicato l’esito della catastrofica sentenza di primo grado”. E conclude: “Anche il suo stato di salute, compromesso gravemente da una sentenza ingiusta, denota l’inumana afflittività di una pena, priva di effettivo senso giuridico, oggi in esecuzione nei confronti di (…) e che si chiede venga mitigata mediate l’accoglimento del provvedimento di clemenza in oggetto”. Firenze. I quadri degli Uffizi dentro Sollicciano. L’idea per avvicinare il carcere alla città di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 6 agosto 2021 La visita di Schmidt: l’iniziativa in autunno nel Giardino progettato da Michelucci? I quadri degli Uffizi nel carcere di Sollicciano: un progetto che potrebbe diventare realtà. L’idea, a cui sta lavorando la direzione del carcere insieme alle Gallerie degli Uffizi, è quella di esporre alcune opere del museo (attingendo soprattutto dai quadri conservati negli attuali magazzini) nel Giardino degli Incontri del penitenziario affinché siano visitabili sia dai detenuti che dai loro familiari, oltre che da tutta la cittadinanza. Un progetto per permettere al carcere, luogo quasi sempre chiuso e impermeabile, di aprirsi all’esterno attraverso la cultura e che mette in cantiere anche un percorso didattico sulla storia dell’arte per i detenuti proprio a partire dalle opere esposte. Per ragionare attorno a questa idea, nei giorni scorsi al penitenziario di Sollicciano è arrivato il direttore degli Uffizi Eike Schmidt, che ha fatto un sopralluogo nel carcere accompagnato dalla direttrice Antonella Tuoni, dall’assessore alle politiche sociali di Palazzo Vecchio Sara Funaro, dall’assessore alla cultura di Scandicci Claudia Sereni, dal garante comunale dei detenuti Eros Cruccolini e da una delegazione della Fondazione Michelucci. È proprio la Fondazione ad aver progettato il Giardino degli Incontri, la struttura esterna al penitenziario il cui intento è quello di unire il carcere alla città. Il padiglione, dove sono già esposte alcune opere d’arte, è l’ultimo progetto realizzato dall’architetto e urbanista pistoiese Giovanni Michelucci, scomparso nel 1990. L’opera, con il relativo giardino, il teatro all’aperto e le opere annesse, è destinata agli incontri dei detenuti con i loro familiari ma anche ad altre iniziative utili all’apertura di rapporti da parte della società civile e delle sue istituzioni al mondo del carcere. Michelucci, considerato un maestro dell’architettura contemporanea, giudicava questa straordinaria esperienza di progettazione partecipata “tra le più belle e significative” della sua vita, un’esperienza realizzata col gruppo di detenuti che lo invitò e collaborò con lui nelle difficili condizioni di un carcere metropolitano. Nella struttura, negli ultimi anni, si sono svolti numerosi incontri, conferenze, eventi teatrali, nonché incontri con istituzioni cittadine e ministri che hanno fatto visita a Sollicciano. Il progetto di portare i quadri degli Uffizi nell’istituto fiorentino, che per adesso è soltanto un’idea, potrebbe trovare concretezza a settembre, quando a Sollicciano sono previsti nuovi sopralluoghi da parte dei tecnici degli Uffizi insieme agli operatori del penitenziario per valutare la fattibilità dell’iniziativa. Oltre alle opere d’arte delle Gallerie, si sta lavorando anche per portare all’interno del Giardino degli Incontri altri quadri e monumenti conservati nei vari luoghi d’interesse culturale presenti in città. La trincea della realtà. Draghi non cede alla Lega sul Green Pass di Francesco Bei La Repubblica, 6 agosto 2021 Alla boa dei sei mesi di permanenza a palazzo Chigi, Mario Draghi ha portato ieri a casa quello che si annunciava come uno dei provvedimenti più divisivi della sua maggioranza: l’obbligo di Green Pass anche per scuola e trasporti. Si ricorderà che proprio questi due settori erano rimasti esclusi dal precedente decreto, proprio per la distanza delle posizioni all’interno del governo. Era la famosa conferenza stampa in cui il premier usò parole durissime contro chi cincischiava con i distinguo (“un appello a non vaccinarsi è un appello a morire o a far morire”) e Salvini, pur non nominato esplicitamente, comprese bene di chi si stava parlando. Ne seguì un faccia a faccia tra i due a palazzo Chigi, un chiarimento politico e personale, eppure