Margara, giurista costituzionalmente orientato di Andrea Pugiotto Il Manifesto, 4 agosto 2021 Il 29 luglio cadeva il quinto anniversario della scomparsa di Alessandro Margara, ricordato da La Società della Ragione e dall’Archivio Margara - come ogni anno - con un seminario ispirato alle sue battaglie di scopo. Se la toponomastica serve a coltivare la memoria collettiva, lascia increduli che la sua città, Firenze, non gli abbia ancora dedicata una via o una piazza. Le opere e i giorni di Margara lo meritano: magistrato, presidente di tribunale di sorveglianza, capo del DAP, garante dei diritti dei detenuti per la Regione Toscana, è stato “il Basaglia dei detenuti” (così Giovanni Maria Flick, che da Guardasigilli lo volle a capo dell’amministrazione penitenziaria), un “cavaliere dell’utopia concreta” (così Franco Corleone che, da sottosegretario alla Giustizia, con lui varò il nuovo regolamento penitenziario, abrogativo di quello del 1931 improntato alla concezione fascista di una pena esclusivamente punitiva e retributiva). Chi lo ha avuto compagno di strada ne è stato profondamente contagiato, nell’intelligenza e nell’animo. Lo si percepisce rileggendo le partecipate testimonianze in memoria di Margara - agevolmente reperibili in rete - raccolte dal Consiglio regionale toscano in occasione dei suoi funerali. Chi invece - come me - di Margara ha incontrato non la parola ma gli scritti e gli atti giudiziari, ne ha comunque un’idea precisa: quella di un giurista costituzionalmente orientato. Prova ne sia un tema prepotentemente tornato alla ribalta: l’ergastolo ostativo, di cui la Corte costituzionale recentemente ha accertato (ma non ancora dichiarato) l’illegittimità, concedendo al Parlamento un anno di tempo per modificarne l’attuale regime (ord. n. 97/2021). Problema capitale, quello dell’ergastolo senza scampo, che della pena capitale è l’ambiguo luogotenente. Lo aveva capito bene Margara, molto prima di noi. Noi che abbiamo scoperto la variante ostativa dell’ergastolo solo grazie alla narrazione tenace degli “uomini ombra” di cui Carmelo Musumeci ha saputo farsi megafono. Noi che, prima, ne ignoravamo l’esistenza, nonostante fosse sotto i nostri occhi fin dal 1992, quando venne introdotto con decretazione d’urgenza. Margara, invece, è stato capace di pre-vedere ciò che noi non abbiamo visto per troppo tempo. Risale infatti a ventun anni fa l’atto di promovimento con cui il Tribunale di sorveglianza di Firenze (presidente Margara) chiamò per la prima volta la Consulta a pronunciarsi su un automatismo legislativo che - in assenza di collaborazione con la giustizia - costringe l’ergastolano dietro le sbarre fino alla morte, privato di qualunque misura alternativa alla detenzione inframuraria. Come si fa con le patate bollenti, allora la Corte costituzionale si liberò sbrigativamente della quaestio. La dichiarò manifestamente inammissibile (ord. n. 359/2001), sperando che la perentorietà della formula ne scoraggiasse la riproposizione. Calcolo sbagliato. Evidentemente non conosceva Margara, che confermò tutti i propri dubbi di costituzionalità. Costretta così ad affrontare nel merito la quaestio tenacemente riproposta, la Consulta la respinse come infondata (sent. n. 135/2003), con argomentazioni che, oggi, gli stessi giudici costituzionali hanno definitivamente superato nelle loro più recenti e pertinenti decisioni (nn. 253/2019, 263/2019, 97/2021). Se il destino dell’ergastolo ostativo è costituzionalmente segnato, lo si deve a quanto allora tracciato - in splendida solitudine - da Margara. Quel sentiero è stato disboscato, allargato e finalmente percorso da giudici competenti, incalzati da una dottrina meno distratta e più consapevole. Sordo il legislatore davanti al monito dell’ord. n. 97/2021, toccherà ai giudici costituzionali pronunciarsi definitivamente nel maggio 2022. Ben sapendo - come ripeteva Alessandro Margara - che “la Costituzione chiede di fare cose difficili”. Ritornano i colloqui in carcere, ma al 41 bis resta il vetro per i figli sotto i 12 anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 agosto 2021 La restrizione dei colloqui, diventata necessaria per la pandemia, sta creando in diversi bambini delle problematiche psicologiche, molti avvocati denunciano questa discriminazione e chiedono che il divieto venga tolto. Mentre, con tutte le accortezze necessarie per proteggersi dal Covid, i colloqui in carcere sono stati ripristinati, i bambini dei detenuti al 41 bis sono ancora obbligati ad effettuarli dietro un vetro divisore. Sono passati oramai due anni da questa restrizione diventata necessaria nel periodo emergenziale, ma sta creando in diversi bambini delle problematiche psicologiche dovute dall’assenza dei contatti fisici con i propri padri reclusi in regime duro. Nel 2009 una circolare del Dap aveva disposto l’abolizione del divisorio - Ricordiamo che in seguito alla legge del 2009 che ha inasprito il 41 bis, la circolare del Dap aveva disposto che “i colloqui del detenuto in regime di 41 bis che si svolgano esclusivamente con figli minori di anni 12 potranno avvenire senza vetro divisorio”. Quindi, i minori di 12 anni possono effettuare i colloqui con i propri padri al 41 bis, potendosi abbracciare. Ciò è di fondamentale importanza per tutelare l’esigenza di affettività dei bambini nei confronti del genitore detenuto e per evitare che riportassero conseguenze psicologiche negative dovute al prolungato distacco dalla figura genitoriale. Ma, com’è detto, questa possibilità è stata sospesa a causa della pandemia. Però sono arrivati i vaccini, il mondo libero ha riacquistato la libertà di movimento con tutte le accortezze necessarie. Anche in carcere sono state allentate le restrizioni e ripristinati i colloqui con le dovute precauzioni. Ma al 41 bis tutto è rimasto ancora in sospeso. I detenuti disposti a loro spese a far effettuare i tamponi ai figli - C’è l’avvocata Maria Teresa Pintus del foro di Sassari che segue diversi detenuti al 41 bis e denuncia questa problematica. “I miei assistiti - spiega l’avvocata Pintus - hanno comunicato di essere disponibili a sottoporre a tampone a pagamento a proprie spese per i figli; disponibilità ad effettuare la quarantena dopo il colloquio con i propri figli, ma gli viene impedito lo stesso nonostante i detenuti negli altri regimi possono fare i colloqui!”. Recentemente, per un detenuto al 41 bis del carcere Bancali di Sassari, l’avvocata Pintus ha fatto istanza alla magistratura di sorveglianza. Ebbene è arrivato il rigetto, con queste motivazioni: “Occorre considerare che la pandemia è tuttora presente nel territorio nazionale, che di recente si sono affermate nuove varianti del virus, rispetto alle quali i vaccini in uso non sempre mantengono piena efficacia”. Quindi per l’ufficio di sorveglianza è giusto mantenere il vetro divisorio tra il detenuto al 41 bis e i bambini minori di 12 anni. A pensare che il detenuto in questione, a breve, non potrà più riabbracciare la figlia visto che compirà 12 anni e quindi, per la dura legge del 41 bis, presto sarà “maggiorenne”. Gli avvocati chiedono il ripristino dei colloqui senza vetro - Un problema denunciato anche dagli avvocati Sara Peresson del Foro di Udine ed Eugenio Rogliani del Foro di Milano. Recentemente hanno inviato una lettera a diverse autorità istituzionali, a partire dal ministero della Giustizia, per chiedere il rispristino dei colloqui senza vetro divisore per i detenuti al 41 bis del carcere di Opera. Gli avvocati hanno sottolineato che con la nota del 22 giugno scorso avente per oggetto “Monitoraggio dei casi di Covid-19 e misure da adottare anche in tema di colloqui”, il Dap ha dettato le linee guida per il graduale ripristino delle ordinarie condizioni del trattamento penitenziario. In particolare, con riguardo all’ipotesi in di cui il detenuto ed il visitatore siano vaccinati o comunque quest’ultimo disponga di altri titoli idonei per accedere alla certificazione verde, il Comitato Tecnico Scientifico si è detto favorevole ad aumentare il numero dei colloqui e a consentire il contatto ravvicinato tra detenuti e visitatori, anche senza mezzi divisori, purché siano indossati i dispositivi di protezione individuale. Gli avvocati Peresson e Rogliani sottolineano che queste disposizioni sono state recepite per i detenuti “ordinari”, ma denunciano il fatto che per i 41 bis nulla è cambiato. Di fatto, si tratta di una discriminazione, senza tener conto del diritto all’affettività dei bambini. In sostanza, stanno pagando una colpa non loro. “Maggiorenni” con 6 anni di anticipo e costretti agli incontri in “acquario” All’età di 12 anni diventano “maggiorenni” i figli dei detenuti al 41 bis. Parliamo di una delle restrizioni che avvengono al carcere duro. Infatti, per i colloqui visivi con i figli minori, in seguito alla legge del 2009 la circolare del Dap aveva disposto che “i colloqui del detenuto in regime di 41 bis che si svolgano esclusivamente con figli minori di anni 12 potranno avvenire senza vetro divisorio, in sale colloquio munite di impianti di videoregistrazione (con ovvia esclusione del sonoro) e che, nel caso di colloqui con più persone, il colloquio senza vetro divisorio sarà limitato ai soli figli minori di anni 12, e non eccederà della durata complessiva del colloquio”. A 12 anni, dunque, il figlio risulta “adulto” e il colloquio deve essere effettuato tramite vetro divisorio. Però prima della legge del 2009 che inasprì il regime speciale, la restrizione era diversa: c’era la possibilità di effettuare una parte del colloquio visivo con i figli minori di anni 16 senza il vetro divisorio, per tutelare l’esigenza di affettività dei bambini nei confronti del genitore detenuto e per evitare che riportassero conseguenze psicologiche negative dovute al prolungato distacco dalla figura genitoriale. Ora però, quando il bambino raggiunge il dodicesimo anno di età, il colloquio avviene come il resto degli adulti: si svolge in un locale di solito molto piccolo, una sorta d’acquario col vetro divisorio fino al soffitto, telecamera, citofono per parlare con la madre o il padre detenuto. Poi ci sono le stanze senza vetro divisorio che servono per i dieci minuti di colloquio consentiti ai figli minori di 12 anni: non hanno il vetro fino al soffitto ma un bancone che consente il contatto fisico comunque sottoposto a videoregistrazione da parte di una telecamera. Stando ai racconti tratti dal primissimo libro inchiesta sul 41 bis scritto a quattro mani dai radicali Sergio D’Elia e Maurizio Turco, in queste sale si verificano di solito le scene più penose: bambini in tenera età che - staccati dalla madre che non può accompagnarli - piangono, urlano, scappano dal padre che non hanno mai visto o non riconoscono più dopo tanti anni. Sono diffusi, infatti, i casi di figli minori di detenuti in 41 bis che sono sottoposti a trattamenti psicoterapeutici. Ora, da due anni, a causa della pandemia, anche i bambini minori di 12 anni sono costretti a fare un colloquio dietro “l’acquario”, il vetro divisore. Mentre i colloqui sono stati rispristinati con le dovute accortezze, per i 41 bis tutto è rimasto invariato. Il trauma psicologico della pandemia, le inevitabili restrizioni, hanno riguardato anche il mondo libero. Soprattutto i bambini. Un doppio trauma per quelli che da due anni a questa parte non riescono ad abbracciare i propri genitori detenuti. “La morte di Lamine Hakimi va chiarita”. Interrogazione parlamentare di +Europa di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 agosto 2021 Un’interrogazione parlamentare a risposta scritta alla ministra di Giustizia Marta Cartabia per fare luce sulla morte di un detenuto che sta per finire nel dimenticatoio, come se quella persona non fosse deceduta mentre era nelle mani dello Stato, come fosse uno di quei poveri cristi ingoiati dal mare nel mezzo di una traversata. È la morte di Lamine Hakimi, deceduto il 4 maggio 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, un mese dopo essere “stato vittima delle gravissime azioni di violenza commesse dagli agenti di polizia penitenziaria in occasione della “perquisizione” del 6 aprile 2020. A presentarla è stato il deputato Riccardo Magi, presidente di +Europa. Di Hakimi si sa poco: che è nato in Algeria il 26 giugno 1992, che forse soffriva di patologie psichiatriche, e che, dopo l’autopsia effettuata “presso l’istituto di Medicina legale dell’Ospedale civile di Caserta”, come afferma il Dap nella risposta inviata al Garante dei detenuti campano Samuele Ciambriello, la sua salma è stata rispedita in patria. Dove esattamente? Chi l’ha richiesta? In che modo è avvenuto il rimpatrio? A chi è stato riconsegnato il corpo? L’autopsia è “stata effettuata alla presenza di un difensore delle persone offese oppure no”? E dopo quel 6 aprile è “stato sottoposto a visita medica, e di quali patologie soffriva”? Magi pone queste domande alla Guardasigilli e chiede anche “se era prescritta una terapia già prima del 6 aprile e quale fosse”, e “se la terapia somministrata ad Hakimi, dopo il 6 aprile, venisse dallo stesso assunta “a vista”, come stabilito dai protocolli”. Il calvario dell’ultimo mese di Hakimi viene ripercorso da Magi che, citando l’ordinanza del Gip, scrive: “Il detenuto sarebbe stato prelevato dalla cella e picchiato da diversi agenti lungo il percorso verso il Reparto Danubio. Stando alle testimonianze dei detenuti che hanno assistito alle violenze, Hakimi avrebbe subìto dagli agenti calci in bocca, pugni, bastonate e manganellate, e l’aggressione sarebbe continuata anche nell’area passeggio denominata “il fosso”. E ancora: “Altri detenuti hanno riportato alla stampa le seguenti dichiarazioni: “Gli davano calci, cazzotti e manganelli. E l’altro poliziotto mi lasciò a me e andò dietro a dire: “No, no, no, a calci no, non lo uccidiamo perché se no lo paghiamo” e: “È stato picchiato da un agente il quale ha schiacciato la testa di Lamine contro il pavimento, facendogli uscire sangue da occhi, naso e bocca e poi lo colpiva alle costole e gambe”. Dopo le violenze, ricostruisce il deputato, “Lamine sarebbe rimasto sei giorni in cella con un altro detenuto, per poi essere trasferito in un’altra cella, da solo, con la sola compagnia di un piantone per tre ore al giorno. Dopo il 1° maggio sarebbe stato trasferito presso la cella 19 del primo piano del Reparto Danubio; in questo periodo - dal 6 aprile al 4 maggio - Hakimi avrebbe richiesto più volte la presenza fissa di un piantone e lamentato forti dolori alla nuca”. La sua morte è stata stralciata, dal Gip, dal fascicolo sulla “mattanza”. E il suo nome ormai è sparito anche dal database del Dap. Perché la violenza in carcere non è il solo problema di Giusy Santella mardeisargassi.it, 4 agosto 2021 La violenza non è il solo problema in carcere: questo è quanto emerge dal Rapporto di metà anno presentato il 29 luglio dall’Associazione Antigone. In un momento in cui il carcere è tornato nel dibattito pubblico, i dati diffusi ci invitano ad andare al di là delle immagini della mattanza di Santa Maria Capua Vetere e a portare avanti una riflessione più ampia sul tema delle condizioni di detenzione, a cominciare dall’endemico problema del sovraffollamento. Le persone recluse negli istituti di pena italiani sono attualmente 53637, con un tasso di sovraffollamento ufficiale del 105% circa. In realtà, il tasso reale si aggira intorno al 113%, considerato che i posti effettivamente disponibili sono circa 47mila. Ciò incide notevolmente sulle condizioni di detenzione e di promiscuità che hanno rappresentato un altissimo rischio di contagio nell’ultimo anno. Il trend al ribasso che si era registrato durante la prima fase pandemica - le persone recluse erano passate da 62mila a 52mila circa - si è invertito a partire dal dicembre scorso a causa dell’inefficacia delle misure deflattive previste e, in particolare, della scarsa volontà di ricorrere a misure alternative alla detenzione che avrebbero potuto riguardare quasi 20mila detenuti, il 36% del totale, che devono scontare una pena inferiore ai tre anni. Con tali tipologie di pena il tasso di recidiva si abbassa vertiginosamente, eppure continuano a prevalere le istanze punitive che individuano il carcere come unica soluzione e risposta alla richiesta di sicurezza dell’opinione pubblica. Circa l’80% delle persone che entrano in carcere successivamente commette un altro reato. Ciononostante, sembra che l’unica soluzione prospettata dai nostri esponenti politici per la piaga del sovraffollamento sia la costruzione di nuovi istituti di pena. Mentre sempre più detenuti sono costretti a condividere pochi metri quadrati con tante, troppe persone, e lo stato di emergenza perdura, le uniche misure previste sono restrizioni alle attività rieducative e risocializzanti: nel 24% degli istituti visitati da Antigone nella prima parte del 2021 si è passati dal regime delle celle aperte a quello delle celle chiuse in conseguenza della pandemia. Il tempo trascorso in carcere diventa così tempo vuoto e insieme patogeno, alimentando il disagio psichico. Basti pensare che sono già stati 18 i suicidi registrati nella prima parte dell’anno, centinaia gli atti di autolesionismo, altrettante le grida d’aiuto che troppo spesso non siamo stati in grado di cogliere. Per ridurre il numero delle persone detenute si dovrebbe operare inoltre una riforma che riguardi la disciplina sulle droghe: 1 detenuto su 4 è tossicodipendente, 1 su 3 è in carcere per violazione della legge sugli stupefacenti, nonostante sia ampiamente dimostrata l’inefficacia della detenzione in tal senso poiché l’esiguità del personale e degli strumenti a disposizione non permette di avviare un reale percorso di cura e reintegro in società. Solo il 69% delle persone recluse sta scontando una condanna definitiva, mentre la restante parte è in attesa di giudizio o appellante. In particolare, dunque, si potrebbe incidere sull’istituto della custodia cautelare, di gran lunga inflazionato, in un ordinamento in cui in linea di principio il carcere rappresenta l’extrema ratio, cui ricorrere solo laddove prevalenti esigenze di sicurezza lo richiedano. Invece, non solo si ricorre in maniera ordinaria alla pena detentiva, ma la si fa diventare mera custodia e repressione. Basti pensare che 3 miliardi sono stati destinati al finanziamento del sistema carcerario lo scorso anno - a fronte di soli 280 milioni per il sistema di giustizia minorile e le misure alternative alla detenzione - dei quali ben il 68% sono utilizzati per la sola custodia e per il corpo di polizia penitenziaria, di gran lunga superiore alla figure appartenenti al settore propriamente trattamentale, come funzionari