Isolamento penitenziario, quando può diventare tortura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 agosto 2021 Antigone denuncia l’aumento in tutta Europa del ricorso all’isolamento penitenziario. L’associazione ha preparato una guida pratica per gli organismi impegnati nel monitoraggio degli istituti penitenziari. Celle del carcere non ammobiliate, con solo un letto privo di materasso, senza coperte, senza biancheria da letto, senza strutture igieniche, con un wc visibile dallo spioncino o tramite telecamere a circuito chiuso. Ci sono poi casi in cui i detenuti vengono isolati nudi, in violazione di ogni legge, o con biancheria intima di carta, monouso. Talvolta le celle sono prive di finestre e di riscaldamento. Gli spazi sono spesso inadeguati, stretti e poco illuminati. L’isolamento penitenziario può determinare danni fisici e psichici - Parliamo dell’isolamento penitenziario che può determinare danni fisici e psichici enormi. L’associazione Antigone denuncia che si tratta di un fenomeno preoccupante e negli ultimi anni il ricorso all’isolamento penitenziario è cresciuto in tutta Europa. Non a caso gli organismi nazionali e internazionali impegnati nella tutela dei diritti umani nei luoghi di privazione della libertà (tra cui il Comitato per la prevenzione della tortura, noto come Cpt) pongono il tema in cima alle loro priorità. Antigone ha realizzato un manuale sull’argomento - Da tempo Antigone si impegna per fare in modo che l’isolamento sia residuale e che risponda, sempre, a dei requisiti che salvaguardino la dignità della persona. Ora l’associazione ha realizzato anche un manuale al cui interno si trovano una panoramica generale del fenomeno nel quadro europeo, una raccolta di norme e standard internazionali sul tema, e infine una guida pratica rivolta agli organismi impegnati nel monitoraggio degli istituti penitenziari. Un manuale composto da quattro capitoli. Nel primo si elencano e analizzano brevemente i vari tipi di isolamento a cui ricorrono i sistemi penitenziari dell’Ue. Infatti, non esiste solo l’isolamento come misura disciplinare, ma anche - solo per fare un esempio - come misura di protezione se pensiamo ai detenuti per il loro orientamento sessuale o la loro identità di genere, o in alcuni casi perché soffrono di disturbi comportamentali che rendono difficile la convivenza con il resto della popolazione detenuta. Una guida pratica per il monitoraggio dell’isolamento penitenziario - Il terzo capitolo del manuale elaborato da Antigone contiene una guida pratica per il monitoraggio dell’isolamento penitenziario, che si rivolge ai Meccanismi nazionali di prevenzione della tortura (Npm). Si tratta di un ruolo - se pensiamo in Italia - ricoperto dal garante nazionale delle persone private della libertà. La guida presta particolare attenzione al momento della visita in carcere, ma si sofferma anche su ciò che la precede e la segue. Si articola in tre parti (preparazione della visita, realizzazione della visita, follow-up). Al suo interno, come anche negli altri capitoli, vi è una suddivisione in paragrafi corrispondenti ai temi più rilevanti (studio dei registri, ruolo dei medici, colloqui, condizioni materiali, ecc.). I colloqui con i detenuti sono fondamentali - Fondamentale il colloquio con i detenuti. Da loro è possibile ricavare informazioni sulle condizioni materiali dell’isolamento, sulle informazioni di cui dispone chi è isolato (ad esempio rispetto alla durata del proprio isolamento), sui suoi rapporti con il personale, sui contatti con i familiari e con il difensore, sulle modalità con cui vengono effettuate le visite mediche, sul funzionamento concreto dei meccanismi di ricorso, sulla possibilità concreta, per chi subisce provvedimenti disciplinari, di difendersi in commissione, sull’eventuale presenza di abusi o maltrattamenti, sull’evoluzione della salute mentale e fisica delle persone isolate. Le condizioni dei materiali dell’isolamento sono spesso molto degradate - Un’ulteriore e frequente criticità su cui ci si sofferma riguarda le condizioni dei materiali dell’isolamento, spesso molto degradate. In particolare si pone l’accento sulla frequenza e la durata dell’accesso all’aria aperta (che dovrebbe essere di almeno un’ora al giorno), sulla presenza di uno spazio esterno, di un tavolo in cella, di una sedia, di un letto, di un bagno, di luce e aria sufficienti; ma anche sulle dimensioni della cella, sulla possibilità di chiamare un membro del personale dall’interno della cella, sull’accesso a libri e giornali, sulla presenza di condizioni alimentari e igieniche non diverse da quelli del resto della popolazione detenuta. Per questo Antigone sottolinea l’importanza del ruolo del personale medico. Potenziare l’esecuzione penale mantenendo centrale l’analisi dei bisogni e l’intervento socio-pedagogico di Anna Rita Silvestri* Ristretti Orizzonti, 5 agosto 2021 Se il carcere non è solo un luogo di custodia e di separazione - temporanea o a vita - dalla società libera, allora ci vuole un deciso investimento nelle culture e nell’etica della risocializzazione, per il recupero alla vita sociale di persone che hanno percorsi di vita deviante, più o meno strutturati. Anzi, quelli meno strutturati in carcere non dovrebbero proprio entrare anche se, spesso, per l’assenza nei territori di una rete di prevenzione, che si dica tale, i servizi socio-psico-pedagogici-sanitari in carcere diventano la prima se non l’unica presa in carico dei bisogni e delle problematiche personali e sociali degli autori di reato. Certo, resta e va mantenuta la valutazione del rischio di reiterazione dei reati e degli altri requisiti alla base delle misure cautelari, applicate nell’immediatezza dell’arresto, così come per la scelta di misure alternative alla detenzione sia essa operata dalla magistratura di sorveglianza o da quella giudicante, come previsto dalla riforma giudiziaria in corso. Il fatto è che dovrebbe avvenire come nel codice del processo penale minorile (D.P.R. 448/88) dove la presa in carico socio-psico-pedagogica-sanitaria dell’autore di reato avviene già in fase istruttoria e non solo nella fase finale dell’esecuzione penale. Il tutto si infrange, però, sul principio costituzionale di non colpevolezza che orienta anche l’ordinamento penitenziario, lì dove prevede che la presa in carico individualizzata sia riservata solo alle persone condannate e internate. Il principio di non colpevolezza è attenuato nel settore di intervento minorile dove i servizi sociali del Ministero della Giustizia, composti sia da assistenti sociali sia, in misura davvero minima attualmente, da funzionari pedagogici, che operando in sinergia con i servizi e le strutture socio-sanitarie territoriali vengono investiti dalla magistratura giudicante di un mandato per l’analisi dei bisogni del reo e per un’eventuale mediazione penale sin dal rinvio a giudizio o, persino, a partire dalla notizia di reato. Certo, la flagranza di reato o chiari indizi di colpevolezza potrebbero far attivare anche per gli adulti il supporto e l’affiancamento socio-psico-pedagogico-sanitario, che sempre e solo a partire dall’adesione volontaria della persona destinataria può essere avviato e realizzato. Tutto questo richiede un investimento epocale per l’Italia in numero e qualità di figure professionali finora mantenute veramente residuali nel sistema dell’esecuzione penale sia dei minorenni che degli adulti. Siamo pronti a tutto questo? In queste ultime settimane, sulla scia dei gravi fatti penitenziari emersi alle cronache nazionali e internazionali, si è riacceso un dibattito che speriamo duri a lungo. C’è il rischio, paradossalmente, che a forza di assicurare solo la difesa dei diritti delle persone detenute il carcere diventi campo esclusivamente di controllo e sicurezza ancora nei termini solo “polizieschi”, meramente esecutivi e agiti su divieti, e non nei termini di una relazione pedagogica fondata. Insieme ad un bel gruppo di colleghe e colleghi, funzionari pedagogici, stiamo lavorando da novembre 2020 per dare centralità alle Aree Educative Penitenziarie. Troviamo che questo sia essenziale perché rientra in pieno con la prospettiva di estendere l’esecuzione penale prevalentemente all’esterno del carcere come introdotto dalla riforma giudiziaria in votazione alle Camere, lì dove prevede una diversificazione delle pene con una riduzione della carcerazione attraverso misure alternative già disposte in sentenza. Finché il settore socio-pedagogico penitenziario non accresce la sua autorevolezza e la sua consistenza, non potrà mai lavorare sull’esterno come fanno gli uffici di esecuzione penale esterna; per la predisposizione dei progetti di intervento educativo individualizzato resterebbe, come oggi, solo la delega ai servizi sociali del territorio, messi malissimo anche loro, e al servizio sociale penale. È non più rinviabile la scelta verso un settore ben riconoscibile e professionalmente autonomo che gestisca le aree educative e di servizio sociale dell’esecuzione penale, sia essa interna o esterna, per adulti giovani-adulti e minorenni, che con i suoi interventi individualizzati rappresenta la risorsa imprescindibile, e oggi gravemente carente, nel sistema di un’esecuzione penale realmente in linea con l’art.27 della nostra Costituzione. Figuriamoci, poi, per tuffarci finalmente nella cultura della giustizia riparativa, che ci vede tra i paesi più in ritardo in Europa. Dentro le carceri, inoltre, la programmazione e organizzazione delle attività pedagogiche di comunità, la progettazione degli spazi detentivi e la regolamentazione interna dovrebbero costantemente avvalersi della visione pedagogica, per mantenere coerenza tra contenuti, contenitore e risorse da assegnare. Tutto questo è venuto meno progressivamente e sistematicamente negli ultimi trenta anni, lasciando crescere nell’amministrazione dell’esecuzione penale le carenze e le contraddizioni culturali, operative e strutturali che oggi sono sotto gli occhi di tutti. *Coordinamento Nazionale Aree Educative Penitenziarie Giustizia, bisogna crederci di Armando Spataro La Repubblica, 5 agosto 2021 La Camera ha finalmente approvato il disegno di legge sulla riforma della giustizia penale e l’ultima parola spetta ora al Senato. Il Dl contiene per una parte una serie di deleghe al governo e, per l’altra, norme immediatamente precettive che intervengono sia sul codice penale che su quello di procedura. Sembra dunque che il governo abbia superato l’impasse determinata da dure critiche provenienti sia da partiti che lo sostengono che da parte del mondo dei giuristi, in particolare da alcuni magistrati, ma anche dall’Anm ed in parte dal Csm. Si può sperare che le ragioni di scontro siano venute meno e che, dalla logica delle “bandierine” (con auto-attribuzione di meriti politici ed accuse di ambiguità agli altri), sia ora possibile passare a quella della bandiera unica, sventolandola in nome della credibilità della giustizia? Questa è una speranza, ma non ancora una certezza. Come è noto, i colpi di mortaio ad “alzo zero” contro il progetto di riforma hanno riguardato, in particolare, le previsioni in tema di prescrizione dei reati ed improcedibilità dei dibattimenti dinanzi alla Corte d’Appello e alla Corte di Cassazione, una volta decorsi i termini per quelle fasi previsti, il che - a dire dei critici - avrebbe reso impossibile concludere la gran parte dei procedimenti per mafia, terrorismo e per altri reati complessi, lasciando impuniti numerosi criminali e comunque favorendo pratiche dilatorie di difesa “dal” processo. È bene, allora, ripetere qualche contro-argomento, poiché, al di là di polemiche offensive, sono stati diffusi timori in gran parte insussistenti o enfatizzati. I rischi certamente esistono ma, al di là delle possibili e già previste proroghe dei termini, i dibattimenti per questi ed altri reati sono notoriamente lunghi e complessi soprattutto in primo grado e non certo in grado di appello, fase per cui potranno operare cause di sospensione dei termini per assunzione di nuove prove e per le ragioni già oggi previste per la prescrizione. Toccherà ai giudici respingere eventuali tentativi dilatori, ma non è per caso che oltre i due terzi di tutte le Corti d’Appello italiane già rispettano i tempi previsti dalla riforma, e ciò a prescindere sia dalla normativa transitoria che permetterà di testare la situazione all’atto dell’entrata in vigore della riforma, sia dalle numerose misure che essa pure prevede per alleggerire i carichi di lavoro di tutti gli uffici giudiziari: assunzione a breve di magistrati e di oltre ventimila nuovi appartenenti al personale amministrativo, creazione dell’ufficio per il processo, ampliamento delle ipotesi di riti alternativi, delle ipotesi di inappellabilità delle sentenze e di cause di non punibilità per particolare tenuità del fatto, nonché digitalizzazione del processo penale ed altre ancora. Certo occorreranno da parte dei dirigenti degli uffici capacità organizzative, ma per loro è già previsto il dovere di selezione delle priorità nella trattazione dibattimentale dei processi, che certamente - questo va detto - non è delegabile al Parlamento: è gravemente sbagliato, dunque, parlare di una riforma che nasce per favorire ladri, corrotti e criminali, così come è inaccettabile auspicare l’abolizione del grado d’appello o affermare che solo il blocco della prescrizione, come originariamente previsto dalla legge n. 3/2019, garantirebbe il giusto processo. Non è affatto così, poiché proprio tale blocco, sia pure dopo la sentenza di primo grado, determinerebbe un imprevedibile allungamento dei tempi dei processi nei gradi successivi, con compromissione dei diritti di tutti i cittadini che a qualsiasi titolo - imputati e parti offese - ne siano protagonisti. E stupisce che alcuni commentatori dimentichino che la ragionevole durata dei processi non è un principio astratto, ma un diritto il cui rispetto è imposto dalla nostra Costituzione (art.111), dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (art.6), dalla legge Pinto e dalle numerose condanne dell’Italia (prima nella relativa “classifica”) ad opera della Corte Edu di Strasburgo per la violazione di tale diritto. Si dice poi che la riforma determinerebbe lesioni dei diritti delle parti offese dei reati dichiarati improcedibili, ma anche questo è un errore poiché il giudice penale che la dichiara, nel caso di imputato già condannato al risarcimento dei danni, trasmetterà gli atti al giudice civile per la decisione che terrà conto delle prove acquisite nel corso del processo penale. Sono numerose e complesse le positive proposte di modifiche al sistema di giustizia penale che la riforma prevede e che qui non è possibile illustrare, ma ve n’è una - in particolare - che sembra trascurata dai commentatori e che è invece molto importante. Ci si vuol riferire alla delega al governo per introdurre un mezzo di impugnazione straordinario davanti alla Corte di Cassazione al fine di dare esecuzione alla sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo, proponibile dal soggetto che abbia presentato il ricorso. Si tratta di una previsione già presente nel testo della Commissione Lattanzi, ispirata dal fine doveroso di riempire un vuoto normativo: è la Convenzione Edu che impone ai Paesi che l’hanno sottoscritta di dare esecuzione alle sentenze della Corte, tanto che già la nostra Consulta ha affermato che i giudici italiani devono rispettare la giurisprudenza di Strasburgo nel caso essa sia “consolidata”, indicando anche i parametri che consentono tale giudizio. Certamente non sarà facile scrivere la norma, che se fosse già esistita in un passato recente, avrebbe consentito di porre rimedio ad inaccettabili scelte in tema di contrasto dell’immigrazione irregolare, uso del segreto di Stato ed altro ancora. Ma questa ed altre difficoltà potranno ben essere superate, come ha ricordato ed ha già dimostrato la ministra Cartabia, attraverso una leale interlocuzione in sede di attuazione della delega tra il governo, il mondo accademico, l’avvocatura e la magistratura. È arrivata l’ora di realizzare insieme ciò che serve alla giustizia, ma non di elevare muri, che saranno invece utili contro le distruttive proposte referendarie su cui si deve tornare a discutere e ad informare. Giustizia, per ridurre i tempi dei processi non basta il voto del Parlamento di Giuseppe Pignatone La Stampa, 5 agosto 2021 Il governo dovrà realizzare gli investimenti su cui poggia la speranza di una macchina giudiziaria più efficiente. Ma ogni singolo magistrato dovrà maturare una rinnovata coscienza del proprio ruolo e delle proprie responsabilità. L’editoriale del direttore Massimo Giannini pubblicato domenica 1 agosto (“La giustizia che interessa gli italiani”) induce ad alcune considerazioni su quella che viene ormai comunemente definita “riforma della Giustizia”. 1) Non si tratta né si è mai trattato di una riforma organica, nemmeno del solo processo penale, giacché, per citare qualche esempio, non interviene su aspetti essenziali come le intercettazioni, le misure cautelari, il dibattimento di primo grado. Già nell’originaria stesura del precedente Guardasigilli, infatti, il disegno di legge faceva riferimento solo all’efficienza del processo e a “disposizioni per la celere definizione dei processi di appello”. E questo, anche dopo le modifiche apportate dalla ministra Cartabia, è rimasto l’oggetto fondamentale, con l’aggiunta delle controverse norme in materia di improcedibilità e di quelle, pure significative, in tema di giustizia riparativa. 2) Non è arbitrario ritenere che l’attuale Guardasigilli avrebbe sicuramente preferito utilizzare appieno i risultati del lavoro svolto dalla commissione Lattanzi, da lei stessa voluta e nominata. Ma già nella prima fase del dibattito interno alla maggioranza alcune tra le proposte più interessanti come l’archiviazione meritata, l’ampliamento dei riti alternativi, una prima limitazione dell’appello, non sono entrate nel testo definitivo, con una significativa perdita di efficacia deflattiva del provvedimento. Ciò è avvenuto su richiesta di alcuni partiti e gruppi di pressione (è nota, a esempio, l’opposizione degli avvocati a qualsiasi riduzione dell’appello) a riprova che le scelte in materia di giustizia non sono mai meramente tecniche, ma esprimono opzioni politiche importanti, espressione di contrapposte visioni ideali della società, oltre che di interessi molto precisi. 3) L’Associazione nazionale magistrati, credo anche per la crisi profonda che sta attraversando, è intervenuta solo nell’ultimissima fase della discussione. Ma così facendo non si è opposta all’abbandono di alcune delle proposte della Commissione Lattanzi e ha invece lasciato spazio a interventi, anche molto radicali, di singoli magistrati e a quelli di alcuni Presidenti di Corte d’appello preoccupati dell’impatto delle nuove regole sui loro uffici. 4) La modifica normativa ha raggiunto uno dei suoi principali obiettivi, quello di far venir meno la possibilità di processi senza alcun termine finale, e, con la soluzione di compromesso adottata, sarà evitato il rischio che decine di migliaia di processi possano “andare in fumo” dopo la sentenza di primo grado. Anche se va detto che questi allarmi non sono stati supportati, come purtroppo avviene quasi sempre nel mondo della giustizia, da seri dati statistici. In ogni modo la scelta dell’improcedibilità invece della prescrizione per le fasi successive al primo grado si è rivelata infelice e il termine improcedibilità si è immediatamente caricato nel dibattito pubblico, com’era inevitabile, di tutti i significati negativi del termine prescrizione. Ma soprattutto questo nuovo istituto, estraneo alla nostra cultura giuridica e agli equilibri complessivi dell’ordinamento, rischia nei prossimi anni di dare luogo, come hanno evidenziato molti studiosi, a gravi dubbi di illegittimità costituzionale e di contrasto con la giurisprudenza europea. Ciò detto, mi sembra evidente che la partita per ridurre i tempi dei processi sia ancora tutta da giocare. Ed è una partita che interessa noi cittadini, al di là o ben prima delle indicazioni dell’Europa. A questo punto, il ruolo principale spetta al Governo, chiamato a scrivere i decreti delegati sulla base dei principi fissati dal Parlamento (opera non semplice né indolore) e soprattutto a realizzare quegli investimenti su cui poggia la speranza di una maggiore efficienza della macchina giudiziaria, con l’assunzione di magistrati e personale amministrativo, i piani di edilizia giudiziaria e la necessaria accelerazione in campo informatico. Altrettanto importanti sono, tuttavia, gli altri attori del processo, soprattutto magistrati e avvocati, che non sono spettatori di una partita che non li riguarda, anzi ne devono essere protagonisti, sia valorizzando le nuove possibilità offerte dalla legge sia utilizzando nel modo migliore - specie i magistrati e i loro collaboratori - le risorse che saranno presto a disposizione. Compito, questo, che spetta ai capi degli Uffici, tenuti ad adottare rapidamente ogni misura organizzativa utile a moltiplicare l’effetto positivo delle inedite disponibilità economiche. Ma a questo dovere è chiamato ogni singolo magistrato nella consapevolezza di essere parte, ferma restando l’indipendenza nelle decisioni processuali, di una organizzazione complessa finalizzata a rendere un servizio efficiente, come previsto dalla legge e prima ancora dalla Costituzione. Si tratta di un punto decisivo per riacquistare almeno in parte la credibilità perduta, come sottolinea il direttore Giannini, in questi anni di scandali e di etica smarrita. Un terreno nel quale mi auguro che Anm, Csm e Scuola superiore della magistratura assumano l’iniziativa per far maturare nella categoria una rinnovata coscienza del proprio ruolo e delle proprie responsabilità nel servizio da rendere ai cittadini. Un’ultima considerazione: il testo finale della “riforma” Cartabia prevede la fine della possibilità di una durata illimitata dei processi, il potenziamento di alcune misure deflattive, i nuovi criteri per l’archiviazione e il rinvio a giudizio, l’indicazione delle modalità di espiazione della pena da parte del giudice del dibattimento senza attendere il magistrato di sorveglianza e la delega, tutta da scrivere, per una giustizia riparativa e per la tutela delle vittime. Sono segnali importanti di inversione della tendenza dominante che da decenni vede nel diritto penale la soluzione di ogni problema e nel carcere l’unica pena possibile. È responsabilità del legislatore delegato e di tutti gli operatori non fare cadere nel nulla questi segnali, ma raccoglierli e dare loro concretezza nella prassi di ogni giorno. Giustizia, una riforma pensata per rispettare tempi e persone di Gian Luigi Gatta* Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2021 C’è chi ha parlato di certezza di “impunità”; c’è chi ha parlato di “tagliola”. Toni allarmistici e immagini efficaci, nella comunicazione mediatica, che sono però quanto di più lontano ed estraneo alla filosofia e agli obiettivi della riforma della giustizia proposta dalla ministra Cartabia, approvata all’unanimità dal Consiglio dei Ministri e ora, a larga maggioranza, dalla Camera. Stabilire tempi massimi di durata dei giudizi penali di appello e di cassazione, a pena di improcedibilità, persegue due fondamentali obiettivi. Il primo è di assicurare il diritto alla ragionevole durata del processo: la riforma Bonafede del 2019, bloccando la prescrizione del reato dopo il primo grado, ha posto il problema della possibile durata a tempo indeterminato dei processi in appello e in Cassazione. Di qui l’esigenza di introdurre un correttivo - chiesto all’unisono dall’avvocatura, dall’accademia e dalla politica -, che è stato individuato nella improcedibilità per superamento di termini massimi di durata. Si tratta di un rimedio che garantisce ad assolti e condannati in primo grado di non restare imputati a tempo indefinito. Si assicura e si riafferma così un diritto garantito dalla Costituzione e dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo: che i giudizi di impugnazione abbiano una durata ragionevole, individuata sin dal 2001 dalla legge Pinto proprio nei termini oggi proposti, a regime, come tetto per l’improcedibilità (due anni per l’appello, un anno per la cassazione). Il secondo obiettivo, in linea con gli impegni assunti con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e con l’Ue, è di contribuire a ridurre del 25% i tempi del processo penale nei prossimi cinque anni. Ebbene, la riforma incide chirurgicamente sulla fase più lenta del processo penale. L’appello dura in media 835 giorni: otto volte la media europea, più del doppio rispetto al giudizio di primo grado, cinque volte tanto il giudizio davanti alla Cassazione. È un collo di bottiglia nel quale si arenano procedimenti in stato avanzato. Il 25% delle prescrizioni (circa 3omila) si verifica in appello. E sono prescrizioni pesanti, perché riguardano processi ampiamente istruiti e già definiti in primo grado. Non a caso tutte le ultime riforme della prescrizione si sono concentrate sull’appello. La legge Bonafede ha reso imprescrittibili i reati in appello, creando però il problema della possibile irragionevole durata di quel grado di giudizio, che è già il più lento. Prima ancora, la legge Orlando, mirando a evitare la prescrizione, aveva dato ai giudici d’appello 18 mesi in più per decidere, prevedendo una sospensione automatica della prescrizione, estesa per altrettanto tempo al giudizio di cassazione; senonché quella riforma finiva per allungare ulteriormente i tempi del giudizio, secondo un modello di disciplina oggi incompatibile con il mutato contesto, che vincola il Paese sul piano internazionale a una riduzione dei tempi del processo penale. Nel nuovo contesto, la proposta del governo, ora approvata dalla Camera, è lineare: si stabilisce un limite massimo di durata dei giudizi di impugnazione, contribuendo così, unitamente ad altre misure, a raggiungere l’obiettivo indicato nel Pnrr. È tutt’altro che una proposta temeraria. Il disegno di riforma sottende una visione del processo efficiente, in linea con i migliori standard europei, che coniuga le garanzie per gli imputati con l’effettività e la tempestività della risposta della giustizia, anche nell’interesse delle vittime. Si prefigura una Giustizia con la clessidra in mano, che rispetta i tempi e le persone coinvolte nel processo. Chi paventa il rischio di migliaia di processi in fumo sottostima la capacità del sistema giudiziario, adeguatamente supportato, di riuscire nel breve-medio termine a ridurre i tempi di celebrazione dei giudizi di impugnazione. L’Europa ci chiede di ridurli del 25% in cinque anni. Come ha detto il presidente Draghi, “nessuno vuole sacche di impunità”, ma processi rapidi; ed è certo, come ha detto la ministra Cartabia, che mantenere “lo status quo non è un’opzione sul tavolo”. Riformare significa avere una visione e progettare un futuro diverso. Significa individuare e cambiare le cose che non vanno, attraverso interventi normativi e nuove misure organizzative. Significa replicare ciò che funziona, studiando e diffondendo buone prassi organizzative di singoli uffici e rendendole standard uniformi sul territorio nazionale, per evitare quel che oggi accade, per lo più nel silenzio: la durata dei processi - e con essa i tassi di prescrizione - varia a macchia di leopardo da distretto a distretto. La Giustizia, con la G maiuscola, impone la condivisione dell’efficienza, per garantire i diritti degli imputati, per il più efficace contrasto della criminalità, per la migliore difesa della società e delle vittime. Non ultimo, per raggiungere gli obiettivi del Pnrr. Il contributo della magistratura, anche in questa sfida, è essenziale. Gli obiettivi sono sì ambiziosi, ma non impossibili da raggiungere e non giustificano scenari allarmistici. Parlano i dati del 2019, gli ultimi non influenzati dalla pandemia. In Corte di cassazione i procedimenti penali ultra-annuali sono per cento. La durata media del processo, dall’iscrizione in cancelleria all’udienza, è di poco più di 5 mesi: ben inferiore dunque alla soglia di improcedibilità del disegno di legge governativo. Nei procedimenti relativi a misure cautelari personali la durata media è addirittura di soli due mesi: i processi con imputati detenuti, compresi quelli per reati di criminalità organizzata, viaggiano già oggi su un binario ad alta velocità, imposto dall’esigenza di non far scadere i termini massimi di durata delle misure cautelari. La Cassazione penale è veloce e smaltisce l’arretrato: non lo genera. Da anni definisce più procedimenti di quanti ne incamera. Determinante, oltre al lavoro dei magistrati (ciascuno in media scrive come relatore 400 provvedimenti all’anno), è il filtro della inammissibilità dei ricorsi, che riguarda quasi il 70% dei procedimenti. In Cassazione si prescrive solo l’1,7% dei procedimenti (un dato fisiologico e non patologico). Morale: se e quando la giustizia è rapida i reati non si prescrivono, oggi, e i procedimenti non saranno dichiarati improcedibili, domani. Il modello virtuoso della Cassazione penale lo testimonia, e deve essere preservato e replicato. In tal direzione vanno alcune proposte contenute nel disegno di legge governativo approvato dalla Camera. Più complessa è la situazione dell’appello, che si celebra davanti a 26 corti e 3 sezioni distaccate. I procedimenti ultra-biennali in appello sono il 44 per cento. Il dato è però fortemente disomogeneo a livello locale. Più del 50% dei procedimenti ultra-biennali si concentra in due sole corti: Roma e Napoli, sulle quali grava il 40% dei procedimenti penali d’appello pendenti sul territorio nazionale. In quelle sedi l’arretrato è ingente, quello ultra-biennale rappresenta il 60% e i tempi medi del processo sono non a caso lunghi: oltre 3 anni a Roma, oltre 5 anni a Napoli; con tassi di prescrizione, rispettivamente, del 48% e del 30 per cento. È evidente che su distretti come questi occorrono interventi straordinari per smaltire l’arretrato, alcuni dei quali già messi in campo dal governo con l’ufficio per il processo. Esistono però anche realtà come Milano e Palermo, dove la durata media dell’appello è, rispettivamente, di n mesi e di un anno e 3 mesi. I tassi di prescrizione sono del 4,4% a Milano e del 7,5% a Palermo; i procedimenti ultra-biennali rappresentano il 3% a Milano 1’8% a Palermo. Altre sono le corti nelle quali le pendenze ultra-biennali rappresentano meno del 10% dei procedimenti (in molti casi non arrivano all’1%), a dimostrazione di come sia possibile, oltre che doveroso, contenere l’appello entro termini di ragionevole durata. Perché allora non immaginare di migliorare le performance di tutte le corti? È esattamente ciò a cui mira la riforma. La prospettiva dell’improcedibilità per superamento del termine massimo di durata del giudizio attiva pratiche organizzative virtuose. È un esito da evitare, la cui presenza all’orizzonte condiziona e regola i tempi della giustizia, costituendo al contempo un impulso per la macchina giudiziaria e una garanzia per l’imputato. La riforma sarà monitorata nella sua attuazione e accompagnata da investimenti e misure organizzative che mireranno, tra l’altro, a eliminare i tempi morti dei procedimenti penali, come quelli per la trasmissione del fascicolo dal tribunale alla corte d’appello. A volte si tratta addirittura di sei mesi o di uno a due anni. Che un fascicolo impieghi mesi o anni per transitare da una cancelleria all’altra dello stesso Palazzo di Giustizia, o da sedi che si trovano nella stessa regione, è inaccettabile. È uno dei dati emersi nel viaggio nei distretti italiani che sta compiendo la ministra Cartabia. Anche per questo la digitalizzazione del processo penale, prevista tra le misure del governo, non è più rinviabile. *Ordinario di Diritto penale, Università degli Studi di Milano, Consigliere della Ministra della Giustizia Ddl penale, la prima riforma dal Parlamento senza il consenso di Anm e Csm di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 5 agosto 2021 Sono testimone dei tentativi fatti in Parlamento dagli anni 70 in poi per fare una qualche riforma della giustizia o per adeguare alcune norme dei codici alle nuove realtà che in questi anni sono maturate. Quasi tutti i tentativi sono andati a vuoto perché la magistratura che in quegli anni si è imposta come potere lo ha impedito. La prevalenza del potere giudiziario ha avvilito la politica e ha reso inerte il potere legislativo fino a “costringerlo” a modificare l’art. 68 della Costituzione che prevedeva guarentigie adeguate per il Parlamento e per i parlamentari, i quali furono assaliti da un “complesso di colpa” irrazionale. Il Parlamento in quella occasione ha rinunziato alla sua indipendenza e alla sua sovranità ed è appena il caso di ripetere che il Parlamento votò a stragrande maggioranza escluso 5 deputati tra cui il sottoscritto! Negli anni successivi la maggioranza formata dalla Lega e dal Movimento 5stelle ha peggiorato a tal punto la situazione da approvare norme non degne di uno stato di diritto, come la eliminazione della prescrizione per creare la figura dell’imputato a vita: una sorta di punizione reclamata da una società non più solidale ma rancorosa e ostile. La cosa strana è che i leghisti che hanno consentito l’approvazione di quelle norme punitive mostrano di essere pentiti soltanto per l’opposizione che ora fanno ai 5Stelle. Questi ultimi, capeggiati da un professore che dovrebbe conoscere l’evoluzione del diritto nell’epoca moderna e dovrebbe pur essere a conoscenza non della procedura penale ma di un po’ di filosofia del diritto leggendo Kelsen o Benedetto Croce, si vantano di aver difeso fino all’ultimo la “prescrizione eterna” insieme a magistrati che la difendono per rendere più consistente il loro potere. Non si spiega diversamente la circostanza che un magistrato di alto livello come il procuratore nazionale antimafia stimato da tanti è stato costretto a dire che la riforma del governo Draghi “mette in pericolo la sicurezza nazionale”; e che l’ex magistrato Giancarlo Caselli abbia detto che la scelta di Bonafede era di “buon senso” e non un “mostrum” perché basata sul presupposto che “dopo la sentenza di primo grado non era possibile che i palazzi di giustizia cessassero del tutto di funzionare” e quindi la “prescrizione eterna” non avrebbe impedito le pronte sentenze di secondo di terzo grado”. Oggi Caselli dice che il termine di 2 o 3 anni dopo il primo grado “porta tutto in fumo” perché i palazzi di giustizia non funzionano più! Ognuno può fare le sue valutazioni. Orbene al di là della valutazione sulle singole norme, alcune molto innovative, per le quali ci sarà tempo per fare commenti adeguati, altre più discutibili, sta di fatto che per la prima volta è stata votata dal Parlamento per iniziativa del governo una riforma senza il consenso dell’Anm e del Csm. Un governo che non risponde a nessuna “formula politica” come stabilito dal Presidente della Repubblica impone il primato della politica e del legislativo in presenza di partiti e movimenti timidi e impacciati e con un Pd il quale aveva votato la “riforma” del ministro Bonafede, dimenticando di essere… “democratico”. Non vi è dunque solo discontinuità con il governo precedente ma anche con i governi dagli anni 90 in poi sempre succubi delle pretese della magistratura politicizzata. Se però ci attardiamo solo per un attimo sul merito delle norme è necessario, e doveroso precisare che le modifiche pretese soprattutto dai 5Stelle sono fasulle e sono servite per dare l’illusione a Conte e a Salvini di avere “costretto” il governo a “mettere in sicurezza il Paese” consentendo l’allungamento dei termini per i reati di mafia. Come si può immaginare che i 5Stelle vogliano combattere la mafia e il governo no?; quale cittadino in buona fede può credere a queste infantile è stupida propaganda? A questo punto mi piace citare direttamente un valoroso penalista come l’avvocato Gaetano Pecorella, il quale ha spiegato che: “la durata della prescrizione, per i reati di mafia, è secondo la regola generale, pari al massimo della pena edittale stabilita dalla legge, e quindi, per i procuratori, i dirigenti e gli organizzatori, è di anni 18. Altra regola generale che è una serie di atti processuali (interrogatorio misure cautelari, sentenze, ecc.) interrompono la prescrizione, che ricomincia a decorrere dal giorno dell’interruzione: sennonché l’aumento non può essere superiore di un quarto del tempo necessario a prescrivere. Parrebbe, perciò, che i reati di mafia si prescrivono in 22 anni e mezzo (il che, per celebrare un processo non sarebbe poca cosa). Ma non è così: l’art. 161 del codice penale stabilisce che questo calcolo non si applica, tra gli altri, ai reati di mafia (e di terrorismo). Ciò fa sì che ogni atto interruttivo fa decorrere nuovamente un tempo pari al massimo della pena, e cioè 18 anni. La prescrizione, perciò, sarà 18 anni + 18 anni, ecc. Perché il reato di mafia si prescriva dovrebbe però decorrere 18 anni dall’ultimo atto interruttivo senza che intervenga uno di quegli atti che fanno nuovamente decorrere la prescrizione da zero. È una discussione sul nulla, una finzione escogitata per far dire al governo che è stato aperto alle richieste della maggioranza, e ai cinque stelle che è vincente nel confronto con il governo”. Questa lunga citazione non ha bisogno di altri commenti anche se si tratta di rilievi tecnici molto sofisticati! Ho detto che le norme proposte dal ministro di Giustizia e approvate dal Parlamento responsabilizzano per la prima volta i magistrati e i giudici i quali sono tenuti a dare giustizia e nei termini indicati, ma costituiscono solo l’inizio di una riforma complessiva che si completerà con il referendum. Questo dimostra e spiega la crisi dei partiti dei movimenti senza alcuna qualifica e “indistinti”, che sono interessati solo ad una propaganda di giornata con l’illusione di catturare consensi che peraltro non arrivano, e che sono estranei alle grandi questioni del diritto e della democrazia. Con il voto al referendum del prossimo anno gli elettori diventeranno protagonisti per completare le riforme: surclasseranno i partiti che ahimè! sono inerti e senza riferimenti territoriali, e dunque risulterà che il governo centrale ha cominciato a riformare la giustizia senza l’assenso della magistratura, che era la più interessata in questo momento di delegittimazione a volere un cambiamento, e gli elettori completeranno l’operazione in qualche modo contro i partiti o senza i partiti. Giro di vite sulle procure che trattano l’indagato da colpevole di Valentina Stella Il Dubbio, 5 agosto 2021 Arriva in Consiglio dei Ministri il testo che attua la Direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza: obblighi di rettifica per Pm e Gip. Dopo l’approvazione del ddl penale alla Camera, un altro passo avanti nella direzione di un sistema ispirato ai principi costituzionali si sta per compiere oggi in Consiglio dei ministri, dove sarà discusso il decreto legislativo per l’attuazione della direttiva Ue 2016/ 343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, recepita lo scorso 30 marzo, con voto pressoché unanime, nella legge di delegazione europea. Si tratta di uno degli obiettivi elencati dalla ministra Marta Cartabia nelle proprie linee programmatiche, e che arriva con cinque anni di ritardo rispetto al dettato comunitario. Lo schema prevede innanzitutto che le autorità, magistrati inclusi, non potranno indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato, fino a quando la colpevolezza non sarà stata accertata con sentenza irrevocabile. Qualora tale principio fosse violato, “ferma l’applicazione delle eventuali sanzioni penali e disciplinari, nonché l’obbligo di risarcimento del danno, l’interessato ha diritto di richiedere all’autorità pubblica la rettifica della dichiarazione”. Se l’autorità condivide, deve procedere alla rettifica entro 48 ore, garantendo la medesima diffusione e rilievo della dichiarazione oggetto di modifica. Se l’autorità rigetta, l’interessato si può rivolgere al Tribunale. Si prevede poi una modifica al decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106 (“Disposizioni in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero”) incentrata sulla comunicazione alla stampa: “La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico. Le informazioni sui procedimenti in corso sono fornite in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende, e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”. In questi casi sarà il procuratore della Repubblica a poter “autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria a fornire, tramite comunicati ufficiali oppure tramite conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato”. In pratica non tutto sarà considerato notiziabile, come accade adesso, ma solo i fatti di grande rilevanza: si tratta di un passaggio importante perché la Procura sarà chiamata a motivare le ragioni di interesse pubblico della comunicazione. In più, se prima sulle conferenze stampa vigeva una sorta di deregulation, con il recepimento effettivo della direttiva, in assenza di autorizzazione, i vertici di polizia e carabinieri non potranno tenere alcuna conferenza stampa con i loro ben noti video di arresti autocelebrativi. E, secondo una possibile interpretazione della norma, il giochetto delle conferenze stampa sarà tolto dalle mani dei sostituti procuratori per impedire eccessi di protagonismo e di personalizzazione nell’esercizio delle funzioni requirenti. Lo schema di decreto legislativo prevede anche una modifica al codice di procedura penale laddove si prevede un 115-bis (“Garanzia della presunzione di innocenza”) secondo cui “nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato, la persona sottoposta