Emergenza carceri: la protesta riparte da Torino di Daniela Bezzi pressenza.com, 30 agosto 2021 Negli stessi giorni in cui su tutti i media del mondo cresceva la percezione dell’emergenza in Afghanistan, che solo poche ore fa è degenerata nell’ennesimo bagno di sangue con l’escalation che possiamo prevedere, è passata totalmente inosservata la protesta partita dal carcere di Torino per denunciare la situazione di insostenibile indecenza in molto carceri italiane, soprattutto per la popolazione carceraria femminile. A cominciare appunto dalla Casa Circondariale Lorusso e Cotugno del capoluogo piemontese, che i lettori di questa testata hanno imparato a poco a poco a conoscere e persino visualizzare, grazie alle numerose iniziative promosse durante tutto l’anno scorso e subito trasmesse in diretta su Facebook, dal Comitato delle Mamme in Piazza per la Libertà di Dissenso, in sostegno a un buon numero di militanti NoTav che sono stati o tuttora si trovano detenuti. Nicoletta Dosio, Dana Lauriola, Fabiola, Mattia, Giulia, nomi che a un certo punto sono diventati familiari ben oltre la Val di Susa e persino in Sicilia, grazie alla solidarietà orchestrata dalle donne della Biblioteca UDI di Palermo, in primis Daniela Dioguardi e Ketty Giannilivigni a pilotare con successo (in pieno lockdown!) una raccolta firma che ha poi influito sulla concessione dei domiciliari almeno per la Lauriola. Alla quale (è bene ricordare) è stata inflitta una pena di ben due anni, per il crimine di aver amplificato con un megafono il suo dissenso al progetto TAV durante una manifestazione che il movimentò inscenò nel 2012 su un tratto dell’autostrada Valsusina: un blocco dei tornelli che durò non più di una ventina di minuti, totalizzò una perdita obiettivamente modestissima per il gestore (qualche centinaio di Euro), ma che la Procura di Torino ha ritenuto meritevole di cotanta “esemplare” punizione. Ma sono tanti gli attivisti che come lei si trovano a scontare penalità esagerate per reati cosiddetti ‘bagatellari’. E in particolare per Fabiola De Costanzo, attivista torinese da sempre in prima fila nei presidi contro gli sfratti, molto attiva anche in ValSusa, dietro le sbarre dai primi di gennaio nonostante l’emergenza Covid, il cumulo di pene sarebbe di oltre 3 anni - per “bagatelle” motivate dal suo impegno nel sociale, dalla sua presenza in situazioni di abuso sul fronte dei diritti più fondamentali. E il carcere, soprattutto per le donne, è carcere duro, come ha ribadito un comunicato diffuso in data 15 agosto dal Garante delle persone private di libertà personale del Comune di Torino. “La situazione si presente problematica, come per tutte le altre sezioni femminili in Italia: su una capienza di 80 posti regolamentari, le donne sono circa 110 e soffrono di una serie di carenze specifiche (…) Dei 190 Istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale, soltanto 5 risultano riservati in via esclusiva alla detenzione femminile: Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli, Venezia Giudecca (…) Considerando la mascolinità dell’Istituzione penitenziaria, si può affermare che la detenzione femminile si configuri come un ‘carcere nel carcere’…” Insomma un’enclave, una ancor più intollerabile segregazione all’interno di strutture “pensate per i maschi e mal declinate al femminile”, così conclude il Garante auspicando una “diversa attenzione a favore delle donne che non può più attendere”. Una presa di posizione importante, a seguito del sopralluogo che era stato effettuato solo pochi giorni prima dalla radicale (ex deputata) Rita Bernardini, che confermava (semmai ce ne fosse bisogno) la totale legittimità dello “sciopero del carrello”, un eufemismo per dire “sciopero della fame”, annunciato nello stesso giorno di ferragosto, da una letterina scritto a mano da una sfilza di detenute e detenuti, ben tre pagine di nominativi fittamente elencati per nome e cognome, non poche quelli italiani accanto agli stranieri, tutti uniti nella stessa protesta: denuncia degli spazi inadeguati del sistema carcerario italiano, sempre più oberato dall’inasprirsi delle pene; urgenza sempre più sentita di “appoggiare le proposte del Partito Radicale e altre Associazioni in termini di Indulto, Amnistia, Riforma carceraria…”, gli stessi temi che già erano stati sollevati con la massima energia durante la detenzione di Nicoletta Dosio due anni fa, che il Movimento NoTav non perde occasione di ribadire, sottolineando la sproporzione delle pene inflitte rispetto a reati inesistenti o per l’appunto “d’opinione” - e l’utilizzo indiscriminato del carcere, come risposta alle crescenti emergenze sul fronte sociale. A conclusione di questa settimana di “sciopero del carrello” ovvero “della fame” - completamente oscurato purtroppo sul piano mediatico dalla coincidenza con l’escalation di emergenza in Afghanistan - ecco scendere in campo, nel pomeriggio del 26 agosto, anche le Mamme in Piazza per la Libertà del Dissenso, come sempre attrezzate di microfono, altoparlante, telefonini per diffondere in tempo reale le loro grida di solidarietà ai detenuti, da quello scenario di desolazione che circonda il Carcere delle Vallette. “Fabiolaaaa… alloraaa… siamo giunte ad agosto… e siamo tornateee… in Presidiooo… con le Mamme in Piazzaaa… per la Libertà di Dissensooo… siamo qui oggi, per farvi sentire la nostra vicinanza… per portarvi tutto il sostegno di cui avete bisogno… per ribadire l’ingiustizia cui siete sottoposti… per aggiungere la nostra vicinanza al vostro coraggio”. Parole chissà quante volte scandite, anzi urlate, da quello stesso marciapiede, nel caldo afoso di un giovedì di fine agosto, con le telecamere delle Forze dell’Ordine puntate addosso - che si sono concluse con la dolente commemorazione dalla morte del ragazzo Renato Biagetti, “ucciso dalle luride lame fasciste proprio nelle prime ore del 27 agosto del 2016, ovvero 15 anni fa oggi.” Alla madre di Renato, Stefania Zuccari, e alle Madres romane che in tutti questi anni si sono strette intorno al suo dolore nel “Comitato Roma Città Aperta”, sono andati i saluti finali del Presidio. Il tutto è stato postato in tempo reale sulla pagina Facebook delle Mamme torinesi, che come sempre ringraziamo per la loro presenza e impegno di continuità, su un fronte come l’emergenza carceraria che è così facile dimenticare. Riforma Cartabia, in nome del popolo italiano? di Concetta Guarino Left, 30 agosto 2021 Sorge il dubbio atroce che si stia perpetrando una riforma sostanziale della Costituzione, per di più attraverso una legge ordinaria. Il popolo sovrano è stato sufficientemente, correttamente, onestamente informato di tutto ciò? “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti solo alla legge”. Così recita l’art 101 della nostra Costituzione, affermando il principio fondamentale che il popolo, inteso come Stato comunità, è fonte di legittimazione di tutte le funzioni che lo stesso esercita in suo nome. A riprova di ciò, in un momento solenne del processo penale, il presidente del tribunale giudicante, prima di dare lettura del dispositivo pronuncia la frase di rito: “In nome del popolo italiano”. Il legame tra il popolo ed i giudici, si esprime nel principio di legalità: i giudici sono soggetti solo alle leggi, leggi votate in parlamento, organo espressione della volontà popolare. Questo però presuppone che il “popolo” cui appartiene la sovranità, sappia di cosa si discute, sia correttamente e onestamente informato del contenuto delle leggi che in suo nome si approvano. Di recente, come in tantissime altre occasioni, non è stato così. La cosiddetta riforma Cartabia approvata il 3 agosto alla Camera (e al voto in settembre al Senato, alla riapertura dei lavori parlamentari), è stata preceduta, salvo rare eccezioni, da informazioni fuorvianti, mendaci e ingannevoli. È amaro constatare che il diritto ad una informazione indipendente, affievolisce ogni giorno e poche sono rimaste le voci libere. “La riforma Cartabia ha l’obiettivo di ridurre i tempi della giustizia eliminando le zone di impunità” è stato il ritornello snervante, ripetuto centinaia di volte attraverso la stampa, la televisione ed i mezzi telematici, salvo rare, rarissime, pregevoli eccezioni. Chi ascolta deve per forza convincersi che sia un’ottima riforma, che oltretutto, permette di accedere ai fondi del Pnrr, promessi solo in cambio, tra l’altro, della riduzione del 25% dei tempi biblici della giustizia. In realtà il messaggio lanciato ripetutamente appare fuorviante, perché il risultato finale non sarà una giustizia più veloce, sarà, invece, una giustizia che si limiterà solo a ridurre il numero dei processi pendenti presso le Corti d’Appello e in Cassazione, con esclusivo beneficio della statistica, ma senza una corrispondente risposta di giustizia: risposta che, sola, interessa al “popolo”. L’introduzione della cosiddetta prescrizione del processo, pur con l’esclusione di alcuni reati a maggior impatto sociale e la previsione di un periodo di transizione per il suo pieno regime e peraltro neppure accompagnata da una consistente depenalizzazione e contestuale valorizzazione dei riti alternativi, condurrà ad un sostanziale allargamento delle zone di impunità per la maggior parte dei reati. Le Corti d’Appello e la Cassazione subiranno un vertiginoso aumento delle pendenze, perché, tutti, sperando nella declaratoria di improcedibilità, che, peraltro vanifica il principio costituzionale dell’azione penale pubblica e obbligatoria fino alla sentenza di merito, saranno invogliati a proporre impugnazioni con fini dilatori e infondate. Né va tralasciata un’ulteriore considerazione: il processo in caso, di superamento dei termini di durata massima del procedimento penale, si chiuderà con uno stampato che dichiarerà l’improcedibilità, vanificando oltre alle attese di giustizia delle parti lese, anni di attività di indagini volte alla ricostruzione delle vicende e all’individuazione dei colpevoli espletate dalla Polizia giudiziaria e dal Pm, nonché quelle dibattimentali dei tribunali: anni di lavoro sprecati, per non parlare dell’enorme dispendio economico. Forse sarebbe stata preferibile un’amnistia, ma quest’ultima prevede un termine con riferimento alla data del commesso reato e la riforma Cartabia opera invece indiscriminatamente, anche per il futuro: un autentico regalo per chi progetta reati confidando nei ritardi della giustizia. Per non parlare poi, a proposito delle vistose distorsioni della Carta Costituzionale, dell’introduzione nell’ordinamento di una previsione finalizzata a limitare la discrezionalità delle procure nel selezionare le notizie di reato cui attribuire una trattazione prioritaria. La Costituzione all’art 112 dispone l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale da parte del Pm, ogni qualvolta gli perviene una notizia di reato che sia sufficientemente supportata da elementi di prova che ne escludono l’archiviazione. Ora è chiaro che la selezione da parte delle procure in parte avviene già per problemi organizzativi degli uffici giudiziari o per problemi emergenziali, ma ancorare le azioni dei giudici ai “criteri generali indicati con legge dal Parlamento” significa orientare la funzione giurisdizionale a seconda delle scelte valoriali, che tra l’altro cambiano a seconda delle maggioranze politiche sedute in parlamento e alle loro idee in tema di politica criminale. Ci sembra un clamoroso passo indietro, un’assurda involuzione. In un periodo storico non molto lontano, quando un regime liberticida barbaramente calpestava tutti i diritti dell’individuo, la magistratura non era organo indipendente, ma dipendeva dal capo del governo. Il legislatore costituente per scongiurare il pericolo che ciò che era accaduto nei venti anni precedenti, potesse anche solo palesarsi all’orizzonte, rese il promovimento dell’azione penale obbligatorio come corollario del principio di uguaglianza. Ci sorge il dubbio atroce che si stia perpetrando una riforma sostanziale della Costituzione, per di più attraverso una legge ordinaria. Il popolo sovrano è stato sufficientemente, correttamente, onestamente informato di tutto ciò? A noi, purtroppo, pare di no e tempi duri per la giustizia si affacciano all’orizzonte. Reati, fuochi d’artificio con effetto minimalista di Marino Longoni Italia Oggi, 30 agosto 2021 Si introduce nel nostro ordinamento penale una novità piuttosto pesante: anche le contravvenzioni possono diventare reato presupposto per l’applicazione delle regole in materia di riciclaggio e autoriciclaggio. Di fatto, a comportamenti colposi si andrebbero ad applicare sanzioni previste per comportamenti