La doppia pena delle persone ritenute “socialmente pericolose” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 agosto 2021 La mancata riforma della figura dell’internato. La legge delega del 2017 aveva previsto una misura ad alto contenuto trattamentale. Non il superamento, ma almeno il ridimensionamento. Questa è stata l’ambizione della mancata Riforma Orlando. Parliamo della figura dell’internato, colui che ha finito di scontare la pena detentiva, ma raggiunto da una misura di sicurezza, perché ritenuto “socialmente pericoloso”. Ed è la misura di sicurezza, il doppio binario, che i legislatori avrebbero voluto, o potuto, cambiare. Si tratta di misure che interessano l’autore di reato socialmente pericoloso e che, secondo un assetto che risale al codice fascista Rocco, si aggiungono alla pena (per gli imputabili e i semi- imputabili), ovvero rappresentano l’unica misura applicabile (per i non imputabili): la libertà vigilata e l’espulsione dello straniero (tra quelle non detentive); la casa di lavoro, la colonia agricola, le comunità per i minori (già riformatorio giudiziario) e il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e di custodia (tra quelle detentive): le ultime due già oggetto di un ampio intervento di riforma, negli anni scorsi, che ha portato alla chiusura degli Opg e all’introduzione delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). La legge delega del 2017, distingueva le posizioni dei soggetti imputabili, semi-imputabili e non imputabili. Per i soggetti imputabili, la legge prevedeva che il regime del doppio binario fosse limitato ai soli gravi. Naturalmente si tratterebbe di una misura detentiva del tutto diversa da quella attuale, ad alto contenuto trattamentale, declinabile in ambito lavorativo e/o agricolo o in strutture per la semilibertà, da considerarsi quale extrema ratio e solo per periodi di tempo limitati. Mentre per i soggetti semi- imputabili si prevedeva l’abolizione del sistema del doppio binario e l’introduzione di un trattamento sanzionatorio mediante il ricorso a trattamenti terapeutici o riabilitativi e l’accesso a misure alternative, sempre compatibilmente con le esigenze di tutela della sicurezza pubblica. Per i soggetti non imputabili, infine, la legge prospettava misure terapeutiche e di controllo ispirate all’esigenza primaria della cura, all’interno di strutture fuori dal circuito carcerario. Il passo “problematico” della legge delega, fortunatamente non andato in porto, era di destinare alle Rems non solo gli autori non imputabili e socialmente pericolosi, ma anche “tutti coloro per i quali occorra accertare le relative condizioni psichiche, qualora le sezioni degli istituti penitenziari alle quali sono destinati non siano idonee, di fatto, a garantire i trattamenti terapeutico-riabilitativi, con riferimento alle peculiari esigenze di trattamento dei soggetti e nel pieno rispetto dell’articolo 32 della Costituzione”. In quel caso avrebbe snaturato la natura delle Rems. In realtà, i tavoli degli stati generali per l’esecuzione penale del 2015 ai quali si è ispirata la tentata riforma, hanno elaborato proposte di più ampio respiro. Ad esempio la riformulazione della libertà vigilata, eliminando tutte le prescrizioni concretamente ostative al reinserimento sociale (ad esempio : sospensione o ritiro della patente di guida) con la previsione, in caso di aggravamento (solo per casi eccezionali e regolamentati) di prescrizioni più limitative fino a prevedere una ipotesi di affidamento lavorativo, di vera e propria permanenza controllata in abitazione o in luoghi ad essa equiparati, o, per le violazioni più gravi e reiterate, la trasformazione in misura di sicurezza detentiva per periodi limitati, da scontare in apposite sezioni ad alto contenuto trattamentale, dislocate su tutto il territorio nazionale. È internato e gli negano di andare al funerale della madre di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 agosto 2021 La madre era in fin di vita, per questo ha fatto istanza al magistrato di sorveglianza per poterla abbracciare l’ultima volta. Ma nella stessa giornata la madre muore, il giorno successivo il magistrato rigetta per decesso sopravvenuto. A quel punto fa istanza per partecipare al funerale. Rigettata per il rischio Covid. Non solo. Fa istanza per una attività di lavoro esterno. Anche in questo caso il magistrato rigetta. Si chiama Vincenzo e non è un detenuto. Un caso segnalato dall’associazione Yairaiha Onlus. È un internato presso il carcere di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena. Un uomo che aveva finito di scontare la sua pena, ma è stato raggiunto da una misura di sicurezza presso il carcere, adibito anche come “casa lavoro”. Ma di fatto, come tutti gli internati, si trova in una situazione peggiore dei detenuti. Il caso di Vincenzo è emblematico. Non solo è di fatto un ristretto nonostante l’espiazione della pena, ma gli viene vietato il funerale della madre con la scusa del Covid. Così come gli viene vietata l’attività lavorativa esterna da svolgersi con l’accompagnamento del titolare della ditta per cui lavora così come prescritto anche dall’ordinanza di proroga dell’internamento in casa lavoro. Ad oggi, secondo gli ultimi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria risalenti al mese scorso, ci sono 305 internati. Centinaia di persone che restano nel circuito penale pur avendo scontato la pena. Senza casa, lavoro, prospettiva. Le “Case lavoro” nella maggior parte dei casi non funzionano. Sono persone che ancora vengono considerate “socialmente pericolose” e quindi raggiunte da una misura di sicurezza. Si tratta del doppio binario ideato durante il regime fascista e mai riformato. Ritornando al caso dell’internato Vincenzo presso il carcere di Castelfranco Emilia, interviene Sandra Berardi, la presidente dell’associazione Yairaiha che ha segnalato l’episodio: “Riteniamo assurde le motivazioni di questi rigetti, in particolare il rigetto a poter partecipare al funerale della madre basato sul rischio contagio Covid ci sembra una presa in giro visto che non siamo più in lockdown e tutte le attività sono riprese regolarmente tranne che nelle carceri dove con la scusa dell’emergenza Covid, da ormai 17 mesi, si è data la stura ad una chiusura totale dei rapporti con la comunità esterna quasi a voler estendere il regime di 41 bis a tutta la popolazione detenuta”. Prosegue la presidente dell’associazione: “Del resto anche il rigetto dell’istanza per l’attività esterna rappresenta la vanificazione dei percorsi di reinserimento prescritti dall’art. 27 della Costituzione. Riteniamo le case lavoro un regime detentivo a tutti gli effetti gravato da una arbitrarietà ulteriore rispetto agli istituti di pena che, di fatto, limita l’esercizio dei diritti delle persone ristrette e rischia di prorogare la detenzione per molto tempo. Non a caso la collocazione nelle case lavoro è stata definita “ergastolo bianco” e ci sembra paradossale che continuino ad esistere in un momento in cui le misure alternative dovrebbero essere favorite”. Eppure, eravamo a un passo dal ridimensionamento del sistema del doppio binario. Parliamo della riforma dell’ordinamento penitenziario contenuta nella legge delega del 2017, promossa dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando. Come sappiamo, con l’avvento del governo giallo verde, la riforma è stata approvata dimezzandone i contenuti. La legge delega, basata sul lavoro degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, puntava a un considerevole ridimensionamento, a vantaggio di misure a carattere riabilitativo e terapeutico e del minor sacrificio possibile della libertà personale. Nulla di tutto questo. Il tema sembra essere stato abbandonato, non viene preso in considerazione nemmeno dall’attuale governo. Il caso di Vincenzo dovrebbe aiutare a riflettere almeno sul superamento dell’esperienza delle cosiddette “case di lavoro”, costituite in numero limitato e come tali irrispettose del principio di territorialità dell’esecuzione delle misure di sicurezza, nelle quali la previsione dell’obbligo del lavoro come strumento per arrivare al reinserimento sociale si è rivelato, nella realtà, fittizio, mancando progetti di lavoro effettivo e remunerato. La conseguenza è che le “case di lavoro” si sono trasformate a tutti gli effetti in misure di sicurezza detentive e puntualmente prorogate. Politica e processi, i danni dell’”individualismo penale” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 28 agosto 2021 Conversazione con Cinzia Barillà e Stefano Musolino. Riforma della giustizia, toghe star, referendum, Storari: la parola al nuovo vertice di Md. Il caso ha voluto che l’ultimo congresso di Magistratura democratica si sia tenuto a cavallo tra la presentazione delle proposte di riforma del processo penale elaborate dalla commissione Lattanzi, fatte proprie dalla ministra Cartabia, e la ratifica dell’accordo di maggioranza sulla giustizia che quelle proposte ha in buona parte lasciato cadere. Questo spiega perché il giudizio sulla riforma da parte della corrente di sinistra della magistratura sia passato da un iniziale apprezzamento durante le assise - il manifesto ne ha dato ampio resoconto - all’attuale delusione. In quel congresso di luglio Magistratura democratica ha rinnovato il suo gruppo dirigente. La nuova presidente è la giudice di Corte d’appello Cinzia Barillà, il nuovo segretario il pm dell’antimafia Stefano Musolino, entrambi da Reggio Calabria. Cinzia Barillà. La riforma del processo penale così com’è stata approvata dalla camera la giudichiamo un compromesso al ribasso. Molte dichiarazioni di principio sono condivisibili, come l’incremento dei percorsi riparativi, l’attenzione alla tutela delle vittime, la definizione di familiare estesa ai conviventi ed alle unioni civili, ma temo resteranno astratte e inattuate perché poco supportate dalla previsione di risorse umane e professionalità nei settori della esecuzione penale esterna e dei servizi sociali. Invece troverà spietata applicazione la improcedibilità in Appello e Cassazione, condannando alla morte processi per reati non ancora estinti. Aggiungo che, di nuovo, il legislatore scarica sui magistrati i problemi che non riesce a risolvere, obbligandoci a fare continue ordinanze per definire da noi i tempi di durata dei procedimenti, così aumentando il contenzioso. Stefano Musolino. Questa riforma è una presa d’atto che alle condizioni attuali il sistema non regge. Dunque si tenta di diminuire il flusso dei procedimenti in entrata, introducendo le priorità nell’azione penale, mentre con la improcedibilità si mette una tagliola in uscita. Siamo delusi perché conoscendo l’impostazione della ministra e avendo letto le proposte della commissione Lattanzi sui riti alternativi, in particolare l’archiviazione meritata che è sparita del tutto, ci sembrava possibile una vera svolta. Così da costringere anche la magistratura a cercare strumenti alternativi alla sanzione penale e al carcere. È una grande occasione mancata. La trattativa e alla fine il compromesso la ministra ha dovuto farli non solo e non tanto con le ragioni di una parte della maggioranza, 5 Stelle e Lega, ma soprattutto con gli allarmi lanciati da alcuni magistrati molto in vista. Ricordate certamente anche voi le profezie sui mafiosi a spasso nel caso si fosse affermata l’impostazione iniziale... Stefano Musolino. Finché regge l’idea che la risposta ai problemi del paese vada cercata sempre nell’azione penale, avremo sempre un certo numero di procuratori in vista pronti a raccontarci che senza un pm forte e una pensante sanzione penale le cose non funzionano. È un gioco in buona parte mediatico che si ripete. In questo caso in maniera persino paradossale, perché se ci sono procedimenti al riparo dagli effetti dell’improcedibilità sono proprio quelli per mafia la cui definizione è nella quasi totalità dei casi garantita dalle norme sulla custodia cautelare. Cinzia Barillà. È la ragione per cui abbiamo contestato il doppio binario, l’idea che vadano messi in sicurezza solo alcuni reati a discapito ad esempio dei morti sul lavoro o dei disastri colposi. La ministra ha optato per questo tipo di compromesso evidentemente perché non ha cercato un’interlocuzione con chi esprime un pensiero collettivo, ma ha preferito ascoltare alcune individualità molto capaci di sollecitare le paure. Per me è la riprova che il magistrato individualista non fa il bene della magistratura. Lo so che di questi tempi si attribuiscono alle correnti tutti i mali del mondo, ma un associazionismo vitale serve anche a elaborare proposte utili e coraggiose, senza rincorrere emergenze reali o dettate dalle preoccupazioni del momento. Stefano Musolino. Aggiungo che aver imposto l’approvazione in parlamento con la fiducia ha impedito un dibattito nel quale le preoccupazioni come la nostra sicuramente sarebbero emerse. Invece si è blindato il compromesso tra le opposte, ma in realtà convergenti richieste di Lega e 5 Stelle, espressione entrambe a mio avviso di una politica giudiziaria di destra. La riforma ha perso gran parte della sua capacità di innovazione. Il caso Palamara ha dimostrato il legame che c’è tra la verticalizzazione degli uffici giudiziari, e dunque la spinta alla carriera tra le toghe, e le degenerazioni del correntismo. Anche il più recente caso - per intenderci - Storari-Davigo mette in luce i difetti delle procure troppo gerarchizzate? Cinzia Barillà. Secondo me in questo caso, di nuovo, dobbiamo mettere a fuoco i rischi dell’individualismo tra i magistrati. Per la mia esperienza è difficile che un collega si trovi così solo da aver bisogno di saltare tutte le procedure, come ha fatto Storari consegnando i verbali di Amara a Davigo. Torno dunque sul ruolo sano della corrente che serve a fare rete e a far lavorare meglio il magistrato. La serenità può essere recuperata condividendo il problema con i colleghi, senza violare la riservatezza. All’eccesso di gerarchia si può reagire in maniera collettiva. Stefano Musolino. L’individualismo è un rischio che corrono anche i più bravi, come in questo caso. Storari si è trovato a non avere più alcuna fiducia istituzionale e dunque a decidere di saltare tutti i canali ufficiali che prevedono un rimedio ai contrasti di un sostituto con il suo procuratore. Il dramma è che la sua mancanza di fiducia istituzionale ha prodotto una clamorosa perdita di fiducia per tutta la magistratura. Quanto alla gerarchizzazione io penso che occorra distinguere, la famosa orizzontalità che noi sempre predichiamo è cosa diversa in un ufficio di procura rispetto all’ufficio giudicante. Il procuratore deve assumere su di sé il coordinamento, non per limitare l’indipendenza dei pm ma perché spetta a lui garantire l’esercizio omogeneo dell’azione penale. Qual è il vostro giudizio sui sei referendum proposti dai radicali e dalla Lega? Si può distinguere tra quesito e quesito? Stefano Musolino. Ci sono quesiti di poco impatto e di pura polemica, come quello sulle firme per la presentazione delle candidature al Csm. Quesiti che ci vedono nettamente contrari e penso soprattutto alla separazione delle carriere perché portare il pm fuori dal rapporto con la giurisdizione significa spingerlo a farlo diventare l’espressione della voglia securitaria del momento. Invece autonomia e indipendenza hanno senso in funzione della tutela dei diritti dei più deboli di fronte alle pulsioni della maggioranza. Siamo invece favorevoli e da tempo a che gli avvocati partecipino alle valutazioni di professionalità nei consigli giudiziari. Abbiamo bisogno di riempire di contenuti i fascicoli personali così da favorire valutazioni migliori quando si tratta di conferire incarichi direttivi. La pochezza di quei fascicoli ha favorito la discrezionalità e rafforzato il metodo Palamara. Cinzia Barillà. Proprio per le cose che abbiamo detto fin qui, per la nostra denuncia dell’individualismo nella magistratura e il nostro voler difendere il valore e il ruolo dell’associazionismo, non possiamo che valutare positivamente qualunque sguardo esterno sulla magistratura. In particolare quello degli avvocati. Dirò di più, oggi abbiamo la preoccupazione opposta. E cioè che, soprattutto in alcune realtà di provincia, gli avvocati siano troppo prudenti e si sentano troppo poco liberi nel valutare i magistrati. Separazione delle carriere dei magistrati: “Così pm e giudici garantiscono la vera imparzialità” di Francesca Sabella Il Riformista, 28 agosto 2021 Il quesito referendario n. 4 incide sull’Ordinamento giudiziario e sulla normativa connessa agli organici della Magistratura, alla relativa formazione e aggiornamento, all’accesso in magistratura, alla progressione economica e di funzione dei magistrati, nonché alla funzionalità del sistema giudiziario in genere, eliminando ogni riferimento al “passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa”. La separazione delle carriere dei magistrati risulta fondamentale per garantire l’imparzialità del giudice e quindi, una giustizia giusta. Oggi, infatti, il sistema consente al magistrato che abbia intenzione di farlo di transitare dalla funzione giudicante a quella requirente, disciplinando quindi la possibilità che un magistrato possa svolgere nel corso della sua carriera le attività tipiche della pubblica accusa e del giudice. Questo meccanismo, fondato sulla indistinzione dei ruoli di ordinamento giudiziario, rischia però di generare pericolosi condizionamenti dai quali la cultura del giudice deve restare immune. La vittoria del “Sì” consentirebbe di salvaguardare tale cultura, in funzione di decisioni imparziali. Marco Naddeo, avvocato penalista e professore di Diritto Penale dell’Economia all’Università degli Studi di Salerno spiega al Riformista il contenuto del quesito e le motivazioni del Sì. Professore, oggi come viene disciplinata la carriera dei magistrati? “L’Ordinamento Giudiziario attuale non prevede distinzione di ruoli tra magistrati requirenti e magistrati giudicanti, per cui il magistrato in funzione di Pubblico Ministero condivide il medesimo “contesto” del magistrato giudicante sia in sede di reclutamento che nelle successive fasi che ne scandiscono la carriera. Soppressa ogni distinzione di ruolo, pm e giudice si caratterizzano unicamente per la funzione, che tuttavia può essere abbandonata dal magistrato con il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle del Pubblico Ministero e viceversa”. Cosa propone il quesito? “Il quesito sottoposto a referendum abrogativo propone di cancellare le interpolazioni normative dell’ordinamento giudiziario e delle leggi complementari che oggi disciplinano “il passaggio (del magistrato) dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa”. Votando “si”, il cittadino orienta la sua preferenza all’eliminazione della “promiscuità” di ruoli tra giudice e pubblico ministero”. Il “Sì” quali cambiamenti apporterebbe? “Una vittoria del “si” implicherebbe la necessità per il magistrato di scegliere all’inizio la funzione che intende svolgere, avviando il fondamentale processo di separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti. In tal modo, si eliminerebbero i condizionamenti che rischiano di corrompere la “terzietà del giudice” e, dunque, di scalfire la “imparzialità della decisione” di cui la prima costituisce indispensabile premessa; infatti, si eviterebbe di omologare un soggetto con potere d’indagine (il pm) a un soggetto terzo (il giudice) che deve rimanere equidistante dalle parti processuali. Insomma, nonostante il quesito referendario può spingersi solo a riformare i passaggi tra le funzioni, un successo del “Si” ricollocherebbe l’accusare e il giudicare sui diversi terreni che competono ad attività ontologicamente distinte”. C’è chi sostiene che la separazione delle carriere condurrebbe il pm sotto il controllo dell’esecutivo, ovvero comporterebbe un indebolimento della “cultura giurisdizionale” del magistrato requirente. “Entrambe le obiezioni potrebbero essere definite argomenti- parassita. A mio avviso, esse travestono di apparente tecnicismo un problema che è e resta politico. Mi spiego. Non è dato comprendere per quale ragione la separazione delle carriere finirebbe per assoggettare i Pubblici Ministeri al controllo dell’esecutivo e, in ogni caso, l’indipendenza del potere dell’accusa - trasparentemente esercitato e responsabilizzato - può essere adeguatamente preservato. Qualunque ne sia l’interpretazione, poi, agganciare il totem della ‘cultura giurisdizionale’ alla indistinzione dei ruoli della magistratura è ingenuo o mistificatorio. Non è la militanza nello stesso contesto a preservare la cultura giurisdizionale del pubblico ministero, ma certamente la condivisione di interessi può smussare le diversità che devono invece caratterizzare l’angolazione prospettica di chi giudica. In alcuni casi, la colleganza può addirittura pregiudicare l’indipendenza elevata dalla nostra Carta fondamentale a precursore della imparzialità che deve contrassegnare la decisione del giudice (art. 101, comma 2 Cost.). E questo è un dato ormai acquisito dall’opinione pubblica più sensibile. Il problema politico, quindi, intreccia i valori costituzionali posti alla base della vicenda processual-penalistica. E se un profilo tecnico lo si vuole rintracciare questo ha a che fare proprio con l’architettura della Costituzione”. Cosa intende dire? “Dopo la riforma dell’articolo 111, la Costituzione risulta affetta da uno sviluppo “asimmetrico” delle due sezioni che ne compongono il Titolo IV - Parte II dedicato alla Magistratura. In estrema sintesi, mentre la Sezione II (Norme sulla giurisdizione) ha già distinto la figura del magistrato del Pubblico Ministero da quella del magistrato Giudicante, la Sezione I (Ordinamento giurisdizionale) resta ingiustificatamente ancorata alla unicità dei ruoli (art. 107, comma 3, Cost.), evidenziando un problema strutturale cui la riforma potrebbe porre rimedio. Come è stato rilevato, la distinzione dei ruoli costituirebbe, dunque, il fisiologico completamento dello sviluppo di ingegneria costituzionale, dal momento che “I giudici sono soggetti solo alla legge” (art. 101, comma 2, Cost.) e “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” (art. 112, Cost.). In altri termini, si tratta semplicemente di costruire il ragionevole pendant all’art. 111, comma 2, Cost. per cui “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Custodia cautelare. La presunzione d’innocenza è una cosa seria o una finta? di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 28 agosto 2021 Scriveva Alfredo Rocco: “È una generica tendenza favorevole ai delinquenti, frutto di un sentimentalismo aberrante e morboso”. Allora dovete dire apertamente: sì, stiamo col giurista fascista. Le regole costituzionali che governano la custodia cautelare rientrano tra quei principi fondamentali di civiltà che, tuttavia, non sono di agevole ed immediata comprensione, almeno fin quando non riguardano la nostra persona o quella di persone a noi care. Sono principi - lo andiamo ripetendo fino alla nausea - contro-intuitivi. Se tizio è gravemente indiziato di aver commesso - o di stare progettando di commettere - un reato, perché mai tutte queste condizioni e remore per sbatterlo in galera e buttare la chiave? Conta forse il suo diritto ad essere presunto innocente più della sicurezza di tutti noi? Non a caso questi rabbiosi interrogativi, puntualmente alimentati dai cultori del manettarismo nostrano ad ogni episodio di cronaca che minimamente lo consenta, erano gli stessi - come ora vedremo - che nei primi anni 30 del secolo scorso si ponevano i giuristi fascisti. Il recente, brutale omicidio di una donna stalkerizzata dal suo ex ha, come usa, riacceso la immancabile polemica sul “perché non era in carcere?”; ancor più infiammata dalla difesa (pelosa, in verità, come di chi dice “questa è la legge, arrangiatevi”) di quella decisione cautelare da parte del Presidente dell’ufficio GIP di Catania. Proviamo allora a mettere le cose in fila, per la ennesima volta. Il giudizio cautelare, cioè la decisione di privare della libertà una persona che nessuno ha ancora stabilito se sia colpevole del reato del quale è sospettato, ha inesorabilmente una natura “prognostica”. Non solo il Giudice deve ipotizzare, sulla base di elementi di sospetto rafforzato, che tizio abbia commesso (o si appresti a commettere) un reato; ma egli deve anche pronosticare quali ulteriori danni (alle indagini ed alla sicurezza della collettività) potrebbe costui causare se lasciato libero mentre si indaga sulla (solo ipotizzata) sua colpevolezza. E non finisce qui: il giudice dovrà infine anche valutare -una volta ritenuta la necessità e la fondatezza di una restrizione della libertà dell’indagato- quale sia la misura giusta e sufficiente di quella restrizione, tra il carcere e un ordine di allontanamento. Si tratta dunque del giudizio sicuramente più impervio che un giudice sia chiamato ad esprimere, un triplo salto mortale carpiato nel periodo ipotetico. Se è drammatico il giudizio cautelare per il giudice, figuriamoci quanto debba esserlo per l’indagato. Il quale - sarà banale o irritante, ma è la questione delle questioni - non è un mafioso o un omicida o uno stupratore, ma in quel momento è solo sospettato di esserlo; non è (ancora) uno stalker omicida, anche se potrebbe diventarlo. Il sospettato potrebbe essere innocente, estraneo a quelle terribili accuse, ed ha il sacrosanto diritto (costituzionale) di vedersi quanto più possibile garantito dall’orrendo incubo di finire in galera prima ancora di essere giudicato. Quel diritto, cari amici lettori, non è il diritto dello stalker assassino o del capo mafia impunito, ma è innanzitutto il diritto di tutti noi, di ciascuno di noi, persona per persona. È una ovvietà, ma si fatica a tenerla presente fino a quando non ci sbatti il grugno. E allora, vi chiedo: è davvero tanto difficile comprendere la ragione per la quale la legge sia così rigorosa nel fissare regole e condizioni della custodia cautelare? Gli indizi di colpevolezza devono essere “gravi”, cioè non semplici sospetti; ma questo non basta. Occorre, ben giustamente, che i pericoli derivanti dallo stato di libertà del gravemente indiziato siano “concreti ed attuali”, cioè non congetturali ed astratti (del tipo: è sospettato di omicidio, ergo deve stare in carcere). È del tutto ovvio dunque che i rischi di errore del Giudice siano molto alti. Ma per chi vede il mondo secondo Costituzione, sono rischi innanzitutto per la libertà e la vita degli ingiustamente sospettati, come l’esperienza nostrana tristemente ci insegna; ed è ciò di cui innanzitutto la legge si preoccupa. Può poi accadere (ma è ipotesi di gran lunga più rara) che il giudice erri in senso opposto, non adeguatamente prevenendo una condotta criminale, con esiti che possono essere anche drammatici, come in questa ultima vicenda. Ed è certamente vero che retaggi culturali antichi ed intollerabili pesino a volte in modo grave sulla valutazione del reato di stalking. Si discuta di questo, si approfondiscano le ragioni di quella valutazione del giudice che, con il senno di poi, si è dimostrata tragicamente inadeguata. Ma è davvero desolante vedere rimessi in discussione, ad ogni fatto di cronaca, principi fondativi di libertà che distinguono, da sempre, le società civili da quelle totalitarie. Altrimenti, si scelga apertamente di stare dalla parte di chi ha definito la presunzione di non colpevolezza come una “generica tendenza favorevole ai delinquenti, frutto di un sentimentalismo aberrante e morboso, che ha tanto indebolito la repressione e favorito il dilagare della criminalità”. È Marco Travaglio? No, è Alfredo Rocco, Ministro di Giustizia fascista, nella sua Relazione preliminare al Codice. O con chi ha scritto: “Se si deve presumere l’innocenza dell’imputato, chiede il buon senso, perché dunque si procede contro di lui?”. È Piercamillo Davigo? No, è Vincenzo Manzini, forse il più illustre giurista fascista. Se trovate impressionanti le similitudini, allora è il caso che vi facciate una domanda, e vi diate finalmente una buona risposta. Se la paladina anti-stalker ora difende il testo salva-stalker di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 28 agosto 2021 Referendum. Il 5° quesito depotenzia la legge che introdusse il reato, firmata nel 2009 dalla Bongiorno. Ma lei ha promosso il referendum e dice: “Tutele garantite” È la madrina delle due leggi che, dal 2009 in poi, sono state approvate per tutelare le donne dallo stalking. E da anni, da avvocato e fondatrice della Onlus Doppia Difesa, si batte per i loro diritti in tribunale di fronte ai soprusi e alle violenze degli uomini. Ora, però, la responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno rischia di vedere rinnegati anni di battaglie. L’avvocato, infatti, ha contribuito a scrivere e promuovere in giro per l’Italia un quesito referendario con i Radicali che rischia di svuotare proprio quel reato di stalking per cui lei si è battuta a lungo. L’allarme è stato lanciato sul Fatto dal Telefono Rosa, una delle più importanti associazioni italiane che si occupa di assistere donne e minori vittime di violenza, che ha denunciato gli effetti potenzialmente devastanti del 5° quesito referendario proposto da Lega e Radicali: il suo obiettivo dichiarato è quello di “limitare gli abusi della custodia cautelare” ma l’effetto, se il quesito passasse la prova delle urne, è che il carcere preventivo finirebbe per essere quasi abolito. Anche per i reati di stalking. Il quesito si propone di abolire la reiterazione del reato come motivo per disporre il carcere nei confronti di indagati per reati che non prevedono “uso di armi o altri mezzi di violenza personale”. Ma, come ha spiegato al nostro giornale l’avvocato e vicepresidente di Telefono Rosa Antonella Faieta, lo stalking non è solo “minaccia concreta di violenza” ma anche “messaggi, appostamenti e pedinamenti”. Anche la ministra del Sud Mara Carfagna giovedì ha condiviso l’allarme dell’associazione spiegando che, se il quesito passasse al referendum, uno stalker minaccioso finirebbe in carcere “solo se il magistrato ravvisa un concreto e attuale pericolo che aggredisca fisicamente o uccida”. Criticità condivise anche da Maria Monteleone, a lungo coordinatrice del pool anti-violenze della Procura di Roma: “Visto che la quasi totalità delle misure cautelari sono fondate proprio sul pericolo della reiterazione del reato commesso, ove il quesito referendario venisse accolto, la quasi totalità delle misure cautelari oggi richieste, e anche degli arresti in flagranza, non sarebbero più possibili - spiega il magistrato, oggi in pensione -. E questo non soltanto per lo stalking ma anche per i maltrattamenti in famiglia, la violenza sessuale su adulti e minori, nonché per la stragrande maggioranza di altri gravi delitti, tra cui anche favoreggiamento della prostituzione, droga. Ciò avverrebbe in quanto l’adozione delle misure cautelari sarebbe paradossalmente limitata ai casi in cui detti delitti siano commessi con uso di armi o di altri mezzi equiparabili: ipotesi senz’altro minoritaria”. “Peraltro non sarebbero applicabili neppure misure cautelari più gradate rispetto al carcere - aggiunge Monteleone. Il rischio che il carcere non possa più essere disposto è più che concreto”. Il cortocircuito rischia di essere un boomerang per Bongiorno, che è stata l’autrice della legge 38 del 2009 che ha introdotto proprio il reato di stalking e poi, nel 2019, della norma sul “codice rosso”, uno degli ultimi atti del governo gialloverde all’epoca celebrato dalla stessa Bongiorno e anche da Matteo Salvini. All’epoca l’allora ministra della Pubblica Amministrazione esultò parlando di “svolta” e di “un’importantissima novità con la quale vogliamo scongiurare che le donne stiano mesi o anni senza ricevere aiuto”. Oggi, se il referendum passasse, il rischio è che parte di quella norma venga svuotata. Contattata dal Fatto, Bongiorno ha preferito non rilasciare un’intervista ma ha mandato una breve dichiarazione. “Proprio il tragico femminicidio di Vanessa (Zappalà, la 26enne uccisa a colpi di pistola dall’ex fidanzato, con quest’ultimo che doveva rispettare un ordine restrittivo su denuncia della giovane, ndr) dimostra che le critiche al referendum sono disancorate dalla realtà. Infatti allo stato le norme sono quelle di sempre e la povera Vanessa non è più qui”, si legge nella nota, che però sposta l’argomento su una questione che nulla ha a che fare col quesito. Poi Bongiorno è entrata nel merito: “Il referendum vuole evitare abusi, ma non riduce le tutele. Sarà sufficiente per il giudice ravvisare nella condotta dello stalker elementi sintomatici di una personalità proclive al compimento di atti di violenza per applicare le misure cautelari”. Il referendum che limita il carcere preventivo libera gli stalker? No, è un falso di Tiziana Maiolo Il Riformista, 28 agosto 2021 La campagna del giornale di Travaglio è del tutto infondata. Nasce dalla paura di un ridimensionamento della carcerazione preventiva. È falso che uno dei referendum sulla giustizia, quello che limita gli abusi sul carcere preventivo, possa favorire gli stalker. È totalmente falso, ma il solito Fatto Quotidiano sta ripetendo la bugia da tre giorni. La verità è che il successo della raccolta di firme sta cominciando a fare venire l’orticaria nella casamatta delle manette. E naturalmente il primo a esser preso di mira è quello che cerca di mandarci il minor numero possibile di persone, in galera. Stiamo parlando degli innocenti secondo la Costituzione, cioè dei detenuti in custodia cautelare, che sono quasi la maggioranza dei detenuti italiani. Uffa, tocca di nuovo parlare di Travaglio, che barba che noia. Soprattutto perché lui non capisce niente di giustizia, come la gran parte dei cronisti giudiziari abituati a scopiazzare gli atti pessimamente scritti dai Gip che hanno copiato il Pm che ha copiato la letteratura dell’ufficiale di polizia giudiziaria. Si sveglia un mattino il re dei tagliagole e si accorge che i sei referendum chiameranno tra pochi mesi i cittadini a giudicare lo stato della giustizia, e di questi tempi si salvi chi può. Prende di mira il numero cinque e lo colora di rosa nei giorni successivi al quarantunesimo femminicidio, la morte di Vanessa, che ha suscitato qualche polemica e molta commozione. Ma usare la commozione del popolo delle donne per imbrogliare e scrivere falsità è una vigliaccata. Approfittare di qualche dubbio in buona fede della vicepresidente di Telefono Rosa, o della ministra Mara Carfagna, lo è ancora di più. Ma pare sufficiente non solo a scatenare la richiesta di tanto carcere, tante manette, tanta repressione per tutti da parte del direttore del Fatto, ma anche a tenere la “notizia” ogni giorno M prima pagina, visto che di veline di questi tempi ne girano poche, e che ormai il sottosegretario Durigon ha rassegnato (purtroppo, e sbagliando) le dimissioni. E allora, per i miei tre lettori e indirettamente per i milioni di seguaci e ammiratori di Travaglio, ecco la lezioncina. Il quesito del referendum sulla custodia cautelare ha semplicemente la finalità di evitarne l’abuso. Uno degli abusi più frequenti è quello di mandare in galera una persona solo perché potrebbe ripetere una tipologia di reato già commesso. Il caso tipico è quello della detenzione di sostanze psicotrope, 30 grammi di hashish, per esempio. L’obiettivo è di non usare il carcere come unica soluzione per chi è indagato per i reati meno gravi. Ma - e il “ma” è grande quanto un grattacielo - restano fermi gli altri presupposti per la custodia cautelare, quali la pena edittale, cinque anni nel massimo, e l’uso di violenza o minaccia. Ora non pretendiamo che Travaglio, e chiunque altro abbia dei dubbi (ma vogliamo tranquillizzare soprattutto il mondo delle donne e dei loro diritti) conoscano il codice penale a memoria. Ma solo ricordare che l’articolo 612 bis prevede che il reato di stalking sia punito con la pena massima di sei anni e sei mesi, e riguarda comunque condotte di cui già di per sé si prevede che siano reiterate e che si manifestino sotto forma di minaccia o di molestia. Inoltre la pena è aumentata se l’atto è commesso da una persona che abbia o abbia avuto un legame affettivo con la vittima, come, nei casi più frequenti, ex mariti o compagni. Quindi, che cosa può giustificare titoli come “Il referendum di radicali e Lega libera gli stalker”? Falsità e imbroglio. Il fatto è che il successo della raccolta di firme per i referendum sulla giustizia crea reazione scomposte, come sentiamo dalla voce di un avvocato penalista membro della commissione giustizia del partito radicale, nonché sempre in prima fila nella raccolta di firme, Simona Giannetti. “Pare che a coloro che vorrebbero manette e carcere per tutti quelli che subiscono anche solo una denuncia, dia fastidio il fatto che centinaia di migliaia di cittadini abbiano firmato ai tavoli della raccolta referendaria per una giustizia giusta, manifestando così chiaramente di essere stanchi di avere più gente in carcere sotto indagine che non condannati con una sentenza definitiva. Del resto siamo all’assurdo di un Paese in cui la cassazione consente che dover dimostrare la gravità degli indizi per una misura cautelare sia molto meno stringente di quella necessaria per motivare “ma sentenza. Come se in fondo la carcerazione preventiva non fosse di per sé già un’anticipazione di pena. Infine, nel nostro Paese esistono le case circondariali, costruite apposta per i presunti innocenti, e sono le più affollate, con presenze anche doppie del numero previsto. Le legge per fermare l’assassino di Vanessa Zappalà c’era. Ma qualcuno l’ha ignorata di Giacomo Puletti Il Dubbio, 28 agosto 2021 In estrema sintesi: all’ex fidanzato, stalker, il gip dispone il divieto di avvicinamento, ma senza braccialetto elettronico perché, dice il capo del suo ufficio, “si può dare solo in caso di arresti domiciliari”. Soltanto dopo si scopre che invece il provvedimento del braccialetto elettronico si poteva adottare eccome, dato che è previsto dalla legge 69/ 2019 che ha modificato l’articolo 282 ter comma 2 del codice di procedura penale, come ha spiegato Valeria Valente, senatrice Pd e presidente della commissione parlamentare contro le violenze di genere su queste colonne. Il risultato è che Vanessa Zappalà è stata uccisa, il suo stalker, Antonino Sciuto, si è suicidato e due morti, forse, potevano essere evitate semplicemente applicando le norme in vigore. La storia che ha sconvolto la piccola frazione di Aci Trezza, celebre per i racconti di Giovanni Verga e dei suoi Malavoglia, questa volta non ha a che fare con famiglie sfortunate e lupini, ma con un’amministrazione della giustizia che spesso fa acqua da tutte le parti e con uno Stato che non riesce a proteggere un suo cittadino in pericolo. Andando con ordine, tutto nasce dalla denuncia di Vanessa, che trova il coraggio di andare in Questura e rendere pubbliche quelle molestie dell’ex fidanzato che ormai erano diventate quotidiane. L’uomo viene accusato di stalking, il gip dispone il divieto di avvicinamento ma è tutto inutile. Nella notte tra domenica e lunedì la raggiunge sul lungomare, dove la ragazza stava passeggiando con alcune amiche, la afferra per i capelli e le spara sette colpi di pistola calibro 7,65. Altri 28 proiettili verranno ritrovati nell’auto dell’uomo, che a neanche ventiquattr’ore dall’omicidio si impicca in un casolare di campagna. Una tragedia dopo la quale si scatenano le fazioni più diverse. Il padre della vittima è netto: “Con le leggi giuste - denuncia - si sarebbe potuto evitare l’omicidio di mia figlia, ma anche quelli che ci sono stati e quelli che verranno dopo, perché ancora ce ne saranno”. Secondo le amiche della ragazza Antonino era un “padre padrone” che la voleva solo per lui, mentre Marisa Scavo, procuratrice aggiunta a Catania, spiega a La Sicilia che “non aumentare il minimo della pena a due anni per il reato di stalking è un limite enorme, perché ci impedisce di effettuare il fermo nei casi in cui non c’è flagranza”. Ma dopo pochi giorni il focus si sposta su un altro tema, e cioè sulla possibilità che allo stalker potesse essere applicato un braccialetto elettronico per tenerlo sotto controllo ed evitare così che potesse avvicinarsi alla vittima. La miccia è accesa da Nunzio Sarpietro, capo dell’ufficio gip di Catania, che in un’intervista a Repubblica spiega che “quel provvedimento si può adottare solo in caso di arresti domiciliari”. Falso, perché la legge 69/ 2019 recante “disposizioni in tema di violenza domestica e di genere” è chiara e “modifica la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa per consentire al giudice di garantire il rispetto della misura coercitiva attraverso procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici (c. d. braccialetto elettronico)”. Inequivocabile. Ora il giudice Sarpietro dice che l’intervista è stata tagliata male e che il problema è che i braccialetti non ci sono, e quindi anche volendo non potrebbero essere utilizzati. Ma tra gli addetti ai lavori l’errore del gip viene definito “inconcepibile”, come spiega una fonte giudiziaria che preferisce restare anonima. “È un caso sorprendente perché di quella legge si parlò molto. Quando entrò in vigore la legge sullo stalking nel primo mese ci furono mille arresti - commenta - Sono norme di cui si discute molto e non posso credere che l’errore del gip di Catania si possa ripetere in altri uffici giudiziari”. Eppure, di passi avanti in tema di legislazione a difesa delle vittime di maltrattamenti e violenze ne sono stati fatti, se è vero che proprio la stessa legge 69/ 2019 inserisce il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi “nell’elenco dei delitti che consentono nei confronti degli indiziati l’applicazione di misure di prevenzione, tra le quali è inserita la misura del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona da proteggere”. Cioè esattamente quanto deciso nei confronti di Antonino Sciuto, senza risultati. “Quando si arresta in flagranza e in poche ore si deve decidere cosa fare, ad esempio se decidere per gli arresti domiciliari e il carcere, e allo stesso tempo il reo inizia piangere, diventa un agnellino e dice che vuole bene alla ex ragazza, spesso si incappa nello stesso errore che ha fatto il gip di Catania nel momento in cui ha deciso di lasciarlo fuori piuttosto che metterlo dentro - commenta la nostra fonte - Mettere tutti in carcere non è di certo la soluzione, ma dall’altro lato si rischia di sottovalutare il rischio per la vittima”. Di certo c’è anche un problema di mancanza di braccialetti elettronici, tema diventato centrale nel dibattito durante le rivolte in carcere in piena epidemia di coronavirus, e averne di più a disposizione permetterebbe sia di svuotare in parte i penitenziari, già sovraffollati, sia di controllare con maggiore attenzione gli accusati di maltrattamenti. E se è vero che “bisogna conoscere, per deliberare”, potremmo dire che bisogna conoscere, per applicare le misure cautelari. Pena la perdita, forse evitabile, di vite umane. Così il resto d’Europa usa il braccialetto sugli stalker ma anche sulle vittime di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 agosto 2021 È vero che il braccialetto elettronico per misura anti stalker è stato introdotto nel 2019, ma serve a ben poco se la potenziale vittima non è dotata di un dispositivo per rilevare la presenza dell’aggressore. Il 9 agosto del 2019 è stata varata le legge che ha recato modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. In questa occasione è stata introdotto la possibilità di fare ricorso all’utilizzo del braccialetto elettronico anche nel caso di stalking. Inquadriamo la questione. Lo stalking è una serie di atteggiamenti tenuti da un individuo che affligge un’altra persona, perseguitandola ed ingenerandole stati di ansia e paura, che possono arrivare a comprometterne il normale svolgimento della quotidianità. Il fenomeno è anche chiamato: “sindrome del molestatore assillante”. E’ reato di stalking se la vittima riceve continuamente telefonate e sms insistenti, e- mail ingiuriose o minacciose, se è inseguita o aggredita verbalmente e/ o fisicamente, se nota appostamenti fuori casa, se vengono diffusi a sua insaputa foto o il numero di telefono, se viene violato l’account della posta personale o di un social network, se vengono danneggiati la macchina o il motorino, se riceve regali o ordini non desiderati, se trova frasi “amorose” o ingiuriose a lei destinata su muri o manifesti davanti casa. A seconda il profilo patologico, lo stalking può arrivare anche ad uccidere. Ritorniamo alla legge del 2019 dove viene contemplato l’utilizzo del dispositivo elettronico anti stalking. Più precisamente, al comma 1 dell’articolo 282- ter del codice di procedura penale, per rendere ancor più efficace la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, sono aggiunte le seguenti parole: “anche disponendo l’applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall’articolo 275- bis”. Il riferimento è, appunto, al braccialetto elettronico. Con questa misura cautelare l’autorità giudiziaria vieta all’indagato o imputato di avvicinarsi alla vittima, impedendogli di visitare i posti che normalmente la persona offesa frequenta. Così, ad esempio, se la vittima di stalking frequenta la palestra, il giudice ordinerà allo stalker di mantenere le distanze anche da quel luogo. In caso di trasgressione del divieto, la misura può essere sostituita con una maggiormente afflittiva come, ad esempio, gli arresti domiciliari. Ma la potenziale vittima è protetta al 100 percento? No, perché teoricamente il potenziale aggressore può avvicinarsi a lei, pedinandola in altri luoghi dove il divieto non c’è e il braccialetto elettronico non servirebbe a nulla. In sostanza, rimane un semplice monitoraggio con tracciamento. È lo scenario in cui il provvedimento dell’Autorità Giudiziaria impone di monitorare il soggetto all’interno di uno o più luoghi predefiniti (es. il proprio domicilio) secondo le modalità e negli orari stabiliti dalla stessa Autorità Giudiziaria e, contestualmente, di tracciarne gli spostamenti generando un allarme qualora il soggetto acceda a determinate ‘ zone di esclusione’. Ma se va altrove, riuscendo per vie indirette ad attirare la vittima in un luogo non escluso dal giudice, il braccialetto non servirà a nulla. Che fare dunque? In altri Paesi, come ad esempio la Spagna, funziona in maniera decisamente più efficace. Ed è, in fondo, lo scenario dipinto da Fastweb, l’azienda che ha stipulato il contratto con il ministero dell’Interno per il triennio 2018-2021, riguardante la fornitura dei braccialetti elettronici. Principalmente usati per la misura deflattiva delle carceri. Come dovrebbe funzionare il dispositivo elettronico per prevenire seriamente lo stalking? Tecnicamente si parla di “tracciamento di prossimità”, ed è lo scenario in cui la potenziale vittima di aggressione venga dotata di un dispositivo in grado di rilevare la presenza dell’aggressore - dotato di braccialetto elettronico - nelle vicinanze e di generare immediatamente un allarme verso il Centro di Monitoraggio. I dispositivi permettono di tracciare costantemente la posizione del molestatore e notificano immediatamente al Centro di controllo la violazione di una delle zone di sicurezza attorno alla vittima. In questo modo esisterebbe, quindi, inoltre la possibilità di contattare la persona in regime interdittivo per verificarne le intenzioni e dissuaderla. La vittima dello stalker, d’altro canto, è dotata di un dispositivo portatile nel quale è presente un bottone di allarme che attiva anche la chiamata diretta con l’operatore. Tale dispositivo può essere chiamato dall’operatore stesso. Solo in questo modo si può per davvero mettere in sicurezza la potenziale vittima. In Spagna, dove tale scenario è già in uso dal 2009, a fronte di una crescita costante delle denunce per violenza domestica, la diminuzione degli omicidi legati alla violenza di genere nella Comunità Autonoma di Madrid è stato pari al 33,33% (da sei a quattro) rispetto all’andamento nazionale che ha registrato un calo del 18,75%. Dal 2009 sono stati confermati i successi della prima sperimentazione: nessuna delle vittime sottoposta a controllo elettronico è stata nuovamente oggetto di violenza. Codice rosso contro i femminicidi, i ritardi della polizia giudiziaria di Mario Di Vito Il Manifesto, 28 agosto 2021 Violenza di genere. Il dibattito sul “codice rosso”, dopo l’uccisione di Vanessa Zappalà da parte dell’ex compagno. L’omicidio di Vanessa Zappalà ad Aci Trezza riapre il dibattito sulla legge che ha istituito il cosiddetto “codice rosso” contro la violenza sulle donne, entrato in vigore nell’agosto del 2019. Alcuni limiti del provvedimento sono emersi soprattutto sul versante della preparazione della polizia giudiziaria. L’articolo 5 della legge, infatti, prevede esplicitamente l’obbligatorietà di corsi di formazione specifici sul tema per le forze dell’ordine: il problema è che, complice anche il Covid, questo tipo di percorsi sono partiti a singhiozzo ed esclusivamente sulla base della buona volontà delle singole questure. Si aspetta un intervento della cabina di regia interministeriale sulla violenza maschile contro le donne, che però si muove con estrema lentezza. I numeri, ad ogni modo, testimoniano che il codice rosso ha funzionato, ma solo fino a un certo punto: nel primo semestre del 2020 (ultimi dati disponibili) le richieste d’intervento per liti in famiglia pervenute nelle 105 questure italiane sono state 16.381 contro le 14.760 registrate nell’anno precedente. Numeri in crescita, sì, ma non tanto quanto ci si aspettava, mentre il numero dei femminicidi non è affatto calato. Soltanto ad agosto le vittime sono state otto, un campanello d’allarme chiaro sul funzionamento del codice rosso, che presenta numerosi problemi di applicabilità. Gran parte della legge, infatti, si concentra sulle fasi iniziali della violenza (o della persecuzione), lasciando la vittima sostanzialmente sola in quelle successive. L’emendamento alla riforma del processo penale presentato dalla deputata di Iv Lucia Annibali sull’arresto in flagranza per chi viola le misure di protezione affronta il problema ma non lo risolve: a questo punto non ci si dovrebbe arrivare, ovvero bisognerebbe evitare che la vittima si ritrovi nuovamente in una situazione di rischio. Valeria Valente (Pd), in un’intervista rilasciata a Repubblica, sostiene che “magari con un braccialetto elettronico, Vanessa sarebbe ancora viva”. Sulla necessità di mettere Tony Sciuto, l’assassino di Vanessa, ai domiciliari o direttamente in carcere, a leggere, l’ordinanza che invece gli ha imposto un “semplice” decreto non avvicinamento, va detto che il giudice ha deciso di tener conto di un incontro consensuale avvenuto tra i due nelle scorse settimane: difficile, su questa base, calcare la mano oltre quello che è stato fatto. La strage di Erba e i tanti dubbi sulla colpevolezza di Olindo e Rosa di Valentina Stella Il Dubbio, 28 agosto 2021 Tre gli elementi controversi: la testimonianza di Mario Frigerio, la traccia di sangue trovata nella loro auto e la confessione di Olindo e Rosa. Ogni estate è buona per dedicarsi ad un nuovo giallo o ripescarne uno dal passato. Tra questi ultimi c’è sicuramente la strage di Erba. Non è questo lo spazio per rifare un processo ma sicuramente quello per porsi delle domande, per sollevare dei dubbi. Una fredda sera dell’11 dicembre 2006, verso le 20:30, a Erba (provincia di Como) nella corte di via Diaz 25, vengono uccisi a colpi di coltello e di spranga Raffaella Castagna, il figlio Youssef, la nonna del bambino Paola Galli, e la vicina di casa Valeria Cherubini, mentre scampa alla morte il marito di quest’ultima, il superteste Mario Frigerio, che rimane gravemente ferito. Alla strage seguì un fuoco appiccato nell’abitazione. Il compagno di Raffaella Castagna, Azouz Marzouk, fu il primo sospettato - Il primo sospettato fu il compagno di Raffaella, Azouz Marzouk, ma aveva un solidissimo alibi: si trovava in Tunisia e così venne scagionato. L’attenzione si spostò poi sui coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi, due vicini di casa di Raffaella Castagna che in passato avevano avuto contenziosi legali con la defunta. I due furono condannati in primo grado dalla Corte d’assise di Como e in secondo grado dalla Corte d’assise d’appello di Milano a due ergastoli, con conseguente isolamento diurno per tre anni, per i reati di pluriomicidio aggravato, incendio (art. 423 c.p.), violazione di domicilio e reato di porto d’arma fuori dall’abitazione, nonché per omicidio e tentato omicidio per i fatti che poi diverranno noti alla cronaca, appunto, come “strage di Erba”. La Corte di Cassazione il 3 maggio 2011 confermerà la doppia conforme di condanna per Olindo e Rosa. E il tentativo di nuovi analisi sui reperti è stato respinto lo scorso dicembre. Persino Azouz Marzouk li ritiene estranei ai fatti, benché in un primo momento i due confessarono, per poi fare un passo indietro. Sulla loro colpevolezza ci sono molti dubbi, soprattutto relativamente a tre elementi, centrali per giungere alla loro colpevolezza: la testimonianza dell’unico testimone della tragedia, Mario Frigerio - colpito con un fendente alla gola e creduto morto dagli assalitori, ma che riuscì a salvarsi grazie ad una malformazione congenita alla carotide che gli impedì di morire dissanguato - e la traccia di sangue trovata nella loro auto, la confessione appunto. La testimonianza di Mario Frigerio, l’unico superstite - Sul primo punto vi riproponiamo un estratto della consulenza effettuata nel 2010, su richiesta degli avvocati Nico D’Ascola, Luisa Bordeaux e Fabio Schembri, difensori dei coniugi Romano al professor Piergiorgio Strata, neuroscienziato di fama internazionale e accademico italiano. A lui, in qualità di studioso nel campo della memoria, fu chiesto un parere sulla testimonianza fornita da Frigerio: è affidabile il ricordo di una persona che ha fornito una prima versione dei fatti, versione che si è andata poi progressivamente modificando nel tempo durante gli ulteriori interrogatori avvenuti sia nei giorni immediatamente successivi sia a distanza durante il dibattimento? Per la Corte di Assise “a sostegno della presunta “assoluta attendibilità del teste” si dice che “le sue dichiarazioni hanno progredito nel tempo a più riprese senza mai mostrare incongruenze logiche interne e senza mai mostrare contraddizioni tra una versione e l’altra”. Per il professor Strata non è così. Come leggiamo nella sua relazione “nel primo interrogatorio del 15 dicembre da parte del Pm Dott. Pizzotti, secondo la relazione del perito sull’esame tecnico ricavato dalle registrazioni originali dell’interrogatorio, il teste Frigerio risponde con precisione e lucidità alle varie domande e poi descrive il suo aggressore di carnagione scura (poi precisa olivastra) capelli corti, tanti capelli corti, grosso di stazza, capelli neri. Inoltre, su precisa domanda risponde di non aver mai visto prima quella persona. Fra l’altro tra il 15 ed il 20 dicembre 2006 il Sig. Frigerio dirà al figlio Andrea di poter riconoscere lo sconosciuto aggressore tramite identikit o fotografia segnaletica. Trattandosi di fatti raccontati a pochi giorni dagli eventi questa memoria va considerata la più genuina e affidabile”. Il teste “non aveva il minimo dubbio che l’aggressore fosse persona a lui sconosciuta. Partendo dal presupposto che il teste non abbia mentito il contenuto di questa testimonianza va considerata come altamente affidabile”. Tra un interrogatorio e l’altro la testimonianza di Frigerio è contraddittoria - Tutto cambia con un altro interrogatorio reso al Luogotenete Gallorini. “All’inizio dell’interrogatorio l’interrogante chiede: “Lei conosce Olindo il suo vicino di casa? Che abita nella palazzina lì vicino?”. Frigerio “Sì lo conosco di vista”. Interrogante “Cioè non… l’ha… cioè… lo sa come è fatto? Cioè … lo saprebbe riconoscere insomma?”. Interrogante “Voglio dire se avesse visto Olindo lo avrebbe riconosciuto”. Frigerio “Non posso essere”. Interrogante “… sto dicendo”. Frigerio “No…” Interrogante “Diciamo per assurdo però lo dobbiamo fare (inc.) Se Lei avesse avuto di fronte l’Olindo… avrebbe saputo che era Olindo…”. Frigerio “Penso di sì”. Interrogante “Pensa di sì, ma non è sicuro … Di questa figura nera di fronte, di cui lei ha parlato nelle precedenti occasioni”. Frigerio (inc.) Interrogante “non è in grado di escludere che sia alcuno che potrebbe essere uno conosciuto da lei e che non abbia riconosciuto?”. Frigerio (questo sì). Interrogante “Quindi Lei la persona l’ha guardata?”. Frigerio “Sì”. Interrogante “… però potrebbe non averla riconosciuta”. Frigerio “… caratteristiche”. Interrogante “Le caratteristiche ma non in modo preciso”. Per il professor Strata “questo pressante esercizio di immaginazione avvenuto nell’interrogatorio da parte del Luogotenente Gallorini sulla figura di Olindo ed il ripetuto tentativo di insinuare un dubbio costituisce la più potente arma per falsificare il ricordo. Il valore della testimonianza del Sig. Frigerio, il quale ha sicuramente sempre agito in buona fede, richiede di essere valutata con molta cautela. Dall’esame del materiale in mio possesso non risulta che il teste Frigerio abbia fatto dichiarazioni “senza mai mostrare contraddizioni fra una versione e l’altra”. La seconda versione deve ritenersi sicuramente influenzata dall’invito a meditare sulla possibilità che l’aggressore fosse il Sig. Olindo Romano. La seconda versione, quindi, non può avere un peso determinante agli effetti di un’eventuale condanna, mentre la prima versione va considerata altamente affidabile”. Dubbi sulla traccia di sangue nell’auto di Olindo - Venendo, invece, alla traccia di sangue presente nell’auto di Olindo e attribuita a Valeria Cherubini, una delle vittime, essa ha rappresentato uno dei pilastri della Pubblica accusa. Infatti, la Procura ha sostenuto (con successo) che quella traccia ematica è stata trasportata nell’auto dei Romano da Olindo, dopo aver calpestato il sangue delle vittime per le aggressioni mortali da lui stesso provocate. Per il biologo forense Eugenio D’Orio, incaricato di condurre le indagini biologiche e genetiche per conto di Azouz Marzouk, ovvero della parte offesa, “la “traccia di sangue” non esiste! Quella traccia biologica, che appartiene alla vittima Cherubini, è certamente non di provenienza ematica. Una cosa è dire che c’è sangue della vicina di casa barbaramente uccisa nell’auto di Olindo, altra cosa, diametralmente opposta, è dire che c’è Dna della tua vicina di casa nell’auto, ma che questa traccia è, con certezza, non-sangue. Il che esclude, a priori, che questa sia una “prova del delitto”“. Molti casi giudiziari confermano che anche gli innocenti confessano - In ultimo sulla confessione: anche gli innocenti confessano. Un esempio su tutti: Giuseppe Gulotta nel febbraio del 2012, all’esito di una sentenza di assoluzione, dopo trentasei anni di calvario giudiziario e ventidue anni di carcere, viene assolto per non aver commesso il fatto. Era accusato dell’omicidio di due carabinieri ad Alcamo Marina, in provincia di Trapani. Fu picchiato e costretto a confessare. E ancora, come riportato nel libro “I grandi delitti dalla ‘A’ alla ‘Z”‘ di Gennaro Francione ed Eugenio D’Orio, negli Usa “nel 25% dei casi in cui una persona è stata scagionata grazie all’esame del Dna, l’imputazione era avvenuta tramite una falsa confessione”. Per quanto riguarda Olindo e Rosa, come disse uno dei legali, Nico D’ Ascola, “è vero che i Romano confessano la loro responsabilità, ma lo fanno sulla base di una ricostruzione dei fatti nella quale l’avvocato Schembri è stato capace di individuare ben 384 contraddizioni rispetto alla realtà dei fatti che risulta da prove oggettive e accertate”. Per chi fosse interessato, segnaliamo una approfondita inchiesta de Le Iene, a cura di Antonino Monteleone. Campania. Covid e carceri, il Garante: “Vaccinato meno del 50% degli agenti” redattoresociale.it, 28 agosto 2021 “In aumento i casi di Covid-19 nelle carceri italiane, sia tra i detenuti sia tra i poliziotti penitenziari”. A dichiararlo Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti, che riportando i dati pubblicati sul sito del ministero della Giustizia, enumera: “sono 70 (tra cui 15 nuovi giunti) i detenuti positivi sul totale di 52.199, mentre tra gli agenti i casi sono 108 su 36.939. Tra i detenuti positivi, 64 sono asintomatici, 5 hanno sintomi e sono gestiti all’interno degli istituti e uno è ricoverato in ospedale. Tra i poliziotti 100 sono asintomatici in isolamento domiciliare, 6 sono ricoverati in caserma e 2 in ospedale. Quattro sono infine i positivi tra le 4.021 unità del personale dell’amministrazione penitenziaria, tutti in isolamento domiciliare. In Campania ad oggi i detenuti positivi al Covid-19 sono 5 (in 2 carceri). Gli agenti di polizia penitenziaria positivi al Covid-19 sono 14 (in 3 carceri)”. L’attesa di Ciambriello è che il governo “quanto prima” metta in campo dei ristori, dei provvedimenti in favore dei detenuti, “utilizzando il principio alla base dell’articolo 35 ter dell’ordinamento penitenziario che stabilisce che in condizioni di detenzione tali da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, vi sia la possibilità a titolo di risarcimento del danno, di una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio”. Allo stesso modo per il garante campano si potrebbe riconoscere ai detenuti “una riduzione di pena per le condizioni di detenzione vissute durante la pandemia, senza distinzione tra reati ostativi e non ostativi”. Il garante poi invita gli agenti di polizia penitenziaria a sottoporsi al vaccino anti Covid, sostenendo: “i dati sono terribilmente allarmanti in tutta Italia e soprattutto in Campania, dove non si è arrivati neanche al 50% dei vaccinati”. Stesso invito è rivolto anche ai familiari dei detenuti, ai quali è chiesto di continuare a rispettare le misure di prevenzione del contagio. “Ciò che mi lascia preoccupato è che tra i detenuti positivi al Covid-19, la stragrande maggioranza di essi erano già stati vaccinati con doppia dose. Questo conclude - significa che il carcere, non è affatto un luogo sicuro, ma piuttosto è un luogo altamente a rischio”. Milano. Gli avvocati contro il Governo: “Basta coi detenuti fuori dalle aule dei processi” di Emanuele Imperiali agi.it, 28 agosto 2021 “È inaccettabile che con la proroga dello stato di emergenza si sia deciso che i reclusi non possono partecipare ai loro processi” spiega all’Agi il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano Vinicio Nardo. Col paradosso che chiunque senza green pass può entrare in Tribunale ma non i detenuti vaccinati. “Inaccettabile che ancora una volta si penalizzino i detenuti, una delle categorie più danneggiate dalla pandemia”. Il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano, Vinicio Nardo, inquadra così la scelta del Governo di prorogare l’impossibilità per chi sta in carcere di partecipare in aula ai processi. Col decreto legge di luglio che allunga lo stato d’emergenza fino al 31 dicembre si è deciso che continuino alcune limitazioni nel processo penale, tra cui quella che riguarda gli imputati reclusi. Con le vaccinazioni è solo una mortificazione dei diritti - “Come sempre - spiega in un’intervista all’Agi - i detenuti sono sempre gli ultimi di cui ci si preoccupa. All’inizio della pandemia come Ordine siamo stati i primi ad attivarci per proteggerli, ancora prima dei decreti emergenziali, chiedendo collegamenti da remoto dal carcere per le convalide e le direttissime e per i rapporti con familiari e avvocati, ma ora la situazione è cambiata”. Secondo Nardo, con la vaccinazione che riguarda la maggior parte della popolazione carceraria “non ha senso continuare a sacrificare i diritti dei detenuti che da un anno e mezzo hanno limitazioni sia umane che del diritto di difesa. Non solo hanno ‘subito’ i 13 morti nelle rivolte in carcere ma anche la diffamazione che ne è seguita perché in quei giorni la narrazione ufficiale era che i ribelli fossero stati sobillati dalla criminalità organizzata. È beffardo che non solo non siano stati tutelati come soggetti deboli dallo Stato ma addirittura calunniati perché si stavano ribellando per valide ragioni umane e non per un diktat criminale”. Questo atteggiamento “va collocato nell’ambito di una tendenza a svalutare l’attività giudiziaria che vediamo anche nelle riforme con la necessità di mettere i bastoni tra le ruote agli appelli in una prospettiva di efficienza della giustizia. Un contesto in cui sembrerebbe venire naturale dire ai detenuti di guardarsi il processo da uno schermo”. I limiti di una difesa senza il detenuto in aula Quali sono i limiti per un detenuto avvocato nel non essere presente in aula? “Anche con le aule attrezzate, il detenuto vede il suo processo attraverso un piccolo schermo e quindi c’è una chiara perdita di efficacia della partecipazione dal punto di vista difensivo, in più la possibilità di parlare con l’avvocato non è compatibile con la partecipazione a tutte le fasi del giudizio”. “Se poi sei in un’aula non attrezzata - argomenta Nardo - il detenuto appare con strumenti come teams che sono inadeguati di per sé perché fanno perdere del tutto la possibilità di avere uno scambio coi difensori”. Nardo intravvede il pericolo di andare “verso il modello di Gratteri che auspica il processo solo in video per risparmiare sulle scorte ai detenuti” “Ci sono discorsi già in atto, ora il Covid sta diventando un alibi che tende a stabilizzare questi deficit di garanzie. Ecco - è il suo appello - vorrei che da Milano partisse la richiesta di un ritorno alla normalità per i detenuti dopo che è stata la prima piazza ad attivarsi per la protezione del carcere dal pericolo del virus. Bisogna che si torni alla normalità”. Gli avvocati Mauro Straini ed Eugenio Losco, tra i primi ad avviare il dibattito nel Foro milanese, hanno fatto notate anche “il paradosso che chiunque può assistere a un processo senza green pass mentre il detenuto vaccinato non può farlo”. Napoli. I tempi (troppo) lenti della giustizia nell’area partenopea Corriere del Mezzogiorno, 28 agosto 2021 La giustizia grande malato d’Italia. Che al Sud è addirittura in rianimazione. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, la durata media di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio è di circa 788 giorni nei paesi aderenti, con un minimo di 368 in Svizzera e un massimo di quasi 8 anni in Italia. In Corte d’Appello a Napoli, i procedimenti penali pendenti a fine marzo 2021 erano più di 57.538: circa uno su tre è a rischio prescrizione perché relativo a reati risalenti a prima di fine 2009. Al Tribunale del capoluogo erano invece 50.434. Ai quali vanno aggiunti i 15.299 di Napoli Nord, i 4.780 di Nola, i 20.469 di Santa Maria Capua Vetere e i 9.219 di Torre Annunziata. Nel settore civile sono oltre 35mila in Corte d’Appello, quasi 71mila al tribunale di Napoli, dove nel primo trimestre dell’anno in corso ne sono stati definiti oltre 16.100 mentre ne sono stati iscritti a ruolo altri 13.500 circa. Senza considerare i circa 27.900 di Napoli Nord, gli oltre 23.700 di Nola, i poco meno di 36mila di Santa Maria Capua Vetere e i 16.600 di Torre Annunziata. