Ridurre i danni prodotti dal carcere, spezzare la catena della cattiva comunicazione di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 3 agosto 2021 Carcere e ospedali: quanto contano l’ascolto e la comunicazione Ho avuto di recente un’esperienza difficile di malattia e di ospedale, e la voglio raccontare. Prima di tutto per un motivo “futile”, che è la consapevolezza di come funziona quel passaparola tra detenuti, e spesso anche operatori, che fa circolare le “notizie” nei luoghi di privazione della libertà e che viene definito spesso “radio carcere”. Essendo il carcere un luogo ancora poco trasparente, al suo interno si sviluppa di frequente una capacità, amplificata rispetto al mondo “libero”, di stravolgere tante notizie che arrivano dall’esterno. Ecco, su di me preferisco essere io a darle, le notizie, e a cominciare così a spezzare la CATENA DELLA CATTIVA INFORMAZIONE. Dunque, gli antefatti. All’improvviso nella mia vita è successo qualcosa di drammatico: ho fatto una risonanza magnetica al cervello, a partire dagli acufeni nelle orecchie che mi angustiavano e da un rimbombo che sentivo nella testa, e subito dopo una visita urgente da un neurochirurgo, che ha definito il mio cervello “un casino”. Ho capito che la cosa da cui muove tutto è una malformazione vascolare rara, per cui ho dovuto entrare quasi subito in ospedale, dove mi hanno fatto un intervento fondamentale su questa malformazione, durato otto ore, in anestesia generale, però certamente meno invasivo di una operazione chirurgica; un radiologo è entrato credo con un sondino dall’inguine e ha “risistemato” quel groviglio senza fare un taglietto. Cose da fantascienza, per cui mi reputo anche fortunata che esistano queste straordinarie tecnologie e questa specie di “maghi”. Sono uscita dall’ospedale dopo meno di due settimane a fine giugno e ci ritornerò a breve per la parte conclusiva dell’intervento. Ma il vero motivo per cui voglio parlarne ha a che fare ancora una volta con una materia di cui noi volontari siamo davvero, credo, esperti: la COMUNICAZIONE SU TEMI COMPLESSI, che quando è cattiva è un moltiplicatore di ansia e di rabbia. Le parole per restituire la complessità A partire dalle esperienze di questi anni, di un volontariato che, sui temi del carcere e della complicata realtà esterna che si porta dietro, è sempre più maturo e consapevole del suo ruolo, mi sembra importante allora ripartire da alcune parole che raccontano i risultati significativi del lavoro che stiamo facendo, a cui oggi bisogna attingere per cercare di portare idee nuove in un sistema malato che vive ancora di violenza e di conflitti. Prevenzione Quando sono “esplose” davanti ai nostri occhi le immagini delle violenze di Santa Maria Capua Vetere, a tutti quelli che ci chiedevano di aiutarli a capire, attraverso la nostra competenza di volontari, perché fosse successo quell’orrore, abbiamo faticato molto a cercare di dare delle risposte sensate che non fossero di una generica e scontata indignazione. Il fatto è che il sistema delle pene e del carcere è ancora un sistema malato, e spesso iniquo. Per questo oggi è importante contrapporre a quei disastri violenti quelle attività che in questi anni hanno seriamente cercato di ridurre i danni prodotti dal carcere e hanno spinto a sperimentare la possibilità di un cambiamento profondo, perché questo è il momento di dare valore allo “sguardo lungo” del volontariato, che non ha mai accettato di farsi condizionare dall’alibi delle perenni emergenze carcerarie e che lavora da sempre per produrre percorsi significativi di prevenzione, e per scardinare la dittatura dell’idea di pena come “massimo della sofferenza possibile”. In un Paese come il nostro, in cui si lavora quasi sempre sui disastri già avvenuti, e quasi mai su come prevenirli, la nostra redazione prima, e poi la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, hanno saputo per esempio far tesoro delle esperienze delle persone detenute, “offrendo” agli studenti, con il progetto “A scuola di libertà”, la possibilità di conoscerle per essere più consapevoli del rischio che c’è dietro certi comportamenti trasgressivi e violenti. Ecco, forse quello che abbiamo imparato in quel progetto potrebbe diventare prezioso anche per prevenire i conflitti e le violenze che spesso si incontrano nelle carceri. Perché la prima forma di prevenzione è che le persone, quando non capiscono, possano fare delle domande e aspettarsi, in tempi accettabili, delle risposte. Ma non succede quasi mai così, e questa diffusa incapacità delle Istituzioni di dare risposte è quello che spesso accomuna gli ospedali e le carceri. Quando ero in ospedale, ho osservato tante volte quanto si sottovaluta l’ansia del malato e il suo bisogno di avere risposte, che non significa essere “rassicurato”, ma piuttosto essere aiutato a capire. E ho ripensato al carcere, e a quante volte in questi anni mi irritavano le persone detenute, quando mi chiedevano qualcosa, e poi scoprivo che la stessa cosa l’avevano chiesta a tanti interlocutori diversi. Oggi ho capito meglio che questo atteggiamento è sì fastidioso, ma nasce da una disabitudine ad avere risposte, da una accettazione rassegnata del fatto che l’attesa non ha mai tempi certi, e anche dalla sensazione di non avere neppure il diritto di fare domande. La frustrazione di sentirsi mal sopportati perché si fanno troppe domande o si cercano delle risposte in tempi decenti l’ho provata anch’io, da volontaria, nel mio rapporto con le istituzioni: quante volte mi sono sentita “rimessa al mio posto” per esempio da magistrati, coi quali pensavo di poter scambiare qualche riflessione su una persona detenuta che stavo seguendo? Quante volte ho dovuto cercare di stemperare l’angoscia dei detenuti e delle loro famiglie, sfiancati da attese senza fine? E quante volte mi sono sentita dire “deve avere pazienza”, riferito magari a un detenuto in carcere da trent’anni? Come se la condizione di detenuto legittimasse di fatto qualsiasi ritardo, attesa, mancata risposta. In ospedale succede spesso qualcosa di simile. Anche lì dove ti curano benissimo, così come nel carcere che delle possibilità te le dà, sei comunque dipendente dalla disponibilità del personale ad ascoltarti e a dialogare, e invece l’ASCOLTO/DIALOGO E IL CONFRONTO non sono un di più, sono momenti fondamentali per affrontare la malattia, così come la carcerazione, con gli anticorpi per non farti schiacciare. Comunicazione e informazione Quando si ha a che fare con persone che stanno male, e la perdita della libertà, così come le difficoltà di salute sono situazioni di debolezza e sicura sofferenza, imparare a comunicare e informare correttamente significa ridurre enormemente l’ansia delle persone più fragili, e di conseguenza anche il rischio di reazioni rabbiose e violente. Le parole possono essere terapeutiche, quando esprimono empatia, ma anche quando sanno individuare i punti di maggior debolezza dei propri interlocutori e partire da lì per spiegargli quello che sta succedendo. Ci sono momenti nella vita in cui se le persone, in carcere come in ospedale, fossero accompagnate passo passo a capire cosa gli sta succedendo, forse ci vorrebbe del tempo all’inizio, ma se ne risparmierebbe tanto dopo: perché si eviterebbero le domande ossessive, le ansie che scatenano comportamenti anche violenti, i conflitti, le sofferenze gratuite. Un esempio? Lo posso fare per l’ospedale, io credo che sia stata una sofferenza “gratuita” risvegliarmi da otto ore di anestesia e dover “convivere” con una memoria a buchi, il non saper leggere neppure la mia scrittura, le allucinazioni, le parole che era come se scappassero e io non riuscissi ad afferrarle. Sapere da prima, in modo dettagliato quello che può succederti, dare dei confini chiari alla tua ansia, tutto questo sarebbe stato possibile se qualcuno mi avesse parlato di più. E se nelle carceri qualcuno dell’amministrazione penitenziaria avesse parlato di più, a inizio pandemia, di tutto quello che sarebbe stato fatto, a partire finalmente da un uso sensato delle tecnologie, per mantenere vivi i rapporti con le famiglie, nonostante la chiusura dei colloqui, forse molte cose sarebbero andate diversamente. Formazione Se imparare a comunicare è così importante, la formazione in carcere non può riguardare solo le singole categorie di operatori, ma deve essere fatta in un dialogo/confronto fra persone con diverse competenze, altrimenti il SISTEMA non cambierà mai (e si tratta di un SISTEMA, Santa Maria Capua Vetere ha definitivamente dimostrato che la teoria delle “mele marce” non regge). Ricordo in proposito un intervento di Francesco Cascini, magistrato, ex Vice Capo del DAP e Capo del Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità, a una Giornata di Studi di Ristretti Orizzonti: “Io spesso incontro la polizia penitenziaria, facciamo continuamente corsi di formazione. La sensazione, parlando con loro, è che si sentano ancora in larga misura parti di un conflitto. (…) con l’esecuzione della condanna non inizia il periodo di risoluzione del conflitto, ma è la prosecuzione di quel conflitto”. Ecco perché diventa fondamentale che tutti accettino l’idea di una formazione congiunta, dove punti di vista anche fortemente contrapposti possano trovare un ambito di confronto e di ricomposizione. Altrimenti ogni componente di quel sistema, che dovrebbe avere come faro la Costituzione, finisce per vivere in una specie di circuito a sé, dove nessuno mette in discussione i propri comportamenti e nessuno riconosce nell’Altro un interlocutore importante. Mediazione Qualche anno fa abbiamo sperimentato nella Casa di reclusione di Padova la mediazione di un conflitto violento tra due detenuti, con la guida di Adolfo Ceretti, uno dei massimi esperti di Giustizia riparativa, ma soprattutto uno dei massimi “esperti di umanità” nel trattare questi temi. Da lì è nata una proposta, presentata dalla redazione di Ristretti Orizzonti al Tavolo degli Stati Generali dell’esecuzione penale dedicato alla Giustizia Riparativa: istituire nelle carceri un Ufficio di Mediazione, con un mediatore non legato all’Amministrazione penitenziaria, ma a un Centro per la Mediazione esterno, così molti conflitti potrebbero essere prevenuti, soprattutto dedicando tempo e risorse alla formazione sui metodi dell’ASCOLTO. Sostiene sempre Francesco Cascini che “…le ferite si rimarginano con gli incontri, il carcere può diventare un luogo molto più aperto di quello che è, questi luoghi anonimi possono essere riempiti di cose in modo da consentire le relazioni con le persone. Tutte le persone detenute che abbiamo sentito dicono che cambiano per il rapporto che c’è con l’esterno, per gli incontri che fanno”. Le vittime che accettano di entrare nelle carceri, di ascoltare le persone detenute e di farsi ascoltare, contribuiscono a rimarginare le proprie e le altrui ferite, ma anche le persone detenute che portano la loro testimonianza fanno un grande atto di giustizia riparativa, perché riparano in qualche modo al male fatto scavando tra le macerie del proprio passato per ricavarne un insegnamento per tanti ragazzi esposti a comportamenti sempre più rischiosi. Ripartiamo allora da qui, riempiamo di contenuti la parola “rieducazione”, che se serve ad aiutare tutti a mettersi in gioco e non inchioda le persone al loro ruolo, ma le riconduce nell’ambito dell’ascolto, del confronto, del dialogo, è una parola importante, da “salvare” e a cui ridare valore. Quando la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il presidente Mario Draghi si sono recati nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, hanno fatto un gesto denso di significati, hanno voluto esserci per dire che nessuna violenza può essere tollerata in nessun luogo del nostro paese e nei confronti di nessuno, neanche del più feroce criminale. Sarebbe importante per il futuro che in occasioni come queste le persone detenute potessero esprimersi non solo singolarmente, ma forti di un sistema di rappresentanza realmente democratico, dunque fatto di persone elette e non estratte a sorte, e questa deve essere un’altra battaglia che il Volontariato deve fare, per l’istituzione di una RAPPRESENTANZA VERA delle persone detenute. Perché passa anche da qui la strada per ridare la responsabilità delle proprie azioni a chi l’ha persa, o magari non ha mai saputo esercitarla davvero. Ma il Volontariato in questa necessaria riforma dell’esecuzione penale deve fare qualcosa di più di “dire la sua”: deve vedere riconosciuto il suo ruolo, come lo configurano il Codice del Terzo Settore e le recenti Linee guida per il rapporto con la Pubblica Amministrazione che lo riguardano. Quindi, non più un ruolo subalterno, non più la sgradita sensazione di sentirsi “ospiti” nelle carceri, ma un rapporto con le Istituzioni che si svolga su un piano di assoluta parità, in cui tutti devono essere chiamati alla coprogettazione e alla coprogrammazione di quei percorsi dal carcere alla comunità, che devono essere al centro della vita detentiva. Perché è importante capire che una persona detenuta, che non riesca ad accedere in tempi accettabili al reinserimento nella società, rappresenta un rischio che chi, dentro alla società, ha davvero a cuore la sicurezza sociale non può correre. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Quale riforma per carcere e giustizia penale? di Livio Pepino gruppoabele.org, 3 agosto 2021 Il tormentone continua. Da anni. Il funzionamento della giustizia penale è insoddisfacente, il carcere scoppia (sia pure con presenze variabili), la funzione rieducativa della pena è un’illusione. Ma il dibattito pubblico al riguardo è, salvo poche eccezioni, deludente ed elusivo. A volte pare che tutto si riduca alla disciplina della prescrizione, su cui si contrappongono due opposte tifoserie (entrambe poco interessate al funzionamento e alla razionalità del sistema complessivamente inteso). Partiamo, dunque, dalla prescrizione. È un istituto che esiste pressoché ovunque, sia pure con diversità di disciplina. Per una ragione semplice e intuitiva. Nessun processo può durare in eterno: perché negli anni le persone cambiano e non ha senso sottoporle a pena dieci, venti o trent’anni dopo i fatti; perché l’interesse sociale alla repressione viene meno quando del reato si è perso finanche il ricordo; perché quando è passato troppo tempo diventa difficile (se non impossibile) accertare l’esatta dinamica dei fatti. Per questo la legge prevede che, dopo un certo lasso di tempo, se il processo non si è concluso, i reati si prescrivono e gli imputati non possono essere ulteriormente perseguiti. Evidente il nesso tra prescrizione e durata dei processi: se questi hanno tempi accettabili, i reati che si prescrivono sono pochi e marginali; se, al contrario, durano lustri o decenni (come accade nel nostro Paese), la prescrizione diventa un esito frequente che manda al macero centinaia di migliaia di processi (e, quel che è peggio, di vicende umane spesso drammatiche). Che fare, dunque? Razionalità vorrebbe che si intervenisse per ridurre, salvaguardando le garanzie, la durata dei processi. Ma per farlo in maniera significativa ci sono solo due strade, potenzialmente concorrenti: diminuire i carichi degli uffici giudiziari con una drastica depenalizzazione (a cominciare dai settori degli stupefacenti e dell’immigrazione, nei quali, tra l’altro, la bulimia repressiva si è rivelata inefficace oltre che ingiusta) e/o aumentare il numero di pubblici ministeri e giudici. Strade che richiedono, peraltro, risorse economiche consistenti e un ampio consenso e che sono oggi impraticabili per la decisiva ragione che tali condizioni non esistono. E, allora, si mascherano come risolutivi, perché l’Europa lo chiede e - come si ripete ossessivamente - per non perdere il treno del Piano nazionale di ripresa e resilienza, interventi di piccolo cabotaggio o aggiustamenti pur importanti e utili (come alcuni di quelli previsti nel “pacchetto” della ministra Cartabia: dal potenziamento dei riti alternativi alla revisione del sistema delle pene sostitutive, dall’estensione della causa di non punibilità per tenuità del fatto all’allargamento della messa alla prova e alla restituzione di effettività delle pene pecuniarie). Mentre la disciplina della prescrizione oscilla tra l’ottusa rigidità della legge Bonafede (che ne prevede la non operatività dopo la sentenza di primo grado per tutti i reati, compresi quelli bagatellari, come gli oltraggi, i piccoli furti in un supermercato o le violazioni di modesta entità della legge sugli stupefacenti) e la scommessa del progetto Bonafede (che conferma quella disciplina ma introduce tempi ridotti e vincolanti per la celebrazione dei processi in appello e in Cassazione, pena la loro improcedibilità). Non serve promettere l’impossibile. Allo stato attuale non ci sono soluzioni appaganti, anche se è possibile dare maggiore razionalità alla disciplina della prescrizione operando ulteriormente sulla sua durata a seconda della gravità e dell’allarme sociale prodotto dai reati ad essa interessati. In attesa di tempi migliori, che consentano di intervenire sugli snodi fondamentali del sistema penale, e per evitare che la situazione si incancrenisca ulteriormente c’è una strada: un’amnistia e un indulto ponderati e ben calibrati. A fronte di una proposta siffatta tutti, sulla scena politica, si stracciano le vesti. Ma non c’è alternativa, come ha sostenuto recentemente su Avvenire, Paolo Borgna, già Procuratore della Repubblica aggiunto a Torino: “L’unico modo per rendere meno lenti i processi è dover celebrare meno processi. Ebbene: se questa è, da anni, l’emergenza quotidiana, dopo la spallata della pandemia la situazione sarà più grave. […] Quando il motore si imballa bisogna resettarlo. A costo di provocare oggi qualche piccola ingiustizia che servirà però ad evitare, domani, più gravi e generali ingiustizie. Per questo i tribunali devono essere alleggeriti da un carico che rischierebbe di metterli in ginocchio. E ciò vale anche per quei detenuti già condannati a pena definitiva che, in questi mesi, stanno vivendo, tra le mura di un carcere, il timore di un contagio incontrollabile. […] Così è stato in tutti i passaggi cruciali della storia del nostro Paese, sempre accompagnati da provvedimenti di clemenza”. Parole sagge e realistiche, su cui varrebbe la pena di confrontarsi laicamente, invece di lanciare anatemi o di parlar d’altro. Pestaggi in carcere. Interpellanza della dem Pini sulla commissione del Dap di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 agosto 2021 “Perché nel pool del Ministero che dovrà far luce sui pestaggi ed eventuali carenze nei soccorsi di quelle ore sono presenti anche dirigenti che hanno gestito quelle stesse ore a Modena? Quali criteri di selezione sono stati individuati per la selezione dei componenti della commissione ispettiva istituita dal ministero della Giustizia? Non è inopportuno che ci sia fra chi ha il compito di verificare gli abusi anche chi in quei giorni ha avuto compiti dirigenziali? E per quale motivo sono stati esclusi dalla composizione della commissione figure come i garanti dei detenuti?”