dolosi. Ma solo in teoria. Con il decreto legislativo di recepimento di una direttiva comunitaria, già approvato dal Consiglio dei ministri e ora all’esame delle commissioni parlamentari competenti, si introduce nel nostro ordinamento penale una novità piuttosto pesante: anche le contravvenzioni, infatti, possono diventare reato presupposto per l’applicazione delle regole penali in materia di riciclaggio e autoriciclaggio. Di fatto, a comportamenti colposi si andrebbero ad applicare sanzioni previste per comportamenti dolosi. In teoria. Perché concretamente le fattispecie che verrebbero concretamente colpite da queste innovazioni sono decisamente poche e del tutto marginali. Parliamo infatti di reati come la fabbricazione o il commercio abusivi di materie esplodenti, la detenzione abusiva di precursori di esplosivi, la fabbricazione o commercio non autorizzati di armi, la vendita ambulante di armi, la distruzione o deterioramento di habitat all’interno di un sito protetto e simili amenità. Forse più significative le fattispecie del porto abusivo di armi e del possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli, oltre alcuni reati relativi all’applicazione in Italia della convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione. Altro non è stato possibile rintracciare, con una pur minuziosa ricognizione del codice penale e delle leggi collegate. Per l’applicazione delle regole antiriciclaggio è infatti necessario che il reato contravvenzionale sia punito almeno con la pena dell’arresto superiore nel massimo a un anno o nel minimo a sei mesi, mentre la maggior parte di fattispecie concretamente più importanti, come i reati ambientali e della sicurezza sul lavoro, sono punite con sanzioni pecuniarie. Quindi pare proprio che la montagna abbia partorito il classico topolino. Ma, tutto sommato, forse è meglio così. Perché le sanzioni previste in materia di riciclaggio e autoriciclaggio sono particolarmente severe, anche perché originariamente erano state previste per reati particolarmente gravi, poi allargate ad un numero sempre più ampio di fattispecie (da ultimo anche l’evasione fiscale). Ampliarle ulteriormente anche a comportamenti non dolosi, tutto sommato di una gravità decisamente minore, significherebbe utilizzare il classico bazooka per colpire qualche zanzara. Fastidiosa, sicuramente, ma si rischia di creare danni ancora peggiori. No? Giustizia civile in cerca di sprint di Alberto Grifone Italia Oggi, 30 agosto 2021 L’Europa l’ha detto chiaro e tondo: dobbiamo migliorare la giustizia, renderla certa e veloce. Ma le scelte fin qui fatte, con interventi sulla procedura non convincono gli esperti di contenzioso. Occorre investire in personale a tutti i livelli. Insomma, il progetto di riforma Cartabia non convince a fondo. Si tenta, ancora una volta, di intervenire sulle regole del processo, nell’assunto che una riduzione del numero delle udienze o anche solo di un atto processuale, possa ridurre i tempi del processo. “Ogni operatore del settore è ben cosciente che le lungaggini del processo civile siano addebitabili nella loro sostanziale totalità, in generale, al rapporto tra giudizi pendenti e numero di giudici e all’organizzazione del singolo ufficio giudiziario; a tale ultimo proposito, non si spiegherebbe, altrimenti, come mai, a parità di regole, un processo civile dinanzi il Tribunale di Aosta abbia avuto nel 2018 una durata media di 160 giorni, mentre lo stesso processo civile, dinanzi il Tribunale di Patti, abbia avuto una durata media, sempre nel 2018, di 938 giorni”, attacca Daniele Geronzi, partner di Legance - Avvocati Associati. “Evidentemente, il problema non risiede nelle regole del processo (sebbene sempre perfettibili), bensì nella capacità dei Tribunali (intendendo, in primis, i giudici ma anche i loro ausiliari) di gestire i giudizi pendenti. Sul fronte deflattivo del contenzioso, il progetto di riforma presenta, in effetti, degli spunti utili, ad esempio intensificando il regime delle sanzioni, in caso di liti temerarie”. In effetti, anche considerata la ritrosia dei giudici ad applicare siffatte sanzioni, un più efficace intervento deflattivo sarebbe stato rappresentato da una modifica delle regole di liquidazione delle spese legali, prevedendo che il giudice debba liquidare alla parte vittoriosa i costi effettivamente sostenuti (così come accade ad esempio in Gran Bretagna e Stati Uniti) e non una irrisoria porzione degli stessi. “La riforma è evidentemente destinata a produrre ben pochi risultati, se non accompagnata da un significativo investimento economico in termini di risorse umane e materiali; c’è anzi il rischio che, in assenza di interventi di tale natura, la riforma appaia persino dannosa. Alcune previsioni sono positive; penso agli incentivi al ricorso alle notifiche mediante pec, imponendole nei confronti dei soggetti che risultino obbligati ad avere una casella di posta elettronica certificata e l’implementazione del processo telematico, prevedendo il deposito solo telematico degli atti e dei documenti (art. 12) L’introduzione della figura dell’avvocato istruttore desta perplessità: se da un lato l’esperienza insegna che un maggiore coinvolgimento dei legali in alcune attività istruttorie possa in effetti determinare una qualche semplificazione, dall’altro si prevede che in caso di contestazioni debba essere il giudice ad intervenire. È dunque probabile che, anche in ragione di scelte strategiche o anche meramente strumentali o defatigatorie dei legali coinvolti, l’attività istruttoria debba essere svolta due volte, prima dai legali, poi dal giudice”. Secondo Laura Salvaneschi, partner di Bonelli Erede “per restituire efficienza al processo civile, riconducendone i tempi a “ragionevole durata”, servono importanti interventi organizzativi e una forte implementazione delle risorse più che modifiche della disciplina processuale. Servono misure organizzative drastiche di accrescimento degli organici della magistratura e di riorganizzazione del sistema, anche attraverso la digitalizzazione del processo. La riforma contiene norme di organizzazione, come l’implementazione dell’Ufficio del processo, che già ha dato buoni risultati sperimentali presso gli uffici giudiziari in cui è stato istituito. Occorre agire massicciamente sull’organizzazione della giustizia più che sulle norme. L’unico modo per accelerare la trattazione delle cause rilevanti è il rafforzamento dell’apparato giudiziario e il corredo amministrativo di cui si avvale. È difficile ipotizzare corsie diverse a seconda della rilevanza della causa, perché ogni causa merita di essere trattata in un tempo ragionevole”. Per Decio Mattei, partner del dipartimento Contenzioso e arbitrati dello studio legale internazionale Gianni & Origoni “la riforma si pone un obiettivo condivisibile. Tuttavia, gli strumenti che la riforma propone lasciano spazio a taluni dubbi e perplessità applicative. Mi riferisco al nuovo rito introdotto per il processo civile che sostanzialmente ricalca il processo attuale del lavoro, le cui preclusioni e decadenze rischiano di penalizzare le difese. Il tutto senza alcun reale beneficio sulla durata dei processi. Penso poi alla tendenza ad eliminare le udienze in presenza, privilegiando, a discrezione del giudice, il collegamento video o la trattazione scritta. La discussione orale, nella dialettica delle parti, è a mio avviso essenziale, consente il reale e concreto confronto tra le parti e può aversi solo nel contesto dell’udienza. Le udienze in collegamento video potrebbero essere un buon compromesso, ma sarebbero da prevedere come unica modalità alternativa alle udienze in presenza. Spesso le note di trattazione somigliano a memorie difensive, finendo per moltiplicare gli atti del giudizio, anziché semplificarlo. Il problema delle lungaggini del processo civile non si risolve di certo eliminando le udienze di presenza e sostituendole con le udienze di trattazione scritta o tramite videoconferenze. A mio avviso, i problemi principali sono le liti di modico valore o infondate e l’organizzazione degli uffici giudiziari. Sono utili gli incentivi fiscali, i crediti di imposta e l’accesso al gratuito patrocinio previsti dall’emendamento proposto dal Governo all’art. 2 del ddl n. 1662. In passato, il legislatore aveva individuato un modello procedimentale che avrebbe garantito maggiore speditezza, modello sperimentato nel c.d. rito societario che, avrebbe poi dovuto essere esteso anche ad altre controversie”. Secondo Guido Canale ordinario di diritto processuale civile nella Università del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro - Facoltà di Giurisprudenza - sede di Alessandria e socio equity di Weigmann Studio legale, “il progetto di riforma è l’ennesimo tentativo di migliorare l’efficienza del processo civile. La novità più rilevante e positiva è l’ufficio del processo; una struttura dedicata alla preparazione del processo che aiuterebbe, senza dubbio, a sollevare i giudici da varie attività preparatorie per potersi maggiormente dedicare al vero e proprio processo. Il punto principale è dedicare maggiori risorse alla giustizia; modernizzarne la struttura e renderla efficiente sotto tutti i punti di vista, anche quello digitale. il principale nodo è il miglioramento della struttura organizzativa; ciò significa destinare risorse per aumentare l’organico dei magistrati, all’evidenza carente rispetto all’abnorme numero di processi esistente e all’arretrato; aumentare l’organico del personale di cancelleria; migliorare l’informatizzazione dei tribunali. Le modifiche sul rito sono, nella sostanza, irrilevanti se non negative, aumentando i margini di dubbia interpretazione di nuove norme”. Giudizio solo parzialmente positivo per Paolo Flavio Mondini, partner di Mondini Bonora Ginevra Studio Legale e professore associato di Diritto commerciale e di Diritto bancario e finanziario all’Università Cattolica del Sacro Cuore - Piacenza. “Pur a fronte di alcuni interventi apprezzabili, l’impressione generale è che si persegua il condivisibile obiettivo della riduzione dei tempi della giustizia con la compressione dei tempi di difesa e l’introduzione di ulteriori preclusioni e decadenze per le parti e i loro legali. Ciò che penalizza il nostro sistema è il ridotto numero dei giudici e del personale amministrativo in proporzione alla popolazione e al numero di avvocati. Il problema è il carico del ruolo dei singoli giudici. In questo senso l’ufficio del processo è un aiuto concreto per i giudici, destinati altrimenti ad occuparsi anche di questioni a ridotto valore aggiunto. Uno strumento che si è rivelato molto efficiente è la creazione di sezioni specializzate per materie, quanto meno nei Tribunali di maggiori dimensioni, a patto di eliminare la follia dell’applicazione dell’obbligo di rotazione decennale anche per questi magistrati. In un’azienda Lei costringerebbe il Suo dipendente, che ha acquisito dieci anni di esperienza per esempio nel settore contabilità, a ripartire da zero nel settore commerciale o nel settore del controllo della produzione?”