non sembra che le pressioni della Lega contro il passaporto vaccinale abbiano avuto effetto. È passata infatti una linea di massima precauzione, che di fatto equivale a un obbligo vaccinale per il personale scolastico. I duecentomila (ma pare che siano molti meno) resistenti no vax tra prof e personale Ata e amministrativi dovranno ora scegliere fra l’esibizione del Green Pass e lo stipendio. Sempre che non vogliano sottoporsi a un tampone ogni due giorni. Era un passaggio fondamentale e molto atteso per garantire che l’obiettivo strategico di riportare tutti gli alunni in presenza non venisse vanificato dall’egoismo o dall’ignoranza di una minoranza che continua a fuggire dal vaccino. Salvini incassa un’altra mezza sconfitta e per misurarla bastava leggere il commento rassegnato del principale ideologo no Green Pass della Lega, Claudio Borghi, che alla affezionata platea no vax dei suoi follower ieri sera confessava: “Ho fatto il possibile ma ho perso. Mi scuso con tutti voi”. Il problema è che il segretario del Carroccio si era attestato su una posizione, anzitutto sul piano della comunicazione politica, palesemente fuori dalla realtà e dalla rotta che Draghi aveva già indicato quindici giorni fa. Riassumibile in sostanza in questo modo: niente obbligo vaccinale (a differenza del personale della Sanità) ma Green Pass esteso alla scuola come garanzia di libertà e di ripresa. Che la posizione contraria di Salvini fosse insostenibile era chiaro anche per le dichiarazioni a favore del passaporto verde di tutti i governatori della Lega. Auto-isolato nel suo stesso partito, Salvini ieri sera faceva trapelare soddisfazione per l’esito del Consiglio dei ministri. Ma sembrava più che altro una ritirata strategica per non dover ammettere di aver sbagliato a intestardirsi contro il Green Pass. E tuttavia il metodo Draghi consiste in un continuo esercizio di pragmatismo, lontano da considerazioni su chi possa cantar vittoria su questa o quella decisione. Ora, se è vero che il capo leghista sembra uscire malconcio dalla giornata di ieri, questo è dovuto principalmente a un suo errore di comunicazione. Perché in realtà la linea del governo non si è affatto appiattita sulle idee di chi avrebbe voluto un’estensione totale e immediata del documento verde a tutti i settori. Sui trasporti, ad esempio, Draghi ha tirato la coperta dalla parte opposta. Raccontano che il ministro Speranza avrebbe voluto da subito un obbligo di Green Pass anche su aerei e treni a lunga percorrenza, con i ministri Patuanelli e Franceschini disposti al massimo a spostare l’imposizione al 20 agosto. Il premier ha invece preferito dare ascolto al settore del turismo, rinviando al primo settembre il divieto di far salire a passeggeri sprovvisti del lasciapassare. “Avremmo messo in difficoltà migliaia di italiani che sono già in vacanza e hanno prenotato treni e aerei per rientrare”, fa notare un ministro che ha condiviso la linea del capo del governo. È la trincea della realtà in cui Draghi ha deciso di assestarsi, senza preoccuparsi troppo di chi possa scontentare (una lezione che i più massimalisti tra i Cinque Stelle hanno dovuto subire sulla giustizia). Resta intatto lo scoglio del lavoro. Cosa deciderà il governo per le aziende private, le fabbriche, gli uffici? La questione è molto delicata perché il bilanciamento tra due diritti in conflitto, quello alla salute e quello al lavoro, stavolta sarà più difficile rispetto ai settori - la sanità e la scuola - dove si è già intervenuti. Oltre alla prevedibile contrarietà della Lega, Draghi si troverà infatti a fronteggiare anche l’ostilità dei sindacati rispetto a un’ipotesi di obbligo di Green Pass per entrare in ufficio e nei luoghi della produzione. Dopo lo sblocco dei licenziamenti, sarà un’altra partita che può creare un solco con i rappresentanti dei lavoratori. Renzi, Saraceno e la vera povertà di Maria Cecilia Guerra* La Stampa, 6 agosto 2021 Nel suo intervento su La Stampa, Renzi dichiara: “Il reddito di cittadinanza è una misura che non funziona. Lo dimostrano i numeri inoppugnabili”. E ancora: “Lo dimostra l’aumento della povertà” e “il fallimento dei navigator”. La povertà è aumentata per colpa della pandemia, con una caduta del Pil di circa 9 punti. Il Rdc è corso in