. Sono le domande rivolte alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, dalla deputata del Pd Giuditta Pini, prima firmataria di una interpellanza urgente. La deputata dem, dopo l’articolo de Il Dubbio che ha sollevato il problema, nell’interpellanza rivolta alla guardasigilli ritiene che occorra integrare la composizione della commissione anche con le figure dei garanti dei detenuti e con altre figure, senza subordinare il loro ruolo a sottocommissioni, “per evitare strumentalizzazioni e polemiche sull’importante operato di indagine della commissione stessa”. Un problema posto anche dall’Osservatorio Carcere delle Camere Penali. In un documento saluta con favore l’istituzione di una commissione di indagine su quanto è accaduto in tutte le carceri, ma chiede alla ministra della Giustizia Cartabia che sia allargata ad altri attori e soprattutto senza zone d’ombra. Secondo i penalisti, infatti, non è sufficiente la risposta del ministero della Giustizia data in merito al nostro articolo de Il Dubbio: per l’osservatorio carcere delle Camere Penali la Commissione di indagine su quanto avvenuto dall’inizio della pandemia in tutti gli istituti penitenziari, presunti pestaggi compresi, è una buona iniziativa se allargata anche a magistrati di sorveglianza, garanti e professori. In sostanza l’Osservatorio Carcere ritiene che non possono ritenere sufficienti le rassicurazioni fornite dal ministero al nostro quotidiano, circa la realizzazione di “appositi sotto- gruppi tenuto anche conto di eventuali fattori di incompatibilità territoriali”. Nel documento, i penalisti proseguono: “Sappiamo bene che le indagini conclusesi con l’archiviazione abbiano escluso responsabilità penali di sorta sul decesso dei detenuti a Modena, così come non nutriamo dubbi sulla figura del dirigente in questione”. Tuttavia, se è vero che i fatti drammatici e violenti di Santa Maria di Capua Vetere hanno rappresentato “una ferita e un tradimento della Costituzione” e che la ministra ha affermato la necessità, partendo da Santa Maria di Capua Vetere, di “far luce su quanto accaduto nelle carceri italiane nell’ultimo anno, a cominciare dalle rivolte dei detenuti e dalle conseguenti azioni poste in essere dagli operatori penitenziari” al punto da avere istituito una apposita commissione ispettiva”, secondo i penalisti dell’osservatorio carcere “è necessario non solo che la Commissione sia davvero imparziale, ma, ancor più, che appaia agli occhi dell’opinione pubblica, detenuti compresi, insospettabilmente imparziale”. I penalisti osservano che sarebbe opportuno che la Commissione non rimanga tutta chiusa al proprio interno, aprendosi a figure esterne al Dap - come avvenuto, peraltro, per il solo Presidente della Commissione - in grado di offrire un contributo peculiare e complementare alle competenze, tutte interne al dipartimento, scelte, in misura limitata, tra Magistrati di Sorveglianza, Avvocati, Garanti e Professori. Nel frattempo, viene lanciato un appello alla ministra Cartabia dalle associazioni Yairaiha Onlus, Legal Team Italia, Associazione Bianca Guidetti Serra, Osservatorio Repressione, Associazione Il Viandante e l’Associazione Memoria Condivisa. La richiesta è che la commissione di indagine venga estesa a realtà associative e garanti. Pini (Pd). Garanti detenuti in commissione ispettiva su violenze, non i dirigenti presenti agenparl.eu, 3 agosto 2021 “L’8 marzo 2020 è scoppiata una grave rivolta nella casa circondariale Sant’Anna di Modena nella quale sono morti nove detenuti, direttamente nell’istituto penitenziario o mentre, in condizioni d’emergenza senza che però nessuno li ritenesse in pericolo di vita, venivano trasportati verso altri istituti. Su ciò che accadde in quelle circa 60 ore sono state svolte indagini contro ignoti, con le ipotesi di reato di omicidio colposo e morte come conseguenza di altro delitto. Perché, come riportato da il Dubbio, nel pool del Ministero che dovrà far luce sui pestaggi ed eventuali carenze nei soccorsi di quelle ore sono presenti anche dirigenti che hanno gestito quelle stesse ore a Modena? Quali criteri di selezione sono stati individuati per la selezione dei componenti della commissione ispettiva istituita dal ministero della Giustizia? Non è inopportuno che ci sia fra chi ha il compito di verificare gli abusi anche chi in quei giorni ha avuto compiti dirigenziali? E per quale motivo sono stati esclusi dalla composizione della commissione figure come i garanti dei detenuti?”. Sono le domande rivolte alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, dalla deputata dem, Giuditta Pini, prima firmataria di una interpellanza urgente. “Occorre fare piena luce su quanto è successo - spiega Giuditta Pini - anche vista la forte e decisa presa di posizione tenuta da Cartabia durante l’informativa alla Camera sulle gravi violenze avvenute nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere. Ecco perché ritengo che occorra integrare la composizione della commissione anche con le figure dei garanti dei detenuti e con altre figure, senza subordinare il loro ruolo a sottocommissioni, per evitare strumentalizzazioni e polemiche sull’importante operato di indagine della commissione stessa”. Una commissione d’inchiesta sui pestaggi e i morti nelle carceri contropiano.org, 3 agosto 2021 La notizia dell’istituzione di una Commissione d’indagine da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, su impulso della Ministra della Giustizia Cartabia, non può che essere accolta favorevolmente. Occorre far luce su una delle pagine più buie del nostro Paese dall’introduzione della Legge 26 luglio 1975 n. 354: un bilancio di tredici morti è una ragione più che sufficiente per sollecitare l’accertamento di eventuali responsabilità relative alla gestione dell’ordine e della sicurezza all’interno dei 27 istituti coinvolti nelle rivolte dei giorni 7,8,9 marzo 2020. Lo richiede a gran voce quell’ampia fetta di società civile a cui è stato precluso l’ingresso in carcere durante l’emergenza Covid-19, ma che ha continuato a prestare ascolto alle istanze di tutela provenienti da chi, a causa della paura e della penuria di informazioni provenienti dall’esterno, in quel periodo ha subito un ulteriore isolamento oltre a quello ordinariamente inflitto dalla pena. È così che associazioni del Terzo Settore e Garanti territoriali hanno contribuito a rendere meno ermetiche le mura dell’Istituzione totale, continuando quell’opera di partecipazione agli aspetti della vita penitenziaria da parte della collettività sociale richiamata in vario modo da fonti nazionali ed internazionali (si veda ad esempio l’articolo 7 delle Regole Penitenziarie Europee). Queste realtà sociali, sovente autorganizzate, hanno aiutato a concretizzare il principio costituzionale di emenda e risocializzazione delle persone contro cui è eseguita la pena. Lo richiedono pure i familiari dei tredici morti e tutti coloro che hanno denunciato a vario titolo episodi di violenze e trattamenti inumani e degradanti avvenute in quel periodo, da subito denunciate formalmente e pubblicamente da familiari, associazioni e garanti, e non solo relativamente alla “mattanza” di Santa Maria Capua Vetere. E non può prevalere la logica de “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Il tentativo di ricostruire una narrazione falsata dei fatti messo in atto dal personale della polizia penitenziaria coinvolto per coprire il proprio comportamento è un campanello d’allarme che non possiamo non ascoltare. Chiediamo, pertanto, che la rappresentanza dei membri della Commissione venga integrata anche dalle realtà associative e dai garanti territoriali, credendo fermamente che soltanto una visione d’insieme (inclusa quella dal basso) possa garantire imparzialità e contribuire a gettare piena luce sulla vicenda. Associazione Yairaiha Onlus Legal Team Italia Associazione Bianca Guidetti Serra Osservatorio Repressione Associazione Il Viandante Associazione Memoria Condivisa Adesioni individuali: Laura Longo - ex presidente del tribunale di sorveglianza Eleonora Forenza Sandra Berardi Caterina Calia Giulia Lai Giovanni Russo Spena Gianluca Vitale Gianluca Schiavon Cesare Antetomaso Italo di Sabato Mario Pontillo Alice Miglioli Francesca Trasatti Nicoletta Dosio Marta Collot Giuliano Granato I pestaggi in cella usati a sproposito contro la riforma Cartabia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 agosto 2021 Il quotidiano “Domani” ha sostenuto falsamente che le nuove garantirebbero l’impunità degli agenti accusati degli episodi di violenza a Santa Maria Capua Vetere. Recentemente il quotidiano Domani ha pubblicato un editoriale per spiegarci che la riforma Cartabia garantirebbe l’impunità degli agenti che hanno pestato i detenuti del carcere Santa Maria Capua Vetere. Niente di più falso. Purtroppo non è l’unico. Alcuni magistrati - non paghi dell’utilizzo della carta mafiosa - hanno spiegato in tv che con la riforma della giustizia, casi come quelli di Stefano Cucchi non avrebbero giustizia. Un uso deplorevole della carta emozionale sulla pelle dei detenuti - È deplorevole utilizzare questa argomentazione per due motivi fondamentali. Il primo. Si usa la carta emozionale, ancora una volta sulla pelle dei detenuti, per far credere che la riforma sia stata fatta per difendere gli imputati accusati di reati gravi, come quelli appunto di tortura. Non è vero che i tempi del processo sarebbero stretti - In pratica, i tempi sarebbero troppo stretti, soprattutto come nel caso di Santa Maria Capua Vetere dove sono coinvolti un centinaio di imputati. Tutto questo non è vero. Di base, la riforma non è radicale. Sostanzialmente non cambia nulla, se non mettere in soffitta la disastrosa riforma precedente dell’allora guardasigilli Bonafede che abolì, di fatto, la prescrizione. Serviva più coraggio, ma il m5s ha ancora i numeri in Parlamento che costringono alla mediazione. Ma veniamo ai tempi. Il processo di primo grado non viene toccato e i magistrati hanno tutto il tempo che vogliono. Rimane esattamente come prima. I limiti temporali sono stabiliti per i gradi successivi. Due anni per il giudizio d’Appello. Un anno per il giudizio in Cassazione. Ma attenzione. I primi tre anni, entro il 31 dicembre 2024, i termini saranno più estesi per tutti i processi (tre anni in appello, un anno e sei mesi in Cassazione). Non solo. La riforma dà la possibilità di ottenere una proroga: ovvero fino a quattro anni in appello (cioè tre anni e uno di proroga) e fino a due anni in Cassazione (un anno e sei mesi, oltre sei mesi di proroga) per tutti i processi in via ordinaria. Il processo sui fatti di Santa Maria Capua Vetere ha la possibilità di durare 10 anni - Se pensiamo all’eventuale processo per i pestaggi su Santa Maria Capua Vetere, con la riforma ha la possibilità di durare più di 10 anni. Sono pochi? Non bastano? Credo che i detenuti, vittime del pestaggio, non debbano aspettare così tanti anni per ottenere giustizia. Così come gli imputati (tra di loro ci sarà qualche innocente, no?) non devono essere ostaggio a vita dei processi. Vale per tutti. Quindi usare la carta dei pestaggi come grimaldello contro la riforma Cartabia, è di una disonestà intellettuale disarmante. I tempi rimarranno sostanzialmente lunghi. Non eterni (ed è già qualcosa), ma qualche flebile paletto c’è. Chi ipocritamente si dice dalla parte dei detenuti poi critica la riforma che punta a meno carcerazione possibile - Passiamo al secondo motivo che riguarda la deplorevole argomentazione usata contro la riforma. Tolti i dubbi sulla presunta impunità degli agenti torturatori, passiamo al focus fondamentale: il sistema penitenziario. Si usa la carta emozionale dei pestaggi sui detenuti, per poi però sputare sulla riforma Cartabia che prevede anche nuove vie per evitare il processo mediante le restituzioni e le riparazioni da parte dell’imputato, maggior cura per gli interessi delle parti offese, più larghe possibilità di patteggiamento della pena, nuove possibilità di giustizia riparativa. In una parola, meno carcerazione possibile. Questo è importante anche per evitare quel degrado che crea violenza e sofferenza all’interno delle carceri. Nebbia dentro e fuori dal carcere: il rifiuto ideologico delle alternative alla detenzione di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 3 agosto 2021 La confusione tra certezza della pena e certezza del carcere, annebbia tutti i riferimenti alle alternative al carcere, e non è buttando via tutto che si ha il meglio: riflessioni e proposte operative. La Riforma della Giustizia arriva oggi, lunedì 2 agosto, in Parlamento. Due voti di fiducia sulla riforma della giustizia sono previsti oggi alla Camera a partire dalle 22.30. Le due “chiame” inizieranno dopo le 24 ore previste dal regolamento, intorno alle 22.30. Le dichiarazioni di voto avranno inizio alle 20.45. Martedì si voteranno gli ordini del giorno a partire dalle 9. Quindi il voto finale sul provvedimento, che poi dovrà passare all’esame del Senato. Attualmente, nel dibattito sulla riforma Cartabia-Lattanzi, ci si interroga su come sarà il domani della Giustizia e quello della politica della esecuzione della restrizione della libertà personale, sia detentiva che non detentiva. A mio parere, prima di parlare di nuove riforme, bisogna che si attui quello che non è stato attuato con l’ordinamento, perché sulla base della confusione tra certezza della pena e certezza del carcere, si stanno annebbiando tutti i riferimenti alle alternative al carcere, e non è buttando via tutto che si ha il meglio. Si tratta anche solo di impostare un diverso modo di pensare e di agire, nella consapevolezza che il dare speranza è un dovere, non una possibilità; vorrei soffermarmi pertanto, sull’esecuzione della pena attraverso il carcere, la Polizia Penitenziaria ed il territorio, esecuzione che resta sotterranea e segreta, a differenza della tanto celebrata esecuzione pubblica del processo, mentre in passato lo era l’esecuzione della pena in forma pubblica e teatrale. La nostra cultura giudiziaria intende la pena assolutamente detentiva, dopo, in carcere, potranno essere promosse attività lavorative per il futuro reinserimento sociale dei condannati; quelli che non abbiano reati ostativi, che non si comportino male, che abbiano risorse familiari e sociali significative e la fortuna di trovarsi in un istituto e in un territorio che offrano opportunità di lavoro e di reinserimento sociale, magari riusciranno a terminare la loro pena fuori dal carcere. Si tratta di ricette antiche, secondo cui la pena detentiva è di per sé rieducativa e le alternative sono benefici straordinari. Ricette che hanno dimostrato nel tempo la loro inefficacia sotto i due profili costituzionalmente rilevanti del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e della prospettiva di reinserimento sociale dei condannati. L’istituzione della “messa alla prova” ha confuso il rito penale, rendendo ancora più incerto il processo, salvo che davanti a condanna certa può esserci una liberazione condizionale certa; con le stesse modalità dettate per le misure di sicurezza non detentive, con un avvio ad un progetto di risocializzazione formulato dall’Ufficio di servizio sociale Giustizia e da quello territoriale e privato sociale, consapevoli che il buttare fuori dal carcere non significa reinserire ma solo buttare fuori. Oggi questo progetto verrebbe annullato dalla presenza della Polizia Penitenziaria negli UEPE, uffici di servizio sociale del Ministero della Giustizia istituiti per i compiti di aiuto e controllo di chi è in esecuzione pena non in carcere. In effetti l’impossibilità di attuare il reinserimento, in parte è dovuto da come è stata configurata la presenza del nucleo della polizia penitenziaria: gli appartenenti a questo gruppo, come si identificano al momento che si recano al domicilio o al lavoro del condannato, vanno per verificare, aiutare o per denunciare, considerando che sono ufficiali di Polizia Giudiziaria? Vanno o meno, a facilitare l’inserimento della persona in esecuzione pena non carceraria o, invece, annullano lo sforzo fatto per attuare il reinserimento? Credo che gli Uffici di servizio sociale della Giustizia, nati come fiore all’occhiello della amministrazione penitenziaria, non hanno ancora ottenuto da questa, quella dovuta considerazione di essere l’altro braccio operativo nell’eseguire una pena. Oggi mi appaiono più dei commissariati di polizia, e scusate il termine di chi non sa come chiamare un aggrumolato di poliziotti, con a capo un dirigente di polizia penitenziaria a livello alto, peraltro antonomo alla direzione dell’ufficio, in quanto previsto in modo piramidale. L’Unione europea, ha già espresso il suo parere negativo sulla situazione di personale militare in presenza ed a contatto con detenuti in carcere; come si può pensare accetti che personale di Polizia possa rimanere a contatti con persone che con molta fatica cercano di attuare il loro reinserimento sul territorio? Peraltro questa pratica della Polizia negli Uffici di servizio sociale non ha preso piede in Europa, conferma che deriva dai miei 10 anni di rappresentanza per l’Italia, nel Comité Européen de Probation (CEP) che favoriva un confronto tra le varie realtà europee che si occupavano di esecuzione penale nel territorio. È bene che l’esecuzione della pena in toto ritorni al Magistrato di Sorveglianza, un Magistrato che creda nella rieducazione e nel reinserimento, senza che chiuda dietro le mura di una prigione o le sbarre di una cella, ma scommetta sulle alternative al carcere sin dall’irrogazione della pena o, per i reati più gravi, nel corso della sua esecuzione. Seguire e accompagnare in un diverso progetto di vita, riconoscendo la distinzione tra la persona e il fatto per cui è stato condannato: è questo il primo, vero cambiamento di cui l’esecuzione penale ha bisogno. Il mondo politico dovrebbe concepire che, per aiutare il carcere ad essere un luogo diverso e di vera Probation, sia necessaria una struttura parallela ad esso, che accolga tutte quelle persone che non possono ottenere i benefici di legge, per mancanza di supporti esterni: la struttura parallela c’è già e sarebbe il Servizio Sociale Giustizia UEPE, ora distaccato dal Pianeta carcere! Se si vuole dare un supporto al lavoro del Servizio Sociale Giustizia UEPE, si guardi alla Germania; presso i suoi uffici di servizio sociale della Giustizia, vengono assunti dei collaboratori appositamente preparati per collaborare principalmente con il Servizio Sociale Giustizia, come parte integrante del reinserimento e non come soggetti avulsi dal progetto ed agenti della denuncia, come sta avvenendo in Italia con la polizia Penitenziaria! Va bene che molti poliziotti penitenziari, almeno quelli preposti alla esecuzione pena non detentiva, passino al ruolo civile, ma solo se la premessa e l’impegno del personale trasferito è che diventi parte attiva al progetto di reinserimento, come corpo unico con e degli gli uffici di servizio sociale della Giustizia, con una presenza nel territorio sulle 24 ore, con protocolli locali con le FF. OO. al fine di evitare duplicazioni. Il passaggio da personale addetto del carcere a personale della esecuzione pena non detentiva, avvenga per istanza personale e per scrutinio e colloquio. La commissione di valutazione sia a livello regionale, composta da dirigenti di servizio sociale Giustizia e presieduta dal Presidente del Tribunale di Sorveglianza di quel territorio. L’elemento fortemente innovativo sta che il personale proveniente da questa selezione e quello di servizio sociale andranno a costituire, secondo specifiche competenze, unitamente, il Polo forte e nuovo dell’esecuzione penale non detentiva. La messa alla prova, diventi solo una misura eccezionale, in cui il giudice giudicante fissi i termini minimi della esecuzione dietro presentazione di un programma di trattamento fatto da assistente sociale e utente, come fosse un contratto tra parti non avverse ma comuni, per arrivare al buon completamento della pratica che è l’inserimento. Il giudicante fissi la pena massima qualora la misura non vada a buon fine, così che il soggetto arrestato riprenderà il procedimento normale previsto dall’Ordinamento penitenziario. La gestione passi alla Magistratura di Sorveglianza, in quanto esperta nel processo di reinserimento che comprende anche servizi del territorio e del privato sociale, specie per quanto attiene l’attività risarcitoria, per essere questa un servizio non di penalizzazione ma risarcimento consapevole del danno arrecato col reato. Agli Enti locali, rileggere le circolari del 1976 e 1977 in cui si chiedeva loro la più ampia disponibilità nel collaborare attivamente, per definire e creare contenitori di passaggio tra reclusione e libertà, sistemazioni non carcerarie, nuovi contenitori, dove il contenitore famiglia fosse inesistente o improprio per attuare il reinserimento. Diverse strutture pubbliche potrebbero diventare questi contenitori, strutture di accoglienza intermedia tra carcere e libertà piena, strutture recuperate alla malavita e ospedali o caserme dismesse. Non è dare vita a nuove strutture per emarginare nuovamente, ma è togliere da una struttura totale come il carcere dei lavoratori temporaneamente detenuti, per proporgli di diventare lavoratori che attuano ogni sforzo per essere parte al principio del lavoro, fondate la nostra Repubblica. Credo, sia necessario che ogni corso trovi il suo alveolo e si ritorni a quanto pensato e voluto dai Padri fondatori dell’Ordinamento Penitenziario (Canepa, Zappa, Margara Minale o Magistrati amministrativi come Altavista e Minervini ucciso dalle BR). Forse così si può dipanare la nebbia dentro e fuori dal carcere. *Antonio Nastasio è un ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza. Caridi: “Il carcere? Come un canile. La politica mi ha tradito: con lei ho chiuso” di Simona Musco Il Dubbio, 3 agosto 2021 L’ex senatore calabrese parla dopo l’assoluzione dall’accusa di associazione mafiosa. “Con la ‘ndrangheta io non c’entro. I miei colleghi mi hanno mandato in carcere senza nemmeno leggere perché lo stavano facendo”. Diciotto mesi in carcere e poi l’assoluzione. Antonio Caridi, ex senatore di Forza Italia, incassa la pronuncia del Tribunale di Reggio Calabria come un ritorno alla vita, dopo cinque anni in cui ogni cosa è rimasta in sospeso. Accusato di associazione mafiosa, l’ex politico respinge ogni accusa cacciando vie le ombre dal suo curriculum: con la ‘ndrangheta, assicura, non c’entra nulla. E ora che tutto è finito, insieme alla gioia non nega di provare anche amarezza, soprattutto nei confronti di quella politica dalla quale si sente tradito. Tant’è che non ne vuole più sapere nulla: “Per me la politica è finita il 4 agosto 2016. Farò il medico e basta, che poi è la cosa più bella del mondo”, racconta al Dubbio. Dottore, cos’ha provato dopo l’assoluzione? Gioia. Mi sono riappropriato della mia vita, che mi era stata rubata. Sono sereno, perché vedo la mia famiglia finalmente tranquilla. Mio padre, ad 85 anni, non era sicuro di poter vedere la fine di questa storia. Voglio ringraziare loro e i miei avvocati, dopo un incubo durato cinque anni e 18 mesi passati in carcere in alta sicurezza. È un obbligo non soltanto morale: lo devo alla grande professionalità e umanità di Valerio Spigarelli e Carlo Morace. Ma è stato anche un momento di grande riflessione: io credevo tanto nella mia innocenza, ma i giornali, che mi hanno dipinto come il mostro da mettere dentro subito, oggi sono assenti. Solo qualche articoletto. E questo mi fa molto male. Ce l’ha con la stampa? Dopo la richiesta di arresto, i tg nazionali mostravano la mia foto ripetendo tutte le cose che venivano contestate. Oggi vedere che nessuno dica che una persona che cinque anni prima è stata mortificata e umiliata è stata assolta fa rabbia. Io mi sono difeso dal primo giorno e inviterei i giornalisti a riguardare il dibattito in Senato sulla mia difesa e, soprattutto, gli attacchi che ho subito dalle parti politiche che hanno votato il mio arresto senza nemmeno leggere le carte. Quella sera, prima di consegnarmi, ho guardato mia moglie e mia sorella negli occhi con la coscienza a posto, non so se i miei colleghi - e non so se posso chiamarli così - hanno potuto farlo. E non so se possono farlo tuttora. Chi l’ha ferita di più tra i suoi colleghi? Quelli del Pd, eccetto il senatore Luigi Manconi, che ha dichiarato in aula il suo voto contrario, perché è stato l’unico a leggere le carte. Poi i 5 Stelle. Molte persone di quella stessa parte politica, mentre io parlavo, giocavano con il telefonino o l’iPad. Qualche individuo, non lo chiamerei senatore, ha detto delle frasi che di notte mi capita ancora di risentire. Sono sempre dentro di me, perché non mi ci riconoscevo. La verità è che si è trattato di un attacco politico, ma soprattutto hanno mortificato un essere umano. Molti si professano cattolici e dovrebbero avere rispetto per le altre persone, ma se mandano in carcere la gente con questa facilità non so quale attività possano svolgere dentro le Camere di appartenenza. Qualcuno si è fatto vivo, oggi? Mi hanno chiamato quelle persone che mi sono sempre state vicine. Ma parlo di rapporti personali, non di politica, perché quella per me è una parentesi chiusa. Non si ricandiderà? No. Per me la politica è finita il 4 agosto 2016. Non la sento più mia e non la farei con lo stesso animo di prima. Ho cose più importanti a cui dedicarmi, come la mia famiglia e il mio lavoro. Devo recuperare 18 mesi di carcere, anche se non è possibile, perché è un segno che mi porterò sempre dentro e che vedrò anche in chi mi vuole bene. Ha paura che possa ricapitarle qualcosa del genere? Paura no. Sa come si dice? Male non fare, paura non avere. Ma non lo farei più come prima e non potrei più dare risposte ad una terra, la Calabria, che è mortificata quotidianamente. E non vado nemmeno a votare, dal 2016: la paura è che qualcuno possa sempre dire “chissà”. Non lo farà più? Esistono anche le vacanze nella vita. Come sono stati quei 18 mesi in carcere? Il carcere rappresenta la civiltà di un Paese. E siamo un Paese incivile. Vivevo con cinque persone dentro cinque metri quadrati, con il bagno turco e senza docce. Ventidue ore al giorno chiuso in cella. Subito dopo essere uscito dal Senato ed essermi consegnato mi sono ritrovato in isolamento, in una cella due metri per due, senza prendere aria e con cibo inesistente. E questo per otto giorni. La mia forza stava nella volontà di superare quel momento sapendo che ero innocente e quindi dovevo e potevo difendermi. Ho pensato a me, alla mia famiglia, alla loro sofferenza e a quella dei miei amici, quelli vicini, perché in questi momenti scappano tutti. In 18 mesi ho sentito la mia famiglia due volte al mese e l’ho incontrata quattro ore al mese. Questo è il carcere, un posto dove non hai i servizi igienici e i riscaldamenti. E fuori è uguale: quando si manda in carcere una persona senza una prova per la stampa si è subito colpevoli. Vieni trattato come un criminale. La politica deve avere il coraggio di riflettere su questo, ma ho qualche dubbio, sinceramente. Dopo i pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere qualcosa potrebbe cambiare, non crede? Ci sarà stata un po’ di indignazione, ma tanti hanno anche pensato “hanno fatto bene, perché sono dei delinquenti”. E ciò pur senza sapere se sono colpevoli o innocenti. Per la gente si tratta di delinquenti solo perché sono in carcere. Toccherebbe alla politica far riflettere su questi temi, ma la politica oggi non c’è. Cosa ha portato fuori dal carcere con sé? Sofferenza. Ne provo ancora. E penso a quella che ho visto negli altri. Si può essere anche colpevoli, ma la dignità dell’uomo non può essere calpestata. Ma lì dentro si viene trattati come animali, da chiudere in un canile 22 ore al giorno. Senza potersi fare una doccia se ci si sporca, con gli orari stabiliti per andare in bagno. Costretti a rimanere chiusi in cella anche durante un terremoto, con la paura che crolli tutto e si rimanga uccisi. E tutto questo senza mai essere stato condannato e, all’epoca, con due Cassazioni favorevoli. Il Senato ha votato l’arresto prima che si pronunciasse il Tribunale della Libertà, quindi mi ha giudicato prima la politica e poi la giustizia. Ma prima di mandare in carcere qualcuno bisogna avere delle prove. Senza prove o senza necessità enormi bisognerebbe fare attenzione prima di privare qualcuno della libertà. È la cosa peggiore al mondo. Per la Dda lei è stato sempre eletto con i voti delle cosche. Per ben tredici anni, sin dalla prima candidatura e fino al Senato. Come si difende da queste accuse? Non voglio entrare nei particolari: il processo è durato cinque anni, mi sono difeso con i denti e soprattutto lo hanno fatto i miei avvocati. Ma la Cassazione è stata chiarissima: non c’era nessun riscontro in atti sul piano della gravità indiziaria. Con la ‘ndrangheta io non c’entro nulla. E voglio dire solo una cosa: nell’ordinanza si parla di me come di un quasi sconosciuto che è stato scelto dalla mafia. Ma io non ero uno sconosciuto: mio padre è stato vicesindaco di Reggio Calabria, su 20 familiari stretti 18 sono medici. Mia madre era direttrice dell’ufficio di collocamento. Non sono stato “portato” da nessuno, mi ha votato la gente comune, che mi ha sempre voluto bene e continua a volermene. In ogni caso, sono stato assolto perché il fatto non sussiste. Non dobbiamo spiegare niente a nessuno, non devo dare, ancora oggi, conto a nessuno. Sono innocente, come lo sono sempre stato. La sentenza parla chiaro. Quello che vorrei fare è invitare la politica a riflettere. È anche bello ammettere di aver sbagliato e io, se sbaglio, chiedo scusa. Ma non ho ricevuto nemmeno una telefonata da chi quel giorno ha votato il mio arresto. Si aspettava che qualcuno si facesse vivo? Non me l’aspettavo e non me l’aspetto, perché ho visto l’isolamento da parte della politica in quei 18 mesi. C’erano solo la mia famiglia e i miei avvocati e solo tre colleghi sono venuti a trovarmi: Pietro Iurlaro, Fabrizio Di Stefano e Luca D’Alessandro. Di Maio, recentemente, ha chiesto scusa all’ex sindaco di Lodi. Qualcosa sta cambiando? L’ex sindaco di Lodi è del Pd. La maggioranza, oggi, è quella e l’interesse di Di Maio sta tutto lì. Si difendono tra loro. Lo hanno fatto sempre e lo faranno sempre. Quel 4 agosto è stato anticipato l’ordine del giorno per votare il suo arresto. Cos’ha pensato? Era un modo per dimostrare al Paese di aver preso con le mani nel sacco un senatore. Ma cosa dovevano dimostrare? Ho ancora in testa quello che qualcuno dei 5 Stelle ha gridato contro di me in aula e qualche giorno dopo per strada a Reggio Calabria. La invito a fare una cosa: confrontare le presenze dei senatori in aula tra quel 4 agosto e quello degli anni precedenti, quando si parlava di provvedimenti che erano utili al Paese. Erano tutti schierati. Questo è l’interesse che la politica ha nei confronti del suo Paese. Tecnicamente l’interesse era evitare la reiterazione del reato... Un mese dopo la Cassazione ha sostenuto che non c’erano motivi per arrestarmi. Dal 16 luglio al 4 agosto sarei potuto scappare, invece sono andato in aula e li ho affrontati, perché il mio animo era tranquillo e sereno, ho spiegato le mie ragioni e sono rimasto al mio posto. E poi sono andato a consegnarmi, perché in quel momento ero un senatore della Repubblica e dovevo dimostrare responsabilità verso il Paese. E in quel caso i miei colleghi o chi ha disposto il mio arresto ha mortificato la democrazia in Italia, perché ha mortificato una parte di elettorato. Potevo affrontare il processo da uomo libero. E non ho mai piegato la mia azione politica all’interesse di alcuno. Si aspettava l’assoluzione dopo una richiesta di condanna a 20 anni? La mia innocenza l’ho sempre gridata. Io ho un grande senso dello Stato e credevo fino in fondo alle parole che ho detto quel giorno in Senato. Ma avevo paura. Una paura che mi accompagnava 24 ore al giorno, senza fare distinzione tra giorno e notte. Ho dimenticato cosa volesse dire dormire la notte e ho pensato seriamente di poter essere condannato. D’altronde nella vita ho pensato di tutto, tranne di poter finire in carcere. A quel punto ogni cosa era possibile. Giustizia, alla Camera passa la fiducia sulla riforma Cartabia. Nel M5S solo 13 assenti di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 3 agosto 2021 Il leader 5 Stelle prima del voto in Aula: “Significativi miglioramenti”. Critiche alla ministra dall’opposizione. Oggi il via libera di Montecitorio. Dopo contrasti, scontri, mediazioni, e appelli alla compattezza, alla fine, la fiducia sulla riforma Cartabia ieri notte è arrivata: 462 sì, 55 no e un astenuto al primo articolo; 458 sì e 46 no al secondo. Non è stata facile per nessuno, a dispetto dell’ottimismo dello stesso presidente del Consiglio Mario Draghi. Ma soprattutto dal suo predecessore Giuseppe Conte, alle prese con i malumori del suo Movimento. Molti domenica avevano disertato la votazione sulle pregiudiziali di costituzionalità. E non è stato agevole per Conte il tentativo di ricomporre quel disagio. Alla fine 13 sono risultati gli M5S assenti, ma solo una parte riconducibili alla fronda. Recuperato invece Alessandro Melicchio, che aveva votato con l’opposizione per l’incostituzionalità della norma (“Continuo a tenere un giudizio negativo sul provvedimento, ma riconosco il lavoro fatto per cambiarlo in modo sostanziale”, ha detto il dissidente). Già in mattinata l’ex premier si era mostrato sicuro. “Crediamo di aver raggiunto e aggiunto dei significativi miglioramenti, quindi i parlamentari del M5S daranno il loro voto ed esprimeremo compattezza”, aveva detto a margine della commemorazione della strage di Bologna, presieduta dalla ministra Cartabia, che per questo impegno aveva sacrificato la sua presenza in Aula domenica. Non è stata semplice neanche per lei che ieri, stavolta sul banco del governo, ha subito attacchi sia per quell’assenza sia per i contenuti della riforma da lei stessa così definita: “Non è la mia riforma, è la riforma di tutti”. Dure le critiche di FdI che l’ha accusata di “mancanza di rispetto per la sacralità del Parlamento”. “Non ce lo saremmo aspettato da una ex presidente della Corte costituzionale”, ha denunciato Ciro Maschio. Durissime quelle degli ex M5S ora in Alternativa C’è: “Lei disse che i processi di mafia non erano affatto in pericolo, poi però, in fretta e furia ha convocato un Cdm, messo una pezza, e detto che ora i processi di mafia erano salvi. Mentivate prima e mentite ora”, l’ha attaccata Francesco Forciniti di Ac definendo il testo “una corsa a ostacoli per i giudici d’Appello che dovranno motivare la “particolare” complessità del processo, contro cui i mafiosi potranno fare ricorso in Cassazione”. Mentre cartelli titolavano: “Impunità di gregge” e “Cartabianca per i ladri”. Ma non è stato facile soprattutto per i Cinque Stelle che hanno difeso la fedeltà al governo. “Il nostro è stato un atteggiamento critico, ma sempre costruttivo”, ha rimarcato Eugenio Saitta. Rivendicando le audizioni dei magistrati in commissione alla base dei miglioramenti del testo: “Se non avessimo chiesto una norma transitoria avremmo lasciato la tagliola ai processi di mafia”. Mariastella Gelmini festeggia: “È un nostro merito se oggi non siamo più soli a difendere il garantismo, è grazie a 25 anni di battaglie. La Lega è arrivata sulle nostre posizioni. Lo stesso accadrà anche con FdI”. Ma il sottosegretario di Forza Italia Sisto ammette: “Nessuna riforma può essere definita perfetta”. La Lega si congratula con se stessa per “aver evitato che venissero trattati allo stesso modo i mafiosi e i ladri di galline”. E reclamando il merito delle proroghe per reati di violenza sessuale e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Il Pd con Walter Verini è soddisfatto di “aver contribuito a superare estremismi e rigidità di chi etichettava la riforma come una schifezza e chi non voleva cambiarne una virgola”. E aggiunge: “Abbiamo ascoltato anche le critiche, arrivate da istituzioni. Orma si può voltare pagina”. Oggi l’ultimo atto: la votazione finale alle 19 in diretta tv. Poi il testo andrà al Senato per l’approvazione definitiva. Giustizia, malumori tra i 5Stelle ma la riforma Cartabia va avanti di Federico Capurso La Stampa, 3 agosto 2021 Mario Draghi vuole far correre la riforma della Giustizia, per evitare il rischio di vederla scivolare oltre la pausa estiva. E così, dopo una seduta domenicale, la fiducia sui due maxi-emendamenti del governo è stata votata in piena notte alla Camera: il primo è passato con 462 sì, 55 no e un astenuto. Il secondo con 458 sì, 46 contrari e un astenuto. L’accordo è blindato e resterà tale anche al passaggio finale in Senato, a settembre. Ma si va avanti un passo alla volta e il passaggio a Montecitorio, senza scossoni, è un segnale positivo anche per chi osserva il governo da Bruxelles. Qualche voce preoccupata si era sollevata dopo le tante assenze registrate domenica dai grillini, all’arrivo del testo in Aula. Ma Giuseppe Conte, in mattinata, ha modo di offrire le sue rassicurazioni direttamente alla Guardasigilli Marta Cartabia, che incrocia per pochi secondi a Bologna, dove sono entrambi presenti all’anniversario della strage del 1980. “Ho seguito le tue dichiarazioni”, gli dice la ministra della Giustizia - “Oggi andrà tutto bene”, risponde l’ex premier - “Andiamo avanti così”, chiude lei. Ma in nottata, al momento della fiducia, si contano 13 assenze M5S. Andare avanti fino alla fine con la stessa compattezza - come auspica Cartabia - potrebbe però essere complicato. Sulla fiducia nessuno temeva defezioni. “Non ci saranno problemi”, pronosticava nel pomeriggio anche la ministra forzista Gelmini. Ma al momento del voto finale sul provvedimento, che andrà in scena oggi, qualche dubbio in più resta. Tra le file grilline sono in tanti a dirsi in “difficoltà all’idea di votare questa riforma”. Lo dicevano ieri e non hanno cambiato idea, nonostante il pressing dai vertici. Proprio Conte, rientrando da Bologna, avrebbe contattato diversi malpancisti indicati dai suoi colonnelli alla Camera. La lente d’ingrandimento si è posata soprattutto sui membri della commissione Ambiente, preoccupati che la tagliola dell’improcedibilità possa mandare in fumo gli eco-reati. Tanto da spingerli a presentare degli ordini del giorno, oggi, con cui chiedere al governo che si faccia carico di un monitoraggio assiduo sui processi per reati ambientali, evitando che vadano in fumo. In serata, prima del voto, gli ex M5S ora riuniti nella componente L’alternativa c’è, solleticano i malumori dei loro vecchi colleghi di partito e proseguono le proteste plateali contro la riforma, con urla e cartelli con su scritto “impunità di gregge”. Ma altri addii al Movimento, per ora, non sono all’orizzonte. Di una sanzione nei confronti di chi non dovesse votare a favore della riforma, invece, si sta ancora ragionando. Nonostante Conte sia stato chiaro sulla necessità di “essere compatti”, in pochi chiedono di punire i dissidenti. Specie su un provvedimento faticoso, per i 5S, come quello che archivia il blocco della prescrizione di Bonafede. La riforma Draghi-Cartabia colpisce dove fallì la Bicamerale di Gian Giacomo Migone Il Manifesto, 3 agosto 2021 Non funziona l’alibi “lo vuole l’Europa”, visto che una parte delle tensioni con Varsavia e Budapest derivano dal sopruso di quei governi sui poteri delle loro magistrature. Salvo ripensamenti dell’ultima ora, la riforma Draghi-Cartabia conferisce al Parlamento poteri d’indirizzo sulle priorità dell’azione giudiziaria, in violazione del sacrosanto principio della separazione dei poteri che ispira la nostra Costituzione e, potenzialmente, dell’indipendenza della magistratura. In tal modo, si realizza un obiettivo perseguito da anni con tenacia da un variegato schieramento partitico non privo di propaggini, se non diramazioni, all’interno della sinistra, ma soprattutto da quegli interessi privati e pubblici che s’intrecciano a vario titolo, non di rado illegalmente, con l’esercizio del governo. Né il governo di oggi, con la maggioranza che lo sostiene, potrà accampare il solito alibi di un’imposizione di Bruxelles; che, anzi, potrebbe anche riservarci qualche sorpresa positiva, visto che una parte importante delle tensioni con Varsavia e Budapest derivano proprio dalle manomissioni da parte di quei governi dei poteri delle loro rispettive magistrature. Un poco di storia - con un’impronta personale, difficile da evitare da parte di chi è stato partecipe, oggi testimone - può servire a chiarire l’entità della posta in gioco. La parte offesa non è soltanto Montesquieu perché, peggiorandoli con la nuova riforma, si entra nel nerbo dell’intreccio di poteri che segnano il nostro passato e presente. Questa storia non inizia con Tangentopoli, ma con la caduta del Muro di Berlino che la rese possibile. Anche se questa opinione mi costò un civile diverbio con Antonio Di Pietro, di fronte ad un attonito pubblico svedese, poiché egli attribuiva tutto il merito di quanto stava accadendo - perché di merito si trattava, su questo eravamo entrambi d’accordo - alla procura di Milano. In realtà, se la guerra fredda non avesse avuto termine, quei poteri indipendenti che la Costituzione conferisce ai magistrati non si sarebbero esplicati nelle forme variegate e massicce, tipiche di Tangentopoli, colpendo bersagli altrimenti protetti da una ragion di stato votata a non favorire una forza politica che era e restava esclusa dal governo del Paese. Non a caso quei magistrati che non sottostavano a questa regola non scritta venivano bollati come “pretori d’assalto” (il copyright spettava a Flaminio Piccoli). Purtroppo la partita riguardante l’indipendenza dei poteri della magistratura non era finita. Il così detto patto della crostata, consumata a casa di Gianni Letta, diede vita ad una nuova Commissione Bicamerale per la riforma della Costituzione, sotto la presidenza di Massimo d’Alema (allora segretario del Pds, per i suoi gusti insufficientemente occupato, essendo riuscito a portare Romano Prodi al governo del paese). Ricordo, come fosse ieri, il commento di uno dei partecipanti, Cesare Salvi, mio capogruppo al Senato, ad un tempo divertito e sconvolto: “L’unica cosa che a loro - Berlusconi e soci - interessa, è una riforma che consenta un controllo politico della magistratura che li garantisca in sede giudiziaria”. Per ragioni ovvie. Infatti, nei mesi successivi il capitolo dedicato alla giustizia divenne il cuore del negoziato. Mentre il plenum della Commissione si cimentava su altri temi, in realtà dominava la scena politica la successione delle riscritture - se non sbaglio, si arrivò alla nona stesura - dedicate al capitolo della giustizia da parte del relatore Marco Boato. A questo punto alcuni senatori, senza compromettere il loro capogruppo, si misero al lavoro per stilare un documento che raccolse ben 85 firme (quasi un terzo del Senato) prima di essere consegnato alle agenzie. Intento di Carlo Smuraglia, Raffaele Bertoni, Corrado Stajano, Rocco