Lo stato di emergenza nei tribunali e diritti limitati per i detenuti… ma a chi importa? di Frank Cimini Il Riformista, 31 agosto 2021 La conseguenza è paradossale. Sarà consentito anche a una persona non vaccinata di essere presente in aula come pubblico. Non sarà consentito di essere presente all’imputato se detenuto vaccinato o meno che sia. Ancora più paradossale se si considera che le persone detenute sono sottoposte a controlli sanitari e in gran parte anche vaccinate”. In un comunicato gli avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini criticano la decisione del governo di disporre la proroga dello stato di emergenza fino alla fine dell’anno. “Ma è davvero sanitaria la ragione della proroga di tali limitazioni o per usare le parole dello stesso governo “molti degli istituti introdotti hanno permesso anche recuperi di efficienza dello stesso sistema e semplificato alcune incombenze avviando percorsi di ammodernamento e semplificazione delle procedure tanto da essere indicati anche come utili esiti da stabilizzare nell’ambito dei più complessivi progetti di riforma?”. A qualcuno interessano ancora i diritti dei detenuti?” chiedono Losco e Straini. Nel comunicato si ricorda che si tratta di limitazioni assai incisive tanto che all’inizio di marzo del 2020 fu proprio la sospensione dei colloqui con i familiari a scatenare le proteste nel corso delle quali morirono 13 persone in circostanze non del tutto chiarite, è la tesi dei legali che ricordano anche i pestaggi nella prigione di Santa Maria Capua Vetere come ritorsione da parte della polizia penitenziaria. Insomma l’intensità delle limitazioni è massima solo nei confronti della popolazione detenuta mentre per esempio non è stata prorogata la possibilità di udienze a porte chiuse che garantivano però la presenza fisica dei reclusi. Va anche ricordato che le mobilitazioni esterne di gruppi e associazioni in solidarietà con i detenuti sono stati in alcuni casi criminalizzate con accuse di terrorismo a carico di militanti anarchici poi rivelatesi del tutto infondate, ma nel frattempo costate diversi mesi di reclusione. “Inaccettabile che ancora una volta si penalizzino i detenuti una delle categorie più danneggiate dalla pandemia - dice Vinicio Nardo presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano - Come sempre i detenuti sono gli ultimi di cui ci si preoccupa. Non ha senso continuare a sacrificare i diritti dei detenuti che da un anno e mezzo hanno limitazioni umane e del diritto di difesa. Non solo hanno subito 13 morti nelle rivolte in carcere ma anche la diffamazione che ne è seguita sui sospetti che dietro le rivolte ci fosse la criminalità organizzata”. “Anche con le aule attrezzate il detenuto vede il suo processo solo attraverso un piccolo schermo e quindi c’è una chiara perdita di efficacia della partecipazione dal punto di vista difensivo. In più la possibilità di parlare con l’avvocato non è compatibile con la partecipazione a tutte le fasi del giudizio - aggiunge Nardo - se poi sei in un’aula non attrezzata il detenuto appare con strumenti come teams che sono inadeguati perché fanno perdere del tutto la possibilità di avere uno scambio con gli avvocati”. Nardo intravvede il pericolo di andare verso un processo solo in video auspicato da Gratteri per risparmiare sulle scorte dei detenuti. Insomma il Covid sta diventando un alibi per stabilizzare i deficit di garanzie. Ddl penale, via all’esame. I 5 Stelle: accordo valido anche a Palazzo Madama di Simona Musco Il Dubbio, 31 agosto 2021 In Commissione giustizia oggi si riparte con le riforme. La riforma della Giustizia torna oggi in Commissione al Senato, dove dopo oltre un mese di stop delle attività, alle 15, i senatori torneranno a mettere mano ai provvedimenti sui quali il governo punta per imprimere un’accelerazione alla durata dei processi così come richiesto dall’Europa. Si partirà con il ddl delega per il processo penale, che verrà dunque incardinato e che avrà come relatore il presidente della Commissione, Andrea Ostellari (Lega), per poi proseguire con l’esame dei ddl di riforma del processo civile e della magistratura onoraria, questione, quest’ultima, che entro la fine dell’anno deve trovare risposta. Il penale arriva a Palazzo Madama dopo l’approvazione da parte della Camera dello scorso 3 agosto, all’esito di una estenuante trattativa che ha portato ad un doppio voto di fiducia. Il risultato finale è stata l’archiviazione della riforma della prescrizione, con l’introduzione dell’istituto dell’improcedibilità e di tripli binari per il termine dei processi in base ai reati contati dall’accusa. A dire sì alla riforma anche l’ex guardasigilli Alfonso Bonafede, secondo cui il M5S “continuerà a dare il proprio contributo con lealtà, ma questo non significa essere sempre d’accordo”. Parole che erano apparse come un avvertimento, ma stando alle voci interne ai 5 Stelle alla vigilia del ritorno in Commissione “l’accordo resta valido anche per il Senato”, fanno sapere autorevoli fonti grilline, mentre dal Pd arriva la conferma: “Al Senato non si tocca una virgola”. La partita è ancora aperta e la discussione in Commissione Giustizia potrebbe cambiare comunque la disposizione degli animi. Quel che è certo, assicura però Ostellari, è che le due riforme procederanno in parallelo, senza dare priorità all’una o all’altra, smentendo dunque anche le voci di una “corsa” finalizzata a chiudere la pratica del penale per evitare ulteriori sussulti interni all’esecutivo. Lo scopo finale rimane la riduzione del 25% dei tempi di durata dei processi entro i prossimi cinque anni, agendo in particolare sull’appello, la cui durata media è di 850 giorni, contro i 104 della media europea. Oggi pomeriggio proseguirà anche l’esame del ddl delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, per il quale a giugno il ministero della Giustizia ha depositato 24 emendamenti governativi. A relazionare alla Commissione saranno Julia Unterberger (Autonomie), Anna Rossomando (Pd) e Fiammetta Modena (Fi). Un appuntamento al quale la Commissione arriva dopo un confronto tra maggioranza e governo, in particolare sul diritto di famiglia, date le posizioni rigide del senatore leghista Simone Pillon sui punti relativi alle vicende di violenza domestica nelle separazioni civili con affido. Altra questione oggetto di dibattito il diritto del lavoro, tema però meno divisivo e sul quale l’accordo potrebbe trovarsi subito. Oggi, comunque, potrebbe essere stabilito il calendario per il voto dei subemendamenti e per l’approdo in Aula del testo: l’idea è di approvare la riforma entro fine settembre, data anche l’importanza assegnata alla stessa in chiave Recovery. Altro capitolo, infine, quello relativo alla magistratura onoraria, sul quale riprende l’esame dopo il completamento dei lavori della Commissione Castelli, in attesa, nei prossimi giorni, del deposito degli emendamenti governativi da parte della ministra Marta Cartabia. Un’urgenza, vista l’imminente entrata in vigore della riforma Orlando, che preoccupa non poco le toghe onorarie. Fra le novità della proposta, l’aumento delle competenze per i giudici di pace sia nel civile sia nel penale, il mandato unico di sei anni, nove giorni di lavoro mensili e la fine del pagamento a cottimo. Un calendario fitto, dunque, in attesa dell’appuntamento più caldo: quello con la riforma del Csm. Nel 2022, infatti, l’attuale consiliatura chiuderà il suo quadriennio, con la conseguenza che a luglio si voterà per eleggere i nuovi inquilini di Palazzo dei Marescialli, che passeranno da 16 a 20. È dunque attesa una nuova legge elettorale, che secondo la proposta della Commissione Luciani consiste nel voto singolo trasferibile, in grado “di produrre, in collegi di ampiezza almeno media dei risultati di tipo tendenzialmente proporzionale e valorizza fortemente il potere di scelta dell’elettore, eliminando il fenomeno del voto inutile, grazie al trasferimento ad altri candidati delle preferenze espresse dagli elettori di candidati già eletti o giunti ultimi nel confronto elettorale”. Il tutto con lo scopo, ambizioso, di limitare lo strapotere delle correnti. Riforme civile, penale e magistratura onoraria: si riparte in Commissione al Senato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2021 Obiettivo delle riforme resta la riduzione dei tempi del processo posta come condizione dall’Europa per accedere ai fondi del Recovery plan. Si riparte oggi in Commissione giustizia del Senato con l’esame dei Ddl di riforma del processo civile, penale e della magistratura onoraria. Una batteria di provvedimenti che nelle intenzioni del Governo dovrebbe segnare una chiave di volta del sistema giurisdizionale capace di imprimere quella accelerazione alla durata dei processi indicata dall’Europa come condizione per l’erogazione delle risorse del Recovery plan. Sul fronte penale, dunque, dopo l’approvazione da parte della Camera dei deputati il 3 agosto scorso, è stato trasmesso al Senato il Ddl (2353) “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari” (Relatore alla Commissione Ostellari, Pareri della 1ª, della 5ª, della 8ª, della 11ª, della 14ª Commissione e della Commissione parlamentare per le questioni regionali). Scopo del provvedimento, giudicato dagli avvocati un “compromesso” che seppur migliorativo della situazione esistente non può dirsi definitivo, è la riduzione del 25% dei tempi di durata del processo penale entro i prossimi cinque anni. Il tentativo è quello di incidere sulla fase di appello che dura mediamente 850 giorni contro uno standard europeo di 104 giorni, portando le 29 Corti di appello a rispettare un limite di due anni. Al momento sono 19 le Corti d’appello che rispettano tale parametro; 3 si attestano lievemente sopra dei 2 anni; particolarmente problematiche invece 7 CdA. Sempre al Senato prosegue poi l’esame congiunto in Commissione dei disegni di legge (1662) “Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie” (Pareri della 1ª, della 5ª, della 6a, della 8ª, della 11a e della 12ª Commissione) e (311, Caliendo e altri) “Istituzione e funzionamento delle camere arbitrali dell’avvocatura” (Pareri della 1ª, della 5ª, della 6a, della 7ª, della 10ª Commissione e della Commissione parlamentare per le questioni regionali). Nel mese di giugno il Ministero della Giustizia ha depositato i 24 emendamenti governativi al Ddl delega con l’obiettivo di abbattere del 40% il tempo di definizione dei processi civili. Tra le principali novità, la valorizzazione delle forme di giustizia alternativa; la semplificazione del procedimento civile (anche stabilizzando le innovazioni telematiche introdotte durante l’emergenza covid); il rafforzamento della tutela del credito nel processo esecutivo; una semplificazione per i giudizi in materia di lavoro; l’istituzione di un rito unitario in luogo della frammentazione dei procedimenti di famiglia, preservando le specificità della giustizia minorile. Per quanto concerne invece il capitolo magistratura onoraria sempre in Commissione giustizia del Senato riprende l’esame di una serie di disegni di legge di modifica del decreto legislativo del 2017 (S.1516, S.1555, S.1582, S.1714 e S.1438, Relatori: Lucia Elvira Evangelista, Urraro e Valeria Valente). Si attende nei prossimi giorni il deposito da parte della ministra Marta Cartabia degli emendamenti a seguito del completamento dei lavori della Commissione Castelli che ha concluso i propri lavori lo scorso 21 luglio. Fra le novità contenute nella proposta l’aumento delle competenze per i giudici di pace sia nel civile sia nel penale; il mandato unico di 6 anni; e 9 giorni di lavoro mensili; oltre alla parola fine sul pagamento a cottimo. Intanto, ai primi di agosto, il cd decreto Pubblica amministrazione ha imbarcato anche la proroga per i giudici onorari. L’articolo 17-ter (Disposizioni in materia di magistratura onoraria), introdotto dal Senato, infatti, differisce al 31 dicembre 2021 l’applicabilità del nuovo regime di attribuzione dell’indennità ai magistrati onorari in servizio, e al 31 ottobre 2025 l’applicabilità delle disposizioni in materia di processo civile telematico per i procedimenti introdotti dinnanzi al giudice di pace. “Improcedibilità due volte incostituzionale”. Nuovo appello dal gotha dell’accademia Il Dubbio, 31 agosto 2021 I prof capitanati da Giorgio Spangher tornano a criticare la norma sulla improcedibilità. Già a fine luglio, 5 tra i più autorevoli processual-penalisti italiani avevano affidato al nostro giornale le loro argomentate critiche alla “prescrizione processuale”, sulla quale alla fine la maggioranza ha trovato l’intesa. Si rivolgono di nuovo alla politica affinché ritorni su quella scelta, con una nota che segnala le ulteriori contraddizioni contenute nel testo finale della riforma: “Affidare ai giudici una scelta destinata a ripercuotersi sulla concreta perseguibilità dei reati equivale a consegnare alla giurisdizione scelte di politica criminale in evidente contrasto con il principio di separazione dei poteri”, scrivono. Quando il Consiglio dei ministri dell’8 luglio ha ritenuto di affiancare alla prescrizione sostanziale, già operante in primo grado, la prescrizione ‘processuale’ con termini di durata massima per i giudizi di appello e di cassazione, fissati a pena di ‘improcedibilità’, abbiamo espresso alcune riserve, auspicando la sostituzione della prescrizione ‘processuale’ con quella ‘sostanziale’ come causa estintiva del reato. Abbiamo evidenziato dubbi di legittimità costituzionale e ragioni di inopportunità derivanti da tale impostazione. Il successivo Consiglio dei ministri del 29 luglio ha ritenuto di confermare la scelta della ‘improcedibilità’, modificando però il sistema delle proroghe e della decorrenza dei termini; il medesimo testo è stato poi approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati il 3 agosto. Il testo approvato da un ramo del Parlamento ai primi di agosto conferma i dubbi già espressi nel nostro documento di fine luglio. In aggiunta, nel documento qui di seguito riportato, segnaliamo ulteriori criticità del ddl governativo, in vista dell’imminente esame da parte del Senato. I sottoscritti Marcello Daniele, Paolo Ferrua, Renzo Orlandi, Adolfo Scalfati, Giorgio Spangher, richiamato quanto già espresso nel precedente documento del 27 luglio sulle perplessità che la disciplina della improcedibilità suscita in rapporto ai principi costituzionali di uguaglianza, di obbligatorietà dell’azione penale e di impegno alla durata ragionevole dei processi, visto il testo approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati il 3 agosto 2021, osservano: che il potere assegnato ai giudici di disporre proroghe dei termini fissati a pena di improcedibilità implica una impropria assunzione di responsabilità, tale da renderli arbitri della scelta se precludere o consentire la prosecuzione dell’azione penale; che affidare ai giudici una scelta destinata a ripercuotersi sulla concreta perseguibilità dei reati equivale a consegnare alla giurisdizione scelte di politica criminale in evidente contrasto con il principio di separazione dei poteri; che i termini di prescrizione processuale, affiancandosi ai termini di durata delle indagini preliminari, di custodia cautelare e di prescrizione sostanziale, rischiano di creare un regime temporale privo di coordinamento fra la fase anteriore al dibattimento, il giudizio di primo grado e la fase delle impugnazioni, incapace di assicurare in modo uniforme la ragionevole durata; che la prescrizione processuale, in particolare, contiene un implicito invito a chiudere innanzitutto i procedimenti relativi a reati meno gravi, ponendosi così in antinomia con i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, ispirati al preferenziale perseguimento di reati gravi con termini di prescrizione lunghi o addirittura imprescrittibili; che la disciplina della improcedibilità appare sotto diversi aspetti incerta, non essendo chiaro, ad esempio, se sia consentita la riapertura del procedimento dopo la sentenza irrevocabile, quando sopravvenga la condizione di procedibilità; come potrebbe accadere a seguito di una diversa e più grave qualifica del reato che implichi termini prescrizionali più estesi: auspicano che nel prosieguo dell’iter parlamentare sia presa in seria considerazione l’esigenza di uniformare la disciplina al modello della prescrizione sostanziale, causa estintiva del reato, come già contemplata sino al primo grado di giudizio. Sottoscrivono: Marcello Daniele Università di Padova Paolo Ferrua Università di Torino Renzo Orlandi Università di Bologna Adolfo Scalfati Università di Roma - Tor Vergata Giorgio Spangher Università di Roma - La Sapienza Riforma Cartabia, l’ultimo appello dei giuristi: “Non riduce in alcun modo i tempi del processo” di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 31 agosto 2021 Riforma Cartabia, l’ultimo appello dei giuristi: “Non riduce in alcun modo i tempi del processo. E l’Italia rischia condanne dalla Cedu”. In vista dell’approdo al Senato, i più importanti studiosi italiani di procedura penale chiedono un ripensamento: “Via l’improcedibilità, così è incostituzionale. Con questo testo si violano l’obbligatorietà dell’azione penale e il principio di separazione dei poteri”. Il professor Paolo Ferrua a ilfattoquotidiano.it: “Non ridurrà i tempi, li allungherà o produrrà denegata giustizia. Imporre una riforma del genere a colpi di fiducia sarebbe un segno di estrema debolezza”. Settembre è alle porte e si avvicina l’approdo al Senato della riforma Cartabia, il contestatissimo ddl sul processo penale approvato alla Camera - con la fiducia - all’inizio di agosto. E contro la soluzione adottata dal governo - il mantenimento del meccanismo dell’improcedibilità, temperato dalla possibilità di proroghe per alcuni tipi di reato - tornano a farsi sentire i più importanti studiosi italiani di procedura penale, nell’estremo tentativo di evitare che il progetto si trasformi in legge. “Quando il Consiglio dei ministri ha ritenuto di affiancare alla prescrizione sostanziale la prescrizione “processuale” - ricordano Paolo Ferrua, Marcello Daniele, Renzo Orlandi, Adolfo Scalfati e Giorgio Spangher - abbiamo evidenziato dubbi di legittimità costituzionale e ragioni di opportunità derivanti da tale impostazione”. Ma il testo approvato, spiegano, “conferma i dubbi già espressi nel nostro documento di fine luglio”. Per questo, in un nuovo appello datato 30 agosto, i professori segnalano “ulteriori criticità del ddl governativo”, auspicando “che nel prosieguo dell’iter parlamentare sia presa in seria considerazione” la possibilità di un ritorno alla prescrizione sostanziale, quella del reato, così come è sempre stata contemplata dal nostro ordinamento. Ferrua, Daniele, Orlandi, Scalfati e Spangher osservano anzitutto “che il potere assegnato ai giudici di disporre proroghe dei termini” dell’improcedibilità (addirittura all’infinito, nei processi per reati di mafia, terrorismo, violenza sessuale e traffico di droga) finisce per “renderli arbitri della scelta se precludere o consentire la prosecuzione dell’azione penale”. In assenza di parametri prestabiliti, infatti, due procedimenti simili potrebbero essere considerati o meno “particolarmente complessi” - e quindi prorogabili - a pura discrezione del giudice. E “affidare ai giudici una scelta destinata a ripercuotersi sulla concreta perseguibilità dei reati”, argomentano i professori, significa “consegnare alla giurisdizione scelte di politica criminale, in evidente contrasto con il principio di separazione dei poteri”. Ancora, “i termini di prescrizione processuale, affiancandosi ai termini di durata delle indagini preliminari, di custodia cautelare e di prescrizione sostanziale, rischiano di creare un regime temporale privo di coordinamento, incapace di assicurare in modo uniforme la ragionevole durata”. A spiegare quest’ultimo concetto aiuta il professor Ferrua, luminare del processo penale e professore emerito all’Università di Torino: “Poichè la prescrizione sostanziale si blocca comunque dopo la sentenza di primo grado, né i pm né i primi giudici sono motivati a fare in fretta”, chiarisce al fattoquotidiano.it. Ma anche una volta entrati nel territorio dell’improcedibilità, in Appello e in Cassazione, “i tempi concessi sono ormai talmente lunghi (quattro anni in Appello nel regime transitorio, tre a partire dal 2025, ndr) che rischiano di trasformarsi in un incentivo a rallentare, più che uno stimolo ad accelerare”. E se invece all’improcedibilità si arrivasse? “Ci troveremmo di fronte a un ibrido giuridico, una situazione in cui il reato non è estinto, ma lo è il processo, in piena contraddizione con il principio basilare dell’obbligatorietà dell’azione penale. Come si fa a spiegarlo agli studenti di diritto?”. Infine, si legge nel documento, non è nemmeno chiaro se addirittura possa essere “consentita la riapertura del procedimento dopo la sentenza irrevocabile, quando sopravvenga la condizione di procedibilità; come potrebbe accadere a seguito di una diversa e più grave qualifica del reato che implichi termini prescrizionali più estesi”. Insomma, persino il principio del ne bis in idem (nessuno può essere giudicato più di una volta per lo stesso fatto) potrebbe traballare. Una riforma di questo tipo, conclude Ferrua, “non aiuta in alcun modo a ridurre i tempi del processo: finirà per allungarli o peggio per produrre situazioni di denegata giustizia, in cui il giudizio verrà decapitato senza poter giungere a una sentenza di merito, come invece implicherebbe il principio della ragionevole durata. Nel testo non c’è traccia di interventi sistematici per ridurre le impugnazioni o potenziare i riti alternativi. Pensare di velocizzare il processo imponendo tempi prestabiliti ai gradi di giudizio è come fermare un treno in aperta campagna perché ha accumulato troppo ritardo”. E immagina già le censure che pioveranno sull’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, “da sempre attenta alla posizione delle vittime dei reati, che hanno, anche loro, diritto a un processo giusto”. Sull’approvazione della riforma Cartabia, però, pende una nuova questione di fiducia, motivata dalle presunte esigenze europee legate all’erogazione dei fondi del Recovery: anche se l’Unione, a ben vedere, chiedeva interventi di segno del tutto opposto. E l’ultimo appello dei giuristi punta anche aa evitare un’altra soppressione del dibattito in Parlamento. “Imporre una riforma del genere a colpi di fiducia sarebbe un segno di estrema debolezza”, dice l’accademico. “Vogliamo conservare fiducia nel buonsenso della politica, sperando che qualcuno ci ascolti”. Giustizia, bagarre sui tabulati telefonici. Azione chiede subito una legge di Liana Milella La Repubblica, 31 agosto 2021 Dopo la sentenza della Corte del Lussemburgo del 2 marzo, che imponeva il via libera del gip alla richiesta del pm, ancora aperta la questione dell’utilizzo, mentre magistrati e giuristi si dividono. Enrico Costa chiede al governo di provvedere. Sono passati sei mesi, ma la questione dei tabulati telefonici e del loro utilizzo “libero” da parte dei pm è ancora lì, irrisolta. E mentre le toghe e i giuristi si dividono con dotte e lunghe disquisizioni che hanno attraversato l’estate, l’incertezza regna sovrana. Perché il problema è semplice: viene commesso un delitto, il pubblico ministero chiede di ottenere i tabulati dei possibili indiziati. Oggi può ottenerli senza problemi, ma la Corte di giustizia del Lussemburgo, il 2 marzo, ha messo un paletto, scrivendo (su un caso dell’Estonia) che serve anche il parere del gip poiché si tratta di dati sensibili. La sentenza è rimasta lì, foriera di un grande dibattito giuridico, ma irrisolta dal punto di vista concreto. In Italia la legge che consente il libero accesso dei pm ai tabulati è sempre la stessa. E la Cassazione, a fine luglio, con una sentenza ha ufficializzato la sua posizione scrivendo che le indicazioni Ue sono troppo generiche, e quindi così su due piedi, senza una legge italiana specifica, non possono essere applicate. Proprio come hanno fatto, fino a oggi, molti gip in Italia. Ma dalle parole della Suprema corte, come da quelle dei gip, si deduce che una legge serve, e anche il prima possibile. Perché altrimenti il rischio è che le stesse autorizzazioni concesse possano essere eccepite di fatto bloccando un’indagine. E qui - politicamente - è già pronto Enrico Costa a intervenire. Il responsabile Giustizia di Azione, vecchio “nemico” delle intercettazioni sin da quando era in Forza Italia, è stato il primo, a fine marzo, a sollevare la questione della sentenza Ue. Nessuno, fino a quel momento, ci aveva riflettuto. Ma lui, con un ordine del giorno alla legge di delegazione europea, ha chiesto espressamente al governo di provvedere con una legge specifica per mettere ordine nella faccenda. E adesso Costa, non appena la Camera riparte il 7 settembre, è pronto a ripartire con la sua battaglia garantista. La prima mossa sarà quella di presentare un’interpellanza - che è già pronta e che Repubblica anticipa - per chiedere al governo “quali iniziative intenda porre in essere, e, considerate le urgenze evidenziate in premessa, in quali tempi, al fine di adeguare la normativa italiana a quella europea”. Costa chiede una legge e ne spiega le ragioni: “Il tabulato telefonico contiene una notevole quantità di informazioni molto sensibili: di fatto traccia la vita di ciascuno di noi, dalle nostre relazioni ai nostri spostamenti, dalle abitudini ai collegamenti informatici. E l’accesso a questi dati, incrociati e sapientemente correlati, risulta talvolta più invasivo delle intercettazioni telefoniche o ambientali perché svela la posizione nello spazio e nel tempo di una persona e la sua cerchia di relazioni sociali, con chi parla, a che ora parla, per quanto tempo parla, dove si trova quando parla, con quale frequenza lo fa, chi chiama dopo aver sentito una persona e così via”. Costa cita anche dei dati, dice che “nel 2014 solo la compagnia telefonica Vodafone dichiarò di essere destinataria di oltre 600mila richieste di tabulati”. E conclude: “La Corte Ue dice che ci vuole l’autorizzazione del giudice e che vanno individuati i reati gravi per i quali l’accesso ai tabulati è possibile. Quindi, a questo punto, è fondamentale intervenire rapidamente anche per non compromettere le indagini e rischiare di invalidare gli atti già acquisiti”. Ed è proprio questa la preoccupazione del procuratore aggiunto di Torino Cesare Parodi, che ha scritto più di una riflessione sulle intercettazioni. E adesso a Repubblica dice: “Le indicazioni europee rendono verosimilmente necessario che la decisione sui tabulati e i file di log sia di competenza del giudice e non più del pm. Al contrario, e ferma restando le necessità di precise motivazioni, ogni forma di limitazione correlata al titolo di reato potrebbe determinare una ingiustificata perdita di efficacia del sistema. Si dimentica spesso che dai tabulati possono derivare elementi funzionali alle esigenze non solo delle persone offese, quanto degli stessi indagati”. Dunque, anche per Parodi, una legge a questo punto è inevitabile perché altrimenti si rischia una sorta di giungla in cui i pm continuano a chiedere i tabulati, i giudici delle indagini preliminari si comportano secondo la loro singola interpretazione, ci sarà chi dice sì, chi dice no, chi chiede a sua volta di rivolgersi alla Corte di giustizia. Insomma, il caos. Del resto la stessa Cassazione, che a fine luglio ha depositato una sua sentenza sul punto, conferma l’esigenza di una legge quando scrive che “la pronuncia europea sembra incapace di produrre effetti applicativi immediati e diretti a causa dell’indeterminatezza delle espressioni utilizzate al fine di legittimare l’ingerenza dell’autorità pubblica nella vita privata dei cittadini”. In quella sentenza della Corte di giustizia del Lussemburgo si ipotizzava un via libera ai tabulati per i reati gravi e per “prevenire gravi minacce alla sicurezza pubblica”. Ma, a questo punto, non è solo sulla base di quelle parole che può funzionare in Italia un meccanismo delicato come quello della richiesta dei tabulati. Serve, come scrive la Cassazione, una legge per individuare, sulla base di criteri oggettivi, come ha chiesto la stessa Corte Ue, le categorie di reati per i quali sarà legittimo chiedere i dati del traffico telefonico o telematico. È esattamente la stessa linea che, nel frattempo, hanno seguito molti gip in Italia che, come nel caso di Roma e Tivoli, hanno chiesto una legge che disciplini al più presto la materia. Costa la sua proposta di legge l’ha già presentata. Dice semplicemente che per i tabulati vanno seguite le stesse regole delle intercettazioni. Sì per i reati che superano i cinque anni di pena. Via libera naturalmente per tutti i reati più gravi. Ma di sicuro questa è un’asticella che potrebbe anche essere troppo bassa per individuare i responsabili di molti crimini. Il Tribunale di Spoleto esclude l’applicabilità agli enti dell’istituto della messa alla prova di Fabrizio Ventimiglia e Stefano Cancellario Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2021 Per comprendere più a fondo i nodi del dibattito è utile richiamare in primo luogo le tesi negative già sostenute, tra gli altri, dal Tribunale di Milano e dal Tribunale di Bologna. La Corte lombarda, in particolare, con ordinanza del 27 marzo 2017, ha negato potersi applicare analogicamente l’istituto de quo al processo a carico degli enti. La recente pronuncia del Tribunale di Spoleto (ordinanza del 21 aprile 2021), si inserisce nel dibattito giurisprudenziale sorto sull’applicabilità, alle persone giuridiche “imputate” ai sensi del D.lgs. 231/2001, della “sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato” disciplinata nel codice di rito agli artt. 168-bis c.p. e 464-bis e s. c.p.p. Come è noto, la giurisprudenza prevalente si è mostrata tradizionalmente restia ad estendere l’applicabilità del predetto rito speciale alle persone giuridiche, anche se nel panorama giurisprudenziale non mancano pronunce più possibiliste. Per comprendere più a fondo i nodi del dibattito è utile richiamare in primo luogo le tesi negative già sostenute, tra gli altri, dal Tribunale di Milano e dal Tribunale di Bologna. La Corte lombarda, in particolare, con ordinanza del 27 marzo 2017, ha negato potersi applicare analogicamente l’istituto de quo al processo a carico degli enti. Sulla stessa linea l’orientamento del Tribunale di Bologna che con ordinanza emessa in data 10 dicembre 2020, ha ritenuto inapplicabile alle persone giuridiche la sospensione del procedimento con messa alla prova, in quanto il rito in questione risulterebbe modellato sulla figura dell’imputato persona fisica e ciò alla luce delle finalità meramente rieducative dello stesso. In direzione opposta si è pronunciato recentemente il G.I.P. del Tribunale di Modena che, con la sentenza del 21 settembre 2020, ha, invece, aperto alla possibilità per l’ente di avvalersi del rito speciale. Con la predetta pronuncia il Giudice aveva, infatti, accolto favorevolmente la volontà dell’ente istante, avendo preventivamente verificato la possibilità che l’ente potesse elidere le conseguenze negative discese dalla contestazione e la concreta capacità dello stesso di eliminare gli effetti negativi dell’illecito tornando ad operare nella piena legalità. In particolare, il G.I.P. ammetteva l’accesso al rito ritenendo applicabile il principio di eterointegrazione normativa. In sostanza, la disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, di cui agli artt. 168-bis c.p. e 464-bis e s. c.p.p. risulterebbe applicabile in forza del rinvio generale operato dagli artt. 34 e 35 del D.lgs. 231/2001, pur con il limite della compatibilità oggettiva tra le disposizioni. La recente pronuncia del Tribunale di Spoleto si è, tuttavia, inserita nel solco già tracciato dal Tribunale di Milano e dal Tribunale di Bologna. Il Giudice, infatti, ha ritenuto che il rito della “messa alla prova” non sia compatibile con la fisionomia e con gli scopi del processo a carico degli enti. In particolare, analizzando l’istituto sotto il profilo sostanziale, il Tribunale ha ritenuto di evidenziare come le norme che disciplinano la sospensione del procedimento con messa alla prova non siano espressamente richiamate dagli artt. 34 e 35 del D.lgs. 231/2001. Tali disposizioni, infatti, osserva il Giudice, si limitano a rinviare genericamente alle “disposizioni processuali relative all’imputato, in quanto compatibili”. Se pertanto, in linea teorica, si potrebbe ricorrere allo strumento dell’interpretazione analogica, il Tribunale di Spoleto respinge questa possibilità, ritenendo come in questo caso non sarebbero chiari i requisiti oggettivi di ammissibilità per l’applicazione del rito. Il Tribunale di Spoleto ha poi evidenziato, a ulteriore sostegno della tesi prospettata, come l’estensione dell’accesso alla messa alla prova all’imputato persona giuridica finirebbe per sovrapporsi al sistema premiale già previsto dall’art. 17, D.lgs. 231/2001, disincentivandone il ricorso. Pur a fronte di questa ulteriore presa di posizione è ragionevole ritenere che il dibattito giurisprudenziale sia destinato a proseguire. Se da un lato, le argomentazioni a sostegno della tesi sfavorevole sembrano cogliere nel segno laddove lamentano la mancanza di criteri oggettivi cui eventualmente ancorare la decisione sull’accoglimento della richiesta dell’ente di beneficiare dell’istituto della messa alla prova; d’altra parte, peraltro, non possono ignorarsi le aspettative di apertura e progressiva “modernizzazione” del “micro-sistema 231”. Al riguardo, a parere di chi scrive, è auspicabile una presa di posizione del legislatore, che vada a colmare una lacuna legis che genera un contrasto forse componibile solo con il ricorso allo strumento normativo e ciò anche in vista di quella complessiva revisione del sistema 231 che da tempo, da più parti, si attende. Caltanissetta. In cella come in un penitenziario sudamericano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 agosto 2021 I detenuti hanno denunciato alla Cedu condizioni disumane e degradanti: costretti per 19 ore al giorno in minuscole celle, con gravissime carenze igieniche, ora d’aria in spazi angusti e ammassati in un container per telefonare. Il carcere di Caltanissetta in condizioni da terzo mondo? Coperte strappate e sporche, i detenuti non ricevono nemmeno i prodotti di prima necessità per l’igiene. Costretti a restare rinchiusi 19 ore al giorno in minuscole celle, dove c’è un piccolissimo bagno da condividere nella migliore ipotesi con 4 detenuti, e con finestre che presentano infiltrazioni di acqua. L’ora d’aria? Ammassati in piccoli ambienti. I nuovi giunti costretti a dormire senza lenzuola - Poi ci sono i detenuti che fanno il primo ingresso in carcere, vengono messi giustamente in quarantena preventiva per la questione del Covid 19, ma costretti a dormire in letti privi di lenzuola e con materassi in pessime condizioni igieniche. Questo e tanto altro segnalano i detenuti ristretti nel carcere di Caltanissetta, al punto di mandare una missiva alla Corte europea di Strasburgo per denunciare condizioni disumane e degradanti.Una lettera, con decine di firme, che i detenuti del carcere nisseno hanno inviato anche al Dap, al ministero della Giustizia, al magistrato di sorveglianza, al garante nazionale delle persone private della libertà, al Partito Radicale e all’associazione Antigone. Costretti a vivere quasi tutto il giorno in cella - Le condizioni descritte, se confermate, sembra l’esatta fotografia delle carceri di alcuni Paesi sudamericani. I detenuti denunciano che la quotidianità della vita in quel carcere è una vera e propria tortura psicologica. Come detto, sono costretti a vivere quasi l’intera giornata dentro celle inadatte per garantire un minimo di dignità, ma durante l’ora d’aria va anche peggio. Per un’ora al giorno i detenuti verrebbero ammassati in un ambiente simile alla cella, tanto che la maggior parte di loro sono costretti a rimanere in piedi.Mentre per il passeggio, la condizione appare ancora più deplorevole. Secondo la denuncia, si svolgerebbe in uno spazio di pochi metri e tra le mura altissime e una rete metallica come tetto. Alcuni detenuti rinunciano i passeggi per mancanza di spazio. Il carcere di Caltanissetta è sprovvisto di qualsiasi sala per fare attività durante l’ora fuori dalla cella. Secondo i detenuti, l’unico sport concesso è il calcetto. Ma un’ora ogni 15 giorni, per solo 12 detenuti. Ma non va tanto bene nemmeno con le chiamate ai famigliari. Telefonate e videochiamate: tutti ammassati in un piccolo container - I detenuti del carcere di Caltanissetta denunciano ancora che le telefonate sono svolte esclusivamente su linea fissa: ciò crea un problema enorme, visto che la maggior parte dei famigliari non hanno un telefono fisso. E le videochiamate? Male anche lì. I detenuti denunciano che vengono effettuate in un piccolo container dove si è costretti a stare vicinissimi tra di loro: essendo ammassati, le voci si sovrappongono, il segnale della rete è debole e spesso cade la linea. “Tutto ciò rende impossibile e snervante sia la videochiamata che il colloquio”, si legge nella lettera. Non finisce qui. I detenuti denunciano che la maggior parte dei farmaci sono a carico loro, la ragioneria dell’istituto nisseno pagherebbe lo stipendio ai lavoranti con circa due mesi di ritardo, causando così non poche difficoltà a chi non ha soldi nel proprio conto corrente. Coperte strappate e sporche, senza poter usare quelle personali ignifughe - Ancora. Denunciano di essere costretti ad utilizzare le coperte strappate, sporche e vecchie dell’amministrazione, senza la possibilità di usare quelle personali ignifughe. Non verrebbero distribuiti i prodotti di rima necessità per l’igiene. L’area educativa sarebbe del tutto inesistente. Male anche per i detenuti che fanno il primo ingresso nel carcere, i cosiddetti nuovi giunti. Come da protocollo per prevenire il contagio del Covid 19, sono ubicati in quarantena preventiva. Ma secondo la denuncia, non riceverebbero lenzuola, federe e prodotti per la sanificazione della cella. I nuovi giunti sarebbero quindi costretti a dormire con lenzuola di carta. I materassi e cuscini sarebbero scaduti da parecchi anni e non più igienici. La sanificazione avverrebbe a spese del detenuto e solo quando si distribuisce la spesa del sopravvitto. C’è chi non ha disponibilità economica, ma sopravvive grazie all’aiuto di altri detenuti. Un carcere, se confermata anche la metà di ciò che i detenuti hanno denunciato, fatiscente e dove i detenuti vivono in condizioni disumane. In pratica subiscono un trattamento contrario alla Costituzione italiana e alla convenzione europea dei diritti dell’uomo. I detenuti chiedono un intervento urgente da parte delle istituzioni, altrimenti - così scrivono nella lettera - “siamo costretti a mettere in atto uno sciopero drastico per far rispettare la dignità della persona”. Sassari. La giustizia riparativa entra in carcere La Nuova Sardegna, 31 agosto 2021 A Bancali un progetto del ministero ha coinvolto detenuti, agenti e operatori. Nel carcere di Bancali si è appena concluso il Progetto Medi-Amo Insieme, voluto dal ministero e finanziato dalla Regione, sulla giustizia riparativa. Un nuovo approccio innovativo che consiste nel considerare il reato principalmente in termini di danno alla persona. E di conseguenza l’obbligo, per l’autore del reato, durante un lungo “processo interiore” e non solo, di rimediare alle conseguenze lesive della sua condotta. Mai attuato prima nel penitenziario sassarese, il progetto si è svolto in collaborazione con i mediatori delle Cooperative Dike, (Milano) Medias (Uta) e Filos (Sassari) coordinato dalla responsabile dell’Area Educativa, Ilenia Troffa, ed era stato promosso dal direttore Graziano Pujia (trasferito a Cagliari) e da Patrizia Incollu. Ha partecipato, in qualità di garante territoriale dei diritti delle persone private della libertà, Antonello Unida. L’idea di giustizia riparativa nasce verso la fine degli anni Ottanta del secolo scorso nel Nord America. Tre le tematiche affrontate durante il corso a Bancali: il conflitto e la sua composizione, la mediazione e la riparazione. Sono state giornate intense che hanno visto confrontarsi detenuti, agenti della polizia penitenziaria e cittadini e il team dell’attuazione del progetto a fare da osservatore-facilitatore. Grazie soprattutto alle mediatrici delle tre cooperative, si è portato all’interno della struttura una ventata nuova, un nuovo paradigma di giustizia, che si affianca a quello tradizionale sulla vecchia concezione punitiva. “Ci si è confrontati con passione, rispetto, competenza, anche rabbia e tristezza, ma soprattutto con la consapevolezza di fare qualcosa di utile in primis per se stessi e poi per la collettività - spiega Antonello Unida. In mediazione si arriva mettendosi a disposizione nella riservatezza, nel non giudicare, nell’ascolto profondo. In Italia abbiamo uno straordinario esempio di giustizia riparativa che ci è dato dal Beccaria di Milano”. Il corso è stato un momento importante di dialogo e una boccata di ossigeno per i detenuti e gli operatori del carcere. Inoltre potersi confrontare anche con i cittadini è stata una interessante esperienza. L’obiettivo è di replicare in futuro il progetto. Firenze. A Sollicciano una sezione senza luce e docce per 40 giorni redattoresociale.it, 31 agosto 2021 A causa della mancanza di luce, gli agenti erano costretti a girare di sera e di notte con le torce, mentre alcuni detenuti per diversi giorni sono rimasti al buio. Adesso tutti i reclusi sono stati trasferiti Carcere di Sollicciano. Ancora criticità nel carcere fiorentino di Sollicciano, dove per oltre un mese la dodicesima sezione è rimasta senza luce e senza docce. Il disagio si è verificato all’indomani della protesta di un gruppo di 5-6 reclusi che salirono sul tetto incendiando lenzuola e coperte lo scorso 11 luglio. L’incendio ha compromesso gli impianti elettrici della sezione, tanto che era stato chiesto l’evacuazione dell’area. Eppure, nonostante le condizioni di precaria agibilità, alcuni detenuti sono rimasti dentro per settimane, spostati progressivamente nelle celle funzionanti, in altre sezioni e anche in altri istituti. A causa della mancanza di luce, gli agenti erano costretti a girare di sera e di notte con le torce, mentre alcuni detenuti per diversi giorni sono rimasti al buio. Per quanto riguarda le docce, i reclusi dovevano andare nella sezione dei passeggi. Una situazione difficile per cui adesso il sindacato Uil degli agenti penitenziari annuncia una denuncia alla Procura della Repubblica per segnalare “il mancato rispetto dei diritti umani”. “Scriveremo dell’accaduto alla Procura - spiega il segretario regionale Eleuterio Grieco - Per quasi due mesi la sezione è stata senza luce e senza acqua ma i reclusi non sono stati trasferiti nonostante la precaria condizione della struttura, pensate cosa succederebbe in un ospedale se accadesse la stessa cosa”. Il caso è stato sollevato da una lettera scritta dal cappellano di Sollicciano don Vincenzo Russo e dal Presidente della Camera Penale di Firenze Luca Maggiora e inviata al ministero della giustizia, al provveditorato regionale e alla direzione del carcere. “La sezione - è scritto nella lettera - a differenza di ciò che dovrebbe rappresentare uno spazio vivibile e minimamente accettabile, risulta sprovvista di luce ed acqua corrente dall’11 luglio. Inutile rammentare le condizioni meteo dell’ultimo periodo che sono risultate inadeguate alla stragrande maggioranza della popolazione italiana libera”. Firenze. “Sollicciano al collasso”, il caso va in Parlamento di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 31 agosto 2021 Il caso di Sollicciano senza luce né acqua arriva in Parlamento. Nei prossimi giorni il deputato di Italia Viva Cosimo Ferri presenterà un’interrogazione alla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Il caso di Sollicciano senza luce né acqua arriva in Parlamento. Nei prossimi giorni il deputato di Italia Viva Cosimo Ferri presenterà un’interrogazione alla ministra della Giustizia Marta Cartabia perché “la situazione a Sollicciano non è più tollerabile”. Il riferimento è a quanto accaduto dopo l’incendio appiccato da un gruppo di detenuti della dodicesima sezione lo scorso 11 luglio. Come raccontato domenica dal Corriere Fiorentino, la sezione è rimasta per quaranta giorni senza luce e senza docce, con disagi sia per i detenuti che per gli agenti. “Sollicciano ha sempre avuto criticità - ha detto l’onorevole Ferri - ma ora penso che sia al collasso e che non sia rispettata la dignità umana dei detenuti e di chi lavora all’interno”. In seguito al black out, per giorni gli agenti sono stati costretti a lavorare con le torce, mentre alcuni reclusi (adesso tutti trasferiti) non avevano luce durante le ore serali e notturne, e per le docce erano costretti ad andare nei passeggi. “Non mi meraviglia una situazione del genere - è l’amaro commento del garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani - Queste condizioni sono conseguenza del fatto che il carcere è sovraffollato”. Ecco perché, secondo Fanfani, “sarebbe opportuno sostituire Sollicciano con un carcere più adeguato”. Sul tema sono intervenuti anche i consiglieri comunali Dmitrij Palagi e Antonella Bundu (Sinistra Progetto Comune): “Un consiglio comunale in cui parlare di Sollicciano non è rimandabile”. Santa Maria Capua Vetere. “Antonio sta morendo e Giovanni è consumato dal tumore” di Rossella Grasso Il Riformista, 31 agosto 2021 La Garante dei detenuti di Caserta denuncia la preoccupante situazione sanitaria nel carcere. La situazione del carcere di santa Maria Capua Vetere Continua a preoccupare. Questa volta è la carenza dell’assistenza sanitaria a destare allarme e l’assenza di un direttore e l’estate non hanno fatto altro che acuire una situazione già preoccupante. Ne è convinta la garante dei detenuti Emanuela Belcuore che ha trascorso l’estate a raccogliere le testimonianze di chi è in carcere e sta vivendo gravi difficoltà”. Antonio De Luca è un detenuto del reparto Volturno - racconta Belcuore - È sulla sedia a rotelle. È stato operato al colon e oggi ha 40 punti di sutura. Ha l’intestino bucato e gli hanno attaccato una borsetta per le sue funzioni espletive che attualmente scorre”. La garante racconta che il carcere ha difficoltà a reperire anche gli strumenti ad esempio le borse per il deposito di liquidi, come nel caso di Antonio, e tanto altro. “Antonio De Luca ora ha il colon bucato, è diabetico e cardiopatico - continua Belcuore - Questo detenuto sta in una stanza con 5 persone. Ha una ferita enorme scoperta. Sta veramente male e non riesco a capire come sia ancora in carcere. Per lui ci manca solo la bara”. “È venuto a colloquio con me accompagnato dal caregiver che viene pagato due ore al giorno e invece sta con lui 24 ore su 24”, dice Belcuore. Il caregiver è un altro detenuto, che non ha competenze specifiche e sanitarie, ma che si impegna ad aiutare i detenuti che hanno bisogno di assistenza e in cambio ricevono un compenso dal carcere. Ma spesso questi detenuti volenterosi trascorrono tutto il giorno con la persona che gli è stata gli è affidata. Poi c’è la storia di un altro detenuto, Giovanni Calienzo. “Ha un tumore alla prostata ed è ancora in carcere e il magistrato non dispone dei domiciliari o di altra misura cautelare alternativa al carcere. Si trova nell’infermeria centrale all’accoglienza”, continua la garante dei detenuti. Belcuore testimonia anche la grande carenza di personale con molte persone in ferie e in malattia, nel mese di agosto, tra gli operatori sanitari. “Sabato scorso non è passata la terapia - spiega Belcuore - Ho chiesto spiegazioni e mi hanno detto che la terapia tipo l’insulina è passata, come le terapie di urgenza, ma per mancanza di personale quelle non di urgenza non sono state fatte. È grave che medicine come ad esempio la cardioaspirina non sia stata consegnata. Ci sono alcuni detenuti che hanno bisogno di terapie a determinate ore e le hanno saltate. Poi c’è chi ha bisogno di pannoloni che dovrebbero essergli forniti dal carcere e invece deve acquistarli”. La garante parla anche di altre problematiche tra cui quelle strutturali che riguardano l’assistenza medica di un carcere che accoglie oltre mille detenuti. “L’infermeria centrale si trova al primo piano, sarebbe meglio spostarla al piano terra in modo che i detenuti infermi non debbano prendere scale e ascensore. Per questo si dovrebbe fare solo una piccola modifica strutturale”. “Poi tutti i detenuti e anche il dirigente sanitario mi hanno detto che manca totalmente la figura dello psichiatra in tutta la struttura di Santa Maria Capua Vetere - continua il racconto - Ci sono solo due psicologi forse sulla carta che vanno a lavorare ad ore. È una vergogna che non ci sia uno psichiatra. Perché non ne prendono uno visto che lì c’è tanto lavoro da fare? In questa situazione gli agenti della penitenziaria devono sopperire a carenze professionali non di propria competenza e vanno sotto stress. Poi succede quello che sappiamo e che è già successo”. La situazione appare più grave nel reparto dell’alta sicurezza femminile, il Senna, più lontano rispetto agli altri reparti, il luogo dove ci sono donne che lamentano l’assenza di un ginecologo. “Le detenute chiedono una maggiore attenzione per quanto riguarda le malattie femminili: manca un ginecologo, c’è bisogno di più visite che riguardano le donne”, dice Belcuore. In questa situazione già difficile, da martedì c’è ancora un’altra difficoltà. i rappresentanti del Gom, il gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria, inviata a Santa Maria all’indomani degli arresti tra il personale del carcere accusati di essere stati protagonisti di quella “ignobile mattanza”. “Il gruppo di agenti speciali, fu inviato a supporto della polizia penitenziaria, andranno via e rimarrà scoperta anche la polizia penitenziaria - continua Belcuore - E intanto siamo ancora in attesa del nuovo direttore. Invito l’assessore alla Sanità della Regione Campania a venire in carcere per vedere con i suoi occhi qual è la situazione che dipende dall’Asl ma potrebbe darci una grossa mano”. “Altro problema segnalato dai detenuti è l’assenza della ragioniera che una volta sta in ferie e una volta in malattia e di conseguenza chi lavora non viene pagato da un bel po’ di tempo. Parliamo di persone che spesso devono mantenere anche le famiglie a casa che spesso non hanno nemmeno il reddito di cittadinanza. Gli stipendi non sono corrisposti da mesi. Cosa stiamo aspettando?”