. “È necessaria la riorganizzazione interna, con un incremento dell’organico e l’attuazione dell’Ufficio del processo. La parte strettamente processuale che riguarda il nuovo sistema di preclusioni e decadenze è discutibile dato che è strettamente collegata alla questione del giusto processo” chiosa Margherita Grassi Catapano fondatrice WLex. “Per accelerare la trattazione delle cause rilevanti e bloccare le lungaggini di quelle meno significative si potrebbe ipotizzare un sistema di preclusioni e decadenze per le meno significative, quindi, dopo il deposito dei primi due atti, contenenti tutte le difese, prevedere la fissazione di un’udienza di comparizione personale delle parti per trovare un accordo (fiscalmente esente). In caso di mancato accordo emettere un provvedimento immediato. Per le cause più rilevanti i giudici potrebbero prevedere un calendario ad hoc con corsie preferenziali e tempi molto rapidi di trattazione. Comprendo le prese di posizione contro la riforma e in parte le condivido. La riforma non prende in considerazione il ruolo fondamentale che ha l’avvocato nell’ambito del processo, essendo un attore dello stesso e una guida per il proprio assistito. Quindi sì velocità ma non a tutti i costi”. “La soluzione per risolvere il problema della durata dei processi non deve essere ricercata nel codice di rito, ma nell’organizzazione della Giustizia. Non è aumentando i costi di accesso alla giustizia, riducendo il numero delle udienze, sommarizzando l’istruttoria o riempiendo il processo di trappole che si riduce la durata di un giudizio. Se non si interviene sulla distribuzione dei carichi dei magistrati e sui processi interni delle Corti e dei relativi uffici giudiziari, la macchina giudiziaria si ingolferà sempre perché, prima o dopo, il Giudice dovrà affrontare il fascicolo, tirare le somme dell’istruttoria, nonché decidere e scrivere il provvedimento. Nell’ultima riforma c’è un elemento di novità che deve essere valorizzato: il potenziamento degli Uffici per il Processo, nell’ottica di fornire al Giudice un supporto tecnico e organizzativo nell’esecuzione della propria attività. Vedremo in concreto come questo strumento sarà attuato (senza un potere gerarchico o disciplinare del magistrato sarà difficile che possa funzionare); questa potrebbe essere la vera “buona nuova”. Per rendersi conto che un processo giurisdizionale può funzionare celermente, basta osservare come nella giustizia amministrativa, in materia di appalti, i tempi di attesa per la decisione sulle domande cautelari, presenti nel 99% dei giudizi, è di un solo giorno ed entrambi i gradi del processo vengono definiti in massimo due anni. Sul resto dovremo attendere la prova dei fatti e valutare l’effetto sul sistema dell’Ufficio per il processo” dichiara Jacopo Polinari dello Studio Lipani Catricalà & Partners. “Pensare di bloccare le lungaggini delle cause meno significative per accelerare quelle più rilevanti presuppone delle scelte di fondo che possono incidere negativamente sull’effettività della tutela. La risposta non è tanto nel rito quanto nell’organizzazione della giustizia e degli uffici. Si dovrebbe ampliare il limite di competenza per materia e valore del Giudice di pace e l’esclusione dell’appello per la maggior parte delle cause attribuite a quest’ultimo, ma con l’accortezza di prevedere disincentivi al ricorso per Cassazione, inasprendo le sanzioni per il caso di integrale conferma della sentenza. Sarebbe, poi, utile responsabilizzare maggiormente gli avvocati, ma questo è un altro tema”. “Il problema dell’efficienza della giustizia continua a essere affrontato solo cambiando alcune regole di procedura. Non si affronta il tema principale, quello del rapporto tra domanda e offerta di giustizia. La seconda non è adeguata alla prima. Senza un intervento sulle risorse umane non credo l’ennesima modifica della procedura apporti benefici decisivi. Sul lato della domanda di giustizia occorre scoraggiare con decisione la conduzione di contenziosi palesemente infondati” ricorda Luca Minoli, partner di Gattai, Minoli, Partners. “L’intervento deve essere anzitutto sulle risorse: più giudici e personale. Con organici adeguati nel numero e nelle competenze, andrebbero abolite udienze che fungono da inutile collo di bottiglia, come quella per la precisazione delle conclusioni. Comprendo le prese di posizione avanzate contro da Uncc, Ocf e Cnf: occorrerà vedere come il Legislatore saprà implementare quelle che oggi sono mere linee guida contenute nel ddl. Nel definire le regole di dettaglio, sarà possibile integrare e migliorare l’attuale impianto preliminare della riforma”. Per Francesca Gesualdi di Cleary Gottlieb “L’ambizioso e articolato progetto di riforma Cartabia vuole abbattere del 40% la durata dei processi civili, secondo gli impegni assunti dal governo nell’ambito del Pnrr. È significativo e positivo che il progetto intervenga non soltanto sui riti civili, ma anche sull’organizzazione degli uffici giudiziari, sulla digitalizzazione. L’esperienza dimostra che l’arretrato civile dipende soltanto in parte dal rito, e di questo il progetto di riforma si mostra consapevole. La riforma è stata oggetto di alcuni rilievi critici, come il rischio che le esigenze di speditezza si traducano in una potenziale compressione del diritto di difesa. Il tempo dirà chi ha ragione. Credo occorra ragionare al di fuori degli schemi tradizionali e interpretare la giustizia civile in maniera più moderna. La riforma eviterà molti giudizi inutili, spingendo tutti gli avvocati a fare un diligente lavoro di esame e istruttoria ancor prima di promuovere una causa. Nessuna riforma è perfetta, occorre un cambio di passo, anche a costo di qualche sacrificio”. “L’obiettivo di ridurre e semplificare i riti, eliminando i “tempi morti” del processo, è positivo. Resta da capire come la razionalizzazione del sistema verrà perseguito. Se non sarà affiancata da una razionalizzazione dell’organico giudiziario (non necessariamente prevedere un aumento dello stesso), risulterà molto meno efficace” dicono Alessandro Villani, partner, e Loris Bovo, partner Dispute Resolution di Linklaters. “Le misure per accelerare i procedimenti sono molte: l’eliminazione dei tempi morti del processo, l’uso della tecnologia, l’introduzione di reali deterrenti rispetto ad iniziative pretestuose e la razionalizzazione dell’organizzazione giudiziaria. È innovativa l’idea di ampliare le funzioni dell’ufficio per il processo che potrebbe tradursi in una gestione manageriale del processo stesso, verificando il rispetto di preclusioni e tempistiche”. Da’ un giudizio positivo Giuseppe La Scala, senior partner di La Scala Società tra Avvocati per il quale “l’intervento sul processo civile è ispirato al principio di concentrazione della dialettica processuale. Occorre incentivare da parte della magistratura un uso proattivo, efficientista e non svilito degli strumenti che sono e saranno a disposizione per rendere più rapide le dinamiche processuali. Gli avvocati hanno le loro responsabilità. Ma non vi è tattica dilatoria che tenga se il giudice, che dirige il processo, lo guida in modo deciso verso la sua conclusione, senza indulgere in passaggi inutili. Certo che se - come ricordava Alessandro De Nicola - il 98% dei magistrati ottiene oggi (dai propri organismi di verifica) una valutazione periodica positiva, è evidente che si tratta di cambiare radicalmente mentalità. Io comprendo la preoccupazione di chi teme che il principio di rapidità e concentrazione si trasformi in un percorso ad ostacoli, costellato di tagliole e decadenze inutilmente gravatorie. Ciò dovrà essere evitato con il richiamo esplicito a principi processuali che tutelino effettività e sostanza degli atti. Ma gli avvocati devono garantire una classe forense competente e capace di fare le cose bene, rapidamente e nel rispetto della legge”. Gli fa eco Manuela Grassi, equity partner di Pedersoli Studio Legale ed esperta in contezioso arbitrale e giudiziale per la quale si tratta”un progetto ambizioso. Ogni giorno i nostri clienti chiedono celerità e certezza. Se è vero che la principale esigenza di riforma riguarda i tempi della celebrazione dei processi, vi è una convinzione diffusa del fatto che per varare una riforma organica le modifiche legislative non possono riguardare esclusivamente il rito, ma devono toccare l’intera struttura del processo. Penso all’assunzione del processo digitale come regola in ogni stato e grado e alla piena implementazione dell’ufficio del processo (assunzione a tempo determinato di 16.500 laureati per rafforzare l’ufficio del processo capace a mio avviso di attirare giovani di valore). Molto dipende dai giudici e dalle loro capacità di direzione del processo: si potrebbero valorizzare e incentivare istituti già presenti nel codice di rito, ancora sotto-utilizzati (l’ordinanza ex art.186-quater c.p.c. di condanna, successiva alla chiusura dell’istruttoria, nei limiti in cui si ritiene già raggiunta la prova). Quanto al ruolo di noi avvocati, condivisibile l’accento posto dalla riforma sulla necessità di rafforzare i doveri di leale collaborazione delle parti. Non credo che la mera contrazione delle fasi del procedimento sia la panacea dei difetti del nostro processo. Ogni intervento che limiti la libertà di difesa delle parti deve essere attentamente valutato ove non chiaramente strumentale a fare emergere in modo più efficace la verità sostanziale”. “Noto che si tratta di un disegno di legge delega, il che vuol dire che essa conterrà la cornice di principio, ossia le norme generali, alle quali poi il legislatore delegato (l’Esecutivo) dovrà attenersi nella emanazione dei cosiddetti decreti delegati, nei quali potranno entrare le novità processuali più incisive. Il giudizio generale è lungi da trionfalismi: andranno analizzati i risultati finali contenuti nei decreti delegati del governo e va poi aggiunta la considerazione che è proprio la macchina della Giustizia, la maggiore resistenza alla effettiva innovazione. Tutti auspichiamo che questa riforma possa segnare la svolta; i suoi effetti si potranno vedere solo sul lungo termine, naturalmente” sottolinea Riccardo Troiano, partner e head of the Complex litigation & dispute resolution group di Orrick Italy. “La soluzione che si è adottata fino ad oggi è senz’altro quella di costituire delle Sezioni Specializzate per materie specifiche, quelle materie che raccolgono il maggior numero delle controversie c.d. rilevanti, la cui sorte interessa maggiormente le imprese e il mondo produttivo in generale. Rafforzare, oltre che queste, anche le Sezioni competenti per le procedure Esecutive, che sono quelle che assicurano particolarmente la tutela effettiva del credito, rappresenterebbe un sicuro rimedio ai problemi che i creditori incontrano quotidianamente rispetto ai loro diritti già accertati in sede giudiziaria”. Infine per Alberto Antonucci dello studio Leading Law “l’impressione è che non siano state pienamente considerate le osservazioni e le proposte dell’avvocatura che, quotidianamente, affronta innumerevoli difficoltà nello svolgimento della propria attività. Le proposte formulate non sono nuove e richiamano situazioni già in essere per i procedimenti sorretti dal rito del lavoro. Al di là del valore economico di ogni lite che è sempre rilevante per i soggetti coinvolti, l’accelerazione della trattazione può avvenire con la previsione di una semplificazione dell’attività istruttoria e con la previsione di precisi termini per le parti e per il giudice. È significativo che tutte le associazioni abbiano espresso critiche che in gran parte condivido”. Contro le liti civili temerarie sanzioni pecuniarie equitative di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2021 Mediazioni obbligatorie disertate. Proposte conciliative o inviti alla negoziazione assistita non considerati. Ricorsi per Cassazione che ricalcano i motivi respinti in appello. Ipoteche iscritte per crediti inesistenti. Sono alcune delle liti temerarie che fanno lievitare la mole dei procedimenti pendenti rallentando i tempi della giustizia. Ma che i giudici, sempre più sovente, sanzionano. Responsabilità aggravata - Per scoraggiare l’abuso del processo, l’articolo 96 del Codice di procedura civile disciplina la responsabilità processuale aggravata, stabilendo che il giudice possa condannare a risarcire i danni la parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (comma 1) o chi abbia eseguito un provvedimento cautelare, trascritto una domanda, iscritto un’ipoteca giudiziale o avviato l’esecuzione forzata in base a un diritto inesistente (comma 2). Sempre l’articolo 96 del Codice di procedura civile, al comma 3, stabilisce che quando il giudice si pronuncia sulle spese può condannare anche d’ufficio la parte soccombente a pagare alla controparte una somma di denaro equitativamente determinata. In quest’ultima ipotesi, però, la sanzione scatta a prescindere dal dolo o dalla colpa grave a fronte di un contegno oggettivamente valutabile come abuso del processo. Proprio il comma 3 è oggetto di alcune proposte di modifica, presentate dal Governo al Ddl delega sul processo civile, che aspetta di riprendere l’esame in commissione Giustizia al Senato: il testo è all’ordine del giorno della seduta di domani (ma nell’esame potrebbe essere preceduto dalla riforma penale, già approvata alla Camera, e dal decreto legge sulla crisi d’impresa). In particolare, l’emendamento del Governo prevede di circoscrivere l’applicazione del comma 3 dell’articolo 96 alle parti soccombenti che hanno agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (con sanzioni pecuniarie fino al doppio delle spese liquidate e, a favore della cassa ammende, non superiore a cinque volte il contributo unificato). Novità contestate dagli avvocati, tanto che la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha annunciato di essere pronta a ritirare l’emendamento, pur affermando che su questo si è creato un equivoco, dato che “mirava a limitare la discrezionalità del giudice”. I casi - Spesso la responsabilità processuale aggravata è legata al rifiuto dei percorsi alternativi di risoluzione delle controversie. Così, ad