Ingiusta detenzione, per professionisti e politici indennizzo più alto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2021 Per la Cassazione, sentenza n. 32069/2021, si deve poter superare il criterio aritmetico quando il pregiudizio subito è maggiore. Il pregiudizio subito dal professionista, così come dal politico, per l’ingiusta detenzione produce un danno ulteriore rispetto a quello ritenuto “fisiologico” a seguito della privazione della libertà e come tale può dar luogo ad un indennizzo maggiore di quello derivante dal mero calcolo aritmetico dei giorni di custodia cautelare subiti. Lo ha stabilito la IV Sezione penale della Cassazione, sentenza n. 32069/2021, accogliendo il ricorso di un politico locale alle prime armi oltreché medico convenzionato, che aveva lamentato un forte impatto sul numero degli assistiti. Il ricorrente privato della libertà personale dall’ottobre 2005 al febbraio 2006 - perché “gravemente indiziato dei reati di concussione e abuso di ufficio, dai quali veniva assolto con sentenza, divenuta irrevocabile, del Tribunale di Livorno, con la formula “perché il fatto non sussiste” - aveva ottenuto la condanna del Ministero dell’Economia al pagamento di 17.804 euro a titolo di equa riparazione. Una somma tuttavia considerata incongrua in quanto basata unicamente sul numero di giorni di custodia cautelare patiti, “omettendo di valutare gli ulteriori danni patrimoniali e non patrimoniali”. Per prima cosa, la Corte ricorda la natura indennitaria e non risarcitoria del ristoro per ingiusta detenzione, “essendo il medesimo diretto a compensare solo le ricadute sfavorevoli (patrimoniali e non) procurate dalla ingiusta ed incolpevole privazione della libertà, attraverso un sistema commisurato alla sua durata ed intensità”. I giudici tuttavia aggiungono che “sono consentiti aggiustamenti alla quantificazione aritmetica allorquando emergano profili di ulteriori rispetto al “fisiologico” danno da privazione della libertà”. Più nel dettaglio, la decisione chiarisce che “un discostamento dal parametro aritmetico si giustifica allorquando la situazione creatasi a seguito dell’ingiusta detenzione sia tale da implicare il superamento del criterio della medietà, ciò verificandosi in presenza di un impoverimento tale da modificare uno stile complessivo di vita o lo scioglimento irrecuperabile di rapporti personali o ancora l’induzione di grave malattia”. In questo senso, il provvedimento impugnato incorre in un insanabile vizio motivazionale nella parte in cui “ritiene, nondimeno, idonea a compensare tutti gli effetti derivanti dall’ingiusta detenzione la somma aritmeticamente calcolata, secondo i parametri di cui all’art. 315 cod. proc. pen.”. Senza dunque confrontarsi con la domanda di riparazione “con la quale si fa valere un quadro complessivo divergente e più grave rispetto alle normali conseguenze determinate di ingiusta ed incolpevole detenzione”. Comprendendo una serie di pregiudizi di “rilevante natura economica, professionale e familiare (consistente perdita del numero degli assistiti, impossibilità di attendere ad obblighi assunti verso terzi), nonché la compromissione dell’avviata carriera politica”. Né infine viene affrontato il tema della definitività o meno della compromissione della reputazione in una realtà di piccole dimensioni. Giustizia, blindata la riforma penale ma al Senato si riparte con il civile di Liana Milella La Repubblica, 29 agosto 2021 Grande attesa per la legge elettorale del Csm. Settembre caldo per la ministra Marta Cartabia che martedì riunisce la maggioranza sul processo civile, la riforma più importante in vista dei fondi del Pnrr. Ma su presunzione d’innocenza, separazione delle carriere ed eutanasia inevitabile un duro confronto alla Camera. Si riparte sulla giustizia. Dopo la grande battaglia di luglio sul processo penale, e l’inevitabile e consueta stasi di agosto, eccoci in vista di un settembre che si preannuncia caldo. Sia alla Camera che al Senato. E proprio a palazzo Madama si giocherà una duplice partita: subito - entro la fine del mese - il voto sulla riforma del processo civile e poi quello definitivo sul processo penale. Riforma, quest’ultima, che già si preannuncia blindata. Il M5S, dopo la battaglia a Montecitorio, non avrebbe intenzione di riaprire sulle modifiche. Neppure per inserire i reati ambientali che sono rimasti fuori. Ma non sarà il processo penale, bensì quello civile, a tenere banco per le prime settimane. A cominciare già da lunedì e martedì quando una duplice riunione, la seconda con la ministra della Giustizia Marta Cartabia, chiuderà il piatto degli emendamenti che finora, per il governo, sono stati gestiti dalla sottosegretaria grillina Anna Macina. La legge elettorale del Csm - Ma l’appuntamento che creerà la maggiore tensione sarà sicuramente quello della riforma del Csm perché tra luglio e settembre del 2022 scadono i quattro anni dell’attuale consiglio in carica. E proprio a luglio prossimo le quasi 10mila toghe italiane dovrebbero votare per i loro rappresentanti. Non più 16 come oggi, ma 20, secondo il testo messo a punto dalla commissione presieduta dal costituzionalista Massimo Luciani cui la Guardasigilli Cartabia in primavera ha affidato gli emendamenti al testo del suo predecessore Alfonso Bonafede, che già ampliava sia il numero dei consiglieri laici - da 8 a 10 - sia di querelli togati, appunto da 16 a 20. Ma la riforma contiene la nuova legge elettorale, il voto singolo trasferibile secondo la proposta di Luciani, cui la politica vuole affidare il compito di limitare lo strapotere delle correnti. Ci sarà tempo per valutare proposta ed effetti, ma è certo che la riforma deve “correre”. Stiamo parlando di una legge “delega” che, una volta approvata definitivamente dalle Camere, dovrà trasformarsi in altrettanti decreti legislativi, sottoposti a loro volta a un ultimo via libera delle Camere anche se solo nelle commissioni Giustizia. Se il voto per i togati dovesse slittare da luglio a settembre, visto che nel 2018 il Parlamento scelse proprio in quel mese i suoi rappresentanti, comunque la riforma dovrà essere pronta al massimo per la primavera. Va da sé che i tempi sono evidentemente molto stretti. Si parte dal civile, il penale in coda - Ma prima di arrivare al Csm bisogna sgombrare il “campo” parlamentare dal processo civile e da quello penale. E non sarà il secondo a partire per primo al Senato, dov’è approdato all’inizio di agosto dopo il sofferto voto della Camera. Adesso tocca al processo civile, citato più volte dal premier Mario Draghi come un fondamentale puntello per ottenere i fondi del Pnrr. Tra lunedì e martedì una riunione di maggioranza con Cartabia chiuderà gli ultimi nodi, dalle modalità del processo sulla famiglia, alla conciliazione per le cause di lavoro, al sistema delle aste giudiziarie soprattutto per tutelare chi rischia di perdere la casa. Il capogruppo del Pd in commissione Franco Mirabelli parla della ricerca di “un equilibrio serio tra la necessità di accelerare i processi e la tutela delle parti”. In aula il processo civile potrebbe approdare entro la fine di settembre. E sempre al Senato toccherà occuparsi non solo della crisi d’insolvenza, ma anche della magistratura onoraria, in forte allarme per il suo destino visto che sta per entrare in vigore la riforma Orlando del 2017. Assaggio di referendum su carriere ed eutanasia - Alla Camera l’inizio sulla giustizia è in chiave soft. Giovedì 2 settembre la commissione Giustizia riapre i battenti con il parere sul green pass che la settimana dopo andrà in aula. Ma nello stesso giorno sarà un ufficio di presidenza a decidere il prossimo calendario. E qui la faccenda - in attesa degli emendanti di Cartabia sul Csm - si fa calda, perché alle porte ci sono questioni come il decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza che esce dagli uffici della ministra, nonché la legge sull’eutanasia (su cui lavora anche la commissione Affari sociali), che ovviamente incrocia il referendum dell’Associazione Luca Coscioni che ormai veleggia verso il milione di firme. Il 6 settembre scade il termine per gli emendamenti, c’è già una richiesta di proroga, ma il presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni di M5S vuole andare avanti subito. E in tema di referendum i riflettori sono puntati sulla separazione delle carriere. Perché Enrico Costa di Azione è deciso a fare di tutto, anche una prossima conferenza stampa, per portare in aula la legge di iniziativa popolare del presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza oggi ferma nella commissione Affari costituzionali. Su carriere, presunzione d’innocenza e ingiusta detenzione Costa ha in programma più di un’iniziativa per mandare avanti il dibattito. Perché riformare la giustizia tributaria è un investimento di Gaetano Ragucci* Il Foglio, 29 agosto 2021 La relazione della Commissione per lo studio della riforma della giustizia tributaria recepisce due proposte molto diverse per finalità e portata, e le presenta come soluzioni non politicamente neutrali, la cui scelta esorbita dai compiti di un organo tecnico. Il dibattito seguito alla pubblicazione del documento, e l’avvio di una raccolta di firme a sostegno di una petizione per la riforma strutturale di un settore troppo a lungo trascurato, le collocano all’interno di una dialettica tra forze conservatrici e riformatrici rimasta irrisolta all’interno della stessa Commissione. Ciò rischia di sovrapporre un’etichetta ideologica a un problema che va invece discusso nei contenuti. In che senso si può dunque dire che le due proposte non sono politicamente neutrali? In almeno due sensi, di cui uno è subito evidente, e l’altro lo diventa in prospettiva. Negli ambienti della magistratura togata si coltiva l’idea di rafforzare i collegi del secondo grado di giudizio aumentando la quota di magistrati provenienti dalle altre giurisdizioni (civile, penale, amministrativa, contabile), nella misura e per il tempo necessari allo smaltimento dell’arretrato. In tal modo si lascerebbe però invariato l’assetto complessivo della magistratura tributaria, che resterebbe in larga parte costituita da giudici onorari. Rispetto a questa soluzione, che per essere attuata non richiederebbe l’adozione di complesse misure legislative, l’istituzione di un ruolo di magistrati specializzati e di carriera implica invece scelte politiche fondamentali, quanto meno in materia di organizzazione e di funzionamento dei servizi della giustizia tributaria (da affidare al ministero della Giustizia, o alla Presidenza del Consiglio dei ministri), e di autogoverno della magistratura che la amministra (il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria non ha le stesse prerogative del Consiglio superiore della magistratura). Ed è un fatto che le soluzioni a questi problemi possono riflettersi sugli equilibri interni all’intero ordinamento giudiziario. Un compito impegnativo ma non arduo, per un governo nato per attuare le riforme indicate dal Pnrr. Non ci si può però nascondere che, in prospettiva, l’istituzione di una magistratura tributaria è destinata a produrre effetti ulteriori, e cioè a modificare anche la funzione di governo della materia fiscale. Con benéfici effetti di contrasto al decadimento del diritto