Ridurre i danni prodotti dal carcere, spezzare la catena della cattiva comunicazione di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 2 agosto 2021 Carcere e ospedali: quanto contano l’ascolto e la comunicazione Ho avuto di recente un’esperienza difficile di malattia e di ospedale, e la voglio raccontare. Prima di tutto per un motivo “futile”, che è la consapevolezza di come funziona quel passaparola tra detenuti, e spesso anche operatori, che fa circolare le “notizie” nei luoghi di privazione della libertà e che viene definito spesso “radio carcere”. Essendo il carcere un luogo ancora poco trasparente, al suo interno si sviluppa di frequente una capacità, amplificata rispetto al mondo “libero”, di stravolgere tante notizie che arrivano dall’esterno. Ecco, su di me preferisco essere io a darle, le notizie, e a cominciare così a spezzare la CATENA DELLA CATTIVA INFORMAZIONE. Dunque, gli antefatti. All’improvviso nella mia vita è successo qualcosa di drammatico: ho fatto una risonanza magnetica al cervello, a partire dagli acufeni nelle orecchie che mi angustiavano e da un rimbombo che sentivo nella testa, e subito dopo una visita urgente da un neurochirurgo, che ha definito il mio cervello “un casino”. Ho capito che la cosa da cui muove tutto è una malformazione vascolare rara, per cui ho dovuto entrare quasi subito in ospedale, dove mi hanno fatto un intervento fondamentale su questa malformazione, durato otto ore, in anestesia generale, però certamente meno invasivo di una operazione chirurgica; un radiologo è entrato credo con un sondino dall’inguine e ha “risistemato” quel groviglio senza fare un taglietto. Cose da fantascienza, per cui mi reputo anche fortunata che esistano queste straordinarie tecnologie e questa specie di “maghi”. Sono uscita dall’ospedale dopo meno di due settimane a fine giugno e ci ritornerò a breve per la parte conclusiva dell’intervento. Ma il vero motivo per cui voglio parlarne ha a che fare ancora una volta con una materia di cui noi volontari siamo davvero, credo, esperti: la COMUNICAZIONE SU TEMI COMPLESSI, che quando è cattiva è un moltiplicatore di ansia e di rabbia. Le parole per restituire la complessità A partire dalle esperienze di questi anni, di un volontariato che, sui temi del carcere e della complicata realtà esterna che si porta dietro, è sempre più maturo e consapevole del suo ruolo, mi sembra importante allora ripartire da alcune parole che raccontano i risultati significativi del lavoro che stiamo facendo, a cui oggi bisogna attingere per cercare di portare idee nuove in un sistema malato che vive ancora di violenza e di conflitti. Prevenzione Quando sono “esplose” davanti ai nostri occhi le immagini delle violenze di Santa Maria Capua Vetere, a tutti quelli che ci chiedevano di aiutarli a capire, attraverso la nostra competenza di volontari, perché fosse successo quell’orrore, abbiamo faticato molto a cercare di dare delle risposte sensate che non fossero di una generica e scontata indignazione. Il fatto è che il sistema delle pene e del carcere è ancora un sistema malato, e spesso iniquo. Per questo oggi è importante contrapporre a quei disastri violenti quelle attività che in questi anni hanno seriamente cercato di ridurre i danni prodotti dal carcere e hanno spinto a sperimentare la possibilità di un cambiamento profondo, perché questo è il momento di dare valore allo “sguardo lungo” del volontariato, che non ha mai accettato di farsi condizionare dall’alibi delle perenni emergenze carcerarie e che lavora da sempre per produrre percorsi significativi di prevenzione, e per scardinare la dittatura dell’idea di pena come “massimo della sofferenza possibile”. In un Paese come il nostro, in cui si lavora quasi sempre sui disastri già avvenuti, e quasi mai su come prevenirli, la nostra redazione prima, e poi la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, hanno saputo per esempio far tesoro delle esperienze delle persone detenute, “offrendo” agli studenti, con il progetto “A scuola di libertà”, la possibilità di conoscerle per essere più consapevoli del rischio che c’è dietro certi comportamenti trasgressivi e violenti. Ecco, forse quello che abbiamo imparato in quel progetto potrebbe diventare prezioso anche per prevenire i conflitti e le violenze che spesso si incontrano nelle carceri. Perché la prima forma di prevenzione è che le persone, quando non capiscono, possano fare delle domande e aspettarsi, in tempi accettabili, delle risposte. Ma non succede quasi mai così, e questa diffusa incapacità delle Istituzioni di dare risposte è quello che spesso accomuna gli ospedali e le carceri. Quando ero in ospedale, ho osservato tante volte quanto si sottovaluta l’ansia del malato e il suo bisogno di avere risposte, che non significa essere “rassicurato”, ma piuttosto essere aiutato a capire. E ho ripensato al carcere, e a quante volte in questi anni mi irritavano le persone detenute, quando mi chiedevano qualcosa, e poi scoprivo che la stessa cosa l’avevano chiesta a tanti interlocutori diversi. Oggi ho capito meglio che questo atteggiamento è sì fastidioso, ma nasce da una disabitudine ad avere risposte, da una accettazione rassegnata del fatto che l’attesa non ha mai tempi certi, e anche dalla sensazione di non avere neppure il diritto di fare domande. La frustrazione di sentirsi mal sopportati perché si fanno troppe domande o si cercano delle risposte in tempi decenti l’ho provata anch’io, da volontaria, nel mio rapporto con le istituzioni: quante volte mi sono sentita “rimessa al mio posto” per esempio da magistrati, coi quali pensavo di poter scambiare qualche riflessione su una persona detenuta che stavo seguendo? Quante volte ho dovuto cercare di stemperare l’angoscia dei detenuti e delle loro famiglie, sfiancati da attese senza fine? E quante volte mi sono sentita dire “deve avere pazienza”, riferito magari a un detenuto in carcere da trent’anni? Come se la condizione di detenuto legittimasse di fatto qualsiasi ritardo, attesa, mancata risposta. In ospedale succede spesso qualcosa di simile. Anche lì dove ti curano benissimo, così come nel carcere che delle possibilità te le dà, sei comunque dipendente dalla disponibilità del personale ad ascoltarti e a dialogare, e invece l’ASCOLTO/DIALOGO E IL CONFRONTO non sono un di più, sono momenti fondamentali per affrontare la malattia, così come la carcerazione, con gli anticorpi per non farti schiacciare. Comunicazione e informazione Quando si ha a che fare con persone che stanno male, e la perdita della libertà, così come le difficoltà di salute sono situazioni di debolezza e sicura sofferenza, imparare a comunicare e informare correttamente significa ridurre enormemente l’ansia delle persone più fragili, e di conseguenza anche il rischio di reazioni rabbiose e violente. Le parole possono essere terapeutiche, quando esprimono empatia, ma anche quando sanno individuare i punti di maggior debolezza dei propri interlocutori e partire da lì per spiegargli quello che sta succedendo. Ci sono momenti nella vita in cui se le persone, in carcere come in ospedale, fossero accompagnate passo passo a capire cosa gli sta succedendo, forse ci vorrebbe del tempo all’inizio, ma se ne risparmierebbe tanto dopo: perché si eviterebbero le domande ossessive, le ansie che scatenano comportamenti anche violenti, i conflitti, le sofferenze gratuite. Un esempio? Lo posso fare per l’ospedale, io credo che sia stata una sofferenza “gratuita” risvegliarmi da otto ore di anestesia e dover “convivere” con una memoria a buchi, il non saper leggere neppure la mia scrittura, le allucinazioni, le parole che era come se scappassero e io non riuscissi ad afferrarle. Sapere da prima, in modo dettagliato quello che può succederti, dare dei confini chiari alla tua ansia, tutto questo sarebbe stato possibile se qualcuno mi avesse parlato di più. E se nelle carceri qualcuno dell’amministrazione penitenziaria avesse parlato di più, a inizio pandemia, di tutto quello che sarebbe stato fatto, a partire finalmente da un uso sensato delle tecnologie, per mantenere vivi i rapporti con le famiglie, nonostante la chiusura dei colloqui, forse molte cose sarebbero andate diversamente. Formazione Se imparare a comunicare è così importante, la formazione in carcere non può riguardare solo le singole categorie di operatori, ma deve essere fatta in un dialogo/confronto fra persone con diverse competenze, altrimenti il SISTEMA non cambierà mai (e si tratta di un SISTEMA, Santa Maria Capua Vetere ha definitivamente dimostrato che la teoria delle “mele marce” non regge). Ricordo in proposito un intervento di Francesco Cascini, magistrato, ex Vice Capo del DAP e Capo del Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità, a una Giornata di Studi di Ristretti Orizzonti: “Io spesso incontro la polizia penitenziaria, facciamo continuamente corsi di formazione. La sensazione, parlando con loro, è che si sentano ancora in larga misura parti di un conflitto. (…) con l’esecuzione della condanna non inizia il periodo di risoluzione del conflitto, ma è la prosecuzione di quel conflitto”. Ecco perché diventa fondamentale che tutti accettino l’idea di una formazione congiunta, dove punti di vista anche fortemente contrapposti possano trovare un ambito di confronto e di ricomposizione. Altrimenti ogni componente di quel sistema, che dovrebbe avere come faro la Costituzione, finisce per vivere in una specie di circuito a sé, dove nessuno mette in discussione i propri comportamenti e nessuno riconosce nell’Altro un interlocutore importante. Mediazione Qualche anno fa abbiamo sperimentato nella Casa di reclusione di Padova la mediazione di un conflitto violento tra due detenuti, con la guida di Adolfo Ceretti, uno dei massimi esperti di Giustizia riparativa, ma soprattutto uno dei massimi “esperti di umanità” nel trattare questi temi. Da lì è nata una proposta, presentata dalla redazione di Ristretti Orizzonti al Tavolo degli Stati Generali dell’esecuzione penale dedicato alla Giustizia Riparativa: istituire nelle carceri un Ufficio di Mediazione, con un mediatore non legato all’Amministrazione penitenziaria, ma a un Centro per la Mediazione esterno, così molti conflitti potrebbero essere prevenuti, soprattutto dedicando tempo e risorse alla formazione sui metodi dell’ASCOLTO. Sostiene sempre Francesco Cascini che “…le ferite si rimarginano con gli incontri, il carcere può diventare un luogo molto più aperto di quello che è, questi luoghi anonimi possono essere riempiti di cose in modo da consentire le relazioni con le persone. Tutte le persone detenute che abbiamo sentito dicono che cambiano per il rapporto che c’è con l’esterno, per gli incontri che fanno”. Le vittime che accettano di entrare nelle carceri, di ascoltare le persone detenute e di farsi ascoltare, contribuiscono a rimarginare le proprie e le altrui ferite, ma anche le persone detenute che portano la loro testimonianza fanno un grande atto di giustizia riparativa, perché riparano in qualche modo al male fatto scavando tra le macerie del proprio passato per ricavarne un insegnamento per tanti ragazzi esposti a comportamenti sempre più rischiosi. Ripartiamo allora da qui, riempiamo di contenuti la parola “rieducazione”, che se serve ad aiutare tutti a mettersi in gioco e non inchioda le persone al loro ruolo, ma le riconduce nell’ambito dell’ascolto, del confronto, del dialogo, è una parola importante, da “salvare” e a cui ridare valore. Quando la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il presidente Mario Draghi si sono recati nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, hanno fatto un gesto denso di significati, hanno voluto esserci per dire che nessuna violenza può essere tollerata in nessun luogo del nostro paese e nei confronti di nessuno, neanche del più feroce criminale. Sarebbe importante per il futuro che in occasioni come queste le persone detenute potessero esprimersi non solo singolarmente, ma forti di un sistema di rappresentanza realmente democratico, dunque fatto di persone elette e non estratte a sorte, e questa deve essere un’altra battaglia che il Volontariato deve fare, per l’istituzione di una RAPPRESENTANZA VERA delle persone detenute. Perché passa anche da qui la strada per ridare la responsabilità delle proprie azioni a chi l’ha persa, o magari non ha mai saputo esercitarla davvero. Ma il Volontariato in questa necessaria riforma dell’esecuzione penale deve fare qualcosa di più di “dire la sua”: deve vedere riconosciuto il suo ruolo, come lo configurano il Codice del Terzo Settore e le recenti Linee guida per il rapporto con la Pubblica Amministrazione che lo riguardano. Quindi, non più un ruolo subalterno, non più la sgradita sensazione di sentirsi “ospiti” nelle carceri, ma un rapporto con le Istituzioni che si svolga su un piano di assoluta parità, in cui tutti devono essere chiamati alla coprogettazione e alla coprogrammazione di quei percorsi dal carcere alla comunità, che devono essere al centro della vita detentiva. Perché è importante capire che una persona detenuta, che non riesca ad accedere in tempi accettabili al reinserimento nella società, rappresenta un rischio che chi, dentro alla società, ha davvero a cuore la sicurezza sociale non può correre. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Antigone e i mali del carcere: troppi detenuti e poche attività. Lavora solo una donna su 67 di Luca Muleo Corriere della Sera, 2 agosto 2021 L’associazione: nemmeno il Covid ha ridotto il sovraffollamento. “Neanche la pandemia ha saputo azzerare il sovraffollamento”. È una delle prime conclusioni che introducono i risultati del rapporto Antigone, l’associazione che ogni anno fornisce il suo monitoraggio sulle condizioni di detenzione nelle carceri italiane. I numeri raccontano come a una riduzione fisiologica legata al Covid, nell’ultimo trimestre in cui è stata effettuata la rilevazione, da dicembre 2020 a marzo 2021, siano tornati a salire. E la Dozza di Bologna sembra non fare eccezione trovandosi al quindicesimo posto tra le venti carceri del paese con maggior tasso di sovraffollamento. Se il dato nazionale si attesta al 106,2% contro il 98% ritenuto fisiologico per un sistema che sia pronto a garantire sempre un numero di posti liberi, a Bologna il tasso raggiunge il 149,2% con 746 detenuti per 500 posti, peggio di Regina Coeli a Roma, o Catania e Bari. Mentre la regione è sesta al 109,25% con 3270 presenze su 2993 posti. Degrado e affollamento - “Il sovraffollamento, da condizione oggettiva di trattamento degradante, è diventato anche questione di salute pubblica” si legge nell’analisi che arriva nell’anno segnato dal Covid e dalle rivolte con un morto a Bologna e otto a Modena dove l’inchiesta è stata archiviata, la causa dei decessi è stata finora individuata in overdose dopo l’assalto alla farmacia interna, e la stessa Antigone ha annunciato il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Continua invece il calo degli stranieri, quasi 7 mila detenuti in meno in Italia negli ultimi 11 anni. Qui l’Emilia Romagna è sesta per percentuale, 47,2% e quinta in numeri assoluti, 1521 al 31 gennaio 2021. Nello studio si indicano gli interventi necessari per migliorare le condizioni carcerarie a partire da un cambio dei regolamenti, tale da rendere la vita dei detenuti “più simile possibile a quella esterna”, in modo da preparare il reinserimento in società, a fronte di una popolazione sempre più giovane. Donne e lavoro - E si sottolinea la necessità di maggiori risorse per le misure alternative, per la scuola e per i corsi di formazione, che con il Covid hanno subito uno stop pesante. L’esempio che riguarda le donne è esemplificativo, poche quelle che lavorano fuori dal carcere. Qui una sola su 67. Poche anche le lavoratrici in carcere per datori di lavoro esterni, 5 in tutto. Migliori anche se ancora non del tutto soddisfacenti i dati su corsi scolastici, 33 frequentanti, e di formazione professionale seguiti da 7. Alto anche il numero di ragazzi presenti all’istituto penale minorile del Pratello, 20 di cui 8 minori e 12 maggiorenni, sesto posto italiano. Nei mesi di lockdown i ragazzi sono stati impiegati in attività di sanificazione e riqualificazione degli ambienti, hanno ridipinto gli spazi comuni, si sono dedicati all’orto dell’istituto. Attività scolastiche e laboratori si sono fermati prima di ripartire a settembre 2020. In ogni caso, si legge nel rapporto, “nessun ragazzo detenuto presso l’Ipm bolognese è coinvolto in reali opportunità lavorative, né all’interno né all’esterno dell’istituto”. Bambini imprigionati, esiste un giudice? di Iuri Maria Prado Il Riformista, 2 agosto 2021 Ma che cosa pensa il magistrato del proprio provvedimento che tiene in prigione una donna e il suo bambino? Ci sono tre ipotesi, mi pare. La prima: pensa che sia giusto, e cioè che sia appropriata la legge che, suo tramite, realizza quell’abominio. Se è così, credo sia esatto tenerlo per aguzzino, perché non si vede come considerare altrimenti uno che imprigiona quell’innocente. Seconda ipotesi: pensa che sia ingiusto, e cioè che nessuna legge dovrebbe obbligarlo ad arrecare quel male. Se è così, credo sia esatto tenerlo per vigliacco, perché diversamente non si saprebbe come definire chi non si assolve da quell’obbligo rinunciando a farsi strumento di una simile crudeltà. La terza ipotesi, se possibile, è la più allarmante: e cioè che quel sequestratore di Stato ritenga in tal modo di adempiere a un’esigenza di giustizia così alta da giustificare - “purtroppo” - anche quel sacrificio. Nei primi due casi è, alternativamente, la soddisfazione di chi tortura o l’inerzia di chi la infligge perché non ne ha sufficiente ripugnanza. Nel terzo, anche più gravemente, è il finalismo di chi la giustifica per quanto gli spiaccia. Lo stesso finalismo che allarga le braccia se il detenuto si impicca: perché, per la legge che ne comanda l’arresto, la vita del condannato è meno importante della sua vita rinchiusa. Lo stesso finalismo che fa spallucce davanti all’assoluzione in trafiletto dopo l’arresto in prima pagina: perché il potere di dimostrare la colpevolezza vale più del diritto di protestare l’innocenza. È uguale: quella madre deve subire la pena perché è giusto così; e se questa giustizia implica l’ingiustizia inflitta a un bambino, ebbene bisogna farsene una ragione perché persino l’infanzia libera è sacrificabile in nome della pretesa punitiva dello Stato. Si potrebbe aggiungere che, se questa inciviltà continua, il problema non è tanto del magistrato che con il suo potere la realizza, ma nostro, che quel potere continuiamo a lasciargli. Verissimo. Diciamo però che se uno, almeno uno, adoperasse l’autonomia e l’indipendenza che gli sorregge la carriera per dimostrare di non appartenere a nessuna di quelle tre categorie, allora qualcosa comincerebbe forse a cambiare. Nel frattempo, con i bambini che continuano a essere tenuti in carcere, sarà gioco forza continuare a giudicare chi ce li manda per quel che è: un aguzzino o un vigliacco o un giustiziere. Dunque uno che non meriterebbe di essere giudice. La riforma della giustizia all’esame della Camera di Davide Varì Il Dubbio, 2 agosto 2021 Bocciate le pregiudiziali di costituzionalità alla riforma del processo penale con 357 voti contrari, 48 i favorevoli. Domani si dovrebbe votare la fiducia e martedì il via libera finale. La riforma della giustizia, licenziata venerdì dalla Commissione Giustizia, è arrivata a Montecitorio. Il dibattitto su due maxi-emendamenti al provvedimento è stato preceduto dal voto sulle pregiudiziali di costituzionalità presentate dalle opposizioni. Pregiudiziali che sono state bocciate dall’aula con 357 voti contrari e 48 favorevoli. L’intenzione del governo di chiedere il voto di fiducia già in serata, da votare domani. Martedì il via libera finale al provvedimento. Sono in tutto 41 i deputati del Movimento5 stelle che non hanno partecipato al voto, senza essere in missione, sulle questioni pregiudiziali di costituzionalità. Anche se il deputato Luigi Gallo, che dai tabulati della votazione risulta assente, ha precisato di aver votato. Sono invece 13 gli assenti M5s “giustificati” in quanto in missione. Tra i non partecipanti al voto figurano l’ex sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Conte Riccardo Fraccaro, il capogruppo pentastellato in commissione Giustizia Eugenio Saitta, il presidente della commissione Affari Costituzionali Giuseppe Brescia. E ancora, Vittoria Baldino, Elisabetta Barbuto, Giuseppe Buompane, Francesca Businarolo, Cadeddu Luciano, Luciano Cantone, Luca Carabetta, Andrea Caso, Rosalba Cimino, Tiziana Ciprini, Valentina Corneli, Celeste D’Arrando, Daniele Del Grosso, Antonio Del Monaco, Federica Dieni, Mattia Fantinati, Marialuisa Faro, Conny Giordano, Giulia Grillo, Nicola Grimaldi, Angela Ianaro, Marianna Iorio, Gabriele Lorenzoni, Stefania Mammì, Maria Marzana, Angela Masi, AnnaLaura Orrico, Paolo Parentela, Cosimo Pignatone, Roberto Rossini, Enrica Segneri, Davide Serritella, Patrizia Terzoni, Riccardo Tucci, Gianluca Vacca, Giovanni Vianello. Numerose le assenze nel gruppo di Forza Italia, nel Misto e in Coraggio Italia. Risultano essere 12 assenti (su 93 totali) nelPd. Infine un pentastellato, Melicchio, ha votato a favore assieme alle opposizioni. Riflettori puntati, quindi sul Movimento 5Stelle e su Giuseppe Conte. Il leader in pectore del M5S, Giuseppe Conte, ha detto ai suoi durante l’assemblea congiunta di deputati e senatori pentastellati sulla riforma: “Ci siamo accorti subito di alcune criticità della riforma Cartabia. Erano insuperabili. Il testo così com’era non poteva essere approvato, ho fatto io stesso una grande interlocuzione con il presidente Draghi e gli altri. Siamo stati forti e compatti, non ascoltate le ricostruzioni. Per tre quarti l’impianto normativo complessivo è targato Bonafede-Cinquestelle”. Conte ha aggiunto: “Abbiamo avuto un metodo di lavoro nuovo. Ho creato una cabina di regia tecnica per lavorare su questo tema, per formulare nostre richieste tecniche. Nello stesso tempo ho creato una cabina di regia politica con chiunque ha avuto un peso in questa vicenda. Questo è il mio metodo decisionale. Ampio confronto interno”. L’ex presidente del Consiglio ha detto chiaramente: “Smentisco le parole di quelli che pensavano che noi volessimo minare il governo”. Giustizia: alla Camera voto di fiducia nella notte. Approvazione finale domani di Silvio Buzzanca La Repubblica, 2 agosto 2021 Il via libera definitivo alla riforma domani dopo l’esame degli ordini del giorno e il sì finale al provvedimento. Il testo poi passa al Senato. Attesa per verificare il dissenso grillino dopo le assenze di ieri sulle pregiudiziali. Lunedì mattina tranquilla a Montecitorio. Saloni vuoti, buvette deserta, addetti alle pulizie in azione per rimettere ordine dopo la tumultuosa seduta notturna di ieri. Ma ci si prepara a trascorrere la nottata in aula. Ieri infatti alle 22,30 il governo ha posto la questione di fiducia sulla riforma della giustizia targata Marta Cartabia e Mario Draghi e stasera alla stessa ora cominceranno le votazioni che andranno avanti nella notte. Ha faticato ieri il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà a leggere la formula di rito che annuncia la fiducia. Il presidente Roberto Fico ha dovuto chiamare i commessi a protezione del banco del governo e del ministro, assediati dal manipolo dei deputati di Alternativa c’è urlanti e schiamazzanti. Sono ex grillini, cacciati, dissidenti, allontanati