aiuto ai poveri: sono il 48% in più i nuclei che hanno beneficiato di almeno una mensilità di Rdc nel 2020 rispetto al 2019. L’Istat ci dice che, anche grazie al Rdc, l’intensità della povertà è diminuita: i poveri sono di più ma la povertà morde meno, in tutte le ripartizioni geografiche. Quanto ai navigator è molto difficile collocare persone che, nel 67% dei casi (Inps), non hanno avuto nessun rapporto col mercato del lavoro nei due anni precedenti l’introduzione del Rdc e che hanno un tasso di scolarità molto basso. Ma lo è ancora di più in un periodo in cui l’occupazione è calata, dal febbraio 2020 al febbraio 2019, di 846 mila unità. In questo contesto, per legge, dall’aprile del 2020 si è deciso di sospendere gli obblighi relativi all’accettazione di offerte di lavoro per i percettori di Rdc. Nonostante questo, i dati Anpal sul primo anno di applicazione ci dicono che il 25,7% dei beneficiari tenuti alla stipula del patto sul lavoro ha avuto almeno un contratto, per quanto solo il 15% a tempo indeterminato. E uno studio controfattuale, condotto dall’Irpet con riferimento alla Toscana, “rileva l’inesistenza di un effetto divano”: il Rdc non disincentiva la ricerca di lavoro. I numeri dei nostri istituti pubblici, davvero inoppugnabili, ci dicono altro anche sul rapporto Rdc-lavoro: circa metà delle persone che ricevono il Rdc non sono attivabili al lavoro. Anche perché spesso già lavorano: nel 57% dei nuclei beneficiari sono presenti persone occupate. Si può essere poveri anche senza essere “pigri”. Quando un lavoro non basta per mantenere con dignità la propria famiglia non è sempre possibile averne due: per esempio, in famiglie con figli minori o anziani non autosufficienti di cui, in tante zone di Italia, nessun servizio pubblico si occupa. Non è un caso che fra i beneficiari attivabili che non lavorano la maggior parte sono donne. Il Reddito di cittadinanza ha molti difetti e andrebbe migliorato, ma prima di fare un referendum per abolirlo, bisognerebbe almeno ricordare che 926 mila dei beneficiari attuali (più di un quarto) sono minorenni. Per loro è ancora più evidente che la povertà non discende da colpe individuali. *Sottosegretaria al Mef Perché la prevenzione non tiene il passo con il lavoro che cambia di Luigi Agostini Il Manifesto, 6 agosto 2021 Morti sul lavoro. Salute e sicurezza vanno riorganizzate in un’Agenzia nazionale, articolata per territori e governata dalle parti sociali sul modello del movimento degli edili. I numeri dei morti e feriti sul lavoro sono eloquenti, e nella loro essenzialità indicano sia la dura persistenza delle vittime, che l’inefficacia delle politiche di protezione. La pena per le vittime rischia di essere superata dal fastidio delle dichiarazioni, sempre identiche, che invocano nuove leggi e nuovi ispettori. Il quadro generale purtroppo è segnato non solo dalle morti ma anche dagli incidenti invalidanti e dalle malattie professionali di vecchio e di nuovo tipo. Il complesso di tale situazione affonda le sue radici nella voragine che si è aperta tra l’evoluzione accelerata della struttura produttiva, la conseguente metamorfosi del lavoro, e l’inadeguatezza delle protezioni sociali. Sono oltre il 90% le imprese con meno di 15 dipendenti; la macchia di lavoro nero e grigio spesso copre intere aree e regioni; le migrazioni colorano ancor più problematicamente l’insieme del quadro. Pensare oggi Salute e Sicurezza del lavoro, significa riordinare, all’insegna della prevenzione, l’intera struttura di protezione. Almeno su tre aspetti dirimenti. A) Un aspetto culturale. Oggi la prevenzione viene confusa, anche sull’onda della giusta e sacrosanta reazione sociale, con la sanzione e con la repressione. La volontà punitiva riempie il vuoto della incapacità preventiva. La gran parte dell’attività dei cosiddetti Enti Previdenziali è in realtà un’azione di “risarcimento”: non a caso si chiama “rendita” il risarcimento dopo l’infortunio. La rendita infortunistica. L’azione ispettiva e repressiva ha certamente una componente di prevenzione, ma non la esaurisce e deve essere organizzata insieme ed accanto alla politica repressiva, sia perché il processo produttivo anticipa sempre l’adeguamento normativo, sia perché l’attività preventiva richiede un sapere