. Novara. Carcere, nella ex sezione femminile locali per i servizi medici lavocedinovara.com, 31 agosto 2021 Il Garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano, ha incontrato la neo direttrice del carcere di Novara, Maria Vittoria Menenti, che ha sostituito la precedente direttrice Rosalia Marino, diventata direttrice del carcere di Torino. Mellano, accompagnato dal garante comunale di Novara, don Dino Campiotti, ha dato il benvenuto a Menenti, che manterrà contemporaneamente la vice direzione del carcere di San Vittore di Milano. Direttrice di grande esperienza, precedentemente direttrice a Pordenone e vicedirettrice a Venezia, trova una struttura con particolari esigenze dovuta alla presenza di 67 ristretti in regime di carcere duro “41 bis” che si aggiungono agli altri 101 detenuti comuni. Dopo un approfondimento delle varie situazioni individuali di esecuzione penale, con un’attenzione particolare nei confronti dei progetti di reinserimento lavorativo, Mellano ha visitato la prima e la seconda sezione della parte detentiva comune, accompagnato dalla direttrice e del comandante Rocco Macrì e analizzando le situazioni più difficili con la capoarea educativa e trattamentale Patrizia Borgia. I Garanti, offrendo la massima collaborazione, hanno ricordato le problematiche già denunciate in precedenza, tra cui la necessità di urgente recupero e rifunzionalizzazione della palazzina interna alla cinta muraria un tempo destinata alla sezione femminile, struttura che risulta chiusa da oltre dieci anni: la collocazione nella palazzina di tutti i locali adibiti ai servizi medico-infermieristici valorizzerebbe il presidio sanitario regionale interno al carcere, consoliderebbe e razionalizzerebbe (accesso delle ambulanze) un servizio della Regione Piemonte erogato dall’Asl di Novara e potrebbe rispondere, con sempre maggior efficacia ed efficienza, ad una responsabilità propria del servizio sanitario, cogliendo anche la particolare esigenza della popolazione carceraria del carcere novarese. Brindisi. I luoghi per confrontarsi sono tanti. Basta volerlo di Benigno Fernando* newspam.it, 31 agosto 2021 Nei giorni scorsi, su alcuni organi di informazione on line di Brindisi, è stato pubblicato un comunicato della segreteria regionale del Sappe-Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria dal titolo “Garanti, dove siete?”. Al comunicato si accompagnava una foto dell’ingresso della Casa Circondariale di Brindisi. Il comunicato si riferiva ad alcuni episodi di violenza da parte di singoli detenuti nei confronti di agenti della polizia penitenziaria. In un caso un Ispettore di Polizia Penitenziaria è stato ferito al volto e in altre parti del corpo con una lametta da barba. Il comunicato prende di mira i garanti pronti a “denunciare, stigmatizzare, talvolta a calunniare la polizia penitenziaria ma tace di fronte alle continue aggressioni che la stessa subisce da parte dei detenuti”. A leggere la prima parte del comunicato, sembra che tutto il malessere e le pesanti problematiche che investono il settore penitenziario dipenda dai Garanti. Chi scrive è il Garante dei diritti delle persone prive di libertà della Provincia di Brindisi, Fernando Benigno. Appena conosciuta la notizia delle aggressioni o intimidazioni intervenute nella Casa Circondariale di Brindisi, lo scrivente si è recato, per ogni singolo episodio, dal Comandante pro tempore, Dott.ssa L.D.S. per esprimere vicinanza e solidarietà agli agenti oggetto di aggressioni e minacce, e a tutto il corpo della Polizia penitenziaria. I comunicati si possono scrivere anche stando al mare, la solidarietà espressa di persona ha tutt’altro significato. Lo scrivente è stato nella struttura penitenziaria la settimana di ferragosto, quella precedente e quella seguente. Durante tutto il lungo e pesante perioda pandemico, sono stato sempre presente nella Casa Circondariale di Brindisi, di persona, e non a distanza. Non amo esternare problematiche che richiedono pazienza e riservatezza, i luoghi per confrontarsi sono tanti, basta volerlo. *Garante dei diritti delle persone prive di libertà della Provincia di Brindisi Piacenza. Presunto pestaggio su un detenuto, il Gip non archivia episodio del 2017 ansa.it, 31 agosto 2021 Il Gip del tribunale di Piacenza Luca Milani non archivia, ma ordina nuove indagini su un presunto pestaggio subito in carcere da un detenuto tunisino. I fatti risalgono al 20 luglio 2017 e nel fascicolo è indagato per lesioni un ispettore capo della Polizia penitenziaria attualmente già a processo con un collega per un altro episodio simile, avvenuto l’anno precedente sempre nel carcere piacentino, ai danni di un detenuto. Per il 2017, la Procura, con il pm Emilio Pisante, a febbraio 2020 aveva chiesto l’archiviazione, ma il Gip, tenendo conto dell’opposizione del difensore del detenuto, l’avvocato Luca Sebastiani, ora assegna tre mesi di tempo agli inquirenti, chiedendo di approfondire alcune questioni. In particolare l’indagato aveva riferito di non essere presente sul luogo del fatto, ma di aver partecipato al consiglio di disciplina del carcere. Una circostanza che ora si dovrà verificare, sentendo gli altri presenti alla riunione, dal momento che il Gip valuta come contraddittorie alcune delle dichiarazioni dell’indagato e che dalle carte non risulta la sua presenza al consiglio. Inoltre secondo il giudice è necessario un approfondimento medico legale sulle lesioni subite dal detenuto, sulla base delle valutazioni del medico legale consulente della persona offesa, Elia Del Borrello. Quel giorno, poco prima, il magrebino era stato protagonista di una protesta, con un altro detenuto, prendendo le chiavi e chiudendo le porte di una sezione. In seguito sarebbe avvenuto, secondo la denuncia, il pestaggio, da parte di più agenti, tra i quali la vittima ha riconosciuto l’Ispettore, difeso dall’avvocato Mauro Pontini. La sua versione è stata confermata da un altro detenuto. Per la resistenza durante la protesta i due hanno avuto una condanna in primo grado. Anche il processo attualmente in corso per il personale della penitenziaria per l’altro pestaggio aveva visto una prima richiesta di archiviazione dal pm Pisante, rigettata dal Gip Milani. Milano. I campioni sportivi nel carcere Beccaria di Milano milanotoday.it, 31 agosto 2021 L’ex campione della Nazionale italiana di rugby Diego Dominguez e il suo staff sui campi sportivi del carcere minorile Cesare Beccaria. Nei prossimi giorni i ragazzi dell’istituto penale potranno allenarsi grazie al progetto nato per promuovere l’inclusione sociale e facilitare il reinserimento sociale attraverso i valori dello sport. Il camp, giunto alla quinta edizione e realizzato grazie al Gruppo Mediobanca Sport Camp, ha l’obiettivo di promuovere l’inclusione e facilitare il reinserimento sociale attraverso i valori dello sport. A prendere parte al progetto, avendo la possibilità di praticare diverse discipline, saranno circa 30 ragazzi tra i 14 e i 24 anni. Ospite speciale di questa nuova edizione del camp è l’allenatore di calcio Stefano Nava. “Educazione e sport - commenta lo sportivo - sono una combinazione inscindibile. Attraverso la pratica sportiva è possibile apprendere una serie di valori indispensabili per la crescita personale e collettiva. Per questi ragazzi questa esperienza aiuta a recuperare i valori della condivisione e della socialità, oltre a creare un legame con i compagni e il senso di appartenenza a una squadra”. La Consulta incontra artisti e intellettuali protagonisti di 30 podcast di Liana Milella La Repubblica, 31 agosto 2021 L’8 settembre, con Mattarella, serata sui podcast tra giudici costituzionali e mondo della cultura. Concerto del maestro Nicola Piovani. In uscita venerdì il dialogo tra Giuliano Amato e monsignor Ravasi sul tema della natura umana. Ultimo podcast il 10 settembre tra Coraggio e la direttrice del Cern Gianotti su diritto e scienza. “La cultura è uno dei dodici principi fondamentali della nostra Costituzione, il pilastro di una comunità che deve garantire ‘il pieno sviluppo della persona umana’. La cultura è un diritto della persona e un dovere della Repubblica. E oggi, non meno che nel dopoguerra, ha un ruolo centrale: può e deve essere il volano di una nuova ricostruzione”. Diceva così, il 9 febbraio, il presidente della Corte costituzionale Giancarlo Coraggio annunciando una nuova iniziativa in tempi di pandemia e di inevitabile e sofferta stretta nei rapporti pubblici. Stop ai viaggi nelle scuole e nelle carceri, che nei due anni precedenti avevano consentito alla Corte di aprirsi “al mondo”, di portare, in realtà difficili ma vogliose di sapere, la parola della Costituzione e quella dei suoi “sacerdoti”, i giudici costituzionali. La pandemia purtroppo ha imposto, anche alla Corte, la mediazione della sola voce, e i giudici hanno investito tempo, energie, ma anche curiosità individuali nei podcast. Ed ecco che ai podcast sulla “storia” della Corte (otto puntate) e a quelli sulla Costituzione raccontata dagli stessi giudici (15 puntate) nel 2020 si è aggiunta, a partire dal 12 febbraio 2021, una serie dedicata alla Cultura con una formula differente. Battezzata “Incontri”, ha visto per 28 settimane il confronto tra un giudice e un esponente di quel mondo. Colloqui tra diritto, principi costituzionali, cultura, lungo uno spartito musicale. Venerdi 3 settembre uscirà il penultimo podcast in cui il vice presidente della Corte Giuliano Amato parla con monsignor Gianfranco Ravasi sul tema della natura umana. Mentre il venerdì successivo, 10 settembre, la serie sarà chiusa da un dialogo tra il presidente Coraggio e la direttrice del Cern Fabiola Gianotti che dialogheranno su diritto e scienza. Ma ora che la pandemia ha allentato la morsa, la Corte ha deciso di “incontrare” fisicamente i suoi 30 interlocutori, gli uomini e le donne del mondo della cultura che, grazie ai podcast, hanno condiviso l’esperienza di scambiare esperienze e conoscenze, e di farlo l’8 settembre, la Giornata mondiale dell’alfabetizzazione e della cultura. Il primo invito per l’8 settembre è partito alla volta del Quirinale. L’ex giudice costituzionale Sergio Mattarella assisterà all’incontro, che si concluderà con un concerto del premio Nobel, il Maestro Nicola Piovani, dal titolo quanto mai simbolico, “Note a margine su La musica è pericolosa” (parole queste ultime, di Federico Fellini). Piovani riproporrà una serie di suoi pezzi, alcune note colonne sonore di altrettanti film e anche un pezzo di Fabrizio De Andrè). Ovviamente saranno presenti, con Mattarella, le più alte cariche dello Stato, i giudici e tutti i protagonisti degli Incontri. Sarà un momento dedicato a testimoniare come la cultura rappresenti uno snodo centrale in ogni processo di ricostruzione di una comunità. Cultura e diritto, cultura e diritti, cultura e Costituzione. Su questo filone vanno ascoltati gli Incontri, i cui temi - ricorda la stessa Corte annunciando la serata dell’8 settembre - sono stati scelti da ciascuno dei 30 interlocutori e spaziano dal carcere alla laicità dello Stato, dalla legge elettorale all’integrazione degli stranieri, dalla tutela delle relazioni a quella, più specifica, dell’affettività. E poi ancora: la giustizia, la fragilità delle democrazie, la sfida dell’ambiente nella contemporaneità, il ruolo dei partiti e dei corpi intermedi, i rischi del digitale, l’esigenza di un diritto di accesso a Internet, la libertà di informazione e quella delle arti e delle scienze, i beni comuni, l’arte contemporanea, la memoria e molti altri. Tutti gli Incontri sono stati realizzati anche grazie alla collaborazione del maestro Riccardo Cimino, di Tommaso Orioli per la post produzione e di Roberto Pedicini per la voce della sigla. Il tema musicale che fa da punteggiatura è stato composto ed eseguito da Riccardo Cimino, Tommaso Orioli e Andrea Giovalè. Nel presentare l’evento, la Corte ricorda anche chi ha dialogato con i giudici costituzionali: Natalia Aspesi, Marco Bellocchio, Stefano Boeri, Massimo Cacciari, Silvia Candiani, Eva Cantarella, Cristiana Capotondi, Gianrico Carofiglio, Evelina Christillin, Carlo Cottarelli, Colin Crouch, Veronica De Romanis, Simonetta Fiori, Luca Formenton, Bruno Forte, Fabiola Gianotti, Monica Guerritore, Emilio Isgrò, Vittorio Lingiardi, Elena Loewenthal, Francesca Mannocchi, Dacia Maraini, Franco Marcoaldi, Mario Martone, Paolo Mieli, Nicola Piovani, Antonella Polimenti, Gianfranco Ravasi, Marco Travaglio, Stefano Zamagni. L’evento sarà ripreso da Rai Cultura e trasmesso su Rai 5, alle ore 21,15 dell’8 settembre. No green pass, escalation di violenza. Vertice al Viminale di Andrea Capocci Il Manifesto, 31 agosto 2021 Ieri l’ultimo episodio davanti al Miur ai danni di un giornalista di Repubblica. Su Telegram è caccia a medici e politici. Si teme per mercoledì. Di manifestazioni sindacali davanti al ministero dell’Istruzione se ne convocano decine ogni anno senza particolari tensioni. Anche ieri, davanti al palazzone romano di viale Trastevere, gli organizzatori erano intenti agli ultimi preparativi prima dell’inizio del presidio contro il green pass obbligatorio nelle scuole, quando avviene il fattaccio. Uno dei partecipanti, un collaboratore scolastico col porto d’armi (ora sospeso) si avventa sul videomaker di Repubblica Francesco Giovannetti, in piazza per coprire l’evento. “Ti taglio la gola”, e poi parte la gragnuola di pugni. Il reporter finisce al pronto soccorso, l’aggressore in commissariato. Dopo l’aggressione di due giorni fa a Antonella Alba, giornalista di RaiNews24, durante una manifestazione contro il green pass promossa dai neofascisti di Forza Nuova, ce n’è abbastanza perché al ministero degli interni salga il livello di allerta e la ministra Lamorgese annunci un vertice per i prossimi giorni. “La convocazione ha l’obiettivo di analizzare anche i recenti episodi di intolleranza e violenza che hanno colpito, tra gli altri, alcuni cronisti nel corso delle manifestazioni di protesta contro le misure anti - Covid assunte dal Governo” spiegano al Viminale. Alle redazioni è giunta la solidarietà di tutto il mondo politico, compresi i Fratelli d’Italia che si oppongono al green pass. A metterli in fila, i fatti di cronaca assomigliano a un’escalation. Oltre alle aggressioni contro i giornalisti, risale a due giorni fa anche l’attacco al gazebo del Movimento 5 stelle a Milano, ai margini di un altro corteo contro il green pass. E le minacce ricevute in strada dal medico Matteo Bassetti, un volto ormai noto per i suoi quotidiani inviti alla vaccinazioni lanciati dal piccolo schermo. “Ci state uccidendo, ve la faremo pagare” lo avrebbe apostrofato un no vax poi denunciato. Sarebbe però sbagliato vedere un disegno dietro a queste aggressioni, come se il movimento anti-green pass avesse deciso all’unisono di alzare il livello del conflitto. Una regia unica non c’è. Gli episodi, anzi, nascono spesso in contesti contrapposti tra loro. La manifestazione in cui è stato aggredito Giovannetti non ha nulla a che fare con quella in cui se l’era vista brutta Antonella Alba ventiquattr’ore prima. “In realtà, la manifestazione non era nemmeno iniziata” spiega Marco Sanguinetti, insegnante di Bracciano iscritto ai Cobas della scuola e uno degli organizzatori del presidio al Miur (anche se i Cobas precisano di non aver aderito al presidio). “Stavamo ancora montando l’amplificazione quando il reporter è stato aggredito. In piazza c’erano poche decine di persone: nessuno conosceva l’aggressore e tutti i presenti hanno difeso il giornalista di Repubblica. La maggior parte dei manifestanti è arrivata dopo e non si è accorta di nulla”. L’obiettivo della manifestazione era proprio strappare l’opposizione al green pass a fascisti e negazionisti: “Era la prima manifestazione contro il green pass esplicitamente antifascista. Lo striscione lo avevo portato io”, racconta il docente. “Non siamo negazionisti, i primi interventi sono stati fatti da colleghi vaccinati. Però ci preoccupa la svolta autoritaria che sta dietro il green pass. A noi viene richiesto un tampone ogni due giorni, ma il governo non ha investito sulla sicurezza delle scuole”. In piazza c’erano anche bandiere di Cub e Unicobas, sindacati di base orientati a sinistra che chiedevano un incontro col ministro