che si sono associati a Fratelli d’Italia nell’ostacolare la discussione del progetto Cartabia. Sono 15 e sono una componente del gruppo Misto. Le solite voci di corridoio dicono che ci sono altri cinque grillini pronti ad aderire alla componente, permettendo quindi di formare un gruppo vero e proprio. Il leader è Andrea Colletti che dopo la protesta, durata pochi minuti, ha consegnato alla storia le motivazioni del gesto dimostrativo: “Con lo strumento del voto di fiducia, il governo occupa gli spazi democratici del Parlamento e noi, pacificamente, occupiamo, simbolicamente, gli spazi fisici del governo. Chiediamo solo la centralità del Parlamento, quello che è previsto in Costituzione”. Oggi però c’è poco da fare. Al massimo preparare gli interventi e studiare qualche trovata per strappare qualche secondo di attenzione di tv e telefonini. Si deve solo aspettare che passino le ventiquattro ore di rito per votare sì o no. L’appuntamento per i deputati è però alle 20,45, quando i gruppi parlamentari faranno le loro dichiarazioni di voto finali sul testo. Un testo che è diviso in due parti: una delega al governo, che dunque prevede l’emanazione da parte del governo di una serie di decreti legislativi, e alcune norme che una volta approvate entrano in vigore immediatamente. Ma ci sarà una sola dichiarazione di voto. Tra i cronisti parlamentari gli occhi sono puntati sul Movimento Cinque Stelle: il tam tam dice che sarà Alfonso Bonafede a parlare a nome dei grillini. Proprio lui, l’ex ministro della Giustizia che ha varato la riforma della prescrizione che il nuovo testo cerca di smontare e mandare in soffitta. Ha già annunciato che voterà in maniera entusiasta la fiducia. E probabilmente riprenderà la linea indicata da Giuseppe Conte: votiamo sì perché tre quarti della riforma firmata da Bonafede resta in piedi e abbiamo messo dei paletti che salvano dall’estinzione molti processi. Inoltre tutti vorranno vedere cosa faranno i grillini che non gradiscono più di tanto il varo della riforma. Ci saranno i 40 che ieri erano assenti nel voto sulle pregiudiziali? La chiama nominale dei deputati dovrebbe cominciare verso le 22,30 e dovrebbe concludersi verso le 2.30. E chissà se dopo l’occupazione dei banchi del governo non risentiremo le critiche dei grillini dissidenti contro questo modo un po’ arcaico di esprimere e contare i voti di fiducia. All’epoca in cui il motto era aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno si arrivava anche a calcolare lo spreco in termini di corrente elettrica consumata per mettere in scena il voto di fiducia. Ma la proclamazione del risultato non metterà la parola fine all’iter di approvazione. Il regolamento della Camera prevede una coda che andrà in scena domani mattina: si dovranno esaminare gli ordini del giorno e ascoltare le relative dichiarazioni di voto. E infine l’ultimo passaggio: il voto finale di approvazione del testo. Poi la riforma passa al Senato. La Camera però non va in ferie: dal Senato è arrivato il decreto Brunetta che deve essere approvato definitivamente. L’esame inizia domani e se ne occuperanno la commissione Affari costituzionali e Il voto finale sarà poi martedì mattina dopo l’esame degli ordini del giorno. La settimana proseguirà con la conversione del decreto Brunetta sulla Pubblica amministrazione giunto dal Senato e in scadenza l’8 agosto. L’esame inizia domani nelle Commissioni congiunte Affari costituzionali e Lavoro e l’approdo in aula è previsto per giovedì 4 agosto. La Camera vuota a metà vota la riforma Cartabia ma guarda le Olimpiadi di Federico Capurso La Stampa, 2 agosto 2021 Domenica d’agosto inedita a Montecitorio, in tanti scelgono il mare. Quarantuno grillini non si presentano, il leader li striglia. La Giustizia, le Olimpiadi o le vacanze? Per un giorno diventa difficile dire quale sia l’ordine delle priorità dei nostri deputati, costretti - pur di iniziare la discussione della riforma Cartabia - a presentarsi alla Camera sotto il sole sahariano della prima domenica d’agosto. Quando il presidente della Camera Roberto Fico dà il via alla giornata, alle 14, la prima impressione è che in tanti abbiano preferito il mare. Forza Italia e il gruppo Misto sono praticamente dimezzati, a Italia viva manca un deputato su tre, e i Cinque stelle, dopo le recenti fibrillazioni, contano 41 assenti ingiustificati. O meglio, le giustificazioni date non sembrano essere proprio inattaccabili. In tre sono a un matrimonio, una decina ha “problemi logistici”, e dei rimanenti “alcuni non si sono presentati perché avevano impegni sui territori - fanno sapere dal direttivo M5S - Altri invece non hanno dato spiegazioni. Ma questa, in fondo, non è la nostra riforma”. Per quanto indigesta, a Giuseppe Conte non è “affatto piaciuto” l’atteggiamento mostrato dai deputati e li striglia: “È vero che era domenica, che la nostra presenza non era fondamentale, ma noi la nostra forza politica la dimostriamo con la compattezza”. Peccato che per fare la ramanzina sull’eccepibile comportamento dei suoi, Conte decida di convocare un’assemblea dei parlamentari mentre l’Aula a Montecitorio è ancora riunita. E infatti i deputati, per seguire la riunione di partito, devono mettere da parte i lavori parlamentari, infilare le cuffiette e connettersi su Zoom. Non che prima, all’interno della Camera, il livello dell’attenzione generale fosse altissimo. Deputati di ogni schieramento hanno già da un pezzo gli occhi fissi sugli schermi dei telefonini, intenti a seguire le Olimpiadi. Un po’ come Fantozzi, alla proiezione della Corazzata Potemkin con la radiolina nascosta per non perdersi Italia-Inghilterra. Si potrebbe cronometrare il tempo che separa lo storico doppio oro olimpico, ottenuto per il salto in alto e i cento metri, dal momento dell’ovazione scattata a Montecitorio. Questione di secondi e giù urla e applausi. C’è anche chi se l’è perso, come il vice-capogruppo dei Cinque stelle Riccardo Ricciardi, che esce infuriato in cortile: “Possibile che la Rai, nel 2021, non faccia vedere le Olimpiadi in streaming?”. Avrebbe dovuto fare come il suo collega Simone Valente, che fa segno di essere occupato a chi si avvicina, mostrando il cellulare: “Telefonata? No, sto vedendo la diretta su Eurosport”. Le vie dello streaming sono infinite, ma in fondo Valente, da ex sottosegretario allo Sport, è comprensibile che le percorra. Anche la deputata di Fratelli d’Italia Rachele Silvestri, ascolana, è occupata: “Sta per partire la Quintana, ho un groppo allo stomaco”, dice al suo capogruppo, Francesco Lollobrigida. I meloniani, a metà pomeriggio, si riposano. La loro raffica di richiami al regolamento è stata respinta, a fatica, dal presidente della Camera Roberto Fico, così come la richiesta di voto segreto sulle pregiudiziali di costituzionalità. Fico “ha perso anche troppo tempo”, borbottano i “veterani” del Pd: “Un’ora e mezza a spiegare e a rievocare il caso del voto segreto sul green pass”. Volano, tra i loro banchi, battutine sarcastiche: “Fico sta trattando questioni fon-da-men-ta-li, ma non potremmo discuterne in un altro momento?”. Ad Alessandro Melicchio, M5S, le pregiudiziali invece interessano, perché è l’unico della maggioranza a votare a favore: “Vedo criticità di tipo costituzionale e il testo nel complesso non mi piace, nonostante Conte e i ministri M5S lo abbiano migliorato”, dice a La Stampa. Però vuole rassicurare i suoi: “Non è in discussione il mio voto favorevole sulla fiducia”. Ci provano gli ex M5s di Alternativa c’è a smorzare l’atmosfera da infradito, occupando i banchi del governo in segno di protesta quando il ministro per i rapporti con in Parlamento Federico D’Incà pone la fiducia sulla riforma (si voterà oggi). Ma è un lampo. Poi si può tornare a pianificare le vacanze. Tanto che un gruppo di quattro leghisti si sparpaglia in cortile e ognuno, con lo smartphone, partecipa alla videochiamata con una collega rimasta a casa malata: “Tranquilla, non ti stai perdendo nulla”. L’ira di Conte contro i dissidenti 5S. Nel voto alla Camera 40 assenti di Matteo Pucciarelli La Repubblica, 2 agosto 2021 L’ex presidente del Consiglio difende l’intesa sul testo Cartabia: “È stata una vittoria”. E si scaglia contro Melicchio che vota con l’opposizione. Toninelli insiste: meglio consultare gli iscritti. In assemblea coi parlamentari Giuseppe Conte se la prende con i disidenti e difende a spada tratta l’accordo di giovedì scorso in Consiglio dei ministri, “è stata una vittoria”. Lo fa anche Alfonso Bonafede (“voterò sì alla fiducia e lo farò con grande orgoglio”), l’ex ministro della Giustizia la cui riforma è stata cestinata - a sentire le dichiarazioni pubbliche di esponenti di Lega, Forza Italia e Italia Viva - e che invece, parola dello stesso ex presidente del Consiglio, “è per tre quarti sovrapponibile a quella di Marta Cartabia”. L’assemblea degli eletti del M5S alla fine promuove il lavoro del proprio (quasi) presidente del partito, anche se alla storia dei “tre quarti” sono in pochi a dar credito. Sui reati ambientali, ad esempio, sono stati i deputati della commissione Ambiente a chiedere ulteriori allargamenti temporali nei processi, ma è praticamente impossibile fare altre modifiche al testo, così anche sulla gestione del decreto semplificazioni c’è stata qualche lamentela. Danilo Toninelli ha ribadito che avrebbe preferito far vidimare l’accordo dagli iscritti con una votazione sulla nuova piattaforma (“la riforma rimane la riforma Bonafede e quindi non tradiamo nessun valore e non tradiamo nessun principio. Non possiamo presentarci e svolgere l’attività politica, istituzionale e di governo se ogni volta dobbiamo passare per il voto sul web”, la replica di Conte). Una sola deputata invece ha spiegato che no, difficilmente dirà sì in aula, oggi o domani, al voto di fiducia. “Sono in difficoltà. Ci sono stati miglioramenti ma questo testo resta un abominio. Con questo non voglio mancare di rispetto alle persone che si sono impegnate per migliorare la riforma e a chi ha più competenze ma sono molto in difficoltà anche se non mi sono mai permessa di uscire con dichiarazioni su questo mio disagio”, le parole di Antonella Papiro. Dopodiché c’è un dato che ieri ha fatto preoccupare Conte, cioè l’assenza in aula alla Camera di una quarantina di deputati del Movimento, un quarto del gruppo, al voto sulla pregiudiziale di costituzionalità proposta dagli ex 5S di “L’Alternativa C’è”. Nomi anche di peso, come Giulia Sarti, che poi però a inizio discussione ha illustrato la riforma; ma pure l’ex sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Conte Riccardo Fraccaro. “È vero che era domenica, che la nostra presenza non era fondamentale, ma noi la nostra forza la dimostriamo con la compattezza. Chi vuole bene al M5S partecipa alle votazioni ed ai processi decisori compattamente, esprimendo la nostra linea”, ha sottolineato. E all’unico voto interno in dissenso sulle pregiudiziali, quello di Alessandro Melicchio, altro rimprovero: “Hai mancato di rispetto a tutti i tuoi colleghi ed è arrogante e presuntuoso pensare che la tua coscienza sia più importante di quella collettiva e dei tuoi colleghi. D’ora in poi queste cose devono cambiare”. Posto che comunque altri gruppi (Forza Italia, Italia Viva, il misto) hanno avuti tassi di presenza ancora più bassi, e la Lega molto simili a quelli dei 5 Stelle. Segnale di ammutinamento in vista della fiducia che si voterà oggi? Nel Movimento assicurano di no. “Ero al matrimonio della mia migliore amica - assicura ad esempio Vittoria Baldino, una dei non presenti a Montecitorio - e peraltro penso che la presenza del M5S sia stata determinante per evitare una moria di processi. Conte ha fatto un ottimo lavoro. Al governo ha dimostrato ampie doti di mediatore, ora determinazione”. Oggi e domani comunque sarà una doppia giornata di voto per il Movimento. Non solo sulla riforma della giustizia, ma anche per la modifica dello Statuto e che istituisce la figura del presidente, Conte per l’appunto. Problemi non ce ne saranno, se non per il quorum. Infatti la modifica passerà solo se parteciperà la maggioranza assoluta degli iscritti, altrimenti si dovrà andare in seconda convocazione, il 5-6 agosto, dove basterà la maggioranza semplice Riforma della Giustizia, primo sì in Aula. Assente un grillino su 4, Conte: non mi è piaciuto di Barbara Acquaviti Il Messaggero, 2 agosto 2021 Giuseppe Conte elogia la “compattezza” del M5s e, anzi, la considera addirittura la chiave che ha consentito al governo di uscire dall’impasse. Dopo l’accordo raggiunto in Consiglio dei ministri la riforma della giustizia è blindata e lo è in particolare per i pentastellati. Perché la mediazione siglata è soprattutto il risultato del fragile equilibrio interno tra l’ala governista e quella contiana. Ma c’è un numero che aiuta a capire quante macerie abbia lasciato nel gruppo grillino: 41. Tanti erano ieri gli assenti al primo voto sul testo Cartabia, quello sulle pregiudiziali di costituzionalità presentate dall’opposizione. Escludendo quelli in missione, praticamente uno su quattro. Riforma della Giustizia, in settimana il varo da parte della Camera - Nessuna conseguenza pratica per il prosieguo dell’iter parlamentare della riforma, visto che le pregiudiziali alla fine risultano essere bocciate con 357 no. Nonostante l’opposizione faccia il suo mestiere mettendo in atto un serrato ostruzionismo, il timing non cambia. Oggi si voterà la fiducia e per domani è atteso il primo via libera da parte di Montecitorio. Alla fine solo uno dei pentastellati decide di votare con le opposizioni, Alessandro Mellicchio. Ma quei banchi vuoti, pur in una anomala domenica agostana di votazioni, è il segno di un malessere che Giuseppe Conte prova a mitigare dicendo che “non è un compromesso al ribasso”. Nell’incontro con i gruppi parlamentari convocato via zoom proprio per sedare i malumori, arriva anche a sostenere che l’impianto resta quello dei 5stelle. “Noi abbiamo una riforma che rimane per buona parte nostra. Bonafede ha ricevuto molti attacchi ingiustamente. Probabilmente perché aveva fatto bene e aveva toccato interessi che si oppongono alle riforme vere”. Ma di quella riforma del processo penale rimane ben poco, soprattutto del caposaldo dell’abolizione della prescrizione. L’inversione a U - Anche se adesso il leader in pectore fa una quasi inversione a U. “Non abbiamo più la visione che il processo non debba mai finire”. L’ex premier stigmatizza le assenze anche perché la parte che gli tocca interpretare impone che dica che non c’è mai stata nessuna intenzione di minare il governo. “È vero che era domenica, che la nostra presenza non era fondamentale ma noi la nostra forza politica la dimostriamo con la compattezza. Chi vuole bene al M5s partecipa alle votazioni e ai processi decisori compattamente, esprimendo la nostra linea”. Ma, soprattutto, Conte sostiene che non ci sia alcuna ragione di passare dal voto degli iscritti. “La riforma rimane la riforma Bonafede e quindi non tradiamo nessun valore e non tradiamo nessun principio. Non possiamo presentarci e svolgere l’attività politica, istituzionale e di governo se ogni volta dobbiamo passare per il voto sul web”. Una scelta contestata durante la riunione con i gruppi dall’ex ministro, Danilo Toninelli. “Credo che il voto degli iscritti sulla giustizia sarebbe stato un elemento di forza e non di debolezza”. Ma il rischio di esiti imprevedibili era concreto e per il leader in pectore sarebbe stata una prima clamorosa sconfessione della linea ufficiale. Oggi però gli iscritti M5s saranno chiamati a esprimersi su un altro punto: il nuovo statuto. Sul testo, frutto della tregua tra Grillo e Conte al termine di uno scontro squadernato in piazza senza remore, si voterà a partire dalle 10. Processi penali, filtro d’ingresso per il tribunale monocratico di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2021 Verso la riforma. Il testo all’esame della Camera incarica un altro magistrato di valutare prima le richieste dei Pm per ridurre carichi e arretrati. Si avvicina l’udienza filtro per i giudizi a citazione diretta di fronte al tribunale monocratico. È una delle novità previste dalla riforma del processo penale, che prova così a offrire una cura a uno dei settori della giurisdizione penale più in sofferenza, soprattutto in termini di arretrato (cresciuto del 41,1% in dieci anni, mentre quello delle pendenze penali totali è sceso del 5,2%). La norma è contenuta nel testo approvato venerdì scorso dalla commissione Giustizia della Camera. A dettagliarla è uno degli emendamenti presentati dal Governo in base alle proposte in Commissione - voluta dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, e presieduta da Giorgio Lattanzi. Ma l’accordo raggiunto in seno alla maggioranza - su questo punto, a differenza di altri, a partire dalle norme sull’improcedibilità - ha sostanzialmente confermato l’impianto del disegno di legge delega approvato quando ministro era Alfonso Bonafede. L’udienza filtro non ha solo finalità deflattive, ma punta anche a evitare il dibattimento se non necessario perché, come spiega la relazione della commissione Lattanzi, “il dibattimento per chi è costretto a subirlo costituisce già di per sé una “pena”, che non deve essere inflitta se ne mancano le ragioni”. La modifica è stata pensata a partire dall’alto numero delle assoluzioni nei giudizi di primo grado: l’incidenza delle condanne sui definiti, negli anni 2015- 2019, è pari in media al 41% del totale. Ma la norma, secondo gli operatori, non è esente da criticità. La “citazione diretta” Il rito monocratico (in cui cioè la decisione spetta a un solo giudice) a citazione diretta è quello riservato ai reati meno gravi. Sono quelli previsti dall’articolo 550 del Codice di procedura penale: le contravvenzioni e i delitti puniti con la pena della reclusione non superiore a quattro anni nel massimo o con la multa, oltre ad altri reati individuati puntualmente, come rissa aggravata, furto aggravato, lesioni personali stradali. In questi casi, oggi il processo si instaura senza che sia preceduto da una richiesta di rinvio a giudizio da parte del pubblico ministero, con la conseguente fissazione dell’udienza preliminare. È l’ipotesi di fatto più frequente. E la riforma prevede di ampliare ancora il raggio della citazione diretta ai reati con pena fino a sei anni, che non presentino rilevanti difficoltà di accertamento. L’udienza predibattimentale In questi procedimenti a citazione diretta, la riforma propone di introdurre un’udienza predibattimentale in camera di consiglio, di fronte a un giudice diverso da quello davanti al quale si dovrà eventualmente celebrare il dibattimento. In questa udienza il giudice avrà, di fatto, il ruolo di filtrare le citazioni dirette formulate dal Pm, per verificare l’effettiva necessità della celebrazione del dibattimento. Così, se il processo non è definito con un procedimento speciale, il giudice sarà chiamato a valutare, sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del Pm, se sussistono le condizioni per pronunciare sentenza di non luogo a procedere perché gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna. Altrimenti, il giudice fisserà la data per una nuova udienza per l’apertura del dibattimento, da tenere non prima di 20 giorni di fronte a un altro giudice. Nel parere sulla riforma approvato giovedì scorso dal plenum, il Csm ha valutato positivamente gli obiettivi e le potenzialità deflattive dell’udienza filtro ma ha anche sollevato preoccupazioni sulle ricadute organizzative, perché la “doverosa previsione” per cui il dibattimento si dovrà svolgere di fronte a un giudice diverso da quello dell’udienza filtro aumenterà le ipotesi di incompatibilità, con problemi soprattutto nei tribunali più piccoli. Netti, invece, nei loro pareri sulla riforma, gli avvocati dell’Unione delle Camere penali, per cui la previsione di un’udienza filtro rischia di appesantire i meccanismi processuali. Le toghe che vogliono scrivere le leggi: ecco la vera emergenza di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 2 agosto 2021 Non facciamoci distrarre dal penoso teatrino politico andato in scena in questi ultimi giorni a proposito di “riforma della giustizia penale”. Disinteressiamoci delle bandierine pateticamente piazzate da tutti in ogni dove, e di improbabili leader che pretenderebbero di costruire su simili cialtronerie nientedimeno che la propria nuova avventura politica (auguri!). Salutiamo con la dovuta soddisfazione la fine dell’era Bonafede e del suo fanatico culto dell’”imputato a vita” come cifra -pensa te- di una giustizia finalmente equa e “uguale per tutti” (?!). Investiamo tutte le nostre incerte speranze sul fatto che i soldi arrivino davvero, e che possano finalmente essere spesi per rinnovare profondamente le strutture collassate della amministrazione della giustizia penale, vera e principale causa della irragionevole durata dei processi in Italia. Concentriamoci invece su ciò che davvero questa vicenda, sedimentatasi in particolare intorno al tema della prescrizione, ci ha ancora una volta drammaticamente confermato. Si faccia finalmente uno sforzo coraggioso (il fondo di Paolo Mieli sul Corsera lascia baluginare qualche scampolo di speranza) da parte dei media e di qualche leader politico meno conformista e giudiziariamente non intimidito, per lanciare seriamente una profonda riflessione sulla vera emergenza democratica di questo Paese. Vale a dire l’anomalo, indebito, incostituzionale potere di interdizione e condizionamento che la Magistratura italiana esercita nei confronti del Parlamento e del Governo in materia di legislazione penale. La umiliante condizione nella quale versa la nostra malferma democrazia è chiarissima: se alla Magistratura non piace una legge in materia penale ed in materia di ordinamento giudiziario, quella legge non si fa. O altrimenti - se il Governo, come in questa ultima vicenda, oppone una seppur ossequiosa resistenza, va riscritta quanto più possibile nei sensi brutalmente indicati dalle bocche di fuoco mediatiche che puntualmente, e con accorta strategia, fanno partire l’immancabile cannoneggiamento. Non raccontiamoci la storiella della libera manifestazione di pensiero che la magistratura rivendica. Se un magistrato di Procura ai vertici dell’Antimafia si permette di dire, per di più contro ogni logica ed ogni effettiva realtà giudiziaria, ma con la forza micidiale che gli deriva dallo scranno, che una legge in gestazione tra Governo della Repubblica e Parlamento sovrani “mette in pericolo la sicurezza nazionale”, e quell’altro Procuratore simbolo, nello stesso giorno, che “migliaia” di mafiosi rimarranno impuniti, siamo semplicemente in presenza di un protervo tentativo di indebito condizionamento del potere legislativo e di quello esecutivo da parte di un potere - quello giudiziario - il cui compito costituzionale è di applicare la legge, ossequiandola fedelmente, non di scriverla. D’altro canto, pretendere - per capirci - che il Capo dello Stato non rilasci interviste sul merito di una legge mentre essa è in discussione in Parlamento, non ha nulla a che fare con la limitazione della libertà di manifestazione del pensiero del Capo dello Stato, ma ha molto a che fare con la intangibilità degli equilibri costituzionali. Se poi si aggiungono al cannoneggiamento mediatico di cui sopra i pareri del Csm e - sopra ogni altra cosa - il lavoro quotidiano, tecnicamente dettagliato e perciò sostanzialmente incontrollabile, della