Larizza ed altri (tra cui il sottoscritto) era quello di dichiarare che non avrebbero votato alcuna riforma che condizionasse in alcun modo l’indipendenza della magistratura come garantita della Costituzione in vigore. È possibile che concorsero altre ragioni. Sta di fatto che quell’iniziativa, dopo il fallimento di un’assemblea congiunta dei gruppi Pds della Camera e del Senato convocata allo scopo di richiamare all’ordine i firmatari del documento, segnò la fine della Bicamerale. Era diventato evidente a tutti, soprattutto a Berlusconi, che Massimo D’Alema, se anche lo avesse voluto, non sarebbe stato in grado di consegnargli ciò che egli esigeva: un controllo politico della magistratura che lo salvaguardasse dalle sue incombenze giudiziarie. Infatti, negli anni successivi furono seguite altre strade consentite da maggioranze più o meno fluttuanti di centro-destra, dalle leggi ad personam a risoluzioni parlamentari ad hoc. Oggi, una maggioranza comprendente Pd e M5S, fino a qualche mese fa maggioranza di governo di diverso orientamento, reintroduce quella menomazione dell’indipendenza della magistratura e della separazione dei poteri che la Bicamerale aveva fallito attraverso una riforma costituzionale. Se non dovesse provvedere la Consulta, sarebbe necessario ricorrere ad un referendum abrogativo che troverebbe una maggioranza probabile, oltre che auspicabile, nel paese. Una maggioranza diversa da una, politica che oggi si riduce ad interesse collusivo e corporativo. Si litiga sulla prescrizione ma nella riforma della giustizia c’è molto altro di Giulia Merlo Il Domani, 3 agosto 2021 Tutta l’attenzione è stata catalizzata dalla riscrittura della norma sulla prescrizione, ma il disegno di legge di delega al governo per la riforma del processo penale che lo renda compatibile con i tempi europei contiene molto altro. In particolare, misure che puntano a ridurre la burocrazia processuale che determina lungaggini ingiustificate e modifiche che dovrebbero favorire il decongestionamento del rito ordinario in favore dei procedimenti speciali, più celeri. Questo pacchetto di misure, frutto del lavoro di sintesi operato dal Ministero della Giustizia a partire dalla relazione della commissione di esperti presieduta da Giorgio Lattanzi, è la vera scommessa della guardasigilli Marta Cartabia. A chiunque le contestasse il compromesso sulla prescrizione prima sostanziale e poi processuale, con annessi rischi anche di costituzionalità, la ministra ha sempre opposto questo: “La riforma va letta nel suo complesso”. Tradotto: la prescrizione deve essere una patologia processuale che incorre in più raramente possibile, grazie agli interventi di velocizzazione complessiva della macchina della giustizia penale. Quanto questi interventi saranno risolutivi si vedrà. Anzi, come ha quasi amaramente constatato la ministra davanti alla platea di avvocati del Congresso nazionale forense, “forse se ne gioverà il prossimo ministro della giustizia”. Il ddl incide in tre direzioni, per eliminare alcune lungaggini burocratiche. La prima riguarda il potenziamento del processo penale telematico, con la previsione che atti e documenti possano essere formati, conservati, depositati e notificati in via telematica, che avverrà in modo graduale per coordinare il sistema vigente con le nuove norme, soprattutto alla luce dei molti malfunzionamenti dei server in uso dal ministero, che spesso vanno in tilt lasciando senza piattaforma magistrati e avvocati. Inoltre, è previsto lo svolgimento dell’udienza da remoto, con l’accordo delle parti. La seconda riguarda le notificazioni: l’imputato non detenuto avrà l’obbligo di indicare recapiti telefonici, ma anche recapiti telematici per ricevere le notifiche. Tuttavia (e questa previsione è stata molto avversata dagli avvocati, che così hanno più oneri), tutte le notificazioni successive alla citazione in giudizio avverranno presso il difensore, così da evitare tutti i casi in cui gli imputati si rendano irreperibili. È prevista anche una ridefinizione dei casi in cui l’imputato si debba ritenere presente o assente e il giudice può procedere anche in assenza, se valuta che l’imputato sia al corrente del processo. Cambieranno anche i casi in cui si riconosce la latitanza. Infine, per ridurre il numero di impugnazioni, in appello il difensore di imputato assente può procedere solo se provvisto di un mandato specifico. Infine, sono previste la registrazione audiovisiva di interrogatori, prove dichiarative e anche l’audio-registrazione dell’assunzione di informazioni di persone informate sui fatti. Nel caso di mutamento del giudice, queste prove non devono venire riassunte se non in caso di specifiche esigenze. La riforma stabilisce tempi fissi soprattutto per la fase delle indagini preliminari, durante le quali oggi si prescrive più del 30 per cento dei reati. Vengono modificati i termini di durata, a seconda dei reati: 6 mesi dall’iscrizione nel registro delle notizie di reato per le contravvenzioni; un anno e 6 mesi per i delitti più gravi (per cui ora sono previsti 2 anni) e un anno per tutti gli altri. La proroga è possibile una sola volta, per un massimo di 6 mesi, giustificata dalla complessità delle indagini. Decorsi i termini, il pm deve esercitare l’azione penale o chiedere l’archiviazione, che va richiesta anche “quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna” (norma non gradita ai magistrati). Infine, vengono aumentati i poteri di intervento del gip, nel caso di inerzia nell’azione del pm e di stasi del procedimento. Altra norma poco gradita ai magistrati e criticata anche dal Consiglio superiore della magistratura prevede che sia il parlamento con legge a indicare i “criteri generali di priorità, trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure, per selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza, tenendo conto anche di numero di affari da trattare e dell’utilizzo risorse disponibili”. Vengono poi estesi i reati di competenza del tribunale monocratico, si prevede la sentenza di non luogo a procedere quanto gli elementi acquisiti non consentano una ragionevole previsione di condanna e criteri più stringenti per l’adozione del decreto di riapertura delle indagini. La prima udienza del processo diventa il luogo in cui le parti devono illustrare le rispettive richieste di prova e in cui il giudice deve fissare il calendario delle udienze. Infine, vengono previsti criteri più stringenti sui motivi di appello. Giustizia riparativa - L’ipotesi di disporre una pena pecuniaria viene rafforzata e i criteri vengono rivisti per renderla effettiva e rapida. Vengono ridisegnate anche le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, come la semilibertà, la detenzione domiciliare e il lavoro di pubblica utilità, ai fini della rieducazione del condannato. A disporle, inoltre, sarà il giudice della cognizione all’interno della sentenza di condanna, quando ritiene di poter sostituire la pena detentiva entro i 4 anni con altre misure. Si rafforza anche la giustizia riparativa, con l’introduzione di nuovi criteri per l’accesso e maggiori garanzie sia per le vittime che per gli imputati. Si ridisegna anche l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, richiamando i principi europei e dando rilievo alla condotta successiva al reato. A livello organizzativo, infine, la riforma prevede l’introduzione dell’ufficio del processo, ovvero di un nucleo di lavoro composto da tirocinanti, magistrati onorari e funzionari che coadiuvino i giudici anche nello smaltimento dell’arretrato. I bluff svelati sulla Giustizia di Stefano Folli La Repubblica, 3 agosto 2021 Il voto di fiducia alla Camera sulla legge Cartabia ha coinciso con l’avvio del fatidico “semestre bianco”. La coincidenza è solo temporale, ma in fondo ha confermato la forza di un governo privo di alternative che non siano il caos. E ha dimostrato al tempo stesso la velocità con cui cambiano certe prospettive sul palcoscenico un po’ malfermo della mediocre politica. Pochi giorni fa il giornale ufficioso dei Cinque Stelle minacciava tempesta contro la “schiforma” della giustizia (brillante gioco di parole ripetuto per settimane) e raffigurava Giuseppe Conte come il paladino che avrebbe impedito l’operazione Draghi-Cartabia, sulla scorta degli argomenti sollevati da una parte della magistratura (e ignorando il giudizio favorevole espresso da altri magistrati). Si arrivava ad adombrare, per chi avesse voluto crederci, il ritiro dei ministri 5S dall’esecutivo e il passaggio all’opposizione dell’avvocato del popolo con un manipolo di fedeli. Tutto questo per difendere la democrazia oltraggiata dalla nuova legge che cancellava la precedente riforma “grillina” intitolata al ministro Bonafede. Ovviamente non c’era nulla di vero. Nell’intervista di ieri alla Stampa, Conte afferma con serenità che “due terzi della riforma Bonafede” sono stati salvati e integrati nel testo Cartabia. Non solo. L’ex premier si è prodigato per richiamare all’ordine i dissidenti del movimento, cioè i parlamentari rimasti alla puntata precedente dello psicodramma, sulla scorta delle parole d’ordine incendiarie diffuse come coriandoli (P2, impunità ai mafiosi, Draghi peggio di Berlusconi, eccetera). Ora, considerando che quella campagna non si era certo sviluppata all’insaputa del semi-leader, se ne deduce che la situazione stava sfuggendo di mano e che l’avvocato - dopo l’intesa obbligata con Palazzo Chigi - ha avuto il suo daffare per rimettere il coperchio sulla pentola. Sembra esserci riuscito, salvo qualche eccezione, ma a prezzo della coerenza: il che testimonia di una persistente immaturità, perché il politico esperto riesce a sembrare coerente anche quando non lo è. Sta di fatto che una frangia del movimento, soprattutto fuori dal Parlamento, adesso valuta persino Conte alla stregua di un traditore: basta vedere le ondate malevole sui social. Si voleva fare dell’avvocato un ariete contro Draghi, ma il principio di realtà ha prevalso sui velleitarismi. Il che obbliga i 5S a incamminarsi nel “semestre bianco” cercando una strategia politica che non sia di mero sostegno a Draghi, dopo aver tentato senza successo di esserne gli antagonisti, ma che non sia nemmeno la guerriglia permanente e autolesionista nei mesi decisivi per la ripresa economica. Non solo i mercati, nemmeno gli elettori capirebbero. Conte può consolarsi con i sondaggi - vedi ieri quello su Repubblica - che valutano la sua popolarità tra i militanti del Pd. Tra i quali una larga maggioranza sogna di avere Conte come leader a mezzadria con i 5S in una sorta di partito unico. Sono le residue carte che il giurista pugliese può giocare (e non è poco), nel solco della vecchia linea Bettini-Zingaretti che si rivela più tenace del previsto. D’altra parte Enrico Letta non l’ha mai contraddetta. E si può presumere che non lo farà nei prossimi tempi, quando dovrà destreggiarsi nella giungla di Siena. La sua candidatura e il caso Monte dei Paschi: un’altra coincidenza e questa è molto rischiosa. Giustizia: una riforma ibrida, i problemi restano di Gian Carlo Caselli La Stampa, 3 agosto 2021 La Stampa, nell’editoriale di domenica, ha dimostrato che la ripetizione ossessiva di uno slogan non basta per farne una verità. Può andar bene coi detersivi, ma non funziona per la giustizia. Eppure, a forza di proclami ripetuti fino alla noia, persino i paracarri “sanno” che la riforma del processo penale e della prescrizione andava fatta con assoluta priorità perché “ce lo chiede l’Europa”. L’editoriale documenta invece che l’Europa indica come priorità non la riforma del processo penale ma del civile, per le sue immediate ricadute sull’economia. La scelta politica operata dal nostro Governo, per contro, è stata di partire col penale. E in quest’ambito “spingendo” soprattutto sulla riforma della prescrizione riservandole attenzioni speciali, mentre la logica delle priorità era ben diversa. A dimostrarlo, questa volta, è la Relazione finale della Commissione di studio creata appositamente da Marta Cartabia e presieduta da Giorgio Lattanzi, nella quale sta scritto (pagina 51) che “dal punto di vista tecnico non vi sono ragioni che rendono urgente anticipare la riforma della prescrizione”. Perché gli effetti della legge cosiddetta Bonafede del 1° gennaio 2020 “si produrranno a partire dal 1° gennaio 2025 per le contravvenzioni e dal 1° gennaio 2027 per i delitti”. Dunque il nostro Governo ha scelto (com’è, ben s’intende, nelle sue prerogative) di far prevalere le ragioni politiche su quelle tecniche. Di qui “un campo di battaglia dove ognuno ha piantato la sua bandierina identitaria”, creando una situazione confusa che alla fine ha coinvolto lo stesso Governo. Proviamo a dipanare la matassa dall’inizio. La prescrizione, se non si stabilisce un blocco a un certo punto del processo, rappresenta una spinta formidabile a tirarla per le lunghe e inocula una specie di virus nella Costituzione. Innesca infatti la coesistenza (incostituzionale) di due distinti processi: uno per i “galantuomini”, considerati tali a prescindere in base al censo e alla posizione sociale; l’altro per i cittadini “comuni”. I primi hanno i mezzi per pagare avvocati e consulenti tecnici di prim’ordine, capaci di sfruttare tutte le opportunità che le procedure offrono per “allungare il brodo” fino alla prescrizione; per i secondi, invece, a parità di reato il processo - pur coi suoi tempi - ha assai meno probabilità di arrivare alla prescrizione che tutto cancella. Una asimmetria discriminatoria che il ministro Bonafede ha cercato di spazzar via con la legge del gennaio 2020, secondo cui la prescrizione si interrompe definitivamente (prima c’erano solo sospensioni temporanee) con la sentenza di primo grado. Una scelta di logica e pulizia costituzionale, in linea oltre tutto con i sistemi più civili. Contro questo “blocco” della prescrizione sono state scatenate accuse pesanti (“bomba atomica” e “santa inquisizione”), sostenendo che esso crea un monstrum, quello dell’imputato a vita sospeso in un limbo perpetuo. Ipotesi suggestiva, ma non verificabile fino al 2025/27 (relazione Lattanzi) e comunque almeno in parte fondata su una teoria dell’assurdo, nel senso che presuppone la totale chiusura dei palazzi di giustizia italiani subito dopo le sentenze di primo grado… La riforma Cartabia ha escogitato un “ibrido”: mantenere il blocco della Bonafede e nel contempo spalancare di nuovo le porte, perché se alla sentenza di primo grado non segue entro due anni la sentenza d’appello il processo diventa improcedibile (cioè si prescrive ma con un altro nome…), mentre viene riesumata la convenienza nefasta, che intossica il sistema, di appigliarsi a tutto pur di guadagnare tempo. Invece dell’ipotetico limbo, una tagliola: con moltissimi colpevoli impuniti, innocenti mai riconosciuti come tali e vittime ridotte a sentirsi dire “abbiamo scherzato”. Per di più con rilevanti ripensamenti: per alcuni gravi reati, in particolare di mafia, terrorismo e traffico di droga, la tagliola all’ultimo momento è stata allentata (secondo l’editoriale citato, “il minimo sindacale per uno stato di diritto”); escludendo però dalla rettifica reati come la corruzione, il peculato, la bancarotta, i morti sul lavoro e altri ancora; completando l’ibrido con l’introduzione, anch’essa in extremis, di un regime transitorio fino al dicembre 2024, data che significativamente riporta alla pagina 51 della relazione Lattanzi. In sostanza, una certa confusione. A riscontro di quanto sia illusorio pensare di poter fissare i tempi del processo con decreto, sostituendo al codice un cronometro: come se invece di sentenze si dovessero produrre oggetti a cottimo. Freno alle parole dei pm, poche conferenze stampa solo dei procuratori capo di Liana Milella La Repubblica, 3 agosto 2021 L’Italia si adegua alla direttiva sulla “presunzione di innocenza” della Ue del 2016, recepita soltanto il 28 marzo di quest’anno dal Parlamento. Al prossimo Cdm il decreto che contiene la stretta. Le conferenze stampa delle procure sugli arresti? Saranno possibili sì, ma solo in casi del tutto eccezionali. E solo se le inchieste sono “di grande rilievo”. Altrimenti sarà sufficiente un semplice e stringato comunicato stampa. E comunque, a dar voce al lavoro dell’ufficio, potrà essere esclusivamente il capo dell’ufficio stesso, il procuratore, e assolutamente mai i suoi sostituti. L’Italia si adegua alla direttiva sulla “presunzione di innocenza” della Ue del 2016, recepita soltanto il 28 marzo di quest’anno da un voto del nostro Parlamento. In cui Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione, con un emendamento, indicò proprio questo tema come prioritario. Adesso, dal ministero della Giustizia, arriva al prossimo consiglio dei ministri, previsto in settimana, il decreto legislativo che contiene la stretta sulla comunicazione delle procure. Un passo obbligato per il governo. Perché la legge delega di marzo dava tre mesi di tempo. Che scadono per l’appunto l’8 agosto. Ovviamente è solo un caso se il voto sulla riforma del processo penale precede di qualche giorno un altro intervento sulla vita dei magistrati che potrebbe creare qualche polemica dei pm più “chiacchieroni”. Ma, del resto, le norme già mettevano in capo al procuratore l’obbligo di intestarsi la comunicazione con la stampa. Ma stavolta, nel decreto legislativo, c’è un passo in più, anche se non c’è il divieto esplicito alle conferenze stampa che proprio Costa aveva chiesto al governo stesso. Ma cosa conterrà il decreto? Innanzitutto sarà un testo “leggero”, “aperto” ai contributi parlamentari. I decreti legislativi - come avverrà anche per il processo penale - sono fatti così: il Consiglio dei ministri li approva, ma poi le commissioni della Camera e del Senato possono licenziarli con dei correttivi, su cui comunque il governo stesso deve dire l’ultima parola. In questo caso il testo è “aperto” a questi contributi d’indirizzo politici. Ma parliamo di un decreto che già contiene una linea precisa, in quanto stabilirà, indicando anche dei puntuali criteri, che la comunicazione spetta al procuratore della Repubblica, mai ai suoi sostituti che d’ora in avanti non potranno più avere una “voce mediatica”. E lo stesso procuratore potrà tenere una conferenza stampa solo in casi di “particolare rilievo”. Insomma, quando c’è di mezzo un interesse pubblico. Naturalmente la valutazione sull’effettiva esistenza di questo “interesse pubblico” spetterà al procuratore stesso. Il decreto elaborato dall’ufficio legislativo di via Arenula indica anche dei “puntuali criteri” che dovranno essere seguiti. Che ovviamente si ispirano sia alla Direttiva sulla presunzione d’innocenza, ma anche al principio di non colpevolezza contenuto nell’articolo 27 della nostra Costituzione, nonché alle sentenze della Consulta. Nel giro di soli due giorni Costa mette a segno così un duplice risultato, porta a casa il principio del diritto all’oblio - l’assolto in un processo può chiedere la deindicizzazione del suo nome dai siti web - inserito nella legge sul processo penale, e adesso anche lo stop ai procuratori “loquaci”. “I punti cardinali sono molto semplici - dice Costa - perché i processi si fanno in tribunale e non sui giornali, e quando una persona viene dichiarata innocente ha diritto a recuperare la sua immagine, la sua credibilità e la sua reputazione”. Al punto che diventa necessario anche cancellare le notizie? Replica Costa: “Se fosse garantita in pieno la presunzione di innocenza forse non ci sarebbe bisogno del diritto all’oblio perché le due cose sono collegate. Se il processo si fa sui media, diventa indispensabile garantire che sui media stessi l’assolto non sia marchiato a vita”. “Stop all’illusione che punire risolva tutto. I magistrati collaborino” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 3 agosto 2021 Intervista a Costantino Visconti, docente di Diritto penale all’università di Palermo: “Una svolta culturale, ma politici e toghe superino l’idea che il Paese si aggiusta a colpi di condanne”. “Alla fine, una mediazione è stata trovata. Ma vedo ancora dei rischi per la concreta attuazione della riforma”. Il professore Costantino Visconti, ordinario di diritto penale all’università di Palermo, chiama in causa la politica e la magistratura. “Negli ultimi trent’anni, i protagonisti dei due mondi si sono fatti la guerra - dice. Oggi, sono molto più simili di quanto siano disposti a riconoscere: hanno una malattia con cui non riescono a fare i conti sino in fondo, io la chiamo la malattia della tigre punitivista. Ovvero, l’illusione per cui il nostro Paese va aggiustato a colpi di processi penali e di pene. Ma tutti quelli che accarezzano la tigre prima o poi finiscono per perdere la mano, divorata da un animale fascinoso e