tributario a pura tecnica del prelievo, scissa dai valori costituzionali che lo sorreggono, che è quanto la dottrina auspica da tempo. La riforma di cui si dibatte si inserisce, infatti, in uno scenario che è il prodotto di fattori distorsivi dell’originario disegno costituzionale ormai noti. In primo luogo, v’è stata l’espansione della funzione di governo sino alla sussunzione della funzione legislativa, che per gli elementi essenziali del tributo l’art. 23 Cost. riserva al Parlamento (nella materia tributaria le leggi sono una minima parte della produzione normativa). A ciò si aggiunge l’erosione della funzione di indirizzo politico da parte di una governance fiscale europea, nella quale decisioni assunte al di fuori del circuito popolo-Parlamento-governo cercano legittimazione sotto forma di regole tecniche, che ne travisano la vera natura. Questa situazione condiziona gli equilibri interni al governo, valorizzando il ruolo del ministro dell’Economia e delle Finanze come garante del rispetto dei vincoli europei, in un rapporto diarchico con il Presidente del Consiglio, che è il responsabile dell’unitarietà dell’indirizzo politico. E condiziona anche le relazioni tra governo e amministrazione. Questa è strutturata in agenzie capaci di erogare prestazioni valutate in termini di costi e benefici, che nei rapporti con i contribuenti si avvalgono di istituti (dispositivi, partecipativo-difensivi, deflattivi, ora anche collaborativi) diretti a un recupero di efficienza, a fronte degli esiti, giudicati da questo punto di vista insufficienti, di una funzione impositiva concepita come vincolata, sottoposta a un controllo di legittimità compiuto a posteriori dal giudice. Così prende consistenza un ordinamento tendenzialmente autonomo dal consenso all’imposizione, che nel disegno della Costituzione avrebbe dovuto essere veicolato dagli istituti della rappresentanza politica. In queste condizioni, la conservazione dell’attuale conformazione della magistratura tributaria, solo rafforzata dall’ingresso di una maggiore quota di magistrati togati privi di specifica preparazione, confermerebbe l’amministrazione nel ruolo di unica depositaria delle competenze necessarie al funzionamento della macchina del fisco. Rispetto a una burocrazia così consolidata nel ruolo di garante del pareggio del bilancio e della sostenibilità del debito (art. 97 c. 1 Cost.), il giudice continuerebbe a operare come uno strumento di enforcement della legge d’imposta, il cui ambito di intervento sarebbe limitato alla tutela dei diritti del contribuente nelle ipotesi più gravi di lesione. Laddove, invece, l’istituzione di una magistratura specializzata predisporrebbe l’ordinamento al recupero di valori (a partire dalla razionalità, e dalla certezza del diritto), ulteriori rispetto alla dimensione contabile, e al disvelamento dei significati civili e politici impliciti nella disciplina dei tributi. Parafrasando il linguaggio delle discipline economiche, questa riforma sarebbe un investimento in conoscenza e innovazione da cui l’intera dinamica dell’imposizione avrebbe solo da guadagnare. Un investimento, oltre tutto, necessario, perché l’assetto istituzionale della materia non può rinunciare a riflettere il pluralismo dei valori di una società complessa, senza alimentare fenomeni di distacco dalle istituzioni, che le passate stagioni politiche hanno preparato. *Professore ordinario Diritto tributario dell’Università degli Studi di Milano e Presidente dell’Associazione nazionale tributaristi italiani La lezione di Libero Grassi. Trent’anni dopo l’omicidio di Gianni Riotta La Repubblica, 29 agosto 2021 “Una pallottola per un businessman” titolava il 3 novembre del 1991 Bloomberg, il network finanziario globale. Pochi giorni prima, il 12 ottobre, Alan Cowell scriveva sul New York Times: “Da quando i gangster hanno ucciso un imprenditore siciliano, perché si era rifiutato di pagare il pizzo alla mafia, l’Italia intera vive una straordinaria ondata di mobilitazione contro la criminalità organizzata e la sua rete di estorsioni, narcotraffico e riciclaggio del danaro sporco, che si estende ormai ben oltre il Sud povero”. È difficile, trenta anni dopo il martirio di Libero Grassi, industriale e attivista siciliano caduto per mano delle cosche nella sua città adottiva, Palermo, ricordare quanto la notizia, allora, impressionasse l’opinione pubblica internazionale. Grasso univa, nella sua personalità, il meglio della tradizione italiana, di prima e dopo la guerra, della I e II Repubblica. Battezzato Libero in memoria di Giacomo Matteotti, parlamentare ucciso dai fascisti nel 1924, anno della sua nascita, era stato vicino al Partito d’Azione, poi aveva militato con il Partito Radicale di Marco Pannella e quindi con i repubblicani di Ugo La Malfa nelle amministrazioni locali, contrastando le manovre dei racket in politica. Quando i partiti storici tramontano, Grassi, come tanti in quella stagione di ideali generosi e sconfitte tragiche, partecipa ai movimenti antimafia con la “Lettera al Caro Estortore”, pubblicata sul Giornale di Sicilia il 10 gennaio del 1991. Documento che, con la sua lucida prosa, sigilla, sette mesi dopo, la condanna a morte dell’imprenditore. Scrive Grassi: “Caro estortore, volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere…Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui”. I boss intuiscono che, ove il messaggio di Grassi si fosse diffuso nel fragile, corrotto, gonfio di sussidi pubblici obsoleti e spesso innervato di criminalità, sistema produttivo del Sud, per loro la fine sarebbe stata prossima. Al tempo stesso, la Sicilia che aveva deciso di vivere finalmente libera nell’era globale, comprende che rompere la complicità è la sola rotta possibile. Condannati i killer, entrato Grassi nel Pantheon degli eroi siciliani, con Giovanni Falcone caduto un anno dopo, oggi ne onoriamo la memoria, ma il solo modo non retorico di farlo è esaminare il presente con il pragmatismo di “Libero”, la schietta capacità di distinguere fatti da chiacchiere “da caffè”, come si ama dire a Palermo. A che punto è la rinascita della Sicilia? È più o meno libera l’economia del 2021? Le start up possono vivere a Napoli, Palermo, Reggio Calabria? Gli investimenti internazionali son pronti a tornare al Sud dopo mezzo secolo? E i grandi brand, vedi il laboratorio partenopeo di Apple, a che condizioni creeranno lavoro, dopo le ambiguità del caso Montante? Il tema, cruciale, è oggetto di un’intervista di Salvo Palazzolo a Salvatore De Luca, Procuratore aggiunto alla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, che osserva preoccupato: “Purtroppo, un consistente numero di commercianti e imprenditori continua ad essere assoggettato a Cosa Nostra”. Grandi passi avanti, nella coscienza civile, anche grazie agli insegnanti che hanno bene educato, nelle scuole, una nuova generazione, ma ancora ombre e ricatti nell’economia. Questo è, e resterà, campo di battaglia strategico tra legalità e criminalità. Finché economia ed industria del Sud non saranno aperte, innovative, capaci di competere e trattenere a casa i migliori talenti di ragazze e ragazzi senza forzarli all’emigrazione, finché i saperi del secolo, digitale, reti, dati, servizi, sostenibilità, tecnologia, non saranno radicati in ogni metropoli, la mano parassita del crimine lucrerà nel sottosviluppo stagnante e forze dell’ordine, magistrati, giornalisti, leader civili non basteranno. Questa è la lezione viva di Libero Grassi, monito futuro alle cosche, sprone a tutti gli animi, come lui, Liberi. Cosa nostra è un virus. E muta in continuazione di Lirio Abbate L’Espresso, 29 agosto 2021 La mafia non è stata annientata. Perché i clan continuano a dimostrare di essere sempre un passo avanti a chi li indaga. Grazie alla connivenza, al silenzio e al guadagno di chi si gira dall’altra parte. Ritornare a Libero Grassi significa riflettere sulla lotta alla mafia, sul movimento antiracket, sui suoi limiti e, soprattutto, sull’azione, a volte coperta da impostura, di istituzioni e società civile contro le estorsioni, la corruzione e il favoreggiamento a Cosa nostra. Questo coraggioso imprenditore denunciò pubblicamente le richieste del racket e l’allora presidente di Confindustria Palermo disse che Libero voleva solo farsi pubblicità perché non gli risultava che a Palermo gli imprenditori pagassero il pizzo. Non siamo al 1991 quando Libero Grassi è stato assassinato a Palermo perché si è rifiutato di piegarsi ai boss. Tra alti e bassi in questi trent’anni di lotta alla mafia, in cui c’è stato un ciclo alto dell’impegno dello Stato, che si è alternato a periodi di stanca, quindi di ciclo basso, come purtroppo lo è adesso. Alcuni politici, anche della maggioranza si riempiono la bocca di frasi contro la mafia ma praticamente non agiscono in questa direzione. E sono segnali che i boss riconoscono. Gli attacchi di Matteo Salvini al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese è solo l’ultimo triste caso di mancata coesione che avvantaggia solo la criminalità organizzata. In sei lustri non si è arrivati all’annientamento di Cosa nostra. Perché l’organizzazione e i suoi affiliati hanno continuato a perfezionarsi, a mutare, come un virus che trova le varianti ogni qual volta arriva l’azione giudiziaria con i continui numerosi arresti e le condanne inflitte. Continuano a dimostrare di essere sempre un passo avanti a chi li indaga. Grazie alla connivenza, al silenzio e al guadagno di chi si gira dall’altra parte. È anche per questo motivo che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, proprio a Palermo, ha voluto sottolineare: “O si sta contro la mafia o si è complici, non ci sono alternative”. Occorre ricordare le parole del Capo dello Stato: “Nessuna zona grigia, nessuna omertà né tacita connivenza: o si sta contro la mafia o si è complici dei mafiosi, non vi sono alternative. La mafia teme, certamente, le sentenze dei tribunali. Ma vede come un grave pericolo per la sua stessa esistenza la condanna da parte degli uomini liberi e coraggiosi”. Perché dopo il sacrificio di Libero Grassi, dopo la denuncia di gran parte delle vittime delle estorsioni appoggiati da volenterosi siciliani che si sono ritrovati in Addiopizzo o nell’Acio di Capo d’Orlando o nella federazione antiracket, ci sono ancora cittadini onesti che continuano a non vedere i boss mafiosi che vivono in mezzo a loro. Anche per questo la mafia resta pericolosa, ma qualcosa anche nel mondo mafioso sembra profondamente cambiato. È nella sua storia. Nel suo ciclo di vita. Sul piano organizzativo, Cosa nostra palermitana ha risentito delle difficoltà di ripianare le posizioni di vertice che sono state rese vacanti dall’azione di contrasto degli investigatori, della mancata ricostituzione di un coordinamento unitario a livello provinciale e delle tensioni interne. Cionondimeno, i clan nell’ultimo anno hanno continuato a mostrare persistente vitalità, grazie alla loro capacità di adattarsi ai mutamenti di contesto e all’approccio pragmatico al business finalizzato al riciclaggio e alla creazione di imprese “pulite” da impiegare nella gestione manageriale degli interessi criminali, non solo in Sicilia, pure in altre regioni del Centro e del Nord. Occorre guardare oltre ai tradizionali affari