legione di magistrati militarmente distaccati presso il Ministero di Giustizia, il quadro è completo e chiarissimo, per chi non voglia foderarsi gli occhi di prosciutto. Chi nutrisse ancora qualche dubbio sulla sistematica progettazione, attraverso quei distacchi, del condizionamento del Ministro di Giustizia di turno, legga la documentata testimonianza di Luca Palamara. Siamo l’unico Paese al mondo nel quale accade una vergogna del genere. Unico in tutto il mondo, non so se sono stato chiaro. Dunque, possiamo finalmente sperare, quando avremo finito di ascoltare minacciose assurdità sui processi in fumo di mafia e di droga (cioè, come è a tutti noto, gli unici processi che in Italia si celebrano da sempre in tempi imparagonabilmente inferiori alla media di tutti gli altri, perché nella quasi totalità con imputati detenuti e dunque entro i termini di scadenza della custodia cautelare), che qualcuno ci ascolti? Occorre porre fine a questa inconcepibile anomalia democratica, che da decenni condiziona, in tema di giustizia penale e di ordinamento giudiziario, la sovranità della politica democraticamente eletta ad opera di una burocrazia intoccabile, mai responsabile dei propri atti, e come se non bastasse addirittura distaccata ad occupare fisicamente, tecnicamente e politicamente il potere esecutivo lì a via Arenula, al Ministero di Giustizia. Avanti, dunque, con la separazione delle carriere (quella vera, perché della separazione delle funzioni, già pressoché in atto nella realtà, non ce ne facciamo nulla), e con il divieto di distacco dei magistrati presso il potere esecutivo: questa è la strada maestra dell’unica, vera, indispensabile riforma liberale della giustizia penale, in grado di restituire al Paese gli equilibri costituzionali e democratici tra poteri dello Stato, da troppo tempo perduti. Diritto all’oblio, via il nome degli assolti dal web. Costa: “Civiltà giuridica” di Liana Milella La Repubblica, 2 agosto 2021 Lorusso (Fnsi): “Garantire il diritto di cronaca”. La norma entra nella riforma della giustizia con l’emendamento del responsabile Giustizia di Azione. Si apre il dibattito: la presunzione d’innocenza può prevalere sul diritto a informare. Come sempre, quando si parla di diritti e di Costituzione, le interpretazioni possono anche andare in direzioni opposte. Ma soprattutto si apre il dibattito su quale dei diritti citati possa alla fine prevalere su un altro. Stavolta, sotto i riflettori, c’è “il diritto all’oblio”, principio di cui a lungo si è discusso anche in Europa dove, alla fine, è prevalsa la raccomandazione di tenere conto del diritto di chi è finito sul web con un’attribuzione o una connotazione fortemente negativa che, di conseguenza, se riconosciuta inesatta o addirittura non vera, va cancellata. E questo vale anche per i processi, e per un imputato che, alla fine dell’iter giudiziario, viene assolto. L’emendamento Costa - E arriviamo qui all’emendamento di Enrico Costa sul diritto all’oblio per gli imputati assolti che possono chiedere e ottenere di veder deindicizzato il loro nome sul web. Che significa? Che il fatto, con tutti i dettagli, resta, la storia del processo e dell’inchiesta non vengono cancellati. Ma chi cerca su internet il nome del soggetto coinvolto non lo troverà più perché quel nome sarà cancellato dai motori di ricerca. “Principio di civiltà giuridica” dice Costa. Altrettanto dicono gli avvocati. Ma è inevitabile interrogarsi sulle conseguenze “storiche” di questa scelta. Che, diciamolo subito, è in linea con le direttive europee: la conseguenza sarà che, se sono stata imputata in un processo - un fatto storico quindi, innegabile nella sua realtà e svolgimento - ma alla fine sono stata assolta, dai motori di ricerca il mio nome verrà cancellato. L’emendamento sul diritto all’oblio contenuto nella riforma della giustizia - Repubblica aveva parlato per prima, il 27 aprile, dell’emendamento Costa. Perché già in quella data il deputato di Azione - ex Forza Italia, responsabile Giustizia prima di quel partito e ora di quello di Carlo Calenda, una storia politica in famiglia perché suo padre Raffaele Costa è stato tra i fondatori del Partito liberale, nonché deputato per 30 anni, ministro e sottosegretario più volte - aveva presentato il suo pacchetto sulla presunzione di innocenza come emendamento al processo penale. E tra le varie proposte c’era anche quella che oggi è diventata uno dei pochi emendamenti recepiti, con il consenso del governo, nella legge. Il testo dice così: “Prevedere che il decreto di archiviazione, senza la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione, costituiscano titolo per l’emissione di un provvedimento di deindicizzazione che, nel rispetto della normativa europea in materia di dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all’oblio degli indagati o imputati”. Sabato l’emendamento è entrato a pieno titolo nella riforma. Costa ovviamente esulta e dichiara: “È stata approvata una norma di civiltà, in base alla quale una persona assolta o prosciolta non può essere marchiata a vita”. E spiega: “La sentenza sarà il titolo per ottenere, senza se e senza ma, che i motori di ricerca effettuino l’immediata dissociazione dei dati personali degli assolti dai risultati di ricerca relativi al procedimento penale”. Guardiamo bene alle parole, “norma di civiltà”, “la persona assolta non può essere marchiata a vita”. Comportano, di conseguenza e inevitabilmente, che se anche la storia del processo, dal momento dell’indagine fino alla conclusione resteranno sul web nei vari passaggi di cronaca, tuttavia scompare definitivamente il nome della persona indagata, poi finita sotto processo, e poi alla fine assolta. Cioè siamo di fronte a un dato storico innegabile, che però non potrà più essere ricondotto alla persona alla fine assolta. Per intenderci, se cerchi il nome di cui una persona, che è finita sotto processo ma poi è stata assolta, non verrà fuori anche la storia del processo stesso. Non ci sarà alcun collegamento. Salvaguardare il diritto di cronaca - A guardarla dal punto di vista dell’informazione, del diritto di cronaca, sembra proprio un vulnus. Il segretario della Fnsi, la Federazione nazionale della stampa, Raffaele Lorusso, di fronte alla notizia reagisce così: “Il tema del diritto all’oblio va affrontato, ma anche discusso. Al contempo è necessario tenere nel debito conto il diritto di cronaca, che non vuol dire gogna mediatica, ma diritto alla conoscenza di determinati fatti, come essere imputati in un processo. Questo diritto va garantito”. E ancora: “Il tema è delicato perché nella Costituzione c’è l’articolo 15 (la libertà di ogni forma di comunicazione è inviolabile), ma anche l’articolo 21 (la stampa non può essere soggetta a censure). Quindi una soluzione non può essere trovata con un emendamento, ma in una riforma più organica, perché altrimenti così si dà l’impressione di una forzatura. Il governo e il Parlamento avrebbero dovuto trovare il tempo per occuparsi del diritto di cronaca e della libertà d’espressione, del carcere su cui la Consulta ha detto che è tempo di decidere, nonché delle querele temerarie ferme da due anni al Senato. Ma tutto questo, lo ripeto, non può ridursi a un emendamento”. Le conseguenze pratiche - Ma cosa succederà, in concreto, quanto la riforma entrerà in vigore, alla fine dell’anno, dopo il voto del Senato e la stesura della legge delega? A quel punto, secondo Costa, toccherà a Google intervenire sulle richieste di deindicizzazione che via via verranno presentate. Al momento, quando arrivano, vengono respinte, proprio per la tutela del diritto alla notizia. Ma, con la legge, non potrà più essere così. Già oggi, digitando la formula “diritto all’oblio” sul web, si può vedere che molti siti offrono la possibilità di organizzare la richiesta di cancellazione. A questo punto la domanda è: non sapremo più se un parlamentare o un politico, ad esempio, ha avuto un processo, oppure se un candidato alle elezioni ha una storia giudiziaria? Per Costa il diritto all’oblio non favorirà tanto le persone note, “di cui si sa tutto, ma i cittadini normali che, magari proponendosi per un lavoro, si vedono opporre una vecchia storia giudiziaria da cui sono stati assolti, e che però continua a inficiare per sempre la loro vita”. A questo punto il dibattito sui sì e sui no è aperto. Se la difesa è illegittima: da norme e giudici paletti all’utilizzo delle armi di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2021 L’uso delle armi per difendersi non è una reazione sempre legittima, anche nel caso di un’intrusione domiciliare. Neppure dopo le modifiche introdotte dalla legge 36/2019, approvata a inizio legislatura con l’obiettivo di escludere la punibilità di chi, difendendosi nel domicilio o nel proprio luogo di lavoro - come nel caso della rapina in un esercizio commerciale - uccida o ferisca l’intruso. Devono infatti essere ancora rispettati alcuni limiti inderogabili, oltre i quali la difesa è illegittima: il pericolo dell’offesa deve essere attuale, l’aggressione rivolta alle persone e non ai beni, e la difesa impossibile con un’azione alternativa. Sono i paletti posti dalla Cassazione, che ha marcato i confini dell’esimente della legittima difesa domiciliare, in seguito alle modifiche del 2019, in modo da renderla compatibile con il diritto alla vita, la cui inviolabilità è riconosciuta dall’articolo 2 della. Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’obbligo di rispettare il diritto alla vita, ha osservato in particolare la sentenza 13191/2020, “non solo non tollera presunzioni di necessità” ma impone “una puntuale e concreta verifica della necessità della condotta realizzata per la quale è invocata la scriminante della legittima difesa”. È un tema, quello della legittima difesa, che torna ciclicamente di attualità sulla scia dei fatti di cronaca. Da ultimo, la vicenda dell’assessore di Voghera, Massimo Adriatici, a cui è stato contestato l’eccesso colposo di legittima difesa per l’uccisione di un uomo. Pochi mesi fa la rapina di Grinzane Cavour, finita con l’uccisione di due ladri da parte del gioielliere. Le riforme L’intervento legislativo del 2019, che ha riguardato gli articoli 52 e 55 del Codice penale, non è stato il primo in materia: la legge 59/2006 aveva già introdotto nel nostro ordinamento la causa di giustificazione della “legittima difesa domiciliare “, prevedendo una presunzione di proporzionalità della reazione difensiva - anche con un’arma, se legittimamente detenuta - all’interno del domicilio e in ogni luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale. La legge 36 ha reso assoluta la presunzione, specificando che la proporzione dell’autodifesa, in questi casi, non è soggetta alla discrezionalità del giudice, e che “agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi odi altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone”. Inoltre, l’articolo 55 ha espressamente stabilito che, nelle medesime situazioni di aggressione nel domicilio o presso i luoghi di lavoro, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto ha agito - per la salvaguardia della propria o altrui incolumità - in condizioni di minorata difesa, ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto. La giurisprudenza di legittimità, come detto, ha però da subito ridotto significativamente i margini applicativi delle nuove norme, partendo dal presupposto che “il ricorso alla forza, tale da poter condurre a provocare, anche involontariamente, la morte di un uomo, sia da ritenersi giustificato soltanto se “assolutamente necessario” per assicurare la difesa delle persone da una violenza illegale” (sentenza 19065/2019). Ne consegue che la presunzione di proporzionalità dell’autodifesa con l’arma nel domicilio ha