Bianchi e a menare i giornalisti non ci pensavano proprio. A leggere i social, la situazione non è destinata a tranquillizzarsi nei prossimi giorni. Da mercoledì il green pass sarà necessario per salire su treni, navi e aerei e già sui canali Telegram si diffonde l’appuntamento per bloccare le stazioni nello stesso giorno. È solo il primo appuntamento di una serie di iniziative che dovrebbero culminare lunedì 6 con uno “sciopero lavorativo generale, indetto dal popolo”. Sui canali si invita alla caccia all’uomo contro politici e medici, da “inondare” di messaggi: finiscono online gli indirizzi e i numeri di telefono di dottori e politici, ma distinguere chi fa sul serio dai “leoni da tastiera” è difficile. Con queste premesse, l’entrata in vigore del green pass nei luoghi pubblici, con i relativi controlli, si annuncia problematica. Forse anche per svelenire il clima interviene il ministro delle infrastrutture Enrico Giovannini a chiarire le modalità di verifica del pass sugli trasporti locali. “Nessuno ha mai pensato che servisse un controllore per ogni autobus - spiega - ma immaginiamo il controllo a terra, magari a campione”. Il dovere di smantellare le reti dell’odio di Francesco Bei La Repubblica, 31 agosto 2021 Dopo le aggressioni No Vax a giornalisti e scienziati. La progressione degli attacchi violenti contro i giornalisti e i virologi più impegnati contro il Covid, la loro crescente virulenza, la trama organizzativa che si intuisce dietro questa offensiva, disegnano una sfida che non è più possibile sottovalutare. È un salto di qualità di cui va preso atto e bene ha fatto la ministra Lamorgese, dopo l’aggressione al nostro Francesco Giovannetti, a convocare il centro di coordinamento sugli atti intimidatori nei confronti dei giornalisti. È un primo passo, sicuramente utile. Ma non basta. Perché la risposta dello Stato deve essere all’altezza della minaccia. Basta scorrere le cronache degli ultimi giorni: l’assalto alla redazione del Giornale, la distruzione squadrista al gazebo dei Cinque Stelle, le aggressioni ai colleghi di Rainews24 e Fanpage Antonella Alba e Saverio Tommasi, oggetto di intimidazioni anche fisiche, così come la caccia all’uomo all’infettivologo Matteo Bassetti e le minacce pesanti a Fabrizio Pregliasco. Fino al vigliacco pestaggio di Giovannetti, compiuto da un energumeno che in casa aveva anche armi da fuoco. Sono tutti segnali precisi e univoci di una situazione che sta sfuggendo di mano. Nelle chat su Telegram, il canale russo di messaggistica preferito dai No Vax/No Green Pass, si leggono incitazioni all’odio, al linciaggio fisico, inviti alla pubblicazione di indirizzi privati di casa e di telefoni degli odiati agenti della presunta dittatura “nazi-sanitaria”. Passare del tempo a scorrere questi messaggi è come immergersi in un delirio paranoico in cui la realtà viene ribaltata, ogni spiegazione scientifica cancellata e rifiutata come parte di una grande impostura tesa a limitare le libertà e, in ultima istanza, a instaurare un nuovo regime politico oppressivo. In questo abisso di teorie complottiste si distinguono per virulenza gruppi come “Basta dittatura”, che ha organizzato per domani il blocco delle stazioni dei treni contro il Green Pass, e altri come ViVi, che si esaltano per azioni (per ora) dimostrative contro i centri vaccinali. Alla base di tutto c’è la credenza che una grande coalizione composta da politici, media e la fantomatica Big Pharma stia spingendo il mondo libero verso il temuto NWO, un Nuovo Ordine Mondiale di ispirazione orwelliana. Si potrebbe ridere di queste follie, così simili alle panzane di QAnon, se non fosse che negli Stati Uniti da questo stesso brodo di coltura sono usciti i fanatici che hanno assaltato il Congresso, provocando 5 vittime. Le analogie sono evidenti, così come la matrice di estrema destra e i collegamenti con gruppi organizzativi che, in Italia, sono dichiaratamente neofascisti. A questi si sono uniti gruppi anarcoidi, schegge di sindacalismo di base, ex grillini delusi. Ha ragione Matteo Bassetti quando dice che non è un problema di scorte, anche perché bisognerebbe proteggere personalmente centinaia di giornalisti, scienziati e medici. “Non voglio scorte, voglio che lo Stato punisca le persone che minacciano”. Il tempo di lasciar correre è finito, la magistratura e la polizia conoscono le sorgenti dell’odio e dovrebbero iniziare a prosciugarle. Ieri Giovannetti è tornato in redazione, con il volto tumefatto, a raccontarci cosa gli è successo andando a seguire la parata dei no Green Pass della scuola. Francesco è un professionista che in passato ha già “coperto” manifestazioni calde, ma non si aspettava questo livello di violenza in un presidio di professori e personale Ata. È il segno che la predicazione dell’odio ha fatto breccia anche in territori dove prima non arrivava. Ed è inquietante sapere che è proprio la scuola, alla vigilia di una complicata ripartenza, uno dei centri di questa marea montante. Per questo è bene agire subito dando un segnale chiaro che gli intolleranti non saranno più tollerati e le loro reti smantellate prima che succeda qualcosa di irreparabile, prima che qualche fanatico - credendosi avanguardia armata contro l’invasione dei rettiliani - passi all’azione. La responsabilità dovrebbe attraversare anche la coscienza di quei politici della Lega e di Fratelli d’Italia che scaldano la loro platea di follower ammiccando al mondo No Vax. Per non parlare di personaggi come Gianluigi Paragone, Sara Cunial o Davide Barillari, veri terminali dei complottisti anti vaccini nelle istituzioni, che alimentano ogni giorno di fake news i loro canali. Fino a ieri poteva sembrare solo colore politico, ma la sensazione è che la bestia sia scappando dalla gabbia degli apprendisti stregoni. Le morti sul lavoro non sono mai solo incidenti di Nadia Urbinati Il Domani, 31 agosto 2021 Per morti sul lavoro l’Italia occupa il secondo posto in Europa, dopo la Francia. 538 morti nei primi sei mesi del 2021. Il presidente del consiglio Mario Draghi ha detto che ciò è “inaccettabile” e che “bisogna” fare di più. Queste morti sono esemplari di uno squilibrio di potere nel mondo del lavoro e di una situazione di irregolarità e illegalità diffuse. Una decente politica democratica dovrebbe mettere al centro la battaglia contro un’ideologia falsamente meritocratica che ci vuole abituare a leggere gli squilibri di potere nel lavoro come esito di malasorte. Con l’arrivo dell’autunno il lavoro tornerà ad essere al centro del dibattito politico e sindacale. Parlare di lavoro comporterà parlare anche dei diritti - per renderlo meno precario e meno rischioso. Lavoro associato a morte è un fatto intollerabile in una società che pone il rispetto della persona alla base del suo patto costituente. Eppure, l’Italia reale è ancora lontana dall’Italia dei principi se è vero che per morti sul lavoro occupa il secondo posto in Europa, dopo la Francia. Quasi 550 nei primi sei mesi del 2021, un fatto “inaccettabile” ha detto Mario Draghi promettendo di fare di più. Ma i fatti non si vedono ancora, per esempio l’aumento del personale ispettivo e soprattutto l’adozione di normative più severe, nonostante l’ostilità del presidente di Confindustria. Interessante la strategia deterrente della patente a punti proposta da Maurizio Landini: le imprese che hanno “troppi” infortuni (ma “troppi” quanti?) non possano partecipare a gare e continuare a produrre. In questo contesto, anche i media potrebbero far meglio la propria parte, cessando di occuparsi delle morti come fossero disgrazie fatali da mettere in prima pagina. Morti che sono quasi sempre il segno di uno squilibrio di potere che pesa sull’organizzazione del lavoro e alimenta irregolarità e illegalità diffuse. Sono dette “bianche” perché non imputabili a intenti criminosi volontari. Ma non v’è dubbio che evidenzino una irresponsabilità padronale sistemica. E questo ne fa una battaglia politica, sociale, culturale, non delegabile esclusivamente al sindacato o alla magistratura (che arriva comunque a misfatto compiuto). Quello delle morti sul lavoro non è solo un capitolo del diritto penale. Denuncia l’assenza di una politica sociale rigorosa e uno scarso impegno finanziario e organizzativo da parte dello Stato. La politica è chiamata in causa direttamente, soprattutto quella che dice di collocarsi nel campo di centro sinistra, e che porta la responsabilità di aver accettato la deregolamentazione delle relazioni nel mondo del lavoro nel nome della competitività e della crescita. L’ideologia del Jobs Act ha fatto scuola. Cambiare questa mentalità è una condizione per promuovere un’opinione pubblica non accondiscendente e uno Stato non assente. Dare centralità alla ripresa economica deve andare insieme all’attenzione civile e normativa al lavoro, per liberarlo dallo stigma della sofferenza meritata (nelle parole di Matteo Renzi e Matteo Salvini) e farne una condizione dignitosa di realizzazione personale. Lavoro dignitoso e fiducia nelle proprie capacità stanno insieme e insieme possono decadere, come vediamo con le morti bianche e lo stillicidio dei licenziamenti. Una decente politica democratica dovrebbe contrastare l’ideologia falsamente meritocratica che ci vuole abituare a leggere gli squilibri di potere nel lavoro come esito della malasorte. Ma il rischio di “rompersi la schiena” restando schiacciati da una macchina utensile non è l’esito di una meritata sofferenza e neppure una disgrazia accidentale. Referendum sull’eutanasia, che cosa prevede? di Marika Ikonomu Il Domani, 31 agosto 2021 Sono state superate le 750mila firme per il referendum sull’eutanasia, promosso dall’Associazione Luca Coscioni con decine di associazioni e movimenti per depenalizzare l’eutanasia con un referendum abrogativo. Sono 500 mila le persone che hanno firmato ai gazebo, mentre 250mila hanno firmato online. A queste si aggiungono le firme raccolte nel comuni, nei consolati, negli studi degli avvocati, non ancora conteggiate. È stata quindi superata la soglia minima delle 500 mila firme prevista dall’articolo 75 della Costituzione. I promotori chiedono che venga depenalizzata l’eutanasia con lo strumento del referendum abrogativo. Per eutanasia si intende la somministrazione diretta di un farmaco letale al paziente, che lo richiede e che rientra in determinati requisiti. In Italia oggi costituisce reato, ed è punita dagli articoli 579 (omicidio del consenziente) e 580 (istigazione o aiuto al suicidio) del codice penale. L’articolo 579 prevede che: “Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’articolo 61. Si applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1. contro una persona minore degli anni diciotto; 2. contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3. contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”. Secondo l’articolo 580, invece, “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima”. Le associazioni e i movimenti chiedono che venga abrogata una parte dell’articolo 579 del codice penale e che il reato dunque rimanga solamente se il fatto è commesso nelle tre situazioni elencate nella seconda parte dell’articolo: se si tratta di un minore, se c’è un’infermità mentale o se il consenso sia stato estorto. Così facendo si aprirebbe la strada alla vera e propria eutanasia attiva, sul modello di Spagna e Lussemburgo, permettendo al medico di somministrare direttamente il farmaco. Il fine vita in Italia - Questa iniziativa aggiungerebbe un altro importante tassello alla piena garanzia del diritto. In Italia, è già possibile interrompere qualsiasi terapia, anche se provoca la morte (la cosiddetta eutanasia passiva). Dal 2017 è garantito il diritto di interrompere le cure anche qualora non si abbia più la capacità di intendere e di volere, potendo redigere il testamento biologico. Di fronte all’inerzia del legislatore, chiamato più volte a regolare la materia senza successo, negli ultimi anni è stata la giurisprudenza a intervenire. Il suicidio medicalmente assistito - Nel 2019 la Corte costituzionale ha infatti legittimato il suicidio medicalmente assistito, cioè l’aiuto indiretto a morire da parte di un medico. La Corte si è espressa sulla costituzionalità dell’art. 580 del codice penale nel “caso Cappato-Dj Fabo” e ha stabilito che, se sussistono determinate condizioni, non è punibile “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente”. La Corte ha escluso quindi la punibilità se la persona maggiore di età, pienamente capace di intendere o di volere, ha una patologia irreversibile portatrice di gravi sofferenze fisiche o psichiche ed è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (per cui si intende la nutrizione e l’idratazione artificiale). Escludere la punibilità significa che non può essere applicata la pena a tutte le persone che abbiano agevolato e/o portato a termine la procedura, escludendo quindi l’applicazione delle disposizioni sull’istigazione o aiuto al suicidio (articolo 580 cp) e sull’omissione di soccorso (articolo 593 cp). La sentenza della Corte ha valore di legge: non sarebbe dunque necessario, in astratto, l’intervento del legislatore. In concreto però il parlamento è chiamato dalla Consulta a disciplinare in modo organico la materia, individuando le procedure che rendano effettiva la decisione della Corte. “L’approvazione del testo impedirebbe di fatto il sabotaggio della sentenza della Corte costituzionale in corso. In un anno e mezzo nessuno è riuscito a esercitare questo diritto”, ha spiegato Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni. Le commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera hanno quindi approvato, il 6 luglio scorso, un testo base per regolare la pratica del fine vita, “Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia”, che riprende in toto la sentenza. Il relatore della legge Alfredo Bazoli, deputato del Partito democratico, a seguito dell’approvazione, aveva specificato che “il testo rappresenta un punto di partenza, e non pregiudica in alcun modo ulteriori interventi di modifica, miglioramento e affinamento del testo”. Cosa aggiunge il referendum - Il testo approvato in commissione, ancora in uno stadio embrionale, riprende completamente la decisione della Consulta e legittima il suicidio medicalmente assistito, escludendo però due situazioni: non prevede la somministrazione diretta del farmaco da parte del medico, producendo dunque una discriminazione nei confronti di chi non può assumerlo autonomamente, perché per esempio affetto da paralisi, e non include le persone che hanno una malattia terminale (ad esempio un cancro terminale) senza essere tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale. Con l’abrogazione dell’articolo 579 del codice penale, così come chiesto dai soggetti promotori del referendum, si garantirebbe dunque il pieno diritto all’eutanasia (anche nelle due situazioni appena citate, oggi escluse dal diritto), senza produrre quindi discriminazioni. Quei volontari di Linea d’Ombra di Dacia Maraini Corriere della Sera, 31 agosto 2021 Oggi voglio offrire all’attenzione dei lettori un modello di buona cittadinanza e senso della responsabilità, sentimenti di cui avrebbe tanto bisogno il nostro Paese. In un Paese che si autodenigra continuamente, che lancia pietre contro chiunque agisca e proponga nuove idee, come potremo evitare che i giovani scappino all’estero, presi da sconforto e sfiducia nel futuro? Per costruire un Paese vivibile abbiamo bisogno di un minimo di autostima, un minimo di entusiasmo, un minimo di partecipazione e di spirito solidale. E soprattutto di qualche buon esempio da portare come modello. Ecco oggi voglio offrire all’attenzione dei lettori un modello di buona cittadinanza e senso della responsabilità, sentimenti di cui avrebbe tanto bisogno il nostro Paese. Ogni giorno, nella bella piazza della Pace di Trieste, i volontari di Linea d’Ombra, guidati da Gianandrea Franchi e da Lorena Fornasir, accolgono i disperati della fuga. “Queste persone, afghani e pakistani, prevalentemente, ma anche irakeni, iraniani, siriani, persino del Bangladesh, del Nepal e, ogni tanto, del Maghreb, arrivano dalla Bosnia, dopo 15-25 giorni di cammino, e spesso dopo anni di migrazione dal loro Paese - abbiamo incontrato un tredicenne pakistano in viaggio dall’età di 10 anni - fra boscaglie e terreni montuosi impervi, stremati, con gli arti inferiori (soprattutto) offesi, ferite infette, talvolta anche gravi (cadute, tracce di violenza…), affamati, laceri”. I volontari di Linea d’Ombra offrono loro solidarietà, ovvero “interventi sanitari, cibo, scarpe, vestiti e quant’altro serva, che noi siamo in grado di offrire”. “Andiamo anche regolarmente nel luogo in cui si accumulano i migranti prima del passaggio nell’Unione