illeciti, quali il traffico di droga, il gioco online, il racket delle estorsioni e il contrabbando di idrocarburi, anche al settore immobiliare, dei trasporti, delle assicurazioni, della ristorazione e dell’abbigliamento. Nella loro invisibilità e nel silenzio, puntano anche ai fondi europei. E ancora una volta, ai soldi dei cittadini. Nel Comune sciolto per tre volte per mafia nessuno si candida di Sara Dellabella Il Domani, 29 agosto 2021 Il 13 febbraio 2021 il sindaco di Rosarno, Giuseppe Idà si dimette in seguito all’inchiesta Faust che lo accusa di scambi politico - mafiosi con la cosca Pisano. Lui si dichiara estraneo ai fatti. A febbraio 2021, la Prefettura di Reggio Calabria ha inviato la Commissione d’Accesso a Rosarno per verificare la sussistenza di eventuali forme di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso. Il consiglio dei ministri ha deciso il commissariamento il 26 agosto. La Lega ha annullato l’inaugurazione della sede, la sezione del Pd è commissariata da sei anni e De Magistris non parla della situazione di Rosarno. Non resta che affidarsi ancora una volta al commissariamento. In tutti i 1.162 comuni che andranno al voto il prossimo 3 ottobre è partita la macchina elettorale. In tutti, tranne uno: Rosarno. Il consiglio dei ministri del 26 agosto ha deciso di commissariare il consiglio comunale per infiltrazioni mafiose ed è la terza volta che accade. Qui non ci saranno candidati, non si parla di liste e i partiti se ne tengono alla larga. L’ultimo a fuggire dal comune calabrese è Matteo Salvini che avrebbe dovuto inaugurare la sede una settimana fa, ma poi ha annullato tutto. “La sezione è commissariata da sei anni e non abbiamo circoli aperti sul territorio” racconta Elisabetta Tripodi, sindaca di Rosarno fino al 2014, protagonista di quella che viene ricordata come la “primavera rosarnese” fatta di politiche anti ‘ndrangheta, minacce, politiche per i migranti schiavi nella raccolta degli agrumi. Sindaca del Pd in una stagione dove le donne amministratrici erano diventate un simbolo di rinascita per l’intera regione. Una stagione che è finita velocemente, tra dissapori con il partito e i veti locali. Ma a Rosarno, oggi, non spira neppure quella ventata di novità promessa da Luigi De Magistris, il candidato indipendente che ha promesso di rompere gli schemi della vecchia politica. Al suo comitato hanno la bocca serrata sulla situazione di Rosarno, ma assicurano che sulla composizione delle liste stanno facendo un lavoro scrupoloso per “evitare brutte sorprese”, pronto per essere vagliato anche dalla Commissione antimafia. “La situazione locale non è florida”, commenta il presidente del comitato cittadino Pro Rosarno, Pietro Costantino, che ci tiene a tenersi fuori dalle polemiche politiche, ma che non può fare a meno di osservare che “è una situazione strana, non abbiamo candidati e per questo siamo preoccupati, perché l’amministrazione comunale è una figura di riferimento per ogni attività”. Commissario a oltranza - Nel frattempo, Rosarno è amministrata dal commissario prefettizio, Antonio Reppucci, che divide il suo impegno anche con il Comune di Pizzocalabro, anch’esso commissariato. Il commissario è stato nominato nel febbraio scorso, in seguito all’arresto del sindaco, Giuseppe Idà, nell’ambito dell’inchiesta “Faust” insieme ad altre 49 persone. L’accusa mossa dalla procura antimafia di Reggio Calabria è quella di avere accettato la promessa di voti dalla cosca Pisano in cambio dell’assegnazione al consigliere comunale Domenico Scriva, dell’assessorato ai lavori pubblici o, comunque, dell’attribuzione di un altro incarico di prestigio. Il 13 febbraio Idà si dimette insieme ai dieci consiglieri di maggioranza, dopo che il Tribunale del riesame di Reggio Calabria ha revocato gli arresti domiciliari sostituendola con il divieto di dimora a Rosarno. Da quel momento, la prefettura di Reggio Calabria ha inviato la commissione d’accesso a Rosarno per verificare le eventuali forme di infiltrazione mafiosa. Un lavoro di indagine amministrativa sintetizzata nella decisione del consiglio dei ministri di ieri 26 agosto, di nuovo un commissariamento per 18 mesi, elezioni dunque saltate. Ma oltre alle inchieste sul comune si allunga anche l’ombra del dissesto finanziario, un’evasione fiscale pari all’80 per cento e debiti fuori bilancio. Una situazione complicata per chiunque che richiederebbe ai partiti di imporre grossi sacrifici ai propri cittadini per rimettere i conti in ordine e riportare l’amministrazione ad una condizione di efficienza. Una cura che renderebbe impopolare qualsiasi dottore, tanto più in un territorio così complicato. Il fallimento della politica in un territorio che da tema di scontro dei partiti è diventato, improvvisamente, terra di nessuno. O meglio preda delle cosche. Firenze. Decine di detenuti nell’area inagibile. Senza acqua né luce per 40 giorni di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 29 agosto 2021 Senza luce e senza acqua per oltre un mese nelle celle della dodicesima sezione di Sollicciano, che doveva essere evacuata perché inagibile ma per settimane ha continuato ad ospitare una quarantina di detenuti. L’ennesimo caso nel carcere fiorentino inizia all’indomani della protesta di 5-6 reclusi, saliti sul tetto incendiando lenzuola e coperte lo scorso 11 luglio. Le fiamme hanno danneggiato gli impianti elettrici della sezione, tanto da richiedere l’evacuazione dell’area. Eppure, se i primi detenuti sono stati trasferiti in altre sezioni (e anche nell’adiacente carcere Gozzini) nei giorni successivi all’incendio, gli ultimi sono rimasti in quell’ala senza luce né acqua fino a pochi giorni fa. Con non pochi problemi, oltre che per i detenuti, anche per gli agenti penitenziari e sul fronte della sicurezza: “Di notte parte della sezione era al buio e noi guardie giravano con le torce per sorvegliare i reclusi”. Una situazione difficile per cui adesso il sindacato Uil degli agenti penitenziari annuncia una denuncia alla Procura della Repubblica per segnalare “il mancato rispetto dei diritti umani”. “Scriveremo dell’accaduto alla Procura - spiega il segretario regionale Eleuterio Grieco - Per quasi due mesi la sezione è stata senza luce e senza acqua ma i reclusi non sono stati trasferiti nonostante la precaria condizione della struttura, pensate cosa succederebbe in un ospedale se accadesse la stessa cosa”. Il disagio è stato raccontato in una lettera scritta dal cappellano di Sollicciano don Vincenzo Russo e dal presidente della Camera Penale di Firenze Luca Maggiora e inviata al ministero della Giustizia, al provveditorato regionale e alla direzione del carcere. “La sezione - si legge nella lettera - a differenza di ciò che dovrebbe rappresentare uno spazio vivibile e minimamente accettabile, risulta sprovvista di luce ed acqua corrente dall’11 luglio. Inutile rammentare le condizioni meteo dell’ultimo periodo che sono risultate inadeguate alla stragrande maggioranza della popolazione italiana libera. Inutile ricordarvi le condizioni di assoluta inadeguatezza di tutta la struttura in oggetto, carente sotto molteplici profili e divenuta un contenitore di uomini e donne, private non solo della libertà ma financo del minimo rispetto della dignità umana”. “Il carcere di Sollicciano - aggiunge don Russo - vive da anni in uno stato di abbandono nonostante l’impegno del comandante e della direzione per cambiare le cose. Molti reclusi sono rimasti in una sezione inagibile ben oltre il tempo necessario. Inoltre Sollicciano sta diventando un nuovo Opg (Ospedale Psichiatrico Giudiziario, ndr) dove dentro ci sono troppe persone con problematiche psichiatriche in condizioni di grave disagio”. “Il black out della dodicesima sezione - conclude l’avvocato Maggiora - è la punta di un grande iceberg. Sollicciano deve essere risanato per tutto ciò che lo riguarda. È una struttura incapace di gestire la detenzione, giuridicamente e costituzionalmente intesa nel senso di rieducazione, ed inadatta ad ospitare, usando un eufemismo, una media di 700 persone. Sollicciano oggi è un luogo inadeguato alla sua originaria funzione”. Firenze. “Disagi? Non è certo. E poi nessuno ha inscenato proteste” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 29 agosto 2021 Intervista al provveditore Pierpaolo d’Andria. Dopo l’incendio dello scorso 11 luglio, la dodicesima sezione di Sollicciano doveva essere evacuata, eppure per quasi due mesi alcuni detenuti sono rimasti in quelle celle. Chiediamo al provveditore toscano dell’amministrazione penitenziaria, Pierpaolo d’Andria, perché. Partiamo dall’episodio dell’11 luglio... “Un gruppo di detenuti è salito sul tetto e ha appiccato un incendio”. Quel giorno lei andò a Sollicciano? “Sì, andai per vedere quello che era successo, effettivamente c’era stata la demolizione di un finestrone della doccia utilizzata dai detenuti, così i reclusi erano riusciti a salire sul tetto”. Poi l’incendio... “Le fiamme hanno danneggiato fili e cavi, si è posta subito l’esigenza di evacuare la dodicesima sezione”. Però ci sono voluti quasi due mesi per evacuare tutti i detenuti... “Non è semplice effettuare questi trasferimenti, soprattutto in una situazione di sovraffollamento. Però se entriamo nel dettaglio non saprei dirle esattamente il perché dei tempi, io mi occupo longitudinalmente dei problemi di ventuno penitenziari in Toscana”. Molti detenuti sono rimasti senza luce né docce per giorni... “Non credo sia così. Mi sembra strano che, mancando beni così essenziali, i reclusi non abbiano inscenato proteste”. Perché bisogna aspettare le proteste per capire e risolvere i problemi del carcere? “Non dico questo, ma bisognerebbe capire se effettivamente ci sono stati questi disagi, dovrei fare delle telefonate ai miei uffici per capire meglio”. Più tardi riceviamo la telefonata di una dirigente che, a nome del Provveditore, dice: “I detenuti della dodicesima sezione non hanno mai avuto problemi di erogazione di luce e acqua all’interno delle stanze detentive”. Ma per gli agenti “è mancata la luce anche nelle celle” e “le docce non erano agibili”. Oristano. Carcere di Massama, lettera al Ministro Cartabia La Nuova Sardegna, 29 agosto 2021 Elencati diversi punti critici indicati dai detenuti. L’appello inviato anche alla direzione del carcere. L’associazione Yairaiha Onlus, attiva del 2006, con sede a Cosenza e presieduta da Sandra Berardi ha inviato una lettera al ministro della Giustizia Marta Cartabia, al direttore del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria Bernardo Petralia, al direttore di Massama Pierluigi Farci, a due associazioni che si occupano da tempo di diritti dei detenuti, e al garante nazionale dei detenuti Mauro Palma nella quale si riferimento a una lettera ricevuta dalla stessa associazione da parte di alcuni detenuti di Massama. Nella lettera citata dalla associazione sono riportate quelle che l’associazione ritiene essere “condizioni di invivibilità” nell’istituto. Si tratterebbe di piccole disfunzioni che sommate ai naturali disagi della vita carceraria complicano sia la vita dei reclusi che il lavoro degli operatori. In tutto sarebbero undici i punti critici indicati nella lettera. Tra questi, la non applicazione della circolare sui ventilatori e i frigo nelle