a indagini o l’imputato non possono essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”. Se così non fosse “l’interessato può, a pena di decadenza, nei dieci giorni successivi alla conoscenza del provvedimento, richiederne la correzione, quando è necessario per salvaguardare la presunzione di innocenza nel processo”. I provvedimenti a cui si fa riferimento potrebbero essere le richieste di misure cautelari, le successive ordinanze dei gip ma persino le proroghe che il giudice dovrà richiedere per portare a termine processi complessi, come previsto dal nuovo istituto dell’improcedibilità. Sta di fatto che entrambe le modifiche incidono soprattutto quando la gogna mediatica imperversa, ossia nella fase delle indagini preliminari, la cui dimensione garantista è stata rafforzata nella riforma appena approvata. Secondo il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, che per primo indicò il tema come prioritario nell’agenda di politica giudiziaria, “si tratta di un testo di partenza che può essere considerato già un passo avanti: se il Cdm lo licenzierà farà molto meglio del passato. Ora sarà fondamentale il lavoro delle commissioni parlamentari che dovranno fornire gli altri elementi per rafforzarlo”. Quelli delle commissioni non sono pareri vincolanti, ma un governo che ha fatto del dialogo una prerogativa importante sarà sicuramente aperto ai correttivi. In linea generale siamo nella stessa condizione della riforma penale: come per il testo della “mediazione Cartabia”, anche questo schema non è l’optimum ma rappresenta sicuramente un discreto punto di partenza per rafforzare la cultura garantista e lanciare un messaggio a certa magistratura requirente impegnata troppo spesso a cercare le luci della ribalta mediatica a scapito della presunzione di non colpevolezza. Chi crede nel diritto non può allearsi coi forcaioli di Cataldo Intrieri Il Dubbio, 5 agosto 2021 Giudicare il ddl penale per la sola norma sull’improcedibilità? È il solito vizio italiano: si guarda con snobistico disgusto ai passi avanti riformisti. Una volta approvata la riforma Cartabia, sia per quanto riguarda la parte immediatamente esecutiva (tra cui le cause di improcedibilità dell’azione penale per decorso dei termini temporali ex articolo 344 bis cpp), sia la parte ben più nutrita oggetto di delega al governo, restano strascichi polemici e divisioni, anche nel campo dell’avvocatura. Il problema fondamentale per tutti, giustizialisti e garantisti, magistrati e avvocati, studiosi e orecchianti del diritto, è uno solo: la famigerata improcedibilità che uno dei tanti articoli “bis” introdurrà nel sistema. Su di essa si è formata e ormai radicata una insospettata e inimmaginabile santa alleanza che vede riuniti inveterati, imbarazzanti forcaioli e raffinati garantisti di antico conio. Come nelle antiche crociate dove sotto i vessilli della fede si raggruppavano santi e peccatori, mistici e canaglia assortita. Così accade ad esempio che procedano affiancati Giuseppe Conte e Massimo Giannini, direttore della Stampa, che ci informa essere laureato in Giurisprudenza con tesi in Diritto costituzionale (in effetti non lo avremmo mai sospettato). Giannini nonostante le feroci critiche a colui che sprezzantemente, più volte ha definito “l’avvocato di Volturara Appula”, in uno dei suoi ultimi editoriali e malgrado la laurea in Legge, sulla riforma Cartabia ne condivide, oltre che le critiche, pure gli strafalcioni, lamentando che con le nuove regole rischierebbero l’estinzione i processi ai colpevoli della morte di Stefano Cucchi e della tragedia del ponte Morandi, laddove la nuova normativa, peraltro sospesa sino al 2024, comunque si applica ai reati consumati dopo il 30 gennaio 2020, data di entrata in vigore della “Spazza-corrotti”, creazione di un altro insigne giurista, Alfonso Bonafede, evidentemente apprezzato ben oltre le critiche ufficialmente mossegli. Infatti dopo la sua riforma la magistratura è rimasta in religioso silenzio, senza distinzione tra destra e sinistra, progressisti e conservatori, laddove di fronte al lavoro di Marta Cartabia, Giorgio Lattanzi e altri insigni giuristi è insorta unanime. Con lei, duole dirlo, si è mossa una parte non irrilevante dell’accademia e della stessa avvocatura che, pur sollecitata da ben altre prospettive, ha finito per ritenere iniqua una legge che secondo la critica giustizialista avrebbe provocato guasti irreparabili per il solo fatto di impedire la vergogna del “fine processo mai”. Ovviamente nel caso di insigni giuristi come Ennio Amodio, Paolo Ferrua, Adolfo Scalfati e Giorgio Spangher le motivazioni alle critiche sono ben più raffinate delle rozze allarmistiche critiche della solita compagnia dell’anti-mafia militante in servizio effettivo, ma il paradosso di ritrovarsi in una tale imbarazzante compagnia a mio parere richiederebbe una qualche ulteriore riflessione, oltre quella strettamente scientifica. Certamente ha ragione Paolo Ferrua a sostenere la neutralità dello studioso e la sua indifferenza al dibattito politico in nome del valore della scienza: la lezione di Julien Benda nel suo “tradimento dei chierici” era quella di non rinunciare mai ai valori ultimi della cultura e dello spirito in favore della faziosità politica. Eppure io credo che dovremmo chiederci, proprio sulle pagine di questo giornale, se ciò sia sufficiente, in un momento in cui, come non mai, la cultura liberale, la comune matrice di ogni giurista democratico è concretamente a rischio. Osserva Giorgio Spangher sulle pagine del Dubbio come a suo avviso il governo che ha pilotato il compromesso “al ribasso” sul tema della prescrizione sia incorso in un abbaglio cognitivo che definisce “fallacia realista”, l’illusione che rinunciare ai valori di fondo in nome di piccoli passi avanti possa realmente servire a migliorare le cose. Mi permetto di dire che forse a loro volta i critici “garantisti” incorrano in un’altra e più classica fallacia, studiata dai grandi psicologi cognitivisti Kanheman e Tverskij, quella della rappresentatività: abbiano cioè erroneamente elevato un particolare, un singolo tratto della complessiva riforma, a simbolo del tutto. Vanamente Cartabia si è affannata a sottolineare come debba essere giudicata la riforma nel suo complesso e non per un piccolo segmento: i risvolti pavloviani prevalgono, il drappo rosso della prescrizione oscura tutto. Proviamo a cambiare prospettiva e spostare l’ago della bilancia sul lato riformista del provvedimento, quello che punta a smaltire il carico di processi con soluzioni alternative a quelle del circuito indagine-custodia cautelare, processo, pena, e a introdurre un meccanismo innovatore come la giustizia riparativa. Come già era avvenuto per la riforma dell’esecuzione penale, il solito lavoro di sabotaggio degli adoratori del carcere ha impedito l’adozione di misure più coraggiose come l’allargamento dei riti alternativi, ma qualcosa è sopravvissuto. L’errore di chi si ferma sulla soglia dell’improcedibilità è la rinuncia a far funzionare i pochi meccanismi di novità positive che la riforma si porta appresso. La riforma non funzionerà se i processi si estingueranno per improcedibilità, ma se si riuscirà a farli esaurire in tempi ragionevoli, perché in quel caso vorrà dire che ce ne saranno meno, che le carceri saranno meno affollate, che le ragioni delle vittime non si fermeranno alla richiesta di vendetta, che il futuro dei condannati riserverà una speranza fuori dal carcere. Ha poca importanza allora discutere di cosa accadrà dell’imputato assolto e delle parti civili appese all’improcedibilità: la scommessa vuol dire far funzionare la macchina, non scommettere sul suo inceppamento. O mi sbaglio, colleghi? A ben vedere ritorna anche in questo caso l’eterna parabola del riformismo italiano perennemente sconfitto dalla tenaglia del conservatorismo e dell’estremismo giacobino: due opposti che sono sempre andati sottobraccio nella storia politica del Paese e che hanno sempre ostacolato ogni possibilità di cambiamento, perché entrambi del cambiamento, soprattutto di quello progressivo e paziente, hanno avuto paura. Anche nell’avvocatura penalista c’è chi teme il cambiamento e rinvia ogni riforma a un immaginario domani in cui non si sa come, un popolo di forcaioli scoprirà la bellezza della cultura garantista: un domani che non arriverà, ma proprio per questo bello e deresponsabilizzante, così attraente anche da giustificare l’innaturale alleanza con quelli che, a parole, sarebbero i nemici. A settembre dopo un anno di stasi i penalisti si rincontreranno a Roma: essi daranno un ulteriore mandato a Gian Domenico Caiazza che con molto merito li ha guidati in questi anni iniziati con Bonafede al governo, dunque non sarà necessario parlare di poltrone, proviamo a discutere di politica e se oltre che liberale l’avvocatura penalista possa essere riformista, e quindi autenticamente rivoluzionaria. La riforma Cartabia è il Jobs act della giustizia di Giorgio Cremaschi micromega.net, 5 agosto 2021 Una riforma che nasce dal mondo degli affari e non da quello del diritto, e che ripristina la più pura giustizia di classe. Naturalmente il mio è un giudizio di indirizzo politico, quello tecnico giuridico lo matureranno gli esperti dopo una attenta disamina di tutti gli articoli della riforma della giustizia votata dal Parlamento. Questo giudizio però è netto: siamo di fronte ad una classica controriforma liberista, come tutte le “riforme” che da decenni vengono chieste o imposte al nostro paese nel nome del profitto, del mercato e degli affari. Che lo scopo della legge sia economico prima che giuridico lo ha detto chiaramente la ministra della giustizia Cartabia. Che ha affermato che ora arriveranno più investimenti esteri nel nostro paese. Ma che c’entrano gli affari delle multinazionali con la giustizia? C’entrano, c’entrano, tanto è vero che Stati Uniti ed Unione Europea da anni stanno provando a realizzare il TTIP, cioè un trattato che garantisca una sostanziale franchigia giuridica per le multinazionali, che vogliono che ovunque sia applicata la loro legge, e non quelle dei paesi ove investono, o delocalizzano. Se la nuova giustizia italiana, per vanto dello stesso governo, sarà ben accolta dai padroni del mondo, beh state sicuri che è perché ne troveranno dei vantaggi, per loro non per noi. D’altra parte, è stata la stessa UE a legare la concessione degli aiuti del Recovery alla riforma della giustizia. E anche qui sorge spontanea la domanda: che c’entra la concessione di un prestito finanziario con la durata dei processi per disastro ambientale o strage sul lavoro? Beh, la connessione è così evidente, per quanto maliziosa, che non c’è bisogno di aggiungere altro. La riforma Cartabia nasce dal mondo degli affari e non da quello del diritto. Non che le ragioni per cambiare la giustizia in Italia non ci siano. Ce ne sono eccome, ne sanno qualcosa le persone normali che finiscono in un processo senza poter fruire del sostegno dei soldi e del potere. Ma queste ragioni di vera giustizia sono totalmente ignorate dalla nuova legge, che invece si occupa della tutela di quei potenti, di cui a volte l’azione della magistratura ha messo in discussione privilegi ed impunità. È la cosiddetta giustizia giusta chiesta quarant’anni fa da Craxi, poi da Berlusconi e ora ritornata in campo con Renzi e Salvini. Sì, proprio quel capo leghista che quando sono imputati dei migranti usa dire: buttate la chiave; proprio Salvini ora s’improvvisa garantista. E non è in contraddizione, perché le sue garanzie per gli imputati si fermano nel perimetro della casta politica e di quella imprenditoriale. Da quando una parte della magistratura, sull’onda delle lotte sociali, civili e democratiche degli anni Settanta, decise di credere davvero ai principi costituzionali di eguaglianza e cominciò a guardare in alto, nella classe dirigente, e non solo sempre in basso come fino ad allora si era fatto, padroni e politici di palazzo si impegnarono a fermare l’intrusione della legge nei loro affari e nel loro potere. Negli anni Ottanta cominciò la FIAT, come sempre avanguardia nelle restaurazioni sociali e politiche in Italia, con gli Agnelli ed i loro manager denunciò lo strapotere di quelli che vennero definiti “pretori d’assalto”. Cioè quei magistrati che avevano cominciato ad applicare davvero lo Statuto dei lavoratori e a condannare quei padroni che lo violavano. Poi vennero democristiani e craxiani a dire basta con le interferenze dei giudici sulla vita politica. Con tangentopoli persero, ma adesso hanno vinto, perché si sono messi nella scia della libertà d’impresa. Questa è anche la ragione della sconfitta finale dei cinque stelle. Il loro giustizialismo non solo era incompatibile con la permanenza al governo, alternativa per essi improponibile, ma soprattutto era distorto e limitato. I cinque stelle non hanno mai avuto nel loro bagaglio culturale la consapevolezza che la giustizia è prima di tutto una questione di eguaglianza e non di legalità. Il padrone della FIAT ed il suo operaio non sono mai realmente eguali di fronte alla legge e la giustizia esiste solo se si attrezza per superare questa disuguaglianza di fatto. Lo dice l’articolo 3 della Costituzione, il più citato ed inapplicato della Repubblica. Rifiutando ogni analisi sociale, e limitandosi alla ridicola dialettica tra onesti e disonesti, i cinque stelle hanno aperto la via alla restaurazione della giustizia per i ricchi e i potenti. La loro assurda pretesa di far durare quasi in eterno il processo, sia per chi avesse rubato al supermercato, sia per chi avesse violato le leggi sul lavoro e l’ambiente, ha prodotto il risultato esattamente opposto. Ora chi ha i soldi per pagarsi avvocati di grido e potere per influire sulla opinione pubblica, potrà rallentare i processi e finire prescritto. Chi invece potrà permettersi solo l’avvocato d’ufficio, probabilmente finirà per subire tutti i gradi di giudizio. Si ripristina così la più pura giustizia di classe, la riforma Cartabia è il Jobs act della giustizia. A correttivo del meccanismo salva potenti dovrebbe stare poi il nuovo ruolo assunto dal Parlamento nell’amministrazione della legge. Spetterà infatti alle Camere definire quali siano i reati socialmente più urgenti e pericolosi, sui quali la magistratura dovrebbe concentrare il proprio impegno per evitare prescrizioni. A parte che questo obbrobrio afferma il principio incostituzionale che sia la maggioranza di governo a stabilire cosa debbano fare i giudici, resta anche una obiezione concreta. Vi immaginate il Parlamento della Repubblica che vota una mozione ove si impegni la magistratura ad agire prioritariamente contro la violazione delle norme sulla sicurezza e la salute del lavoro? O contro i reati ambientali? Io proprio no, ritengo ben più probabile che le camere chiedano ai giudici di darsi più da fare contro i migranti, i poveri, i ribelli. Ci voleva l’Europa, come sempre, per aiutare le classi dirigenti economiche e politiche italiane ad ottenere ciò che da esse facevano fatica ad imporre da sole. Ora, grazie anche al Recovery, padroni e politici potranno di nuovo ripetere la frase che più esprime la loro anima: io sono io e voi non siete un c… Il Marchese del Grillo è la vera fonte del diritto per Draghi, Cartabia e compagnia. P.S.: Naturalmente la feroce legislazione antiterrorismo che ci ha visti condannati dalla Corte internazionale dei diritti umani e il cui uso e abuso continua ancora, beh quella resta tutta e non si prescrive. La riforma Cartabia tra controllo sociale e diritti di Vincenzo Scalia studiquestionecriminale.wordpress.com, 5 agosto 2021 Nel 1985, il criminologo critico di origine sudafricana Stanley Cohen, pubblicava Visions of Social Control (TransactIon: Trenton, NJ, 1985), un lavoro destinato a fare da spartiacque all’interno della disciplina. Infatti, se prima della sua uscita si dava per scontata la bontà delle misure di diversion, ovvero di tutti quei provvedimenti alternativi alla detenzione, da quel momento in poi, una punta di scetticismo, quantomeno, cominciò a diffondersi tra gli addetti ai lavori. Analizzando le misure alternative alla detenzione, nonché quelle di intervento sui gruppi sociali cosiddetti “a rischio”, Cohen approdava alla conclusione che, per una paradossale eterogenesi dei fini, la diversion sortiva l’effetto di ampliare il raggio di criminalizzazione. Cohen evidenziava come gli operatori del diritto, ovvero magistrati, poliziotti e assistenti sociali, nel seguire sul territorio i casi penali sottratti all’ambito penitenziario, finivano per individuare nuove tipologie di devianza, per esempio venendo a conoscenza della situazione di parenti, colleghi, amici e vicini dei loro utenti. La diversion finiva quindi per riverberarsi in un processo di net widening, ovvero di allargamento della rete, laddove i casi che fino a prima della diversion non erano conosciuti all’apparato di controllo sociale finivano per ricadere nella sua orbita. A fondamento del processo di net widening, Cohen individuava i cosiddetti depositi di potere. In altre parole, gli operatori del diritto, oltre ad essere investiti di prerogative decisionali, erano formati dai loro colleghi più anziani, che trasmettevano loro tutta l’impronta contenitiva. Inoltre, la possibilità di fare leva, in ultima istanza, sulla risorsa penale, costituiva per magistrati, assistenti sociali e poliziotti un dispositivo relazionale che, se da un lato assicurava loro la possibilità di imporre le loro decisioni, dall’altro lato devitalizzava la portata reintegrativa del loro intervento, coi loro utenti pronti ad assicurare un’adesione formale alle loro proposte pur di evitare il carcere. Infine, la precarietà economica e sociale dilagante, trasformava la diversion in un bacino di marginalità permanente, all’interno del quale collocare individui e gruppi giudicati “a rischio” per monitorarli e intervenire su di loro. La riforma della giustizia elaborata dalla guardasigilli Marta Cartabia, sembra ricalcare, trentasei anni dopo, le linee tracciate da Stanley Cohen. Per quanto molti, addetti ai lavori e non, la qualifichino come una riforma garantista, tanto da attirarle gli strali di Travaglio & co., rimaniamo convinti che si tratti esattamente dell’opposto. Innanzitutto, fin dagli anni novanta del secolo scorso, studiosi del calibro di Luigi Ferrajoli e Massimo Pavarini, spiegano come il problema si collochi ab origine. Per mettere in pratica un’impostazione garantista, non si tratta di varare e implementare misure alternative. Bisogna semmai intervenire sull’impianto legislativo criminogeno, che ha prodotto, sin dall’inizio degli anni novanta, l’espansione ipertrofica della penalità in Italia. La legislazione antidroga, dalla Jervolino-Vassalli alla Fini-Giovanardi, ha creato una simbiosi mortale tra consumo di stupefacenti e detenzione, fino a portare ad un terzo il numero dei detenuti tossicodipendenti. Un altro filone legislativo criminogeno è quello della legislazione che regolamenta, anzi restringe, l’immigrazione. La Turco-Napolitano, la Bossi-Fini, hanno creato un bacino di clandestinità, il cui sbocco inevitabile è quello delle economie illegali, quindi dell’intervento contenitivo da parte della sfera penale. È grazie a queste leggi che i 25.000 detenuti del 1990 sono diventati 67.000 nel 2006, salvo scendere ai 60.000 attuali per ragioni di gestione del penale quotidiano. In secondo luogo, la riforma Cartabia, più che in direzione dell’implementazione dei diritti dei detenuti, ci sembra votata a garantire l’efficienza del sistema giudiziario penale. Pene alternative, multe, mediazione penale, braccialetti elettronici, marciano nella direzione di garantire l’efficienza del sistema penale, come succede già in altri contesti, come quello inglese, in cui le pene alternative riguardano 300.000 persone, contro i 90.000 in stato detentivo. Il dato interessante del contesto inglese, è rappresentato dall’età media dei detenuti, che si rivela tra le più alte d’Europe (www.gov.uk). A leggere questo dato con attenzione, se ne deduce che il carcere diventa la collocazione naturale per una fascia di popolazione a rischio, che ha galleggiato all’interno della penalità alternativa per anni, senza trovare uno sbocco reintegrativo all’interno di un contesto socio-economico sempre più precario. Inoltre, gli afrocaraibici continuano a rappresentare quasi un terzo dell’utenza penitenziaria anglo-gallese (Scozia e Irlanda del Nord hanno il loro sistema giudiziario-penale), che riflette la loro marginalità sociale endemica. Se simili tendenze dovessero aver luogo anche in Italia, tra dieci anni dovremmo trovarci un’utenza detentiva sempre più anziana e sempre più migrante, dal momento che quest’ultimo gruppo sociale si connota per la sua carenza strutturale di risorse materiali e relazionali. Questo è il terzo limite della riforma Cartabia che ci preme sottolineare. Per quanto tenti di garantire una certa efficienza di sistema, non si pone minimamente il problema della disparità dell’accesso alle risorse. Di conseguenza, migranti e rifugiati, privi di residenza permanente, di reti familiari e amicali, di un’occupazione su cui fare leva, di disponibilità finanziarie per assicurarsi una difesa adeguata, finiranno per ingrossare ulteriormente le schiere della detenzione. Infine, la riforma Cartabia non considera la possibilità di irrogare provvedimenti clemenziali, come l’amnistia o l’indulto. D’altronde, in seguito alla riforma del 1992, per vararla sono necessari i voti di due terzi dei parlamentari, una maggioranza qualificata che, in un Parlamento a misura di Grillo, Salvini e Meloni, è impossibile raggiungere. Eppure, una riforma imperniata sui diritti dei detenuti e degli imputati, avrebbe dovuto andare controcorrente, e lavorare in questa direzione. Così, invece, ci troveremo di fronte ad una sfera penale sempre più allargata, pronta ad espandersi nei periodi più acuti di crisi politiche e sociali. A chi giova la riforma Cartabia? Sicuramente, seguendo l’impostazione di Stanley Cohen, serve ad estendere la rete del controllo sociale, evitando disfunzionalità al sistema giudiziario-penale. La pandemia ha provocato un malessere sociale diffuso, che si è manifestato sia fuori che dentro le carceri, come mostrano i casi di Modena e Santa Maria Capua Vetere. La creazione di un’area intermedia tra carcere e società, che permette di deflazionare la sfera carceraria e allo stesso tempo di monitorare individui e gruppi sociali “a rischio”, si connota come una scelta ottimale per una società neo-liberista, che non vuole invertire la rotta delle politiche sociali, né vuole mettere in soffitta l’utilizzo della penalità come collante politico. In secondo luogo, negli ultimi anni, tra le pieghe del terzo settore, si è formata una pluralità di saperi e professionalità, che fa della gestione della marginalità e del rischio la propria ragione d’essere, per i quali la penalità alternativa rappresenta un’importante occasione occupazionale. Che finisce per alimentare da una parte quella retorica della solidarietà che permette a settori del centro-sinistra e del mondo cattolico di accreditarsi come i paladini del reinserimento sociale. Dall’altro lato, alimenta la retorica della legge e dell’ordine, riproducendo un gioco delle parti cinico, giocato sulla pelle di imputati e detenuti. Sì, aveva ragione Cohen: bisogna smantellare i depositi di potere. Ecco perché il referendum sarà la vera riforma della giustizia di Augusto Minzolini Il Giornale, 5 agosto 2021 Il testo Cartabia non affronta funzionamento del Csm e separazione delle carriere. La politica non potrà fuggire. La battaglia politica sulla giustizia non si giocherà sulla riforma Cartabia. Giuseppe Conte non si sente abbastanza forte da contrastare Mario Draghi. Il compromesso sui reati di mafia in qualche modo c’è stato e questo serve a rassicurare gli ultimi elettori grillini sul “nulla è cambiato”. È così che il disegno di legge, fondamentale per i progetti legati al Recovery Plan, è stato approvato senza sussulti alla Camera. Ci sono stati un po’ di franchi tiratori, ma anche questo in fondo fa parte del gioco. Non era possibile ottenere di più. Lo conferma anche Alfonso Bonafede. “Nessun trionfalismo per i risultati raggiunti: non è questo il testo che avremmo voluto. Però, grazie al M5s guidato da Giuseppe Conte, e all’ascolto della ministra Marta Cartabia, abbiamo messo in sicurezza centinaia di migliaia di processi visto che, per tutti i reati, quindi compresi anche corruzione e reati ambientali, fino a dicembre 2024, sono stati raddoppiati i termini di durata massima dell’appello che può arrivare fino a 4 anni. Per i reati con l’aggravante mafiosa abbiamo triplicato il termine massimo a 6 anni”. L’aspetto semmai da registrare è l’imbarazzo del Pd su questi temi. Non se ne parla. Il partito di Enrico Letta si è nascosto e si muove sotto coperta, come se la durata dei processi fosse solo una questione per le riviste di diritto. Nulla che smuove le coscienze, roba tecnica da cui la sinistra tradizionale preferisce stare lontana. Solo qualcuno, di tanto in tanto, sussurra che aver rimediato alle scorribande della legge Bonafede riporta un po’ di senso giuridico nei tribunali. Sono però cose da dire a bassa voce, perché per il Pd la giustizia resta terreno minato, da non calpestare. La parola d’ordine è comunque non far diventare il rapporto tra partiti e magistratura un’arena di scontro politico. È per questo che la grande paura del Pd si riassume in una parola: referendum. È lì che diventa difficile nascondersi. La Lega e i Radicali hanno portato in piazza i temi chiave della giustizia: custodia cautelare, separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, il divieto per giudici e pm di ricoprire cariche elettive e di governo, il funzionamento del Csm. Ci sono tutte le cose per cui per anni si è preferito glissare. Il referendum apre la discussione sulla vera riforma della giustizia. Basta ascoltare le dichiarazioni dell’Anm. I magistrati parlano di inganno verso gli elettori, di quesiti poco chiari, di rischio democrazia. Il referendum, sostengono, è legittimo, ma ha il fragore di un’apocalisse. L’Anm esprime forte preoccupazione perfino sulla custodia cautelare, “presidio avanzato di tutela della sicurezza collettiva”. È una strana forma di giustizia preventiva. Non si sa se l’imputato sia o meno colpevole, ma intanto per sicurezza lo sbatto in carcere. È come cancellare in un attimo la filosofia di Cesare Beccaria, il baluardo del diritto italiano e europeo. Magistrati onorari: nuova proroga per la riforma Orlando di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2021 L’Articolo 17-ter differisce al 31 dicembre 2021 l’applicabilità del nuovo regime di attribuzione dell’indennità ai magistrati onorari in servizio, e al 31 ottobre 2025 l’applicabilità delle disposizioni in materia di processo civile telematico per i procedimenti introdotti dinnanzi al giudice di pace. Nel decreto Pubblica amministrazione su cui il Governo ha messo la fiducia, mentre il voto si svolgerà giovedì pomeriggio, entra anche la proroga per i giudici onorari. L’Articolo 17-ter (Disposizioni in materia di magistratura onoraria), introdotto dal Senato, infatti, differisce al 31 dicembre 2021 l’applicabilità del nuovo regime di attribuzione dell’indennità ai magistrati onorari in servizio, e al 31 ottobre 2025 l’applicabilità delle disposizioni in materia di processo civile telematico per i procedimenti introdotti dinnanzi al giudice di pace. Entrando nel dettaglio l’articolo 17-ter apporta una serie di modifiche al decreto legislativo n. 116 del 2017, recante riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace, nonché disciplina transitoria relativa ai magistrati onorari in servizio. Tale decreto in attuazione della delega conferita dalla legge n. 57 del 2016, ha proceduto ad una complessiva riforma della magistratura onoraria oggi però sottoposta a profonda revisione. All’esame della Commissione giustizia del Senato vi sono infatti una serie di disegni di legge di modifica del decreto legislativo del 2017 (S.1516, S.1555, S.1582, S.1714 e S.1438). Inoltre con D.M. 23 aprile 2021è stata istituita una Commissione di studio per elaborare proposte di interventi in materia di magistratura onoraria, presieduta dal dottor Claudio Castelli, che ha concluso i propri lavori con l’elaborazione di una relazione finale, lo scorso 21 luglio. Le conclusioni sono ora al vaglio della Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che effettuerà “le sue valutazioni e una sua sintesi”. “Nella conversione del Dl c’è la proroga che ci era stata annunciata del completamento della entrata in vigore della Legge Orlando - afferma Maria Flora De Giovanni, presidente Unagipa. “La stessa legge - prosegue - è stata però ritenuta discriminatoria ed oggetto di infrazione da parte della Commissione Europea”. “La Ue ha concesso due mesi di tempo - a partire dal 15 luglio data della notifica della messa in mora contenente la contestazione dell’infrazione - allo Stato italiano per allinearsi e sanare i punti dell’infrazione”. “Se il Governo - ammonisce De Giovanni - non depositerà il testo di legge sulla M.O., la Ue farà un parere motivato. Per questo la proroga non è in linea con le contestazioni della UE, poiché si proroga una normativa che nega le tutele alla M.O. oggetto dell’infrazione”. “Il governo - conclude De Giovanni - perdura nella violazione dello stato di diritto europeo e nazionale. E le violazioni dello stato di diritto proprio negli ambiti che riguardano il PNRR potrebbero comportare una contestazione degli altri stati europei sulla elargizione dei fondi del Recovery all’Italia”. È importante ricordare come sulla questione dell’inquadramento giuridico dell’attività del giudice di pace, e del corrispondente trattamento economico vi è stato un contributo di rilievo della giurisprudenza sia europea (quale la Sentenza della Corte di Lussemburgo C-658/18) che nazionale, anche costituzionale (quale la Sentenza della Corte costituzionale n. 41 del 2021). Tornando al testo dell’articolo 17-ter, la lettera a) interviene sul comma 1 dell’articolo 31 del decreto legislativo n. 116, il quale nella sua formulazione vigente stabilisce che la disciplina relativa alla indennità spettante ai magistrati onorari in servizio “ante riforma” continui ad applicarsi sino alla scadenza del quarto anno successivo alla data di entrata in vigore del medesimo decreto legislativo (e quindi fino al 15 agosto 2021). La disposizione in esame prevede invece che tale disciplina continui ad applicarsi fino al 31 dicembre 2021. Mentre le lettere b) e c) modificano le disposizioni transitorie e finali di cui all’articolo 32 del decreto legislativo n. 116. La lettera b) interviene sul comma 1 dell’articolo 32, il quale prevede che la riforma (Capi da I a IX del decreto legislativo) si applichi ai magistrati onorari immessi nel servizio onorario successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, stabilendo nel contempo che fino alla scadenza del quarto anno successivo alla data di entrata in vigore del decreto stesso, le disposizioni dei capi da I a IX si applicano ai magistrati onorari in servizio alla medesima data per quanto non previsto dalle disposizioni del capo XI. La disposizione in commento differisce anche in questo caso l’applicazione della riforma al 31 dicembre 2021. La lettera c) modifica invece il comma 5 dell’articolo 32 differendo al 31 ottobre 2025 l’applicabilità delle disposizioni in materia di processo civile telematico per i procedimenti introdotti dinnanzi al giudice di pace. Da ultimo la lettera d) interviene sul comma 2 dell’articolo 33 del decreto legislativo n. 116 che prevede l’abrogazione a decorrere dalla scadenza del quarto anno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto della vigente disciplina relativa al trattamento economico dei giudici di pace e dei GOT e dei VPO. La disposizione in esame differisce anche in questo caso l’abrogazione prevedendo che essa decorra dal 1° gennaio 2022. Misura cautelare in carcere anche in caso di contemporanea detenzione dei genitori di un minore quotidianogiuridico.it, 5 agosto 2021 Cassazione penale, Sez. III, sentenza 22 luglio 2021, n. 28441. Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso l’ ordinanza con cui il tribunale del riesame aveva confermato il provvedimento con cui il GIP aveva rigettato la richiesta di sostituzione della misura cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, avanzata dall’indagato sul presupposto che la propria convivente, madre del figlio minore, era anch’ella detenuta, la Corte di Cassazione penale, Sez. III, con la sentenza 22 luglio 2021, n. 28441 - nel disattendere la tesi difensiva secondo cui trovava applicazione nel caso di specie l’art. 275, comma 4, c.p.p., che prevede il divieto di custodia cautelare, in quanto egli e? padre di un minore di sei anni con la madre detenuta che pertanto non poteva fornire al ragazzo l’assistenza necessaria - ha invece ribadito il principio secondo cui in tema di provvedimenti coercitivi, il divieto di disporre la custodia cautelare in carcere, previsto dall’art. 275, comma 4, c.p.p., costituendo norma eccezionale, non e? applicabile estensivamente ad altre ipotesi non espressamente contemplate, conseguendone, pertanto, la legittimità del provvedimento con il quale era stata respinta la richiesta di sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, avanzata da parte dell’indagato sul presupposto della detenzione anche della moglie con il figlio minore di anni sei. Benevento. Detenuto suicida nel carcere. Ciambriello: “È il quarto in Campania quest’anno” Il Mattino, 5 agosto 2021 Ieri pomeriggio un detenuto di origini romene di 30 anni si è impiccato nel carcere di Benevento nella sezione dell’articolazione psichiatrica. Lo rende noto il garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello. “È il quarto della Campania quest’anno, dopo i suicidi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, Avellino, Poggioreale, più il 16enne agli arresti domiciliari che si suicidò in una comunità di accoglienza. Complessivamente in Italia siamo arrivati a 29 suicidi tra i detenuti, alcuni presenti nelle articolazioni psichiatriche delle carceri - dice - Stefan era arrivato a maggio 2019 nel carcere di Benevento accusato di furto, ricettazione e oltraggio”. Per il Garante Campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale “il detenuto morto in articolazione psichiatrica è un fallimento per il sistema carcere, per il sistema sanitario e per la mancanza di idonee strutture terapeutiche alternative al carcere per i sofferenti psichici. Anzi, dovrebbe esserci per queste persone l’alternatività per la pena in carcere”. “In un recente convegno nazionale che ho promosso sulla salute mentale nei luoghi privati della libertà personale - aggiunge - ho sostenuto che l’efficacia di risposta ai bisogni di assistenza in carcere è davvero scarsa, a macchia di leopardo negli istituti dove, compreso Benevento, mancano psichiatri, progetti di inclusione sociale e un habitat fatto di spazi e relazioni. Quello che si richiede a tutti noi e alla politica in particolare è la capacità di operare un salto culturale che riporti al centro i diritti dei sofferenti psichici dentro e fuori ogni mura. La salute mentale è insidiata dalla costrizione fisica e dalla dipendenza totale per qualsiasi necessità della vita quotidiana. I luoghi chiusi comprimono i diritti individuali in maniera incontrovertibile”. Napoli. La tragedia di Francesco Palumbo, stroncato da una setticemia di Viviana Lanza Il Riformista, 5 agosto 2021 Sarà la magistratura a indagare sulla morte di Francesco Palumbo, detenuto del carcere di Secondigliano spirato in ospedale il 30 giugno scorso. La figlia ventunenne dell’uomo ha presentato un esposto alla Procura di Napoli per sapere se la condizione di detenuto del padre abbia o meno rallentato i tempi della diagnosi e della terapia della sua malattia, determinandone la morte. Francesco Palumbo, 55 anni, era in carcere da maggio 2013, stava scontando un cumulo di pene per un’estorsione e traffico di droga e tra poco più di un anno sarebbe tornato libero. In carcere stava seguendo un percorso di rieducazione, aveva conseguito il diploma, partecipato a corsi di teatro e nell’ultimo anno si era ammalato. Il decesso sembra sia stato causato da una setticemia dovuta all’infezione della massa che gli ostruiva la laringe rendendo sempre più difficile per lui parlare, mangiare, persino respirare. “Ho visto le sue sofferenze aumentare di giorno in giorno”, racconta la figlia nella denuncia in cui chiede ai magistrati di fare chiarezza su quanto si sia fatto nell’ultimo anno per diagnosticare e curare la malattia del padre, tenuto in carcere nonostante un quadro clinico che andava peggiorando. Palumbo aveva scoperto di avere una massa a livello della laringe più di un anno fa e la tac, eseguita il 2 aprile 2020, aveva confermato la necessità di ulteriori esami, in particolare di una fibrolaringoscopia che fu fatta soltanto il 19 maggio 2021, poche settimane prima che la salute di Palumbo precipitasse in maniera irreversibile. Nel frattempo, sempre secondo la ricostruzione esposta nella denuncia dei familiari del detenuto, il 30 ottobre 2020 il detenuto si era sottoposto a una seconda tac che aveva evidenziato una sensibile crescita della massa nonché la presenza di diverse formazioni nodulari. E in tutti quei mesi le istanze alla Sorveglianza presentate dall’avvocato Raffaele Pucci, difensore di Palumbo, non portarono ad alcuna modifica della condizione di detenuto del 55enne, perché in mancanza dell’esito della fibrolaringoscopia i giudici ritennero che Palumbo fosse compatibile con il carcere. “Già le precedenti relazioni sanitarie - si legge nella denuncia dei familiari - sottolineavano come “la compatibilità col regime carcerario intramurali è compromessa sia dalla complessità clinica che affligge Palumbo sia dalla lentezza dell’espletamento delle consulenze specialistiche e/o diagnostiche territoriali che possono provocare ulteriore nocumento allo stato di salute di Palumbo”. “L’evoluzione negativa del quadro sanitario di mio padre - spiega la figlia Miriana - così come facilmente verificabile raffrontando gli esiti delle due tac effettuate il 2 aprile e il 30 ottobre 2020 evidenzia il grave ritardo della risposta sanitaria e il progressivo aggravarsi delle sue condizioni di salute”. “La fribrolaringoscopia è stata eseguita a più di un anno dalla richiesta. E con non poche difficoltà perché l’ingrossamento della massa aveva reso difficoltoso l’inserimento del sondino nella laringe. Si ribadiva infatti la necessità di sottoporre mio padre a intervento chirurgico urgente ma nonostante ciò mio padre non veniva operato”, denuncia la figlia di Palumbo, raccontando che l’intervento fu tentato come solo quando a inizio giugno suo padre fu portato d’urgenza in ospedale perché perdeva sangue dalla bocca. Da allora è passato dal coma farmacologico alla morte. Davvero c’è stata una relazione tra il tempo trascorso e l’aggravarsi della malattia di Palumbo? La magistratura dovrà dare fare chiarezza. Firenze. A Sollicciano va tutto come al solito, purtroppo nove.firenze.it, 5 agosto 2021 Dmitrij Palagi, Sinistra Progetto Comune: “Le promesse mancate del Comune di Firenze, a partire dall’ICAM”. Ha avuto luogo ieri la visita della delegazione dell’Associazione Progetto Firenze, riportiamo in sintesi il quadro attuale della situazione nel carcere fiorentino di Sollicciano. La delegazione era composta da: Grazia Galli, Sandra Gesualdi, Donella Verdi, Emanuele Baciocchi, Dmitrij Palagi (consigliere comunale), Massimo Lensi. Tra i partecipanti anche l’avvocato Massimiliano Chiuchiolo (Osservatorio Carcere della Camera Penale di Firenze). Il reparto Covid interno all’istituto è stato trovato senza pazienti. La campagna vaccinale, su base volontaria, della popolazione detenuta è avvenuta con una copertura di circa l’80% dei ristretti. La direzione del carcere è ancora pro tempore; il corpo di Polizia Penitenziaria è sotto organico; l’area educatori è fortemente sotto organico: il personale sanitario è sotto organico e in parte precario. L’istituto è in sovraffollamento: 633 detenuti (su una capienza regolamentare di 491 posti più 35 posti non disponibili), 569 uomini (di cui 335 al giudiziario, in custodia cautelare), 64 donne (di cui 27 al giudiziario) e ancor un bambino (nato il 27 luglio, pochi giorni fa). In aumento i detenuti con patologie psichiatriche. Percentuale di sovraffollamento su capienza regolamentare: 128%. Percentuale di sovraffollamento su capienza reg. meno posti non disponibili: 138%. “Ai problemi nazionali legati agli istituti penitenziari si aggiungono le peculiarità di una pessima struttura e le promesse mancate del Comune di Firenze, a partire dall’ICAM”. “Grazie all’Associazione Progetto Firenze siamo tornati all’interno della Casa Circondariale di Sollicciano, assieme anche all’Osservatorio Carcere della Camera Penale di Firenze, con una delegazione accompagnata dal cappellano dell’istituto. Purtroppo non abbiamo avuto modo di entrare nel giudiziario, a causa di una disinfestazione in corso per cimici, ma abbiamo trovato per l’ennesima volta una madre con il proprio figlio: che fine ha fatto il progetto dell’ICAM, di cui più volte abbiamo discusso in consiglio comunale, ricevendo rassicurazioni dalla Giunta e scadenze non rispettate?” commenta Dmitrij Palagi, Sinistra Progetto Comune. “Inoltre quando riusciremo ad avere il Garante presente in aula per relazionare sulla situazione presente in un istituto penitenziario dove i problemi sono storici e acuiti dalla pandemia? L’assenza di personale, la qualità dell’edificio, i materassi, la mancanza di una reale connessione con il resto del territorio e della vita cittadina: sono alcune delle criticità ritrovate a distanza di pochi mesi dall’ultima visita”. “Crea frustrazione misurare come tutto sembri restare uguale: in realtà peggiora l’assenza di un ruolo reale e concreto del Consiglio comunale. Anche perché in realtà alcuni aspetti peggiorano e si deteriorano. Come la salute mentale: fuori dal carcere si moltiplicano gli studi su come questo anno e mezzo abbia peggiorato significativamente le nostre vite in questo ambito. Dentro Sollicciano è più visibile il maturare di condizioni che causano la necessità di osservazione psichiatrica. Se si entra sani, in carcere, si rischia di uscirne devastati. Il contrario di quanto prevede la nostra Costituzione. Inoltre chi sta male non deve stare in prigione”. “Ringraziando il DAP e la direzione di Sollicciano confermiamo l’impegno a tornare nella seconda metà di settembre, quando le ferie estive non aggraveranno i problemi di personale che ci sono in struttura”. “Intanto chiediamo al Sindaco, alla Giunta, alla Presidenza del Consiglio comunale e al Garante di Palazzo Vecchio di prevedere con la ripresa delle attività consiliari un momento di discussione, che dia un senso alle dichiarazioni di intento”. Ascoli. Detenuti impiegati nella manutenzione di giardini pubblici e aree comunali cronachepicene.it, 5 agosto 2021 Anche quest’anno l’amministrazione comunale di San Benedetto del Tronto ha deliberato il sostegno al progetto, proposto dai volontari dell’associazione “Il Germoglio Onlus”, per impiegare alcuni detenuti nella cura e manutenzione dei giardini pubblici e delle aree comunali. I detenuti, alcuni agli arresti domiciliari, durante questa estate vengono impiegati sotto la vigilanza dei volontari dell’associazione che operano su autorizzazione dei competenti uffici del Ministero della Giustizia e la supervisione del personale del Servizio Aree verdi del Comune. “E’ questo il terzo anno che sosteniamo il progetto - dice l’assessore alle politiche sociali Emanuela Carboni - perché l’esperienza ci insegna che queste persone ricevono benefici dall’impegno per la collettività e dimostrano, in primo luogo a loro stessi, che è possibile una ripartenza dopo l’esperienza del carcere. Ringrazio la cooperativa Il Germoglio e il suo presidente Cosimo Bleve per essersi impegnati in questo percorso sicuramente non facile ma che dà, come abbiamo verificato, ottimi risultati.” Padova. “Per Aspera ad Astra”: il progetto del Teatro stabile del Veneto con i detenuti padovaoggi.it, 5 agosto 2021 Gabriele Vacis, con gli attori della Compagnia Matricola Zero, sono impegnati nel laboratorio di teatro in carcere con i detenuti dell’alta sicurezza. “Non può esserci giustizia dove c’è abuso, non può esserci rieducazione dove c’è sopruso” parole, queste pronunciate dal premier Mario Draghi dopo la visita al carcere di Santa Maria Capua Vetere, imprescindibili anche per il Teatro Stabile del Veneto che proprio in questi giorni è impegnato in un progetto di formazione presso la Casa Circonadriale “Due Palazzi”. A lavorare con i detenuti dell’alta sicurezza del carcere padovano sono il regista Gabriele Vacis e gli attori della compagnia Matricola Zero per un laboratorio teatrale che mette al centro tematiche come la relazione, l’ascolto e la fiducia e in cui il teatro diventa il mezzo attraverso cui esplorare le proprie potenzialità e il proprio modo di stare con gli altri. Il progetto organizzato dallo Stabile del Venetgo si inserisce nel più ampio programma nazionale “Per Aspera ad Astra” promosso da Carte/Blanche Compagnia Teatrale della Fortezza di Volterra e sostenuto da Acri con Fondazione Cariparo e giunto ormai alla sua quarta edizione. Nel corso del laboratorio che, oltre alla presenza eccezionale di Vacis per le giornate dal 14 al 16 luglio con un focus dedicato all’azione del camminare, vede la collaborazione di Maria Celeste Carobene, Alice Centazzo, Marco Mattiazzo, Federica Chiara Serpe e Leonardo Tosini nel ruolo di formatori teatrali, si arriverà alla realizzazione di una drammaturgia originale con il coinvolgimento dei detenuti. Ma la libertà non è arbitrio di Mario Deaglio La Stampa, 5 agosto 2021 Adam Smith, considerato - con qualche esagerazione - il padre dell’Economia politica, sosteneva giustamente che il pane non ci deriva dalla benevolenza del fornaio, bensì dalla sua previsione della vendita di quest’alimento a un determinato prezzo. Nell’orizzonte di Smith era implicito che il fornaio non doveva avvelenare la farina: sarebbe stato impiccato sulla pubblica piazza. Tra i molti, Luigi Einaudi era fautore di tassazioni di emergenza in periodi di emergenza. Oggi ci limiteremmo a imporre al fornaio una multa salata se il suo pane risultasse comunque adulterato, ma il principio è lo stesso: l’esistenza di un confine tra libertà individuale e interesse collettivo è sempre stata riconosciuta tranne che dal liberismo più intransigente, purtroppo in forte ascesa in tempi recenti - ma non recentissimi - soprattutto negli Stati Uniti. Questo limite è particolarmente evidente in periodi di emergenza. Durante la seconda guerra mondiale, per contrastare il pericolo dei bombardamenti notturni sui centri abitati veniva imposto, in ogni Paese, che fosse o meno democratico, l’oscuramento: chi avesse violato l’oscuramento tenendo in casa propria le luci accese e le finestre spalancate - rendendo così chiaramente visibile l’agglomerato urbano agli aerei nemici - sarebbe sicuramente stato non solo arrestato ma forse, se recidivo, pure condannato per alto tradimento. La situazione attuale ricorda questi “lockdown notturni” di settantacinque anni fa, con le finestre sbarrate e i rifugi antiaerei: l’emergenza virus, infatti, appare sicuramente paragonabile a un’emergenza bellica, per molti versi ancora più pericolosa delle bombe sganciate al buio. Il Covid-19 è un nemico da sterminare, altrimenti sterminerà noi. Del resto, il numero dei morti da Covid-19 comincia a gareggiare con quello dei civili uccisi nei bombardamenti proprio nell’ultimo conflitto mondiale. La lotta al Covid- 19 richiede limitazioni particolarmente dure alle libertà individuali precisamente perché non è un nemico umano che mi colpisce solo se vuole: il coronavirus colpisce sempre, senza un piano definito per una sorta di riflesso condizionato e quindi, per il solo fatto di respirare senza mascherina, se sono infetto senza saperlo, posso far morire un’altra persona che mi passa vicino. Certo, la conoscenza minuta degli esseri umani e dei loro comportamenti resa possibile dall’elettronica dei nostri giorni fa sorgere la prospettiva di un uso improprio, o addirittura criminale, dei dati personali. Lo dimostra, tra l’altro, l’attacco di pirati informatici alla Regione Lazio e i controlli sulle società che operano mediante Internet sono sicuramente tutti da riscrivere non solo per quanto riguarda il trattamento fiscale ma anche, tra l’altro, per quello dei dati personali. Il che dovrebbe andare in parallelo a comportamenti temporaneamente obbligatori contro il Covid-19: pur molto diverse tra loro, rappresentano le frontiere della libertà dei nostri giorni. Migranti. Proteste al Senato per il sì alla missione in Libia di Carlo Lania Il Manifesto, 5 agosto 2021 Come previsto l’Italia continuerà ad addestrare la cosiddetta Guardia costiera libica. Dopo il voto della Camera ieri è arrivato il via libera anche da parte del Senato alla risoluzione del governo sulle missioni internazionali, compresa quella che prevede, con una spesa di 10,5 milioni di euro, il supporto ai miliziani di Tripoli. Contro questa missione, per la quale si proceduto con un voto separato, si sono espressi 25 senatori e uno si è astenuto. Protesta delle opposizioni per essersi vista negata la possibilità di votare una risoluzione firmata dall’ex M5S Gregorio De Falco e da altri dieci senatori e con la quale si chiedeva di bloccare sia i finanziamenti alla cosiddetta Guardia costiera libica che quelli alle missioni navali Irini, Mare sicuro ed Eubam Lybia esclusivamente nelle parti in cui sono previsti finanziamenti e addestramento diretti alla Marina del Paese nordafricano. “La risoluzione è stata estromessa dalla votazione”, ha protestato De Falco dopo aver ricordato che i miliziani di Tripoli sono di fatto sotto il comando della Turchia. I senatori di Alternativa c’è hanno poi occupato i banchi del governo, cosa che ha portato la presidente di turno Anna Rossomando a sospendere la seduta per cinque minuti. “Invece di criminalizzare chi salva le persone in mare - ha detto la senatrice Emma Bonino alla ripresa del dibattito - noi dobbiamo spezzare qualunque connivenza a terra sul territorio libico. Tutti sappiamo cosa succede: chiunque venga salvato viene riportato nei lager, si chiamano così”. Contro la “Scheda 48”, quella relativa all’addestramento della Guardia costiera libica, hanno votato anche i dem Verducci, Nannicini e D’Arienzo. Italia viva ha invece votato a favore della risoluzione del governo anche se per la vicecapogruppo Laura Garavini “il nostro impegno in Libia va rivisto e ripensato”. L’insostenibile leggerezza dell’Europa sui naufraghi di Maso Notarianni Il Domani, 5 agosto 2021 Ci sono 800 persone che stanno ancora aspettando di essere sbarcate, perché le autorità non hanno ancora assegnato un porto. La situazione sulle navi di Sos Méditerranée e di Sea-Watch è diventata più che insostenibile, pericolosa. L’Europa deve immediatamente riattivare un sistema di ricerca e soccorso, sul modello di Mare Nostrum. Oggi non si rischia né pioggia e né vento, oggi non si sogna di navigare, oggi il mare lo andiamo a salutare” (Buontempo, Ivano Fossati). C’era “buontempo” sulle coste della Libia la scorsa settimana. Per questo centinaia di persone sono scappate sulla spiaggia e sono salite sulle imbarcazioni più o meno di fortuna, più o meno organizzate da scafisti e trafficanti, per attraversare quel mare che assomiglia sempre più a un cimitero maledetto e sconsacrato. Per cercare chi un poco di speranza, chi di salvezza, chi la pace. Quattrocentocinquanta di loro, nella notte tra giovedì e venerdì scorso hanno avuto la buona sorte di incrociare delle navi. Delle navi civili che fanno quello che l’Italia, Malta e l’Europa intera si rifiutano incredibilmente di fare: salvare vite. Altre centinaia, probabilmente, non sono state altrettanto fortunate. Perché per una scelta disumana e criminale i governi europei, quello italiano in primis, impediscono alle navi della marina e della guardia costiera di intervenire con dei salvataggi se non in prossimità delle coste, di poco fuori dalle proprie acque territoriali. A una settimana da quella notte, ci sono 800 persone che stanno ancora aspettando di essere sbarcate, perché le autorità non hanno ancora assegnato un porto, e la situazione sulle navi di Sos Méditerranée e di Sea-Watch è diventata più che insostenibile. Pericolosa. “La situazione - dicono da Sea Watch - continua a peggiorare drammaticamente. Molte persone sono disidratate fino al collasso, altre hanno ferite infette o infezioni della pelle. Per tutte le persone a bordo chiediamo alle autorità l’assegnazione immediata di un porto sicuro”. Dalla Ocean Viking di Sos Méditerranée confermano la pericolosità della situazione a bordo: “Con l’aumento delle onde e il caldo soffocante, le condizioni fisiche dei naufraghi su Ocean Viking stanno peggiorando. Continuiamo a valutare, curare e monitorare i pazienti, ma tutti i sopravvissuti devono sbarcare in un porto sicuro il prima possibile”. Il governo italiano invece fa il minimo, e per evitare pesanti condanne concede evacuazioni mediche solo per chi è in imminente pericolo di vita. Il salvataggio in mare non è più considerato un’emergenza e nessuno si preoccupa del fatto che, mentre queste navi stanno ferme in attesa di sbarcare i naufraghi salvati, ci sono altre centinaia di naufraghi che nessuno salverà dalla morte per annegamento o dalle torture nei campi in Libia. “A bordo di queste navi ci sono persone che hanno già sofferto fin troppo: abusi, violenze, poi lo shock del viaggio in mare. Non devono passare un minuto più del necessario sul ponte di una nave”, dicono da bordo della nave Resq People, della “nuova” organizzazione ResQ, che sta per salpare dalla Spagna verso il Mediterraneo centrale. Il punto, ha ragione il deputato Erasmo Palazzotto (Leu), è che “grazie alle poche navi civili di soccorso ancora presenti, molte tragedie sono state scongiurate, ma che il peso e la responsabilità dei soccorsi sia interamente lasciato a loro è inaccettabile”. L’Europa deve immediatamente riattivare un sistema di ricerca e soccorso, sul modello di Mare Nostrum, se non vuole passare alla storia - non sarebbe la prima volta - come mostruoso carnefice. Marocco. Per liberare Ikram Nazih è necessario contrastare le leggi sulla blasfemia di Riccardo Noury Il Domani, 5 agosto 2021 La vicenda di Ikram Nazih, la ragazza italo-marocchina condannata a tre anni di carcere al suo rientro in Marocco per un post giudicato blasfemo, pubblicato due anni prima e rimasto online non più di 15 minuti, e sulla quale Domani sta portando avanti un’importante campagna di sensibilizzazione e informazione, ci può aiutare a conoscere meglio un contesto repressivo assai più ampio, praticamente globale. Oltre che in Marocco, in almeno altri 80 stati sono in vigore leggi che criminalizzano la blasfemia, definita nei codici penali come reato di “offesa alla religione”, “offesa ai sentimenti religiosi”, “offesa alle figure sacre della religione” e in altri modi ancora. Se nella maggior parte di questi stati è applicata la shari’a o l’Islam è la principale o esclusiva religione riconosciuta, non mancano eccezioni rilevanti: l’India e la Russia su tutte, dove le religioni dominanti influenzano le leggi e sono in strettissimo rapporto con poteri autoritari. A proposito della Russia, basti ricordare la vicenda del gruppo punk femminista Pussy Riot, tre artiste del quale nel 2012 vennero condannate a due anni di carcere per “teppismo motivato da odio religioso”, per aver messo in scena nella cattedrale di Cristo Re a Mosca uno spettacolo ritenuto blasfemo nei confronti della chiesa ortodossa. Per inciso, in Italia la blasfemia non è più un reato solo dal 1999: da allora è considerato un illecito amministrativo, punito con una sanzione che può superare i 300 euro. Persino nel mondo del calcio, non è raro che un calciatore che bestemmi sul campo di gioco sia punito con una giornata di squalifica: è quanto è successo nell’ultimo campionato di serie A, tra gli altri, al calciatore della Roma Brian Cristante e a quello della Lazio Manuel Lazzari. In almeno quattro stati - Mauritania, Brunei, Iran e Pakistan - e in quelli settentrionali della Nigeria, per il reato di blasfemia è prevista addirittura la pena di morte. Quello del Pakistan, dove la sezione 298-C del codice penale è applicata decine di volte all’anno senza che per fortuna vengano eseguite condanne a morte, è il caso più evidente da cui arriva la storia più conosciuta al mondo: quella di Aasia Bibi, la donna di religione cristiana che per quasi 10 anni ha rischiato che venisse eseguita la condanna a morte, infine annullata. Le organizzazioni per i diritti umani denunciano da decenni come le norme contro la blasfemia vigenti in Pakistan siano utilizzate per vendetta personale, per dispute private, sulla base di accuse del tutto inventate così come per punire, oltre ai cristiani, anche gruppi islamici considerati eterodossi, come la comunità ahmadiyya. Almeno altri due casi nel mondo sono diventati noti a seguito dell’impegno delle organizzazioni per i diritti umani. Il primo è quello di Mohammed Mkhaïtir, un attivista della Mauritania arrestato all’inizio del 2014 e condannato a morte per aver pubblicato su Facebook un post giudicato blasfemo, nel quale aveva criticato l’uso della religione per giustificare pratiche discriminatorie contro la casta cui apparteneva. La condanna è stata annullata solo alla fine del 2017. Rischia invece ancora la pena di morte, anche se per il momento una prima condanna è stata annullata, il giovane cantante nigeriano Yahya Sharif Aminu, giudicato blasfemo contro il profeta dell’Islam per estratti di suoi brani che aveva fatto circolare via WhatsApp. In ciascuno di questi casi, ed è comunque una costante nei tre stati menzionati, vi è stata una forte pressione nei confronti delle autorità affinché emettessero condanne esemplari: Yahya Sharif Aminu è stato arrestato dopo che una folla di facinorosi aveva assaltato la sua abitazione, Mohammed Mkhaïtir ha continuato a ricevere minacce da parte di gruppi di fanatici pronti ad eseguire loro stessi la condanna a morte annullata. In Pakistan, coloro che si opponevano alle leggi sulla blasfemia (avvocati e persino ministri) sono stati assassinati e la stessa Aasia Bibi è stata costretta all’esilio. Dunque, quello di Ikram Nazih, lungi dall’essere isolato, è piuttosto l’ennesimo grave caso di uso sproporzionato delle norme contro la blasfemia. Ci ritroviamo la tendenza dei governi a rafforzare il consenso utilizzando norme a protezione della religione di stato e, soprattutto, la conferma che i profili social sono sotto costante monitoraggio: quando non fa prima qualche zelante credente che segnala, ci arrivano i sempre più numerosi guardiani e spioni della rete. Nelle vicende delle Pussy Riot e di Mohammed Mkhaïtir le leggi contro la blasfemia sono state usate per intenti evidentemente politici; in quella di Aasia Bibi e in decine analoghe alla sua, per perseguitare una minoranza religiosa; in quelle di Yahya Sharif Aminu e di Ikram Nazih per punire, ricorso a un verso di Franco Battiato, “un po’ di leggerezza e di stupidità”. In ogni caso, quando un governo criminalizza l’offesa alla religione non è mai un buon segno. Le storie che ho raccontato si sono concluse con assoluzioni o mitigazioni delle condanne. C’è da sperare che, anche nel caso di Ikram, alla spietatezza del giudice di primo grado seguano la clemenza e la saggezza del giudice d’appello. Afghanistan. Sostenere chi tiene in piedi la bandiera della pace di Emanuele Giordana Il Manifesto, 5 agosto 2021 In queste ore l’emergenza umanitaria in Afghanistan ci dice che sono scarse le forze per farvi fronte. Non basteranno le iniziative dell’Onu, pur sempre benvenute, né la testardaggine di Ong che ad ogni costo sono rimaste - Emergency, Pangea, Nove, Intersos, Msf solo per citarne alcune - mentre gli eserciti (il nostro costato in vent’anni 8,5 miliardi di euro) si ritiravano in buon ordine, rapidi e invisibili come vogliono i manuali. Una grande preoccupazione attraversa il cuore dei tanti afgani che in queste ore vedono avvicinarsi l’orda talebana opposta a un governo che non sembra aver un piano preciso né su come condurre la guerra né su come gestire il negoziato di pace. Non c’è purtroppo da stupirsi visto che i maestri, del governo e dell’esercito afgano, sono degli strateghi che la guerra l’hanno persa così come hanno perso la scommessa della pace: con un negoziato ambiguo e frettoloso, premessa - per come è stato condotto - di una fragilità dell’esecutivo di Kabul che la pax americana con la guerriglia in turbante ha solo rafforzato. Ma al di là di come verrà condotta la guerra, che ora riprende con nefasti raid aerei e un aumento forsennato di vittime civili e sfollati, non è mai inopportuno perdere di vista la pace, anche se questa appare ora un miraggio lontano o, per alcuni, un’impossibile realtà. Non è solo questione di ottimismo ma di responsabilità. Una responsabilità che il governo dell’Italia, quale ne sia il colore, deve continuare ad assumersi. In queste ore l’emergenza umanitaria in Afghanistan ci dice che sono scarse le forze per farvi fronte. Non basteranno le iniziative dell’Onu, pur sempre benvenute, né la testardaggine di Ong che ad ogni costo sono rimaste - Emergency, Pangea, Nove, Intersos, Msf solo per citarne alcune - mentre gli eserciti (il nostro costato in vent’anni 8,5 miliardi di euro) si ritiravano in buon ordine, rapidi e invisibili come vogliono i manuali. La fragile struttura dell’associazionismo afgano, le reti di donne, i sindacati, le ong locali che assistono anziani e bambini, sono già state lasciate al loro destino da tempo, bloccate dal divieto italiano ed europeo di dar fondi diretti a soggetti locali che non siano il governo, sia da una solidarietà internazionale che si è rivolta altrove: alla Siria, alla Libia, al Covid. L’emergenza però è adesso e la responsabilità, quali che siano i nuovi fronti aperti, rimane anche se l’ultimo soldato è partito. La responsabilità e l’emergenza richiedono dunque un impegno preciso soprattutto da chi la guerra ha condotto per vent’anni, accompagnata dalla promessa, prima e dopo il ritiro, che il mondo, l’Europa, l’Italia non avrebbero abbandonato l’Afghanistan. Se dunque quelle parole non sono vuota retorica e se la tragedia di queste ore non resta una buona scusa per non far nulla - in nome del ritornello che tanto in Afghanistan tutto è inutile - è l’ora di passare dalle parole ai fatti. Questi fatti potrebbero riguardare parte dei 21 milioni destinati all’Afghanistan nel decreto missioni testé approvato in parlamento. Decreto in cui si dice che “è indispensabile un approccio multidimensionale che coinvolga attivamente la società civile nei processi di pace, includendo donne e giovani come chiedono le risoluzioni delle Nazioni Unite”. Poiché questo rafforzamento passa evidentemente per un sostegno diretto alle tante reti sorte in questi anni in Afghanistan, sarebbe giusto, sensato e indispensabile che parte di questi fondi andassero a sostenere le loro attività, che potrebbero agire sull’emergenza nel breve periodo ma soprattutto resistere sul lungo, che vincano i Talebani, i signori della guerra o il governo di Ashraf Ghani. Per far questo vanno rafforzate anche le attività dei tanti soggetti italiani rimasti in Afghanistan e vanno inviati altri a intervenire a fianco di una società civile che è il vero baluardo che tiene in piedi la bandiera della pace, della solidarietà, dei diritti, dell’empowerment femminile, dell’accesso ai servizi. Un governo può farli diventare legge ma solo una società civile forte può sorvegliare che si trasformino in realtà. Afghanistan, ribellione contro l’avanzata talebana di Giuliano Battiston Il Manifesto, 5 agosto 2021 La situazione resta tragica a Lashkargah con i civili intrappolati nelle loro abitazioni. I Talebani continuano l’offensiva militare su alcuni capoluoghi di provincia, specie a Lashkargah, nella provincia meridionale dell’Helmand, ma le città si ribellano al grido di “Allah Akbar”, “Dio è grande”. L’iniziativa è partita tre notti fa a Herat, dopo che le forze speciali ne avevano sventato la conquista. Dai tetti delle case, di sera, si sono rincorse le invocazioni: “Allah Akbar, Allah Akbar, Allah Akbar”. Per lunghi minuti le voci dei residenti, bambini e adulti, uomini e donne, si sono accavallate. Invocano aiuto e protezione, ma allo stesso tempo protestano: contro i Talebani. La protesta ieri si è diffusa in molte altre città, fino a diventare la più importante mobilitazione della società dai tempi delle “marce per la pace”. Le voci non si sono però alzate a Lashkargah. I civili sono intrappolati da giorni nelle loro abitazioni. Pensano a salvarsi. Si combatte dentro la città, “a poche centinaia di metri” dal nostro ospedale, riferisce il personale di Emergency. Anche ieri gli Stati Uniti hanno bombardato postazioni e depositi dei Talebani nella periferia di Lashkargah. I bombardamenti sono uno dei pochi mezzi a disposizione per frenare l’avanzata talebana. Ma causano vittime civili e sono una risorsa limitata. Soprattutto dopo il 31 agosto, data entro la quale anche l’ultimo soldato sarà rientrato negli Stati Uniti. Cosa accadrà dopo, quanto e come Washington vorrà e potrà controllare dal cielo l’avanzata territoriale dei Talebani è tutto da vedere. Per ora si guadagna tempo per permettere alle forze di sicurezza e al governo di riprendere il controllo della situazione. Il Presidente Ashraf Ghani in un discorso alle Camere riunite del Parlamento ha detto che entro sei mesi la situazione tornerà stabile. Per poi criticare la “scelta improvvisa” di Washington sul ritiro. Ieri è stata diffusa la notizia che Mawlawi Talib, uno dei comandanti Talebani che coordinano l’assalto a Lashkargah, sarebbe tra i 5.000 prigionieri rilasciati dal governo nel 2020. L’accordo bilaterale tra Washington e i Talebani firmato a Dona nel febbraio 2020 prevedeva il rilascio dei detenuti. Kabul non era parte di quell’accordo, ma il presidente Ghani, dopo aver tentato a lungo di resistere, ha ceduto alle pressioni americane. Gli era stato assicurato che quei detenuti non sarebbero tornati sul campo di battaglia e che il loro rilascio avrebbe favorito il negoziato con i Talebani. Il dialogo intra-afghano è cominciato nel settembre 2020, ma non ha prodotto nulla di concreto. E parte di quei detenuti ora combattono le forze governative. I Talebani hanno rivendicato anche l’autobomba di ieri contro la residenza di Kabul del ministro della Difesa, Bismillah Khan, antagonista di lungo corso. L’attentato ha causato almeno 8 morti. Poco prima, nella casa del ministro c’era anche Ahmad Masud, figlio del “leone del Panjshir” e uno dei politici che da mesi chiama alla mobilitazione nazionale per una “seconda resistenza”. L’offensiva per la conquista dei capoluoghi di provincia prosegue anche al nord. Ieri i Talebani hanno cinto d’assedio la città di Shebergan, nella provincia di Jowzyan, feudo del maresciallo Dostum. Da mesi in Turchia, nelle scorse ore si sono moltiplicate le voci su un suo possibile rientro. Mira a imitare le gesta di un altro ex signore della guerra, Ismail Khan, che ha mobilitato uomini e mezzi per aiutare le forze di sicurezza a resistere all’assalto dei Talebani nella città di Herat. Ma Dostum potrebbe essere meno fortunato: distretti e province settentrionali sono caduti come birilli, nelle scorse settimane. Il suo intervento, sempre che arrivi, potrebbe essere tardivo. L’offensiva militare continua, ma la leadership talebana continua a dirsi pronta al negoziato. L’inviato speciale Usa Zalmay Khalilzad, artefice dell’accordo di Doha, ammonisce: se arrivano al potere con la forza, quello dei Talebani sarà un governo pariah. L’inviato dell’Unione europea minaccia il taglio dei fondi. Ma più passa il tempo, più territorio conquistano, maggiori saranno le loro richieste. Ora non si accontentano più della metà del potere. Pensano di avere diritto al 70-80 per cento. Così sostiene tra gli altri l’ex capo dei servizi segreti e candidato alla presidenza, Rahmatullah Nabil. Lo conferma indirettamente anche Khalilzad. I talebani pensano di usare anche con gli afghani la strategia adottata con gli americani: usare la leva militare per ottenere concessioni politiche. Ma potrebbero aver fatto male i conti, dimenticando che nel Paese non ci sono solo territori da conquistare, ma anche una popolazione civile. Determinata, soprattutto nelle città, a non farsi soggiogare o sottomettere. Le invocazioni serali, gli “Allah Akbar” che si rincorrono sui tetti e per le strade, dove giovani e adulti indossano la bandiera nazionale, sono un segnale inequivocabile, anche se forse effimero: sul piano militare i Talebani sono forti, ma debolissimi su quello sociale. Con la loro insistenza sull’opzione militare, con la loro violenza che, torna a denunciare Human Rights Watch, si fa spesso rappresaglia, stanno facendo un favore al nemico principale, il governo di Kabul. Non gode di grande legittimità agli occhi della popolazione, ma si sta rafforzando grazie alla crescente opposizione ai Talebani. Che ieri hanno reso pubblico un comunicato in cui dicono che quegli “Allah Akbar” sono falsi. Al contrario, servono a dire che c’è un altro Islam oltre a quello con cui i Talebani giustificano il loro jihad. Sempre meno comprensibile ora che le truppe straniere si ritirano.