europea, cioè nel Cantone terminale (Una-Sana) della Federazione bosniaca, dove vengono rastrellati e rinchiusi prevalentemente del campo di Lipa, isolato fra i monti: ma nessuno riesce a trattenerli, per cui ci sono numerosi gruppi accampati qua e là nei boschi e nei campi pronti ad andare in game - come chiamano il cammino verso l’Ue (nel significato di mettersi in gioco). Noi operiamo attraverso donazioni, appunto per questo è necessaria una Odv, con le quali acquistiamo ciò che serve ai migranti e che usiamo anche per andare in Bosnia, dove collaboriamo e sosteniamo economicamente i volontari locali e internazionali (abbiamo fatto 23 viaggi in Bosnia)”. Una Italia generosa e responsabile c’è ma perché se ne parla così poco e si fa finta che non esista? Più sicurezza che accoglienza, i ministri dell’Interno Ue sull’emergenza profughi di Carlo Lania Il Manifesto, 31 agosto 2021 Oggi vertice a Bruxelles. L’Onu: “Potrebbero arrivarne 500 mila”. Pronto il piano del Viminale per i nuclei familiari ma manca la copertura finanziaria. Secondo le Nazioni unite la crisi afghana potrebbe far arrivare nei prossimi mesi in Europa mezzo milione di profughi in più. Un numero che preoccupa Bruxelles, dove oggi i ministri dell’Interno dei 27 si vedranno per un vertice straordinario al quale prenderanno parte anche il vicepresidente della Commissione Ue Margaritis Schinas e la commissaria agli Affari Interni Ylva Johansson. Sulla carta si dovrà discutere di sicurezza e di come gestire l’accoglienza di chi fugge dal paese asiatico, ma si sa già che sarà il primo punto a tenere banco. Tanto che già nella bozza girata ieri di quello che sarà il documento finale del vertice si legge come, preoccupati per i rischi legati al terrorismo, gli Stati membri si impegnano a “fare il massimo per garantire che la situazione in Afghanistan non porti a dei nuovi rischi per la sicurezza per i cittadini Ue”. Una necessità sottolineata nei giorni scorsi dalla stessa Johansson che per l’occasione ha rispolverato una vecchia proposta della Commissione che prevedeva lo screening e la registrazione obbligatoria per chi arriva in Europa facendo ricorso anche a Eurodac, il database sulle migrazioni che contiene anche le impronte digitali. “Abbiamo gli strumenti, ma dobbiamo assicurarci che tutti gli Stati membri accettino di utilizzarli allo stesso modo”, aveva spiegato la commissaria. Decisamente più complicato per i ministri sarà affrontare la questione dell’accoglienza (l’Italia tra l’altro vorrebbe anche discutere della gestione di coloro che arrivano dal Mediterraneo, motivo per cui inizialmente era stato convocato il vertice di oggi). Non si parla, ovviamente, di quanti sono arrivati in Europa grazie al ponte aereo, ma di coloro che potrebbero arrivare nelle prossime settimane o mesi attraverso l’apertura di corridoi umanitari, ammesso che i talebani lo permettano. Francesco Grandi, Alto commissario Onu per i rifugiati, ieri ha lanciato l’allarme sullo scenario che potrebbe presentarsi: “Sta per cominciare una crisi umanitaria ben più pesante”, ha avvertito. “Il ponte aereo finirà e la tragedia non sarà più visibile - ha proseguito Grandi -. Ma rimarrà una realtà quotidiana per milioni di afghani. Non dobbiamo voltare il capo dall’altra parte. Una tragedia ben più grave sta per cominciare”. Al momento, stando sempre a quanto trapelato dal documento finale del summit, a Bruxelles si preferirebbe non fare cifre su quanti profughi l’Ue potrebbe accogliere in attesa di vedere quanti ne prenderanno gli altri Stati. Una preoccupazione generata anche dal solito - e per ora infondato - timore di creare un fattore di attrazione per i rifugiati. L’intenzione è comunque quella, già dichiarata, di aiutare i paesi confinanti con l’Afghanistan convincendoli a trattenere i rifugiati nei propri confini. Insomma il modello Turchia che tanto piace a paesi come Austria, Ungheria e Slovenia che hanno già detto di non essere disponibili all’accoglienza. Nel frattempo la Commissione ha stanziato 300 milioni di euro per il reinserimento di 30 mila rifugiati nel 2022, “non solo afghani” ha specificato un portavoce. In Italia intanto si lavora per l’accoglienza dei 5.000 afghani, tra collaboratori e familiari, arrivati nei giorni scorsi. Il Viminale ha già pronto il provvedimento che consente l’ampliamento dei posti nel Sai, il Sistema di accoglienza e integrazione (ne servirebbero almeno altri 3.000) ma manca ancora la copertura finanziaria. Per l’attuazione del piano serve comunque ancora tempo, quindi è possibile che alcune persone finiscano alloggiate nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) insieme ai migranti arrivati via mare. Per il resto il ministero conta di sulla collaborazione del Terzo settore che si è offerto di ospitare nuclei familiari. Si tratta di realtà più che sperimentate - dalla Caritas all’Arci, dalla Comunità di Sant’Egidio alla Cgil - con una forte capacità organizzativa. Infine ci sono i privati cittadini. In molti hanno scritto ai sindaci, ai prefetti e al Viminale offrendosi di ospitare dei profughi. Al di là della generosità del gesto, si tratta di persone che però vanno controllate accuratamente prima di affidare loro una famiglia. Perché il processo a Julian Assange riguarda anche il nostro futuro di Stefania Maurizi Il Domani, 31 agosto 2021 Nella cella di una delle più famigerate prigioni di massima sicurezza del Regno Unito, la Belmarsh prison di Londra, un uomo lotta contro alcune delle più potenti istituzioni della Terra, che da oltre un decennio lo vogliono distruggere. Le istituzioni includono il Pentagono, la Central Intelligence Agency (Cia), la National Security Agency (Nsa). Incarnano il cuore di quello che il generale Dwight D. Eisenhower, uno dei principali artefici della vittoria contro i nazisti in Europa, chiamava “il complesso militare-industriale” degli Stati Uniti e contro cui lo stesso Eisenhower, pur essendo un grande leader militare, aveva messo in guardia la sua nazione. La potenza e l’influenza di queste istituzioni si fanno sentire in ogni angolo del pianeta: decidono guerre, colpi di stato, assassini, influenzano elezioni e governi. In modo particolare quello italiano. L’uomo detenuto a Belmarsh in compagnia di pericolosi terroristi e omicidi non è un criminale: è un giornalista. Si chiama Julian Assange. Ha fondato WikiLeaks, un’organizzazione che ha profondamente cambiato l’informazione, sfruttando le risorse della rete e violando in maniera sistematica il segreto di stato, quando questo viene usato non per proteggere la sicurezza e l’incolumità dei cittadini, ma per nascondere i crimini di stato, garantire l’impunità agli uomini delle istituzioni che li commettono e impedire all’opinione pubblica di scoprirli e chiederne conto. Assange e WikiLeaks hanno pubblicato centinaia di migliaia di documenti segreti del Pentagono, della Cia e della Nsa, che hanno fatto emergere massacri di civili, torture, scandali e pressioni politiche. Queste rivelazioni hanno innescato la furia delle autorità americane, ma in realtà nessun governo al mondo ama Assange e la sua creatura. Anche quelli finora meno colpiti dalle loro pubblicazioni li guardano comunque con sospetto, consapevoli che prima o poi il metodo WikiLeaks potrebbe attecchire anche nei loro paesi e far emergere i loro segreti. E non sono solo governi, eserciti e servizi d’intelligence a odiarli o comunque a considerarli nemici: il potere economico-finanziario, spesso a braccetto con diplomazie e 007, li teme altrettanto, perché gli affari più redditizi prosperano nella riservatezza. È per questo che oggi la vita e la libertà di Julian Assange sono appese a un filo. Ha contro di sé un leviatano: l’intero complesso militare e d’intelligence degli Stati Uniti e una serie di governi, eserciti, servizi segreti di varie nazioni che non gli hanno perdonato le rivelazioni di WikiLeaks. L’unica protezione in cui può sperare è quella dell’opinione pubblica mondiale. Mentre scrivo è ancora rinchiuso, dall’11 aprile 2019, nella prigione di Belmarsh a Londra, nel mezzo di una pandemia. È possibile che a un certo punto venga rilasciato in attesa della decisione finale sulla sua estradizione, oppure no. Ma se le autorità americane riusciranno a vincere la battaglia legale che è in corso in Inghilterra, Assange verrà trasferito oltreoceano e chiuso per sempre, in isolamento, in una prigione di massima sicurezza, che potrebbe essere il carcere più estremo degli Stati Uniti: l’Adx Florence, in Colorado, dove si trovano criminali efferati come il signore del narcotraffico El Chapo. Alla sua condanna seguirà poi, molto probabilmente, quella di altri giornalisti della sua organizzazione. Il caso va ben oltre la vita e la libertà del fondatore di WikiLeaks e dei suoi collaboratori: è la battaglia per un giornalismo che espone il livello più alto del potere, quello in cui si muovono diplomazie, eserciti e servizi segreti. Un livello che nelle nostre democrazie - soprattutto quelle europee - il cittadino comune spesso nemmeno percepisce come rilevante per la sua vita, perché raramente si mostra nei telegiornali e nei talk show. E perché il cittadino comune guarda al potere visibile: la politica che decide della sua pensione, della sua copertura sanitaria, della possibilità o meno di trovare un posto di lavoro. Eppure quel potere, schermato dal segreto di stato, decide eccome la sua vita. Decide, per esempio, se il suo paese passerà vent’anni a fare la guerra in Afghanistan mentre non ha le risorse per scuole e ospedali, come nel caso dell’Italia. O se un cittadino tedesco viene improvvisamente sequestrato, consegnato alla Cia, torturato e stuprato perché scambiato per un pericoloso terrorista, mentre era innocente. Oppure se un uomo possa sparire dalle vie di Milano, a mezzogiorno, proprio come nel Cile di Pinochet, rapito dalla Cia e dai servizi segreti italiani, con i responsabili che rimangono liberi come l’aria. Su questo potere segreto il cittadino comune non ha alcun controllo, perché non ha accesso alle informazioni riservate su come opera. Per la prima volta nella storia, però, WikiLeaks ha aperto un profondo squarcio in questo potere segreto, permettendo a miliardi di persone nel mondo di accedere sistematicamente e senza restrizioni a enormi archivi di documenti classificati che rivelano come agiscono i nostri governi quando, al riparo dagli sguardi dei cittadini e dei media, preparano guerre o commettono atrocità. È esclusivamente a causa di questo lavoro che Julian Assange rischia di finire sepolto per sempre in una prigione. Eppure, se esiste un giornalismo che merita di essere praticato, è proprio quello che rivela gli abusi del livello più alto del potere. E non esiste libertà di stampa se i giornalisti non sono liberi di scoprire e denunciare la criminalità di stato senza finire ammazzati o passare la vita in galera. Nei regimi non è possibile farlo senza andare incontro a gravissime conseguenze. Nelle società non autoritarie, invece, deve essere possibile. Per questo motivo il processo al fondatore di WikiLeaks deciderà il futuro del giornalismo nelle nostre democrazie e, in una certa misura, anche nelle dittature, perché queste ultime si sentiranno ancora più legittimate a reprimere la libertà d’informazione se l’”occidente libero” metterà in galera per sempre un giornalista che ha rivelato l’uccisione di migliaia di civili innocenti, denunciato torture e gravissime violazioni dei diritti umani. Julian Assange e la sua organizzazione hanno fatto irruzione nella mia vita professionale oltre dieci anni fa. Da allora l’intrigo e la disruption che hanno iniettato nel mio giornalismo non sono cessati. Dal 2009 a oggi abbiamo lavorato insieme, loro per WikiLeaks, io per il mio giornale - L’Espresso e la Repubblica prima, oggi il Fatto Quotidiano -, alla pubblicazione di milioni di documenti classificati. Ho viaggiato per il mondo con i segreti della Cia e della Nsa. Assange e i suoi giornalisti mi hanno insegnato a usare la crittografia per proteggere le mie fonti. Stavo con lui a Berlino quando i suoi computer sparirono nel nulla. Ero nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra quando lui, il suo staff, la sua compagna e il loro bambino, i suoi avvocati e visitatori venivano filmati e registrati di nascosto, e il mio telefono veniva segretamente aperto in due. In questi anni sono stata, in alcune occasioni, seguita platealmente a scopo intimidatorio, ho subìto una rapina a Roma, dove documenti molto importanti sono spariti nel nulla. Eppure nessuno mi ha mai chiuso in una prigione o anche solo interrogato o minacciato. Mai ho dovuto pagare il prezzo altissimo che sta pagando Assange: dopo aver pubblicato i documenti segreti del governo americano nel 2010, lui non ha più conosciuto la libertà. Quello che ho visto dal 2010 a oggi, il trattamento che ha subìto, il grave decadimento della sua salute, la campagna di stampa contro la sua persona, la persecuzione giudiziaria dei giornalisti di WikiLeaks e delle loro fonti - prima fra tutte una di grande coraggio morale, Chelsea Manning - mi hanno messo addosso una profonda inquietudine. Un’inquietudine che è andata di pari passo con quella che si è fatta strada in me a mano a mano che scoprivo la criminalità e la crudeltà di stato rivelate dai file segreti di WikiLeaks. Il mio libro Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks è un viaggio in quei documenti e nella storia di Julian Assange e della sua organizzazione attraverso quello che ho vissuto e scoperto in oltre dieci anni di lavoro. Proprio perché non ho pagato il prezzo altissimo che ha pagato Assange, mi sento in dovere di raccontarlo e denunciarlo, per contribuire a salvare lui, i giornalisti di WikiLeaks, la libertà del giornalismo di far luce negli angoli più oscuri del potere e il diritto dell’opinione pubblica di scoprire quegli angoli. Stati Uniti. Torna libero l’uomo che sparò a Bob Kennedy (e cambiò la storia) di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 31 agosto 2021 Dopo 53 anni e alla sedicesima presentazione davanti al Parole Board, Sirhan Bishara Sirhan ce l’ha fatta: tornerà liberò. Fu lui, oggi settantasettenne, che la notte tra il 5 e il 6 giugno 1968, sparò a Robert F. Kennedy. Cambiando la storia americana. Ora, potrebbe capitare che a Mark David Chapman, l’uomo che l’8 dicembre 1980 sparò a John Lennon con una calibro 38, sotto il Dakota Building, New York, oggi detenuto in un carcere a Wende, Buffalo, alla prossima presentazione davanti al Parole Board - che è la commissione di libertà condizionale che decide se un criminale possa essere rilasciato dal carcere in libertà vigilata dopo aver scontato almeno una parte della pena, siamo già all’undicesima volta - vada bene. Ha pure scritto, nel novembre 2020, una lettera a Yoko Ono, in cui dichiara “spregevole” quel suo gesto. Di certo, è andata bene, dopo cinquantatré anni e alla sedicesima presentazione davanti al Parole Board a Sirhan Bishara Sirhan, oggi settantasettenne, l’uomo che la notte tra il 5 e il 6 giugno 1968, nelle cucine dell’Hotel Ambassador di Los Angeles, sparò tutti gli otto colpi della sua calibro 22 contro Robert F. Kennedy. Cambiando la storia americana. È il giugno 1968. Il 4 aprile hanno sparato al dottor Martin Luther King al Lorraine Motel a Mulberry Street di Memphis. King doveva cenare a casa del reverendo Kyles, che alle 17 e 30 giunse al motel chiedendo al pastore di seguirlo. Salomon Jones, l’autista di King, gli consigliò, visto il freddo, di coprirsi con un cappotto. Alle 18 e un minuto King uscì sul balcone del secondo piano del motel, dove venne colpito da un colpo di fucile di precisione alla testa; un singolo proiettile calibro 30- 06 sparato da un Remington 760 da James Earl Ray. Il proiettile entrò attraverso la guancia destra di King, spaccando la mascella e diverse vertebre mentre scendeva lungo il suo midollo spinale, tagliando la vena giugulare e le arterie maggiori prima di fermarsi sulla spalla. King cadde violentemente all’indietro sul balcone, incosciente. Trasportato al St. Joseph’s Hospital, i medici constatarono un irreparabile danno cerebrale, e la sua morte venne annunciata alle 19 e 05. Il presidente Johnson chiese al popolo di non cedere alla violenza, ma in più di cento città si erano scatenati tumulti. Ci furono quarantasei morti, più di duemila feriti e più di ventimila arresti. Ora è giugno. Robert si è candidato alle primarie a marzo e si sarebbe votato a novembre. Sfidava il presidente in carica, Lyndon Johnson, il vice che aveva giurato il giorno che a Dallas avevano sparato all’altro Kennedy, al presidente, e che poi era stato riconfermato nel 1964. A gennaio la rielezione di Johnson - una delle presidenze più controverse: suo era il piano di