celle, la presunta non applicazione della circolare per l’apertura delle celle mattina e pomeriggio; il non funzionamento del sistema computerizzato per le telefonate; la concentrazione delle videochiamate in pochi giorni di più ore e non di una ora in più giorni; il ritardo nell’invio delle domandine per gli acquisti; un orario ritenuto non consono per le telefonate con i legali; un uso limitato della palestra; una presenza non diffusa dei condizionatori, non negli spazi di ricreazione nelle sezioni; un vitto uguale sia in estate che in inverno, non adeguato alle alte temperature. Un dialogo ritenuto poco proficuo con la direzione del carcere, in quanto “qualsiasi lamentela rimane finalizzata a se stessa con l’agente di sezione”. Pesaro. “La giustizia che vorrei e quella che sarà”: riflessioni sul tema con De Vito e Gabrielli Il Resto del Carlino, 29 agosto 2021 Il magistrato Riccardo De Vito e la docente di ordinamento giudiziario Chiara Gabrielli saranno i protagonisti dell’incontro “La giustizia che vorrei e quella che sarà” in programma per martedì sera, con inizio alle 21.15, al Chiostro Francescano di Mondavio. L’organizzazione dell’evento è del gruppo di riflessione politica, sociale ed economica ‘Fuoritempo’ di San Michele al Fiume, con il patrocinio dell’amministrazione comunale e dell’Università per la Pace della Regione Marche che l’ha inserita come parte integrante della manifestazione regionale “Se vuoi la pace prepara la pace”. De Vito, già presidente di Magistratura Democratica, e Chiara Gabrielli, laureata con lode e menzione alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Macerata, ora docente alla ‘Carlo Bo’, discuteranno con gli organizzatori di ‘Fuoritempo’ dell’importante tema della giustizia e delle sue prospettive. L’incontro rientra nel programma ‘Primavera della Legalità’. Palermo. “Fiori dal nulla”, la canzone scritta dai ragazzi dell’Ipm farodiroma.it, 29 agosto 2021 “È la rabbia che ci ha portato in gabbia, queste parole mi fanno liberare”, racconta “Fiori dal nulla”, la canzone scritta dai ragazzi dell’Istituto Penale per i Minori di Palermo (comunemente conosciuto come “carcere Malaspina”) all’interno del progetto “Musica in libertà” promosso dall’associazione Rock10elode e finanziato dall’8×1000 della Chiesa Valdese, con l’obiettivo finale di dare ai minori detenuti spazi e tempi per coltivare le proprie attitudini artistiche e comunicative. Le attività, organizzate in collaborazione con l’istituto, si sono svolte a partire dal mese di febbraio, e sono state pensate come uno “spazio aperto” durante il quale condividere testimonianze personali sugli argomenti trattati e scrivere testi su composizioni fornite dai musicisti. Il risultato è stato una canzone (con annesso videoclip) che stimola i giovani al riscatto attraverso l’arte, alla libertà attraverso le parole, ma non solo: oltre a Fiori dal nulla ci sono altri sette brani che i ragazzi hanno composto. “Scrivere questa canzone è stata un’esperienza che ha favorito l’attivazione di processi di cooperazione e di socializzazione - dichiara Clara Pangaro, direttrice dell’istituto - e ha reso possibile esprimere le potenzialità di ciascuno dei giovani partecipanti al progetto. Nei singoli testi scritti e con Fiori dal nulla, i ragazzi sono riusciti a raccontare alcuni momenti della loro vita con il linguaggio musicale, a dire di sé e dell’esperienza detentiva, a dare parola ai loro desideri e ai sogni che sperano di realizzare. È stata inoltre un’opportunità per riflettere e trasmettere messaggi profondi di accoglienza, di giustizia e legalità, offrendo ai giovani partecipanti preziosi elementi per poter ripensare e rimodulare i loro percorsi di crescita per un’attiva e costruttiva partecipazione alla comunità sociale”. “Ci è piaciuto offrire questa opportunità - spiega Gianni Zichichi, presidente dell’associazione Rock10elode e ideatore del progetto - per stimolare verso il bello questi ragazzi, assecondando la loro sensibilità creativa. L’intento è stato quello di offrire loro la possibilità di coltivare in maniera semplice, libera e gioiosa, attitudini artistiche e comunicative”. Quando i microfoni aperti di Radio Radicale rivelarono l’Italia che odia di Giandomenico Crapis L’Espresso, 29 agosto 2021 Nell’estate 1986 l’emittente offre agli ascoltatori la possibilità di registrare messaggi senza filtro. Risultato: bestemmie, razzismo nord sud, slogan fascisti. Trent’anni prima dell’arrivo dei social. Negli Ottanta, quando tutto cambiò, c’è un anno che potrebbe simbolicamente rappresentare il passaggio da un’Italia ad un’altra: il 1986. Ed anche se, come ci spiegherebbero gli storici, il mutamento andrebbe diacronicamente cercato sul tempo lungo, è proprio nel 1986 che alcuni indizi annunciano il tramonto di un’epoca. Siamo ormai lontani dal miracolo economico, da tempo è in crisi la repubblica dei partiti, sfumata è l’onda delle passioni politiche e trionfa l’individualismo narcisista e consumista alimentato dalla pubblicità che dalle tv commerciali si riversa sul Paese. Pure le ultime icone nazionalpopolari sono svanite: a Pertini, il loquace e seduttivo presidente partigiano, è succeduto il silente Cossiga, i campioni dell’82 sono stati eliminati dalla Francia ai mondiali messicani. Ma all’inizio dell’anno Alessandro Natta, segretario del partito meno incline alla spettacolarizzazione politica, era comparso tra lo stupore dei militanti sul divano di “Buonasera Raffaella”, mentre Pippo Baudo, proclamato dal settimanale Sorrisi e Canzoni il personaggio più amato dagli italiani, proprio alla fine del 1986 veniva travolto da una polemica con il presidente della Rai Enrico Manca. Ormai l’Italia è già diventata la televisione, nel senso che vi si specchia e ne è specchiata, un cortocircuito sempre più intenso che taglia fuori le vecchie parrocchie come le vecchie sezioni. Ma se la politica si fa spettacolo tv, la società non sembra assecondare queste trasformazioni: lustrini e paillettes poco si conciliano nella pancia dello stivale con un sentire che si carica di malumori, rabbia, malanimo. Un sommovimento che durerà molti anni prima di provocare il terremoto del biennio ‘92-’94, ma che nell’estate del 1986, appunto, si appalesa con una prima scossa tellurica che solo il sismografo dei media rileva. Perché tra Natta sul divano della Carrà e il baudismo che tramonta è la radio che s’incarica di fornirci un ulteriore indizio della trasformazione in atto. Lo fa con un’emittente, Radio Radicale, che in crisi per l’aumento dei costi denuncia il rischio di chiusura e per spingere il governo ad intervenire vara una singolare forma di protesta: sospende i programmi e al loro posto una trentina di segreterie telefoniche dal 10 luglio accolgono i messaggi di solidarietà degli ascoltatori. Aperti i microfoni, i messaggi, al massimo di un minuto, cominciano ad arrivare. Sono messaggi che esprimono perlopiù vicinanza alla causa, anche se non manca il dileggio. Questo per alcuni giorni, fino a quando i redattori non decidono di rendere pubbliche le telefonate mandandole in onda h24. L’effetto della scelta è dirompente: la questione della sopravvivenza della radio passa in secondo piano, derubricata da una valanga di registrazioni che cresce in maniera esponenziale e in cui gli italiani danno voce agli istinti più indicibili. Sono messaggi che di radicale possiedono solo le incredibili modalità espressive, messaggi d’amore, di tifo sportivo, invettive e insulti di vario genere, inni al fascismo o perfino al nazismo, ingiurie contro negri, ebrei, froci, meridionali terroni, nordisti polentoni. Poi c’è chi canta, chi registra una filastrocca, chi bestemmia, chi finge un orgasmo, chi manda affanculo, chi parla a capocchia, chi invoca i forni crematori, chi protesta per quelle stesse telefonate, chi si fa pubblicità, chi soffre per un amore perduto e chi s’offre per un amore mercenario. Anche se i temi più frequentati alla fine sono quasi sempre quelli: Nord contro Sud, metallari contro paninari, comunisti contro fascisti, tifosi contro tifosi. La bestemmia, in particolare, sembra esercitare sugli anonimi italiani un’irresistibile fascino: urlata al telefono, accompagnata con proclami a Benito o ad Adolfo, scagliata contro i milanesi o i meridionali. In questa sarabanda pecoreccia dove la pernacchia è il gesto più civile ci sono punte di sublime creatività, come quando una signora napoletana, alludendo agli scioperi della fame di Pannella, conia un distico memorabile: ‘nuie a fame a facimme senza o sciopero, la nostra è na fame radicale’. Dunque nelle ultime settimane di luglio e nella prima metà di agosto su Radio Radicale andava in onda una, fino ad allora inedita, apoteosi della parolaccia e delle offese: ma più che di una rivoluzione (la presa di parola degli esclusi: c’era chi la teorizzava) si trattava piuttosto della rivelazione che accanto all’Italia oleografica dei santi, poeti, navigatori c’era un Paese anonimo di razzisti e bestemmiatori del tutto ignoto ai retori della nazione. Pure il mito del latin lover veniva travolto dal fiume delle sodomizzazioni promesse via telefono: “Quelli del Nord vogliono metterlo in culo ai meridionali, i quali minacciano la stessa sorte ai nordisti. Ma non eravamo un popolo di amanti latini?” c’era chi coerentemente si chiedeva in una delle chiamate. Ad un certo punto, dunque, l’esperimento politico sfuggiva completamente di mano ai suoi promotori per diventare microfono aperto sulle viscere di un Paese che si dimostrava più brutto e cattivo di come lo si pensasse. Certo, a giocare a favore c’era un clamoroso effetto diretta, la goliardia risorta dopo il tramonto delle ideologie, l’esibizionismo del selfie ante litteram con i media allora disponibili, c’era il piacere della trasgressione oscena, tanto più libera quanto anonima, il gioco demenziale del ragazzino che registra per la prima volta la sua voce. Il tutto legato dal narcisismo di masse di individui in fuga dalla società, come andava raccontando Cristopher Lasch, e dal filo rosso di un’intolleranza indistinta che andava da chi faceva il verso al Duce: “La parola d’ordine è una, e una soltanto, annate affanculo!”, a chi enfaticamente invocava “tutti in galera!”