esempio, è stata condannata a pagare la somma individuata dal giudice in un importo pari alle spese liquidate la parte che ha mancato di riscontrare quattro raccomandate di controparte, tra cui l’invito alla negoziazione assistita (Tribunale di Napoli, 5002/2021). Analogamente, è stata condannata a pagare una somma pari al compenso di causa liquidato anche la parte che - seppure non sia tenuta ad accogliere la proposta di conciliazione formulata dal giudice - non la prenda neanche in considerazione, assuma un atteggiamento di totale disinteresse o la rifiuti irragionevolmente (Tribunale di Roma, 9386/2021). E il Tribunale di Perugia (sentenza del 4 maggio 2021) ha condannato a pagare alla cassa delle ammende una somma pari al contributo unificato il convenuto alla mediazione obbligatorio che si rifiuta di intessere una discussione spegnendo sul nascere ogni possibilità di confronto, come se avesse disertato l’incontro. Rientra, inoltre, nel perimetro dell’articolo 96 intraprendere la via forzata iscrivendo un’ipoteca giudiziaria muniti di decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo emesso per un credito inesistente (Tribunale di Torino, 1335/2021). Ed è abuso del processo formulare un ricorso per cassazione impostato su motivi palesemente infondati poiché ripetitivi di tesi già confutate in appello (Cassazione, 11229/2021). Intervista al giudice Roia. “Non solo stalking: addio arresti anche per spaccio e frodi” di Marco Pasciuti Il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2021 Il giudice sui referendum. “Non riesco a capire come un problema così macroscopico possa essere sfuggito”. Fabio Roia è presidente vicario del Tribunale di Milano, dove è a capo della sezione Misure di prevenzione. Il problema è che Il quinto quesito del referendum sulla giustizia proposto da Lega e Radicali prevede di abolire le misure cautelari, nonostante il pericolo di reiterazione del reato, nei confronti di persone sospettate di aver compiuto reati che non prevedono la violenza fisica con l’uso di armi o simili. Telefono Rosa e il ministro Mara Carfagna, che è stata promotrice e sua prima firmataria nel 2009, dicono che depotenzia la legge sullo stalking. “Premetto - dice Roia, esperto di reati di genere e Consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio -: se c’è una volontà referendaria che va in questo senso, i magistrati la rispetteranno. Ma credo sia doveroso avvertire delle conseguenze”. I promotori dicono di voler limitare gli abusi nell’applicazione della custodia cautelare... Se il quesito dovesse passare, la si potrebbe disporre qualora vi sia un pericolo di violenza alla persona messa in atto o con armi o con mezzi violenti. Quindi c’è un richiamo solo alla violenza fisica. Ma lo stalking non è basato su quest’ultima. Tanto per restare ai reati di genere, resterebbero fuori tutte le attività, forse la maggior parte, che riguardano la violenza psicologica o morale, tipo le minacce o le molestie che sono una delle caratteristiche fondanti del reato, nonché dei maltrattamenti di familiari e conviventi, nonché le violenze sessuali commesse approfittando dell’incoscienza della persona. Quando si dà alcol o di droga a una ragazza e si abusa di lei... È un reato in cui se non ci sono le altre due condizioni - il pericolo di fuga o quello di inquinamento delle prove - le misure restrittive non possono essere più applicate. L’onorevole Carfagna ha fatto bene a puntare l’attenzione sullo stalking, ma non è il solo caso. Le parlo di quello che vediamo tutti i giorni nelle aule di giustizia. Il quesito toglie una delle condizioni più frequenti per l’applicazione di misure limitative della libertà, che non sono solo la custodia in carcere ma anche gli arresti domiciliari. Ma questo ciò per tutta una serie di reati che non comprendono un’aggressione fisica o l’uso di mezzi violenti, ma che sono comunque gravi. Qualche esempio? Nel caso dello spacciatore, piccolo o grande, non c’è un rischio di inquinamento probatorio o di fuga. Ciò che mi porta ad applicare una misura - i domiciliari per il primo e il carcere per il secondo - è proprio la reiterazione del reato. Che già oggi la legge mi impone di motivare. Una legge che verrebbe spazzata via dal referendum. È un tipo di reato con cui la gente è a contatto perché magari ce l’ha sul marciapiede sotto casa... Certo, la custodia serve proprio a impedire che si continui a spacciare e lo spaccio non si realizza attraverso atti violenti contro la persona. Un altro esempio è il furto in abitazione. Se passasse il referendum non potrebbe essere applicata nessuna misura cautelare perché non c’è un pericolo di reiterazione del reato basato sulla violenza, in quanto 9 volte su 10 il furto avviene in assenza dei proprietari. E in questo caso non sussistono i pericoli di fuga né di inquinamento delle prove. E poi arriviamo ai reati di frode fiscale o alle gravi bancarotte fraudolente. Anche quelli? Se non c’è un rischio di inquinamento o di fuga, ma solo di reiterazione- abbiamo a che fare con soggetti che hanno sviluppato una professionalità nell’emissione di fatture per operazioni inesistenti o la costruzione di frodi a carosello - io non posso più dare alcun tipo di misura cautelare. Sembra di capire che la modifica ricadrebbe sulla sicurezza dei cittadini... L’effetto del quesito sarebbe devastante per la sicurezza pubblica perché finirebbe per depotenziare moltissimo gli strumenti di controllo. E non vorrei che tutto ciò finisse per essere scaricato sui magistrati. In che senso? Le misure cautelari vengono sempre date con estrema prudenza. Nel caso dell’omicidio di Vanessa (26 anni, uccisa ad Aci Trezza la notte del 23 agosto, ndr) una delle accuse che vengono mosse al giudice è di non aver dato all’assassino alcuna misura gravosa. Ecco, noi già oggi nel caso di un piccolo spacciatore non possiamo applicare alcuna misura efficace sul piano del contenimento perché magari costui non ha una casa e, invece del carcere, dobbiamo dargli l’obbligo di firma. Se passasse il quesito non potrei fare neanche più questo. E ciò sarebbe frustrante per le forze di polizia, che arrestano una persona, la portano di fronte al giudice e quello la scarcera. Non voglio fare una difesa della categoria, ma è bene che ognuno si assuma le sue responsabilità. Anche perché dell’aspettativa di sicurezza uno dei promotori di questo referendum ha fatto una battaglia politica. A proposito, Giulia Bongiorno, che firmò la legge del 2009, ora difende il quesito che la depotenzia. Dice che per applicare le misure basterà che il giudice ravvisi nello stalker una “personalità proclive alla violenza”... Come al solito ci viene chiesto di fare una forzatura interpretativa. Dovrei dire che chi molesta o fa appostamenti a una ragazza è incline alla violenza fisica. Dovrei, cioè, fare un’interpretazione fantasiosa. La strada indicata dall’onorevole Bongiorno, che pure io stimo per le battaglie fatte in favore delle donne, non mi sembra molto corretta. La custodia cautelare è un’extrema ratio, ma dove ci sono le condizioni deve essere applicata. Altrimenti poi altrimenti piangiamo un sacco di donne ammazzate. Violenza contro le donne: sopravvissute, a volte per caso di Giusi Fasano Corriere della Sera, 30 agosto 2021 Una serie continua, infinita, di aggressioni in tutta Italia. Con l’unica variante rispetto ai femminicidi che queste vittime non sono morte. Ma non può essere una consolazione. Quando si dice la creatività degli uomini violenti. A Roma un tizio stanco di svagarsi prendendo a botte sua moglie le ha promesso: “Ti sfregio con l’acido”. E quando giustamente lei se l’è svignata rifugiandosi da parenti, lui si è molto offeso. A quel punto l’acido non sarebbe bastato. “Ti ammazzo” le ha giurato al telefono. La polizia lo ha fermato davanti alla porta di lei con una spranga di ferro improvvisata, forse un pezzo di letto, vai a sapere… Ad Atripalda (Avellino) un altro soggetto attivissimo sul fronte delle botte e delle minacce è stato arrestato dai carabinieri che a casa sua hanno trovato una penna-pistola con tre proiettili calibro 7.65. Chissà per chi erano quei colpi. A Guidonia il galantuomo di turno era così preso dalla punizione decisa per la sua ex moglie (calci e pugni a non finire) che non si è nemmeno fermato all’arrivo della pattuglia e - manco a dirlo - non ha minimamente considerato le suppliche e le lacrime dei suoi figli, minorenni, che assistevano al pestaggio. Anche a Messina c’era una ragazzina presente al pestaggio della madre; la disperazione le ha dato il coraggio di reagire contro il padre e salvarla perché è riuscita a scappare. A Martinsicuro (Teramo) il lui di turno ha affinato la tecnica nel tempo: le mani al collo, per cominciare. Minacce e offese come se non conoscesse parole alternative. Ma poi anche il tavolo rovesciato, il lancio di oggetti (i piatti erano i suoi preferiti), le urla per un nonnulla… Parola d’ordine: “Tu fai quello che dico io”. A Genova un signore (si fa per dire) che nella vita aveva già dato spettacolo di violenza con una donna anni fa, è tornato in attività con la sua nuova compagna, fermato dalla figlia piccola di lei ha chiamato il 112: “Aiutate la mia mamma, per favore”. Ad Augusta, in Sicilia, un uomo che si definisce “noto professionista”, arrestato per aver reso la vita impossibile a sua moglie, ha spiegato che “è stata lei a rovinarmi chiedendo la separazione”. Anche nell’Alto Sangro (L’Aquila) la separazione decisa da lei non è piaciuta a lui che - al di là del solito stalking - ha pensato di speronare con la sua auto quella della moglie. Tutto questo negli ultimi cinque giorni, e ne abbiamo altri a Trapani, Foggia, Palermo, poi di nuovo Genova, Napoli, Roma, L’Aquila...Va già bene (diciamo così) che queste donne siano sopravvissute, a volte per caso. Ma non va bene, non va bene per niente. Caso Vanessa, il Gip lo ammette: “La legge sul braccialetto elettronico c’era: io frainteso” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 30 agosto 2021 Nunzio Sarpietro è il capo dell’ufficio gip di Catania, quello che si è occupato del caso di Vanessa Zappalà, vittima di stalking da parte dell’ex fidanzato che poi l’ha uccisa e si è suicidato. Giudice Sarpietro, in riferimento al caso di Vanessa Zappalà lei ha detto che il braccialetto elettronico si può dare solo in caso di arresti domiciliari, ma non è così. Può chiarire? Le dico subito che qui a Catania abbiamo provato a fare alcuni esperimenti e a dare il braccialetto, ma i braccialetti non ci sono: questo è il problema. La norma dice espressamente che si possono applicare “nella misura in cui la polizia giudiziaria ne abbia la disponibilità” e disponibilità non c’era. Il problema è stato questo: anche se il collega avesse adottato questo provvedimento di fatto non sarebbe mai stato applicato. Eppure nell’intervista concessa a Repubblica dice un’altra cosa... Repubblica ha spezzettato l’intervista e il problema, con le interviste, è sempre questo. Avevo detto che c’era una fase, prima della riforma, in cui si poteva dare solo agli arresti domiciliari. Poi la norma è stata cambiata ma a oggi è inapplicabile perché non c’è disponibilità di braccialetti elettronici. Il problema non è solo in Sicilia ma dappertutto. Se il suo collega avesse avuto disponibilità avrebbe preso questo provvedimento? Certamente sì. Lo stesso collega, le posso assicurare, provò a darli in due o tre occasioni precedenti ma non fu possibile perché non c’erano. L’intervista di Repubblica è rimasta monca perché ora si può dare ma di fatto non esiste. Già i braccialetti “da interno”, quelli da domiciliari, sono in numero molto limitato in tutta Italia. È un problema di disponibilità materiale, se li avessimo ne avremmo applicati cento o duecento. Sono questioni tecniche che non vengono attenzionate. In quell’intervista lei ha anche detto che è stato fatto di tutto per salvare la vita a Vanessa. Se la sente di ribadirlo? Dico che si poteva fare di più per salvare la vita a Vanessa. Ma se non abbiamo il materiale tecnico è impossibile. Faccio un appello al Ministero affinché possa finalmente fornire i braccialetti per consentire di monitorare con più attenzione il fenomeno. Il braccialetto che attualmente non abbiamo dovrebbe essere collegato con un secondo braccialetto che viene dato alla vittima. Un solo braccialetto, quello per il maltrattatore, funziona solo se c’è un altro terminale collegato alla vittima che la avvisa quando il maltrattatore è a una certa distanza. A quel punto la vittima può allontanarsi o chiamare i carabinieri. Ma mancano entrambi. Insomma lei smentisce l’intervista. Perché