specialistico, capace di interpretare e anticipare il rischio di ogni processo lavorativo. È necessario pensare la prevenzione secondo la sequenza, come indica la legge 626: ricerca-informazione-formazione-consulenza-assistenza. E può essere realizzata solo attraverso la costituzione di un Corpo di Preventori di grande competenza e di livelli organizzati di gestione e controllo sociale. B) Un aspetto istituzionale. Oggi le risorse sono scarse e disseminate in tante strutture: le responsabilità sono distribuite tra molti soggetti (Regioni, Ispels, Inail, Vigili del Fuoco, Ispettorati, Imss, Patronati). L’attività di ricerca vive una vita separata, ruoli e funzioni sono frequentemente sovrapposti e rinviano a coordinamenti che consumano più risorse di quelle che producono. Concentrare tutte le risorse e unificare le responsabilità, diventa questione dirimente. Già oggi, con la potenza di calcolo che le nuove tecnologie mettono a disposizione, il sistema informatico Inail è perfettamente in grado di definire una mappa nazionale del rischio, per settori, territori, tipologie infortunistiche, malattie professionali. Già oggi, mettendo insieme la potenza di calcolo del sistema informatico Inps\Inail si può avere a disposizione in tempi immediati la mappa sociale (lavoro, reddito, status) di ogni cittadino del Paese. C) Un aspetto organizzativo. Finora l’Assicurazione è stata la grande tecnologia che ha permesso il governo del rischio, cioè il costo, e quindi la sua indenizzabilità. Fino ad oggi, le grandi tecnologie pubbliche (Inps/ Inail) sono state le “stecche del corsetto” che hanno sorretto i due capitoli fondamentali del welfare lavoristico: pensione e rendita da infortunio o morte. La grande trasformazione del lavoro, alimentata da e interna al processo di mondializzazione, per i suoi costi umani, per la nostra idea di civiltà, e per i suoi costi economici (alcuni economisti americani valutano che il mal di lavoro valga due punti di Pil dell’economia Usa), porta sempre più a spostare l’accento dalle politiche di risarcimento alle politiche di prevenzione e riabilitazione. Dunque le leggi non sono la questione principale, lo è invece la riorganizzazione delle tecnostrutture e la loro unitarietà di missione. Germania docet. Se il mondo dell’individuo\lavoratore è sempre più incerto, per il lavoro diventato mobile, solo una grande Agenzia Nazionale, articolata per territori, governata dalle parti sociali-modello Cassa e Scuola Edile-può garantire una rete adeguata di sicurezza (il mondo postfordista è un mondo molto simile al mondo prefordista). Tale Agenzia, non solo si rifarebbe ad una grande esperienza sociale del movimento dei lavoratori, quello edile, ma verrebbe a collocarsi oggi in uno dei punti più delicati della condizione del lavoro, quello appunto del rapporto tra lavoro, salute e sicurezza. Il governo dell’Agenzia, dovrebbe essere espresso con voto, dall’insieme delle parti sociali e soggetto a verifica. Consiglio di Vigilanza e Consiglio di Amministrazione - oggi persino ridotto al semplice presidente) del governo degli enti previdenziali, va tagliato, ma nella direzione, per dirla con Robert Castel, della proprietà sociale. La proprieta del lavoro. Il cimitero dei disegni di legge dimenticati sui diritti civili di Giorgia Serughetti Il Domani, 6 agosto 2021 Non solo ddl Zan. Esiste forse un cimitero dei disegni di legge dimenticati, come in un romanzo di Carlos Ruiz Zafón, dove riposano i testi sui diritti civili, in attesa che qualcuno decida di salvarli dall’oblio. Il ddl Zan contro omotransfobia, misoginia e abilismo, che slitta nel calendario a settembre, andando a inserirsi nel vivo della campagna elettorale per il voto delle amministrative, si candida a diventare il nuovo inquilino di questo luogo immaginario. Ed è senz’altro da credere che chi negli ultimi mesi ha lavorato per far mancare i numeri al Senato, dopo l’approvazione del testo alla Camera, avesse precisamente l’obiettivo di condurlo su un binario morto, per ragioni di strategia politica. Nel frattempo, le vittorie olimpiche dell’Italia rianimano il dibattito sulla cittadinanza ai ragazzi e alle ragazze nate da genitori stranieri. Se il presidente del Coni, Giovanni Malagò, ha parlato della necessità di istituire lo “ius soli