. Visto ex post negli anni successivi si parlò di magma ribollente e nascosto emerso all’improvviso tra la sorpresa dei più, espressione della peristalsi di un Paese dove già s’annunciavano le leghe padane e la mutazione individualista assecondata dalle tv berlusconiane, si disse di uno straordinario esperimento socio-antropologico e via analizzando; visto con gli occhi dell’oggi, più di trent’anni dopo, fa molta impressione piuttosto l’assonanza con i linguaggi social, l’hate speech, l’odio in rete, la gratuita violenza verbale del web. Colpisce come affiorino proprio in quel frangente i nuclei di quegli universi frammentati che nei decenni successivi avrebbero dato vita alle tribù del calcio, al sessismo machista, alle leghe padane, all’antipolitica dei vaffa, ai fascismi ritornanti, ai gruppi emarginati delle periferie. Ma lo si sarebbe capito dopo. Paolo Vigevano, direttore dell’emittente, affermava che quanto accaduto era un evento unico e senza precedenti, annunciando di avere inviato al sociologo Ferrarotti uno scatolone pieno di materiale registrato per farci sopra una ricerca sociologica. Che in realtà non arrivò mai. In ogni caso tra luglio e agosto del 1986 era andato in onda via radio il più grande esperimento di accesso libero ai media mai verificatosi prima, privo di qualsiasi filtro o censura, capace di calamitare un esercito di cittadini di fronte allo spettacolo del microfono dato alla gente, format degenerato di quello nato nella stagione delle radio libere. La gente, ecco il punto: a fare il suo ingresso sulla scena pubblica, in quella circostanza forse per la prima volta, era proprio un soggetto privo di identità economica, sociale o di classe che presto sarebbe assurto a protagonista della grande trasformazione politico mediatica italiana. Prima che sul video con Santoro, “la gente” si materializzava in modulazione di frequenza, dando vita al primo embrione di quel soggetto trasversale che prendeva il posto di concetti come popolo o classe operaia. La kermesse proseguiva fino a quando, alla metà di agosto, l’intervento dei magistrati, che sequestravano le segreterie telefoniche per vilipendio alle istituzioni, apologia del fascismo e istigazione al genocidio, non vi metteva fine. Un provvedimento che, come scrisse Miriam Mafai, rassicurava solo la nostra coscienza: “Quando scoppia un tombino anche il passante più distratto scopre che sotto la strada scorre una fogna. E puzza. Ma una volta rimesso a posto il tombino perché pensare a cosa c’è sotto?”. Così rimesso a posto il tombino avrebbe coperto ancora per moltissimo tempo i cattivi odori che provenivano dal sottosuolo della Penisola. “Ma che Paese è mai questo?” si chiedeva qualche giorno prima della chiusura, avvenuta il 14 agosto, uno dei pionieri italiani della sociologia dei mass media Giovanni Bechelloni: “Questa Italia al microfono esiste davvero? Quanto è consistente? Da che cosa è prodotta? Chi la rappresenta?”. Si augurava che qualcuno la esplorasse, questa Italia, “prima che sia troppo tardi: prima che questa faccia nascosta della luna si trasformi in un mostro”. Non accadde. Ma dopo un paio di mesi il Parlamento votava una legge che concedeva all’emittente la possibilità di accedere alle stesse provvidenze pubbliche previste per i giornali di partito. Radio Radicale era salva. Vaccini, green pass e libertà: parliamone tra dieci anni di Giuseppe Lauria Pinter Corriere della Sera, 29 agosto 2021 Il dibattito sul virus: mettere oggi in discussione la necessità che la maggior parte della popolazione si vaccini è complicare inutilmente la relazione tra società civile, istituzioni sanitarie e scienza. Questa storia del green pass è un po’ come il tennis. Facile da guardare, ma molto complicato da giocare perché ciò che determina ogni buon colpo sono molte variabili: sobrietà nel movimento, misura della velocità, decisione anticipata su dove attendere la palla, previsione su dove inviarla e pochi pensieri in mente. Poi c’è il timing, ciò che senza dubbio comprerei se mai Roger potesse mettere qualcosa in vendita. L’ho imparato da Roberto, il mio maestro di tennis, chiacchierando di conoscenza e competenza. La ragione di questa affinità sta nel fatto che il green pass, evento potenzialmente semplice ed assimilabile ad altri con i quali democraticamente siamo arrivati a convivere (ricordo la polemica di 15 anni fa sull’obbligatorietà delle impronte digitali), si è complicato per una commistione di variabili fatta di poca sobrietà, eccesso di misura ed indifferenza rispetto alla direzione delle parole, alla quale hanno partecipato in molti, tra cui sindacalisti, storici e, sorprendentemente, filosofi. Senza dubbio è concesso parlare di medicina a prescindere dalla conoscenza degli aspetti tecnici. Ad esempio, scrittori parlano della terapia con cannabis senza evidentemente alcuna idea strutturata né della sua efficacia sul dolore né della patologia a cui fanno riferimento. Analogamente, non pare necessario conoscere le procedure della sperimentazione clinica e la definizione dei livelli di evidenza delle terapie per esprimere un’opinione su vaccini e green pass. Certo, il ruolo sociale che si ricopre ha una qualche importanza e, immagino, dovrebbe temperare la prospettiva individuale dalla quale si parla. Chi afferma che il vaccino deve essere una scelta libera e che non c’è libertà senza consapevolezza dei suoi rischi sembra saper discernere cause ed effetti in medicina meglio di un tecnico mentre indica un orizzonte libero dal vincolo di fiducia nelle istituzioni sanitarie. Chi sottolinea lo squilibrio tra un vaccino, che sarebbe ben lungi dal costituire una difesa assolutamente sicura contro il contagio, e la discriminazione perpetrata dal green pass suggerisce che si può applicare con facilità la locuzione “assolutamente sicuro” in medicina. Chi abita la divaricazione di pensiero tra sostegno all’obbligo del vaccino e innalzamento del green pass a strumento che divide e discrimina, dimentica che un obiettivo fondamentale della medicina è la prevenzione delle malattie nella popolazione, dall’ictus alle infezioni, e che ciò avviene aderendo a principi di realtà e non a posizioni velleitarie. Nei fatti, il green pass esiste a causa dell’attuale impossibilità di rendere obbligatorio il vaccino (che se pure divenisse obbligatorio renderebbe necessario un green pass, come accade per le 10 vaccinazioni obbligatorie nei bambini). Insomma, un possibile loop senza fine. In Israele, Paese simbolo della risposta vaccinale, si sta registrando una nuova ondata di infezioni da Covid 19 ed il green pass, prima sospeso, è stato reintrodotto. In effetti, 1 milione di cittadini non vaccinati, tra cui molti giovani, ha contribuito in modo sostanziale alla diffusione del virus, mentre la parziale perdita di efficacia del vaccino ha indotto l’avvio della campagna per il terzo richiamo che darà a breve indicazioni importanti. La recente approvazione del vaccino da parte dell’FDA potrà forse cambiare la prospettiva dell’obbligatorietà in alcuni Paesi, a partire dagli Stati Uniti dove 85 milioni di cittadini hanno finora rifiutato di vaccinarsi, e modificare alcune divergenze di posizione. Il governatore della California ha dichiarato che il vaccino è la cosa giusta per tutti, mentre la Florida vuole difendere i diritti di chi decide di astenersi. Allo stesso tempo, in un recente sondaggio il 70% degli americani si è dichiarato a favore delle misure dirette ed indirette che in pratica obbligano alla vaccinazione. Traslare la questione del green pass su un piano filosofico per discutere di scelte e libertà in medicina potrebbe essere di grande interesse, ma forse tra dieci anni quando tutto sarà passato. Per ora, suggerirei di utilizzare altri argomenti. Gli eventi e la storia ci insegneranno una volta in più che il dialogo e la contaminazione tra aree culturali, non la contrapposizione, sono fondamentali per l’evoluzione della società e della scienza. Perché mettere oggi in discussione il green pass implica mettere in discussione la necessità che la maggior parte della popolazione si vaccini e complicare inutilmente la relazione tra società civile, istituzioni sanitarie e scienza, incrementando l’entropia di un Paese che ha bisogno di rigore, metodo ed indicazioni positive. Insomma, una questione di visione di variabili e priorità, e di timing. Oltre un milione di ricoveri in meno causa Covid di Adriana Pollice Il Manifesto, 29 agosto 2021 Il calo delle cure fa salire i morti per patologie differenti dal Coronavirus. I nuovi casi Covid ieri in Italia sono stati 6.860 su 293.464 test, il tasso di positività al 2,3%, i morti 54. Stabili i ricoveri: 4.111 in area medica, 511 in terapia intensiva; 134.806 le persone in isolamento domiciliare. La regione con il maggior numero di nuovi casi è stata la Sicilia (1.139), seguono il Veneto (864), l’Emilia Romagna (686) e la Toscana (601). Dai dati del quarto rapporto Salutequità emerge che nel 2020 ci sono stati 1,3 milioni di ricoveri in meno rispetto al 2019 (meno 17%), circa 620mila quelli chirurgici saltati. A essere cancellati, oltre ai ricoveri programmati (747.011), ci sono anche quelli urgenti (554.123). Sono gli effetti della pandemia da Coronavirus. Le aree più coinvolte sono state quelle della chirurgia generale, dell’otorinolaringoiatria e della chirurgia vascolare. Per l’ambito cardiovascolare c’è stato un calo di circa il 20% degli impianti di defibrillatori, dei pacemaker e degli interventi maggiori. I ricoveri di chirurgia oncologica hanno avuto una contrazione del 13%, quelli di radioterapia del 15% e di chemioterapia del 30%. La diminuzione dei ricoveri del tumore della mammella è stata del 30% e del 20% quella di tumori al polmone, pancreas e apparato gastrointestinale. Nel 2020 ci sono state (rispetto al 2019), 90 milioni di prestazioni di laboratorio in meno, un taglio di 8 milioni di prestazioni di riabilitazione, meno 20 milioni di prestazioni di diagnostica. Lo stop alle cure ospedaliere, alle visite non urgenti e agli screening, può aver causato dall’inizio dell’emergenza un surplus di decessi rispetto ai numeri pre-Covid registrati nel paese. Uno studio dell’Università di Pavia, pubblicato sulla rivista Public Health, ha analizzato i dati Istat, per gli studiosi sta cambiando il peso del Covid sui decessi in più in Italia: nel 2020 sono stati oltre 4 su 10, nel 2021 sono meno di 2 su 10. Il resto (6 persone su 10 nel 2020 e 8 su 10 nel 2021), non sono imputabili al Coronavirus. Referendum Eutanasia legale. Parla Mario Riccio, il dottore che aiutò Welby di Giovanna Trinchella Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2021 “Io credo nel dovere morale del medico di portare a morte un paziente. Perché è la medicina a creare situazioni che non esistevano in passato”. “La medicina, che non è infallibile, molto spesso ha condotto i pazienti nella condizione di richiedere la morte immediata”. Ora l’anestesista spera che dopo l’approvazione di un testo base la legge “non sia una truffa” escludendo con la clausola del sostegno vitale la maggior parte delle persone che potrebbero richiedere la morte medicalmente assistita. La cognizione del dolore. E avere la facoltà di porvi rimedio, anche con la morte. Per Mario Riccio, il medico che aiutò Piergiorgio Welby e per questo fu processato e prosciolto, il confine si sposta ancora più in là dove nessuno forse penserebbe: “Io credo nel dovere morale del medico di portare a morte un paziente”. Ed è qui, con la parola dovere, che questo anestesista, che ha come motto “servire il paziente”, sottrae al muro dell’indifferenza per la sofferenza dei malati, che non hanno speranza di guarire, l’ennesimo mattone. Una missione iniziata 16 anni fa dando la possibilità, unico medico in Italia, a un uomo consumato dalla distrofia muscolare di rifiutare il trattamento che lo teneva imprigionato in una vita che non voleva più e lasciarlo andare così come chiedeva. Un impegno proseguito con il caso di Eluana Englaro fornendo aiuto e sostegno al padre Beppino che si rivolse alla Consulta di Bioetica di cui Riccio fa parte ancora prima del caso Welby; un servizio che si è esteso fornendo consulenze professionali per l’associazione Luca Coscioni per i casi di Dj Fabo e Davide Trentini. È anche grazie al dottor Riccio se Marco Cappato e Mina Welby sono usciti