giuridico-pedagogici, assistenti sociali, mediatori e psicologi, il cui contributo è però fondamentale per vivere dignitosamente la propria pena. La media è di circa 90 detenuti per ciascun educatore, inoltre in più della metà degli istituti visitati da Antigone non vi è un direttore incaricato solo per quella struttura. Ciò comporta chiaramente dei complicati problemi di gestione della vita detentiva e uno scollamento difficile da rimarginare. Le finalità rieducative sono così mere enunciazioni di principio che si dissolvono nel nulla in luoghi che non sono in grado neppure di essere umani: il regolamento penitenziario entrato in vigore nel 2000 prevede la necessità di una doccia in ciascuna camera di pernottamento, ma solo il 36% degli istituti monitorati si è adeguato a tale disposizione. Quasi il 50% delle carceri ha schermature alle finestre che non permettono il regolare passaggio di luce e aria, costringendo così le persone detenute a permanenze patogene e inumane, in particolare quando le temperature sono alte. Addirittura, nel 30% delle carceri manca acqua calda all’interno delle celle e in talune strutture ci sono ancora wc a vista. Potremmo continuare così all’infinito per poi chiederci a cosa serva davvero una pena così congegnata, tipica di uno Stato che abbandona i suoi cittadini e svende illusioni securitarie, criminalizzando sempre più spesso le fasce più povere e deboli della popolazione. Sì, le immagini di Santa Maria Capua Vetere ci fanno venire i brividi e molto ci sarebbe da dire sulle modalità con cui si è deciso di indagare su quanto avvenuto nelle carceri nella prima fase della pandemia, dato che al momento la Commissione ad hoc costituita per volere della Ministra Cartabia è formata da appartenenti alla stessa amministrazione penitenziaria, in assenza di figure terze e imparziali come Garanti e società civile. Ma non bisogna illudersi che i problemi del carcere si risolvano in tali casi specifici: tutto ciò che accade è espressione di un sistema malato e inumano, da cui non possono che nascere frutti malati e incattiviti. Violenze nelle carceri: iniziati i lavori della Commissione ispettiva DAP gnewsonline.it, 4 agosto 2021 Prima riunione per la Commissione ispettiva costituita per fare luce sulle rivolte avvenute negli istituti penitenziari nel marzo 2020. Questa mattina, nella sede del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il Presidente Sergio Lari ha incontrato i sei componenti Rosalba Casella, Giacinto Siciliano, Francesca Valenzi, Marco Bonfiglioli, Luigi Ardini e Paolo Teducci (che ha sostituito Riccardo Secci). “Con questa commissione, il Ministero conferma la volontà di fare luce sui fatti dell’anno scorso, in una prospettiva di totale trasparenza”, ha detto il capo del Dap, Bernardo Petralia, aprendo i lavori. La Commissione è stata suddivisa in tre sottogruppi di lavoro, allo scopo di evitare eventuali fattori di incompatibilità territoriale. Ad ogni sottogruppo sono stati assegnati, equamente suddivisi, gli istituti penitenziari che saranno oggetto di attività ispettiva: in totale 22 sedi. Da metà settembre, cominceranno le visite ispettive negli istituti interessati dalle rivolte dell’anno scorso da parte dei componenti della Commissione. A conclusione dei lavori, entro sei mesi, la commissione consegnerà una relazione ai vertici del Dap sull’origine delle rivolte e sui successivi comportamenti adottati dagli operatori. Il presidente della Commissione, che ha avuto un colloquio con la Ministra della giustizia, Marta Cartabia, ha avuto e manterrà un’interlocuzione costante con il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Giustizia, primo sì ma la maggioranza va in direzioni opposte di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 4 agosto 2021 La riforma Cartabia approvata Clla camera, dopo l’estate va al Senato. L’ex ministro Bonafede cerca di tenere uniti i 5 Stelle: è ancora il mio testo. Diversi assenti e contrari nel Movimento. Scontro sugli ordini del giorno. Il governo non concede la salvaguardia per i reati ambientali. La Camera approva la riforma del processo penale presentata dalla ministra della giustizia Marta Cartabia. Ma nell’ultimo intervento prima del voto l’ex ministro e immediato predecessore Alfonso Bonafede, che ha guidato la resistenza 5 Stelle contro le proposte iniziali di Cartabia, ricorda all’aula che si tratta di un testo che porta ancora la sua prima firma. Ad avversari e alleati, in buona parte coincidenti, Bonafede dice: “Il Movimento non accetterà passi indietro rispetto a quello fatto dai due governi precedenti”. Due governi, anche quello con Salvini. E ha ragione, perché la norma più contestata, quella che cancella la prescrizione dopo la sentenza di primo grado e che è rimasta nel testo votato ieri in prima lettura, arriva direttamente dal passato gialloverde. Anche se sono stati aggiunti correttivi, un complesso di norme che però allontana la riforma dall’obiettivo dichiarato di ridurre i tempi dei processi. Il nuovo istituto della improcedibilità (una prescrizione processuale) è alla fine diluito per i prossimi tre anni ed escluso per alcune categorie di reati (una lista che comincia con mafia e terrorismo e che prevedibilmente dovrà allungarsi). Si capisce lo sforzo di Bonafede che deve cercare di tenere il gruppo 5 Stelle, nel quale sono ancora molti a giudicare malissimo la riforma, anche chi vota sì. Il dissenso viene fuori in modo più contenuto rispetto ai 40 assenti sulle pregiudiziali, ma i voti che mancano sono il 20% di quelli del gruppo. Tanti in missione (14) ancora di più assenti (16) un’astenuta (Masi) e due contrari (Frusone e Vianello). Rispetto alla maggioranza teorica che è sempre vastissima (oltre 550 deputate e deputati) il sì finale resta basso, 396 a favore, 3 astenuti e 57 contrari (Fratelli d’Italia e gli ex 5 Stelle che non hanno votato la fiducia a Draghi). Ancora più numerose le defezioni nel campo di Forza Italia (26 assenti su 77) mentre percentualmente minori sono le assenze di Lega e Pd. I democratici rivendicano la mediazione sulla prescrizione e la novità della improcedibilità, “atterraggio morbido” la definisce il capogruppo in commissione Alfredo Bazoli che parla di una “ambiziosa e innovativa riforma organica, in un corretto equilibrio tra efficienza e garanzie”. Occhio ai tempi, però. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza promette l’approvazione del disegno di legge entro la fine di quest’anno, il che significa viste le scadenze di bilancio che il senato dovrà dire sì a questo testo entro fine ottobre. Dopodiché trattandosi di legge delega - salvo le norme sulla prescrizione che sono di applicazione immediata (quando non, come detto, rinviata al 2024) - l’esecutivo prevede altri due anni per l’entrata in vigore dei decreti attuativi e dei regolamenti. La maggioranza, che fuori dalla necessità comune di restare nel governo Draghi di giustizia non potrebbe neanche parlare al bar, si divide a fette nel corso della votazione sugli ordini del giorno. Esercizio di poca utilità pratica, visto che si tratta di impegni che il governo regolarmente trascura, eppure unico spazio concesso al parlamento dopo che la discussione degli emendamenti è stata cancellata dai voti di fiducia. Gli ordini del giorno diventano allora il terreno perfetto - grande visibilità, nessuna conseguenza - per consentire il liberi tutti. Succede al mattino, su un ordine del giorno di Fratelli d’Italia sulla responsabilità civile diretta dei magistrati. Lega e Forza Italia condividono ovviamente. Di più: stanno raccogliendo le firme per un referendum di identico tenore. Si astengono come massimo segnale di fede al governo che pure con il sottosegretario Sisto (Forza Italia) esprime parere negativo. Che passa, malgrado i sì e gli astenuti sommati assieme siano appena due meno dei contrari. La capogruppo del Pd Serracchiani accusa gli alleati-avversari di sparare contro il loro stesso esecutivo. Polemiche. Assai accese anche tra Giachetti (Italia viva) e Fornaro (capogruppo Leu). Lo spirito del 3 agosto, del primo giorno cioè del semestre bianco durante il quale il presidente della Repubblica non può sciogliere le camere, prende corpo anche nel pomeriggio. Quando, dopo lunga e inutile mediazione, il governo non accoglie la sostanza di un ordine del giorno della deputata di Facciamo Eco (ex Leu) Rossella Muroni che impegnava il governo ad aggiungere gli ecoreati nell’elenco di quelli per i quali l’improcedibilità (e dunque la durata possibile dei giudizi di appello e Cassazione) è prolungata. Niente da fare, parere contrario e questa volta l’ordine del giorno ambientalista non passa per appena cinque voti, favorevoli molti cinque stelle e Pd, malgrado l’intervento dei rispettivi capigruppo a copertura del governo. E così è la Lega a poter accusare di incoerenza gli avversari-alleati e a fare agli altri l’esame di lealtà al governo Draghi. Giustizia, i 5S rivendicano la riforma del processo penale. Scontro sul silenzio stampa dei pm di Liana Milella La Repubblica, 4 agosto 2021 Bonafede: approvato il mio testo emendato dal governo, giuste le nostre barricate. L’Anm: non limitare l’informazione. Si chiude alla Camera la lunga maratona sulla riforma del processo penale. La notte prima c’è stato il sì con la fiducia. Su 453 votanti, finisce con 396 deputati a favore e 57 contrari. Tre gli astenuti. Votano contro il partito di Giorgia Meloni e gli ex grillini di Alternativa c’è, che rimproverano a M5S di stare dalla parte “dell’impunità di Stato”. Ma tra i grillini sono 16 gli assenti in aula e anche due no. I venti minuti di un’aula che s’infiamma sono quelli in cui parla l’ex Guardasigilli di M5S Alfonso Bonafede. “Non è il testo che avremmo voluto, ma grazie alla ministra Marta Cartabia e con l’interlocuzione di Giuseppe Conte sono stati triplicati i tempi dei processi per i reati più gravi. Abbiamo alzato le barricate? No, orgogliosamente in trincea abbiamo difeso il valore della giustizia”. Il centrodestra rumoreggia, il presidente della Camera Roberto Fico li richiama all’ordine. Bonafede va avanti. Per due giorni il centrodestra ha martellando sulla “fine del processo mai”, sull’azzeramento della sua legge sulla prescrizione. “Stiamo ai fatti - risponde Bonafede - cosa votiamo oggi? La mia riforma emendata dal governo Draghi”. Poco prima il leghista Roberto Turri, citando Matteo Salvini e Giulia Bongiorno, parla del “colpo di spugna sulla famigerata legge Bonafede”. L’ex ministro controbatte che “anche in questo testo la prescrizione si blocca definitivamente dopo la sentenza di primo grado”. Insiste: “Grazie a M5S sono stati triplicati i tempi per i reati più gravi, nessuna restaurazione e nessun passo indietro”. Il Pd con Alfredo Bazoli parla di “un ottimo lavoro del governo, che riprende e valorizza quello dell’esecutivo precedente con una norma transitoria che garantisce l’approdo morbido della riforma”. In aula, dalla mattina, c’è la Guardasigilli Cartabia, in giacca color salmone. Che nella sala del governo guida la regia degli ordini del giorno gestiti in aula dal sottosegretario forzista Francesco Paolo Sisto. Sulla responsabilità diretta dei giudici FdI riesce a spaccare la maggioranza e vota con Fi e Lega. Astenuti i “totiani”. Contro Pd, M5S e Leu. Italia viva lascia libertà di voto. Si arrabbia Bazoli che chiede “lealtà” alla maggioranza, ma Roberto Giachetti di Iv gli urla di “non dare lezioni”. Sugli odg è scontro continuo. Sisto boccia la richiesta di Enrico Costa di Azione di garantire che non ci siano abusi nell’uso della custodia cautelare. Costa lo ritira ma parla di “un grande spot per il referendum”. Lite anche sulla mafia. FdI è contro i benefici ai mafiosi in carcere. Eugenio Saitta di M5S dice un netto no perché c’è già un progetto di legge M5S per affrontare la questione. Ma è sulla presunzione di innocenza che si litiga ancora. Repubblica scopre che via Arenula lavora al decreto legislativo per limitare le conferenze stampa ai procuratori, negandole ai pm. E solo se l’inchiesta è “di particolare rilievo”. Un passo imposto dalla direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza del 2016 recepita da noi ad aprile. Ma quando il vice capogruppo del Pd Piero De Luca propone un odg, Sisto lo boccia. Poi il governo ci ripensa. Mentre il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia dice: “La direttiva europea esiste e bisogna tenerne conto. Ma non credo che le conferenze stampa potranno essere abolite perché sarebbe un danno al diritto all’informazione”. Il punto debole di una riforma necessaria di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 4 agosto 2021 A parere di chi scrive non è uno scandalo nemmeno che il Parlamento indichi i criteri generali per orientare le priorità dell’azione penale, visto che dovrà farlo con legge - alla quale e solo alla quale sono soggetti giudici e pm - e visto che criteri di priorità sono seguiti già oggi in tutti gli uffici giudiziari, non sempre con la trasparenza che viene adesso prescritta. Molte se non tutte le buone riforme sono frutto di un compromesso, come la riforma del processo penale che però tanto buona non è. Il testo approvato ieri, al contrario, dimostra che in questo caso una buona mediazione era impossibile. Bisognava scegliere. Si trattava di mediare tra una proposta di legge delega firmata dall’ex ministro della giustizia Bonafede, uno che il suo posto nella storia della civiltà giuridica se l’è conquistato con il video musicarello sull’arresto e identificazione di Battisti, e le proposte della commissione guidata da un giurista come Giorgio Lattanzi. Missione impossibile. La ministra Cartabia ha voluto provarci, concedendo in partenza ai 5 Stelle la conferma del disegno di legge originario, riscrivendolo però da capo con gli emendamenti (basta dare uno sguardo sul sito della camera ai due testi a fronte per smentire Conte quando dice di aver “conservato i due terzi”). Alla fine per portare a casa entro l’estate un primo sì di tutta la maggioranza - condizione necessaria, vedremo se sufficiente, per rispettare i tempi scritti nel Pnrr - sul punto più delicato e più contestato, quello della prescrizione, la ministra ha provato a innestare i principi costituzionali del giusto processo sul tronco piantato da Bonafede e Salvini nel 2019. Operazione, appunto, impossibile. Per brevità non diremo dei diversi pregi e neppure dei tanti limiti della riforma, che avrebbe dovuto essere assai più coraggiosa sul fronte dell’incentivo ai riti alternativi e del diritto penale minimo per sperare in una reale riduzione dei tempi dei processi penali. Per la quale riduzione non basteranno certo le assunzioni di personale previste, peraltro con funzioni non ben definite e a tempo determinato. A parere di chi scrive non è uno scandalo nemmeno che il parlamento indichi i criteri generali per orientare le priorità dell’azione penale, visto che dovrà farlo con legge - alla quale e solo alla quale sono soggetti giudici e pm - e visto che criteri di priorità sono seguiti già oggi in tutti gli uffici giudiziari, non sempre con la trasparenza che viene adesso prescritta. Restiamo sulla prescrizione. Bisognava correggere il disastro compiuto da Lega e 5 Stelle, Conte uno a palazzo Chigi, quando hanno infilato nella legge da loro battezzata Spazzacorrotti la cancellazione totale dell’istituto dopo la sentenza di primo grado. Una mossa con la quale il peso delle inefficienze dello stato è stato scaricato tutto sulle spalle degli imputati, destinati a restare a vita presunti colpevoli o presunti innocenti. A questo disastro non è riuscita a rimediare, nella sostanza, la maggioranza giallo-rossa, quella del Conte due. La ministra Cartabia ha dichiarato subito di volersi fare carico del problema e la “sua” commissione Lattanzi ha proposto due soluzioni alternative. Entrambe davano per scontato che fosse necessario cancellare il disastro firmato da Bonafede e avvallato da Salvini. E invece, alla fine, Cartabia e Draghi hanno deciso di salvare quella bandierina dei 5 Stelle. Per ridurne la portata hanno inventato una soluzione ibrida con la quale ripristinare, almeno un po’, il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Il risultato non è buono per almeno quattro ragioni. La prima è di pura logica: è stato il governo (non l’Europa) a stabilire l’urgenza della riforma del rito penale per ridurre i tempi delle udienze del 25% nei prossimi cinque anni, salvo poi rinviarne di tre la piena entrate in vigore. La seconda è di principio: la decisione finale sui tempi effettivi della prescrizione è nel nuovo sistema affidata al giudice (anzi, ai giudici perché la decisione è impugnabile in Cassazione) che diventerà così doppiamente arbitro dei destini dell’imputato oltre e sopra le leggi, potendo anche decidere se il processo deve restare in vita. La terza ragione di insoddisfazione per la riforma è che essa contiene una dichiarazione di resa. Il male italiano dei processi infiniti viene assunto come ineliminabile. Per alcuni reati particolarmente gravi (mafia, terrorismo) la prescrizione non scatterà mai, come nel modello Bonafede. Per altri di minore gravità si mette nero su bianco una durata “regolare” dei gradi di appello fino a nove anni. Ai quali aggiungere un altro anno, ottenuto spostando le date dalle quali parte il conteggio. Dieci anni oltre a tutta la durata del primo grado (che resta senza limiti, mentre è già tre volte la media europea, da qui le ripetute condanne che ci ha inflitto la Cedu). Il paradosso, infine, è che questa dilatazione dei tempi concessa ai 5 Stelle, avendo introdotto una discriminante tra reato e reato, lascia fuori alcuni processi importanti come quelli per i reati ambientali sui quali prevedibilmente si dovrà tornare, annacquando ulteriormente la riforma. Se i compromessi sono necessari e niente affatto scandalosi, i cattivi compromessi possono però risultare sconvenienti per chi li firma. In questo caso Giuseppe Conte, che per una parte dei 5 Stelle ha ceduto troppo. E Marta Cartabia, che rischia di essersi comunque alienata l’appoggio del Movimento ora che è partita la corsa al Quirinale. Giustizia, la riforma fatta e mancata. Eppure si deve poter riparare di Mario Chiavario Avvenire, 4 agosto 2021 Dunque, nella notte tra un lunedì e un martedì d’agosto, a sancire il ‘sì’ della Camera al testo sulla giustizia penale sono stati i voti di fiducia su un paio di ‘maxiemendamenti’. Un’anomalia istituzionale, quantunque prassi divenuta usuale da decenni. E non stupisce neppure più che un Governo s’induca a ricorrervi, più che per neutralizzare tentativi ostruzionistici dell’opposizione, per fronteggiare tensioni interne a una maggioranza di forze fra loro alleate ma antagoniste, e non sedate neppure dopo estenuanti trattative svolte a latere del fisiologico confronto parlamentare. Né imbarazza il fatto che qui si tratti di riforme di normative attinenti, come poche altre, al cuore delle libertà. Non esaltante, comunque, lo spettacolo offerto alla pubblica opinione, ulteriormente spinta a convincersi che a molti uomini di partito i contenuti delle leggi interessano assai meno delle occasioni che forniscono per avanzare divergenti richieste sulla soglia del ricatto e piantare poi, nel siglare tregue armate, bandierine su vere o presunte ‘vittorie’. Ne ha sofferto la stessa messa a punto della riforma, che nell’insieme e sotto tanti profili è tutt’altro che… ‘da buttare’ o, come qualcuno ha detto, mero ‘fumo negli occhi’. Stretta era sicuramente l’urgenza e limitata l’area su cui ci si poteva e doveva muovere, stante l’aggancio con il Next Generation Eu e il condizionamento dell’erogazione dei fondi relativi: non vincolante nei dettagli delle soluzioni, ma pur reale quanto all’obiettivo, una riduzione della durata dei processi, da contemperare in un difficile equilibrio con una serie di esigenze d’altro genere, anche di ordine costituzionale. Obiettivo e limiti, di cui ha mostrato di essere ben consapevole la stessa ministra Cartabia, anche nell’atto di affidare alla Commissione Lattanzi il compito di fornire una base per le proposte che avrebbe portato in Parlamento. E analoga consapevolezza ha animato il lavoro di quella Commissione, traducendosi in breve tempo in un prodotto, indiscutibilmente, di eccellente fattura. Dispiace che di quel prodotto - in larga parte trasfuso nel testo appena votato - siano rimasti in sottofondo, per il grande pubblico, tanti aspetti qualificanti. L’attenzione si è infatti concentrata quasi per intero sulla questione, pur delicatissima, della prescrizione, principale oggetto di un complicato compromesso faticosamente raggiunto in extremis a livello politico. E ci vorrà del tempo per capire se il contesto, con i promessi incrementi di personale giudiziario e ausiliario, con la digitalizzazione di tanti adempimenti e con le riforme più propriamente procedurali, consentirà di dare davvero per vinta quella che oggi è una scommessa: quella di ridurre entro margini trascurabili il rischio che, sotto l’ombrello di un’inedita specie di ‘improcedibilità’ legata ai termini fissati per i giudizi di appello e di cassazione, l’impunità copra delitti che gridano vendetta. E dispiace, in particolare, che pochi abbiano colto l’impegno della Commissione - in piena armonia con una linea più volte espressa, anche come studiosa, proprio da Marta Cartabia - di dare impulso a strumenti diretti a sostituire una logica ‘riparativa’ a quella meramente ‘repressiva’ in risposta alla massa di ‘microcriminalità’ (che però non è tale per chi la subisce). Peccato soprattutto che nel testo votato ieri notte sia scomparsa l’innovazione denominata, forse un po’… deamicisianamente, “archiviazione meritata”. All’estero, dove sono parecchi i Paesi che vantano in proposito decenni di esperienze fruttuose, si parla di “archiviazione condizionata”. Uno strumento che consentirebbe di chiudere il conto penale con il reo a conclusione delle indagini preliminari, ossia prima del vero e proprio processo; ma, a differenza di quanto accade con altri meccanismi anche tradizionali, non con un provvedimento d’indulgenza, bensì - ed è bene sottolinearlo, ad evitare fraintendimenti su un supposto ‘buonismo’ di basso profilo - a precise condizioni: appunto, la volontaria accettazione, e l’effettiva prestazione controllata, di condotte riparative, a beneficio della vittima e/o della collettività (risarcimento del danno, lavori di pubblica utilità…). Accantonamento definitivo, oppure, ‘ce lo chieda o no l’Europa’, possiamo sperare che se ne faccia oggetto di una prossima riforma ad hoc o in connessione con quella carceraria? La riforma Cartabia è fatta. Adesso cambiamo davvero la giustizia di Edmondo Bruti Liberati Il Foglio, 4 agosto 2021 Con il voto di fiducia su quello che negli atti parlamentari rimane intitolato “Disegno di legge n. 2435 AC presentato dal ministro della Giustizia (Bonafede)” si conclude una fase nella quale il dibattito-scontro si è concentrato sulla prescrizione in clima di contrapposizione da tifo da stadio. L’irrigidimento del partito di Bonafede ha imposto una soluzione giustamente criticata per la sua irrazionalità, ma questo è il punto di mediazione raggiunto dalle ragioni della politica. Gli avventati termini previsti nella prima versione per i giudizi di appello e di cassazione erano impossibili da rispettare. Se la maggioranza virtuosa non pone problemi, per le corti di Roma, Napoli (non proprio marginali) e anche Venezia e alcune altre, questi termini non sono raggiungibili in tempi brevi, nonostante ogni misura organizzativa attuata. Che per produrre effetti concreti richiede ovviamente del tempo. Gli allarmi lanciati, anche da magistrati, con toni apocalittici erano fuori misura. Bastava, come ora è stato fatto, sia pure tardivamente, aumentare questi termini a tre anni per l’appello e a un anno e mezzo per la cassazione fino al 31 dicembre 2024. Per tre anni non succederà nessuna catastrofe. Per di più si è previsto in via generale, dunque anche per il futuro, che il giudice di appello “quando il giudizio di impugnazione è particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o delle questioni di fatto e diritto da trattare” possa prorogare i termini; ulteriori proroghe il giudice potrà disporre per delitti di terrorismo, mafia e violenza sessuale. È una inconsueta facoltà attribuita al giudice, ma deve essere motivata ed è controllabile dalla Cassazione. Poteri incisivi del giudice nella gestione dei tempi del processo non sono inconsueti nel processo accusatorio. Inoltre tale facoltà concessa al giudice potrebbe ovviare ad un dato pratico che è stato bellamente dimenticato. Dopo la sentenza di primo grado i pesanti faldoni dei fascicoli del processo non migrano automaticamente in Corte di Appello. Vi sono adempimenti giuridici (notificazioni, avvisi) e banalmente un trasferimento fisico che non è gestito da una logistica modello Amazon Nella decorrenza per il processo di appello, non si può partire dalla data del deposito della sentenza di primo grado, ma occorre considerare i tempi tecnici di trasmissione del fascicolo dai tribunali alle corti di appello, novanta giorni oggi nei casi migliori. Molto si gioca in questa fase transitoria, fino al 31 dicembre 2024, nel corso della quale saranno attuati i provvedimenti organizzativi: reclutamento di nuovi magistrati e personale amministrativo, ufficio per il processo, informatizzazione delle procedure. Tra le norme di immediata attuazione previste negli emendamenti approvati vi è il “Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale” che dovrà fornire dati per le determinazioni che dovranno essere adottate da ministro della Giustizia e Csm. È uno snodo trascurato, ma assolutamente fondamentale. Più magistrati, più cancellieri sono necessari, così come innovazioni organizzative e tecnologiche, ma non si può ignorare che oggi vi sono inaccettabili disparità di efficienza tra sedi e sedi che non dipendono dalle risorse disponibili. Se poi si riuscisse a riaprire il discorso sulla revisione della geografia giudiziaria, si eviterebbero sprechi di risorse. Il Comitato, se non vorrà essere un orpello, dovrà, per così dire, stare con il fiato sul collo degli uffici giudiziari meno efficienti. Ai magistrati spetta raccogliere questa sfida che le nuove risorse disponibili imporranno. Sui media i titoli spettano ai proclami di alcuni magistrati “illustri” che sanno-loro-come risolvere-tutto, ma nelle liste riservate di discussione dei magistrati, pur con accenti critici ad aspetti della legge, l’invito è quello di “rimboccarsi le maniche”. Cito testualmente sulle cose da fare da una delle mail, che ha ricevuto molti consensi: “La prima è senz’altro quella che stiamo facendo, evidenziando le criticità e discutendo dei correttivi e di quello che potrebbe ancora farsi, fra cui per esempio una seria depenalizzazione. Continueremo anche dopo l’approvazione della legge. […] Serve allora la seconda cosa. Lavorare per attuare al meglio le nuove norme ed utilizzare nel modo giusto le risorse umane e tecnologiche che arriveranno”. Lo scontro tutto ideologico sulla prescrizione ha finito per porre in seconda linea le altre riforme dirette a rendere più celere il processo. Il testo approvato alla Camera, forse lo chiameremo “ex- Bonafede”, introduce molte (purtroppo non tutte) delle innovative proposte della Commissione Lattanzi diretta ad incidere sui tempi dei processi, riformula con migliorie tecniche diverse norme dell’ordinario progetto Bonafede, ne mantiene altre molto opinabili. Una rapida rassegna con accenti adesivi e critici, per aprire una discussione di merito che potrebbe anche portare a miglioramenti nella trattazione al Senato in settembre. In un clima politico più disteso in cui la prescrizione sia capitolo chiuso, vi potrebbero esser aperture a modifiche su aspetti specifici. Le innovazioni positive sono rilevanti a partire dal regime delle notificazioni, tema per i non tecnici marginale, ma cruciale nella pratica. Ma soprattutto troviamo ampliamento dei criteri per l’archiviazione, accesso più diretto alle pene alternative al carcere, recupero di efficacia alla pena pecuniaria, giustizia riparativa. Vi sono poi snellimenti delle procedure, senza sacrifici per le garanzie di difesa: definizione anticipata della competenza per territorio per evitare che un processo, come è avvenuto, possa andare avanti fino in cassazione e poi tornare daccapo; norme equilibrate per il recupero di attività già svolta in caso di mutamento di un giudice del collegio. Una opportuna norma garantista di controllo ex post in materia di perquisizioni, atto necessariamente a sorpresa, disposto dal pm senza preventiva autorizzazione del Gip. Opportuna la proposta di “allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quelle degli uffici giudicanti”. Dove questo coordinamento organizzativo nella prassi ha già operato si sono avuti risultati eccellenti in termini di durata complessiva dei processi, Ma non mancano aspetti problematici sui quali sarebbe auspicabile una riflessione ulteriore. L’iscrizione di un indagato nel registro notizie di reato non è, pressoché mai, un automatismo, e l’affrettata iscrizione crea danni non rimediabili. Pretendere di precisare i presupposti della iscrizione “in modo da soddisfare le esigenze di garanzia, certezza e uniformità delle iscrizioni” (art. 1 comma 6 p) è aspirazione encomiabile, ma vana, tante sono le varianti nella pratica, non risolvibili con il “senno del poi”. La procedura di retrodatazione è destinata ad aprire conflittualità di cui non si sente il bisogno. Del tutto inopportuno, ancora una buona intenzione con effetti negativi, è l’ampliamento dei casi in cui il pm può mandare a giudizio con citazione diretta, senza passare dal Gip. L’eccesso di produttività dei pm affossa i giudicanti ed è sbagliato l’incentivo al pm di liberarsi del fascicolo mandandolo comunque a giudizio, piuttosto che richiedere l’archiviazione. Si tratta dei reati minori sui quali dovrebbe intervenire una drastica depenalizzazione. Non condivido per nulla gli allarmi da più parti lanciati sul tema delle priorità sull’esercizio dell’azione penale dettate dal Parlamento. Prescrivendo l’obbligatorietà dell’azione il Costituente ha voluto “soltanto” fissare un principio: l’eguaglianza di tutti davanti alla legge sancita dall’art. 3 esige che nell’applicazione della legge penale il primo attore, il pm, sia sottratto a ogni influenza dell’esecutivo. La norma ora approvata prevede che “gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con priorità rispetto alle altre”. Una formulazione infelice che induce equivoci, ma non giustifica allarmi. Più correttamente si dovrebbe fare riferimento non a “criteri di priorità” ma agli indirizzi di politica criminale adottati dal Parlamento su proposta del governo. Come mi è già capitato di osservare su questo giornale (8 giugno 2021), la politica criminale, più che in direttive di priorità, si concreta nelle scelte organizzative sull’impiego delle risorse materiali e tecnologiche e nella distribuzione del personale di magistratura e delle forze di polizia e infine nell’adeguamento della normativa penale processuale e sostanziale. Le eventuali priorità che fossero definite annualmente a livello nazionale devono essere calibrate a livello locale e costantemente monitorate. La attuazione pratica di questi indirizzi nella singola Procura si traduce nella dislocazione delle risorse materiali, tecnologiche e umane. Proviamo a fare un solo paradossale esempio: ove un malaccorto Parlamento, magari per “riguardo” ad un leader politico della maggioranza indagato, dimenticasse di indicare tra i reati prioritari la corruzione, la Procura competente, protetta dal principio costituzionale, doverosamente porrebbe tra le priorità quella indagine specifica. Ed infine un accenno a due questioni che meriterebbero un più approfondito sviluppo. Il tema del diritto all’oblio, pare sotto l’impulso dell’infaticabile on. Enrico Costa, è stato inserito all’ultimo in un emendamento (art 1 comma 25) il quale prevede che “il decreto di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione costituiscano titolo per l’emissione di un provvedimento di deindicizzazione che, nel rispetto della normativa dell’Unione europea in materia di dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all’oblio degli indagati e degli imputati”. Per fortuna si tratta di una legge delega e vi sarà tutto il tempo per fare giustizia di una formulazione particolarmente malaccorta di un problema molto serio. Il cosiddetto diritto all’oblio riguarda i condannati non meno che gli assolti quando si tratti di un caso che non presenti più (o anche non abbia mai presentato) un interesse pubblico al permanere della divulgazione della notizia. La valutazione dell’interesse pubblico, salvo casi di evidente strumentalizzazione, non può che essere rimessa alla libertà di espressione e di critica. Non dovremmo forse più parlare (ma lo ha fatto la stessa Corte di Cassazione) di un eventuale ruolo nella strage di Piazza Fontana di Franco Freda e Guido Ventura pur definitivamente assolti? Per converso il diritto all’oblio potrebbe essere invocato da un soggetto, condannato per grave reato che a suo tempo andò sulle cronache, quando dopo una lunga pena detentiva, rientrasse nella vita sociale da libero, magari in un luogo del tutto lontano da quello del fatto a suo tempo commesso. Ancora il nostro infaticabile on. Costa, dopo avere meritoriamente sollecitato il nostro paese ad impegnarsi per l’attuazione della Direttiva (UE) 2016/343 del 9 marzo 2016 sulla presunzione di innocenza, sembra voler porre nel mirino le conferenze stampa dei Procuratori della Repubblica. Evidenti alcuni abusi, ma difficile porre delle regole. Il problema, a mio avviso, non è se, ma come la Procura, deve comunicare nella fase coperta dal segreto investigativo. Naturalmente è compito del Procuratore, cui è affidata la responsabilità della gestione dell’ufficio e della comunicazione, governare le spinte al “protagonismo” dei magistrati dell’ufficio, ma dal “protagonismo” non sono esenti anche alcuni degli stessi Procuratori. È un difficile esercizio di equilibrio, ma spesso la conferenza stampa ufficiale, attuata in urgenza (per rispetto ai tempi dei media e per evitare la diffusione di notizie parziali o distorte), è l’unico strumento per veicolare informazioni, garantendo parità di accesso a tutti i giornalisti. È difficile proporre una casistica per questo tipo di conferenze stampa, tanto disparate sono le situazioni: necessità di correggere informazioni errate, contributo ad una informazione puntuale su aspetti che non danneggiano il segreto investigativo, appelli a fornire notizie. Qualunque sia la normativa che il nostro legislatore adotterà rimane essenziale l’assunzione di responsabilità e la deontologia degli operatori di giustizia e degli operatori dell’informazione. Ciascun caso, ciascuna vicenda presenta aspetti particolari ma il concetto di rispetto della dignità della persona offre un orientamento chiaro. “Col nostro testo, il carcere non è più l’unica pena” di Simona Musco Il Dubbio, 4 agosto 2021 Intervista a Gian Luigi Gatta, consigliere di via Arenula. “Il diritto e la procedura penale sono materie ad elevato tasso di politicità: la ministra ha il merito di una delicata e complessa opera di mediazione”. “La ministra Cartabia ha il merito di essere riuscita a compiere una delicata e complessa opera di mediazione, trovando punti di equilibrio che nel complesso hanno portato al miglior risultato possibile”. A dirlo è Gian Luigi Gatta, ordinario di diritto penale all’Università di Milano, nonché consigliere della ministra della Giustizia, componente del Comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura e direttore di “Sistema penale”. E sull’improcedibilità spiega: “Serve a dare un ritmo al processo e un impulso a chi ne detta i tempi, attivando pratiche organizzative virtuose”. Come giudica la versione finale di questa riforma? Il mio giudizio è molto positivo. L’attenzione mediatica si è concentrata per lo più sul tema della prescrizione e dell’improcedibilità. In realtà si tratta di una riforma molto articolata e di sistema. Gli interventi sono numerosi e attraversano l’intero procedimento penale. Ed è una riforma che ha due anime strettamente connesse: oltre a quella processuale vi è, non meno importante, quella per così dire sostanziale, relativa al sistema sanzionatorio. Le disposizioni in materia di pene sostitutive delle pene detentive brevi, di pene pecuniarie, di messa alla prova, di giustizia riparativa e di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto promettono, in sede di attuazione della delega, una riforma del sistema sanzionatorio di ampio ed elevato respiro, ispirata al principio secondo cui, alla luce dell’articolo 27 della Costituzione, il carcere non è e non può essere l’unica risposta al reato. È un’idea- guida fondamentale, che la ministra Cartabia ha espresso sin dal suo primo discorso in Parlamento, allorché ha illustrato le sue linee programmatiche. Era il miglior risultato possibile, considerato il contesto generale? Considerati i tempi ristretti e il contesto, da lei evocato, non esito a dire di sì. Il diritto e la procedura penale sono materie ad elevato