sportivo” per gli atleti neo-diciottenni, al fine di consentir loro di gareggiare, voci della politica e della società civile si sono levate a ricordare che la risposta dovrebbe essere universale, ovvero rivolta a un’intera generazione di minorenni che vivono e studiano in Italia, si sentono italiani, parlano i dialetti delle loro città. La discussione, tuttavia, rievoca le vicissitudini dei passati tentativi di riforma della legge sulla cittadinanza, a cui da almeno vent’anni si tentano di apportare correttivi per estendere il diritto di acquisirla a chi nasce e cresce sul nostro territorio. Nella passata legislatura, il ddl che introduceva lo ius culturae, legando la cittadinanza al completamento di un ciclo scolastico, ebbe il via libera della Camera e si arenò al Senato. Anche in quel caso, per calcolo elettorale. Il visitatore che si imbattesse nel cimitero dei ddl dimenticati troverebbe ognuno di essi incartato in discorsi sul tempismo inopportuno, sul carattere sensibile e divisivo dei temi in oggetto, sulle “ben altre” questioni sociali che vengono prima dei diritti civili. Soprattutto, però, ripercorrerebbe le storie di puro tatticismo, svuotato di idealità e principi, dietro al fallimento delle battaglie per la loro approvazione. Quella che va in scena, ad ogni rinvio della discussione, in ogni nuova impasse dell’iter parlamentare di provvedimenti che (almeno sulla carta) possono contare sulla maggioranza dei voti in entrambe le camere, è una politica ridotta ad agire strategico, priva di riferimenti valoriali, disposta a sacrificare le buone ragioni sull’altare dei giochi di potere. Non adesso, non così, si sente ripetere. Ma allora quando? E come? Non verrà mai un tempo in cui la politica italiana potrà dirsi distante dalla contesa elettorale, che è pressante e continua. Né verrà un tempo senza “ben altri” problemi a cui rispondere, specialmente nel contesto di una crisi sanitaria di cui non si vede la fine, e di una crisi economica che è solo all’inizio. Niente impedisce di tenere fermo l’impegno su grandi questioni di diritti, se non la meschinità dei calcoli politici e la mancanza di coraggio. Migranti. Il trentennio inglorioso di Carlo Colloca Left, 6 agosto 2021 Sono passati tre decenni dallo sbarco della Vlora ma una parte consistente della società italiana, e ancor più della politica, sembra ancora riluttante a voler prendere consapevolezza della profonda trasformazione in senso multietnico e multiculturale che viviamo da allora. Le migrazioni rappresentano una costante nella storia dell’umanità. Gli individui si muovono per una molteplicità di ragioni, individuali o strutturali, economiche, politiche, socio-culturali e climatiche. Questa mobilità può avvenire a vari livelli: si attraversano i confini verso altre città e regioni; mentre alcune popolazioni si spostano da una nazione all’altra, e una parte di queste varca diversi continenti. La migrazione assume forme specifiche, può essere volontaria o forzata, temporanea o permanente e ridisegna la morfologia socio-culturale, giuridica e spaziale di uno Stato. L’Italia queste dinamiche le vive da almeno trent’anni, da quel giovedì 8 agosto 1991, quando l’arrivo della nave Vlora, in viaggio da Durazzo a Bari, segnava l’inizio di una storia del Paese non soltanto come terra di emigrazione, ma anche di immigrazione. Si celebrano in questi giorni i trent’anni dallo sbarco di circa 20mila albanesi nel capoluogo pugliese, ma ancora una parte consistente della società italiana, e ancor più della politica italiana, sembra riluttante a voler prendere consapevolezza della profonda trasformazione in senso multietnico e multiculturale che viviamo da allora. Va detto, però, che mentre in Europa, ben prima del 1991, si facevano largo modelli di accoglienza e inclusione dei migranti ispirati all’assimilazionismo (in Francia), alla centralità della dimensione comunitaria (in Germania), al differenzialismo (in Gran Bretagna) o all’interculturalità (in Svezia), l’Italia - a distanza di trent’anni dagli eventi di Bari - ancora non ha elaborato un suo modello. La produzione legislativa non è certo mancata, anche se fino alla metà degli anni 80, la Repubblica italiana, contraddicendo le disposizioni dettate dall’articolo 10 della Costituzione, regolava