indenni dai processi in cui erano accusati di aver aiutato questi due uomini a portare fino in fondo la loro scelta. Nei giorni in cui la raccolta firme per il referendum sull’eutanasia legale punta l’obiettivo di un milione di firme Ilfattoquotidiano.it, che sostiene fin dall’inizio questa iniziativa e ha dedicato al tema una serie di approfondimenti raccolti in una sezione speciale del sito, ha scoperto che Riccio, responsabile del reparto di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale di Casalmaggiore (Cremona), quel muro lo vorrebbe sbriciolare dando anche ai malati psichiatrici la possibilità di scegliere la morte: “La sofferenza psichiatrica ha uguale dignità della sofferenza fisica”. Una riflessione personalissima. Nel quesito referendario questa categoria di pazienti non è contemplata. Dottor Riccio la battaglia per la morte medicalmente assistita la combatte da sempre nei fatti. Qual è il suo punto di vista da medico? Io credo nel dovere morale del medico di portare a morte un paziente. So che la mia deontologia è differentissima dalla deontologia ufficiale. Ma l’articolo 17 del codice deontologico dei medici è un romanzo: ha subito nel corso del tempo tantissimi cambiamenti. Sia dopo le vicende Welby ed Englaro che dopo la sentenza Fabo. L’ordine dei medici all’inizio è andato in totale confusione. Nei giorni precedenti venne detto che il medico non avrebbe mai potuto partecipare ad atti che comportino la morte del paziente. Poi fu detto che il medico sarebbe andato incontro a sanzioni: un fatto gravissimo perché la sanzione a cui si alludeva era la radiazione, quella che ho rischiato io nel 2006 e dire a un medico “ti radio dall’albo” significa metterlo in mezzo a una una strada perché non può più lavorare. Sostanzialmente fu lanciata una fatwa, una roba a livello talebano. Poi qualcuno ha spiegato che il codice deontologico non può andare contro la legge e qualcun altro ha ricordato che il codice, per esempio, fu cambiato ai tempi della legge sull’aborto. Perché dovrebbe essere un dovere del medico portare a morte un paziente? Perché è la medicina che molto spesso ha condotto i pazienti nella condizione di richiedere la morte immediata. Perché la medicina moderna, né quella di Ippocrate né quella di 20-30 anni fa, crea oggi situazioni che non creava in passato: Dj Fabo, Eluana Englaro e Piergiorgio Welby e tanti altri casi. Non esistevano perché la medicina non li creava, così come non creava delle prognosi lunghe per i pazienti tumorali. Una volta fare una diagnosi di tumore molto spesso significava fare una diagnosi di morte. Per chi aveva un tumore, in mancanza di chemioterapia, radioterapia e interventi chirurgici complessi, la prognosi era brevissima. Oggi la medicina offre diverse soluzioni e a volte ci sono incidenti di percorso come Eluana Englaro, Fabo e Welby, cioè pazienti che vengono a trovarsi in una condizione in cui non avrebbero voluto trovarsi. La medicina ha creato queste condizioni ed è quindi un dovere del medico dire “siamo partiti insieme in un percorso in cui speravamo di ottenere il massimo, magari anche la guarigione, abbiamo invece ottenuto solo qualcosa di peggiorativo”. Ed è un dovere dare la morte a chi a questo punto lo richiede. La cura insistita che non guarisce così sembra diventare un mostro, qualcosa di cui avere la paura.. Chi aveva un tumore al polmone fino a 20 anni moriva molto rapidamente, oggi può essere curato ma non tutte le volte va bene. Cioè ci si piò trovare in una condizione di grave sofferenza, magari attaccato a un ventilatore, senza nessun miglioramento e com una prognosi a breve. La prognosi breve è un elemento importante in alcune legislazioni: in Canada chi ha una prognosi inferiore ai 18 mesi può accedere alla morte medicalmente assistita a prescindere dagli altri elementi. Se io medico ho creato questa condizione e il mio tentativo di portare un miglioramento è fallito a questo punto io stesso devo essere attore principale, devo rispondere positivamente alla richiesta del paziente. Perché ho provato a fare un percorso insieme, ma non ci sono riuscito. Non perché è colpa della medicina che non è infallibile, magari lo fosse. A questo punto io ho il dovere morale, se il paziente che è in condizione di sofferenza fisica o psichica, e ha una prognosi breve, di aiutarlo. Se lui mi chiede questa alternativa di morire oggi, adesso, immediatamente, io non posso sottrarmi secondo la mia etica. Lei parla anche di sofferenza psichica. Quindi di fronte a un paziente con sofferenza psichica per cui non c’è trattamento o miglioramento e che impedisce a una persona di vivere la sua vita pienamente o gli impone di viverla come se fosse in uno stadio terminale, anche a questo paziente dovrebbe essere data la possibilità di richiedere la morte medicalmente assistita? Sì, Lucio Magri (il fondatore de Il manifesto, ndr) ha ottenuto questo in Svizzera. Perché era un depresso grave: si parla di un male esistenziale che è un discorso molto delicato. Cerchiamo di capire che la grave depressione non è una malattia di serie B, non è la malattia da borghese stanco. Io le parlo di un paziente psichiatrico molto grave il cui unico pensiero è terminare la propria vita, le parlo di un paziente che potrebbe curarsi al massimo con farmaci che gli cambiano la personalità. A volte la terapia farmacologica può allievare il dolore ma crea quasi la condizione per cui il paziente non si trova più con se stesso, perde il suo io. La sofferenza psichiatrica ha uguale dignità della sofferenza fisica, ma mentre il paziente terminale con la terapia palliativa può trovare sollievo il paziente psichiatrico pensa dalla mattina alla sera solo ‘vorrei non esserci’: una condizione drammatica. Ha citato Ippocrate. Il giuramento che gli è attribuito dice cose molto diverse da queste.. Ippocrate, casomai fosse confrontabile con un medico attuale, vietava di dire la verità al malato quindi oggi andrebbe incontro a un procedimento di tipo penale. Raccomandava di nascondere al paziente l’imminenza della morte e vietava l’aborto. Parliamo di una millenaria tradizione che - per fare un esempio anche più leggero e divertente - prevedeva di non operare la calcolosi renale, ma al limite di farlo fare a un veterinario. La deontologia medica è un processo in evoluzione come tutti i processi umani. Io lo dico da almeno una decina di anni - dalla vicenda Welby in poi. Io dico che oggi è un dovere morale del medico dare la morte al paziente che lo richieda in determinate condizioni. Però esiste un dibattito tra i medici… Non c’è nessun dibattito e non c’è una organizzazione medica che abbia preso posizione a favore o contro. I medici brillano per la loro totale assenza. Tranne i medici cattolici, che hanno tutto il mio rispetto, ma che rappresentano l’1% dei medici italiani. Onore a loro per aver preso posizione. A proposito di cattolici avrà letto la posizione del Vaticano attraverso le dichiarazioni di monsignor Paglia? Una posizione modesta, di retrovia. Hanno capito che ormai è una battaglia che è inutile combattere perché la perderanno come hanno perso l’aborto e il divorzio. Credo che la Chiesa, con i problemi che ha, non voglia combattere una battaglia che sa che è persa. È giusto che il cattolico esprima il suo punto di vista, sono favorevole che ci sia una legge che consentirà l’obiezione di coscienza. Spero che non vogliano portare il paese allo scontro frontale come è stata fatto per l’aborto o il divorzio. Se la vita è un dono ne faccio quello che voglio. Quello che vale per loro, vale per loro. Il tema del dolore però viene discusso, alcuni dicono che va accettato... È un argomento molto debole. Io vorrei fare l’esempio della legge in Olanda. Esiste una quota di pazienti (il 3-4%) che non risponde alle cure palliative, a loro cosa posso offrire? In Olanda e Svizzera il 4% dei malati chiede la morte medicalmente assistita e questo è anche il dato percentuale per coloro per cui c’è la mancata risposta delle cure palliative. Lo scorso luglio i capigruppo delle commissioni congiunte Giustizia e Affari costituzionali di Montecitorio hanno approvato un testo base... Il problema sta nell’articolo 3. comma 2 punto b quando si parla di paziente “tenuto in vita da forme di sostegno vitale”. Con questa premessa una legge nascerebbe solo parzialmente utilizzabile. Le condizioni per accedere alla morte medicalmente assistita sono quelle di essere affetti da una patologia irreversibile o a prognosi infausta oppure portatrice di una condizione clinica irreversibile; b) essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale; c) essere assistita dalla rete di cure palliative o abbia espressamente rifiutato tale percorso assistenziale. La battaglia è perché si scriva “di trovarsi in una delle seguenti condizioni” e non in tutte “le seguenti condizioni”. Un testo che quindi ha già un problema… Il testo potrebbe portare quell’elemento estremamente limitativo che la Consulta (su Dj Fabo, ndr) ha messo nella famosa sentenza sul paziente tenuto in via da forme di sostegno vitale. Dal punto di vista giuridico non discuto, io le dico che se un paziente è tenuto in vita da sostegno vitale non ha bisogno di morte medicalmente assistita perché basterebbe sospendere quella terapia ed è già un diritto riconosciuto. Quella battaglia l’abbiamo già fatta con Welby. Che si possa sospendere una terapia l’ho già dato per scontato. I pazienti tumorali in alcuni casi non necessitano sostegno vitale, però magari hanno davanti il rischio di mesi di sofferenza. E chi non vuole le cure palliative deve poter scegliere di morire in un tempo più breve. La sentenza della Consulta dal punto di vista logico contiene una incongruità, ma sicuramente risponde ad una logica giuridica che ovviamente io non posso comprendere. Ma per una legge veramente seria dovremmo escludere questa clausola, perché di fatto se escludiamo la maggior parte delle persone che potrebbero beneficiare della legge è come non farla. E se la potesse scrivere lei la legge sulla morte medicalmente assistita? Prenderei la legge olandese e la riporterei in Italia con i dovuti aggiustamenti, perché comunque darei al paziente la massima liberà di scelta di scegliere quale strada percorrere: l’eutanasia o la morte medicalmente assistita. Fisserei il termine della sofferenza fisica o psichica non guaribile. Anche la Spagna ha una bella legge. Io temo invece che possa succedere qualcosa quando la norma a settembre verrà discussa, temo qualche trappola con l’introduzione di limiti come quello della dipendenza da un sostegno vitale. Però ora ci sarà un referendum… Da quando è morto Welby ci sono voluti 15 anni per avere il Biotestamento, 9 dalla morte di Eluana. Adesso in soli 4 anni dal caso Fabo abbiamo la possibilità di una legge. È tutto più veloce, prima i temi etici erano devoluti alla sola Chiesa, adesso non è più così. In 4 anni siamo già a un referendum e a una legge che spero non sia truffa. La medicina si è evoluta, i percorsi sono più complicati e ci vogliono risposte più articolate. Lei si è espone da anni su questi temi. Non si sente solo e sempre troppo più avanti di tutti gli altri? Rispetto al contesto medico sento un isolamento, sicuramente. Anche se meno di quanto appare, ma lo vivo tranquillamente. Dal