insaziabile”. Contro la malattia della tigre, come la chiama lei, la maggioranza ha espresso una riforma in cui si parla di giustizia riparativa e non solo di carcere. Quanto è importante questo passo? “Dal punto di vista culturale, questa riforma è frutto di una minoranza illuminata che guarda avanti, mentre alcune soluzioni tecniche poi adottate dal governo sono il frutto inevitabile dei tempi che viviamo. Per il resto, nella maggioranza vedo prevalere la tigre, nonostante l’autocritica di Luigi Di Maio con la lettera al Foglio, a proposito della gogna toccata all’ex sindaco di Lodi, poi assolto”. Dove ha visto ancora la malattia della tigre? “La Lega ha fatto saltare un istituto importante: l’archiviazione meritata. Era previsto che il pubblico ministero, di fronte a casi con alcune caratteristiche, non di elevata gravità, avrebbe potuto chiudere il caso attraverso condotte riparatorie, senza arrivare al processo”. Anche da parte di esponenti di sinistra si sostiene però il diritto a una sentenza, per l’attenzione che è dovuta alle vittime dei reati. “Siamo cresciuti con l’idea che la sentenza di condanna era la verità, oggi credo invece che non sia sufficiente, perché spesso lascia le cose come stanno. Invece abbiamo bisogno di recuperare, rimediare, guarire, cucire. Ecco perché il diritto penale è un male necessario, ma la giustizia può fare di più, rendere la società più unita e meno divisa”. Perché ritiene che nella magistratura ci possano essere sacche di resistenza nell’attuazione della riforma? “Continuo a vedere una chiusura corporativista rispetto al nuovo progetto. L’Associazione nazionale magistrati non ha speso neanche una parola sul lavoro importante della commissione Lattanzi, di cui facevano parte anche magistrati oltreché avvocati e giuristi: una commissione che ha fatto un lavoro coerente, perché ha operato alla fonte, nel togliere il più possibile la necessità di celebrare i processi e di ricorrere al carcere”. Autorevoli magistrati hanno posto il problema della carenza di risorse per far partire davvero la riforma... “È una questione reale, a cui il governo sta ponendo rimedio con nuovi concorsi, per magistrati e personale amministrativo: anche se occorre preoccuparsi di stabilizzare le risorse che verranno attinte dal Piano nazionale di ripresa. Un contributo importante arriverà dalle assunzioni per il nuovo ufficio del processo che è bisognoso di ulteriori riflessioni, per evitare che si risolva in infornate di personale indistinto e quindi inutile. Ma attenzione a trincerarsi di fronte a un problema vero, è necessario che la magistratura non si chiuda rispetto alla riforma”. Come crede si evolverà il dibattito all’interno della magistratura? “Credo che la crisi in cui versa la categoria possa essere l’occasione per rimettere tutto in discussione dal punto di vista culturale. Le correnti, ad esempio, si occupino meno di regolare i conti, ma riprendano la capacità di progettare una nuova visione condivisa di giustizia. Ritengo che i magistrati, i pubblici ministeri in particolare, debbano smetterla di presentarsi come gli unici difensori della legalità, e invece tornare ad apparire come terzi imparziali impegnati a rendere un servizio efficiente ai cittadini nel solco dei principi sanciti dalla Costituzione”. Malan: “La riforma Cartabia non accorcerà i processi. Avanti con i referendum” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 3 agosto 2021 Secondo Lucio Malan, neo senatore di Fratelli d’Italia, il testo della riforma Cartabia “è peggiore di prima”. E spiega il suo addio da Forza Italia. Lucio Malan, senatore di Fratelli d’Italia di recente uscito dalle fila di Forza Italia, spiega che “la vera priorità è dare una risposta ai mille innocenti che vanno in carcere ogni anno” e che “la riforma Cartabia è un compromesso del compromesso che non ci permetterà di raggiungere gli obiettivi fissati con l’Ue”. Senatore Malan, cosa continua a non convincere Fratelli d’Italia sulla riforma Cartabia? Data la consistenza della maggioranza parlamentare non abbiamo margini di manovra ma continuiamo a far valere le nostre ragioni rispetto a una riforma che riteniamo insufficiente perché non affronta i veri temi che sono necessari, a partire dalla velocizzazione dei processi. È giusto introdurre dei limiti dopo la devastante riforma Bonafede, ma bisogna anche fornire gli strumenti necessari per farlo e in questa riforma non ci sono. Il nuovo ufficio del processo ci lascia perplessi perché questo personale, che in ogni caso per legge non dovrebbe scrivere sentenze, potrà essere utile in alcuni casi ma la maggior parte del lavoro è quello della ricerca di sentenze e fonti legislative che ormai si fa tranquillamente al computer. Il punto è scrivere le sentenze e questo lo può fare solo il giudice. Eppure la ministra della Giustizia è convinta di raggiungere l’obiettivo chiesto dall’Unione europea per ridurre i tempi dei processi. Ci riusciremo? Abbiamo preso un impegno con l’Europa di ridurre del 40 per cento i tempi del civile e del 25 per cento quelli del penale, ma con questo testo sono obiettivi non raggiungibili. Noi abbiamo proposto di istituire sezioni che si occupino dell’arretrato e ci sarebbero i presupposti per metterle nel Pnrr, tanto che abbiamo proposto un emendamento al decreto Brunetta ma è stato respinto. Anche sulla questione Csm e carceri non ci siamo. Non si possono fare solo decreti svuota carceri, ma occorre trovare forme alternative al carcere e su questo non sono esattamente in linea con il mio partito. Per non parlare poi della questione della responsabilità civile dei magistrati e della separazione delle carriere. Su questo a dare sostegno alla riforma ci sono i referendum. Crede che saranno uno strumento utile? La riforma Cartabia dimostra che solo lo strumento referendario, sia direttamente con il voto che indirettamente con la pressione sul Parlamento, può essere quello giusto per dare spinta decisiva a fare ciò che davvero serve e non ciò che è solo compromesso tra forze eterogenee di maggioranza. È normale che si sia raggiunto un accordo tra forze politiche così diverse, ma sarebbe anche normale avere una giustizia giusta e affrontare la priorità dei mille innocenti all’anno che vanno in carcere. Lei fino a poche settimane fa sosteneva la maggioranza e quindi anche le prime proposte di riforma sulla giustizia. Ritiene che in questo tempo il testo sia peggiorato? È peggiore di prima perché un mese fa c’era un compromesso già raggiunto con il Movimento 5 Stelle che poi è stato ritrattato. È accaduto perché Conte e la base grillina hanno sconfessato quella linea così si è raggiunto una sorta di “compromesso del compromesso”. Ma questo non può essere positivo perché sappiamo benissimo che nessuno dei partiti di maggioranza è pienamente soddisfatto. Lega e Forza Italia però sostengono con forza l’esecutivo e la riforma, e da Berlusconi sono arrivate parole di elogio per Salvini. Fratelli d’Italia rischia di rimanere esclusa dalla coalizione? Noi come Fratelli d’Italia dobbiamo andare avanti per la nostra strada, tenendo conto delle posizioni di Forza Italia e Lega, che sono alleati stabili e duraturi. Le decisioni che prenderanno quei due partiti sono loro decisioni sulle quali, da ex di Forza Italia, non mi sembra opportuno entrare. Ma la prospettiva sulle prossime Amministrative è forse la migliore di sempre, perché praticamente c’è unitarietà dappertutto. Forse non c’era nemmeno quando eravamo assieme al governo. Per quanto riguarda la strategia delle prossime Politiche mi sembra evidente che Lega e Forza Italia non possano trovare altrove alleati con i quali realizzare i propri programmi se non con Fratelli d’Italia. Eppure già in passato la coalizione si è divisa nel sostegno a diversi governo, basti pensare a Letta e Monti… Quei governi stanno lì a dimostrare che quando si fanno esecutivi con la sinistra finisce che prevalgono le posizioni della sinistra. Per qualche ragione strana accade sempre così. Invece con un governo di centrodestra si porta avanti un programma chiaro, ognuno con i propri cavalli di battagli sui quali discutere e trovare una quadra, come sempre accaduto. Non pensa che questo governo sia più vicino alle posizioni del centrodestra che a quelle del centrosinistra, ad esempio sugli strumenti necessari alla ripresa economica? Dal governo Conte due, che era il governo delle quattro sinistre, al governo Draghi ci sono sicuramente dei miglioramenti. Ma ci sono anche una serie di cose e aspetti simbolici da sistemare, come ad esempio il riaccreditamento di Arcuri a palazzo Chigi. Ci sono questioni dove c’è molta continuità con il governo Conte e questo non può lasciarci indifferenti. Lei ha lasciato Forza Italia e la maggioranza per le polemiche sul ddl Zan, che però ora sembra essere stato messo in soffitta. Si è pentito della scelta? Sono convintissimo della scelta fatta, anche per ciò che è successo nelle settimane successive al mio passaggio. Le motivazioni che mi hanno spinto a quel passo rimangono, comprese quelle sul ddl Zan. Il governo ha dei doveri precisi: di fronte alla nota verbale della segretaria di Stato vaticana ci voleva una risposta formale, così come serviva chiarezza di fronte alle lettere delle altre Chiese che hanno espresso preoccupazioni: il silenzio del governo su questo è stato inaccettabile. In secondo luogo, all’articolo 8 dell’attuale testo ci sono mostruosità contrarie alla legge, come la promozione dell’utero in affitto. Ho fatto interrogazioni al ministro competente, cioè quello delle Pari opportunità, che non si è nemmeno degnato di rispondere. Per me era impossibile continuare a sostenere queste scelte. Riforma Cartabia, ci deve essere una alternativa a Draghi & C. di Fabio Marcelli* Il Fatto Quotidiano, 3 agosto 2021 Il migliore commento alla “riforma” Cartabia che ho avuto occasione di leggere in questi giorni è quello di Massimo Villone, un acuto costituzionalista che certamente non è né grillino né manettaro. Villone ha detto che la “riforma” in questione costituisce la rivincita di Tangentopoli. Ed è a tutti evidente, in effetti, l’intento di debilitare la giustizia penale, orientandola solo verso determinati reati e non altri, come quelli contro la pubblica amministrazione (corruzione, concussione, ecc.), quelli ambientali ed altri ancora. Se ciò non bastasse il Parlamento darà il suo indirizzo a giudici e pubblici ministeri. E già si riparla di separazione delle carriere ed abolizione dell’abuso d’ufficio. La destra è scatenata contro la magistratura e non mi pare che l’azione di contenimento dei danni intrapresa da Conte possa risultare pienamente soddisfacente, anche se qualche risultato è stato ottenuto. Si tratta di tema essenziale per lo Stato di diritto ed occorrerebbe un’opposizione ben più dura e di principio. Stupisce quindi che l’Associazione dei giuristi democratici mantenga un silenzio di tomba sulla “riforma”. Ha preso posizione invece il Centro di ricerca ed elaborazione per la democrazia (Cred) il quale, in un comunicato precedente all’accordo raggiunto in seno alla maggioranza, aveva denunciato che la “riforma” in questione “col pretesto di accorciare i tempi dei processi in conformità a una richiesta dell’Unione europea, rischia di rottamarne moltissimi, in molti casi di grande importanza per la salvaguardia della legalità e dei diritti dei cittadini italiani”. Giudizio che rimane valido, insieme alla richiesta di depenalizzare molti reati, in particolare quelli connessi al conflitto sociale. È peraltro evidente che siamo solo all’inizio di un’offensiva a largo raggio della destra politica, sociale e culturale del nostro Paese. Il prossimo obiettivo sarà il reddito di cittadinanza su cui già si appuntano gli strali di un Renzi in versione apertamente sadica, che afferma che la gente, in particolare i giovani, “deve imparare a soffrire”. Il modello è più che mai Bin Salman e il suo rinascimento saudita, del quale - come si ricorderà - Renzi invidiava soprattutto il basso costo del lavoro. A quando l’introduzione delle frustate per i dissidenti? (Di taglio della mano per i ladri non si parla per ovvi motivi). Non dimentichiamo peraltro che il ruolo di Renzi fu decisivo nella sostituzione di Conte con Draghi. Ed è sempre più chiaro come il modello di società verso la quale Draghi ci sta portando è quella improntata al dominio assoluto del capitale. Questo lo vediamo in ogni campo: dalla giustizia, dove per l’appunto si vogliono limitare i poteri di giudici che si mettessero in testa di essere indipendenti ed applicare la legge, venendo a costituire ostacoli intollerabili al funzionamento del capitalismo in tutte le sue forme, comprese quelle apparentemente illegali - si tratti di disastri ambientali, di omicidi sul lavoro, di corruzione, di riduzione in schiavitù o di molte altre manifestazioni degli spiriti animali della “libera impresa”. Il disastro ambientale più grande e irreversibile lo stiamo del resto vivendo in questi giorni torridi, col cambiamento climatico che renderà invivibili nei prossimi anni porzioni sempre più vaste del pianeta. Si è parlato di Belgio, Germania, Stati Uniti, Canada. Meno di Cina e Siberia. Quasi per niente di Burundi e di altri luoghi situati nella parte più povera e dimenticata del pianeta. Ma tutto il pianeta sta bollendo per effetto del cosiddetto cambiamento climatico. E le ricette offerte dalla classe dominante sono drammaticamente inadeguate, sia a livello internazionale, sia a livello europeo, sia, soprattutto, a livello italiano, dove le isole bruciano e le zone prealpine sono inondate, e siamo solo all’inizio. Nel frattempo apprendiamo che i soldi del Pnrr saranno spesi per progetti ad impatto ambientale negativo, mentre si torna a parlare di Ponte sullo Stretto e si riprende lo scavo del Tav. Sui vaccini, soluzione fondamentale del problema della pandemia, siamo sempre più in balia di Pfizer & C., che hanno fortemente rialzato i loro prezzi e presto decideranno se è necessaria o meno una terza dose. Ecco i risultati della folle politica di privatizzazione della salute e della ricerca che, nonostante la pandemia, sta conoscendo in questi giorni nuove tappe. Giustizia, reddito di cittadinanza, catastrofi ambientali, salute. Quattro temi, ma molti altri potrebbero essere indicati, sui quali l’offerta messa a punto da Supermario, l’esperto che sostiene che non sempre è il caso di sentire gli esperti, in combutta con tutti i ruderi vecchi e nuovi del sistema politico italiano, sono del tutto inadeguate e anzi in molti casi radicalmente sbagliate. Sarebbe ora di muoversi alacremente verso la costruzione di un’alternativa a questo fallimento annunciato. *Giurista internazionale La lotta alle mafie non si rafforza riformando solo il processo penale di Vincenzo Musacchio huffingtonpost.it, 3 agosto 2021 Se volessimo essere onesti con noi stessi e con chi ci legge, dovremmo ammettere che questa riforma del processo penale non è la soluzione ai reali problemi della lotta alle mafie in Italia. La riforma della giustizia in atto, da sola, non solo non renderà più efficiente il sistema di contrasto del crimine organizzato ma per alcuni aspetti rischia di vanificarlo poiché non vi sono, al momento, le necessarie riforme a supporto. Per un processo penale efficace il problema cruciale da affrontare è da ricercare in specifici aspetti di riordino dell’intero sistema. La ragionevole durata si potrà raggiungere solo con importanti interventi organizzativi, mirati non solo sulla disciplina sostanziale e processuale, ma soprattutto sull’organizzazione giudiziaria. È assolutamente necessario un importante e incisivo intervento organizzativo e un’efficace messa a punto delle risorse materiali e umane. A fronte di un’adeguata opera di depenalizzazione, occorrono nuove norme organizzative che prevedano la riorganizzazione strutturale dell’intero sistema penale. In primis, un forte potenziamento degli strumenti e dei sistemi informatici e di digitalizzazione del processo penale dalla fase inquirente. In secundis, la gestione delle cancellerie affidata esclusivamente al personale amministrativo. Infine, gli organici adeguatamente formati alle nuove tecnologie e alle evoluzioni informatiche già presenti in altri Paesi europei. Questi provvedimenti sarebbero l’inizio di un effetto benefico nei confronti della lungaggine del processo penale. Con nuovi strumenti tecnologici e informatici e nuove risorse umane giovani, ben motivate e ben selezionate, si aumenterebbe la possibilità di fare fronte alla domanda di giustizia da parte dei tanti individui che vi ricorrono o vi sono sottoposti. Di queste modificazioni ne beneficerebbe senza dubbio alcuno anche la lotta contro le mafie. Sono tra quelli che ritengono non occorrano più magistrati. Quelli che ci sono bastano, soltanto dovrebbero essere meglio riorganizzati, sia come risorse umane, sia all’interno delle strutture giudiziarie nel loro complesso. Il potenziamento di questi strumenti può dare buoni risultati. Naturalmente incidere sul rito penale resta una buona soluzione, ma, ripeto, da sola assolutamente non sufficiente a risolvere i mali della giustizia penale e della lotta alle mafie. Non è possibile che alle soglie del terzo millennio tra le pubbliche amministrazioni o tra Procura della Repubblica e Tribunale si comunichi ancora con pec o con atti in cartaceo e non con un sistema informatico unico a livello distrettuale e nazionale. S’implementi il fascicolo elettronico e si elimini totalmente il cartaceo. Si agisca anche sulla geografia giudiziaria finalizzandola all’uso congruo delle risorse a disposizione. Si affronti una volta per tutte e con decisione il tema della discrezionalità dell’azione penale, della separazione delle carriere, dell’inibizione totale di passaggio dalla magistratura alla politica. Sono riforme necessarie pena anche il venir meno della credibilità del sistema nei confronti dei cittadini. Il problema della giustizia, tuttavia, resta e resterà sempre un problema di persone. Poiché gli esseri umani sbagliano, a chi amministra la giustizia si dovrebbe chiedere di commettere il minor numero di errori possibile. Fossi stato al posto del ministro della Giustizia, avrei cominciato a costruire la riforma su tre pilasti portanti. Il primo: rimediare all’inefficiente organizzazione del “Sistema Giustizia”. Abbiamo i migliori magistrati d’Europa che al tempo stesso sono i peggiori in fatto di organizzazione. Il secondo: ridurre l’eccessiva “criminalizzazione” di molte condotte che potrebbero essere punite con sanzioni non di natura penale. Il terzo: agire sulla convenienza ad affrontare sempre il giudizio di appello che porti costantemente solo e sempre benefici al condannato. Iniziando da questi tre capisaldi sono certo si porrebbe rimedio anche all’eccessiva durata dei processi in Italia. Naturalmente questo tipo di riforma dovrebbe prevedere inevitabilmente anche il porre rimedio all’attuale situazione carceraria italiana. Depenalizzare, per esempio, significherebbe anche uso marginale della sanzione penale privativa della libertà personale e ciò in parte garantirebbe un carcere più “umano”, cosa che purtroppo in Italia latita da ormai troppo tempo. Una possibile risoluzione di questi problemi la propose anche il mio maestro Giuliano Vassalli circa trent’anni fa e fu poi ripresa più volte negli anni successivi ma mai attuata: la cd. “lista d’attesa”. In sostanza, si dovrebbe stabilire con legge che qualora tu Stato non possa garantire uno spazio sufficiente in carcere per l’imputato in attesa di giudizio aspetti per rinchiuderlo fino a quando questo spazio non l’avrai. La norma si dovrebbe applicare ovviamente per i reati meno gravi in conformità a una serie di requisiti tassativi, ricordandoci che siamo sempre di fronte a non colpevoli sino alla condanna definitiva, come recita testualmente l’articolo 27 della Costituzione. Occorrerebbe naturalmente investire anche sulle strutture delle carceri e su una nuova e più adeguata edilizia penitenziaria adeguata ai tempi moderni. Sarebbe un buon inizio. Ovviamente occorreranno molte altre riforme poiché un simile processo è sicuramente lungo e difficile, ma come diceva Orazio: “Chi ben comincia è a metà dell’opera”. *Jurist and Professor of Criminal Law Stragi: via il segreto di Stato dagli atti su Gladio e P2. Una luce sui misteri di Miguel Gotor La Repubblica, 3 agosto 2021 La direttiva di Draghi per declassificare i documenti: andranno all’Archivio di Stato. Gli anniversari sono importanti: il 2 agosto 2021, quarantuno anni dopo la strage di Bologna, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha firmato una direttiva che dispone la declassifica e il versamento anticipato all’Archivio centrale dello Stato della documentazione