non ha chiesto la rettifica? Quando le interviste non vengono riportate per intero purtroppo la gente non capisce quello che si vuole dire. L’intervista era molto più lunga e articolata. Non ho chiesto la rettifica perché in questi casi o non viene riportata o viene riportata con un piccolo richiamo che non chiarisce la vicenda. Sono felice di poter rettificare con questa intervista al Dubbio e insisto nel dire che se avessimo avuto altri strumenti qualcosa per salvare la vita di Vanessa si poteva fare, chiaramente con il punto interrogativo dell’imprevedibilità. Se avesse avuto il braccialetto o fosse stato agli arresti domiciliari sarebbe stato comunque difficile contenerlo, ma certo con il doppio braccialetto a vittima e maltrattatore questa vicenda poteva finire diversamente. Napoli. Addio a Luciano Sommella, ex direttore delle carceri minorili napolitoday.it, 30 agosto 2021 Il messaggio del Garante regionale dei detenuti. Addio a Luciano Sommella, ex direttore delle carceri minorili di Nisida e Filangieri. A dare l’annuncio della sua morte è stato Samuele Ciambriello, garante regionale per i detenuti. "È Morto Luciano Sommella, per anni direttore del Filangieri e di Nisida e poi Dirigente della Giustizia Minorile. Una intensa vita umana e professionale con gli adolescenti a metà. Per assicurare un avvenire diverso ai minori a rischio di Napoli bisogna intervenire sulla società e sulla città", ha scritto Ciambriello. "Bisogna rompere quel meccanismo - ha continuato - che fa sì che chi nasce marginale muore emarginato o delinquente. Bisogna investire nella scuola, nelle periferie, fare prevenzione. Occorre un cambio di passo nelle strategie politiche di governo della città di Napoli. Interventi non risolutivi, non inclusivi, e così la prevenzione, senza saperla tradurre in qualsiasi modello di intervento non repressivo, non è stata efficace". Viterbo. Carcere di Mammagialla, trovato morto un detenuto tusciaweb.eu, 30 agosto 2021 Un detenuto marocchino di 53 anni è stato trovato morto nel carcere viterbese di Mammagialla. Il decesso avvenuto quasi certamente per cause naturali, è stato accertato oggi dai sanitari della casa circondariale di Viterbo. Seguiranno controlli e accertamenti per chiarire la dinamica dell’accaduto. Alessandria. Coltivare le piante in carcere e fare la birra con la cooperativa sociale di Paola D’Amico Corriere della Sera, 30 agosto 2021 Il progetto dell’associazione Ises con la cooperativa sociale Idee in Fuga e la struttura penitenziaria di Alessandria che ha già messo a disposizione un’ampia superficie all’interno del carcere. Coltivare luppolo e fare birra. In carcere. È un progetto dell’a. “Quanto basta per la crescita di almeno 50 piante di diversi rizomi, in modo da coprire le principali necessità birricole”, spiega Andrea Ferrari, 43 anni, presidente di Ises. Ferrari, una laurea in Economia aziendale, si occupa di progettazione sociale da vent’anni. Dal 2015 ho iniziato ad occuparmi anche della realtà del carcere. Abbiamo avviato una falegnameria, che oggi realizza il packaging per diverse aziende vinicole e produttori di birra. Poi abbiamo aperto una bottega solidale buttando giù un pezzo del muro di cinta del carcere e qui diamo una vetrina a tutte le produzioni delle diverse carceri italiane. Infine abbiamo creato il marchio Fuga di sapori, prendiamo i semilavorati sempre da altre carceri e li facciamo trasformare da artigiani locali”. Ed è nata così la “Sbirra” fatta con le arance del carcere di Siracusa, la “Skitza” aromatizzata con camomilla del carcere di Pozzuoli. “E ogni prodotto a sua volta con parte del ricavato della vendita aiuta altre associazioni, dal centro antiviolenza alla fondazione mesotelioma”. Ora il nuovo progetto, per il quale è stato lanciato un crowd-funding che Buone Notizie questa settimana sostiene. “A settembre si parte con la palificazione, poi con la preparazione del terreno. La prossima primavera saranno messe a dimora le piante e prevediamo quindi entro un anno di poter fare il primo raccolto”. All’interno dell’istituto di pena San Michele l’associazione gestisce anche 5 arnie. “I detenuti faranno anche il miele”. Iniziano il percorso come volontari, “insieme agli educatori - conclude Ferrari - per un mese. Il tempo di capire se il progetto fa per loro. Poi si passa a una borsa lavoro di sei mesi, infine all’assunzione vera e propria nella cooperativa Idee in fuga”. La coltivazione del luppolo è un progetto sperimentale che potrebbe ingrandirsi e svilupparsi utilizzando un’ampia fascia di terreno ancora a disposizione. “E seppur nelle carceri italiane si realizzino diversi prodotti alimentari - aggiunge - come il caffè, il cioccolato e la stessa birra, per quanto riguarda l’ambito agricolo legato al luppolo questo è una novità per Alessandria e permetterebbe alla coop Idee in Fuga di potersi approvvigionare dei luppoli necessari a produrre le birre poi vendute in Bottega o sul sito. La grande valenza di questo progetto è però innanzitutto sociale, così come per tutte quelle nate dietro le sbarre”. Informazioni su: www.eppela.com/it/projects/29967-hope-il-luppoleto-galeotto Lecce. Medici e sanitari del carcere a rischio stress di Pierfrancesco Albanese leccenews24.it, 30 agosto 2021 I lavoratori delle unità operative della sezione Medicina e Dipartimento di salute mentale (Dsm) carceraria della Casa Circondariale di Lecce sono a rischio stress da lavoro correlato. Il fabbisogno è eccessivo e i lavoratori non riescono a garantire a pieno il servizio, attualmente in capo solo alla Asl di Lecce. La denuncia è di Antonio Piccinno, coordinatore provinciale sanità Cisl Fp Lecce, che raccoglie il malcontento dei medici e del personale sanitario impiegato nel penitenziario leccese. In molti hanno avanzato istanze di mobilità, rimaste inevase a causa della mancanza di volontari della stessa azienda sanitaria che li sostituiscano nella struttura. E lo stato d’impasse accresce lo scontento dei sanitari, raccolto dal coordinatore della Cisl. “Le condizioni in cui si trovano detti lavoratori - riferisce Piccinno - rischiano di essere progressivamente alterate da una non idonea attività lavorativa in contrasto con le specifiche previste così come in altri contesti cosiddetti normali. Senza alcun dubbio il grado di stress lavorativo accumulato in ambiente a rischio o comunque con restrizioni al limite della condizione di normalità, visto il contesto, non agevola una serena integrazione del lavoratore negli ambienti civili e famigliari, a volte compromessi”. Il coordinatore punta il dito sulla scelta di affidare il servizio interamente ai sanitari della Asl di Lecce, non in grado senza alcun supporto di far fronte alle esigenze carcerarie, a detta del sindacalista. A finire in discussione è l’opportunità di mantenere interamente l’organico al momento impiegato nel penitenziario. Ma soprattutto di far gravare l’intero peso delle sezioni carcerarie coinvolte sui medici e sul personale sanitario dell’azienda sanitaria leccese, visto lo stato d’animo contrariato che ha innescato le reazioni di queste ore. “Se l’impegno della Asl Lecce risulta essere quello del mantenimento di tale aliquota sanitaria - continua Piccinno - bisognerebbe dapprima verificare le condizioni e la salute dei lavoratori, oltre che quella della normativa e sulle specifiche attuazioni di leggi, regolamenti attuativi e i previsti finanziamenti ove mai riscossi e percepiti dalla Asl per tale impegno a favore della popolazione carceraria”. La richiesta è dunque la ricollocazione dell’intero personale attualmente impiegato presso altre strutture aziendali e la sostituzione a rotazione dei sanitari. “Ma anche - chiude il coordinatore Sanità della Cisl - verificare le condizioni che determinano il mantenimento di tale servizio, a parere di chi scrive, non di totale competenza di codesta Asl”. Gli 80 anni del Manifesto di Ventotene che sognava un’Europa unita di Raffaella De Santis La Repubblica, 30 agosto 2021 L’omaggio di Mattarella ad Altiero Spinelli. Il capo dello Stato ha chiesto una "voce unica" sul fenomeno migratorio. Il documento scritto nel 1941 anche da Ernesto Rossi sarà ora ripubblicato in tre lingue, compreso l’arabo. Un rimprovero e un appello. È chiaro e importante il messaggio all’Europa del presidente Sergio Mattarella oggi in visita a Ventotene in occasione dell’anniversario del Manifesto europeista di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi: "In questi giorni una cosa appare sconcertante e si registra nelle dichiarazioni di alcuni politici europei. Esprimono grande solidarietà agli afgani che perdono libertà e diritti, ma poi dicono: ‘che restino li, non vengano qui perché non li accoglieremmo’. Questo non è all’altezza dei valori dell’Unione europea". Subito dopo il Capo dello Stato ha rivolto un invito all’Europa perché parli con "una voce unica" nella gestione del fenomeno migratorio. Solo così si può avviare un "dialogo costruttivo con altre parti del mondo, particolarmente con l’Africa" ed evitare di venire travolti da "un fenomeno ingovernabile e incontrollabile". Mattarella ha poi sollecitato l’Europa a "dotarsi di strumenti di politica estera e di difesa comune", che era poi il grande auspicio del Manifesto di Ventotene. Ottant’anni fa Altiero Spinelli e i suoi compagni realizzarono il Manifesto federalista per un’Europa libera e unita mentre erano confinati sull’isola di Ventotene. Settant’anni fa, sei paesi hanno firmato il Trattato di Parigi che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, il primo passo concreto verso l’unità europea. Oggi l’Europa si trova ad affrontare un’epidemia che ha richiesto un coordinamento politico sopranazionale e un superamento dei nazionalismi e contemporaneamente è nel bel mezzo della crisi afgana. Prima di aprire il seminario, Mattarella ha voluto rendere omaggio alla memoria di Spinelli, recandosi al cimitero di Ventotene e deponendo una corona di fiori sulla tomba del grande antifascista. Per celebrare il compleanno del Manifesto europeista, l’Istituto di studi federalisti Altiero Spinelli, costituito nel 1987 a poco più di un anno dalla morte di Altiero Spinelli per concorrere alla formazione federalista dei giovani europei, ha organizzato un seminario di più giorni (si è aperto oggi, 29 agosto, e si chiuderà venerdì 3 settembre) coinvolgendo gli studenti per ridiscutere il valore di un progetto lungimirante che ha anticipato l’Europa del futuro e che ancora oggi, come ha sottolineato Mattarella, non è stato realizzato a pieno. Nel 1941, l’anno in cui Spinelli e Ernesto Rossi completarono nell’isola di Ventotene, dove erano confinati per antifascismo, il "Manifesto", l’Europa continentale era soggiogata dal nazismo. Nonostante la drammaticità del momento storico l’invito ai cittadini europei era comunque a "prepararsi per il nuovo mondo che sta venendo, che sarà tutto diverso da quello che abbiamo immaginato". Il Manifesto fu portato nel continente da Ursula Hirschmann e Ada Rossi, inizialmente ciclostilato e poi nel 1943 stampato e ristampato a Roma nel 1944 da Eugenio Colorni, arricchito di un suo contributo, in un quaderno dal titolo "Problemi della Federazione europea". Ora la libreria dell’isola Ultima Spiaggia, che è diventata anche una casa editrice specializzata in pubblicazioni che raccontano Ventotene, ha pensato di riproporre il Manifesto in tre edizioni: italiano-inglese (con prefazione di Josep Borrell i Fontelles, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza), italiano-francese (con presentazione di Enrico Letta) e italiano-araba (con uno scritto di Emma Bonino). Sul sito www.istitutospinelli.it è possibile consultare la traduzione del Manifesto di Ventotene in tutte le lingue dell’Unione ma per il libraio editore Fabio Masi ristampare oggi il Manifesto proprio a Ventotene ha un significato speciale: è un tributo importante alla storia dell’isola e "un lavoro che guarda alla sua diffusione tra i giovani". L’idea, spiega Masi, è andare avanti con le versioni in più lingue. "Ci piacerebbe aggiungere ogni anno una lingua, pensavamo di tradurlo il prossimo anno in cinese e poi in giapponese". Masi ha anche pensato con la sua libreria editrice a un dizionario illustrato per ragazzi L’Abc dell’Europa di Ventotene "per far conoscere quel progetto alle giovani generazioni, quelle chiamate a raccogliere il testimone". Il dizionario illustrato spiega l’Europa attraverso le 21 lettere dell’alfabeto, a cominciare dalla A di Antifascista. Il curatore dell’intero progetto Ultima Spiaggia e della collana Granelli di Sabbia è Nicola Vallinoto, attivista del movimento federalista