tasso di politicità: riflettono nel loro assetto, come poche altre materie, precise visioni e scelte politiche. È evidente allora la difficoltà di mettere a punto una riforma che, pur muovendo da una prospettiva tecnico- giuridica, ispirata ai principi costituzionali e sovranazionali, nonché alle migliori prassi e agli obiettivi dell’efficienza del sistema, contemperi le sensibilità e le visioni di cui sono portatrici le assai diverse forze politiche che compongono l’ampia maggioranza che sostiene il Governo Draghi. La ministra Cartabia ha il merito di essere riuscita a compiere una delicata e complessa opera di mediazione, trovando punti di equilibrio che nel complesso hanno portato, appunto, al miglior risultato possibile. Non dimentichiamo che sulla riforma della giustizia penale è caduto il precedente Governo e che si trattava di scriverne un’altra, assai diversa, partendo dal testo del disegno di legge presentato dal precedente ministro della Giustizia, appartenente a una forza politica che tutt’ora compone la maggioranza. Alcune cose rispetto alla formulazione iniziale sono rimaste fuori, come l’archiviazione meritata e il rafforzamento delle sanzioni pecuniarie al posto delle sanzioni detentive. Quanto pesano rinunce del genere? È vero, ed è il prezzo pagato alla mediazione politica e al contesto generale di cui dicevamo. Ma guardiamo a quel che resta dei lavori della Commissione Lattanzi, di cui ho avuto l’onore di essere vice presidente, insieme a Ernesto Lupo. Tante sono le commissioni ministeriali, composte come la nostra da autorevoli professori, avvocati e magistrati, che hanno prodotto mirabili relazioni, che però sono rimaste negli archivi di via Arenula. In questo caso non è andata così. È vero che si è perso qualche pezzo, ma molto dell’impianto di fondo della relazione finale della Commissione Lattanzi è stato recepito nelle proposte emendative presentate dalla ministra Cartabia al Consiglio dei ministri ed è oggi tradotto in un ddl approvato da un ramo del Parlamento. Cito solo alcuni esempi: l’intervento del gip per indurre il pm a prendere le sue determinazioni, scaduti i termini delle indagini; la disciplina del processo in assenza; la riforma dell’udienza preliminare e la previsione di un’udienza filtro davanti al giudice monocratico; l’inclusione delle pene accessorie e della confisca facoltativa nel patteggiamento allargato; l’inammissibilità dell’appello per aspecificità dei motivi; gli interventi sul giudizio di legittimità, compreso il nuovo mezzo di impugnazione straordinario per dare esecuzione alle sentenze della Cedu; l’estensione dell’area della procedibilità a querela; gli interventi per restituire effettività alla pena pecuniaria; la riforma organica delle pene sostitutive; la riforma della pena pecuniaria sostitutiva, con innalzamento da sei mesi a un anno del limite di pena detentiva sostituibile e la modifica al ribasso del criterio di ragguaglio; l’ampliamento dell’ambito di applicazione della tenuità del fatto e della messa alla prova; l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa e la definizione del concetto di vittima del reato. Non è poco, e potrei continuare. Il rafforzamento della regola del rinvio a giudizio implica una ragionevole prognosi della colpevolezza dell’imputato. Quanto è tassativa quella norma per il giudice? Quella regola di giudizio riflette un principio cardine del sistema: l’imputato deve essere portato a giudizio solo se l’accusa, durante le indagini preliminari, ha raccolto elementi che consentono una “ragionevole previsione di condanna”. Il giudice deve formulare una prognosi - di condanna - sulla base di una diagnosi, relativa agli elementi già acquisiti nel corso delle indagini. Oggi la regola di giudizio fa riferimento alla idoneità degli elementi raccolti dal pm a sostenere l’accusa in giudizio. Quel che spesso accade nella prassi è che questi elementi siano valutati in rapporto alla capacità di andare a consolidarsi e a prendere meglio forma e colore nel dibattimento, assieme ad elementi ulteriori raccolti nell’istruttoria dibattimentale. Così facendo, però, si rischia di portare a giudizio imputati in assenza di elementi che possono fondare una condanna. E lo dimostra l’elevata percentuale di assoluzioni in primo grado. Una modifica era necessaria, anche per veicolare un preciso messaggio culturale. La prassi ci dirà se e come questa nuova regola sarà effettivamente recepita. Quali saranno gli effetti pratici della retrodatazione dell’iscrizione sul registro degli indagati? La retrodatazione sarà possibile in caso di ingiustificato e inequivocabile ritardo. Avrà l’effetto di rendere inutilizzabile gli elementi acquisiti dal pm dopo il termine di scadenza delle indagini. È una delle misure che sottolineano l’attenzione della riforma per la ragionevole durata del processo, fin dalla fase delle indagini preliminari. A testimonianza ulteriore di come sia una riforma che riflette un disegno organico e unitario, che va letto nel suo insieme. In tema di prescrizione, la prima ipotesi della Commissione Lattanzi era un ritorno alla Orlando. Cosa ne pensa della rinuncia a percorrere questa strada, anche alla luce del dibattito sulla improcedibilità? La Commissione Lattanzi ha presentato due proposte alternative, diverse tra loro, entrambe valide e ciascuna con pro e contro. La proposta in tema di improcedibilità, tradotta nel disegno di legge ora approvato dalla Camera, sviluppa la seconda ipotesi della Commissione Lattanzi, limitandola ai giudizi di impugnazione. La scommessa su cui regge è che il sistema, con opportuni investimenti, sia in grado di celebrare i giudizi di appello e di Cassazione nei termini previsti, di ragionevole durata. Esattamente come già oggi avviene in Cassazione e in alcune Corti d’appello. L’improcedibilità è un rimedio che, se il sistema è efficiente, come deve essere, non opera. Serve però a dare un ritmo al processo e un impulso a chi ne detta i tempi, attivando pratiche organizzative virtuose. La prima proposta della Commissione Lattanzi è certamente più in linea con la tradizione e meno innovativa: evita la prescrizione quando è imminente ma non produce sostanziali effetti acceleratori, né stimola pratiche virtuose, quando la prescrizione è lontana dal maturare. Il nuovo contesto, che richiede di ridurre i tempi del processo - del 25% nei prossimi cinque anni, come da impegni del Governo con la Commissione europea - esige oggi soluzioni diverse e maggiormente innovative. È per questo, ritengo, che la soluzione dell’improcedibilità è stata preferita. Santalucia: “Occorre salvaguardare il diritto all’informazione anche per le indagini” di Liana Milella La Repubblica, 4 agosto 2021 Il presidente dell’Anm interviene sul prossimo decreto legislativo di via Arenula. Andrà in Cdm questa settimana e limita le conferenze stampa ai soli procuratori e solo per le inchieste importanti. I singoli pm non potranno più parlare. “La direttiva europea sulla presunzione d’innocenza esiste, e bisogna tenerne conto. Ma non credo che le conferenze stampa potranno essere abolite perché sarebbe un danno al diritto all’informazione”. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, a caldo, e senza aver letto il testo di via Arenula (come lui stesso precisa), commenta la notizia pubblicata da Repubblica e dice: “Il processo consegna un colpevole nel momento in cui si conclude con una condanna definitiva. Ciò non significa che prima che questo accada non si possa e non si debba parlare di ciò che avviene nel processo”. Presidente Santalucia ha letto Repubblica con la notizia di una prossima stretta di via Arenula sulla comunicazione delle procure? “Sì, ho letto che il ministero della Giustizia si accinge ad attuare la direttiva europea sul rafforzamento della presunzione d’innocenza. Questo principio era proprio nella legge di delegazione europea e c’era da spettarsi che il governo avrebbe lavorato in questa direzione”. E come giudica la strada intrapresa? “Premetto che non conosco il testo e che giudizi in queste materie non possono essere dati se non dopo aver letto l’articolato perché il dettaglio in questi casi è essenziale…” Però l’obiettivo è chiaro, permettere al solo procuratore della Repubblica le comunicazioni con la stampa... “Sì, certo, l’obiettivo è chiaro ed è noto da tempo, cioè assicurare l’effettività del principio, contenuto anche nella nostra Costituzione, della presunzione di non colpevolezza. E già oggi, la legge Mastella del 2006 sull’ordinamento giudiziario, incarica il procuratore di tenere i contatti con la stampa, responsabilizzando il dirigente della procura sulla delicatezza di queste incombenze”. Però qui si fa un passo in avanti in una duplice direzione. Da una parte i pm non potranno più parlare, e dall’altra il procuratore potrà ricorrere alla conferenza solo se ha in mano un’inchiesta di particolare rilievo. E questa, giornalisticamente, si può definire come una stretta... “Ripeto che non conosco il testo. Ma non credo che le conferenze stampa saranno abolite perché ciò sarebbe un danno al diritto all’informazione che riguarda anche ciò che avviene nella fase delle indagini. Altro è il discorso sul richiamo a determinati principi che devono essere ben presenti anche quando si fa una conferenza stampa e cioè che l’indagato o l’imputato non sono per ciò stesso dei colpevoli”. Ma non ritiene che un simile passo del governo, in questo momento, si possa leggere comunque come un invito a stare zitti il più possibile? “Sarebbe un errore, a prescindere dal momento, se le nuove norme alterassero un delicato equilibrio tra diritti all’informazione e diritti dell’indagato o dell’imputato. Spero che ciò non avvenga, perché sui principi siamo tutti d’accordo. Il processo consegna un colpevole nel momento in cui si conclude con una condanna definitiva. Ciò non significa che prima che questo accada non si possa e non si debba parlare di ciò che avviene nel processo. Ma lo si deve fare tenendo presente la regola fondamentale della Costituzione sulla presunzione di non colpevolezza”. La riforma non basta a smaltire l’arretrato dei Tribunali: serve amnistia, indulto e taglio dei reati di Riccardo Polidoro Il Riformista, 4 agosto 2021 Il neo-presidente del Tribunale di Napoli Nord ha reso pubblico, in una recente intervista, il tragico dato, noto agli addetti ai lavori, in base al quale il suo ufficio sta fissando le prime udienze penali al 30 dicembre 2025, cioè di qui a oltre quattro anni. Ciò vuol dire in pratica che i fatti sottoposti alla valutazione del Collegio o del Giudice monocratico sono accaduti almeno, in media, sei o sette anni fa, se non ancora prima. I tempi del rinvio a giudizio o della richiesta di rinvio a giudizio a opera della Procura di quel Tribunale sono, infatti, di almeno due o tre anni, se non ancora più lunghi. Facendo un esempio pratico ma reale, per una querela depositata nel novembre del 2019, ove venga disposto ora il rinvio a giudizio (cosa niente affatto scontata), l’inizio del processo avverrebbe dopo oltre sei anni. Immaginate la tensione psicologica, nel corso di quest’arco temporale, per l’imputato/i e la persona/e offesa/e e il livello qualitativo dell’attività dibattimentale, dove i testi dovranno riferire su avvenimenti che avranno ormai dimenticato o, comunque, riposti in un angolo remoto della corteccia cerebrale, con il risultato che il loro recupero sarà parziale e probabilmente non fedele a quanto visto. Tutto ciò accade in un Tribunale istituito solo otto anni fa, nel 2013. Il giovane ufficio giudiziario, pertanto, può essere portato a esempio per comprendere lo stato comatoso del processo penale perché, se gli “adolescenti” stanno male, figuriamoci gli “anziani”. E invero la Corte di appello di Napoli - nel cui distretto figurano, oltre Aversa, i Tribunali di Avellino, Benevento, Nola, Santa Maria Capua Vetere e Torre Annunziata - ha una pendenza di oltre 57mila fascicoli. In che modo l’annunciata e ormai prossima riforma del processo penale potrà incidere su questo “oceano di carte”, all’interno delle quali restano sospesi i diritti e le aspettative di tantissime persone? Come potrà velocizzare i nuovi processi e allo stesso tempo porre fine ai vecchi? Il titolo del disegno di legge “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti di appello” lascerebbe ben sperare, nonostante l’atto sia stato assegnato alla II Commissione Giustizia della Camera dei deputati, in sede referente, il 24 aprile 2020 e l’esame sia cominciato il successivo 25 giugno. La svolta vi è stata con il cambio di passo del governo Draghi, in carica dal 13 febbraio 2021, e in particolare con la nuova ministra della Giustizia Marta Cartabia che, seppur nei limiti consentiti dall’ampio (fin troppo) arco parlamentare, ha predisposto un percorso lungo la strada maestra indicata dalla Costituzione e non attraverso “sentieri sterrati e bui”. Il governo Draghi è riuscito, poi, a trovare l’accordo nella maggioranza con l’obiettivo di concludere i lavori alla Camera prima della pausa estiva, per poi portare in Senato il provvedimento a settembre. Tra le novità più rilevanti spicca l’improcedibilità per il superamento dei termini di durata massima del giudizio in Corte di appello e in Cassazione. Per l’appello, il termine viene fissato in due anni; per la Cassazione, invece, un solo anno. Con ordinanza motivata, tale termine potrà essere prorogato per un periodo non superiore a un anno nel giudizio di appello e a sei mesi in Cassazione. Previste ulteriori proroghe quando si procede per particolari delitti, come quelli relativi a organizzazioni criminali. Vengono costituiti il Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, sulla ragionevole durata del procedimento e sulla statistica giudiziaria e il Comitato tecnico-scientifico per la digitalizzazione del processo, con funzioni di consulenza e supporto per le decisioni tecniche da adottare. Va immediatamente chiarito che la riorganizzazione del settore coinvolge unicamente i procedimenti per reati commessi da gennaio 2020 e non entrerà subito in vigore per consentire agli uffici giudiziari di avere le annunciate nuove risorse finanziarie e umane che dovrebbero portare all’auspicata accelerazione della procedura. Un futuro, dunque, che si prospetta in parte roseo, ma che non tiene conto di almeno due circostanze fondamentali che potrebbero rappresentare un campo minato, pronto a esplodere su quella strada maestra che prima abbiamo indicato. Innanzitutto che la maggior parte dei procedimenti si ferma nella fase delle indagini preliminari e non solo ad Aversa, come nel caso indicato in precedenza. L’aver previsto, in riforma, la citazione a giudizio solo in presenza di una ragionevole probabilità di condanna, non è certo una novità, perché l’articolo 425 del codice di procedura penale vigente già impone il non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio. Resta, poi, l’enorme arretrato da smaltire che continuerà a ingolfare Tribunali e Corti e ben poco potrà fare il Comitato tecnico-scientifico appena istituito. Lo ripetiamo ancora una volta: la strada maestra va ripulita con l’amnistia e con l’indulto e l’avvenuto cambio di passo sarà effettivamente veloce con un’ampia depenalizzazione. Lasciar decidere il giudice sulla durata dei processi: cancellate quest’assurdità di Nello Rossi Il Dubbio, 4 agosto 2021 Il magistrato è sempre pronto ad assumersi l’onere di giudicare nel merito, ma il compromesso sul Ddl penale sfida la Costituzione, che assegna al legislatore la responsabilità sui tempi del giudizio. Il giudice diverrà l’arbitro ultimo dei tempi del processo? Sarà il magistrato penale a dover compiere la scelta - drastica e potenzialmente drammatica - tra dichiarazione di improcedibilità dell’azione penale, destinata a porre fine alla vicenda processuale, e il prolungamento del processo al di là degli ordinari termini di legge? È quanto prevede l’ultima versione della riforma del processo penale, che al giudice attribuisce un inedito potere: prorogare, in ragione della complessità del procedimento (per numero delle parti o delle imputazioni o per la natura delle questioni giuridiche o di fatto da affrontare), la durata dei giudizi di appello e di Cassazione. Proroga che potrà essere adottata una sola volta per la generalità dei procedimenti, mentre sarà reiterabile per i giudizi di impugnazione su reati di mafia, terrorismo, violenza sessuale aggravata e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Per comprendere come si sia giunti a questa soluzione (non paragonabile, per la sua portata e i suoi effetti, alle decisioni sulla proroga della custodia cautelare) occorre ribadire, ancora una volta, il peccato originale della riforma, o meglio della “mediazione” Cartabia, e rappresentare la cascata di conseguenze negative che ne è scaturita. Il nervo della prescrizione - Il peccato originale sta nel non avere seguito la strada di coraggiosa deflazione del carico giudiziario tracciata dalla Commissione Lattanzi, rinunciando (in nome di un astratto rigorismo?) ad alcuni istituti innovativi, come l’archiviazione meritata, e limitando la portata di altri strumenti di riduzione del numero dei processi e di accelerazione della loro durata: dalla restrizione dell’area del patteggiamento alla retromarcia in materia di appelli del pm, delle parti civili e degli imputati. Con l’effetto di lasciare nuovamente scoperto e dolente il nervo della prescrizione, punto di scarico finale di tutte le irrisolte contraddizioni del processo, e di riattizzare uno scontro politico cui si poteva sperare di porre fine solo ristrutturando l’intero assetto del procedimento e del processo. Compromessi politici o di necessità - Da qui in poi sono cominciati i compromessi, politici o di necessità. Il primo è consistito nell’affidarsi - per misurare i limiti temporali del processo - ad un sistema ibrido, frutto della meccanica addizione del regime della “prescrizione sostanziale” voluto dal governo Cinque Stelle- Lega con un inedito regime di “prescrizione processuale”, ovvero l’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini dei giudizi di appello e di Cassazione. Sistema potenzialmente produttivo di risultati paradossali, già messi in luce da più commentatori, e, quel che più conta, risultato insostenibile in numerose Corti di appello, gravate da grandi quantità di processi. Cosa dice la Costituzione - Ed ecco che, per rispondere alle critiche, ha preso corpo il secondo compromesso: la previsione di più ampi termini di legge per la celebrazione dei giudizi di appello e di Cassazione, affidata però alla “facoltà” del giudice di prorogare tali termini con una