l’afflusso di cittadini stranieri sul proprio territorio rifacendosi al Testo unico delle leggi di Pubblica sicurezza del 1931, integrandolo periodicamente con circolari ministeriali per colmare le lacune della normativa fascista. Sarà la legge 943/86 (Legge Foschi) il primo intervento normativo degno di rilievo in materia di flussi migratori, anche se non prevedeva elementi di programmazione, ma soprattutto conteneva una visione semplicistica del mercato del lavoro degli immigrati, accompagnata da una serie di meccanismi complessi. Negli anni a seguire con la legge 39/90 (Legge Martelli) si ebbe un primo tentativo di trattare in modo organico la questione, dando la sensazione che si potesse intravedere una politica italiana in tema di immigrazione. In realtà nasceva per rispondere a situazioni emergenziali e, forse, non è un caso che rappresenti, ancora oggi, la base della legislazione in materia. L’aver introdotto il Testo unico sull’immigrazione nel 1998, a seguito della legge 40198 (Legge Turco-Napolitano), è stato sicuramente un passaggio significativo, ma non determinante per offrire un modello italiano di accoglienza e inclusione, anche perché pesantemente riformata in senso restrittivo dalla legge 189/02 (Legge Bossi-Fini). Segue un ventennio segnato dall’avvicendarsi di “pacchetti sicurezza” (protagonisti soprattutto i ministri dell’Interno Maroni, Minniti e Salvini), di pratiche discriminatorie dei diritti umani nel farraginoso sistema dell’accoglienza fra Cpt, Cara, Cas e Cie-Cpr e di accordi con Paesi, quali la Libia, per contenere gli arrivi. Fanno eccezione rari casi di misure in materia di protezione internazionale e di scelte che andrebbero rafforzate per realizzare progetti sostenibili di accoglienza - quale l’ex Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), oggi Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), costituito dalla rete degli enti locali. Fra le eccezioni, anche il grande lavoro di certo volontariato che tanto si spende su questo fronte. Forse, a ben vedere, a trent’anni dall’attracco della nave Vlora al porto di Bari, l’Italia un modello di accoglienza e di inclusione l’ha elaborato ispirandosi alla cultura dell’emergenza e della sicurezza. Diversamente è difficile spiegarsi i tempi prolungati di permanenza nel sistema di accoglienza e l’insostenibilità dello stesso in termini di rispetto dei diritti umani e, altresì, come possa permanere nella condizione di cittadino a metà anche chi, immigrato, ma residente regolarmente in Italia (ad oggi sono 5.035.643 e rappresentano l’8,5% della popolazione residente), non gode dei diritti di elettorato attivo e passivo (soprattutto se extracomunitario), anche se incide sulla composizione dei collegi elettorali. Dunque vive da suddito in un Paese di cittadini, un po’ come accadeva alle donne in tempo di suffragio universale maschile. Ancor più dequalificante per una società democratica è la questione della cittadinanza con riferimento ai figli dei cittadini stranieri. Anche se nati in Italia e, quindi, non migranti, vigendo lo jus sanguinis sono discriminati per ragioni biologiche e poco importa se condividono stili di vita, dialetti e pratiche sociali dei coetanei autoctoni. Infine c’è il dramma di quanti sono ridotti in schiavitù per consentire che una parte consistente dell’economia agricola non vada in crisi! Il tempo trascorso da quel giovedì 8 agosto 1991 non sarà ricordato come un trentennio glorioso per l’Italia in tema di politiche migratorie e modelli di accoglienza e inclusione. Il timore è che, complice anche la pandemia da Covidl9, cresca un sentimento di estraneità per evitare/discriminare l’altro, soprattutto se immigrato, innescando conflittualità latenti o manifeste tra un “noi”, al quale la cittadinanza apparterrebbe per nascita, per storia, per tradizione, per sangue, per radicamento territoriale e un “loro”, i nuovi arrivati, che - stando a taluni - “non possono” e “non devono” rivendicare diritti. Turchia. “Io, giornalista curda, vi racconto l’orrore nelle celle di Erdogan” di Orlando Trinchi Il Dubbio, 6 agosto 2021 “Non capisco perché veniamo gettati in prigione. Ne usciamo ancora più forti”. Sembrerebbe in prima lettura un irriducibile controsenso, specialmente se la prigione in