riforme della Great Society, come il Medicare e il Medicaid, suo il Civil Right che aumentava i diritti degli afro- americani, sua la “guerra alla povertà” come suo l’impegno colossale nell’escalation della guerra in Vietnam - era data per certa, tanto che Robert aveva detto pubblicamente che non intendeva candidarsi. Alla fine di gennaio però i vietcong lanciarono la più grande offensiva dall’inizio della guerra in Vietnam, “l’offensiva del Tet”, il giorno del capodanno vietnamita: l’attacco mostrava con ogni evidenza che la guerra era molto lontana dall’essere vinta e che gli sforzi bellici della presidenza Johnson erano stati inutili. L’offensiva del Tet rafforzò nel Partito democratico la posizione di Eugene Mc-Carthy che si era sempre opposto alla guerra e indebolì Johnson che a marzo si ritirò. È a questo punto che Robert, da sempre contrario alla guerra, aveva deciso di presentarsi. Così, il “fronte pacifista” aveva due candidati, McCarthy e Kennedy, mentre il ritiro di Johnson aprì la strada al suo vice, Hubert Humphrey, appoggiato dall’establishment dem. Quando a aprile sparano al dottor King, Kennedy è in Indiana. Viene informato della morte di King appena atterrato a Indianapolis. Di lì a poco avrebbe dovuto partecipare a una manifestazione proprio nel cuore del ghetto nero di Indianapolis e il capo della polizia, afroamericano, temendo per la sua sicurezza e per paura di disordini in città, gli sconsiglia di partecipare. Ma Bob non volle sentir ragioni, andò lì, mise un cappotto, salì sul piano del camion e disse: “Anche io ho un membro della mia famiglia ucciso da un uomo bianco”. Era la prima volta che parlava in pubblico della morte di John. La campagna di Kennedy andò abbastanza bene ma McCarthy non mollava e, alla fine, sarebbe stata la California a decidere chi dei due si sarebbe giocata la partita con Humphrey alla convention. La California premiò Kennedy e si decise di festeggiare la vittoria all’Hotel Ambassador, alla mezzanotte. Dopo il discorso, Kennedy avrebbe dovuto raggiungere un’altra stanza dove lo aspettavano alcuni attivisti della sua campagna. Però i giornalisti chiesero una conferenza stampa e convinsero il direttore della campagna elettorale a cambiare il programma. Kennedy avrebbe raggiunto la sala stampa passando attraverso le cucine dell’albergo. Lo avvisarono all’ultimo momento, circondato dalla folla e un maitre dell’albergo lo prese per il polso, guidandolo verso le cucine. Le cucine erano affollate e Kennedy si fermava di continuo per stringere mani e salutare. Procedeva lentamente, e arrivò a una strettoia tra una macchina del ghiaccio e un portavivande. Kennedy si fermò a salutare un ragazzo. In quell’istante Sirhan si avvicinò rapidamente, muovendosi da dietro un portavassoi che si trovava poco lontano dalla macchina del ghiaccio. Impugnava un piccolo revolver calibro 22. Sparò il primo colpo a pochi centimetri dalla testa di Kennedy. Il proiettile entrò da dietro l’orecchio sinistro, disperdendo frammenti d’osso in tutto il cervello. Altri due colpi gli entrarono sotto l’ascella. Un quarto colpo passò attraverso i vestiti e ferì un’altra persona. Ci fu una colluttazione, Shiran venne bloccato non prima di avere finito tutti i suoi colpi, ferendo altre cinque persone. Kennedy era a terra, ancora cosciente. Arrivò la moglie Ethel. Lo portarono all’ospedale del Buon samaritano dove morì ventisei ore dopo. L’8 giugno il suo corpo venne trasportato da New York a Washington a bordo di un treno. Centinaia di migliaia di persone si allinearono lungo i binari per salutarlo. Quel corteo funebre rimase nella storia degli Stati Uniti come il “Funeral train”. Alle presidenziali Hubert Humphrey sfidò Richard Nixon e perse malamente. Sirhan Bishara Sirhan era nato nel 1944 in Palestina in una famiglia di origine cristiana, che, quando lui aveva dodici anni, si traferì negli Stati uniti, prima a New York e poi in California. Nel 1968 aveva perciò ventiquattro anni, e aveva sviluppato una ossessione contro Kennedy, colpevole, a suo avviso, di avere appoggiato Israele. Almeno, questo è quello che scriveva nel suo diario e quello che dichiarò successivamente, anche se della sequenza precisa dell’attentato ha sempre detto di non ricordare nulla. Negli anni ha sempre più preso consistenza l’ipotesi che a uccidere Kennedy Sirhan non fosse da solo, cioè che la sua non sia stata l’unica pistola che abbia sparato nelle cucine dell’Hotel Ambassador, e la famiglia ha chiesto ripetutamente che vengano riaperte le indagini, ma inutilmente. Sulla sua liberazione, i numerosi figli di Bob - erano undici, ma due sono intanto morti - si sono divisi. Due, al tempo piccolissimi, si sono dichiarati d’accordo e una terza ha ripetuto la volontà di riaprire il caso, convinta dell’innocenza di Sirhan. L’ultima parola spetterà al governatore della California, Gavin Newson, che difficilmente cambierà la decisione: per la prima volta la procura non si è presentata in aula per opporsi, seguendo la nuova linea del procuratore distrettuale della Contea di Los Angeles, George Gascon, convinto che il lavoro dell’accusa si fermi al momento della condanna. “È passato più di mezzo secolo e quel giovane ragazzo impulsivo che ero non esiste più”, ha detto Sirhan durante l’ultima udienza. È passato più di mezzo secolo. E la storia continua a inseguirci. Afghanistan. Kabul, perché si rafforza la radice dell’odio di Raimondo Bultrini Il Manifesto, 31 agosto 2021 Nessuno dovrebbe dubitare ormai che i 20 anni di guerra al terrore dell’America in Afghanistan sono una sconfitta morale oltre che militare dell’intero cosiddetto mondo libero. I fatti di queste ore portano nuova luce sul tragico war game in corso, tra genti accalcate alla disperata ricerca di un aiuto straniero per sfuggire all’inferno, come le vittime dell’attentato di domenica lungo il canale di scolo attorno all’aeroporto di Kabul. Genti che avevano addosso l’etichetta non occultabile di “collaborazionisti” filo americani. Non solo l’Isis K che li ha colpiti con un attacco suicida, ma anche l’ala dura dei Talebani al potere da ferragosto li vedeva così, dei traditori e infedeli, in mezzo ai quali però hanno trovato la morte anche 28 di loro. Nei giorni precedenti l’attentato i loro portavoce a parole hanno promesso un’amnistia a chi lavoro’ con gli infedeli, ma li hanno lasciati maltrattare dal Network Haqqani, tra i più famigerati eserciti del terrore islamico delegati ora a fornire paradossalmente la sicurezza della capitale e dell’aeroporto. Li guida Sirajuddin, figlio del fondatore che fu amico stretto di Bin Laden e da 4 anni uno dei due vice (l’altro è Mullah Yaqoob, figlio del semicieco Omar che diede vita ai talebani) del riservatissimo Haibatullah Akhundzada, emiro potenziale di Kabul, l’uomo che alla morte di Bin Laden ottenne l’obbedienza dal nuovo capo di Al-Qaeda Ayman al-Zawahiri. Se risulteranno false le voci di una sua malattia, Haibatullah entrerà in scena presto a guidare il Consiglio della nuova Jihad diverso - a parole - da quello che governò il primo Emirato tra il 96 e il 2001, quando l’attuale “Leader dei credenti” operò nel Dipartimento per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio che ordinava lapidazioni e fucilazioni negli stadi, mentre Mullah Baradar, mediatore di Doha e papabile presidente del nuovo stato islamico, era vice ministro della Difesa. I cosiddetti Neo-talebani di Haibatullah e Baradar dicono di aver capito che i tempi sono cambiati anche per l’Islam, e che il mondo non è più lo stesso del 1996 e nemmeno quello del 600 d.c., come vorrebbero gli oltranzisti sunniti dell’Is. Anche i loro alleati Haqqani, interconnessi ad AlQaeda e sostenuti a lungo dal Pakistan, hanno deciso di tentare un’apertura dopo aver impedito per decenni l’educazione delle donne e sparso terrore come quando in un solo giorno del 2017 fecero strage di 150 civili con un camion bomba nelle strade di Kabul, oggi da loro presidiate. Anas Haqqani, fratellastro minore del 30enne capo del Network Sirajuddin - che ha ancora formalmente 10 milioni di dollari di taglia sulla testa - sta perfino guidando le perlustrazioni per vedere se nel prossimo governo dell’Emirato possono entrare civili ed ex politici “compromessi” ma pentiti, come l’ex presidente corrotto Hamid Karzai al quale è ironicamente dedicato l’aeroporto dell’inferno. Haqqani sono anche molti dei soldati che vanno in giro per Kabul nelle uniformi degli alleati Nato con le lunghe barbe sotto gli elmetti e un fucile M4 al braccio. E’ stata un’altra immagine scioccante per l’opinione pubblica americana sconvolta dal caotico esodo di connazionali e collaboratori afghani, nonché dalle bugie e dall’impotenza di Joe Biden, che pure sapeva della bomba di Isis K destinata a fare strage anche di marines. “I nostri eroi” li chamerà quasi tra lacrime. L’attacco di Nangarhar col drone che sabato scorso avrebbe ucciso due presunti “pianificatori” dell’attentato di domenica è stato un ben magro bottino di guerra offerto da Biden all’America furiosa per gli sprechi di questi anni con i soldi dei taxpayer. Ma il giorno dopo quando un drone ha ucciso per errore in un quartiere di Kabul sei bambini assieme ad altri 4 civili, Washington e il comando alleato Centcom hanno perfino tentato di negare che ci fossero state vittime innocenti. Già il 13 aprile 2017 Donald Trump sganciò contro i militanti Isis di Nangarhar la “Madre di tutte le bombe”, il più potente ordigno non nucleare al mondo composto di 11 diversi esplosivi. Secondo i suoi generali l’impatto sbriciolò i cunicoli dove si nascondevano i combattenti uccidendone - dissero - un terzo. Aggiunsero anche che nell’ultimo anno grazie ai droni la “Coalizione” aveva ripreso all’Isis “due terzi del territorio”. Nessun accenno agli effetti collaterali sulla popolazione civile, ma furono i talebani, condannando la superbomba, a profetizzarne gli effetti: “Lascerà un impatto materiale e psicologico sulla nostra gente”, dissero. Infatti, dopo aver lanciato il gioiello bellico costato 300 milioni di dollari, Nangarhar è tornata una roccaforte dell’Isis K, o ramo Khorasan sorto nello spirito del Califfato siriano-iracheno di al Baghdadi. Negli ultimi giorni perfino un potente Mullah talebano di questa regione è passato all’Isis, come avevano fatto dopo Doha altri militanti contrari ai compromessi dell’Emirato con l’America. E’ ironico pensare che anche il drone assassino del Califfo, un nemico dichiarato di AlQaeda e dei suoi alleati afghani, anziché eliminare il problema lo ha ricreato altrove, forse ancora più pericolosamente. Come Trump, anche l’attuale leader del “mondo libero”, l’uomo che ha scalzato il capo dei proud talib boys, ha dimostrato miopia di visione e scarsa intelligence, prima negando che il governo di Kabul sarebbe caduto pur avendolo tenuto volutamente fuori dagli accordi di Doha, poi vantando la presunta vittoria dell’aver severamente degradato Al Qaeda”. Nella realtà “degradando” gli eredi di Bin Laden che sostengono i talebani, l’America non solo non ha eliminato in 20 anni la pianta del terrore dell’11 settembre, ma ha rafforzato la radice dell’odio che germoglia ora da un’altra parte, con l’Isis e tutte le “ali dure” del mondo islamico stimolate a emulare senza gli stessi compromessi i fratelli-nemici talebani. E’ probabile che nonostante la Waterloo di Kabul Biden oserà chiedere ai contribuenti altri sacrifici, perché la prossima Jihad mondiale richiederà ancora più soldi se sarà come sembra una variante del virus afghano. Con grande soddisfazione dei produttori dell’unico vaccino anti-terrorismo noto all’America, il fucile d-assalto M4. Afghanistan. “Non soltanto i talebani: anche i governi filo-Usa opprimevano le donne” di Orlando Trinchi Il Dubbio, 31 agosto 2021 “Anche se la situazione attuale è drammatica, speriamo si tratti di una fase di transizione che permetta un futuro assestamento e un allentamento della tensione, nonostante che con i talebani non ci si possa fare illusioni”. Le parole di Gabriella Gagliardo, Presidente della onlus CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane), attiva sin dal 1999 parla di ciò che sta accadendo in questi giorni in Afghanistan, dopo la presa del potere da parte dei talebani. Nonostante le iniziali rassicurazioni, il portavoce Zabihullah Mujahid ha avvertito: “le donne devono restare a casa. È per il loro bene, per impedire maltrattamenti”. Quale destino attende le donne afghane? Da quanto possiamo osservare, in questo momento stanno effettivamente chiuse a casa, ma il pericolo principale è rappresentato dagli stessi talebani: sono loro a mettere in guardia nei confronti del pericolo per poi provocarlo in prima persona. Si tratta purtroppo di una situazione di emergenza non inedita: in questo momento di grande crisi e instabilità si sta sicuramente inasprendo, però, molte delle attività in campo sociale che riguardavano le donne - anche delle organizzazioni con cui siamo in contatto - si sono comunque dovute svolgere in modo clandestino, poiché una reale sicurezza non c’è mai stata. Minacce e attentati sono avvenuti anche durante il lungo periodo precedente. Quella a cui stiamo assistendo oggi non rappresenta quindi una situazione di radicale rottura, ma un inasprimento di tensioni preesistenti? In questi vent’anni di governo imposto dalle potenze occidentali si sono aperti sicuramente spazi nelle grandi città e per le classi più privilegiate - che costituiscono una minima parte della popolazione -, ma, nella maggioranza del territorio afghano, la situazione relativa alla sicurezza si è sempre dimostrata molto problematica. Anche il governo precedente era in mano a dei fondamentalisti, fazioni diverse che dal punto di vista ideologico non erano molto distanti dai talebani, ma, poiché il budget dello Stato afghano dipendeva per il 75% dagli aiuti esteri, ciò ha imposto di mostrare una parvenza democratica, perlomeno finché non si fossero palesate opposizioni oltremodo fastidiose - mi riferisco, ad esempio, a Malalai Joya, che in un celebre discorso denunciò i crimini dei ‘ signori della guerra’, poi assurti ai posti di comando del Paese. Si trattava di una democrazia molto fragile: l’articolo 22 della nuova Costituzione che era stata promulgata garantiva il principio di uguaglianza fra uomini e donne, ma tali diritti scritti venivano poi subordinati ai principi islamici. Le attività dei centri di aiuto legale che abbiamo finanziato hanno fatto fatica a far valere diritti e giustizia, continuamente minacciati e a rischio attentati. Cosa accadrà a partire da domani, quando gli americani lasceranno definitivamente l’Afghanistan? Siamo molto preoccupati di quanto sta accadendo all’aeroporto di Kabul a coloro che si vedono negato il diritto di salvarsi così la vita. Le evacuazioni interessano ingenti masse di persone e comportano la perdita per il Paese di professionisti qualificati che avrebbero potuto permettere la ricostruzione. I dirigenti delle organizzazioni con cui lavoriamo hanno scelto di continuare a operare in clandestinità: negli ultimi vent’anni, malgrado i rischi, hanno portato avanti una preziosa attività di formazione di quadri. Ci preme, quindi, richiamare l’attenzione sul fatto che anche in Afghanistan esista un’alternativa democratica, diversa sia dal regime talebano che dagli esponenti del vecchio governo. Come commenta la decisione dell’America di ritirarsi dall’Afghanistan? In questi c’è stata una fase durante la quale speravano realmente in un cambio di passo e nell’apertura di veri spazi democratici. La nostra posizione nei confronti dell’occupazione militare della NATO e dell’America si poggia sui fatti: bombardamenti, fame, inquinamento ambientale, le malattie che ne derivano, mentre, malgrado i cospicui finanziamenti occidentali, non è stato costruito un sistema sanitario e scolastico efficiente né messe a punto le infrastrutture necessarie. A causa della corruzione dilagante, questi finanziamenti sono finiti nelle tasche di individui che, nonostante fossero noti criminali, sono stati posti al governo. Le conseguenze dell’intervento occidentale sono l’aumento della povertà, il rinvigorimento delle forze fondamentaliste e un’ingente perdita di vite umane, vittime sia dirette che indirette della guerra. Quella a cui assistiamo oggi è una chiara sconfitta - anche militare - dell’Occidente, inutile girarci intorno: non era più sostenibile, anche per l’opinione pubblica americana, prolungare il conflitto, che sicuramente avrà fatto la fortuna dell’apparato industriale militare. Alcuni governi - fra cui quello sloveno, greco e ungherese - e diverse forze d’opposizione di altri Paesi manifestano la propria contrarietà ad accogliere profughi afghani. Ciò la preoccupa? Da parte dei governi europei temo si riproponga