ordinanza motivata e ricorribile dinanzi alla Suprema Corte. L’ultima parola al giudice, dunque. Non solo, come è naturale, sui fatti e sulle responsabilità, sulla colpevolezza o sull’innocenza, ma anche sulla durata del processo. Eppure, secondo la Costituzione, è “la legge” che deve assicurare la ragionevole durata del processo e, aggiungiamo, la ragionevole prevedibilità di tale durata. Ed è perciò il legislatore che deve fissare la cornice temporale ed i limiti invalicabili di ogni processo, valutando il “fattore tempo” nelle sue diverse valenze: tempo dell’oblio sociale nei confronti del reato; vicinanza temporale tra i fatti per cui si procede e il giudizio, per permettere all’innocente di fornire prove a discarico, irrintracciabili a eccessiva distanza dagli eventi; grado di accettabilità di una condizione di imputato troppo a lungo protratta. I problemi spinosi - Il sentiero impervio, oggi imboccato, legittima molti e inquietanti interrogativi. Quanto saranno comprensibili e socialmente accettabili scelte “operative” sui tempi dei processi (inevitabilmente diverse a seconda dei casi) che incideranno profondamente sul destino ultimo degli imputati? Fino a che punto il “merito” di tali scelte sarà controllabile dal giudice di legittimità? A quali rischi esse esporranno magistrati che sono pronti ad assumere ogni responsabilità per un giudizio emesso in scienza e coscienza ma che, in questo caso, saranno chiamati a valutazioni di diversa natura, con effetti salvifici o pregiudizievoli? Mentre la politica saluta con soddisfazione il primo passo della riforma del processo penale e ciascuna forza politica si affanna a rivendicare il suo “decisivo” contributo, è giusto che chi si occupa di giustizia ponga, tra gli altri, questi spinosi problemi. Non per guastare la festa, né per negare l’indispensabilità di un intervento riformatore, ma per avvertire che il congegno messo in campo rischia di risultare difettoso quando sarà sottoposto alla prova della realtà. La durata dei processi - Se, per realismo, si dovrà prendere atto che non ci sono più margini per sanare il peccato originale della riforma né per abbandonare la soluzione ibrida messa in cantiere sulla durata dei processi, si può chiedere almeno di rimeditare questo aspetto della nuova normativa, fissando per legge - e senza interventi dei giudici - congrui termini di improcedibilità, calibrati sulla gravità e sull’allarme sociale dei diversi reati e sulla complessità dei relativi giudizi? Ciò sarebbe in sintonia con le indicazioni offerte dal giudice costituzionale che, anche nella recentissima pronuncia n. 140 del 2021, ha insistito sul ruolo irrinunciabile del legislatore nel fornire un quadro di certezze sulla durata dei processi. Lo sappiamo: si potrà sostenere che il principio di legalità è comunque rispettato dalle norme oggi dettate in materia di proroghe, anche se esso appare vacillante di fronte all’ipotesi estrema di proroghe reiterate. Ma resta che l’equilibrio - o piuttosto l’esercizio di equilibrismo - immaginato come via di fuga da una impasse tutta politica allontana la realizzazione della promessa costituzionale di un processo di ragionevole durata e incide pesantemente su fondamentali garanzie dei cittadini. Recedere da una scelta improvvida sarebbe una prova di saggezza da parte di un Parlamento che volesse liberarsi dalle pressioni e dai condizionamenti impropriamente esercitati dalla politica politicante sulle questioni di giustizia. Cafiero De Raho: “La legge ha fatto un passo avanti decisivo. I processi per mafia si faranno” di Giuliano Foschini La Repubblica, 4 agosto 2021 Le parole pronunciate in commissione Giustizia della Camera erano state nette: “La riforma della prescrizione mina la sicurezza del Paese”. A renderle poi ancora più importanti, era il peso di chi le aveva pronunciate: il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho. Non è un caso, dunque, che proprio quelle parole siano state una delle principali leve per le modifiche poi approvate al testo che il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, ha fatto approvare in Consiglio dei ministri. Procuratore De Raho, è soddisfatto di come la riforma è stata modificata? “C’è stato un passo avanti molto importante. Direi decisivo. E credo che la norma, in questo momento, ci aiuti a raggiungere i due obiettivi principali che il legislatore si era posto: avere una giustizia giusta. E dei processi che si celebrino in tempi corretti e ragionevoli. Ma, appunto, è necessario che i processi si celebrino. Ora, almeno per quelli sui reati più importanti, sappiamo che non potranno esserci scorciatoie”. Cosa le ha fatto cambiare giudizio? “La norma è diversa. Ora c’è la certezza che processi per reati gravi, come mafia e terrorismo si celebreranno. E dunque si arriverà a una sentenza, in tutti i casi. E questo è fondamentale: perché esiste evidentemente un’esigenza di giustizia che rende imprescindibile determinare una pronuncia definitiva. La questione è importante perché attiene alla fiducia che i cittadini hanno, e devono avere, nei confronti della giustizia. E il dovere di verità che abbiamo nei confronti delle vittime dei reati e anche di chi entra nelle aule di giustizia in veste di imputato. Oggi, troppo spesso, questo non accade per via di processi oggettivamente troppo lunghi. Determinati però quasi sempre da problemi strutturali”. Qualcuno, tra i suoi colleghi, ha detto che il problema di questa riforma della giustizia è la prospettiva: per accorciare i processi, obiettivo inderogabile, non bisogna cancellarli con la prescrizione. Ma fare in modo che vengano espletati più velocemente. È d’accordo? “Certo. Ma infatti nella riforma la prescrizione è soltanto una delle leve che viene presa in considerazione. Si parla di un rafforzamento dell’organico, sia per quanto riguarda i magistrati sia del personale amministrativo, ugualmente importante. L’idea per esempio di avere un nucleo di personale sul quale può fare affidamento un giudice per le questioni burocratiche, è fondamentale. C’è spazio per quelle innovazioni telematiche che dovrebbero dare maggiore rapidità ad alcuni passaggi del processo. Si mettono poi anche regole chiare alla fase delle indagini preliminari. Affidando l’applicazione dei principi al controllo del giudice. Ma riconoscendo anche al pubblico ministero il ruolo di primo garante dell’osservanza delle leggi. Mi sembrano scelte sagge, a fronte della necessità di una riforma e vista l’esigenza, improcrastinabile, che arrivava da Bruxelles di avere una giustizia più rapida”. Cosa manca? “La sfida è riempire di contenuti pratici questi principi. Mi spiego: serve il personale promesso. Serve un tavolo tecnico che in ciascun distretto effettui un monitoraggio effettivo sui carichi di lavoro. E che stabilisca quali sono i processi che hanno una priorità: la legge ha messo davanti, giustamente, quelli per mafia e terrorismo. Dando anche tempi più lunghi a quelli con reati di concorso esterno. Ritengo però che una corsia privilegiata debbano averli anche i processi per corruzione: il danno sociale è troppo grave per poter permettere un’impunità”. Così si rischia però che non vadano a processo giudizi dove ci sono vittime che chiedono verità... “Per me quello è l’altro canale di priorità: il processo deve soddisfare l’esigenza di giustizia di chi ha subito un torto. In questo senso credo sia importantissima la scelta del governo di desecretare quegli atti, su Gladio e la Massoneria, che contribuiranno a fare chiarezza su alcuni dei fatti più dolorosi della storia del nostro Paese”. Misura cautelare in carcere anche in caso di contemporanea detenzione dei genitori di un minore quotidianogiuridico.it Cassazione penale, Sez. III, sentenza 22 luglio 2021, n. 28441. Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso l’ ordinanza con cui il tribunale del riesame aveva confermato il provvedimento con cui il GIP aveva rigettato la richiesta di sostituzione della misura cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, avanzata dall’indagato sul presupposto che la propria convivente, madre del figlio minore, era anch’ella detenuta, la Corte di Cassazione penale, Sez. III, con la sentenza 22 luglio 2021, n. 28441 - nel disattendere la tesi difensiva secondo cui trovava applicazione nel caso di specie l’art. 275, comma 4, c.p.p., che prevede il divieto di custodia cautelare, in quanto egli e? padre di un minore di sei anni con la madre detenuta che pertanto non poteva fornire al ragazzo l’assistenza necessaria - ha invece ribadito il principio secondo cui in tema di provvedimenti coercitivi, il divieto di disporre la custodia cautelare in carcere, previsto dall’art. 275, comma 4, c.p.p., costituendo norma eccezionale, non e? applicabile estensivamente ad altre ipotesi non espressamente contemplate, conseguendone, pertanto, la legittimità del provvedimento con il quale era stata respinta la richiesta di sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, avanzata da parte dell’indagato sul presupposto della detenzione anche della moglie con il figlio minore di anni sei. Maltrattamenti in famiglia anche se la convivenza è cessata di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2021 La Corte di cassazione, sentenza n. 30129 depositata oggi, stabilisce “l’esatto confine” rispetto al reato di atti persecutori. Il più grave delitto di maltrattamenti in famiglia, rispetto a quello di atti persecutori, si estende anche alle ipotesi di cessata convivenza o divorzio purché permangano rapporti solidi e frequenti all’interno del nucleo familiare. La Corte di cassazione, sentenza n. 30129 depositata oggi, nel respingere il ricorso di un “ex” condannato per “maltrattamenti” nonostante la vita in comune fosse cessata ormai da molti anni traccia “l’esatto confine” tra i due reati. Per la VI Sezione penale infatti deve essere affermato il principio di diritto secondo il quale: “le condotte vessatorie realizzate in caso di cessazione della convivenza con la vittima, sia nel caso di separazione legale o di divorzio, sia nel caso di interruzione della convivenza allorché si tratti di relazione di fatto, integrano il reato di maltrattamenti in famiglia e non anche quello di atti persecutori, allorché i vincoli di solidarietà derivanti dal precedente rapporto intercorso tra le parti non più conviventi, nascenti dal coniugio, dalla relazione more uxorio o dalla filiazione, permangano integri o comunque solidi ed abituali nonostante il venir meno della convivenza”. Confermata dunque la condanna comminata in Appello ad un “ex” che invece lamentava il vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale ravvisato la sussistenza del delitto di maltrattamenti nell’intero arco temporale “dal 1991 sino alla primavera del 2015, sebbene la convivenza more uxorio fra l’imputato e la presunta persona offesa sia cessata nel 2008, dovendo pertanto ravvisarsi, a partire da tale anno, il delitto di atti persecutori”. II reato di maltrattamenti, spiega la Corte, è un reato contro la famiglia (segnatamente contro l’assistenza familiare) ed il bene giuridico protetto è costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e dell’interesse delle persone alla difesa della propria incolumità fisica e psichica. L’ambito applicativo dell’incriminazione pertanto dipende dall’estensione di rapporti basati sui vincoli familiari, “intendendosi per famiglia ogni gruppo di persone tra le quali, per le strette relazioni e consuetudini di vita, si siano instaurati rapporti di assistenza e solidarietà reciproche, senza la necessità della convivenza o di una stabile coabitazione”. Al di là della lettera della norma incriminatrice (“chiunque”) il reato di maltrattamenti familiari dunque è un reato proprio, potendo essere commesso soltanto da chi ricopra un “ruolo” nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di “autorità” o peculiare “affidamento” nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall’articolo 572 cod. pen. (organismi di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, professione o arte), in danno di un soggetto che faccia parte di tali aggregazioni familiari o assimilate. Il reato di atti persecutori è invece un reato contro la persona, e in particolare contro la libertà morale, che può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia “reiterati” (integrando appunto un reato abituale) e che non presuppone l’esistenza di relazioni interpersonali specifiche. Tirando le fila delle considerazioni che precedono, “il delitto di maltrattamenti in famiglia - scrive la Suprema corte - può essere ravvisato in tutti i casi in cui, nonostante l’interruzione della relazione di convivenza, eventualmente anche attestata da un provvedimento formale di separazione legale o di divorzio, residuino comunque dei rapporti di stabile frequentazione e di solidarietà determinati dalla pregressa esistenza del rapporto familiare, soprattutto allorchè dovuti alle comuni esigenze di accudimento e di educazione dei figli, atteso che in tale caso può ancora parlarsi di fatti commessi nel contesto di una relazione familiare”. È di contro ravvisabile il delitto di atti persecutori aggravato allorchè la relazione qualificata o di fatto e la convivenza sussistenti in passato siano ormai cessate e i rapporti tra gli ex coniugi o conviventi o partner siano definitivamente interrotti, sì da non potersi parlare - né in senso tecnico e formale, né in senso atecnico ed informale - di “famiglia”. E il giudice di merito, conclude la decisione, ha fatto “ineccepibile” applicazione di tali principi, là dove ha dato conto del fatto che il ricorrente ha posto in essere le condotte aggressive e violente in danno della ex convivente more uxorio, in una situazione nella quale il vincolo familiare ed affettivo con la persona non era cessato, persistendo anzi un’intensa relazione conseguente dagli obblighi derivanti dall’esercizio congiunto della potestà genitoriale verso le loro figlie (tanto che il ricorrente aveva tenuto le chiavi di casa e frequentava ogni giorno l’alloggio per vedere le figlie), persistenza del legame “familiare” con la ex convivente attestato, anche, dalla circostanza - non irragionevolmente valorizzata dalla Corte distrettuale - che l’imputato e la vittima continuassero ad avere rapporti sessuali. Sardegna. Garante dei detenuti, appello per la nomina. Atteso da oltre dieci anni L’Unione Sarda, 4 agosto 2021 La Sardegna attende da dieci anni la nomina di un Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale ma nonostante numerosi appelli pubblici e nonostante siano state raccolte 180 firme a sostegno della richiesta di nomina nulla è stato fatto. A portare avanti la battaglia per sollecitare il Consiglio regionale a indicare il Garante è l’associazione Radicale “Diritti alla Follia” che ha depositato la petizione al Consiglio Regionale ed ha chiesto un incontro al presidente Michele Pais, rimasto senza riscontro. Su proposta di numerosi Consiglieri regionali che hanno fatto propria la petizione, la seconda e la sesta Commissione hanno approvato il 7 luglio, all’unanimità, una risoluzione con la quale propongono al Consiglio la presa in considerazione della petizione proposta, ai sensi dell’articolo 104 del regolamento consiliare sollecitando l’inserimento, senza indugio, all’ordine del giorno del Consiglio la nomina del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. “In Sardegna la nomina del Il Consiglio regionale Garante attende “solo” da dieci anni ed è richiesta, oltre che dalle decine di cittadine e cittadini sardi che in pochi giorni hanno sottoscritto la petizione. anche dai quattro Garanti commisi! dl Oristano, Nuoro, Sassari e Tempio Pausania”, evidenzia Cristina Paderi, segretaria di Diritti alla follia. “Pensiamo che la mancata calendarizzazione della nomina del Garante regionale sia solo una dimenticanza e che il presidente e la sua maggioranza la porteranno in Consiglio subito dopo la pausa estiva. Ad ogni modo”, conclude, “l’associazione “Diritti alla Follia” ha in previsione l’organizzazione di presidi in Consiglio Regionale a sostegno della petizione, anche per evitare che trascorrano altri anni inutilmente”. Benevento. Detenuto si toglie la vita nel carcere ilsannioquotidiano.it, 4 agosto 2021 Amara scoperta del personale della Casa circondariale di Benevento a Capodimonte: rinvenuto il corpo senza vita di un detenuto di 30 anni originario della Romania. Dai primi rilievi sembra che l’uomo si sia tolto la vita, con un gesto estremo legato alle sue problematiche di tipo psichiatrico. Si sarebbe impiccato. Firenze. A Sollicciano c’è un bambino di cinque giorni di Marzio Fatucchi Corriere Fiorentino, 4 agosto 2021 La visita di progetto Firenze nel carcere, sempre sovraffollato. Ed è in arrivo un altro bebè. Sempre sovraffollato, un po’ meno del solito, con un ospite in più: un bambino nato il 30 luglio. Questa è la situazione di Sollicciano, il carcere di Firenze, riscontrata dalla visita dell’associazione Progetto Firenze e di una delegazione di partiti e esponenti di sinistra guidata da Dmitrji Palagi di Sinistra Progetto Comune. Il bambino e la madre sono ancora a Sollicciano, dove possono usare il nido presente nella struttura femminile. La donna, originaria di Roma, è stata arrestata poco prima del parto. Protesta Massimo Lensi di Progetto Firenze: “Siamo ancora in attesa di capire quando finirà la storia dell’Icam, cioè la tanto sbandierata struttura ad hoc per poter ospitare le detenute madri. È dai tempi del sindaco Renzi che si annuncia: “Saremo i primi ad avere una struttura per le madri in carcere”. Ancora non c’è. Da 25 anni vado a Sollicciano, non una volta ho trovato un nido senza bambini”. E potrebbe non essere l’ultima: un’altra donna carcerata è incinta al settimo mese. La visita nel penitenziario, a cui hanno partecipato oltre a Lensi e Palagi Grazia Galli, Sandra Gesualdi, Donella Verdi, Emanuele Baciocchi e l’avvocato Massimiliano Chiuchiolo (Osservatorio carcere della Camera penale di Firenze) ha riscontrato che il reparto Covid è vuoto, i vaccinati (volontari) sono all’80%. Ma Sollicciano è ancora una struttura sovraffollata: 633 detenuti su una capienza regolamentare di 491 posti più 35 posti non disponibili. Di questi, 569 sono uomini, il resto donne. E, appunto, un neonato. Ma i partecipanti alla visita denunciano: “La direzione del carcere è ancora pro tempore, polizia penitenziaria, educatori e personale sanitario sono sotto organico: e i sanitari in parte precari”. Ferrara. Il Teatro dei Venti ritrova Ulisse nelle carceri di Anna Bandettini La Repubblica, 4 agosto 2021 Si sta svolgendo in questi giorni a Gombola, paesino dell’Appennino