punto di vista delle persone quando vedo che raccoglieremo un milione di firme in piena estate mi sento molto vicino al paziente. E il mio principio è servire il paziente. I quattro verbi di Papa Francesco nell’impegno per i migranti di Don Aldo Buonaiuto* Corriere Adriatico, 29 agosto 2021 Tutto il mondo ha gli occhi puntati sull’Afghanistan dopo i tremendi attentati messi in atto nei giorni scorsi e costati la vita ad almeno 170 individui, quasi tutti civili, tra i quali molti bambini. Le tragedie che lì si stanno perpetrando interpellano seriamente le coscienze di noi europei. La Costituzione italiana, al pari di quelle degli altri Paesi Ue, riconosce il diritto di asilo a ogni straniero al quale sia impedito nella sua Nazione l’effettivo esercizio delle libertà democratiche. Papa Francesco nell’enciclica “Fratelli tutti” riassume l’impegno nei confronti dei migranti in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Non si tratta di calare dall’alto programmi assistenziali, ma di condividere un cammino e di aprirsi alle differenze, valorizzandole nel segno della fratellanza umana. Ciò vale in via prioritaria per quanti, come gli afghani, fuggono da gravi crisi umanitarie. Inoltre, al drammatico momento dell’evacuazione d’emergenza, devono seguire misure strutturali. Coloro che arrivano tra noi troppo spesso non sono integrati, perché noi, che li accogliamo, manchiamo di politiche autenticamente capaci di far convivere esigenze basilari come l’insegnamento della lingua italiana e l’armonica e mai solitaria collocazione in piccole unità abitative che scongiurino il pericolo di ghetti e ambienti di emarginazione. I vescovi della Conferenza Episcopale Italiana, osservando che nel recente passato vi sono state “scelte che si sono rivelate nel tempo poco lungimiranti e incapaci di garantire la necessaria sicurezza alla popolazione afghana”, si sono rivolti alla comunità internazionale con un appello: “Si faccia finalmente garante della pace in Afghanistan e nell’intera regione mediorientale, da troppo tempo attraversata da conflitti e segnata da violenze che sempre ricadono sulla popolazione civile, gravando soprattutto sulle persone più fragili e indifese. Il mondo non può voltare gli occhi dall’altra parte, fingendo di non vedere che, nelle complesse vicende politiche e militari in corso a Kabul e nel resto del Paese, ancora una volta vengono meno i diritti di bambini, donne, anziani, minoranze etniche e religiose. Invitiamo tutti a volgere lo sguardo del cuore verso chi è più bisognoso e vive in povertà e malattia”. Intanto si moltiplicano anche iniziative di preghiera a favore degli afghani. Nelle carceri italiane, ad esempio, c’è molta vicinanza e partecipazione al dolore che stanno patendo i profughi. L’Ispettorato dei cappellani delle carceri e la Caritas hanno raccolto la richiesta di tanti detenuti che intendono far sentire il loro sostegno a tutti coloro che stanno lasciando il Paese e per questo hanno organizzato due giornate di preghiera, la prima realizzata ieri, la seconda in programma oggi. La Chiesa è sempre più chiamata a essere senza frontiere e madre di tutti allargando le sue braccia ad accogliere tutti i popoli, senza distinzioni e confini per annunciare al mondo che “Dio è amore”. Tutti gli uomini di buona volontà sono invitati a diffondere la cultura del dialogo e dell’accoglienza, secondo la quale nessuno va considerato inutile, fuori posto o da scartare. Le diffidenze e ostilità suscitate dall’accoglienza di questi nostri fratelli più disagiati spesso si esauriscono quando si viene realmente a conoscenza delle storie di vita, di persecuzione o di miseria delle persone coinvolte. Il carattere multiculturale delle società odierne incoraggia la Chiesa ad assumersi nuovi impegni di solidarietà, di comunione e di evangelizzazione approfondendo e rafforzando i valori necessari a garantire la convivenza armonica tra persone. A tal fine non può bastare la semplice tolleranza, che apre la strada al rispetto delle diversità tra persone di origini e estrazioni differenti, ma è necessario favorire un atteggiamento che abbia alla base la cultura dell’incontro, l’unica capace di costruire un mondo più giusto e fraterno. Gesù è sempre in attesa di essere riconosciuto nei migranti e nei rifugiati, nei profughi e negli esuli che ci esortano a condividere le risorse, talvolta anche rinunciando a qualcosa del nostro acquisito benessere pur di costruire il bene comune. *Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII Il Sinodo Valdese approva documenti su violenza arbitraria nelle carceri riforma.it, 29 agosto 2021 La denuncia delle violenze arbitrarie compiute nelle carceri e la difesa delle garanzie dei detenuti è il tema di uno dei 3 documenti votati a conclusione dell’assemblea del Sinodo delle chiese metodiste e valdesi. Gli altri due riguardavano: il sostegno alla proposta di candidare l’ong Emergency al Premio Nobel per la Pace; il sostegno alle persone e alle famiglie colpite dalla attuale crisi economica e lavorativa. Quest’ultimo atto, in particolare, apprezzando l’iniziativa della Tavola valdese di destinare a questo ambito una parte importante di quanto rimasto del “Fondo Emergenza Coronavirus”, invita le chiese a farsi promotrici di progetti di diaconia comunitaria per venire incontro alle situazioni critiche nei loro territori. Respinto invece, forse anche per la mancanza di un adeguato dibattito a causa dei tempi molto ristretti, l’atto sui predicatori locali, figure fondamentali di supporto e talvolta di “supplenza” dei pastori in mancanza di questi ultimi, una situazione denunciata in più di un intervento nel corso di questo Sinodo. Era prevista anche la messa in votazione di altri due ordini del giorno particolarmente sentiti, relativi alla crisi in Afghanistan e ai Corridoi umanitari. Anche in questi casi, l’approvazione a larghissima maggioranza testimonia l’attenzione su questi temi. Il primo, presentato dalla pastora Letizia Tomassone, intende guardare il problema con una prospettiva più ampia, non limitata alla sola accoglienza. Come ha spiegato Tomassone, i Corridoi umanitari non sono la soluzione a tutto, non bisogna dimenticare le persone che vogliono (o sono costrette) continuare a vivere nei loro paesi. Si esorta quindi la Tavola a sostenere, come peraltro già sta facendo tramite diversi progetti otto per mille, le organizzazioni che operano in quei territori difficili. Il secondo ordine del giorno, presentato invece dalla Commissione d’esame su mandato sinodale, sottolinea la possibilità di aprire corridoi da altri paesi in emergenza. Apprezzando l’apertura del nuovo corridoio umanitario con la Libia, e la firma del terzo protocollo (della durata di due anni) per i profughi in Libano, richiama implicitamente situazioni critiche come la Bosnia, su cui peraltro si sta già lavorando. Anche in questo caso è presente l’invito alle chiese a impegnarsi creando o sostenendo reti di solidarietà a livello locale per aiutare le persone in fuga da guerra e oppressione. Altri temi più interni hanno poi riguardato la collaborazione fra chiese battiste, metodiste e valdesi (bmv) e proprio in questo contesto è stato inserito il tema Claudiana/Riforma-L’Eco delle valli valdesi (rimandato da lunedì mattina): le realtà della casa editrice e del giornale ben esprimono la collaborazione fra le tre denominazioni, ormai fattiva anche a livello di chiese locali (oltre che di federazioni, pensiamo alla Federazione giovanile evangelica italiana); tuttavia, a parte l’approvazione dell’atto che ricorda il percorso di preparazione della prossima Assemblea-Sinodo prevista per il 2022, non è scaturito dibattito, e questo è un dato su cui riflettere. Un ricco ordine del giorno, presentato da un’apposita commissione, ha raccolto gli stimoli della discussione sul tema “vita delle chiese” della prima giornata: gli aspetti positivi e negativi della situazione in cui le chiese si sono trovate in seguito alla pandemia di Covid-19, che hanno dato un nuovo orientamento alla riflessione avviata nel settembre 2019 dalla Tavola valdese sui punti di forza e di debolezza delle strutture ecclesiastiche. Messe alla prova dalle difficoltà della pandemia, ma anche stimolate a usare nuovi strumenti, le chiese hanno imparato nuovi modi di “essere chiese”, in un certo senso ad andare “verso una chiesa senza confini” (espressione con cui è stato presentato il documento). La necessità di una riforma si pone in particolare in tre ambiti: formazione, evangelizzazione, organizzazione. Afghanistan: sono finite le illusioni nel tempo delle sconfitte di Franco Venturini Corriere della Sera, 29 agosto 2021 Il ruolo dell’Italia nel G20. Invece di pensare a sanzioni che colpirebbero un popolo martoriato da sempre, scegliamo la scommessa di un dialogo strettamente condizionato a fatti e verificato. Il tempo delle illusioni, ammesso che a Kabul ancora ce ne fossero, è finito con l’attentato di giovedì e con la corsa contro il tempo per completare il ritiro occidentale entro martedì 31. Da brutto e confuso che era dopo la vittoria dei talebani, l’incubo afghano è diventato feroce, ha versato altro sangue in un Paese che ne è coperto non da vent’anni ma da secoli, e ha accomunato nella strage afghani che scappavano dal nuovo regime e marines americani inviati ad aiutarli. Il tempo delle illusioni è morto così, con la sconfitta di tutti, compresi i talebani che avrebbero preferito una presa del potere moderata sotto gli occhi della comunità internazionale. E ora di qualche bilancio, certo parziale e provvisorio, si può e si deve prendere atto senza cadere nelle polemiche interne che da noi già si affacciano. La morte di tanti militari Usa merita il nostro rispetto e la nostra gratitudine. Ma rappresenta anche un peso durevole per una presidenza, quella di Joe Biden, che era partita bene, anche grazie al disastro del predecessore Trump, e ora si sta infilando nel dramma di chiunque abbia tentato di sottomettere gli afghani con le armi. Oppure, e questa è la differenza dell’intervento occidentale rispetto a quelli dell’impero britannico e dei sovietici, abbia voluto modificare usanze e culture locali in nome dei propri valori. Biden ha promesso che gli autori della strage saranno puniti, e i primi colpi contro l’Isis-K sono già stati vibrati. Confermando che l’America ripropone sempre la sua forza dopo una sconfitta (nel ‘75, all’indomani della caduta di Saigon, venne la liberazione della nave Mayaguez catturata dai Khmer rossi e la popolarità di Gerald Ford risalì di dieci punti). Ma il sangue americano versato non scomparirà, e andrà a rafforzare le critiche che su Biden piovono da tutto il mondo, a cominciare da osservatori e analisti statunitensi che fino a ieri lo appoggiavano. Nessuno in Occidente ha interesse a una presidenza americana indebolita, ma la consapevolezza può aiutare a prevenire nuovi errori. E del resto uno schiaffo che non sarà dimenticato lo hanno ricevuto anche i vittoriosi talebani. La strage compiuta dall’Isis-Korashan, che si teme possa essere ripetuta prima di martedì, dimostra due cose assai scomode: che gli studenti coranici, malgrado le circostanze eccezionali all’aeroporto di Kabul, non controllano tutta la capitale e nemmeno tutto il Paese; e che il terrorismo