il solito schema di chiusura. Già prima che i talebani andassero al potere, gli afghani costituivano numericamente il secondo gruppo di migranti e richiedenti asilo, subito dopo i siriani. Ora è cambiato lo sguardo dell’opinione pubblica internazionale sulla questione, in quanto maggiormente incline a comprendere le ragioni della migrazione afghana. A questa ondata di indignazione emotiva dovrebbe accompagnarsi la consapevolezza dei motivi che spingono masse enormi di persone in fuga da situazioni disperate a rischio della propria vita, e questo dovrebbe avvenire anche grazie all’azione della stampa e della scuola. All’apertura della prima Conferenza G20 sull’empowerment femminile, la ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Elena Bonetti mette in guardia dal rischio di abusi e violazioni dei diritti umani che corrono le donne in Afghanistan e richiede un’assunzione di responsabilità da parte della comunità internazionale... Siamo abituati a sentire dichiarazioni, ma ciò che più importa è che ad esse seguano i fatti, e la società civile deve premere affinché ciò avvenga. Un fatto potrebbe essere interrompere immediatamente i finanziamenti a quei regimi anti- democratici incaricati di bloccare i flussi migratori, che, insigniti di questo ruolo, rafforzano ancora di più il proprio autoritarismo anche all’interno del Paese, come accade in Turchia. Un altro fatto potrebbe essere smettere di investire nell’industria degli armamenti. La spesa militare italiana è cresciuta constantemente in questi anni, supportata da tutti i governi che si sono succeduti e a scapito della sanità, della scuola e dei servizi sociali, per finanziare interventi che una narrazione distorta continua a definire ‘ umanitari’. Egitto. Scarcerati tre giovani attivisti, speranze per Patrick Zaki di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 31 agosto 2021 Segnale di ammorbidimento della linea giudiziaria verso i dissidenti. Si tratta di Shaima Sami, giornalista e ricercatrice dell’Anhri di Alessandria d’Egitto, Shady Sorour, blogger e regista, e Ziad Abou al-Fadi, esponente politico. Sono segnali concreti che qualcosa all’interno del granitico apparato giudiziario sta iniziando, forse, a cambiare. La Procura dello Stato egiziano ha dato ordine di scarcerare tre giovani attivisti accusati, tra gli altri, di terrorismo. Si tratta di Shaima Sami, giornalista e ricercatrice dell’Anhri di Alessandria d’Egitto, Shady Sorour, blogger e regista, e Ziad Abou al-Fadi, esponente politico. La notizia è arrivata nella tarda serata di domenica e ha provocato tantissime reazioni nel mondo dell’attivismo egiziano. Tre casi di ingiusta detenzione, tre storie di ordinaria follia quelle legate ai protagonisti che presto torneranno a riabbracciare le loro famiglie. Tutti con una lunga detenzione alle spalle e con i singoli casi giudiziari modificati in corso d’opera da parte del diabolico sistema giudiziario del paese dei Faraoni, abile a sfinire i suoi ‘nemici’, specie i soggetti arrestati per reati di coscienza. Una buona notizia per il movimento di resistenza egiziano che mai come nel 2021 sta ricevendo segnali concreti che qualcosa all’interno del granitico apparato giudiziario sta iniziando, forse, a cambiare. Una piccola breccia in continuo allargamento. Mai come negli ultimi mesi si sta assistendo a un lento ma costante rilascio di giornalisti, avvocati, politici, professionisti, blogger e così via, anche se tantissimi restano ancora rinchiusi nelle loro celle. Tra loro, ovviamente, anche Patrick Zaki, lo studente Erasmus dell’Università di Bologna arrestato da quasi 600 giorni e in carcere a Tora. La concessione della Procura, ergo dello Stato egiziano, di ‘rimettere in strada’ come i usa dire nel gergo dell’attivismo locale, altri pezzi di un mosaico fatto di attivisti dei diritti umani è un segnale molto positivo che presto potrebbe riguardare anche il ‘nostro’ Zaki. Shaima Sami era stata arrestata il 20 maggio 2020 ad Alessandria d’Egitto, la sua città natale, quando una squadra della National Security era piombata in casa sua in piena notte per strapparla ai suoi affetti. Come la maggior parte dei detenuti politici in Egitto anche Shaima ha visto il suo caso originale riciclato in un altro nel gennaio scorso. La modifica del caso, non del capo d’imputazione principale, sempre legato a ‘terrorismo’ e ‘diffusione di false notizie’, aveva fatto pensare a una lunga detenzione e invece nella tarda serata di ieri la comunicazione che ha fatto esultare tutto il mondo delle ong locali che si occupano di tutela dei diritti umani. La notizia, diffusa dalla stessa Procura dello Stato e rilanciata attraverso i canali ufficiali e social, comprendeva l’ordine di scarcerazione di Shady Sorour, 26 anni, regista e blogger, finito in carcere nel marzo 2019, quindi ben oltre il termine del secondo anno di detenzione rinnovata ogni 15 e poi 45 giorni. Tecnicamente Sorour avrebbe dovuto lasciare il carcere da cinque mesi, considerato il termine massimo di due anni di detenzione senza giudizio, ma anche lui ha subìto la modifica del caso giudiziario, da qui la dilatazione dei tempi. L’orizzonte per lui sembrava molto peggiore degli altri visto che gli inquirenti lo accusavano di terrorismo in relazione alla sua presunta vicinanza coi Fratelli Musulmani, l’organizzazione messa al bando dal presidente Abdel Fattah al-Sisi dopo la sua salita al potere con il Golpe di Stato del luglio 2013. A pesare nei confronti di Sorour i suoi video satirici molto pungenti, soprattutto quelli di carattere religioso appunto. Fino ai post Facebook del febbraio 2019 quando annunciava la sua decisione di diventare ateo e poi aderiva alla campagna di manifestazioni anti-regime rilanciati dalla Turchia da un noto giornalista e critico televisivo, affiliato alla Fratellanza Musulmana. Nonostante Shady Sorour si sia sempre dichiarato ostile ai Fratelli Musulmani non è bastato a evitargli l’arresto e la lunga carcerazione preventiva. Infine il terzo e ultimo rilascio ‘eccellente’. Riguarda Ziad Abu al-Fadi, membro politico del Partito Bread and Freedom (Pane e libertà), arrestato il 5 marzo 2019. Al-Fadi è stato messo in prigione quasi due anni e mezzo fa nel caso 1739, poi modificato nel n. 855 del 2020 con le seguenti accuse: affiliazione a gruppo terroristico, pubblicazione di notizie false, uso distorto dei social media, tutto con la consapevolezza degli scopi. Un recente rapporto dell’Ecrf (Commissione egiziana per i diritti e le libertà), la stessa ong che tutela la famiglia di Giulio Regeni al Cairo, diffuso a livello internazionale presenta il quadro dettagliato dei detenuti politici in prigione. Il documento, lungo quasi 130 pagine, presenta i casi di centinaia di attivisti egiziani arrestati dal regime negli ultimi otto anni. La lunga lista va decurtata dei tre giovani su cui ieri sera è arrivato l’ordine di scarcerazione. La crisi profonda della Tunisia: prorogata la sospensione del Parlamento di Ezio Menzione Il Dubbio, 31 agosto 2021 Il 25 luglio, il Presidente della Repubblica Kais Saied, un avvocato, costituzionalista, ha proclamato lo stato di emergenza. I fatti che stanno accadendo in Afghanistan, con il ritiro delle forze armate straniere e il ritorno al potere dei talebani, hanno oscurato totalmente un’altra crisi, qui alle porte del nostro Paese: quella della Tunisia. Invece conviene tornare a parlarne per più ragioni. Una è appunto la vicinanza e il filo diretto fra ciò che accade in quel Paese e i riverberi che ha qui da noi, soprattutto in tema di immigrazione. La seconda è il legame che negli ultimi dieci anni, dalla rivoluzione dei gelsomini nel 2011, sempre si è tessuto fra ciò che accadeva là e il nostro modo di riguardare quegli accadimenti. La rivoluzione di allora è stata l’unica vincente fra quelle che si sono avute in tutto il mondo arabo, e ciò non può non starci a cuore. In particolare per gli avvocati italiani l’interesse è stato fortissimo: da quando, appunto nel 2011, vedemmo i colleghi tunisini scendere in piazza per rovesciare il regime di Ben Alì; poi durante la fase di ricostruzione costituzionale del paese; fino alla gioia nel vedere gli avvocati di laggiù insigniti del Premio Nobel per la pace, assieme al cosiddetto Quartetto per il Dialogo Nazionale, che evitò nel 2013 lo scoppio di una guerra civile. Infine, preoccupava e preoccupa la profondissima crisi economica, sociale e occupazionale di un Paese flagellato da un altissimo tasso di corruzione, soprattutto dei politici, verticalmente aggravata dalla quarta ondata della pandemia: un Paese piegato che sembra avere difficoltà insormontabili a rimettersi in piedi. In questo contesto, il 25 luglio scorso, il Presidente della Repubblica Kais Saied (un avvocato, costituzionalista: una persona indiscutibilmente perbene, non un Al Sisi qualunque) ha proclamato lo stato di emergenza e ha “congelato” l’attività parlamentare per trenta giorni, utilizzando l’art. 80 della Costituzione del 2014, che così recita nella sua prima parte: “In caso di pericolo imminente che minaccia le istituzioni della nazione, la sicurezza e l’indipendenza del Paese e il funzionamento regolare dei poteri pubblici, il Presidente della Repubblica può prendere le misure necessarie per questa situazione eccezionale, dopo aver consultato il Capo del Governo e il Presidente dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo e avere informato il Presidente della Corte Costituzionale”. Al Presidente non è dato sciogliere il Parlamento monocamerale, ma può appunto “congelarne” o sospenderne l’attività. Anche se la mancata istituzione della Corte Costituzionale, per non essersi mai i partiti messi d’accordo sulla nomina dei giudici, costituisce un grave vulnus per una democrazia compiuta: ciò fa sì che dalla scena manchi un attore fondamentale. I trenta giorni sono scaduti e Saied, come previsto, li ha rinnovati. Ma per fare cosa? Transitare alla stesura di una riforma costituzionale in senso presidenzialista, magari con soglie di accesso elettorale che, almeno in parte, evitino l’attuale frammentazione della composizione parlamentare? Non è dato sapere. E abbiamo motivo di essere preoccupati, anche se molti degli analisti (prima fra tutti la professoressa Tania Groppi, profonda conoscitrice del sistema costituzionale e giuridico della Tunisia) hanno salutato positivamente la mossa di Saied: così non si poteva più andare avanti. C’è di che essere preoccupati nel vedere cancellato quel delicato equilibrio che aveva tenuto assieme nel processo costituzionale sia i laici che i fratelli mussulmani di Ennadha, consentendo l’affermazione di molti diritti per le donne e vietando il ricorso alla sharia. Era, questo, un raggiungimento molto importante, che rischia di essere travolto. È ben vero che nelle elezioni del 2019 Ennadha ha avuto risultati molto inferiori a quelli raggiunti nel 2014, ma in uno scenario di profonda crisi sociale e politica, il risorgere di tentazioni islamiste, magari appoggiate dalla Turchia di Erdogan, è dietro l’angolo. Saied gode indiscutibilmente di un grande consenso popolare: le manifestazioni contro il governo che avevano imperversato fino al 25 luglio si sono sedate come per incanto. Ma il possibile abbandono di quella capacità di trovare un punto di equilibrio e farne il fondamento del Paese, ci preoccupa molto. Qatar. Nessuna indagine sulla morte di migliaia di lavoratori migranti di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 31 agosto 2021 Manjur Kha Pathan, 40 anni, era alla guida del camion per 12-13 ore al giorno. Si era lamentato perché l’impianto di aria condizionata non funzionava più. Il 9 febbraio 2021 si è sentito male nel suo alloggio ed è morto prima che arrivasse l’ambulanza. Sujan Miah, 32 anni, era un tubista impegnato in un progetto nel deserto. È stato trovato morto nel suo letto la mattina del 24 settembre 2020. Nei quattro giorni precedenti la temperatura aveva superato i 40 gradi. Tul Bahadur Gharti, operaio edile, è morto nel sonno il 28 maggio 2020 dopo aver lavorato per circa dieci ore con una temperatura che aveva raggiunto i 39 gradi. Suman Miah, 34 anni, operaio edile, è morto il 29 aprile 2020 dopo un lungo turno di lavoro con una temperatura di 38 gradi. Il governo del Bangladesh ha offerto alla famiglia un risarcimento equivalente a circa 3000 euro, che però sono stati destinati a ripagare debiti contratti con i procacciatori di lavoro in Qatar. Yam Bahadur Rana, guardia di sicurezza in un aeroporto, un lavoro che lo obbligava a rimanere seduto per lunghe ore sotto il sole, è morto sul lavoro il 22 febbraio 2020. Mohammad Koachan Khan, 34 anni, intonacatore, è stato trovato morto nel suo letto il 15 novembre 2017. Anche la sua famiglia ha ottenuto assistenza dal governo del Bangladesh ma anche in questo caso la somma ricevuta è stata usata per ripagare i debiti pregressi. Questi sei lavoratori migranti, le cui storie sono al centro di un nuovo rapporto di Amnesty International sul Qatar, godevano di ottima salute e avevano superato gli esami medici obbligatori prima di partire per il Golfo. Le statistiche ufficiali del Qatar mostrano che dal 2010 al 2019 sono morti 15.021 stranieri di ogni età e occupazione. Su buona parte di questi decessi, le autorità locali non hanno indagato nonostante le prove che fossero collegati alle condizioni di lavoro. Le autorità locali, infatti, sono solite emettere certificati di morte senza condurre adeguate indagini, attribuendo i decessi a “cause naturali” o a generici problemi cardiaci. Questi certificati impediscono di reclamare un risarcimento a famiglie già in grave difficoltà dopo aver perso il loro unico percettore di reddito. Il rapporto di Amnesty International, basato sull’analisi di 18 certificati di morte emessi tra il 2017 e il 2021 e su interviste alle famiglie dei sei lavoratori migranti deceduti, mette in evidenza la rischiosa correlazione tra condizioni climatiche estreme e turni di lavoro eccessivi e fisicamente sfibranti. Dei 18 certificati di morte esaminati da Amnesty International, 15 non hanno fornito informazioni sulle cause alla base del decesso limitandosi a espressioni quali “grave crisi cardiaca originata da cause naturali”, “non precisata crisi cardiaca” o “acuta crisi respiratoria originata da cause naturali”. Il fatto che un’elevata percentuale di decessi sia attribuita a “disturbi cardiovascolari” rischia di oscurare l’altro fatto che un gran numero di decessi resta senza spiegazione. Questo è quanto indicano anche i dati provenienti dagli stati dell’Asia meridionale, dai quali arriva la maggioranza dei lavoratori in Qatar. Ad esempio, i dati ufficiali del Bangladesh mostrano che nel 71 per cento dei casi di connazionali morti in Qatar tra novembre 2016 e ottobre 2020 il decesso è stato attribuito a “cause naturali”. Un’indagine del Guardian ha rivelato che, nel 69 per cento dei casi di lavoratori provenienti da India, Nepal e Bangladesh tra il 2010 e il 2020, il decesso è stato attribuito a “cause naturali”. Uno dei principali rischi per la salute dei lavoratori migranti in Qatar, ampiamente documentato quanto prevedibile, è dato dall’esposizione a temperature estreme e a tassi elevati di umidità. Nel 2019 uno studio condotto dalla rivista Cardiology ha trovato una correlazione tra caldo e decessi di lavoratori nepalesi in Qatar e ha concluso che “almeno 200 dei 571 decessi per problemi cardiovascolari dal 2009 al 2017 avrebbero potuto essere evitati”. Fino a poco tempo fa la principale protezione contro i colpi di calore era il divieto di lavorare all’esterno in determinati orari, tra il 15 giugno e il 31 agosto. Nel maggio 2021, l’inizio del periodo è stato anticipato al 1° giugno e sono state introdotte due nuove misure: il divieto di lavorare all’esterno quando l’indice che misura caldo e umidità supera una determinata quota e il diritto dei lavoratori di fermarsi e presentare un reclamo al ministero per lo Sviluppo amministrativo e gli Affari sociali se temono un colpo di calore. Manca tuttavia ancora una misura fondamentale: periodi di riposo proporzionali alle condizioni climatiche e alla natura del lavoro. Il diritto dei lavoratori ad “autogestire” i ritmi di lavoro nella stagione calda, a causa dei rapporti di lavoro estremamente iniqui non risulta particolarmente utile. Le autorità del Qatar, uno degli stati più ricchi del mondo, hanno non solo tutte le possibilità ma anche l’obbligo di cambiare questa situazione. Amnesty International chiede loro di rafforzare le leggi sulla protezione dei lavoratori dalle temperature estreme introducendo periodi di pausa obbligatori e migliorando le procedure di indagine, di certificazione e di risarcimento per i decessi dei lavoratori migranti. *Portavoce di Amnesty International Italia