natura eccezionale, che opera solo quando la tutela pubblica in concreto non sia possibile e presuppone l’esistenza delle precondizioni della necessità e inevitabilità della difesa e dell’attualità del pericolo dell’offesa, non altrimenti contenibile; tutte precondizioni “il cui rigoroso accertamento è rimesso all’apprezzamento del giudice e non può essere preventivamente ritenuto” (sentenza 19065/2019). Per le stesse ragioni, le ipotesi speciali di legittima difesa non si possono applicare al di fuori del domicilio o degli altri luoghi previsti dall’articolo 52. Sul punto, la Cassazione ha infatti spiegato che, anche dopo la riforma del 2019, “pur sempre di difesa “nel domicilio” si tratta e non di difesa “del domicilio” tout court” (21794/2020). Gabrielli: “Un nuovo modello di cybersicurezza per l’Italia digitale” di Carlo Bonini La Repubblica, 2 agosto 2021 Intervista al sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla sicurezza della Repubblica: “Bisogna ridurre le vulnerabilità del Sistema Paese. Assumeremo mille professionisti con stipendi all’altezza del mercato”. Entro la metà di questa settimana, con il voto al Senato (una formalità, dopo un passaggio alla Camera che ha registrato l’unanimità), l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale (Acn) diventerà legge dello Stato. E, con lei, l’architettura complessiva della nostra sicurezza nazionale, la sua filosofia, diciamo pure il suo modello culturale, conoscerà un passaggio cruciale. Franco Gabrielli, autorità delegata del governo Draghi per la sicurezza repubblicana, è uno dei padri di questa riforma. E ha una gran paura. Che, non comprendendone fino in fondo la posta in gioco, il Paese non faccia quello che avrebbe dovuto cominciare a fare dieci anni fa. A maggior ragione, come dimostra l’ultimo attacco hacker ai server della Regione Lazio, in un tempo in cui l’aggressione cyber sarà la regola e non l’eccezione. “Bisogna correre”. Correre? “Nel vocabolario Treccani è stata inserita una nuova parola: Onlife. E il termine - cito testualmente - indica “la dimensione vitale, relazionale, sociale e comunicativa, lavorativa ed economica, vista come frutto di una continua interazione tra la realtà materiale e analogica e la realtà virtuale e interattiva”. Detto altrimenti, quella parola indica cosa significhi essere umani nella dimensione digitale. E, dunque, cosa si giochi e cosa ci giocheremo nello spazio della nostra nuova contemporaneità di qui in avanti. Ebbene, due Paesi come la Germania e la Francia si sono dotati di un’Autorità nazionale di resilienza cybernetica già da molto tempo. La Germania nel 1991, la Francia nel 2009. Noi arriviamo trafelati a questo 2021, con, lo dice il ministro Colao, un 95 per cento di server della pubblica amministrazione non affidabili e la prospettiva di 1 trilione di dispositivi digitali attivi sul pianeta entro il 2030. Siamo già immersi nell’intelligenza artificiale e nella dimensione digitale delle cose. Ecco perché dico che dobbiamo correre. E la nascita dell’Agenzia è l’inizio di questa corsa”. Perché questo ritardo? “Ci si è impantanati in un dibattitto decennale che immaginava la cybersicurezza inserita all’interno del perimetro della nostra Intelligence. Il che, per certi aspetti, era anche comprensibile. Il ragionamento, per molto tempo, è stato quello di immaginare che il contesto delle agenzie di Intelligence avrebbe consentito capacità e tempi di sviluppo di un’Agenzia “civile” per la cybersicurezza più rapidi. Un po’ come accade con le start-up. Molti forse ricorderanno, durante il governo Renzi, l’idea dello “Zar per la cybersicurezza”. E tutti ricordano certamente l’idea di Conte di una Fondazione incardinata nel perimetro del Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza, che è organo di vertice e coordinamento delle nostre agenzie operative di intelligence”. E non è stata una buona idea. “Quello che posso dire è che quella scelta ha fatto sì che, per anni, mentre l’Europa ci chiedeva un interlocutore certo, definito e unitario sui temi della cybersicurezza, noi abbiamo avuto 23 soggetti competenti che interloquivano su quella materia. E che mentre Paesi come Francia e Germania si dotavano di agenzie con non meno di 1.000 addetti, noi non siamo andati al di là di 50 validi operatori al Dis e la promessa assunzione di 70 ingegneri informatici al Mise, mai arrivati”. Quindi avete cambiato verso. “Si. Abbiamo fatto una scelta chiara che vede quella che abbiamo battezzato “resilienza cybernetica” - e dunque le strutture, le professionalità, la formazione necessarie a dotare il Paese di un’autonomia tecnologica che le consenta di raggiungere livelli di produzione hardware e software che ci rendano competitivi nello scenario internazionale - in capo a un soggetto pubblico, l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. Che si muoverà sotto la guida della Presidenza del Consiglio, che dialogherà con tutte le pubbliche amministrazioni e i soggetti privati destinati a dotarsi di strumenti di sicurezza cybernetica. Contestualmente, abbiamo invece lasciato alle forze di Polizia le indagini sui crimini cyber, alla Difesa quello degli attacchi alle nostre infrastrutture militari e all’Intelligence, Dis, Aise e Aisi, quello della raccolta delle informazioni. Se la dovessi dire con una parola, l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale è uno strumento di “safety” che si aggancerà e completerà gli altri strumenti di “security” di cui disponiamo: forze di polizia, difesa, Intelligence. Un modello “misto” che poggia su quattro pilastri”. “Safety” è un termine inglese che declina il termine generico “sicurezza” sotto il profilo della prevenzione del rischio o della minaccia, e non della sua repressione e contenimento. “Esatto. Nel mondo della cosiddetta “safety” - e parlo con cognizione di causa avendo trascorso una parte della mia vita professionale nella Protezione civile - i parametri di sicurezza si misurano su tre indicatori di rischio: la pericolosità, l’esposizione, la vulnerabilità. Prendiamo ora la minaccia Cyber. È evidente che i parametri di pericolosità ed esposizione, proprio per quello che dicevo prima, non solo non potranno essere ridotti in futuro, ma cresceranno esponenzialmente, a prescindere dalle iniziative che qualsiasi Paese o soggetto privato potrà assumere. Dunque, c’è un solo parametro su cui possiamo agire: quello della vulnerabilità. Ecco, l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale dovrà fare in modo che le nostre pubbliche amministrazioni, le nostre imprese, le nostre infrastrutture strategiche, diciamo pure il nostro “Sistema Paese” riduca il suo grado di vulnerabilità”. È un cambio di paradigma nella sicurezza nazionale. “Lo è. E il passaggio non sarà semplice. Perché è culturale. Perché significa introdurre una cultura di “safety” all’interno di un modello storicamente sicuritario. Significa cambiare approccio alla nostra idea e organizzazione della sicurezza nazionale. Quello che voglio dire è che troppo spesso ci siamo convinti che gli aspetti della safety, della prevenzione del rischio o della minaccia, potessero essere gestiti con gli strumenti della security: forze di polizia, esercito, intelligence. La dico semplificando: non mettiamo in sicurezza il nostro territorio, sottovalutiamo i cambiamenti climatici e le implicazioni che comportano sotto il profilo di una nuova organizzazione della sicurezza, ma invochiamo l’esercito quando siamo sommersi dalle alluvioni. Insomma, siamo abituati a pensare che il nostro sia un Paese da rassicurare, mentre deve essere messo nelle condizioni di sentirsi sicuro. Ecco perché penso che questa riforma sia importante anche al di là della materia Cyber che disciplina”. Quante risorse saranno destinate all’Agenzia? “Il Pnrr prevede 50 milioni per l’Agenzia e 620 per la resilienza. E, vuoto per pieno, un organico di 300 professionisti che, nel quinquennio, saliranno a 1.000, da reclutare sul mercato a prezzi di mercato. Non possiamo pensare di attrarre il meglio delle professionalità e delle intelligenze se non siamo in grado di retribuirle come le retribuisce il mercato. Per questo è stato pensato un inquadramento che vedrà gli addetti dell’Agenzia retribuiti con i parametri della Banca d’Italia. Mi ripeto: dobbiamo correre e fare le cose non solo per bene, ma sul serio”. La Consulta: una truffa aggravata non vale una “interdittiva” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 2 agosto 2021 La Consulta ha deciso che la condanna per “truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche” non può determinare automaticamente “l’incapacità ad avere rapporti con le pubbliche amministrazioni”. La condanna per il reato di “truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche” non può determinare automaticamente “l’incapacità ad avere rapporti con le pubbliche amministrazioni”. Lo ha deciso ieri la Corte costituzionale con la sentenza 178, relatore il vicepresidente Giuliano Amato, dichiarando illegittimo un articolo del dl numero 113 del 2018. Il reato in questione non è “di per sé, indice di appartenenza a un’organizzazione criminale”. E questo in quanto, a differenza di altre fattispecie penalmente rilevanti, “non ha natura associativa, non richiede la presenza di un’organizzazione ed è punito con pene più lievi”. Il divieto di avere rapporti con le pubbliche amministrazioni era una misura “sproporzionata” rispetto al contrasto all’attività mafiosa e avrebbe provocato danni elevati alla libertà di iniziativa economica. La disposizione era contenuta nel “decreto sicurezza”, fortemente voluto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. Il testo, su cui era stata posta la fiducia, era stato molto dibattuto e aveva attirato le critiche anche di diversi esponenti della maggioranza appartenenti al Movimento 5 Stelle. Immigrazione, sicurezza pubblica, organizzazione del Ministero dell’interno e dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati o confiscati alla criminalità organizzata erano gli elementi principali del provvedimento. E sempre la Corte Costituzionale ha stabilito ieri che non è fondata la questione di legittimità costituzionale la norma che non consente di valutare, ai fini della ricostruzione di carriera e della mobilità, l’insegnamento prestato presso le scuole paritarie, prima dell’immissione nei ruoli della scuola statale. La legge, scrive ancora Amato, “ha voluto garantire agli alunni delle scuole paritarie i medesimi standard qualitativi di quelle statali, sia quanto all’offerta didattica sia quanto al valore dei titoli di studio”. Ciò non ha però portato alla completa equiparazione del rapporto di lavoro dei docenti di tali scuole a quello dei docenti della scuola statale in regime di pubblico impiego privatizzato. Infatti, la mancanza di selezioni concorsuali nelle scuole private non consente di tenere conto dei principi che, in base all’articolo 97 della Costituzione, devono informare l’attività delle amministrazioni pubbliche. D’altra parte, sottolinea la Corte costituzionale “il margine di discrezionalità delle scuole paritarie nella selezione dei propri insegnanti garantisce la loro autonomia e libertà nel dotarsi di personale connotato da un’impostazione culturale, didattica ed educativa coerente con il loro progetto formativo”. Equa riparazione, l’istanza di accelerazione non condiziona la proponibilità della domanda di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2021 La Corte costituzionale boccia la previsione l’inammissibilità della domanda di equa riparazione, nel processo penale, in caso di mancato esperimento dell’istanza di accelerazione in quanto si tratta di un rimedio non “effettivo” contro l’eccessiva durata del processo. La sentenza n. 