conservata presso gli archivi degli organismi d’intelligence e delle amministrazioni dello Stato riguardante l’organizzazione atlantica Gladio e la loggia massonica P2. Il gesto assume un alto valore simbolico nel momento in cui si sta celebrando un nuovo processo che vede imputato, come mandante e finanziatore di quell’attentato, proprio il capo dello P2 Licio Gelli, già in passato condannato con sentenza definitiva per i depistaggi effettuati con alcuni alti ufficiali dei servizi segreti italiani. La nuova iniziativa del presidente del Consiglio amplia e dà un ulteriore impulso a quanto già deciso dai suoi predecessori Romano Prodi (2008) e Matteo Renzi (2014). In quest’ultimo caso, un’apposita direttiva aveva stabilito la declassificazione delle stragi che hanno insanguinato la storia d’Italia a partire dalla bomba di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 in poi, indipendentemente dal tempo trascorso dagli attentati. Per verificare la complicata attuazione di queste direttive è stato istituito un comitato di controllo alle cui sedute partecipano anche i rappresentati delle associazioni delle vittime del terrorismo. In una di queste riunioni è emersa la disponibilità da parte dell’ex direttore generale del Dipartimento delle Informazioni per la sicurezza (Dis) Gennaro Vecchione di non limitarsi a rendere pubblici gli atti relativi alle stragi, ma di ampliare lo spettro documentario a strutture come Gladio e la P2, per l’appunto. La “direttiva Draghi” consentirà ora di approfondire non soltanto le dinamiche dei singoli attentati, ma anche il tema dei mandanti, dei depistaggi e delle infiltrazioni che riceveranno un sicuro impulso insieme con lo snodo centrale dell’individuazioni di eventuali responsabilità internazionali collegate allo sviluppo della strategia della tensione in Italia. In particolare si segnalano tre questioni. Anzitutto bisogna continuare a finanziare le procedure di digitalizzazione in modo che i documenti messi a disposizione possano diventare effettivamente fruibili per gli studiosi in un tempo ragionevole e con inventari ben fatti. Così anche sarà decisivo intrecciare le carte scaturite da queste direttive con quelle, non meno preziose, conservate dai tribunali, dove anche è in corso una informatizzazione che consentirà, incrociando i singoli dati e nominativi, un sicuro approfondimento delle nostre conoscenze. In secondo luogo si evidenzia la questione specifica riguardante i documenti ancora segretati da parte delle Commissioni di inchiesta parlamentari. Non possono esserci due pesi e due misure ed è giusto che soprattutto il Parlamento si adegui allo spirito di queste direttive riguardanti le altre amministrazioni dello Stato senza ulteriori indugi. Infine sussiste un problema serio a proposito dell’attuale ministero delle Infrastrutture. Quel ministero, infatti, ha ereditato le funzioni di vari dicasteri come le Ferrovie e la Marina mercantile e si è letteralmente perduta traccia degli archivi di queste strutture, alcune delle quali nel frattempo sono diventare società per azioni, ossia enti di diritto privato che rischiano di smarrire la coscienza storica della propria continuità archivistica. La questione potrebbe sembrare di lana caprina, invece è decisiva perché gran parte delle stragi sono avvenute sui treni e, quindi, i primi a intervenire erano proprio gli agenti della polizia ferroviaria. Anche la strage di Ustica, riguardante un aereo civile, sarebbe interessata da un provvedimento ad hoc che affrontasse il nodo della ricostruzione degli archivi del ministero degli Trasporti. La nuova “direttiva Draghi” costituisce un ottimo provvedimento, ma è necessario fornire le energie finanziarie e organizzative adeguate per farla avanzare tra le nebbie e gli scogli della storia d’Italia. Strage Bologna, Mattarella: dissipare tutte le ombre per una completa verità dire.it, 3 agosto 2021 Così il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del 41° anniversario della strage di Bologna e la ministra della Giustizia Marta Cartabia promette “supporto e vicinanza concreta”. “Quarantuno anni fa la città di Bologna e con essa la Repubblica vennero colpite al cuore. Un attentato dinamitardo, ad opera di menti ciniche che puntavano alla destabilizzazione della democrazia italiana, provocò una terribile strage in cui morirono donne e uomini inermi, bambini innocenti. I bolognesi e gli italiani seppero reagire con sofferto coraggio, offrendo solidarietà a chi aveva bisogno di aiuto, di cure, di conforto. Affermando un forte spirito di unità di fronte al gesto eversivo diretto contro il popolo italiano. Sostenendo nel tempo le domande di verità e di giustizia, che, a partire dai familiari, hanno reso la memoria di questo evento disumano un motore di riscatto civile e un monito da trasmettere alle generazioni più giovani”. Così il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del 41° anniversario della strage di Bologna. Poi, aggiunge: “L’impegno di uomini dello Stato, sostenuti dall’esigente e meritoria iniziativa dell’Associazione tra i Familiari delle vittime, ha portato a conclusioni giudiziarie che hanno messo in luce la matrice neofascista della bomba esplosa la mattina del 2 agosto 1980. Non tutte le ombre sono state dissipate e forte è, ancora, l’impegno di ricerca di una completa verità. La Repubblica ha saputo respingere la strategia di questi criminali, difendendo i principi di civiltà conquistati con la lotta di Liberazione. La vicinanza, che rinnoviamo a quanti sono stati colpiti negli affetti più preziosi da tanta ferocia, costituisce anche pegno per il futuro, affinché il patrimonio di valori e di umanità, che sta alle fondamenta della nostra società, sia percepito sempre più come un bene comune indivisibile”. Cartabia a Bologna: con voi per la piena verità - “C’è bisogno di una parola di giustizia” e la ministra della Giustizia Marta Cartabia promette “supporto e vicinanza concreta” a chi cerca la verità sulla strage del 2 agosto 1980. “Bologna - dice nel suo intervento nel cortile d’onore di Palazzo D’Accursio - sappia di poter contare su di me e su tutto il ministero per quanto di mia competenza. Il processo attualmente in corso, che fa compiere un salto in avanti verso la ricostruzione dei fatti, è una necessità per l’intera storia del paese. La stazione di Bologna è uno snodo storico”. Per questo Cartabia assicura impegno per gli organici della giustizia e sulla digitalizzazione degli atti, una delle richieste avanzate con forza dall’associazione dei famigliari delle vittime (“la faccio mia”, dice in proposito la ministra). E se il presidente dei famigliari delle vittime Paolo Bolognesi ha ricordato l’appoggio mai venuto meno da parte degli enti locali, “abbiate fiducia anche nei confronti del Governo e dello Stato” è l’appello della ministra, che sottolinea: Bologna “sa stare in piedi, per quanto colpita”. Da parte del Governo c’è un “concreto impegno per giungere ad una più completa ricostruzione dei fatti”. Perché “non può esserci giustizia senza il riconoscimento pieno di ogni responsabilità”. Però ora dopo 41 anni la polvere della bomba “piano piano si sta diradando e lascia vedere nuovi contorni e nuovi profili dell’accaduto”. Di questo “va dato merito alla tenace determinazione dell’associazione familiari, all’impegno della procura generale di Bologna e di tutti i magistrati” e da parte dell’esecutivo ci sarà “tutto il sostegno necessario nel lavoro di accertamento delle responsabilità”. Per quanto riguarda il personale della giustizia, Cartabia è al lavoro per assicurare insieme al Csm (alla cerimonia c’è anche il vicepresidente David Ermini) tutte le “risorse di cui avete bisogno”. Come gli altri attentati degli anni della strategia della tensione la strage di Bologna “è un fatto opaco, oscuro, sordo”, quello del 2 agosto 1980 “fu un attacco all’intero popolo italiano e al cuore della repubblica”. Quello scoppio “fece ammutolire tutta l’Italia” e allora la ministra cita un verso di Giuseppe Ungaretti dal Porto sepolto, il silenzio di fronte alla tragedia della prima guerra mondiale. “La scelta di essere qui accanto a ciascuno di voi, non solo a titolo personale ma in rappresentanza di tutto il governo, è per testimoniare il bisogno di ascoltare ancora, le vostre voci, il vostro lavoro”, sottolinea ancora Cartabia, nella consapevolezza che le “schegge di quella bomba ci hanno colpiti tutti”. Bonaccini: pretendiamo verità, non ci arrenderemo - “Non ci arrenderemo mai finché non sarà fatta piena luce sui mandanti. L’Emilia-Romagna vuole e pretende tutta la verità”. Lo scandisce il governatore Stefano Bonaccini. “Gli anni passano, non certo il dolore e il bisogno di piena verità”, afferma Bonaccini, che sottolinea come dal processo ai mandanti vengono “nuove speranze”. Una ricerca della verità che “non è mai venuta meno” grazie all’impegno dei familiari delle vittime, dai quali viene “una lezione di civismo e partecipazione” e ai quali “saremo sempre al fianco”, assicura Bonaccini. E aggiunge: “A nome di tutta la comunità regionale abbraccio loro e il presidente Paolo Bolognesi, e rinnovo il suo appello all’Esecutivo nazionale perché venga garantita ogni misura organizzativa e di rafforzamento della magistratura inquirente, per permettere alla Procura Generale di Bologna proseguire le indagini in corso e seguire fattivamente i processi fino alla loro conclusione” Casellati: proseguirò l’opera di desecretazione - La strage di Bologna è “una ferita profonda e mai completamente rimarginata. Sento ancora forte l’emozione provata un anno fa quando ho condiviso con tutti voi il dolore di una città che più di ogni altra in Italia ha pagato il tragico prezzo del terrorismo e dell’eversione armata”. Lo scrive la presidente del Senato Elisabetta Casellati, in occasione dell’anniversario dell’attentato del 2 agosto 1980. “Questa cerimonia- aggiunge- deve essere occasione anche per rinnovare il ricordo dell’orgoglio di un Paese che, proprio da Bologna, seppe reagire all’orrore del terrorismo con coraggio, unità e determinazione. L’orgoglio di un’Italia di valore che senza più paura ha risposto alla violenza delle bombe con le armi dell’onestà, della giustizia e della legalità. Un’Italia che ha sconfitto il terrorismo e che oggi continua a perseguire, con instancabile tenacia, verità e giustizia su pagine di un passato da consegnare alla storia senza ombre e senza segreti”. Casellati prosegue: “Un obiettivo di trasparenza, accessibilità e conoscenza a cui continuo a credere e per il quale intendo proseguire, come ho promesso, l’opera di desecretazione degli atti delle Commissioni di inchiesta che hanno lavorato sulle grandi stragi del passato. Perché l’Italia di oggi e quella di domani non dimentichino mai ciò che è stato e che non deve più accadere. Perché onorare la memoria di tanti innocenti e dare un senso al loro sacrificio significa anche impegnarsi ogni giorno per saldare il patto di fiducia tra cittadini e istituzioni su cui si fonda la nostra democrazia e preservare così quella coesione identitaria che è da sempre la grande forza dell’Italia e degli italiani. Ciò che ha consentito al nostro Paese di vincere le sfide più dure della sua storia e che può guidarlo, oggi, verso un futuro di rinascita e di nuove speranze”. Fico: nessuno spazio per oblio e mistificazione - “Nel giorno del 41° anniversario della strage di Bologna, desidero rivolgere ai familiari delle vittime, alla loro associazione e a tutta la cittadinanza di Bologna la più sentita vicinanza della Camera dei deputati e quella mia personale”. Lo scrive il presidente della Camera dei deputati, Roberto Fico, nel messaggio inviato a Virginio Merola, sindaco di Bologna e presidente del Comitato di solidarietà alle vittime delle stragi e a Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla Stazione di Bologna 2 agosto 1980, in occasione del 41° anniversario della strage. Fico sottolinea: “Non può esserci spazio per l’oblio e la mistificazione. Lo dobbiamo alla nostra democrazia”. La terza carica dello Stato continua: “Il ricordo di quel terribile 2 agosto 1980, in cui un micidiale ordigno squarciò la stazione uccidendo 85 persone e ferendone oltre 200 resta ancora oggi una dolorosa ferita per tutto il Paese. Lo è soprattutto perché, a distanza di quarantuno anni, non abbiamo ancora una piena verità sulla strage. Ciò è inaccettabile per le vittime e per le tante famiglie, segnate dal dolore e dal senso di frustrazione e di impotenza, ed è inaccettabile per uno Stato di diritto, fondato su principi di trasparenza, coesione sociale, giustizia e democrazia. L’istante della deflagrazione, fissato ancora oggi dalle lancette ferme dell’orologio della stazione, non ha dunque segnato soltanto la tragedia personale di tante esistenze innocenti. Quel tragico evento, compiuto con la scellerata regia di complicità diffuse, di tentativi di depistaggi e di dinamiche occulte, ha creato un cono d’ombra nel nostro sistema democratico che una complessa vicenda processuale ed un lavoro parlamentare d’inchiesta hanno tentato di dissipare, fermo restando il permanere di molti punti interrogativi capaci di alimentare, ancora oggi, una memoria spesso controversa. Proprio in questi mesi si sta svolgendo un procedimento giudiziario che, di certo, può contribuire a ricomporre le tante tessere di un puzzle ancora difficile da decifrare in tutta la sua complessità”. Roberto Fico continua: “Penso sia importante ribadire come il rispetto per le vittime di quella strage e per le loro famiglie imponga non un racconto parziale, ma una verità inequivocabile e senza ombre, una narrazione che faccia comprendere, soprattutto ai più giovani che non hanno vissuto gli anni di piombo, quanto siano corrosive e temibili le radici di odio e di intolleranza insite in ogni forma di estremismo ideologico. È soprattutto questo il senso della vasta opera di desecretazione e pubblicazione, in un apposito Portale, degli atti formati o acquisiti dalle commissioni parlamentari di inchiesta, che la Camera dei deputati sta portando avanti, proprio per contribuire a dare le risposte alle troppe domande ancora insolute. Il presidente della Camera sottolinea: “Un impegno al quale deve accompagnarsi anche un costante monitoraggio dell’attuazione delle direttive adottate dai Presidenti del Consiglio dei ministri pro-tempore al fine di rendere pubblici i documenti relativi ad alcuni tragici eventi degli anni di piombo. Credo sia doveroso su questo non deludere le aspettative dei cittadini e procedere con una maggiore dose di coraggio e di coerenza nell’applicazione della Direttiva dell’aprile del 2014 sulla declassificazione ed il versamento straordinario di documenti all’Archivio centrale dello Stato, proprio con lo scopo di mettere a disposizione tutti i documenti necessari per fare piena luce su queste vicende. Occorre poi valutare con attenzione l’opportunità di riformulare, alla luce dei rilievi delle associazioni dei familiari delle vittime delle stragi, la Direttiva in questione in modo da realizzare la più ampia ed effettiva pubblicità dei documenti in questione. Non può esserci spazio per l’oblio e la mistificazione. Lo dobbiamo alla nostra democrazia”. Anche Bianchi in città: la memoria è la base della democrazia - A Bologna arrivano per l’anniversario numero 41 della bomba alla stazione anche il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi e il sottosegretario all’Interno Ivan Scalfarotto. Ricordare è importante “perché la memoria è la base della democrazia”, dice Bianchi arrivando nel cortile d’onore per la cerimonia istituzionale a Palazzo D’Accursio. “Noi stiamo ribadendo il senso profondo della democrazia, siamo qui tutti”, sottolinea il ministro. “Questo- dice ancora Bianchi- è un Governo che assolutamente vuole ribadire giustizia e legalità. E io sono per ribadire che la scuola è legalità”. Il cardinale Zuppi: senza una giustizia la cicatrice resterà aperta - Se non si farà giustizia la “cicatrice” della strage alla stazione di Bologna “resterà aperta”. È l’ammonimento del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo della città, questa mattina in Comune per la commemorazione in ricordo delle vittime del 2 agosto 1980. “È una cicatrice aperta non solo per Bologna, ma per tutto il Paese- afferma Zuppi, a margine della cerimonia a Palazzo d’Accursio- non è solo la nostra storia, ma il nostro presente. E se non si riesce a ottenere giustizia, è una cicatrice che resterà aperta”. Zuppi considera poi “importante” l’impegno assunto a nome del Governo dal ministro della Giustizia, Marta Cartabia. “Ed è anche la conferma che sulle trame del male si risponde sempre e solo insieme, con tanta insistenza da parte di tutti”, sostiene il cardinale. Torino. Le detenute del Lorusso e Cutugno indicono lo “sciopero del carrello” torinoggi.it, 3 agosto 2021 Non ritireranno il cibo dal 14 al 21 agosto per protestare contro le condizioni pessime in cui versano le prigioni piemontesi. Le detenute del carcere Lorusso e Cutugno di Torino hanno indetto uno sciopero del carrello: dal 14 al 21 agosto infatti non ritireranno il cibo distribuito all’interno della struttura. Tutto questo per denunciare una situazione penitenziaria che “ormai rasenta la tortura”, deteriorata dalla pandemia “che ancora oggi blocca gli incontri fisici senza barriera l’uso di molte aree verdi e obbliga molti detenuti a comprarsi i farmaci da soli”. Lo ha annunciato all’Ansa Rita Bernardini presidente di Nessuno tocchi Caino e componente del consiglio generale del Partito Radicale che oggi ha visitato il reparto femminile del carcere con Mario Barbaro dell’associazione Marco Pannella e con i garanti comunale e regionale Monica Gallo e Bruno Mellano. “A Torino - ha spiegato Mellano - ci sono 1.332 detenuti a fronte dei 1.044 previsti per legge. Inoltre in Piemonte ci sono di 5 direttori per 13 carceri: impossibile occuparsi dei problemi reali interni”. Novara. Detenuto al 41 bis potrà vedere i familiari con Skype dalla cella di Marcello Giordani La Stampa, 3 agosto 2021 Lo ha stabilito la Cassazione che ha accolto il ricorso di Francesco Schiavone, 68 anni, sottoposto nel carcere di Novara al regime del 41 bis. Schiavone, conosciuto come Sandokan per la sua somiglianza con l’attore Kabir Bedi che aveva interpretato l’eroe salgariano in uno sceneggiato televisivo, ha ricevuto grande spazio anche nel libro di Saviano, “Gomorra”, come uno dei pezzi grossi del mondo della camorra. Arrestato prima nel 1990 e poi nel 1998 in un bunker del suo paese natale, è stato condannato all’ergastolo per associazione di stampo mafioso. Attualmente è sottoposto al regime carcerario speciale del 41 bis nel carcere di via Sforzesca. Schiavone è un personaggio che ha continuato a fare parlare di sé anche dopo l’arresto: nel 2008, durante le fasi finali del processo “Spartacus” che si svolgeva presso il tribunale di Napoli, Schiavone è comparso in videoconferenza dal carcere di L’Aquila dove era detenuto, dichiarando di non voler comparire in video e di essere considerato come una fiera in gabbia dalla legge sull’ordinamento penitenziario. Una personalità forte quella del boss, che ha sempre manifestato interesse anche per l’arte e la storia: in casa sua, all’atto dell’arresto, vennero trovati numerosi dipinti che lui stesso aveva realizzato, e moltissimi libri, fra cui diverse opere su Napoleone Bonaparte. Rinchiuso a Novara l’anno scorso Schiavone aveva chiesto di potere effettuare l’incontro con i parenti in videochiamata, mediante la piattaforma “skype for business”. La direzione carceraria negava l’autorizzazione e a quel punto il detenuto si rivolgeva con un reclamo al Magistrato di sorveglianza di Novara che con un’ordinanza del 24 giugno 2020 dichiarava inammissibile l’istanza, per l’impossibilità di estendere ai detenuti sottoposti al regime detentivo differenziato, il 41 bis, le modalità di effettuazione dei colloqui (quindi il video-collegamento) previste per i detenuti in regime ordinario. Nel ricorso alla Cassazione Schiavone ha rivendicato il diritto al mantenimento dei rapporti familiari, riconosciuto e protetto dalla Costituzione, un diritto che, se viene violato si traduce in un trattamento contrario al senso di umanità. La Cassazione ha accolto il ricorso in base al fatto che la legge non esclude i detenuti del 41 bis dai colloqui, ma li regolamenta con l’introduzione di limiti numerici e con la possibilità di adottare modalità esecutive di particolare rigore. Inoltre la detenzione non può sopprimere in modo assoluto le relazionali e la vita affettiva mediante l’isolamento completo del carcerato, che può produrre effetti negativi sulla personalità e la sua desocializzazione con pregiudizi irreversibili sul processo di reinserimento. La Cassazione ha