questione è il carcere turco di Diyarbakir, luogo di persecuzione e indicibile tormento per i curdi. Ma dal tormento nasce la resistenza, dalla reclusione i germi di un’indifferibile evasione. “Prigione n. 5” (Becco Giallo Editore) è il graphic novel - realizzato in modo significativamente rocambolesco - con cui l’attivista, artista (le sue opere sono esposte al Peace Forum di Basilea, al Drawning Center di New York, alla Tate Modern di Londra e al Museo di Santa Giulia di Brescia) e giornalista curda Zehra Dogan racconta i suoi anni da reclusa. Per invitare a non ignorare il grido di autonomia di un intero popolo. Dogan, per quale motivo è stata condannata dalle autorità turche? Fra il 2015 e il 2016, nel Sud- est della Turchia, il popolo curdo, che ha aspettato invano per anni che il governo turco ne riconoscesse l’autonomia, ha rivendicato zone di autogoverno e resistenza a Nusaybin e altre città curde. Io mi trovavo lì come giornalista, al fine di dare copertura a quegli eventi. Sono stata arrestata per aver raffigurato la distruzione di Nusaybin in un disegno e condannata a tre anni di carcere. Cosa ha significato per lei scrivere e disegnare questo graphic novel e in che modo è avvenuta la sua realizzazione? Poiché dentro il carcere era molto difficile disporre di materiale artistico, ho chiesto a una mia amica, Naz Öke, di inviarmi delle lettere che recassero uno spazio vuoto sul retro in modo da potervi disegnare. Da quando ero piccola, ho avuto modo di vedere film e foto sul carcere di Diyarbakir e leggere libri sull’argomento, ma viverci è un’esperienza del tutto diversa. Solo una volta dentro, ho potuto raccontare attraverso questo mio lavoro come in realtà si svolgesse la vita in quel carcere. Cosa rappresenta la Prigione n. 5? La Prigione n. 5 costituisce per i curdi quello che la prigione di Saigon rappresenta per i vietnamiti o le carceri guatemalteche per i sudamericani. Non a caso, negli anni Ottanta i carcerati curdi, per sentirsi pronti, leggevano libri sul carcere di Saigon, ma non si aspettavano certo che il governo turco potesse andare ben oltre in quanto a violenza ed efferatezze. Perciò, il carcere di Dyarbakir è diventato anche un luogo simbolico della resistenza curda. Cosa simboleggia il 14 luglio 1981 per la coscienza del popolo curdo? Il 14 luglio 1981 rappresenta l’inizio della resistenza del popolo curdo. In quel giorno, il governo turco ha scelto di costruire delle carceri come fossero scuole atte a rieducare e assimilare i rivoluzionari curdi attraverso torture e violenze di ogni sorta. Da tutto ciò, da questa situazione insostenibile, è scaturita la resistenza. Dal mese di luglio del 2016 è avvenuta una stretta sui diritti civili da parte del governo di Erdogan. Recentemente ha registrato un miglioramento al riguardo o la situazione è rimasta invariata? Prima del 2016, il governo di Erdogan seguiva una linea politica moderata. Dopo quell’anno ha cambiato completamente direzione, accentuando i suoi caratteri più marcatamente violenti, razzisti, sessisti e nazionalisti. La situazione, per gli oppositori, è progressivamente peggiorata e a tutt’oggi non si registrano miglioramenti. Anche i bambini non vengono risparmiati dalle prigioni turche? Quasi mille bambini stanno crescendo oggi in prigione e non hanno alcuna idea di cosa accada all’esterno. Non hanno accesso a un’educazione scolastica e attendono unicamente che arrivi il momento in cui i loro genitori usciranno dal carcere per poterli seguire. Il vero problema, tuttavia, riguarda i bambini che vivono fuori di prigione. In un sistema educativo islamista e sessista come quello turco, è molto difficile che il loro destino possa migliorare. Lei scrive: “Nei settori le donne erano più combattive degli uomini. Non hanno mai ceduto alle torture”. Cosa deve imparare il resto del mondo delle donne curde? Le donne curde non vivono in Paesi democratici ma si trovano in una zona geografica contesa. Nelle strette maglie di un contesto aspro e proibitivo cercano di costruire un sistema ecologico, femminista e basato sulla parità di genere, tentando di contrastare l’egemonia internazionale di Stati molto potenti. Non è un’impresa facile. Cosa chiede oggi il popolo turco? La richiesta del popolo turco è molto semplice: non chiede