europeo, che inevitabilmente quando lo contattiamo pensa all’Europa con un occhio all’attualità: "L’unico modo per risolvere grandi crisi internazionali è avere una politica estera unica. Reagendo al Covid l’Europa ha avuto uno scatto di reni, speriamo che con l’Afghanistan faccia altrettanto". L’attualità del Manifesto è indubbia, così come i problemi che ciclicamente fanno parlare di un progetto incompiuto che non è riuscito a realizzarsi fino in fondo, trasformando l’unione economica in una vera cooperazione politica. Una cosa è certa: a Ventotene la memoria del Manifesto non è un feticcio ma un momento di studio e di progettualità politica. Mario Leone, quarantanovenne direttore dell’Istituto Spinelli, la giovinezza trascorsa nel movimento federalista europeo dove è entrato all’età di 19 anni, spiega così le due anime del seminario: "Accanto all’approfondimento politico-culturale c’è la militanza che conta sul coinvolgimento di uomini delle istituzioni e della politica, tra cui oggi Josep Borrell". In breve, con un aggettivo, che non suona retorico, Leone parla della portata "rivoluzionaria" del Manifesto: "Fu rivoluzionario allora superare le barriere dei nazionalismi, le stesse che avevano portato alla guerra. E fu rivoluzionario applicare la concezione federalista non solo all’Europa ma al mondo intero". Covid, la rassegnazione del coraggio. Come usciremo dalla pandemia di Guido Alfani La Repubblica, 30 agosto 2021 Con la campagna vaccinale ormai in uno stadio avanzato, iniziamo a intravedere il mondo post-pandemia. Non sarà, purtroppo, un mondo senza Covid: come già scrissi su La Repubblica in aprile, Covid-19 è destinato a rimanere uno sgradevole compagno delle nostre vite. Eppure, la storia ci insegna che dalle pandemie si esce, e si è sempre usciti. Ma come? Purtroppo, i casi in cui è stato possibile liberarsi interamente di un patogeno pericoloso sono piuttosto rari. Il migliore esempio è forse quello del colera, la grande “malattia nuova” dell’Ottocento. L’Italia ne fu colpita per la prima volta nel 1835, subendo oltre 150.000 vittime, ma si trattava solo della prima di una serie di pandemie di colera che investirono l’Occidente. Nel corso del secolo, in Italia morirono per colera almeno mezzo milione di persone, probabilmente molte di più. Il colera, però, aveva un punto debole: richiedeva un contesto abbastanza specifico per diffondersi, nel quale fosse possibile la contaminazione delle acque potabili. Una volta compresa la natura dell’infezione, i Paesi occidentali avviarono grandi campagne di bonifica dell’ambiente urbano, migliorando radicalmente i sistemi fognari e la qualità delle acque. Salvo qualche episodio minore, all’inizio del Novecento il colera era stato sostanzialmente debellato, almeno in Occidente. In altri casi non fummo tanto fortunati. Ad esempio con la peste, dopo la prima terribile pandemia del 1347-1352 gli Europei si resero presto conto che la nuova malattia era destinata a rimanere: a intervalli regolari si svilupparono nuove epidemie, talvolta con effetti devastanti. Ad esempio, la peste del 1630 causò circa due milioni di morti solo nel Nord Italia. Pensando a scenari di questo tipo, viene da chiedersi come i nostri antenati abbiano potuto affrontare un mondo tanto ostile. La risposta è sostanzialmente che si adattarono, come fanno tutte le specie che si trovano di fronte a un mutamento del proprio ambiente biologico. Ma siccome gli uomini sono uomini, l’adattamento fu anche istituzionale e investì numerosi ambiti, tra i quali la sanità pubblica. Furono introdotte innovazioni come la quarantena, gli ospedali d’isolamento, le commissioni di sanità permanenti, che sono all’origine di molte delle pratiche e delle istituzioni di contrasto alle malattie infettive che ancora utilizziamo e che probabilmente contribuirono, dalla fine del Seicento, alla sparizione della peste come malattia endemica dall’Europa. Come la peste, così il Covid-19 ha determinato un mutamento nel nostro ambiente biologico. Nessuno può dire esattamente quale futuro ci aspetta, anche perché dipende da mutazioni sostanzialmente imprevedibili del patogeno (e qui la storia insegna che non vi è alcuna ragione di ritenere che tali mutazioni andranno verso una minore letalità). Volenti o nolenti, almeno per qualche anno dovremo rassegnarci a vivere in un mondo diventato un po’ più ostile di come lo ricordavamo. Vi sono però due tipi di rassegnazione: la rassegnazione dell’inerzia, e quella del coraggio. Contro la peste, i nostri antenati furono inizialmente tentati dalla prima - la peste vista come castigo divino, o la disperata spensieratezza dei personaggi del Boccaccio - e poi scelsero decisamente la seconda. Il successo epocale conseguito nello sviluppo, produzione e somministrazione in tempi rapidissimi di vaccini altamente efficaci dimostra che siamo tutt’altro che passivi di fronte al nostro ambiente biologico. Forse abbiamo imparato la lezione, e negli anni a venire svilupperemo istituzioni e procedure più adatte a contrastare l’emergere di nuove minacce pandemiche. Ma il Covid-19 è ormai tra noi, e al momento la migliore arma che abbiamo sono i vaccini. Usiamoli: soprattutto se vogliamo che il mondo che ci aspetta non sia troppo diverso da quello precedente la pandemia Eutanasia, facciamo chiarezza di Daniela Polese* Left, 30 agosto 2021 Perché sia atto medico si deve saper distinguere tra malattia organica incurabile e patologia mentale curabile. Oltre 500mila firme, raccolte in poche settimane estive, si moltiplicano giorno dopo giorno, insieme al numero dei giovani e giovanissimi attivisti coinvolti in questa campagna. È un numero sufficiente perché la Corte di Cassazione possa indurre il referendum per rendere legale l’eutanasia, ma la corsa continua. Si cerca di raggiungerne 750mila. L’Associazione Luca Coscioni si batte da anni per la libertà individuale e per i diritti del malato ed ha istituito una piattaforma online, che per la prima volta nella storia può consentire la raccolta. Oggi più che mai sembra esserci un movimento che porta avanti una lotta per il diritto all’eutanasia legale, che è diritto ad una vita (e un fine vita) dignitosa. Se tanti giovani sono accorsi, sembra sia urgente riflettere su questo tema. La definizione del fine vita presuppone la conoscenza della vita umana, del suo inizio alla nascita e della sua fine alla morte. In medicina la vita e la morte hanno confini definiti, in contrasto con posizioni non scientifiche, come quelle religiose, spirituali o filosofiche, rispettabili ma chiuse alla scienza e non disposte ad una riflessione oltre una convinzione apriori, dettata da un credere e non da un vedere e pensare. La vita umana è legata all’attività cerebrale e non al battito cardiaco, così come definito nel 1968 dal protocollo di Harvard. Senza attività cerebrale viene certificata dal medico la morte. D’altro canto, l’attività cerebrale è caratterizzata dalla reazione agli stimoli esterni alla nascita. La reazione è mentale e fisica, comprende gli affetti, le emozioni, la fantasia, che si esprimono attraverso il linguaggio di tutto il corpo, attraverso le parole, lo sguardo, i gesti, le azioni, la creatività. Essere umani è essere in rapporto con gli altri. Ciascuno sviluppa la propria identità a partire dalla nascita e dal primo anno di vita. L’essere umano è alla ricerca della realizzazione della propria identità e non del principio del piacere, sosteneva lo psichiatra Fagioli, in opposizione a Freud, e teorizzava la reazione alla luce alla nascita come inizio dell’attività cerebrale e mentale, pulsione di annullamento verso il mondo inanimato e vitalità che spinge alla ricerca del primo rapporto umano. Il diritto alla libertà di movimento, di pensiero, di espressione, di coscienza è parte della dichiarazione dei diritti umani: diritti inalienabili. Ciascuno di noi ha l’esigenza di cercare e di essere sé stesso. La vita umana ha delle caratteristiche ben precise. A causa di condizioni morbose incurabili, la vita può essere seriamente compromessa ed… *Psichiatra e psicoterapeuta Mattarella: “Sconcertante il no di alcuni politici all’accoglienza dei profughi” di Marzio Breda Corriere della Sera, 30 agosto 2021 Il capo dello Stato a Ventotene: “Dichiarazioni di politici un po’ qua e là in Europa. Esprimono solidarietà agli afghani che perdono libertà e diritti, ma `che restino li´, non vengano qui perché non li accoglieremmo’. Questo non è all’altezza dei valori della Ue”. “In questi giorni una cosa appare sconcertante, e si registra nelle dichiarazioni dei politici in diverse parti d’Europa. Esprimono grande solidarietà agli afghani che perdono libertà e diritti, ma… “che restino lì”, non vengano qui perché non li accoglieremmo. Questo non è all’altezza del ruolo storico e dei valori dell’Unione”. Non sono certo stucchevoli le parole con cui Sergio Mattarella denuncia l’atteggiamento ipocrita che serpeggia nella Ue sulla sorte delle migliaia di persone in fuga dall’Afghanistan conquistato dai talebani. A indignare il presidente è l’indifferenza, divenuta contagiosa dopo che le immagini di quell’esodo (represso tra sangue e terrore) hanno fatto il giro del mondo, con l’effetto di cloroformizzare progressivamente le coscienze. Un dramma. Come se la democrazia e i diritti umani degli altri non ci riguardassero. Non più di tanto. Una questione che dovrebbe imporre a Bruxelles di ripensare le proprie responsabilità nell’atlante geopolitico mondiale. E la richiesta di un netto cambio di passo il capo dello Stato la lancia da Ventotene, dialogando con gli studenti dopo aver reso omaggio ad Altiero Spinelli, autore ottant’anni fa con Eugenio Colorni e Ernesto Rossi del “Manifesto di Ventotene” che diede forma al sogno di un continente coeso. Sergio Mattarella è netto. Dice che quanto sta avvenendo a Kabul, al pari di quanto è successo con la guerra in Siria, “ha reso evidente la scarsa capacità di incidenza dell’Ue, totalmente assente negli eventi. Mentre è invece indispensabile assicurare subito gli strumenti reali, efficaci, concreti di politica estera e di difesa comuni… La Nato è importante”, aggiunge, per rassicurare senza ambiguità il nostro maggior alleato, “ma oggi è richiesto che l’Unione abbia una maggior capacità di presenza, una voce sola, appunto nella politica estera e di difesa. E tale prospettiva è importante anche per gli Stati Uniti”. Caso afghano a parte, di cui ha discusso a pranzo con Josep Borrell, l’Alto rappresentante Ue per gli esteri e la sicurezza, e con Guy Verhofstadt, co-presidente della Conferenza per il futuro dell’Europa, Sergio Mattarella usa la sensibilità dei ragazzi per fare una sorta di check-up all’Unione Europea. A partire dal tema dell’accoglienza. “Si parla tanto di confini esterni dell’Unione, ma la politica migratoria non è mai diventata una politica comune. Questa lacuna non è all’altezza delle nostre responsabilità”. I flussi dei boat people, spiega, vanno gestiti in modo “ordinato, legale, accettabile”, sapendo che “non è ignorandoli che li si governa”. Ecco la vera soluzione, sulla quale il presidente della Repubblica insiste da tempo, “per evitarci di essere travolti da un fenomeno incontrollabile”. Certo, molti Paesi (Italia compresa) sono “frenati da preoccupazioni elettorali”. Ma, avverte, continuando “così si finisce per affidare la gestione agli scafisti e ai trafficanti di esseri umani”. Sono recriminazioni rivolte a diversi destinatari, nella Ue. Per esempio ai “gelidi antipatizzanti dell’integrazione”, come i leader di certe nazioni dell’Est e del Nord che si sono spinti a polemizzare perfino su strumenti fondamentali come il Recovery Plan. Verso di loro Mattarella è sferzante: “Si diano pace, questi strumenti resteranno. Non si può tornare indietro”. Non si arretrerà, tanto più dopo l’esperienza della pandemia e, oggi, con la Conferenza per progettare il futuro dell’Unione. “È un’occasione storica da non perdere. Bisogna evitare il rischio che venga banalizzata e tradotta in uno scialbo esame della situazione contingente”. Deve essere, dunque, l’occasione per valutare come potrà esser realizzata la “sovranità condivisa”, il solo mezzo che abbiamo per governare le sfide globali “e garantire pace, libertà e benessere”. No ai due pesi sui rifugiati. Il diritto di asilo di Chiara Saraceno La Repubblica, 30 agosto 2021 L’urgenza e la dimensione di massa della tragedia afghana, la necessità di portare in salvo il maggior numero possibile di persone cui è venuta meno ogni speranza di vita e libertà nel proprio Paese, giustamente stanno sollecitando ad attivare corridoi umanitari e forme di accoglienza decorose, che