accolto il ricorso di Schiavone in carcere nella sezione speciale del 41bis Rieti. Detenuti psichiatrici, inaugurata la residenza Corriere di Rieti, 3 agosto 2021 È stata inaugurata alla presenza dell’assessore alla Sanità del Lazio Alessio D’Amato, del direttore generale della Asl di Rieti Marinella D’Innocenzo, del Prefetto di Rieti Gennaro Capo, del capo del Dap Bernardo Petralia e delle massime autorità civili e religiose e dei vertici delle Forze dell’ordine, la Rems della Asl di Rieti. La residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza di Rieti è una struttura residenziale sanitaria, totalmente nuova, con una superficie di 1.288 mq, che può ospitare fino a 15 ospiti di sesso maschile. La struttura è dotata di una equipe multidisciplinare, composta da 2 psichiatri, 12 infermieri, 6 Operatori Socio Sanitari, 1 Assistente sociale, 1 Amministrativo, 1 Tecnico della riabilitazione, 1 Psicologo ed il personale di Vigilanza interno aziendale. La struttura è articolata su 2 piani ed è collocata in prossimità dell’Hospice S. Francesco di Rieti: è dotata di 2 stanze singole, 5 stanze da 2 posti ed una stanza da tre posti letto. Vi sono spazi ricreativi, un luogo di culto, spazi dedicati agli ospiti fumatori, un giardino e locali dedicati alle attività di tipo terapeutico-riabilitativo. La struttura, è stata inserita, tramite specifici accordi con la Prefettura di Rieti, all’interno del Piano di sorveglianza dinamica, attraverso il coinvolgimento delle forze dell’ordine a competenza generale. Per ogni ospite è definito uno specifico trattamento terapeutico-riabilitativo, redatto con la collaborazione del Centro di salute mentale della Asl, verificato secondo le procedure sanitarie. “La struttura che apriamo a Rieti è il frutto di un percorso che stiamo portando avanti da anni. È un’operazione importante di riorganizzazione e ampliamento della Rete delle Rems che oggi porta il Lazio ad avere 6 Rems per un totale di 106 posti letto. Il Lazio è stata la prima delle regioni in Italia a superare gli Ospedali psichiatrici giudiziari aprendo nel 2015 la prima Rems femminile”, ha dichiarato l’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato. Per il direttore generale della Asl Marinella D’Innocenzo “L’apertura della Rems è il risultato di un grande lavoro, portato avanti con professionalità, competenza e dedizione da parte di tutti gli attori coinvolti nella realizzazione di questo importante progetto, che entro breve ospiterà i primi pazienti. Questa struttura si inserisce all’interno di un percorso in grado di garantire idonei trattamenti, cure e terapie ai pazienti che, nello stesso tempo, dovranno portare avanti il loro percorso di detenzione. Da qui la necessità di una forte collaborazione e sinergia con le autorità giudiziarie e le forze dell’ordine per l’attivazione delle misure di sicurezza e vigilanza. Alla Asl di Rieti spetterà il compito di assicurare l’adeguata risposta al bisogno di cure delle persone presenti al suo interno”. Infine per Massimo Costantino della Fns Cisl Lazio “apprezzabile è l’apertura della Rems di Rieti ma i numeri totali restano sempre insufficienti rispetto alle richieste che pervengono dagli istituti”. Vercelli. “Laboratori di pace”, diplomi a 31 detenuti di Andrea Borasio vercellinotizie.it, 3 agosto 2021 Un progetto della Comunità di Sant’Egidio. Lunedì 26 luglio nella Casa Circondariale di Vercelli si è svolta la cerimonia di consegna a 31 detenuti degli attestati dei “Laboratori di Pace”, lezioni di educazione alla pace promosse dalla Comunità di Sant’Egidio. Nonostante le limitazioni imposte dalla pandemia, è stato infatti possibile effettuare alcuni incontri in presenza fra ottobre 2020 e luglio 2021, rispettando sempre le norme di distanziamento e utilizzando tutte le misure di prevenzione necessarie. Così, molti detenuti hanno potuto confrontarsi con diverse tematiche relative alla guerra, alla violenza e al terrorismo nel nostro mondo contemporaneo, ne hanno discusso insieme e hanno espresso il loro sincero desiderio di pace, un bene necessario a tutti “come l’aria che si respira”. Oltre a Paolo Lizzi, operatore volontario della Comunità in carcere e referente del progetto, erano presenti la Direttrice della Casa Circondariale, dott.ssa Giordano, l’Ispettrice della Polizia Penitenziaria, dott.ssa Gambino, la responsabile dell’Area Educativa-trattamentale, dott.ssa Climaco. La Direttrice ha sottolineato il profondo valore formativo ed educativo dell’iniziativa e ha invitato i detenuti che hanno frequentato il corso ad essere a loro volta “artigiani di pace “con i loro compagni e anche in futuro, quando otterranno la libertà: “È un riconoscimento che vi viene dato per la vostra presenza e partecipazione attiva al corso: ora è necessario proseguire l’impegno personale per la pace e il dialogo nella vita di tutti i giorni”. La dott.ssa Climaco ha raccontato di aver partecipato personalmente, in alcuni momenti, ai Laboratori di pace, constatando la loro capacità di “rasserenare e rigenerare gli animi”. Tutti i presenti hanno auspicato che nei prossimi mesi si possa continuare con maggiore regolarità ed ampliare questa iniziativa, così come tutte le attività di socializzazione e di formazione culturale che sono state forzatamente ridotte in quest’ultimo anno all’interno delle mura carcerarie, a causa della pandemia. Durante il corso, si è parlato di pace sotto diversi aspetti. Si sono descritti anzitutto gli effetti rovinosi che le guerre hanno sui popoli, ad esempio la fuga disperata di milioni di persone che si riversano nei campi profughi. I detenuti hanno ascoltato la testimonianza di un volontario di Sant’Egidio: il suo incontro, l’estate scorsa, con migliaia di profughi che provengono soprattutto da teatri di guerra come la Siria e l’Afghanistan, e ora vivono in condizioni terribili sull’isola di Lesbo, in Grecia, con il sogno di una vita migliore sulla terraferma. Ci si è chiesti, allora, che cosa significa costruire la pace oggi e rendere questo mondo più umano e abitabile. Si è parlato, a questo proposito, del ruolo importante che devono avere le religioni: tutte, infatti, hanno inscritto nel loro DNA un profondo messaggio di pace. Una delle lezioni del corso si è incentrata sulle immagini dello storico incontro delle religioni mondiali per la pace, voluto da Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986 e poi ripreso e ravvivato ogni anno dalla Comunità di Sant’Egidio in diverse città d’Europa: le religioni, cioè, come strumento di dialogo e di pace, e non come benzina sul fuoco della guerra (come spesso è avvenuto in passato) Ma la pace non è solo assenza di guerra, è qualcosa di più profondo che si costruisce giorno per giorno, nella vita quotidiana, nei rapporti tra le persone. È legata al nostro cambiamento personale, non dipende solo dalle decisioni dei “grandi” e dei potenti della terra. Diceva san Serafino di Sarov. un santo della tradizione ortodossa russa: “Acquista la pace dentro di te e migliaia si salveranno intorno a te”. Alcuni detenuti hanno ammesso che non è facile vivere con un cuore pacificato perché prevalgono spesso sentimenti di inimicizia, di rancore, di vendetta, di odio. Ma questi sentimenti non aiutano né a crescere, né ad essere migliori. Nelson Mandela, una figura straordinaria a cui è stato dedicato uno degli incontri più apprezzati, diceva: “Provare risentimento è come bere veleno ogni giorno sperando che ciò uccida il nemico” Perciò, la strada migliore è sempre quella della parola, del dialogo, della riconciliazione con gli altri È una strada a volte difficile da percorrere, perché richiede pazienza, costanza, autocontrollo, fiducia nel prossimo, ma è quella che avvicina, più di ogni altra, alla convivenza pacifica tra genti di età, lingue e tradizioni diverse. A detta degli stessi partecipanti, il corso ha aiutato ad allargare lo sguardo oltre se stessi e a comprendere meglio il grande bisogno di pace che c’è nel mondo e nelle nostre città. Si è compreso meglio che ognuno può fare molto per aggiungere il proprio mattone al grande edificio della pace: attraverso la preghiera, per chi è credente, attraverso la cultura e la corretta informazione su ciò che accade vicino e lontano da noi. Ma anche attraverso tanti piccoli gesti quotidiani di solidarietà, di umanità, di dialogo che sono alla portata di tutti. Insomma, anche in un mondo “chiuso” come quello del carcere, è possibile mettersi al servizio della pace: anche così si comincia a pregustare il sapore della libertà. Milano. “Riscatti”, un anno di corsi di formazione ai detenuti per diventare fotografi di Francesca Bonazzoli Corriere della Sera, 3 agosto 2021 Tutti i direttori delle case di reclusione di Opera, Bollate, San Vittore e anche del carcere minorile Beccaria hanno sottoscritto l’intesa assieme al direttore del Pac Diego Sileo e al docente Andrea Di Franco. È dedicato ai detenuti delle carceri milanesi il prossimo progetto di integrazione promosso dall’associazione Riscatti. Tutti i direttori delle case di reclusione di Opera, Bollate, San Vittore e anche del carcere minorile Beccaria hanno sottoscritto l’intesa assieme al direttore del Pac Diego Sileo e ad Andrea Di Franco, docente responsabile della ricerca sullo spazio detentivo del Politecnico di Milano. Il progetto prenderà avvio il 6 ottobre e offrirà un intero anno di corsi di formazione fotografica per consentire uno sbocco professionale ma anche un riscatto personale. Al termine, le foto verranno esposte al Pac, il Padiglione di arte contemporanea di via Palestro, e il ricavato della vendita servirà a sostenere le future realizzazioni del gruppo di ricerca del Politecnico. Torino. Carcere, più misure alternative contro la recidiva vocetempo.it, 3 agosto 2021 Il clan Gilwell (scout dai 16 ai 21 anni) del gruppo Agesci Torino XXV ha dedicato un anno di riflessione ai temi della detenzione e ha mandato al nostro giornale - che ogni 15 giorni pubblica “La Voce dentro”, rubrica dedicata alle voci dal carcere - una riflessione sulle conclusioni del percorso formativo che volentieri pubblichiamo. Quest’anno il nostro Clan Gilwell ha scelto di affrontare, come Capitolo (il nostro programma di formazione annuale) il carcere e le sue funzioni. Innanzitutto, ci siamo chiesti se il carcere avesse una funzione rieducativa e/o punitiva e soprattutto se, a nostro avviso, fossero necessari entrambi questi due aspetti. Ne abbiamo discusso a lungo e ci siamo informati attraverso testimonianze di persone che lavorano in carcere come ad esempio don Domenico Ricca, cappellano dell’Istituto penale per i minorenni di Torino “Ferrante Aporti” e contributi trovati su internet. Abbiamo imparato molte cose che non sapevamo, poiché il carcere è un’istituzione “totale” e gli individui che vivono al suo interno vengono completamente allontanati e isolati dalla società ed è quindi difficile immaginare come sia la vita dei detenuti. Il punto fermo sul quale ci siamo ritrovati dopo numerose riflessioni è il fatto che il carcere oggi non funziona, poiché lede la dignità e la libertà dell’individuo e non è realmente rieducativo. Abbiamo inoltre scoperto l’esistenza di misure alternative al carcere molto valide e le abbiamo approfondite. In Italia, ad esempio, le misure alternative alla detenzione previste sono la semilibertà, la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova al servizio sociale. L’affidamento in prova al servizio è considerata la misura alterativa per eccellenza, in quanto si svolge totalmente nel territorio, con l’obiettivo di evitare i danni derivanti dal contatto con l’ambiente penitenziario e dalla condizione di privazione della libertà. Siamo rimasti colpiti da alcune misure alternative usate all’estero, come ad esempio le Carceri Apac (Associazione di protezione e assistenza ai condannati) in Brasile al cui interno dei penitenziari si può leggere la frase “Qui entra l’uomo, il reato resta fuori”. La caratteristica di queste carceri è di offrire un’alternativa al tradizionale sistema penitenziario. I detenuti sono in cella, ma non ci sono poliziotti e agenti penitenziari. Sono gli stessi ristretti a custodire le chiavi del carcere, a occuparsi della pulizia, dell’organizzazione e della sicurezza, in collaborazione con i responsabili Apac, i volontari e il personale amministrativo. Può entrare nelle Apac chi ha già trascorso un certo periodo nel carcere convenzionale, su disposizione del giudice di sorveglianza e previo impegno sottoscritto dal detenuto di rispettare le regole della struttura. Per l’Onu le Apac rappresentano il più efficace sistema di recupero in assoluto. In Italia ce ne sono due riconosciute a Rimini e altre sei in via di riconoscimento tra Rimini, Vasto, Termoli, Bocceda, Forlì e Piasco. In Brasile se ne contano una cinquantina e ospitano circa 3 mila detenuti. Ciò che colpisce è il bassissimo tasso di recidiva tra le persone che vi hanno scontato una pena: 15% a fronte di un tasso dell’85% dei comuni istituti brasiliani. Il nostro obiettivo è quello far conoscere le misure alternative perché vengano incentivate, poiché crediamo sia importante che tutti sappiamo che un’alternativa c’è e che le cose non devono per forza restare come sono solo perché fino ad ora si è sempre fatto così. Clan Gilwell - Agesci, Torino XXV Il tema unico del Covid e i toni (nuovi) per ripartire di Walter Veltroni Corriere della Sera, 3 agosto 2021 È il neonato “lessico pandemico” di questo anno e mezzo. I pregiudizi antiscientifici si sono rafforzati, ma a chi soffre o non ha capito offriamo la mano o il calore di una parola giusta. Quale parola è arrivata per prima alle nostre orecchie o ai nostri occhi? È stata Wuhan o Codogno? Quando ci siamo resi conto davvero che la nostra vita stava per cambiare così radicalmente? Questo anno e mezzo sembra un’eternità. Sembra un incubo infinito, un inverno senza sosta, con pochi sprazzi di luce, una quaresima permanente interrotta solo da qualche sporadico sorriso, come la gioia per una vittoria calcistica o olimpica. Da quei giorni di gennaio del 2020 persino il nostro vocabolario è cambiato, sono mutate le parole che correvano dal cervello alla bocca, le conversazioni in famiglia o con gli amici. È subentrato il tempo del monotema, quello in cui siamo ancora immersi. Ciò che si sente tenendo la finestra aperta, passando vicino a persone che parlano, leggendo i giornali o vedendo la televisione. Non so se durante la guerra ci si occupasse così ossessivamente del conflitto. Se lo si facesse in ogni casa, in ogni momento. Ma so che da diciotto mesi, che sembrano un lustro, le sole parole che sentiamo pronunciare sono e sono state: Covid, paziente uno, mascherine, app Immuni, virologi, Cts, tamponi, dad, smart working, quarantena, lockdown, Zoom e webinair, Dpcm, Astrazeneca, Pfizer, cluster, sierologico, ondata, auto certificazione, ristori, prima dose, distanziamento sociale…. Il neonato “lessico pandemico”, molto diverso da quello familiare di Natalia Ginzburg, ha creato una dimensione totalizzante e fatalmente intrusiva, espellendo dal circuito della comunicazione tutto ciò che esulasse dalla vita a una dimensione alla quale il virus ci ha costretto. E la sua dimensione di piazza esclusiva del grande paese ha fatto sì che tutto venisse regolarmente radicalizzato, diventasse subitaneamente estremo e violento, in primo luogo proprio nel linguaggio, come in una agorafobia provocata da uno spazio troppo angusto con troppa gente e troppa angoscia. I pregiudizi antiscientifici si sono rafforzati, le follie delle fake news hanno inquinato il fiume delle parole e dei conseguenti comportamenti. Il tempo del positivismo tecnologico — le file con le risse per il nuovo modello di telefono cellulare — ha lasciato spazio a nuovi pregiudizi contro il sapere, la scienza, la ricerca. Eravamo forse più ingenui quando a scuola le nostre famiglie sorridevano alla notizia che una maestra o una “vigilatrice” ci aveva somministrato una zolletta di zucchero con una goccia meravigliosa che ci avrebbe messo al riparo dal rischio della poliomelite, la malattia della quale nostri compagni di scuola portavano i segni e il visibile dolore. Avevamo fiducia nel sapere e negli altri. Ma a chi, nel mezzo di una pandemia, rifiuta la cura e mette a rischio gli altri non serve riservare la ricetta dell’insulto, altro demone del “lessico pandemico”. Non serve demonizzare, non serve deridere. Serve convincere usando proprio quelle modalità di linguaggio che sembrano ormai desuete. La ragione, i dati, il sapere. Tutto ciò che sembra espulso come un ospite scomodo dal nostro conversare, sostituito dall’esaltazione muscolare dell’inesperienza e dell’inconsapevolezza come garanzia di purezza assoluta. E sostituito dall’inebriante sensazione di sentirsi parte di un universo che ti assomiglia solo perché i social, usando gli algoritmi, ti hanno creato attorno una comunità di simili che ti approva, esalta, ti spinge a gridare più forte. E a considerare l’altro recinto, quale che sia, quello dei barbari. Perché sono diversi da te, la colpa più inimmaginabile in questo tempo di pensieri reclusi. Non dobbiamo smettere di parlare di quello che ci riguarda, ci angoscia, ci fa temere per il futuro. Ma apriamo le finestre, occupiamoci anche dell’ambiente che ci inquieta e pregiudica il futuro o delle belle parole, suoni, visioni che ci riempiono la vita e le danno senso. Accettiamo l’altro da noi, anche il più insopportabile altro da noi, come uno stimolo a spiegarci meglio, non a urlare più forte. Sentiamoci molecole, isole di un arcipelago, granelli di una piacevole sabbia. Se possiamo, a chi soffre o a chi non ha capito, offriamo la mano o il calore di una parola giusta. Per lo sberleffo e il pollice verso ora non c’è più tempo. Siamo come non mai sulla stessa barca, siamo interdipendenti, legati da un destino di comunità. Siamo fratelli e sorelle, anche se non vogliamo. Dalla vita a una dimensione usciremo solo tutti insieme. Tutti, ovunque. L’Olocausto (gitano) dimenticato, mezzo milione di vittime rimosse di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 3 agosto 2021 Il culmine fu nella notte tra il 2 e 3 agosto 1944 ad Auschwitz: tremila, tra sinti e rom, furono massacrati. Spesso ai colpevoli di quelle stragi furono inflitte pene irrisorie. “Ricordo che quella mattina il primo pensiero fu quello di andare a dare uno sguardo al di là del filo spinato. Non c’era più nessuno, c’era solo silenzio... Ci bastò dare un’occhiata ai camini dei forni crematori che andavano al massimo della potenza per capire che quella notte, tutti, tutti gli zingari di quello che chiamavano lo Zigeunerlager erano stati assassinati. Tutti...”. Piero Terracina, uno degli ultimi testimoni della Shoah, sopravvissuto ad Auschwitz, morto un paio d’anni fa, aveva un groppo in gola quando tornava a parlare di quell’alba lontana. Conosceva bene quel campo al di là del reticolato: “Era denominato lo Zigeunerlager, il lager degli zingari. (...) C’era tanta vita, noi avevamo un colore quasi unico, eravamo vestiti con quella specie di pigiami a righe, dall’altra parte avevano conservato i loro abiti, quindi tanto colore, avevano conservato i capelli, noi eravamo completamente rasati a zero, c’era un’enormità, tantissimi bambini...”. Finché, la notte prima, lui e gli altri prigionieri ebrei avevano sentito i camion, l’arrivo di reparti tedeschi, i cani che abbaiavano rabbiosi, le urla delle donne, il pianto disperato dei piccoli: “Poi all’improvviso, dopo più di due ore, silenzio. Non si sentiva più niente”. Solo il vento che faceva sbattere porte delle camerate totalmente svuotate: “Il ricordo di quelle porte che battevano con il vento e non c’era nessuno che le fermasse mi è rimasto dentro...”