emiliano, tra edifici medievali e seicenteschi e ospiti “multidisciplinari” come Ambrogio Sparagna, Silvio Castiglioni, Silvia Gribaudi, Banda Rulli Frulli, Oscar De Summa, Andrea Cosentino, Teatro Akropolis, Cristina Donà, I Violini di Santa Vittoria, Leviedelfool, Balletto Civile, Ascanio Celestini, Eusebio Martinelli, il festival “ Trasparenze” organizzato dal Teatro dei Venti di Modena che ha avuto un antefatto dal 27 al 30 luglio con l’esito finale del progetto “Odissea”. Si tratta di uno spettacolo itinerante dentro e con i detenuti di due istituti di pena emiliani, il Carcere di Modena e il Carcere di Castelfranco Emilia dove da tempo il Teatro dei Venti conduce un progetto teatrale coi detenuti, che ha avuto nella rappresentazione delle ultime parti dell’Odissea, appunto il suo momento clou, preceduto da diverse tappe di studio e prove tra cui, nel 2020, il film Odissea Web di Raffaele Manco e Stefano Tè, regista anche del lavoro teatrale. E a tappe è anche Odissea lo spettacolo che per gli spettatori inizia a Modena, nella sede del Teatro dei Venti con i controlli dei documenti e l’obbligo di lasciare tutti gli effetti personali. Quindi si sale in pullman che diventa già la scena dell’inizio dello spettacolo, con un attore che inizia a raccontare agli spettatori muniti di cuffie, le parti finali del poema omerico, quando Ulisse è in viaggio per tornare a casa. La prima destinazione è il carcere di Castelfranco Emilia dove, in un enorme salone, vediamo Polifemo e la sua ferite, le sue urla di dolore (bravissimo l’attore detenuto che lo interpreta), la maga Circe, bellissima nel costume quasi orientale (ed è un altro d’evento ad interpretarla), introdotta dalla vorticosa danza di un altro detenuto. Quindi dopo aver vissuto i tormenti di Ulisse in procinto di una nuova partenza verso Itaca, si sale di nuovo sul pullman per raggiungere il carcere di Modena. Qui ci si cala nel buio, nella guerra ai feaci, nell’abbraccio con Penelope e con il vecchio padre. La conclusione riporta pubblico e attori nel teatro vero proprio, come in una continuità ideale, per assistere, come in un dramma borghese, ai problemi di coppia di Ulisse e Penelope. Colpisce in questo lavoro il clima poetico delle figurazioni, che a Castelfranco preludono alla rabbia di Polifemo, al senso di insensatezza del peregrinare che cresce in Ulisse, e che a Modena sprofonda nel buio, nel recupero della parola, ma non alla rinuncia ai colpi di scena, come la pioggia che a un certo punto invade i personaggi. Odissea è un lavoro teso, in parte anche originale per come è stato strutturato e organizzato (e certo va ringraziata la collaborazione dei direttori e delle guardie carcerarie che hanno accolto gli spettatori con discrezione) pur nella complessità degli spostamenti e dei trasferimenti tra le carceri. Il risultato sostituisce l’accuratezza espressiva che si chiede agli spettacoli come siamo abituati a vederli in teatro, con qualcosa di più forte, perché nella protezione del racconto, è come se le ferite e le contraddizioni della vita degli attori-detenuti diventassero carne, suono, voce. Segno anche questo che il lavoro di Stefano Tè e con lui degli attori Alice Bachi, Vittorio Continelli, Giuseppe Pacifico, e gli attori- detenuti delle Carceri di Modena e di Castelfranco Emilia, è stata un’esperienza “autentica”, da cui anche gli spettatori ne escono grati. Quanto al Teatro dei Venti, sempre per “Trasparenze”, presenta fino al 6 agosto a Gombola “Passione”, da una drammaturgia di Vittorio Continelli e Stefano Tè, anche regista. È il remake della rappresentazione della Passione che si è tenuta dagli anni 30 ai primi anni 2000 a Gombola, dove il 6 si vedrà anche “Polittico della Felicità”, uno studio con la drammaturgia di Azzurra D’Agostino, che insieme a “Odissea”, “Passione” e “Padri e Figli” (altro progetto in relazione con le Carceri), è parte di un progetto sul “Il Figliol Prodigo”, prossimo spettacolo della compagnia in spazi all’aperto dopo il successo di Moby Dick. Palermo. “Fiori dal nulla”, la canzone dei ragazzi del Malaspina palermotoday.it, 4 agosto 2021 Il progetto è stato promosso dall’associazione Rock10elode e finanziato dall’8x1000 della Chiesa Valdese, con l’obiettivo finale di dare ai minori detenuti spazi e tempi per coltivare le proprie attitudini artistiche e comunicative. “È la rabbia che ci ha portato in gabbia, queste parole mi fanno liberare” si canta in Fiori dal nulla, la canzone scritta dai ragazzi dell’Istituto Penale per i Minori di Palermo (comunemente conosciuto come “carcere Malaspina”) all’interno del progetto Musica in libertà. Il brano e il relativo videoclip sono stati mostrati all’istituto penale per i minori, alla presenza della direttrice Clara Pangaro, di Rosanna Gallo (direttrice del Centro per la Giustizia Minorile per la Sicilia), Daniele Palermo (presidente del concistoro della locale Chiesa Valdese) e al personale della struttura. Insieme a loro, gli esperti che hanno condotto il laboratorio - i musicisti Giuseppe “Jaka” Giacalone e Claudio Terzo - e la tutor, la psicologa Ornella Longo. Il progetto è stato promosso dall’associazione Rock10elode e finanziato dall’8x1000 della Chiesa Valdese, con l’obiettivo finale di dare ai minori detenuti spazi e tempi per coltivare le proprie attitudini artistiche e comunicative. Le attività, organizzate in collaborazione con l’istituto, si sono svolte a partire dal mese di febbraio, e sono state pensate come uno “spazio aperto” durante il quale condividere testimonianze personali sugli argomenti trattati e scrivere testi su composizioni fornite dai musicisti. Il risultato è stato una canzone (con annesso videoclip) che stimola i giovani al riscatto attraverso l’arte, alla libertà attraverso le parole, ma non solo: oltre a Fiori dal nulla ci sono altri sette brani che i ragazzi hanno composto. “Scrivere questa canzone è stata un’esperienza che ha favorito l’attivazione di processi di cooperazione e di socializzazione - dichiara Clara Pangaro, direttrice dell’istituto - e ha reso possibile esprimere le potenzialità di ciascuno dei giovani partecipanti al progetto. Nei singoli testi scritti e con Fiori dal nulla, i ragazzi sono riusciti a raccontare alcuni momenti della loro vita con il linguaggio musicale, a dire di sé e dell’esperienza detentiva, a dare parola ai loro desideri e ai sogni che sperano di realizzare. È stata inoltre un’opportunità per riflettere e trasmettere messaggi profondi di accoglienza, di giustizia e legalità, offrendo ai giovani partecipanti preziosi elementi per poter ripensare e rimodulare i loro percorsi di crescita per un’attiva e costruttiva partecipazione alla comunità sociale”. “Ci è piaciuto offrire questa opportunità - spiega Gianni Zichichi, presidente dell’associazione Rock10elode e ideatore del progetto - per stimolare verso il bello questi ragazzi, assecondando la loro sensibilità creativa. L’intento è stato quello di offrire loro la possibilità di coltivare in maniera semplice, libera e gioiosa, attitudini artistiche e comunicative”. Le emergenze finiscono, poi l’unica via sono le elezioni di Piero Ignazi Il Domani, 4 agosto 2021 L’eccezionalità di un governo da Salvini a Speranza si giustifica solo per un breve periodo e per poche cose essenziali. Ora con l’approssimarsi dell’elezione del prossimo presidente della repubblica anche il tempo del governo è in questione. Contrariamente a una valutazione diffusa, l’anno prossimo la parola va riconsegnata agli elettori: sia che Draghi vada al Quirinale, sia che altri ascendano al Colle. Le motivazioni addotte dal capo dello Stato Sergio Mattarella per non andare alle elezioni al momento della crisi del governo Conte 2 e insediare Mario Draghi a palazzo Chigi con una maggioranza tecnica e non politica sono state due: la gestione della pandemia e la presentazione del Recovery Plan. Due emergenze pressanti e cruciali. Non un governo di ordinaria amministrazione bensì “d’eccezione”. Tuttavia le emergenze che possono giustificare strappi o forzature devono avere un termine, quanto meno indicativo. Per quanto riguarda il Covid-19, anche se non è ancora domato, la strada è in discesa. Si tratta di insistere con la vaccinazione a tappeto. La quarta ondata in arrivo sarà ben diversa dalle precedenti per numero di ricoveri e decessi. E il governo avrà senz’altro provveduto a organizzare trasporti e logistica nelle scuole per lezioni in sicurezza. Se così non fosse, e obbligasse ancora a quell’abominio della Dad, la delusione sarebbe cocente: anche il governo dei migliori avrebbe fallito. Pure il Pnrr è instradato sui binari giusti, quanto alla tempistica. Per i contenuti il discorso è diverso, ma non è qui la sede. il governo sta comunque ottemperando alla mission indicata dal capo dello stato, che si condensava nel presentare il piano a Bruxelles e delineare gli indirizzi generali. A questo punti sorge inevitabile un quesito: quando l’esecutivo attuale potrà dire di aver adempiuto al suo compito e lasciare il campo alla politica “normale”. L’eccezionalità di un governo da Salvini a Speranza si giustifica solo per un breve periodo e per poche cose essenziali. Ora con l’approssimarsi dell’elezione del prossimo presidente della repubblica anche il tempo del governo è in questione. Contrariamente a una valutazione diffusa, l’anno prossimo la parola va riconsegnata agli elettori: sia che Draghi vada al Quirinale, sia che altri ascendano al Colle (e qui la correttezza di Matterella rende fantapolitico un prolungamento della sua presidenza per arrivare alle elezioni del 2023). Troppi i cambiamenti occorsi in questi anni per lasciare ancora i cittadini senza possibilità di esprimersi. Prolungare l’opera dell’attuale esecutivo - per quanto egregia sia la sua attività - incrina la relazione tra istituzioni e opinione pubblica, e favorisce un sentimento di estraneità, quasi di espropriazione del diritto dei cittadini a dare un indirizzo politico. A mantenere in carica Mario Draghi con la sua irrituale maggioranza quando le emergenze sono in via di risoluzione e non ci sono più gli impedimenti per non votare avanzati da Mattarella a gennaio, si rischia una nuova ondata populista che, a scadenza, alimenterà l’opposizione, ora incarnata da Fratelli d’Italia ma domani chissà, o si riverserà verso l’astensione. Esiti che possono essere mitigati se si ridà voce ai cittadini in tempi brevi. E se verrà un governo Meloni-Salvini, pazienza: il popolo è sovrano. Ci pensino la sinistra e i tanti indaffarati neocentristi a evitare un tale esito. Perché la razza non esiste di Marino Niola La Stampa, 4 agosto 2021 È il modo in cui viviamo che ci fa essere ciò che siamo. Non una presunta origine biologica. E comunque l’origine, come diceva il grande filosofo berlinese Walter Benjamin, sta nel fiume delle trasformazioni e rimescola continuamente i materiali della nostra nascita. Al mondo non ci sono che due razze, quella di chi ha e quella di chi non ha. Sono parole che Cervantes nel Don Chisciotte, mette in bocca alla nonna di Sancho Panza per riassumere i fondamentali della condizione umana. Siamo nel 1605, al tempo delle colonizzazioni e delle scoperte geografiche, e fra le persone veramente intelligenti il concetto di razza è già obsoleto, un vecchio arnese del pensiero. Buono solo per chi vuol farne un uso contundente. Ieri come oggi. Una “parola malata”, l’ha definita il direttore di questo giornale nel suo editoriale del 30 luglio scorso, proponendo opportunamente di cancellarla dal lessico delle istituzioni. Anche per neutralizzare la tossicità allo stato inerziale che si trova al fondo di questo vocabolo maledetto. Perfino quando viene usato con le migliori intenzioni, come nell’articolo 3 della nostra Costituzione. Dove il termine viene impugnato dai Padri Costituenti come antidoto esplicito contro quella viralità, quella infezione che aveva ammalato le coscienze al tempo delle leggi razziali. O, meglio, razziste. Come una zavorra della storia, una patologia del linguaggio in grado di resistere agli anticorpi della civiltà e della conoscenza. Che siano le evidenze della ragione. O che siano le certe dimostrazioni della scienza. Che ha un bell’affannarsi a scodellare prove che la razza non spiega un bel niente delle differenze tra gli uomini. Che i nostri comportamenti non sono un prodotto di madre natura ma di madre cultura. Perché gusti e tendenze, passioni e vocazioni, consuetudini e attitudini, eredità e identità sono il risultato dell’ambiente in cui viviamo, dell’educazione che riceviamo, delle influenze che subiamo, delle esperienze che facciamo. E di quello che ciascuno di noi sceglie di essere. Etichettare e trattare gli altri come inferiori, peggiori, traditori, malfattori e “meno umani” di noi, è un atteggiamento che si ripete. Al quale il francese Joseph Arthur Gobineau, nel 1853 offre una sponda teorica pubblicando il Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, vera bibbia del razzismo. Che applica ai popoli e alle società un termine in precedenza usato solo per le razze animali. La “parola malata” infatti deriva dal francese medievale haraz, riferito agli allevamenti degli stalloni da riproduzione. Un’etimologia “bestiale”, che applicata agli umani finisce per produrre una de-umanizzazione della persona. In realtà la questione di fondo resta l’enorme sproporzione tra l’assoluta inconsistenza scientifica della nozione di razza e la sua straordinaria capacità di resistenza storica e politica. A denunciare per primo questa sproporzione è stato Claude Lévi-Strauss, il più grande antropologo di sempre. Che nel 1952, a pochi anni dall’orrore della Shoah, scrive su invito dell’Unesco Razza e storia, un illuminato discorso sugli usi ed abusi della parola razza. E torna sull’argomento nel 1971, sempre su incarico dell’Unesco, con un testo, tradotto immediatamente in italiano da L’Espresso col titolo Il colore delle idee. Dove il grande studioso smonta, uno dopo l’altro, i falsi sillogismi razziali, fondandosi sui risultati delle ricerche scientifiche, unanimi nell’affermare che la razza non esiste. È la cultura invece che determina quel che chiamiamo erroneamente razza e non il contrario. Insomma, è il modo in cui viviamo che ci fa essere ciò che siamo. Non una presunta origine biologica. E comunque l’origine, come diceva il grande filosofo berlinese Walter Benjamin, sta nel fiume delle trasformazioni e rimescola continuamente i materiali della nostra nascita. Li fonde, li confonde, li trasfonde. Lo prova il fatto che il 99% del nostro Dna è comune a tutti gli altri individui del pianeta. E quell’1% è quel che distingue me da mio fratello. E anche me da Beyoncé. E, per venire a noi, quello che ci fa italiani - lingua, tradizioni, costumi, valori, gusti - non si eredita dai geni, ma si acquisisce vivendo con altre persone che tramandano questo patrimonio immateriale. Peraltro, in continuo cambiamento per effetto di scambi, prestiti, ibridazioni, migrazioni, contatti. In sostanza, la razza non esiste sul piano scientifico, ma purtroppo resiste come mito, soprattutto come mito politico. Un motivo in più per cancellarla dal vocabolario del marketing, delle statistiche, delle leggi. E anche dalla Costituzione. Perché è un lemma infetto, una tara inemendabile, un primordiale algoritmo dell’esclusione. Che sposta ogni volta la soglia della differenza per trasformarla in disuguaglianza, individuando continuamente nuovi bersagli. Ebrei o armeni, meridionali o immigrati e via all’infinito. Con l’effetto devastante di sdoganare atteggiamenti inqualificabili. Che adesso una politica che ha perso il senso del pudore difende e diffonde, come l’ennesima mutazione di un virus antico. La variante delta della barbarie. Migranti. Anche dopo l’era Salvini l’Italia ha un problema di accoglienza di Vito Carucci Il Domani, 4 agosto 2021 Aadil ha 27 anni ed è siriano. Dal 2019 vive a Parma, adesso ha una casa, un po’ di soldi in tasca per sopravvivere, ma può anche imparare l’italiano, parlare con uno psicologo nei momenti di difficoltà e chiedere un aiuto agli esperti per trovare un lavoro che gli garantisca un futuro migliore. Aadil può fare tutto questo perché inserito in un progetto che in gergo tecnico prende il nome di “accoglienza integrata”. Grazie al servizio dell’orientamento al lavoro, Aadil era riuscito a trovare un posto ben pagato da impiegato, ma qualche mese fa è stato licenziato a causa della crisi economica provocata dal Covid. Non si è arreso e grazie ad alcune amicizie è riuscito a trovare una nuova occupazione. “Questa esperienza sarebbe stata impossibile nei centri d’asilo dove prevale una logica di controllo e di gestione anziché di emancipazione delle persone accolte. L’integrazione avviene soprattutto quando le persone costruiscono dei legami sul territorio” dice Michele Rossi, direttore del Ciac. Il Ciac (Centro immigrazione asilo e cooperazione internazionale) è una delle prime esperienze in Italia di accoglienza integrata, nata per volontà della società civile. La sua storia inizia nel 1993, quando a Parma è stata promossa la campagna “Fermiamo un fucile per volta” per l’accoglienza e il sostegno dei disertori della guerra nella ex Jugoslavia. Poi nel 2001 il Ciac è entrato a far parte della rete istituzionale dei centri per richiedenti asilo, grazie alla legge Turco-Napolitano che destinava finanziamenti ai comuni per progetti volti all’integrazione degli stranieri. Nato a Fidenza, il progetto si è poi diffuso in tutta la provincia di Parma e oggi dà asilo a 230 persone, sperimentando pratiche di convivenza interculturale come l’ospitalità di rifugiati in famiglie italiane e il progetto “Tandem” (co-housing tra giovani italiani e giovani rifugiati). I diversi modelli - Tra le persone accolte c’è anche Taiwo, un ragazzo nigeriano di 25 anni che è fuggito dal proprio paese per una discriminazione legata al proprio orientamento sessuale. Taiwo è riuscito a integrarsi così bene con la comunità parmense da scegliere di partecipare a un’attività di gruppo non semplice sul piano emotivo: la restituzione dei beni personali delle persone morte di Covid alle famiglie di appartenenza. Quest’attività è stata premiata anche da un’onorificenza pubblica da parte del comune di Parma. “Il suo passato difficile poteva far temere un isolamento dalla società, invece si è messo in gioco in maniera positivamente inaspettata - segnala Rossi - a riprova del fatto che un rifugiato è essenzialmente una persona in cerca di una comunità dove veder riconosciuta la propria personalità”. Per capire come funziona il sistema d’integrazione italiano per i richiedenti asilo bisogna tenere a mente due sigle: Cas (centri d’accoglienza straordinari) e Sai (Sistema d’accoglienza e d’integrazione). A distinguere i due modelli c’è molto più di una consonante. “I Cas non coinvolgono gli enti locali, invece chi è nel Sai è dentro la comunità, dentro i luoghi pubblici, dentro i servizi del territorio” dice Rossi. Infatti, i primi sono strutture individuate dalle prefetture, in convenzione con cooperative, associazioni e strutture alberghiere, secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici. Questi centri erano immaginati al fine di sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie di accoglienza (ecco perché “straordinari”), ma di fatto sono diventati i luoghi dove si concentra il maggior numero di immigrati “irregolari”: secondo i dati del ministero dell’Interno quasi 50.000 dei 75.000 richiedenti asilo o beneficiari di protezione sono ospitati nei Cas, gli altri 25.000 nella rete Sai. I richiedenti asilo presenti nelle strutture straordinarie rimangono qui in attesa che la loro domanda di protezione sia esaminata dalle commissioni territoriali competenti; un tempo che può durare persino due anni. “Lì i richiedenti asilo sono “parcheggiati” in attesa di sapere cosa ne sarà della loro vita” dice Gianfranco Schiavone, uno degli ideatori del modello di accoglienza di piccola scala e diffusa sul territorio italiano oltre che presidente del “Consorzio Italiano Solidarietà - Ufficio rifugiati onlus” di Trieste (un altro progetto di accoglienza integrata). Quello dei Cas è un sistema che pecca di trasparenza: non sappiamo quante sono precisamente le strutture, dove si trovano e quali sono gli enti gestori. Quindi, in questa categoria, sono inclusi una molteplicità di centri, sia in termini di dimensioni che di qualità dei servizi offerti. Tuttavia, per gli operatori dell’accoglienza integrata come Michele Rossi, i due modelli non sono minimamente paragonabili: “Molto spesso le persone che arrivano hanno delle ferite psicologiche; per curarle, occorre la definizione di progetti individualizzati a opera di un’équipe multidisciplinare. Tutto ciò non è previsto nei Cas”. Anche Schiavone si rifiuta di mettere i due sistemi sullo stesso piano: “C’è stato un miglioramento dei servizi offerti dai Cas, ma è un miglioramento relativo perché continuano a essere favoriti centri di grandi numeri (fino a 600 persone ndr) dove si verifica una sproporzione incredibile tra il numero degli operatori sociali e il numero di ospiti con tutto ciò che ne consegue sulla carenza dei servizi”. Il Sai rappresenta invece il ripristino del sistema Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) dopo la parentesi dei “decreti sicurezza” di Salvini che aveva escluso da questi centri i richiedenti asilo che non avevano ancora visto concluso l’iter di riconoscimento della loro protezione. Il Sai è costituito dalla rete degli enti locali che per la realizzazione di progetti di accoglienza integrata accedono al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo (finanziato per la metà dall’Unione europea). Nel 2021 sono stati finanziati 760 progetti, coinvolgendo 1.800 comuni circa (dati ministero dell’Interno). Questo sistema prevede la partecipazione volontaria degli enti locali alla rete dei progetti di accoglienza e l’implementazione sul territorio dei progetti da parte di associazioni del terzo settore. Qui i richiedenti asilo o le persone che beneficiano già di una protezione hanno la possibilità di essere accolte per sei mesi, eventualmente prorogabili. Secondo la legge 173/2020 - approvata dal secondo governo Conte - che ha modificato i “decreti sicurezza” introdotti da Salvini, i Cas non sono più una tappa obbligata per i richiedenti asilo, ma strutture che dovrebbero attivarsi in via temporanea solo nel caso in cui non ci sia disponibilità di posti nel Sai. La persona ospitata nei Cas dovrebbe rimanere in quelle strutture solo il tempo necessario all’espletamento delle operazioni utili alla definizione della posizione giuridica dello straniero come richiedente asilo (verbalizzazione della domanda d’asilo e avvio dell’iter). Peccato che la riforma sia rimasta lettera morta per diversi aspetti. Nel caso in esame, non sono stati approvati i decreti attuativi per definire un regime transitorio che gradualmente ampli i posti disponibili nel Sai e svuoti i Cas. Il risultato, come si vede dai numeri, è che il modello prevalente rimane quello dei Cas. “Non c’è un vero investimento né una strategia per arrivare a un sistema unico d’inclusione sociale” dice Schiavone. Le proposte - Il carattere volontario della partecipazione degli enti locali alla rete di accoglienza integrata è chiaramente uno dei limiti del sistema Sai: 1.800 comuni su 8.000 circa non raggiungono nemmeno un quarto del totale. Inoltre, c’è un’evidente sproporzione di progetti tra regioni meridionali e settentrionali: ai primi posti troviamo Sicilia e Calabria con 100 progetti l’una, negli ultimi troviamo Friuli-Venezia Giulia con 9 e Trentino-Alto Adige con 5 progetti. “È da notare che una regione ricca come il Veneto ospita solo 20 progetti” sottolinea Rossi. Dietro la carenza di partecipazione non si nascondono solo motivi ideologici, ma anche altre ragioni. “La difficoltà maggiore è quella di trasformare i progetti in effettiva realtà. Quindi, a fronte di una progettualità migliore e un maggiore sostegno economico, più comuni potrebbero aderire alla rete di accoglienza integrata” dice Matteo Biffoni, sindaco di Prato e delegato Anci (Associazione nazionale comuni italiani) per le politiche per l’integrazione. Perché un comune dovrebbe aderire al sistema Sai? “C’è un ritorno di lavoro e di servizi per tutta la comunità; ad esempio, l’attivazione di uno scuolabus in alcuni comuni del sud con i fondi nazionali per l’asilo potrebbe andare a vantaggio anche dei bambini autoctoni” afferma Biffoni. Rossi pensa che per allargare l’adesione degli enti locali e superare la precarietà della rete Sai, “bisognerebbe concepire i servizi dell’accoglienza integrata come servizi socio-assistenziali al pari di quelli attivi per gli anziani, i giovani e i disabili”. Così facendo, il sistema ordinario di accoglienza diventerebbe parte integrante del welfare nei diversi livelli di governance: nazionale, regionale e locale. Questa è una delle sette proposte presentate nel rapporto “L’accoglienza di domani” da Europasilo: una rete nazionale di venti associazioni (tra cui ci sono il Ciac e il Consorzio italiano solidarietà) impegnate nell’accoglienza che si occupano di promuovere buone pratiche d’asilo. Tra le tesi si trova anche il superamento del modello del Cas e l’istituzione di un “Ente nazionale per il diritto d’asilo a garanzia e tutela del sistema”. Inoltre - si legge nel documento - “va superata l’ambiguità rispetto al ruolo del terzo settore nell’organizzazione del sistema e il connesso annoso problema della modalità di affidamento del servizio”. Infatti, “una volta inquadrato quale parte integrante del sistema del welfare, il sistema Sai dovrebbe articolarsi sul principio di sussidiarietà con il terzo settore e non su quello della concorrenza, che vige per il codice degli appalti”. Quando chiediamo a Rossi se hanno avuto almeno un riscontro politico alle loro proposte ci risponde: “Ci hanno detto che questa non è la fase politica opportuna per occuparsi di questi temi. Sono vent’anni che ce lo sentiamo dire”. Infatti, è da vent’anni che Rossi e Schiavone - come tanti altri - si impegnano per far sì che i richiedenti asilo siano ben accolti e inclusi nelle nostre società. Eppure, in tutti questi anni non sono stati fatti grandi progressi, a detta di Schiavone: “Se nel 2000 mi avessero detto che dopo vent’anni il sistema di accoglienza integrata sarebbe stato ancora così incompiuto e non ben radicato sul territorio non ci avrei creduto. E ho la percezione che lo scenario non cambierà a breve”. Ddl Zan a settembre con il sì di tutti. Renziani contro il Pd: i diritti vanno in vacanza di Daniela Preziosi Il Domani, 4 agosto 2021 La conferenza dei capigruppo al Senato ha respinto la proposta presentata dal capogruppo di Italia Viva, Davide Faraone, di trovare un accordo per portare in aula il ddl Zan e procedere alla discussione generale del provvedimento, prima della pausa estiva dei lavori dell’assemblea. Il tono del renziano Davide Faraone è sarcastico ieri pomeriggio quando al senato, a conferenza dei capigruppo ancora in corso, annuncia con enfasi: “Da oggi i diritti sono ufficialmente in vacanza: la proposta di Italia viva di cercare l’intesa e portare in aula già domani il disegno di legge Zan non ha trovato adesioni. Pd e Cinque stelle, che per settimane non hanno parlato di altro, hanno preferito un buen retiro estivo, seguiti dai principali quotidiani da cui sono scomparsi non solo i titoli, ma anche i trafiletti sulla legge che apriva le prime pagine”. La replica del Pd è altrettanto sarcastica: “Abbiamo deciso all’unanimità”, informa il senatore Franco Mirabelli, “Faraone ha fatto il comunicato ma non la proposta”. Insomma alla fine nei fatti va così: il calendario dell’aula del senato viene votato da tutte le forze politiche, dunque anche Iv. E comunque anche Lega e Forza Italia si associano alla scelta di non riportare in aula la legge contro l’omofobia per uno scampolo di tempo, prima della pausa estiva che al senato inizia il 6 agosto. Fino a quel giorno la tabella di marcia dei senatori è a tappe forzate: il voto di conversione di due decreti, quello sulle missioni internazionali e il bilancio del senato. Per di più sulla Zan gravano quasi mille emendamenti. La stragrande maggioranza è stata presentata dalla Lega, ben 672, più di 20 firmati dal solo senatore Roberto Calderoli. A scorrere i testi, l’intento ostruzionista è evidente. Forza Italia ne ha presentati 134, più dei 127 di Fratelli d’Italia. La senatrice Udc Paola Binetti da sola ha rovesciato sul testo un’ottantina di modifiche. Le Autonomie quattro, cinque il senatore del gruppo misto Gregorio De Falco; tre Mattia Crucioli di Alternativa C’è. E poi ci sono i quattro di Italia viva: due a firma del capogruppo, Davide Faraone con il collega Giuseppe Cucca e due di Cucca con il socialista Riccardo Nencini. Sarebbero, nelle fantasie politiche renziane, quattro modifiche sulle quali potrebbero convergere anche le destre - almeno quelle di governo. Ma dell’accordo che Iv reputa a portata di mano ancora non c’è ancora traccia ed è difficile immaginare che si sarebbe materializzato alla vigilia di Ferragosto. Però Faraone chiede comunque di andare avanti nell’esame della legge. In riunione alza i decibel. “Per forza”, spiega poi, “da mesi mi fanno passare per quello che blocca tutto e invece loro adesso rinviano a chissà quando”. Di “urla e tensione” in riunione parlano le agenzie. Ma dal Pd arriva una contro-narrazione: quelli che sono filtrati oltre la porta non sono i toni barricaderi di Faraone ma i rimproveri a lui dei colleghi “dopo il terzo comunicato che raccontava cose false”. Comunque sia andata, da giorni Faraone ironizza contro Pd e M5S. Chiede “se il provvedimento si è fermato a causa delle ferie di Fedez” e lamenta che “più che scriverci un libro come ha fatto Zan era meglio scriverla in gazzetta questa legge”. Vero è che il deputato dem Alessandro Zan ha scritto un libro sulla vicenda della legge ha cui ha dato il cognome come primo firmatario (Senza paura, la nostra battaglia contro l’odio, Piemme editore, uscirà il 7 settembre). Per Faraone ora “la legge Zan rischia di finire nel dimenticatoio fino alle elezioni amministrative quando ricomparirà dal cilindro in veste di bandierina da sventolare, ma che, senza un accordo preventivo ha un destino già segnato”. Tutta diversa la lettura del Pd: “L’unica cosa che non va in vacanza è l’inaffidabilità di Iv”, replica la senatrice Monica Cirinnà, “Se non avesse cambiato idea sul sostegno già espresso al ddl Zan alla Camera, cercando surreali mediazioni e presentando emendamenti che demoliscono il testo, le cose sarebbero andate diversamente. Il sostegno alla legge è forte nel paese. Il testo sarà in aula a settembre, quando ci sarà tempo e modo per evitare le tante trappole e imboscate contenute negli emendamenti della Lega e di Italia Viva”. La versione di Zan: “Questa mediazione di Italia viva sulla legge è inaccettabile” di Alessandra De Vita Il Domani, 4 agosto 2021 “È chiaro che vogliono affossare la legge”, dice il deputato. “Il Ddl Zan ha la forza di rendere questo paese più civile per tutti i cittadini, non solo per una parte”. Sulla posizione di Renzi risponde: “La mediazione non può limitare la dignità delle persone”. “Non ci sono vittime vulnerabili di per sé ma è la società che li rende tali”, dice Alessandro Zan, il padre del disegno di legge che sta spaccando la politica, la maggioranza e il paese, dividendolo in ultrà favorevoli e contrari, che vedono nella nuova norma una forma controllo e censura. Il deputato Zan risponde alle domande dopo un incontro con i giovani giurati dell’ultima edizione del Giffoni Film Festival, durante il quale anche loro gli hanno posto quesiti certo non facili. Tra tutte, è la premessa di Zan, “mi ha colpito quella di una ragazza che ha una malattia rara, mi ha detto che non riesce a curarsi con il sistema sanitario nazionale, perché per farlo dovrebbe prendere dei permessi dal lavoro oltre quelli consentiti”. E aggiunge: “Ci sono ancora tante barriere sociali, architettoniche e sanitarie che non consentono a tutti di curarsi gratuitamente, se avessimo una società senza barriere che consenta a tutti di vivere serenamente, questo renderebbe più agibile la vita dei cittadini. Ecco perché la piena cittadinanza si ottiene con uno stato più evoluto e il Ddl Zan ha la forza di rendere questo paese più civile per tutti i cittadini, non solo per una parte”. Come possa una proposta contro l’omotransfobia generare tanti dubbi e contrasti è certamente più chiaro a chi subisce il risvolto violento della non accettazione dell’altro. Kristen Corso, per esempio, non esce mai senza cuffie per strada, la musica copre tutti gli insulti. Perché questa ragazza transgender a imparato a ignorarne molti da quando è uscita dalla casa famiglia a cui era stata affidata a 15 anni, dopo aver perso entrambi i genitori. Mostri da nascondere - “Per alcuni saremo sempre e comunque dei mostri da tenere nascosti e purtroppo ci sono persone al potere che la pensano così”, racconta Kristen, che non riesce a capire per quale motivo ci sia così astio nei confronti di una legge che potrebbe garantire delle tutele in più a chi come lei subisce ogni giorno offese. “Se le loro vite non mi interessano perché la mia deve essere oggetto della loro morbosa attenzione? Perché non possiamo vivere ciò che siamo serenamente? Qualcuno ci penserebbe due volte prima di importunarmi se una legge glielo impedisse e neanche è detto, mica tutti rispettano le norme”, riflette Kristen. Contrasti tra le forze politiche al governo intanto bloccano la votazione della legge in aula al Senato che potrebbe slittare al prossimo autunno. “L’incombenza di decreti ha impedito la votazione entro l’estate”, spiega Zan, “si riparte a settembre ma questo è accaduto anche alla Camera l’anno scorso, confido, questa volta, in un senso di responsabilità perché quei partiti che hanno presentato 700 emendamenti è chiaro che vogliono affossare la legge e non continuare ad approvarla, dunque è importante che di fronte al paese la politica si assuma la responsabilità di dare una legge di civiltà che ha tutta l’Europa, tranne l’Italia”. Il partito di Matteo Renzi, Italia viva, ha rilanciato la proposta di modificare l’articolo 1, che definisce anche l’identità di genere (per tornare alle parole “omofobia” e “transfobia”). La mediazione offerta da Italia viva, il cosiddetto lodo Faraone-Unterberger. Tuttavia il senso di queste mediazioni non è ritenuto accettabile né dalla comunità Lgbt né dai promotori della stessa norma. “La mediazione può essere su tutto ma non può limitare la dignità e la vita delle persone”, chiarisce Zan, “si può mediare su tutto ma non sui diritti, ecco perché ritengo che alcune proposte siano inaccettabili e renderebbero discriminatoria una norma antidiscriminatoria. Significherebbe creare dei cittadini di serie B, questo è inaccettabile e anticostituzionale”. I giovani - Il genere è fluido? È sconnesso dal corpo? Sarebbe questo, su per giù, il nodo da sciogliere in aula, intrecciato all’articolo sull’identità di genere svincolata da quella del sesso. Quanto è giusto porsi questa domanda in un paese democratico in cui l’espressione del sé dovrebbe essere un diritto garantito dalla Costituzione? Ma invece che ai costituzionalisti (che non hanno mancato tra l’altro di sollevare dei dubbi seppur di natura formale) il deputato padovano preferisce affidarsi ai ragazzi: “Le nuove generazioni sono le più grandi alleate dei diritti civili e dei diritti in generale e questo dimostra che siamo sulla giusta strada, che c’è ancora un conservatorismo in questo Paese che rema contro i diritti di libertà che sono sacrosanti perché parliamo di diritti umani”, dice Zan, che conclude con un affresco delle nuove lotte che le nuove generazioni stanno portando avanti con grande coraggio: “Ci sono i giovani che attraverso i temi della giustizia sociale e dell’ambiente si avvicinano alla politica: è importante, abbiamo bisogno di loro per crescere in un paese migliore e più avanzato”. Attivista bielorusso “suicida” a Kiev. Ma si indaga per omicidio di Emiliano Squillante Il Manifesto, 4 agosto 2021 Vitaly Shishov guidava l’organizzazione no profit Belarusian House. Era sparito il 2 agosto. Con la Bdu aiutava i cittadini in fuga. Lui stesso era scappato in Ucraina a seguito delle proteste del 2020 dalla repressione di Lukashenko. Dopo il dirottamento del volo Ryanair 4978 lo scorso maggio (e la relativa detenzione dell’oppositore Roman Protasevich) e la vicenda che ha coinvolto l’atleta olimpica Krystina Tsimanousskaya, diventata un caso internazionale dopo che le autorità di Minsk hanno tentato di rimpatriarla contro la sua volontà per essersi lamentata pubblicamente dei suoi allenatori alle Olimpiadi di Tokyo, la morte dell’attivista bielorusso Vitaly Shishov getta nuove ombre su un contesto di crescenti tensioni che vedono al centro il regime di Aleksandr Lukashenko in Bielorussia. Il cadavere dell’attivista, la cui scomparsa era stata denunciata il 2 agosto dai familiari dopo il suo mancato ritorno a casa da una corsa, è stato ritrovato ieri mattina impiccato in un parco a Kiev. Una morte misteriosa, tanto che l’ipotesi di suicidio al momento non sembrerebbe nemmeno essere la pista principale su cui stanno lavorando gli investigatori, coordinati dalla Procura di Kiev: gli inquirenti hanno avviato un’indagine per omicidio premeditato, precisando che verranno prese in esame tutte le ipotesi possibili - inclusa quella di un omicidio “mascherato” da suicidio. Che Shishov fosse una personalità scomoda al regime è indubbio: l’attivista guidava l’organizzazione no profit Belarusian House (Bdu), con sede nella capitale ucraina, che si occupa di aiutare i cittadini bielorussi in fuga dalla repressione delle autorità di Minsk ai danni degli oppositori, che contestano la vittoria di Lukashenko alle elezioni presidenziali di agosto 2020. Un destino toccato anche a Shishov, costretto a fuggire in Ucraina dopo aver partecipato alle proteste. Ed è proprio la Bdu ad affermare con convinzione che non si tratterebbe di un suicidio, ricordando l’impegno di Shishov non solo a sostenere i connazionali in fuga (sono sempre di più quelli che fuggono in Ucraina, Lituania e Polonia), ma anche nell’organizzazione di manifestazioni contro il regime e nella creazione di una diaspora bielorussa in Ucraina. “Si tratta senza dubbio di un’operazione speciale per eliminare una minaccia al regime: Vitaly era tenuto sotto stretta sorveglianza e noi stessi avevamo denunciato questa situazione alla polizia”, si legge in un comunicato della Bdu, in cui viene sottolineato come Shishov avesse sempre reagito alla possibilità di un rapimento “in maniera stoica, con spensieratezza e umorismo”. Non solo: il capo della Polizia ucraina Igor Klimenko ha dichiarato durante un briefing che sul corpo dell’attivista sarebbero state riscontrate alcune ferite e abrasioni sul volto, sulle ginocchia e sul petto. Lesioni che gli inquirenti hanno attribuito ad una possibile caduta, ma che potrebbero anche essere il segnale di un pestaggio o di un’aggressione. Nel frattempo, si stanno moltiplicando le reazioni internazionali a quello che viene considerato come l’ennesimo atto di repressione da parte del regime bielorusso. Un atto “orribile” secondo il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, che ha denunciato in un tweet la “grave escalation” rappresentata dalla “persecuzione” ai danni degli attivisti bielorussi. Messaggi simili sono arrivati anche dalla leader di opposizione Svetlana Tikhanovskaya, che si è detta “devastata dalla notizia”, e dall’Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera e la sicurezza, Josep Borrell, che ha affermato di essere “scioccato” elogiando le autorità di Kiev per aver avviato subito un’indagine sul caso. Sulla necessità di indagini “attente e meticolose” si sono espressi anche gli Usa, che con una nota dell’ambasciata hanno esortato le autorità giudiziarie ucraine a fare tutto il necessario per chiarire le circostanze della morte. Anche dalla politica italiana arrivano numerosi i messaggi di condoglianze e le esortazioni all’Unione europea per una presa di posizione più incisiva contro le azioni del regime bielorusso: in particolare, alcuni parlamentari hanno proposto di creare una commissione d’inchiesta per far luce sulla vicenda. Anche il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, ha ribadito che le autorità di Kiev “faranno di tutto per chiarire le circostanze”, e che il caso è anche all’attenzione del presidente Volodymyr Zelensky. Marocco. La repressione che ha portato all’arresto di Ikram Nazih di Laura Cappon Il Domani, 4 agosto 2021 L’attivista marocchino Maati Monjib, arrestato a marzo, racconta il clima nel paese dove la ragazza italo-marocchina è detenuta. “Il suo destino dipenderà dal contesto politico”. Maati Monjib può vantare un triste primato: è uno dei primi cittadini marocchini colpiti dal software Pegasus. Professore di storia politica all’Università di Rabat e fondatore di Freedom Now, comitato per la libertà di informazione e espressione, è una figura intellettuale con una storia di attivismo decennale in Marocco. E il suo impegno per i diritti umani lo ha spinto nelle maglie della repressione del governo marocchino. Amnesty International già nel 2017 segnalò che il telefono di Monjib era stato un obiettivo del software-spia israeliano - in queste settimane sulle prime pagine di tutto il mondo per il suo uso disinvolto da parte di numerosi governi - quando il professore era già stato colpito anche dalla giustizia marocchina. La sua detenzione è terminata appena 5 mesi fa, lo scorso marzo, quando è stato scarcerato e messo in libertà provvisoria dopo 20 giorni di sciopero della fame. La storia di Monjib è uno spaccato importante sul Marocco e sulla situazione dei diritti umani nel paese. È lo stesso contesto che ha portato alla detenzione di Ikram Nazih, la cittadina italo-marocchina condannata lo scorso 28 giugno a 3 anni di carcere e al pagamento di una multa per aver condiviso un post su Facebook che, con un gioco di parole, trasformava la sura 108 del Corano, detta “sura dell’abbondanza”, in “sura del whisky”. “La situazione dei diritti umani in Marocco è la peggiore dalla prima metà degli anni Novanta”, dice Monjib. “Solo le accuse sono cambiate: prima, negli anni Sessanta e Ottanta, erano politiche mentre ora dominano tre temi: sesso, denaro e collaborazione con i paesi stranieri. Sono capi di imputazione in sintonia con la popolazione che in maggioranza è conservatrice e nazionalista”. La vicenda di Monjib è un caso esemplare. Il 29 dicembre del 2020 è stato arrestato in un popolare ristorante della capitale. “La telecamera del locale era collegata al sistema di sorveglianza stradale di Rabat. Mi hanno riconosciuto quando mi sono tolto la mascherina per mangiare”, racconta. “Così sono venuti a prendermi, mi hanno prelevato dal ristorante senza farmi nemmeno finire la prima portata. Una cosa che per me rappresenta un pericolo perché sono diabetico”. L’inchiesta per cui le autorità marocchine hanno disposto l’arresto di Monjib è relativa all’accusa di riciclaggio di denaro sporco. Il mese dopo, il 27 gennaio 2021 è stato condannato a un anno di carcere sulla base di un nuovo dossier in cui vengono formulate a suo carico accuse di “attentato la sicurezza interna dello stato”, “frode” e “altri reati”. La campagna per la sua liberazione e lo sciopero della fame portato avanti dall’attivista, complice la sua notorietà, hanno reso possibile la sua scarcerazione in tempi piuttosto rapidi, soprattutto a queste latitudini. Ma la vicenda giudiziaria è tutt’altro che conclusa. Perché in Marocco la repressione non risparmia nemmeno chi ha un doppio passaporto. Lo abbiamo visto nel caso di Ikram, cittadina italo-marocchina, e lo rivediamo anche ora con la vicenda di Monjib, cittadino marocchino e francese. “Paradossalmente credo che nel mio caso il passaporto francese abbia provocato l’effetto contrario”, dice. “Non solo non mi ha evitato il carcere ma è diventato un pretesto per sostenere che probabilmente non sono fedele al Marocco e alla monarchia. Credo che ora solo il passaporto Usa possa veramente aiutarti”. Monjib conosce anche il caso di Ikram, il cui processo di appello è previsto, come confermato dalla Farnesina, nelle prossime settimane, e ne conferma gli aspetti di delicatezza, sia sul piano giuridico sia su quello diplomatico. “Il destino della ragazza dipenderà dal contesto politico”, spiega. “Dei contatti discreti ed efficaci del governo italiano con le autorità marocchine potrebbero aiutare”. Non è da escludere però che l’esecutivo decida di porre fine all’episodio anche in maniera repentina. Il governo di Rabat, esaurita la spinta nazionalista potrebbe, come già accaduto, archiviare il caso. Il passaporto europeo rischia di non essere più un fattore di protezione per i cittadini marocchini anche perché i rapporti tra Europa e Marocco negli ultimi mesi hanno conosciuto livelli crescenti di tensione. Lo scorso dicembre la dichiarazione dell’allora presidente americano Donald Trump ha riconosciuto la sovranità del Marocco sul Sahara occidentale in cambio della normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Israele. Da allora i legami tra l’Europa e le autorità di Rabat non sono più gli stessi. “Il regime crede, con l’appoggio di Israele e della lobby filo-israeliana in America, di poter fare a meno dell’Unione europea”, osserva Monjib. “Ancora di più perché il Marocco aiuta l’Ue a combattere il terrorismo e le migrazioni”. Da qui le tensioni degli ultimi mesi. Lo scorso marzo il ministro degli Esteri marocchino Nasser Bourita ha chiesto al governo di sospendere le comunicazioni con tutte le entità tedesche a Rabat, citando “profondi disaccordi” con Berlino. Una reazione dovuta alle critiche che il governo tedesco aveva fatto nel dicembre del 2020 alle dichiarazioni di Trump. A maggio, poi, c’è stato un altro episodio. Questa volta con la Spagna. Il Marocco ha aperto le frontiere provocando l’arrivo di 8mila migranti in due giorni nell’enclave spagnola di Ceuta dopo che le autorità di Madrid avevano accolto, in un ospedale di Logroño, Brahim Gali, il leader del Fronte Polisario, il movimento di liberazione del Sahara occidentale, nemico storico del Marocco. Questo nuovo scenario diplomatico, a livello interno, non ha fatto altro che acuire la repressione che il governo di Rabat porta avanti nei confronti di chi non è allineato. “La diffamazione degli oppositori democratici è diventata un pilastro essenziale del sistema di repressione”, dice Monjib. “Le persone hanno più paura di vedere notizie o una propria foto sulla stampa ufficiale che di passare qualche mese in prigione. Diversi attivisti hanno interrotto le loro attività politiche. Afghanistan e Iran, la strategia del caos degli Stati uniti di Alberto Negri Il Manifesto, 4 agosto 2021 “Dopoguerre”. Si tratta in sostanza di risparmiare sulla presenza militare diretta come è stato in Afghanistan o Iraq e di lasciare ardere focolai di guerra o di resistenza: sono le cosiddette guerre per procura, fatte con le vite degli altri. L’Iraq è stato questo, così come la Siria, la Libia e adesso il nuovo capitolo del conflitto in Afghanistan A chi giova il caos in Afghanistan, causato dal ritiro Usa e anche assai prevedibile visto che i talebani sono all’offensiva da almeno tre mesi? Certamente non agli afghani e neppure all’Iran dove si è appena insediato alla presidenza l’ultraconservatore Ebrahim Raisi in trattativa con gli Usa sulle sanzioni, alla guida di un Paese, stritolato dall’embargo e dalla pandemia, che è sempre stato un avversario dei talebani. Gli iraniani, prima del ritiro americano, potevano accettare, o persino favorire, che i talebani destabilizzassero Kabul ma non possono tollerare che tornino adesso al potere. Anche se una loro delegazione è stata ricevuta a Teheran - così come a Mosca e Pechino - tutti ricordano che nel ‘98 massacrarono 11 diplomatici iraniani a Mazar el Sharif e che ora fanno la stessa cosa con la popolazione sciita afghana e gli hazara. In Afghanistan si profila il rischio di una sanguinosa guerra civile che può trasformarsi in un altro conflitto sciita-sunnita, così come è stato in Iraq prima con Al Qaida e poi con l’ascesa del Califfato. È in momenti come questi che negli uffici strategici della repubblica islamica rimpiangono il generale Qassem Soleimani, fatto fuori dagli Usa nel 2020 a Baghdad. La guerra Usa-Israele-Iran continua con ogni mezzo, dalle provocazioni agli attentati agli scienziati iraniani, ai raid aerei americani e israeliani in Siria e in Iraq contro le milizie filo-sciite e i pasdaran: se ne parla poco se non quando esplodono le tensioni nel Golfo del petrolio come è avvenuto con la nave israeliana colpita in Oman da un drone (due morti). L’Iran si troverà presto sotto pressione su tre fronti, nel Golfo, a est e a ovest e questa volta non c’è un Soleimani a indirizzare il sanguinoso vortice mediorientale. Tutto questo avviene per una precisa scelta americana: creare il caos e sfruttarlo a proprio vantaggio e degli alleati di Washington, da Israele alle monarchie del Golfo che fanno parte o ruotano intorno al Patto di Abramo voluto da Trump. È questa la “strategia del caos” attuata, dall’Afghanistan alla Libia, da diverse amministrazioni repubblicane ma anche democratiche, compresa quella di Obama di cui era vicepresidente Biden. Si tratta in sostanza di risparmiare sulla presenza militare diretta come è stato in Afghanistan o Iraq e di lasciare ardere focolai di guerra o di resistenza: sono le cosiddette guerre per procura, fatte con le vite degli altri. L’Iraq è stato questo, così come la Siria, la Libia e adesso il nuovo capitolo del conflitto in Afghanistan. È un tipo contraddittorio Biden. Da una parte riprende le trattative con Teheran sull’accordo nucleare del 2015 voluto da Obama e cancellato da Trump nel 2018, ma allo stesso tempo bombarda gli alleati dell’Iran in Iraq e in Siria. Anche in Iraq si sta ritirando lasciando la presenza militare soprattutto a una missione Nato che andrà sotto il comando dell’Italia. Insomma gli Usa creano i guai, come accadde con la guerra del 2003 contro Saddam, e noi ne paghiamo per decenni le conseguenze, esattamente come è avvenuto in Libia nel 2011 quando insieme e a francesi e inglesi attaccarono Gheddafi. Qualcuno si ricorderà della reazione del segretario di stato Hillary Clinton al linciaggio e all’assassinio di Gheddafi, frase ricordata da Diana Johnstone nella sua biografia opportunamente intitolata “Hillary Clinton regina del caos”: “Siamo venuti, abbiamo visto, è morto”, un motto che pronunciò seguito da una gran risata. Tony Blinken, l’attuale segretario si stato, era allora il più entusiasta sostenitore dell’attacco in Libia. Sì, proprio quella Libia da dove è appena tornato il ministro degli esteri Di Maio, nella schiera di coloro che non si arrendono neppure davanti all’evidenza continuando a ringraziare gli Usa di non si sa quale favore. È da notare che nel 2019, quando Khalifa Haftar assediava Tripoli e il governo Sarraj - legittimamente riconosciuto dall’Onu - gli Usa si sono astenuti dal bombardare il generale della Cirenaica, lasciando che poi fosse Erdogan a occupare la Tripolitania, con tutti i danni che ne sono venuti all’Italia. Perché gli Usa, sempre pronti a bombardare chiunque, non hanno fatto nulla? Semplice, perché il generale Haftar è sostenuto da Egitto ed Emirati, due Paese clienti di armi Usa, con in più gli Emirati entrati nel famoso patto di Abramo con Israele. La guerra in Afghanistan era persa in partenza, sostiene il saggista indiano Pankaj Mishra. Eppure delle false convinzioni hanno alimentato un’iniziativa costata un numero enorme di vite umane e centinaia di miliardi di dollari, lasciando l’Afghanistan in condizioni peggiori di quelle in cui era prima. E non c’è neppure bisogno di invocare il cliché dell’Afghanistan come cimitero degli imperi per capire che i talebani erano una forza resistente e mutevole. Ma quello che ci appare un fallimento - come l’Iraq, la Libia o la Siria - non lo è se si applica la strategia americana del caos. C’è sempre una Clinton o un suo erede pronto a farsi quattro squallide risate. Afghanistan, i talebani alla conquista di Lashkar Gah di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 4 agosto 2021 La città, nella regione dove operavano gli italiani, potrebbe essere la prima a cadere, tra poche ore. Una volontaria di Emergency: “Morti nelle strade, è un campo di battaglia”. “Ci sono morti per le strade ovunque. I feriti spesso non possono essere soccorsi, le vie di comunicazione sono campi di battaglia, difficile portarli agli ospedali. Noi ormai da venerdì scorso ricoveriamo soltanto le vittime con ferite molto gravi da guerra. Il loro numero è in crescita esponenziale”. La voce di Leila Borsa arriva netta per telefono dal suo ufficio nell’ospedale di Emergency, nel centro di Lashkar Gah. Ogni tanto si sentono spari ed esplosioni. I colpi cadono molto vicini. “Gran parte della città è ormai in mano ai talebani, anche se il nostro quartiere, che è a pochi metri dal palazzo del governatore, resta sotto controllo delle truppe agli ordini del governo di Kabul”, spiega questa 32enne della provincia di Milano, che da febbraio lavora per la ong italiana. Hanno 107 letti, quasi tutti occupati da pazienti appena ricoverati. Ne tengono una decina liberi per cercare di far fronte al continuo flusso degli arrivi. “La città è ormai deserta. I nostri ricoverati sono quasi tutti giovani combattenti, soldati del governo o talebani. Noi non facciamo differenza: curiamo chiunque bussi alla nostra porta. È sempre stata la filosofia di Emergency e ci permette di operare in regioni difficili come questa”, aggiunge. Le parole di Leila confermano con dettagli drammatici le notizie che arrivano incalzanti dall’Afghanistan negli ultimi giorni. I talebani hanno rilanciato la loro offensiva, mentre ancora gli americani, assieme agli alleati della coalizione internazionale, stanno completando il ritiro, la cui data finale è ora prevista per il 31 agosto. Cuore dei combattimenti sono al momento i tre capoluoghi delle regioni meridionali e orientali. A Herat, dove sino a giugno stava il contingente italiano, le milizie del “signore della guerra” locale, Ismail Khan, cercano di impedire che i talebani s’impadroniscano dell’aeroporto e della base adiacente (è stata il quartier generale italiano per circa un quindicennio). Combattimenti furibondi sono in corso anche a Kandahar, che è la città-simbolo dei talebani. Vi stava infatti il quartier generale del Mullah Omar, che nella prima metà degli anni Novanta organizzò militarmente il suo movimento di studenti delle scuole religiose islamiche e riuscì nel settembre 1996 a conquistare Kabul, prima di venire scacciato dall’invasione Usa nel 2001. Ma tutto lascia credere che il primo capoluogo a venire conquistato possa essere proprio Lashkar Gah, che con i suoi 200 mila abitanti è la città più importante della regione di Helmand e rappresenta assieme a Kandahar il centro dell’etnia Pashtun, cui appartengono i talebani. Da qui transitano le maggiori vie di comunicazione col Pakistan. Ieri pomeriggio almeno nove dei dieci quartieri centrali di Lashkar Gah erano in mano ai talebani. Secondo le agenzie dell’Onu, i civili morti nelle ultime 24 ore sarebbero una quarantina. Ma fonti locali ne segnalano centinaia. Mancano acqua, elettricità, cibo. Il generale dell’esercito regolare, Sami Sadat, ha invitato i civili ad evacuare al più presto le loro case, lasciando intendere l’imminenza di pesanti bombardamenti con il sostegno dell’aviazione Usa. A Kabul una forte esplosione ha investito l’abitazione del ministro della Difesa, dove si trovano anche le ambasciate e gli uffici delle agenzie straniere. Ieri sera era incerto il numero delle vittime.