151 depositata oggi ha così dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1, in relazione all’articolo 1-ter, comma 2, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 777, lettere a) e b), della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”. Le disposizioni censurate, scrive la Corte, “contrastano con l’esigenza del giusto processo, per il profilo della sua ragionevole durata, e con il diritto ad un ricorso effettivo”, garantiti dai parametri della Cedu, la cui violazione implica, per interposizione, quella dell’art. 117, primo comma, Costituzione. La Corte d’appello di Napoli, con ordinanza dell’11 marzo 2020, censurava il fatto che “il riconoscimento del diritto ad una equa riparazione in favore di chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell’irragionevole durata di un processo penale la cui durata al 31 ottobre 2016 non ecceda i termini ragionevoli previsti dall’art. 2, comma 2-bis, e che non ancora sia stato assunto in decisione alla stessa data”, così come l’ammissibilità della relativa domanda, fossero subordinate “all’esperimento del rimedio preventivo consistente nel depositare, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, un’istanza di accelerazione almeno sei mesi prima che siano trascorsi i detti termini”. Il deposito dell’istanza di accelerazione nel processo penale, argomenta la Corte, pur presentato come diritto (alla stregua dell’articolo 1-bis, comma 1, della legge n. 89 del 2001), “opera, piuttosto, come un onere, visto che il mancato adempimento comporta l’inammissibilità della domanda di equa riparazione”. Tuttavia, la presentazione dell’istanza, che pur deve intervenire almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini ragionevoli “fissati per ciascun grado (dall’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001), “non offre alcuna garanzia di contrazione dei tempi processuali, non innesta un modello procedimentale alternativo e non costituisce perciò uno strumento a disposizione della parte interessata per prevenire l’ulteriore protrarsi del processo, né implica una priorità nella trattazione del giudizio”. Nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi, restano infatti fermi i criteri dettati dall’ articolo 132-bis del Dlgs 271/1989 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale). In tal senso, l’istanza di accelerazione prevista dalle norme censurate, quale facoltà dell’imputato e delle altre parti del processo penale, “non rivela efficacia effettivamente acceleratoria del giudizio, atteso che questo, pur a fronte dell’adempimento dell’onere di deposito, può comunque proseguire e protrarsi oltre il termine di ragionevole durata, senza che la violazione dello stesso possa addebitarsi ad esclusiva responsabilità della parte”. Per la Consulta dunque la mancata presentazione dell’istanza di accelerazione nel processo penale “può eventualmente assumere rilievo ai fini della determinazione della misura dell’indennizzo ex lege n. 89 del 2001, ma non deve condizionare la proponibilità della correlativa domanda”. Non è la prima pronuncia sul tema da parte della Corte. I giudici premettono che secondo la giurisprudenza della Cedu la migliore soluzione contro l’eccessiva durata “in termini assoluti è la prevenzione”. In questo senso un ricorso finalizzato ad accelerare i procedimenti “è da preferire ad un rimedio meramente risarcitorio”. Tale ricorso però può considerarsi “effettivo” soltanto nella misura in cui rende più sollecita la decisione da parte del tribunale. Mentre è “adeguato” solo se non interviene in una situazione in cui la durata del procedimento è già stata chiaramente eccessiva. La Corte ricorda poi alcune precedenti decisioni sul punto. Con la sentenza n. 34 del 2019, per esempio, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’istanza di prelievo nei processi amministrativi in quanto “adempimento formale”, rispetto alla cui violazione “la, non ragionevole e non proporzionata, sanzione di improponibilità della domanda di indennizzo risulta non in sintonia né con l’obiettivo del contenimento della durata del processo né con quello indennitario per il caso di sua eccessiva durata”. Mentre con la sentenza n. 169 del 2019 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del diniego dell’indennizzo “quando l’imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini di sua ragionevole durata, in quanto “la suddetta istanza, non diversamente dall’istanza di prelievo nel processo amministrativo, non costituisce […] un adempimento necessario ma una mera facoltà dell’imputato e non ha - ciò che è comunque di per sé decisivo - efficacia effettivamente acceleratoria del processo”. Da ultimo, la Corte ricorda invece la sentenza n. 121 del 2020 con cui, con riferimento ai rimedi preventivi introdotti per i processi civili dalla legge n. 208 del 2015 quale condizione di ammissibilità della domanda di equo indennizzo, “ha invece ritenuto gli stessi, per l’effetto acceleratorio della decisione che può conseguirne, riconducibili alla categoria dei “rimedi preventivi volti ad evitare che la durata del processo diventi eccessivamente lunga”. Essi infatti consistono non già nella “proposizione di un’istanza con effetto dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della decisione” - che si riduce ad un adempimento puramente formale”, ma nella “proposizione di possibili, e concreti, “modelli procedimentali alternativi”, volti ad accelerare il corso del processo, prima che il termine di durata massima sia maturato”. Santa Maria Capua Vetere. Protesta telefonicamente per le torture nel carcere, finisce indagata di Aldo Torchiaro Il Riformista, 2 agosto 2021 Nel Cile di Pinochet era vietato andare a protestare davanti alle carceri dove avvenivano le torture: l’intralcio alla giustizia prevedeva l’arresto e la conseguente incarcerazione, dando vita al ciclo continuo dell’afflizione. Alla professoressa I.B. (usiamo le inziali, ha chiesto di non pubblicare il nome) in questi giorni sta succedendo qualcosa di non dissimile. Genovese, docente di ruolo di materie letterarie, I.B. è sensibile alla condizione in cui vivono i detenuti tanto da proporsi come insegnante in un carcere. Quando ha visto in televisione le immagini agghiaccianti dei pestaggi e delle violenze sui detenuti di Santa Maria Capua Vetere, non ci ha dormito su. Ha cercato il numero della casa circondariale e ha telefonato per esprimere il suo sdegno. Si è qualificata come insegnante, ha declinato le sue generalità e detto che queste cose sono incivili. Andando dritto per dritto, punto per punto. E solo quando l’agente penitenziario le ha risposto irridendola - ci viene detto: “Venga lei a passare qualche ora con questi” - ha risposto a sua volta per le rime, dando vita a un breve diverbio. “La saluto, non ho tempo da perdere”, l’avrebbe liquidata infine il centralino del carcere. “La saluto”, ha attaccato lei. Salvo poi vedersi arrivare, qualche giorno fa, i Carabinieri a casa. Le notificano un mandato a comparire in caserma, per l’indomani. È lei stessa a raccontarlo al Riformista: “Non ho mai preso una multa in vita mia, mai un ritardo sulle tasse, mai una infrazione. Ero agitata, incapace di dare un senso a quest’obbligo di comparizione”. La mattina dopo il comandante della stazione dell’arma le notifica un accertamento: è suo questo numero di telefono? Riconosce di averlo usato per fare una telefonata in quel giorno di fine giugno? Lei conferma tutto: “Perché, non si può fare una telefonata di protesta?”, ha strabuzzato gli occhi. “Riceverà gli atti del procedimento”, le ha detto l’ufficiale. Ieri I.B. ha contattato un avvocato penalista: si configura l’oltraggio a pubblico ufficiale. “Io non sono una persona volgare, non trascendo mai”, specifica l’insegnante, serafica. “Ho detto di essere indignata per la violenza inaudita usata sui carcerati, per quei fatti estremamente gravi in un Paese civile, e peraltro mi sono qualificata con nome e cognome, mentre dall’altra parte non ho mai capito con chi stavo parlando. Pubblico ufficiale? Per quanto sapevo era un centralinista, tanto che al telefono avevo detto di non avercela con lui ma con il comportamento di quegli agenti”. Adesso è in attesa di ricevere gli atti del procedimento e di capire meglio le fattispecie di reato. Per ora è arrivata la convocazione in caserma, con l’effetto di averle messo una gran paura addosso e l’incertezza per il seguito della vicenda. Che ha dell’incredibile, se andiamo a rileggere i verbali dell’informativa resa da Marta Cartabia, in aula: la Ministra della Giustizia ha usato le stesse parole che ci vengono riferite dalla professoressa. E non ha usato solo parole. Le unità di personale raggiunte complessivamente da misure interdittive sono state 52. Tra queste vi sono due agenti di Polizia Penitenziaria cessati dal servizio per i quali non sono stati adottati al momento provvedimenti (basta andare in pensione per uscire dai radar?). Per le restanti 50 persone - tra cui il Provveditore Regionale - sono state emesse misure interdittive tra cui sette misure cautelari applicative della custodia in carcere; 17 misure cautelari applicative degli arresti domiciliari; tre misure cautelari coercitive dell’obbligo di dimora nel comune di residenza nei confronti di tre poliziotti tutti in servizio presso l’istituto sammaritano; 23 misure cautelari interdittive della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio ricoperto per un periodo variabile dai 5 ai 9 mesi. Tutti immediatamente sospesi dal servizio. Le 3 unità sottoposte all’obbligo di dimora sono state sospese in via cautelare secondo la legislazione vigente (art. 7 comma 2 del d.lgs. 449/92). Tra questi provvedimenti va ricompreso il provvedimento di sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio rivestito per la durata di mesi otto, per i delitti di favoreggiamento, depistaggio e falso ideologico aggravato, a firma della Ministra della Giustizia Marta Cartabia, adottato nei confronti del dirigente generale Antonio Fullone, Provveditore regionale per la Campania. È stata rimossa martedì scorso anche Elisabetta Palmieri, la direttrice della casa circondariale, che però era assente per malattia nei giorni dei pestaggi. Ufficialmente la direttrice è stata rimossa con la motivazione di “anomala condotta” perché venerdì 23 luglio aveva consentito al suo compagno, ex funzionario di polizia in pensione e ora volontario nel carcere, di accompagnare la senatrice del Movimento 5 Stelle Cinzia Leone durante una visita ispettiva all’interno del carcere. Tutte le misure sono intervenute nell’ultimo mese, successivamente alla telefonata di protesta della docente genovese. Forse oggi, davanti alla risposta dello Stato con la Ministra Cartabia in prima linea, non la rifarebbe. Ma protestare con civiltà contro l’uso della violenza è ancora possibile o è stato introdotto un reato nuovo, di lesa maestà carceraria? Torino. Giustizia, prosegue la mobilitazione dei radicali iltorinese.it, 2 agosto 2021 Lunedì 2 agosto alle ore 10.30 visita al carcere Lorusso Cotugno delle Vallette di Torino con una delegazione del Partito Radicale guidata da Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino e Consigliere Generale del Partito Radicale, insieme a Mario Barbaro, Segreteria del Partito Radicale, Sergio Rovasio, Consigliere Generale del Partito Radicale e Presidente dell’Associazione Marco Pannella e gli Avvocati Davide Mosso, Antonio Genovese e Mirko Consorte, membri dell’Osservatorio Carcere delle Camere Penali italiane. Saranno presenti anche il Garante dei detenuti della Regione Piemonte Bruno Mellano e la Garante dei detenuti del Comune di Torino, Monica Gallo. Lunedì 2 agosto: Alle ore 15.30 Conferenza Stampa della delegazione del Partito Radicale