. Furono tremila su trentamila, secondo un dossier della storica francese Henriette Asséo sulla rivista “Etudes Tsiganes”, i rom sopravvissuti ad Auschwitz. Un decimo. Tutti gli altri morirono di fame, di stenti, di freddo o “passati il camino” come quei 2.998, “soprattutto donne e bambini piccoli”, decimati quella notte tra il 2 e il 3 agosto del 1944. Ed è quella appunto, dal 2015 (solo dal 2015: dopo decenni di imbarazzi e rimozioni), la data scelta per la Giornata europea di commemorazione del genocidio dei gitani. Che molti ricordano come il Porrajmos (“lo stupro” o “il divoramento”, ma il termine è contestato), altri come il Samudaripen: lo sterminio. Quanti furono gli zingari (altra parola contestatissima per quanto usata con rispetto e affetto dagli ultimi Papi a partire da Paolo VI, da giornalisti come Orio Vergani, da musicisti come Enzo Jannacci…) spazzati via nell’ondata di odio razzista parallela a quella vissuta dagli ebrei? Difficile rispondere. Il polacco Tadeusz Joachimowski, racconta Luca Bravi nel libro Attraversare Auschwitz. Storie di rom e sinti: identità, memorie, antiziganismo, a cura di Eva Rizzin (Gangemi), era il prigioniero incaricato di segnare su due libri gli ingressi di sinti e rom, maschi, femmine, bambini. Un attimo prima che i nazisti si ritirassero sotto l’avanzata dei russi dopo aver cercato d’occultare le tracce della loro ferocia, riuscì a nascondere i volumi avvolti negli stracci in un secchio sepolto sottoterra: dovevano essere salvati. Proprio perché a fronte dell’immensa mole di ricordi, libri, lettere, filmati, deposizioni processuali della Shoah, il “popolo viaggiante” ha conservato del genocidio subìto molto poco... Questo vecchio secchio restituì appunto un paio di migliaia di nomi. Ma gli altri? Quanti furono, gli assassinati? C’è chi sostiene: da duecentomila a un milione. Ipotesi. “Diciamo che convenzionalmente si pensa a mezzo milione di vittime”, risponde lo storico Leonardo Piesare, autore di più libri sul tema tra cui I rom d’Europa (Laterza). “Ma è quasi impossibile contarle, ormai. La larga maggioranza non era in grado di lasciare resoconti scritti. I documenti sovietici desecretati, inoltre, rivelano come i nazisti, nell’Europa dell’Est conquistata, annientassero al passaggio interi villaggi, spesso di sinti e rom stanziali, contadini già colpiti dalla repressione di Stalin”. Non bastasse, accusa la Treccani, pesarono sulle stragi i pregiudizi storici: “Anche a Norimberga non fu riconosciuto il carattere razziale del genocidio e nessun parente delle vittime fu quindi risarcito”. Di più: agli eccidi pianificati da Heinrich Himmler (che peraltro aveva deciso inizialmente di stralciare la sorte di un po’ di “ariani puri” appartenenti in teoria allo stesso ceppo di lontane origini indiane dei tedeschi, ma da non confondere coi “meticci”) presero parte volenterosi assassini, cittadini comuni che si sentivano autorizzati dalle leggi hitleriane a macellare ogni zingaro dei dintorni. Una strage. Dai numeri incalcolabili. Erano secoli, del resto, che in Europa arrivavano ondate di “permessi” di quel genere. Basti citarne, tra i tanti, uno nostrano. Della Serenissima Repubblica di Venezia, che nel 1558 stabilì che chi avesse consegnato alle autorità uno zingaro ricevesse dieci ducati “possendo etiam li detti Cingani, così homini come femmine, che saranno ritrovati nei Territori Nostri esser impune ammazati, si che gli interfettori (gli assassini, ndr) per tali homicidi non abbino ad incorrer in alcuna pena”. Incoraggiamenti, diffusi, alle cacce all’uomo. Basate, come nel caso dello sterminio dei disabili, sulla autorizzazione ai medici a “concedere una morte pietosa” a chi viveva “vite indegne di essere vissute”. Compresi non solo i non autosufficienti colpiti dalle patologie più invalidanti, ma anche quanti erano bollati come inutili e incorreggibili. Tipo Ernst Lossa, un ragazzino rom “eutanizzato” perché “troppo vivace” (ne parlano il libro Nebbia in agosto di Robert Domes, Mondadori, e il racconto teatrale Ausmerzen di Marco Paolini) nel manicomio di Irsee, a un’ottantina di chilometri da Monaco. Dov’era caposala la famigerata Mina Wöhrle, l’infermiera nazista condannata per 210 omicidi (“Ho solo eseguito gli ordini”) a diciotto mesi di carcere. Due giorni e mezzo di galera a delitto. Per non dire del primario, Valentin Faltlhauser, teorico della soppressione a basso prezzo “per fame” e degli esperimenti sui bambini: tre anni. Evaporati con la concessione della grazia. Il tutto, come ricorda la storica Henriette Asséo, nonostante nessun medico fosse “mai stato obbligato a partecipare” ai “più spaventosi esperimenti”. A partire da quelli prediletti da Joseph Mengele, sugli “zingari gemelli”. Racconta Rita Prigmore, un’anziana sopravvissuta bavarese di etnia sinti nel libro curato da Eva Rizzin: “Il 3 marzo 1943, siamo nate mia sorella Rolanda ed io. Subito dopo la nascita gli uomini della Gestapo vennero a prenderci e ci portarono in un ospedale. Werner Heyde ci sottopose a esperimenti medici. Mia mamma era spaventata e non poteva reggere quella situazione di angoscia e di paura... Così entrò nell’ospedale dove eravamo rinchiuse e, dopo molte insistenze, riuscì a convincere un’infermiera che le mostrò solo me. Mia madre insistette per vedere anche mia sorella Rolanda. L’infermiera cercò di resistere, di negarsi, ma alla fine la portò in bagno e le indicò il corpicino di Rolanda steso sul fondo di una vasca da bagno: era morta. I medici le avevano fatto delle iniezioni di inchiostro negli occhi per tentare di cambiarle il colore...”. Il caso della Tunisia e la costosa inerzia europea di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 3 agosto 2021 La crisi in atto nel Paese nordafricano, che rischia la guerra civile, dovrebbe farci aprire gli occhi: abbiamo un serio problema di sicurezza ma sembriamo non rendercene conto. Che cosa dovrebbe suggerirci la crisi in atto in Tunisia, un Paese che, da un momento all’altro, potrebbe precipitare nel caos della guerra civile? La crisi tunisina dovrebbe costringerci ad aprire gli occhi. L’Europa ha un serio problema di sicurezza ma non sembra rendersene conto. Lo sanno i professionisti che nei Paesi europei, a vario titolo, se ne occupano ma non lo hanno ancora capito le opinioni pubbliche. Il problema di sicurezza dell’Europa può essere così riassunto: Mamma America sembra intenzionata ad abbandonare i cuccioli al loro destino, non sembra più disposta a proteggerli dalle minacce incombenti. È cambiata l’America e sono cambiate le minacce. Consideriamo l’Italia, il Paese europeo più esposto rispetto a quanto accade nel fianco Sud del Vecchio continente. La visita in Libia del ministro degli Esteri Di Maio, che segue quella del premier Draghi di qualche tempo fa, mostra l’attenzione e la preoccupazione del nostro governo. Siamo alla mercé di possibili ondate migratorie imponenti (se davvero la guerra civile esploderà in Tunisia ce ne accorgeremo subito) e il Mediterraneo è sempre più un mare controllato da potenze ostili: Russia, Turchia. Saranno loro nei prossimi anni a sorvegliare/amministrare il traffico di esseri umani fra Africa ed Europa. C’è poi il rischio terrorismo: nel Maghreb, Tunisia e Libia in testa, come in altre parti dell’Africa, non si contano i jihadisti che aspettano un’occasione per menar le mani. La prova che l’Italia, fatta eccezione, ovviamente, per il governo, non ha la minima contezza dei rischi incombenti è facilmente verificabile: vi risulta che anche uno solo dei partiti abbia schierato, con la benedizione del leader, un politico autorevole ed esperto, capace di parlare al Paese dei problemi internazionali e di sicurezza senza ricorrere a slogan e a propaganda di basso conio? Non ne troverete uno. Se l’opinione pubblica fosse allertata, se la consapevolezza dei rischi fosse diffusa, i partiti sarebbero costretti ad attrezzarsi per dialogare intelligentemente con gli elettori. Il resto d’Europa non è messo meglio. Per anni ci si è baloccati con slogan privi di senso. Qualcuno si ricorda del ritornello sulla Europa “potenza civile”? L’idea era che noi europei, nei rapporti con il resto del mondo, fossimo un esempio di virtù: “civili”, e cioè pacifici, il contrario di quei cowboys rozzi e violenti degli americani. Era un’immagine auto-consolatoria. L’Europa poteva permettersi di sostituire la spada con la diplomazia e il commercio, perché usufruiva della protezione americana. Una protezione che non consisteva solo nell’ombrello atomico. L’America ci proteggeva anche perché presidiava tutti i luoghi strategici e potenzialmente pericolosi per l’Europa, a Est verso la Russia e in Medio Oriente. L’inconsapevolezza europea di come stavano realmente i fatti era tale che mentre beneficiavamo della loro protezione, molti di noi biasimavano gli americani per non avere creato un forte welfare State di tipo europeo. Differenti tradizioni culturali a parte, c’era il piccolo particolare che l’Europa, dopo la Seconda guerra mondiale, si era potuta permettere il lusso di sviluppare costosi sistemi di welfare perché grazie alla protezione americana disponeva di risorse che altrimenti avrebbe dovuto investire in armamenti e difesa. Esiste ancora una cosa che possiamo ragionevolmente chiamare Occidente? Intendendo l’Occidente in senso politico, ovviamente. Suggerisco di leggere, suIlFoglio, a proposito della nuova America, l’eccellente e dolente saggio, ispirato all’internazionalismo wilsoniano, di Leon Wieseltier. Alle dure polemiche di Trump contro l’Europa sono subentrati i sorrisi, le strette di mano e le pacche sulle spalle di Biden. Sì, e poi? Al momento non c’è alcun segnale che lasci intendere (salvo una possibile ripresa dei negoziati Usa/Iran sul nucleare) un cambiamento di politica rispetto ai tempi dell’Amministrazione Trump per quanto riguarda Medio e Vicino Oriente. Il vuoto di potere lasciato dagli americani — e a cui Biden non sembra disposto a rimediare — è riempito da altre grandi potenze (Russia, Cina) che rafforzano ogni giorno che passa le loro posizioni e lasciano massima libertà d’azione ai neo-imperialismi regionali (Turchia, Iran). Se dovessimo constatare che la risposta alla domanda “esiste ancora l’Occidente?” sia negativa, se diventasse chiaro che nemmeno Biden sia in grado di riavvicinare Stati Uniti ed Europa (quanto meno, in materia di sicurezza), se accertassimo l’impossibilità di ottenere un rinnovato e deciso impegno americano nel nostro fianco Sud in cambio di un sostegno europeo nella competizione fra americani e cinesi, allora non resterebbe che sperare nell’Europa. I governi dei Paesi che più contano, Germania, Francia ma anche Italia, dovrebbero prendere atto delle mutate condizioni internazionali, dare la sveglia alle rispettive opinioni pubbliche e prendere decisioni coordinate per fronteggiare i nuovi pericoli. Ma c’è un ma, anzi molti ma. Non è solo che Germania, Francia, e prima o poi anche Italia, hanno campagne elettorali da affrontare, cosa che tende a paralizzare le iniziative dei governi. Non è solo che la Germania, ancora prigioniera dei fantasmi del passato, non è disposta ad assumere la posizione di leadership che le spetterebbe in materia di sicurezza. C’è anche un altro fattore che favorisce l’inerzia europea, ossia il fatto che gli europei percepiscono diversamente le minacce. Con qualche rara eccezione: l’intervento italiano nel Sahel a fianco della Francia nasce dalla convergente volontà di fermare, prima che rappresenti una minaccia per tutti noi, il radicamento dell’estremismo islamico. Però l’improvvisa decisione di Macron di ritirare il contingente militare francese dal Mali solleva dubbi sul futuro di quella missione. Di solito, una comune valutazione dei rischi non c’è: è più facile che oggi, nelle altre capitali europee, si mormori: “L’eventuale guerra civile in Tunisia può minacciare l’Italia? Che se la sbrighino gli italiani. Fatti loro”. Non esistendo un’identica percezione delle minacce, la tendenza, per lo più, è: ciascuno per sé. Naturalmente se, nel medio termine, un importante Paese europeo si trovasse nei guai, anche il resto dell’Europa ne subirebbe le conseguenze. Ma le democrazie si disinteressano di quanto potrebbe accadere nel medio termine. È solo il breve che conta. Forse bisogna sperare che, nonostante le apparenze contrarie, la risposta alla domanda “esiste l’Occidente?”, risulti ancora positiva. Fuga dall’Afghanistan, più di 30mila scappano ogni settimana dai taleban di Christina Goldbaum e Fatima Faizi* La Repubblica, 3 agosto 2021 I fondamentalisti hanno già ripreso possesso di oltre la metà dei quattrocento distretti del Paese, provocando l’esodo di massa di chi teme il ritorno del regime estremista o una sanguinosa guerra civile fra milizie di etnie diverse. Haji Sakhi decise di fuggire dall’Afghanistan la notte in cui vide due talebani trascinare una giovane donna fuori dalla sua casa e prenderla a frustate sul marciapiede. Per salvare le sue tre figlie, la mattina seguente caricò la famiglia su un’auto e si diresse a tutta velocità verso le strade sterrate e tortuose che portavano in Pakistan. Accadeva più di vent’anni fa. La famiglia tornò a Kabul, la capitale, solo dieci anni dopo, quando le truppe guidate dagli americani rovesciarono il regime dei talebani. Ma ora che i talebani stanno riconquistando parte del paese di pari passo con il ritiro delle forze statunitensi, Sakhi, che oggi ha 68 anni, teme il ritorno della violenza a cui assistette quella notte. Questa volta, dice, la sua famiglia non aspetterà tanto a lungo prima di andarsene. “Non mi spaventa abbandonare tutto ciò che possiedo. Non mi spaventa ricominciare da capo un’altra volta”, ha detto Sakhi, che ha già chiesto un visto per la Turchia per sé, la moglie, le tre figlie e il figlio: “Quello che mi spaventa sono i talebani”. La brutale campagna militare dei talebani che, secondo alcune stime, hanno già ripreso possesso di più della metà dei circa quattrocento distretti dell’Afghanistan continua, provocando in tutto il Paese l’esodo di massa di chi teme il ritorno del regime estremista o una sanguinosa guerra civile fra milizie di etnie diverse.Gli afgani sfollati quest’anno sono circa 330.000, più della metà dei quali, secondo le Nazioni Unite, hanno lasciato le loro case da maggio in poi, da quando è iniziato il ritiro delle truppe americane. Molti hanno trovato rifugio in campi tendati improvvisati o a casa di parenti nelle città, che in molte province rappresentano l’ultima roccaforte ancora in mano al governo. Migliaia cercano di ottenere passaporti e visti per lasciare il Paese. Altri ancora si accalcano sui pick-up dei trafficanti nel tentativo disperato di attraversare illegalmente il confine. Secondo l’OIM, nelle ultime settimane il numero di afgani che sconfina illegalmente è salito del 30-40% rispetto al periodo che ha preceduto l’inizio del ritiro delle truppe internazionali. Ogni settimana fuggono circa 30.000 persone. Le agenzie umanitarie avvertono che questa fuga precipitosa è l’avvisaglia di un’imminente crisi di rifugiati e i vicini, così come l’Europa, temono che la violenza, intensificatasi dopo l’inizio delle operazioni di ritiro, stia già superando i confini del Paese. “L’Afghanistan è sull’orlo di una nuova crisi umanitaria”, ha dichiarato a luglio Babar Baloch, portavoce dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’ONU. “Se non si riuscirà a raggiungere un accordo di pace e a fermare la violenza ci saranno altri sfollati”. Questo esodo improvviso ricorda quelli che si sono verificati in altri periodi di forte instabilità: milioni di persone si riversarono fuori dal Paese negli anni successivi all’invasione sovietica del 1979. Dieci anni dopo, quando i russi si ritirarono e l’Afghanistan piombò nella guerra civile, ne fuggirono molte altre. Lo stesso accadde nel 1996, quando i talebani presero il potere. Oggi gli afgani rappresentano una delle comunità di rifugiati e richiedenti asilo più numerose al mondo - circa tre milioni di persone - e, dopo i siriani, sono loro a presentare il maggior numero di richieste d’asilo in Europa. Il Paese è sull’orlo di un’altra crisi sanguinosa, ma la nuova ondata di sfollati arriva in un momento in cui l’atteggiamento verso i migranti in tutto il mondo si è irrigidito. Dopo aver stipulato, nel 2016, un accordo di rimpatrio per arginare l’arrivo di migranti aree di guerra, l’Europa ha deportato decine di migliaia di afgani. Altri, centinaia di migliaia, sono stati respinti dalla Turchia, dall’Iran e dal Pakistan, i Paesi confinanti che complessivamente ospitano circa il 90% degli afgani sfollati in tutto il mondo e che negli ultimi anni ne hanno deportato un numero record. Le restrizioni dovute al coronavirus hanno reso più difficili le migrazioni, legali e illegali, perché molti hanno chiuso le frontiere e ridimensionato i programmi di aiuto ai rifugiati, costringendo a viaggiare lungo rotte più pericolose. A causa dei pesanti arretrati del programma speciale di visti per l’immigrazione degli Stati Uniti - a cui possono accedere gli afgani che sono a rischio per aver lavorato con il governo americano - circa 20.000 idonei sono rimasti intrappolati insieme alle loro famiglie in un limbo burocratico. L’amministrazione Biden ha ricevuto forti pressioni perché protegga gli alleati afgani nel momento in cui gli Stati Uniti ritirano truppe e supporto aereo e i talebani insorgono. Nonostante ciò, mentre gli scontri fra talebani, truppe governative e altri miliziani si fanno più intensi e il numero delle vittime raggiunge cifre da record, molti afgani restano determinati a fuggire. Una mattina parecchia gente si è radunata all’ufficio passaporti di Kabul. Nel giro di qualche ora si è formata una fila che si snodava intorno a tre isolati e passava davanti a un murale che raffigura dei migranti con una scritta minacciosa: “Non mettere in pericolo la tua vita e quella dei tuoi cari. Emigrare non è la soluzione”. Ben pochi si sono lasciati dissuadere. “Devo procurarmi un passaporto e lasciare questo dannato paese”, dice Abdullah, 41 anni, che come molti in Afghanistan non ha cognome. È un tassista che lavora fra Kabul e Ghazni, una località commerciale nel sudest del paese. Ricorda di essere scappato verso la capitale quando sono iniziati i combattimenti e di aver raccolto lungo la strada un gruppo di soldati governativi che chiedevano un passaggio. Due giorni dopo il suo capo l’ha chiamato per dirgli che i talebani stavano cercando un autista che era stato visto mentre dava un passaggio a dei soldati in fuga e che avevano il suo numero di targa. Abdullah è terrorizzato, dice che farà qualsiasi cosa pur di andarsene. “Lasciare il Paese legalmente è costoso e farlo illegalmente è pericoloso”, ha detto. “Ma ora come ora è più pericoloso restare”. Più a ovest, un gran numero di afgani si è raccolto a Zaranj, un centro di smistamento illegale nella provincia di Nimruz da dove i pick-up dei trafficanti si avventurano ogni giorno verso sud attraverso le terre che confinano con l’Iran. A marzo partivano circa 200 automobili al giorno - un aumento del 300% rispetto al 2019, ci dice David Mansfield, ricercatore sulle migrazioni e consulente del British Overseas Development Institute. All’inizio di luglio erano 450. Chi se lo può permettere paga migliaia di dollari per viaggiare verso la Turchia e poi l’Europa. Molti altri pagano ai trafficanti la prima tratta del viaggio e poi cercano un lavoro nero in Iran che permetta loro di pagare la successiva. “Non abbiamo soldi e non possiamo procurarci un visto”, dice Mohammad Adib, che sta pensando di passare illegalmente in Iran. Adib è fuggito da Qala-i-Naw, nel nordovest del Paese, all’inizio di luglio, dopo che una notte i talebani hanno assediato la città. All’alba, il suono degli spari era stato sostituito dal pianto dei vicini. I cavi elettrici erano sparsi a terra, le porte delle case sfondate, le strade sporche di sangue. “Non c’è altro modo per uscire dal Paese”, dice. Il governo del Tagikistan ha recentemente annunciato di essere pronto ad accogliere circa 100.000 rifugiati afgani, in aggiunta ai circa 1.600 arrivati nel mese di luglio. Altri Paesi confinanti si sono mostrati meno disposti ad accogliere gli afgani in fuga: hanno rafforzato i confini e avvertito che le loro economie non sono in grado di reggere un nuovo afflusso di rifugiati. Anche i governi dell’Europa centrale hanno iniziato a rafforzare le frontiere, nel timore che l’esodo attuale possa trasformarsi in una crisi simile a quella del 2015 che ha portato circa un milione di migranti, per la maggior parte siriani. Secondo le Nazioni Unite, quest’anno circa la metà della popolazione afgana ha bisogno di assistenza umanitaria, il doppio rispetto allo scorso anno e circa sei volte più di quattro anni fa. Mohammad Nabi Mohammadi, 40 anni, ha preso in prestito mille dollari per trasferire a Kabul trentasei membri della sua famiglia, dopo che i talebani hanno attaccato il suo villaggio, nel distretto di Malistan. Oggi il suo appartamento di tre stanze, situato ai margini della città, sembra più un rifugio affollato che una casa. Gli uomini dormono in un’ampia sala, le donne nell’altra e i bambini sono stipati nell’unica piccola camera da letto dell’appartamento, insieme a borse di vestiti e prodotti per la pulizia. Mohammadi prende in prestito dai vicini i soldi necessari ad acquistare il pane e il pollo per sfamare tutta la famiglia, e il prezzo dei generi alimentari è già quasi raddoppiato. Si indebita sempre più, non vede una via d’uscita e non sa che cosa fare.”Queste persone sono malate e traumatizzate. Hanno perso tutto”, dice in piedi accanto al piano della cucina, cercando di non farsi sentire. “Se la situazione non migliora, non so cosa faremo”. *Traduzione di Alessandra Neve