islamista, contro il quale prima Trump e poi Biden hanno tentato di strappare garanzie ai talebani, in Afghanistan c’è già, anzi c’è sempre stato come dimostrano decine di attentati puntualmente rivendicati. Certo, l’Isis-K, che può contare al massimo su duemila uomini, non pare in grado di esportare il terrorismo come accadde con l’attacco alle Torri Gemelle che innescò vent’anni fa la spedizione Usa-Nato in Afghanistan. Ma l’inimicizia a parole tra talebani e terroristi di professione non deve bastarci. Se i talebani hanno vinto la guerra contro gli occidentali, vincano ora quella contro gli stragisti. Dovrà essere questo uno dei parametri per giudicare il nuovo regime “dai fatti”, come tutti proclamano. Accanto ai diritti delle donne, al loro accesso all’istruzione, alla salvaguardia di chi ha collaborato con i perdenti e non è riuscito a partire. Ed è qui che entra in scena l’Italia. Quando Mario Draghi propone, forte della sua presidenza di turno, di dedicare all’Afghanistan un vertice straordinario e allargato del G20, il suo intento è quello di coinvolgere i protagonisti presenti e futuri di una crisi che è anche geopolitica in una road map che possa portare a un dialogo pilotato basato sui fatti con Kabul. Più e meglio di quanto abbia saputo fare il recente G7. Il successo non è garantito. Perché mancano risposte essenziali (Russia e Cina, malgrado i buoni segnali portati a Roma da Lavrov) e anche perché il groviglio dei diversi interessi e delle diverse priorità potrebbe rendere vano l’esercizio limitandolo alla facciata diplomatica. Ma Draghi fa bene a provarci. Ha capito che l’Occidente esce malconcio dall’impresa afghana, che bisogna cercare intese e collaborazioni che possano interessare anche ai “vincitori per procura”, la Russia e la Cina appunto, ma anche l’Iran, il Pakistan, la Turchia. La speranza è lecita, e tuttavia quando cerchiamo una via per porre rimedio alla fine delle nostre illusioni commettiamo un sicuro peccato di egoismo. Cosa dovremmo dire di quella moltitudine di afghani che non potranno fuggire dai talebani, che martedì saranno fatalmente lasciati a terra? È per loro che non dobbiamo mollare la presa, che non dobbiamo rassegnarci al disastro. Per qualche tempo i talebani saranno vulnerabili, forse divisi, e comunque bisognosi di ogni aiuto. Invece di pensare a sanzioni che colpirebbero un popolo martoriato da sempre, scegliamo la scommessa di un dialogo strettamente condizionato a fatti e verificato. Con fermezza, ma prendendo davvero atto della sconfitta delle armi. Afghanistan. Vendetta e giallo sul fuoco Usa nella strage di Kabul di Giuliano Battiston e Emanuele Giordana Il Manifesto, 29 agosto 2021 Effetti collaterali. 192 i morti. Alcuni, svela la Bbc, colpiti dai marines. E il Pentagono non smentisce. Salgono a 192 le vittime civili dell’attentato di giovedì all’aeroporto Hamid Karzai di Kabul. E alcune potrebbero essere state causate non dall’attentatore suicida ma dai soldati statunitensi, ammette anche il Pentagono, i cui portavoce non possono “né negare né confermare” l’ipotesi che una parte del tragico bilancio vada attribuita ai soldati a stelle e strisce. I quali, a pochi giorni dal 31 agosto, termine ultimo per il disimpegno, cominciano a ritirarsi dall’aeroporto, dove i Talebani dicono di essere entrati già due giorni fa e la cui gestione, secondo un’esclusiva di Middle East Eye, verrà affidata alla Turchia e al Qatar. Mentre il presidente francese Emanuel Macron dichiara di interloquire sull’assistenza umanitaria con i Talebani, i cui leader si sono recati a Kandahar, storica roccaforte del movimento, per concludere le consultazioni per la formazione del governo. Washington invece fa sapere che le minacce del presidente Joe Biden contro i responsabili dell’attentato di giovedì, rivendicato dalla “Provincia del Khorasan”, la branca locale dello Stato islamico, si sono tradotte in operazioni militari. A poco più di 24 ore dall’attacco che ha ucciso almeno 13 militari statunitensi e 192 civili afghani, gli americani avrebbero infatti colpito il pianificatore della mattanza: “L’attacco di un aereo senza equipaggio è avvenuto nella provincia di Nangarhar in Afghanistan. Le prime indicazioni sono che abbiamo ucciso il bersaglio”, ha dichiarato in una nota il capitano Bill Urban del comando centrale Usa. Operazione chirurgica, dice, e “senza vittime civili”. Oltre al pianificatore, sarebbe stato ucciso anche un facilitatore. Ferito, invece, un terzo “bersaglio”. Se la reazione è stata immediata, il risultato merita il condizionale. Il Pentagono annuncia che i nomi degli “obiettivi colpiti” non verranno resi pubblici. E se è stata tanto rapida la ricerca e la messa a segno dell’obiettivo - viene da chiedersi - non era forse meglio colpirlo prima? Gli Usa puntano ancora sulla guerra dal cielo, annunciando che altri raid aerei verranno condotti nei prossimi giorni. La loro efficacia è dubbia. Come ricorda Emran Feroz, giornalista afghano residente in Germania e autore di un libro rigoroso sulla guerra dei droni degli Usa in Afghanistan, nel corso degli ultimi anni il Pentagono ha annunciato più volte di aver ucciso, tra gli altri, Khalil Haqqani. Uno dei leader della rete Haqqani che oggi, vivo e vegeto, stringe mani per tutta Kabul. L’operazione aerea di ieri ricorda la famosa “mother of all bombs” da 10 tonnellate lanciata da un C-130 nella stessa provincia nell’aprile del 2017 che avrebbe dovuto decimare i vertici della “Provincia del Khorasan”, che però le perdite maggiori le ha subite per operazioni di terra di una bizzarra coalizione di forze. Alla notizia arrivata nella notte di venerdì se n’è però aggiunta un’altra ieri che aggiunge ai fatti della strage dell’aeroporto anche un altro tragico dettaglio, ancora poco chiaro. I canali social dei simpatizzanti dei Talebani diffondevano già da molte ore la tesi che parte dei civili uccisi fossero stati colpiti dai soldati stranieri. La notizia è stata poi confermata dai testimoni sentiti dal corrispondente della Bbc Sekunder Kermani. Ora arriva il “non possiamo confermare né ammettere” del Pentagono. Se Washington cercava di mettere col drone una pezza alla falla che si è aperta sulla sua credibilità, un’ennesima tragica vicenda la fa ancora più a pezzi, cancellando persino l’effimera e non troppo credibile vittoria dall’aria sulla Provincia del Khorasan, riuscita a colpire l’aeroporto di Kabul. Lo scalo aereo secondo la bozza vista da Middle East Eye verrà gestito in consorzio tra la Turchia e il Qatar, con la sicurezza affidata a ex soldati e poliziotti turchi tramite un’azienda privata, mentre l’eventuale presenza delle forze speciali di Ankara sarà limitata all’interno dell’aeroporto. La firma del presidente Erdogan, che nei giorni scorsi aveva detto che i Talebani avevano chiesto la collaborazione turca, ancora non c’è. Ma potrebbe arrivare presto. Così come potrebbe essere maturo l’annuncio del nuovo governo dei Talebani. I cui leader si sarebbero recati da Kabul a Kandahar, il capoluogo dell’omonima provincia meridionale da cui mullah Omar gestiva gli affari del primo Emirato islamico. Etiopia. Il conflitto con i ribelli del Tigray verso la guerra totale di Fabrizio Floris Il Manifesto, 29 agosto 2021 Il Fronte di liberazione stringe alleanze con gli insorti dell’Oromia, la regione più popolosa. Militari eritrei attivi sul fronte dell’Afar. Se l’Afghanistan piange l’Etiopia non ride. Il conflitto iniziato lo scorso 4 novembre tra il governo centrale e il governo della regione ribelle del Tigray non solo continua, ma si espande verso quella che gli esperti chiamano guerra totale. È la cosiddetta fase 3 del conflitto che da operazione di ripristino della legalità in una zona circoscritta, si è trasformato in insurrezione locale e poi in un conflitto che rischia di coinvolgere l’intero Paese. Nelle ultime settimane, lo scontro si è diffuso nelle vicine regioni di Afar e Amhara, provocando lo sfollamento di altre 250.000 persone. Per i commentatori locali “siamo vicini al flashover (una guerra generalizzata)”, con il governo centrale che mobilita gli eserciti degli altri Stati regionali e i ribelli del Tigray che stringono alleanze militari con gli insorti della regione più popolosa dell’Etiopia: l’Oromia. Come ha dichiarato il leader del Fronte di liberazione del popolo del Tigray (TPLF) alla Reuters Debretsion Gebremichael: “Siamo in trattative con l’Esercito di liberazione Oromo (OLA)”. Il portavoce del TPLF Getachew Reda ha confermato che “l’accordo era in preparazione, è naturale che lavoriamo insieme a persone che sono interessate al futuro dello stato etiope”. Anche il portavoce Oromo Odaa Tarbii ha confermato sostenendo che “a questo punto, condividiamo le informazioni e coordiniamo la strategia ma siamo ancora in una fase embrionale”. Il movimento Oromo avrebbe ucciso solo la scorsa settimana, secondo la Commissione Etiope per i Diritti Umani, 150 persone nel distretto di Gida Kiremu (OLA dichiara che si tratta di una conseguenza dovuta all’invasione di milizie Amhara e nega di aver ucciso civili). Sia OLA che TLPF sono stati dichiarati dal parlamento etiope come organizzazioni terroristiche. Vi è poi un ulteriore attore che incombe ed è l’Eritrea che per mesi ha sostenuto di non essere presente nel conflitto e poi che si sarebbe ritirata lo scorso giugno, ma i cui militari adesso sarebbero ampiamente attivi sul fronte della regione di Afar. Sia il presidente turco Recep Tayyip Erdogan che il primo ministro sudanese Abdalla Hamdok, attuale presidente dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (IGAD), si sono recentemente offerti come mediatori tra le parti in conflitto. Sul piano umanitario permangono difficoltà di movimento che, secondo un recente rapporto sulla situazione dell’OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari), hanno determinato la consegna parziale degli aiuti necessari. Inoltre, se “l’accesso in vaste aree all’interno del Tigray è fattibile e sicuro”, altre aree rimangono inaccessibili (dal 20 agosto nessun camion con rifornimenti umanitari è entrato nel Tigray). Il segretario delle Nazioni Unite António Guterres ha descritto la situazione in Etiopia come “infernale, una catastrofe umanitaria si sta svolgendo davanti ai nostri occhi”, sostenendo che circa 400.000 persone sono in condizioni simili alla carestia. Ha inoltre sottolineato che tutte le parti devono riconoscere che “non esiste una soluzione militare” al conflitto e ha chiesto la creazione di condizioni che consentano “un dialogo politico guidato dall’Etiopia. Sono in gioco l’unità dell’Etiopia e la stabilità della regione. La retorica incendiaria e la profilazione etnica stanno lacerando il tessuto sociale del Paese”. Sul piano militare il viaggio di metà agosto del premier etiope Abiy Ahmed in Turchia per colloqui con il presidente Erdogan starebbe dando i suoi primi risultati sul campo con la dotazione all’esercito etiope di droni militari. Abiy è salito al potere predicando unità e speranza, ha stretto un accordo di pace storico con la nemica Eritrea, ha rilasciato migliaia di prigionieri politici, ha revocato le restrizioni sulla stampa, ma adesso invita gli etiopi alla guerra. “Il sangue bolle” raccontano le nuove reclute, ma non cucina niente di buono.