rispettino non solo i bisogni più immediati e materiali, ma l’equilibrio psicologico e la speranza per il futuro. Si cercano soluzioni che non dividano le famiglie ed anzi aiutino a ricomporre quelle che non sono riuscite a fuggire insieme, che aprano percorsi di integrazione e all’inserimento nel mercato del lavoro. Si stanno mobilitando non solo le istituzioni pubbliche e le associazioni della società civile, ma anche singoli cittadini e famiglie. L’assistere impotenti ad una tragedia collettiva resa visibile da tutti quei corpi ammassati dentro e fuori l’aeroporto di Kabul, la possibilità di identificarsi con quelle speranze spezzate perché sono quelle che avevano legittimato, nella narrazione pubblica (anche se non sempre nei fatti), la nostra presenza laggiù, hanno suscitato, anche se non in tutti, un senso di (cor)responsabilità di solito assente nei confronti dei molti che fuggono dai propri Paesi e cercano di entrare nel nostro con mezzi altrettanto, se non più pericolosi e spesso distribuiti in un tempo più lungo e in uno spazio più ampio dell’imbuto in cui si sono decisi i destini dei sommersi e salvati di Kabul. Occorre tuttavia evitare che si cristallizzi un doppio registro, e una doppia narrazione, su chi, costretto a fuggire dal proprio Paese chiede asilo e protezione a noi, a seconda della visibilità della tragedia che lo ha travolto e del modo e di chi lo ha salvato. Come ha scritto Cecilia Strada qualche giorno fa, mentre si è fatto del console Claudi un eroe, si continua a criminalizzare chi salva in mare. E mentre si sono accolti con affetto e attenzione i rifugiati afghani che sono arrivati a Fiumicino con voli organizzati dallo Stato, si continuano a ignorare i disperati (inclusi i bambini) che si accalcano alle varie frontiere europee, cui presto si aggiungeranno gli afghani che non ce l’hanno fatta a farsi salvare dalle potenze occidentali. Proprio mentre atterrava a Fiumicino l’ultimo volo con l’ultimo gruppo di afghani "salvati", a Lampedusa vi sono stati 11 sbarchi per un totale di 900 migranti provenienti, spesso dopo viaggi di molti mesi, da Paesi diversi, ma tutti coinvolti da guerre civili e/o violenze etnico-religiose o da carestie e crisi sanitarie che mettono a rischio la sopravvivenza. Molti hanno subito violenze di cui portano i segni sui loro corpi. Anche loro chiedono di essere salvati, anche il loro diritto alla vita e alla libertà deve starci a cuore. Non possiamo accogliere tutti i disperati della terra. Ma, almeno per chi fugge per salvarsi la vita e la libertà, non dovremmo utilizzare due pesi e due misure, pena cadere nella incoerenza denunciata da Mattarella. Se siamo riusciti in modo efficiente e umano a organizzare un corridoio umanitario per trasportare - in condizioni di emergenza e di pericolo anche personale - migliaia di persone in pochi giorni, dovremmo essere capaci di farlo, in modo più sistematico, continuativo e coordinato con altri Paesi, oltre che in condizioni di maggiore sicurezza, anche per altri luoghi, altre persone in fuga. La piaga mai estinta delle sparizioni forzate di Alessandro Mauceri interris.it, 30 agosto 2021 Il 30 agosto, in tutto il mondo, si celebra la Giornata Internazionale dei Desaparecidos, delle Persone Scomparse. Istituita su proposta della Federazione Latinoamericana di Associazioni di Familiari di Detenuti-Scomparsi (Fedefam), la sua origine risale al 1976, quando con un colpo di stato, in Argentina salì al potere Jorge Videla. Vennero sospese Costituzione e libertà civili e iniziò la dittatura. Oltre 30mila persone sparirono. Di loro non si seppe più nel nulla. Per anni le madri dei desaparecidos hanno protestato: ogni giovedì, riunite a Plaza de Mayo, a Buenos Aires, senza parlare, con un cartello o un fazzoletto bianco con la foto e il nome del caro scomparso. Solo nel 2006, il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite approvò il progetto della Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata. Nel 2010, dopo un lungo iter, fu approvata la Convenzione Internazionale Per La Protezione di Tutte Le Persone Dalle Sparizioni Forzate (governo.it) E venne istituita la Giornata Mondiale dei Desparecidos. Oggi si stima che, solo in paesi come Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Haitì, Honduras, Messico, Perù e Uruguay, sono circa 100.000 i desaparecidos. Tra loro, anche donne e bambini appena nati. Una piaga mai estinta: ogni anno, sono decine di migliaia gli scomparsi, gli assenti, gli invisibili, i cancellati, i desaparecidos. Tra loro ci sono migranti, rifugiati, sfollati, ‘talibé’, bambini di strada, vittime di tratta e molti altri. Non più solo in America Latina, ma in tutto il mondo: in Asia, in Africa, in Europa (in Bosnia Erzegovina, ad esempio). In alcuni paesi (in Cina o in Libia) il numero degli scomparsi non può nemmeno essere calcolato dato che non esistono denunce o dati ufficiali. Persino in Italia. Nei giorni scorsi, il Ministro della Giustizia, Marta Cartabia, ha firmato la richiesta di arresto provvisorio e di estradizione per tre ex militari cileni, Rafael Francisco Ahumada Valderrama, Manuel Vasquez Chahuan e Orlando Moreno Basquez, condannati in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio e la sparizione di due desaparecidos italiani. La richiesta è stata inoltrata all’ambasciata italiana a Santiago del Cile. Purtroppo, ancora oggi, sono molti i paesi che non hanno mai ratificato la Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalle sparizioni forzate. E tra questi ci sono paesi “sviluppati” (come Lussemburgo, Polonia, Irlanda, Danimarca e Finlandia). Molti minori e molti migranti continuano a scomparire: di poche settimane fa la notizia di nove giovani scomparsi mentre erano in viaggio dalla Tunisia verso l’Europa. Di loro non si sa più niente. Se sono arrivati o se hanno smesso di contattare le proprie famiglie volontariamente. Oppure se sono morti nel tentativo di attraversare il Mar Mediterraneo su un barcone. Di loro resta solo un numero nei report dell’IOM. Solo i loro cari conservano il ricordo di loro. Anche queste persone mostrano le foto di ragazzi. Di bambini. Dei loro cari. Nella speranza di sapere qualcosa dei nuovi desaparecidos. Cartabia: “Farò di tutto per salvare giuriste e magistrate afghane" di Liana Milella La Repubblica, 30 agosto 2021 La ministra della Giustizia vuole portare nel nostro Paese chi amministrava la legge e "ora rischia la vita". "La storia ci insegna come questi valori - il rispetto della persona e dei suoi diritti, la non violenza e lo stato di diritto - abbiano una forza di resistenza e resilienza in sé che non potrà essere del tutto estirpata dall’animo di chi in questi anni ne ha fatto esperienza". Marta Cartabia svela, in questo colloquio con Repubblica, "di essere stata in contatto, in questi giorni, con uomini e donne afgani, per professione impegnati nel mondo della giustizia, e che per anni hanno lavorato con l’Italia per costruire uno stato di diritto nel loro Paese". Anche Cartabia - come donna, come giurista, come Guardasigilli - sta lavorando per salvare vite in Afghanistan. Quelle "dei magistrati e degli avvocati con cui l’Italia, in questi anni, ha tessuto una rete di rapporti". "Il precipitare degli eventi - dice la ministra - accresce la preoccupazione per la loro incolumità e per quella dei loro familiari". Cartabia aggiunge dopo un attimo: "Il mio ministero è pronto a fare la sua parte per ciò che è di sua competenza". Ventiquattr’ore dopo aver firmato la lettera al Commissario europeo per la Giustizia Didier Reynders, Cartabia aggiunge la sua preoccupazione e racconta quali sono state le sue mosse, già in queste settimane, in cui i talebani hanno preso il potere. Prima di raccontare i dettagli fa una premessa: "Il Governo si è già speso generosamente, anche con un’attenzione particolare nei confronti dei magistrati e degli avvocati. Di ora in ora tutto diventa più difficile, ma i nostri sforzi per cercare di mettere al riparo professionisti che rischiano atti di ritorsione per essersi esposti nella difesa dei diritti fondamentali, anche con pronunce importanti, non possono fermarsi". Cartabia rivela di essere impegnata in questa difficile opera di salvataggio: "Sono personalmente in contatto con alcuni operatori di giustizia afghani. Dalle loro parole emerge anzitutto l’angoscia per il destino di quanti si sono esposti in prima persona, e per i loro familiari. Ma il loro pensiero è anche per il destino del loro paese. Grande trepidazione mi è stata trasmessa per il timore che il lavoro di questi anni - di costruzione di uno stato di diritto, quel seme di cui tanti si sono presi cura e che hanno visto crescere lentamente e faticosamente - sia cancellato così, con un colpo di spugna". Dietro le parole di Cartabia ci sono nomi e cognomi. Che ovviamente debbono restare del tutto riservati. Ma il suo obiettivo, innanzitutto umano, è chiaro, e il primo pensiero è rivolto alle donne, quelle che, a qualsiasi categoria appartengano, sono destinate nel futuro a portare il peso maggiore per via del nuovo potere. Mentre parla, Cartabia pensa proprio a loro e dice: "Vorrei esprimere tutta la mia vicinanza soprattutto nei confronti delle donne magistrato, che in ogni momento stanno rischiando di pagare con la vita il coraggio di essersi spese per la difesa delle libertà fondamentali e di essersi battute contro ogni forma di violenza. Raccolgo in pieno l’appello dell’Associazione delle donne magistrate italiane, che unitamente ad altri interlocutori, sollecita interventi tempestivi della comunità internazionale". L’obiettivo, spiega Cartabia, "è anche quello di non mandare disperso il lavoro per una cultura dello stato di diritto, del rispetto dell’indipendenza dei giudici, della tutela dei diritti della persona e della parità delle donne, verso cui l’Afghanistan in questi 20 anni ha compiuto importanti passi in avanti". Cartabia racconta che "in ambito Onu, a partire dal 2005, l’Italia è stata il Paese guida nel processo di riforma della giustizia afgana. Il ministero della Giustizia, il Csm, la procura generale, tutti gli attori dell’universo giustizia hanno dato importanti contributi soprattutto nelle attività di formazione dei magistrati, alcuni dei quali sono stati negli anni scorsi alla nostra Scuola superiore della magistratura". Ma adesso al primo posto - com’è scritto anche nella lettera dei quattro ministri della Giustizia europei (Italia, Francia, Spagna e Lussemburgo) indirizzata al commissario Reynders - c’è la necessità di salvare il maggior numero di vite possibile. Cartabia racconta che "in questi giorni convulsi, insieme al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, e con il contributo di tanti magistrati e avvocati che hanno mostrato grande sensibilità verso i colleghi afghani, al ministero stiamo raccogliendo nominativi e riferimenti di magistrati e avvocati, che in questi anni sono stati in Italia o con cui si è creata una rete di rapporti, passata anche attraverso varie iniziative del Csm". La stessa Cartabia ammette che purtroppo "tutto è drammaticamente complesso, a cominciare dai contatti". Ciononostante la Guardasigilli assicura che lei e via Arenula "continuano comunque a lavorare in questa direzione". E chiude il nostro colloquio con questo auspicio: "Confido che tutta l’Unione europea - e in particolare il commissario Reynders, il cui impegno per la difesa dello stato di diritto è sotto gli occhi di tutti - trovi le energie per sostenere unita il popolo afghano". Dopo Kabul: il perfezionismo democratico e la difesa europea di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 30 agosto 2021 Non si tratta solo di mettere insieme soldati ed armamenti. L’impresa non può funzionare se non cambiano orientamenti collettivi e mentalità. In Europa. per oltre settant’anni, ci siamo potuti permettere il lusso di occuparci d’altro. Quell’epoca è finita. L’edificio occidentale ha subito una violenta scossa. Non crollerà ma ciò che è accaduto a Kabul sta spingendo le classi dirigenti europee a ripensare la collocazione strategica dei propri Paesi. Si ricomincia a parlare della necessità di una difesa europea. Non per sostituire la Nato ma per disporre di mezzi che consentano all’Europa, se necessario, di provvedere da sola alla propria sicurezza. È la conseguenza di una presa d’atto: le priorità degli Stati Uniti sono cambiate, l’America sta dismettendo i panni di Paese guida del mondo occidentale e, quindi, anche quelli di “lord protettore” dell’Europa, un ruolo che ha svolto dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi. Ci sono però ostacoli potenti da rimuovere, abitudini radicate da abbandonare. Sono ostacoli di natura politica, psicologica, culturale. C’è in primo luogo la forza dell’abitudine. È difficile per gli abitanti di un Continente che da settant’anni vive della protezione altrui cambiare di punto in bianco i propri atteggiamenti. Per esempio, è difficile convincere i cittadini europei che un giorno essi dovranno accettare lo spostamento di una certa quota di risorse dal welfare alla difesa. Non è nemmeno sicuro che molti di coloro che si dichiarano oggi favorevoli alla difesa europea saranno disposti, quando e se si verrà al dunque, ad avallare una simile dislocazione di risorse. Ha osservato giustamente il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Enzo Amendola (Corriere del 26 agosto) che gli europei sono così disabituati a ragionare in termini geopolitici, così impreparati a riflettere sulle nuove esigenze strategiche imposte da cambiamenti negli equilibri internazionali, che l’unica cosa di cui si preoccupano, quando scoppia una crisi, è il che fare con l’ondata di profughi in arrivo. C’è poi il problema rappresentato dal fatto che gli europei non percepiscono allo stesso modo sfide e minacce. Almeno fino ad oggi, la sicurezza, per gli europei, non è mai stata un “bene pubblico”, o collettivo. Ciò significa che le minacce che provengono, poniamo, dal Medio Oriente o dall’Africa, non sono sentite con la stessa intensità dai Paesi europei del Sud e da quelli del Nord o dell’Est. Ma se la sicurezza non diventa un bene collettivo, se i pericoli che corre una parte d’Europa continuano a lasciare indifferenti le altre parti, la difesa comune è impossibile. Ci sono poi i soliti problemi politici. Mettere in comune le risorse della difesa significa, ancor più che nel caso della moneta, la rinuncia degli Stati a una componente essenziale della loro sovranità (o di ciò che ne resta). Il presidente francese Macron ha sostenuto a più riprese la necessità di una difesa comune ma se ciò viene interpretato dagli altri europei come un tentativo della Francia, in quanto Stato europeo militarmente più forte (dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione), di assumere una sorta di direzione militare dell’Europa, difficilmente si potranno fare progressi in questo campo. C’è, infine, un altro ostacolo. È una conseguenza di ciò che un grande studioso della democrazia (ben noto ai lettori di questo giornale), Giovanni Sartori, chiamava “perfezionismo democratico”, un’attitudine che è propria di tanti intellettuali europei nonché di settori rilevanti dell’opinione pubblica. I perfezionisti democratici sono, fra i nemici della democrazia, i più subdoli. Perché dicono di apprezzarla. Solo che la vogliono perfetta, in tutto corrispondente all’ideale che hanno in testa. Ma poiché le democrazie reali, come tutte le cose di questo mondo, sono largamente imperfette, essi menano scandalo per ognuna di quelle imperfezioni. Come se la “bontà” o meno della democrazia dipendesse dal confronto fra la realtà e un modello ideale, anziché da quello - l’unico che conta - fra le democrazie reali e i regimi non democratici. Chi fa quest’ultimo confronto capisce al volo che le democrazie, quali che siano le loro magagne, sono di gran lunga preferibili a tutti gli altri regimi politici. Cosa c’entra il perfezionismo democratico con la difesa comune? Purtroppo c’entra. La democrazia perfetta (e del tutto immaginaria) che i perfezionisti hanno in mente non può “sporcarsi le mani” con la politica internazionale e le sue dure, talvolta durissime, regole. Per esempio, il perfezionista sostiene che la democrazia, se è davvero tale, non possa avere nulla a che fare con le pratiche della Ragion di Stato. Invece, le democrazie, per sopravvivere in ambienti turbolenti e pericolosi, devono anch’esse farvi ricorso. Per il perfezionista le democrazie possono, al massimo, esportare (pacificamente) “valori”, non possono compromettersi con cose come la Realpolitik, la politica di potenza e simili. Ancora una volta ciò non è possibile, per lo meno nel mondo in cui viviamo. La differenza fra la “postura” internazionale delle democrazie (reali) e quella dei regimi autoritari non consiste nel fatto che le prime non giocano, e i secondi sì, secondo le dure regole (Realpolitik compresa) della politica internazionale. È che le prime devono contemperare Realpolitk e vincoli democratici, devono fare compromessi fra gli “interessi” (sia economici che di sicurezza) e certi vincoli, per esempio in tema di rispetto dei diritti umani, che i regimi autoritari non hanno. La difesa comune europea, con tutto ciò, ha molto a che fare. Non si tratterebbe solo di innalzare una barriera difensiva. Non ci sarebbe difesa comune senza una politica assertiva verso il mondo esterno. Ad esempio, la sicurezza europea richiederebbe facilmente una proiezione esterna, con finalità di pacificazione, nelle zone più turbolente del Medio Oriente o dell’Africa, da cui possono arrivare le minacce all’Europa. Ma come è noto, quando uno stato (o domani l’Unione) interviene fuori dai suoi confini dispiegando mezzi militari, distinguere fra politica della sicurezza e politica di potenza diventa un esercizio difficile. Si possono immaginare fin d’ora gli strilli e le proteste dei perfezionisti. La difesa comune? Ottima idea. Ma non si tratta solo di mettere insieme soldati ed armamenti. L’impresa non può funzionare se non cambiano orientamenti collettivi e mentalità. In Europa. per oltre settant’anni, ci siamo potuti permettere il lusso di occuparci d’altro. Quell’epoca è finita. Purtroppo. Julian Assange paga ancora per aver denunciato il disastro dell’Afghanistan di Riccardo Iacona Il Domani, 30 agosto 2021 È impressionante rileggere oggi i 77mila file sull’Afghanistan che nel 2010 Julian Assange aveva pubblicato, perché dentro quei rapporti scritti dagli stessi soldati americani che combattevano sul campo, c’era - con 11 anni di anticipo - il racconto di una guerra fallita: l’offensiva talebana veniva raccontata in dettaglio anno dopo anno, mentre gli stessi soldati parlavano delle truppe governative afghane come di un “esercito di carta”, mal pagato e armato. Il conflitto innescato dalla Nato, poi, era costellato di centinaia uccisioni indiscriminate, compiute da speciali unità come l’americana Task Force 373, di cui non si conosceva neanche l’esistenza. Al governo e nelle più alte cariche dello stato afghano c’erano corrotti che drenavano i fondi degli internazionali, una “cleptocrazia” che nei rapporti americani veniva accusata persino di narcotraffico: negli anni dell’occupazione militare della Nato la produzione di oppio afghano è esplosa. Quando Donald Trump a Doha firma, nel 2020, l’accordo con cui consegna l’Afghanistan ai Talebani, l’operazione dell’Isaf era già fallita da anni. Ma è l’intera “Guerra al terrore”, scatenata dagli americani dopo l’attacco alle Torri gemelle, nel mirino di Assange. In quel 2010 la piattaforma di WikiLeaks rende disponibile alle più importanti testate giornalistiche una enorme mole di materiale militare classificato, che l’ex analista dell’esercito di stanza a Bagdad Bradley Manning aveva trafugato: il video “Collateral Murder”, che mostrava il massacro di civili inermi compiuti da due elicotteri Apache a Baghdad nel luglio del 2007, tra cui due cronisti della Reuters; 400mila rapporti secretati dei militari americani sul campo che raccontavano l’incubo in cui era piombato l’Iraq, le torture, le prigioni segrete, lo scoppio della guerra civile tra sunniti e sciiti, un inferno costato all’Iraq 200mila morti di civili e la distruzione di una nazione; lo scandalo della prigione di Guantanamo, di cui abbiamo avuto piena consapevolezza solo dopo che Assange ha pubblicato la lista intera dei quasi 800 sospetti terroristi che vi erano finiti dentro: la maggioranza degli internati erano dei poveracci, vittime di delazioni e della tortura usata egli interrogatori. Duecentosessantamila rapporti secretati che provenivano dalle ambasciate americane dove si leggeva come gli americani intervenivano sulle politiche interne dei paesi del mondo per piegarli alle loro esigenze e come è successo in Italia. Una miniera di informazioni e notizie che facevano capire come la “Guerra al terrore” si era rivoltata contro di noi, consegnando ai servizi segreti in nome della sicurezza nazionale un potere enorme, extra legem, e fuori dal controllo democratico. Lo stesso potere che ha giurato vendetta contro Assange. Come vi racconteremo questa sera a PresaDiretta, sono 11 anni che il giornalista australiano non è più un uomo libero. Prima la magistratura svedese che lo accusa di stupro e che ne vuole l’estradizione, un’inchiesta che per 7 anni è rimasta alle fasi preliminari, e oggi, grazie al lavoro della giornalista Stefania Maurizi, sappiamo che furono gli inglesi a dire agli svedesi, testuali parole, “non vi azzardate a chiudere il caso!”. Poi quasi 7 anni dentro l’ambasciata dell’Ecuador a Londra e questa sera vi porteremo le prove di come sia stato illegalmente spiato per anni dalla società che doveva occuparsi della sicurezza dell’ambasciata: tutti i suoi incontri venivano filmati, persino quelli con i suoi avvocati e tutto finiva negli Stati Uniti. E quando Nils Melzer, il Relatore speciale contro la tortura dell’Onu, decide nel 2019 di aprire una inchiesta sul caso Assange, arrivano le pressioni Usa sull’Ecuador perché la protezione venga sospesa e Scotland Yard lo arresta dentro l’ambasciata e lo trascina in un carcere di massima sicurezza dove è detenuto da quasi due anni e mezzo, in attesa che si decida se consegnarlo agli Stati Uniti che lo vogliono processare con una legge contro lo spionaggio del 1917, mai utilizzata prima contro un giornalista e con una possibile pena di 175 anni di carcere. “Se mi consegneranno agli Stati Uniti farò in modo di non arrivarci vivo”, ha detto Assange a Nils Melzer. E l’Europa? Assente. Mentre tutte le associazioni internazionali che si occupano di libertà e diritti hanno chiesto alla Gran Bretagna la scarcerazione di Assange e agli Stati Uniti di rinunciare a processarlo, nessun leader europeo ha mai ufficialmente detto una sola parola, talmente grande è il potere di interdizione esercitato dagli Stati Uniti sul caso Assange. Ma con quale faccia diamo lezione di democrazia nel mondo intero, se accettiamo che da noi un giornalista ed editore rimanga per anni in carcere in detenzione preventiva e venga processato solo perché ha fatto il suo lavoro? “O la resa o la fame”: il governo siriano stringe d’assedio Daraa al-Balad di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 agosto 2021 Ancora una volta, dopo averla applicata a lungo negli ultimi 10 anni, il governo siriano ricorre alla tattica “o la resa o la fame”, che a un assedio illegale aggiunge bombardamenti indiscriminati contro zone densamente affollate di civili, per costringere l’opposizione armata ad arrendersi e a evacuare la zona. Ancora una volta i civili siriani pagano il prezzo di uno scontro cui non hanno scelto di partecipare. Amnesty International ha chiesto la fine immediata dell’assedio che il governo siriano ha imposto oltre due mesi fa intorno a Daraa al-Balad, una città a sud di Daraa nelle mani dell’opposizione. L’obiettivo dell’assedio è di riprendere interamente il controllo della provincia di Daraa. Dopo lo sfollamento di 38.600 persone, per lo più donne e bambini, nell’unica occasione in cui il governo ha aperto il posto di blocco di Saraya, da Damaa al-Balad possono uscire solo le donne e i bambini di età inferiore a 15 anni, a piedi e a condizione che lascino le loro carte d’identità ai posti di blocco. Gli sfollati hanno trovato posto presso amici e parenti e in sei rifugi collettivi allestiti in scuole e moschee. Le almeno 20.000 persone rimaste sopravvivono con poco cibo e pressoché prive di cure mediche e hanno disperato bisogno di aiuti umanitari, il cui ingresso è impedito dalle autorità di Damasco che consentono la distribuzione degli aiuti solo agli sfollati che hanno lasciato la città. A Daraa al-Balad l’unica struttura sanitaria aperta è stata bombardata il 26 luglio dal governo. Le poche forniture di cibo arrivano attraverso le rotte del contrabbando e sono vendute a prezzi esorbitanti che pochi possono permettersi. Le scorte si esauriranno entro due settimane. Oltre alle medicine, manca anche l’elettricità. Le persone in condizioni di salute critiche, che prima dell’assedio venivano trasferite nelle strutture mediche nelle zone controllate dal governo, come l’ospedale di Daraa al-Mhatta, ora devono attendere l’autorizzazione delle autorità che arriva raramente.