uno Stato, ma semplicemente di avere una propria autonomia, di poter decidere liberamente del proprio territorio e costruire un percorso ecologista, che rispetti la parità di genere. Non è vero - come divulga il governo turco - che esso porta avanti una campagna terroristica che mira alla divisione. In realtà, chi esercita davvero il terrore non è il popolo curdo quanto lo Stato turco, che divide, crea confini e genera terrorismo. L’Europa deve aver presente in maniera chiara una cosa: il popolo curdo non chiede uno Stato ma solo la propria autonomia. È questa la vera richiesta del popolo curdo. Il Messico porta in tribunale i produttori di armi americani “Responsabili dei massacri” di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 6 agosto 2021 La denuncia è stata depositata nella Corte federale di Boston ed è stato chiesto un risarcimento di 10 miliardi di dollari. Washington sorpresa. “La violenza in Messico è intimamente collegata alla vendita di armi negli Stati Uniti. I produttori americani facilitano attivamente il traffico di fucili e pistole che finiscono nelle mani dei narcos”. Così martedì 3 agosto il ministro degli Esteri messicano Marcelo Ebrard ha spiegato per quale motivo il suo governo abbia fatto causa a 10 costruttori di armi statunitensi. La denuncia è stata depositata nella Corte federale di Boston, nel Massachusetts, lo Stato in cui hanno sede diverse società citate. Nell’elenco figurano, tra le altre, il ramo statunitense dell’italiana Beretta, insieme con Colt’s Manufacturing Company, Glock, Sturm, Ruger & Co. Nelle carte si legge che ogni anno circa mezzo milione di armi viene trasportato illegalmente dagli Usa al Messico: 380 mila pezzi sono fabbricati dalle ditte portate in tribunale. Sarebbe questo flusso enorme di pistole, fucili, mitragliette ad alimentare l’ondata di stragi e sparatorie. Il numero di omicidi ha raggiunto livelli record: circa 17 mila all’anno. Non basta. Secondo il Messico la diffusione delle armi avrebbe causato “una contrazione dell’1,7% del prodotto interno lordo”. Da qui la richiesta, anche se non ancora ufficializzata dagli avvocati, di “un risarcimento” pari a circa 10 miliardi di dollari. I legali fanno riferimento a un precedente: la Remington Arms versò 33 milioni di dollari ai parenti delle 26 vittime, uccise nella scuola Sandy Hook (Connecticut, 2012). Ma il caso qui è completamente diverso. Lawrence Keane, vice presidente della National Shooting Sports Foundation, respinge le accuse: “Il governo messicano è responsabile della tumultuosa crescita del crimine e della corruzione nel Paese. I cartelli dei narcos gestiscono il contrabbando delle armi, oppure le rubano ai militari o ai poliziotti locali”. L’Amministrazione di Washington è stata colta di sorpresa. Nei mesi scorsi Joe Biden ha fatto pressione affinché il Senato approvasse i disegni di legge già varati dalla Camera. In particolare l’8 aprile scorso aveva insistito su un aspetto cruciale: l’abolizione dello scudo giuridico che impedisce ai fabbricanti di armi di essere citati per danni in una causa civile. I repubblicani, però, stanno bloccando tutto, spalleggiati dalla stessa influente lobby di costruttori che ora protesta per la denuncia messicana. Nello stesso tempo la Casa Bianca è in allarme per l’atteggiamento del presidente Andrés Manuel Lopez Obrador. Dopo aver vinto le elezioni, nel 2018, Lopez Obrador ha iniziato a smantellare “L’iniziativa Merida”, il piano sulla sicurezza concordato nel 2007 tra l’allora leader messicano Felibe Calderòn e George W.Bush. Proprio pochi giorni fa Lopez Obrador è stato lapidario: “L’Iniziativa Merida è morta”. Quel programma, aggiornato anche da Barack Obama, prevede quattro “pilastri” per contrastare lo strapotere dei narcos e “modernizzare” il confine. Ma, come nota Vanda Felbab Brown, esperta analista del Brookings Institute, “la generica legislazione sociale di Lopez Obrador ha lasciato mano libera ai cartelli”. Ora le cosche controllano centimetro per centimetro le città, specie quelle al confine con gli Usa, come Tijuana, Ciudad Juarez, Nuova Laredo, Matamoros. Non solo. Gli americani sono preoccupati perché sembra essersi fermata la bonifica delle istituzioni locali, della polizia, profondamente contaminate dalla corruzione.