sulla visita nel carcere della Vallette di Torino, in Via Roma angolo Piazza Castello (nello stesso luogo dove si raccolgono le firme per i referendum sulla Giustizia). Oltre alla delegazione parteciperà anche Angelo Pezzana, ex parlamentare Radicale e attivista dei Diritti Civili. Martedì 3 agosto alle ore 10 davanti al Carcere Lorusso-Cotugno delle Vallette di Torino, in Via Adelaide Aglietta, iniziativa nonviolenta di dialogo con incontri e interventi nell’ambito dell’iniziativa ‘Memento’ che da diversi mesi Rita Bernardini ha promosso in tutta Italia per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sulla gravissima situazione delle carceri italiane. All’iniziativa parteciperanno avvocati, giuristi, attivisti Radicali e cittadini. “Razza”, una parola da abolire. Ma la Carta costituzionale non va modificata di Umberto Gentiloni La Repubblica, 2 agosto 2021 Cancellare il lemma dall’articolo 3 sarebbe un errore. Serve a ricordare gli orrori del nostro passato. L’approdo di Albert Einstein negli Stati Uniti si accompagna a una frase lapidaria in risposta a un questionario predisposto dall’ufficio immigrazione. A fronte dell’indagine sulla razza di appartenenza dei nuovi arrivati sembra che l’illustre scienziato (per la verità la frase rimane d’incerta attribuzione anche a distanza di decenni) abbia risposto nel 1933 “appartengo all’unica razza che conosco, quella umana”. La fuga dalla minaccia del nuovo ordine hitleriano, dall’Europa avviata verso un futuro di violenze e terrore prende così il segno di una discontinuità profonda: alle logiche di una superiorità presunta e sbandierata corrisponde il riconoscimento di una civiltà fondata sul rispetto delle persone, sulla loro irriducibile alterità. Da allora la genetica ha compiuto passi da gigante chiarendo oltre ogni ragionevole dubbio che le razze non esistono e che la costruzione di paradigmi e differenziazioni risponde a disegni politici, progetti di potenza, diffusione sistematica di emozioni e conflitti che si nutrono delle incognite legate alle paure del diverso. Un itinerario che ha tenuto insieme la scienza e la cultura, i processi storici e le stratificazioni sociali. In questo quadro l’utilizzo della parola razza, la valenza semantica del suo divenire merita attenzione e rigore. L’utilizzo del termine in una modulistica legata alla privacy o ad altri possibili usi del contemporaneo è deprecabile, indica nel migliore dei casi una superficialità inaccettabile, uno scarso senso delle cose e del loro significato. Sì, il significato delle parole è il cuore della discussione sulla “razza” e sulle “razze” aperta su queste colonne dall’intervento del direttore. Del resto il cammino dell’umanità è anche un continuo riflettere sulla forza della parola, sull’uso e l’abuso di costruzioni verbali, di frasi che sostengono il processo di nazionalizzazione delle masse. Sarebbe pericoloso e fuorviante procedere verso la cancellazione della parola razza nell’articolo 3 della nostra Carta costituzionale. Quel termine ha un valore che va ben al di là del significato che oggi possiamo dare alla parola in sé, porta i segni del tempo, le ferite di una scelta, i lasciti e le contraddizioni di una sfida terribile. I costituenti marcano con nettezza una presa di distanza da tutto ciò che aveva segnato la prima metà del Novecento: guerre, violenze, progetti di potenza fondati su disegni pseudo scientifici di superiorità razziale. La componente biologica della proposta nazi fascista scuote le fondamenta del vecchio continente e gli stessi pilastri della cultura dell’occidente: la Carta del 1948 vuole chiudere una pagina intrisa d’odio, colpevoli indifferenze, sopraffazioni per sintonizzare una comunità nazionale sulle possibilità di un nuovo ordine, interno e internazionale. Ecco perché quel termine rappresenta anche un monito di un tempo lontano che purtroppo non è consegnato esclusivamente ai sentieri della ricerca storica. Non si può cancellare quella pagina, né pensare di rimuovere una controversa e incompiuta presa di distanza dai razzismi antichi e vicini, dalle forme manifeste o nascoste di discriminazione. Il passato com’è noto non si cancella, ma la furia distruttrice di simboli, riferimenti, statue e consuetudini rischia di produrre un duplice risultato. Da una parte una giustizia sconnessa dalla dimensione temporale, una sorta di tribunale sospeso che giudica e interviene fuori da ogni contesto o richiamo al passato animato dalle pulsioni di chi spinge per liberarsi dalle zavorre condizionanti di un tempo lontano. Dall’altra un’involontaria ma pervasiva “de responsabilizzazione” individuale e collettiva, un lascia passare che assolve in modo incondizionato tutti i partecipanti. Come se la cancellazione di termini ambigui, di parole che hanno condizionato pesantemente tornanti del passato possa automaticamente liberarci dai fantasmi che abitano dentro quelle stesse parole. Sarebbe troppo semplice, persino ingenuo pensare che il razzismo possa essere cancellato insieme alle parole che ne tracciano la storia o che le tante forme di discriminazione possano essere ridimensionate o sconfitte con un colpo di spugna capace di intervenire sui linguaggi diffusi nel web, sugli striscioni nelle curve degli stadi o sulle argomentazioni spregiudicate di nostalgici o politicanti in cerca di qualche voto. Porrajmos, perché il 2 agosto è una data simbolo per rom e sinti: ricordarlo ci ridà dignità di Dijana Pavlovic Il Fatto Quotidiano, 2 agosto 2021 Il 2 agosto 1944 è una data simbolo nella storia di rom e sinti: è la data della liquidazione dello Zigeunerlager, il campo per “famiglie zingare” istituito ad Auschwitz-Birkenau e che il 16 maggio doveva essere svuotato per fare posto agli ebrei deportati dall’Ungheria. Quel giorno le SS avevano circondato lo Zigeunerlager e quando fu loro ordinato di uscire, i circa 7.000 rom e sinti si rifiutarono: avvertiti delle intenzioni dei tedeschi si erano armati di tubi di ferro, vanghe e altri attrezzi da lavoro. La rivolta, l’unica in un campo di concentramento nazista e diventata simbolo di resistenza per il nostro popolo, costrinse le SS a evitare lo scontro. Ma il 2 agosto, 918 uomini furono trasferiti a Buchenwald e 790 donne a Ravensbrück e nella notte gli ultimi 4.300 sopravvissuti, questo il numero secondo le ultime ricerche, verranno uccisi nelle camere a gas. Il 27 gennaio del 1945 le truppe dell’Armata rossa, quando ruppero il cancello di Auschwitz, trovarono vivi solo 4 sinti. Oggi si stimano in 500mila le vittime del porrajmos, il genocidio di rom e sinti, una stima approssimativa che non comprende le decine di migliaia di uomini, donne, bambini uccisi per le strade dei territori occupati dai nazisti, soprattutto nell’Europa orientale e nell’Unione Sovietica. Ma questa è una pagina della storia non molto frequentata. Il sacrificio di rom e sinti rimane sempre nelle pieghe delle celebrazioni ufficiali, nei libri di scuola e nella coscienza collettiva. Perfino nella legge che nel 2000 ha istituito la Giornata della memoria delle vittime del nazifascismo il porrajmos, il nostro martirio, non è neppure menzionato. Un mancato riconoscimento che non ha ragioni se non in un antiziganismo strisciante nella politica e che purtroppo svolge un ruolo fondamentale nell’assenza di reali politiche pubbliche d’inclusione e in un inefficace contrasto al fenomeno dell’antiziganismo, che oggi è una forma specifica di razzismo, un’ideologia fondata sulla superiorità razziale, una forma di razzismo istituzionale nutrita da una discriminazione storica espressa attraverso violenza, discorsi d’odio, sfruttamento, stigmatizzazione. E che trova alimento in diversi fattori: - l’evanescente confronto con il passato fascista, mai condotto fino in fondo, che lascia germinare i semi di una cultura fondata sull’odio del diverso - zingaro, negro, omosessuale che sia - e confina ai margini la ricerca storica sul genocidio di rom e sinti che non diventa patrimonio storico comune. Di conseguenza manca quel sentimento del rimorso che impedisce ancora all’antisemitismo di avere un qualunque spazio, anche nel sentimento popolare oltre che nelle istituzioni pubbliche; - lo storico pregiudizio nei confronti dello “zingaro ladro di bambini”; - il mancato riconoscimento di una minoranza storico-linguistica e la conseguente discriminazione istituzionale e nelle azioni delle pubbliche amministrazioni; - infine, la strumentalizzazione politica e mediatica della minoranza della comunità messa ai margini sociali e civili nelle periferie delle città, costante oggetto dei procacciatori di voti sul disagio sociale, determinando, in un loop perverso, ulteriori fenomeni di pregiudizio, discriminazione, discorsi d’odio e atti di violenza. Oggi il 2 agosto ha quindi per noi non solo il senso profondo della memoria dei nostri morti, ma anche il senso di un’occasione per ricordare a noi stessi, alle nostre istituzioni e alla comunità generale che il riconoscimento del porrajmos è il primo passo nel percorso per restituirci dignità e una compiuta inclusione sociale e civile. *Attrice, attivista per i diritti umani Tunisia. Altro che “storia di successo”, negli ultimi 10 anni impunità e violazioni di diritti umani di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 2 agosto 2021 Il discorso pronunciato alla tv di Stato dal presidente tunisino Kaïs Saïed la sera del 25 luglio, al termine di una giornata di proteste di massa, potrebbe aver depositato e chiuso a chiave nel contenitore delle frasi fatte l’espressione “storia di successo”. Così molti analisti e giornalisti hanno descritto la Tunisia nei 10 anni successivi alla rivoluzione che, nel gennaio 2011, pose fine all’era di Zine El Abidine Ben Ali. Quel decennio non è minimamente paragonabile a quanto accaduto in altri Stati dell’area (penso soprattutto alla Libia, ma anche all’Egitto) ma sarebbe comunque più opportuno descriverlo come una “storia di insuccessi”. In diverse occasioni, in questo blog, ho ricordato quanti danni l’incompletezza della transizione abbia prodotto ai diritti umani: l’impunità delle forze di sicurezza si è rivelata dura a morire, le leggi intese a contrastare il terrorismo hanno prodotto eccessi e abusi, l’intolleranza verso le voci critiche non è mai cessata. A livello politico, l’esito delle elezioni della fine del 2019 ha dato luogo a un parlamento frastagliato, con una maggioranza del tutto relativa di forze islamiste incapaci di governare ma capaci di produrre paralisi e conflitto. Da quelle elezioni sono derivati tre successivi governi privi di credibilità e forza di agire e l’ultimo di questi, quello di Hichem Mechichi, è stato per l’appunto deposto dal presidente Saïed. Tornando al 25 luglio, Saïed ha sospeso il Parlamento per 30 giorni, tolto l’immunità ai parlamentari, annunciato che intenderà occuparsi personalmente dei procedimenti giudiziari a loro carico e minacciato “grandinate di pallottole” contro chi avesse intenzione di sparare un solo colpo contro le forze di sicurezza. Nell’annunciare questi provvedimenti di emergenza, Saïed ha fatto riferimento all’articolo 80 della Costituzione del 2014. Ne ha citato solo la prima parte, tuttavia, quella che lo autorizza ad assumere misure nel caso in cui vi sia una imminente minaccia alla sicurezza e all’indipendenza dello Stato. Lo ha fatto senza consultare nessuno, come invece prevede l’articolo, e senza tener conto che la Corte costituzionale, sempre menzionata da quell’articolo come garanzia per i diritti dei cittadini, semplicemente non esiste perché nessun Parlamento è riuscito a nominarla. Intanto la pandemia da Covid-19 imperversa: la Tunisia è ora il secondo paese al mondo per numero di morti per milione di abitanti. *Portavoce di Amnesty International Italia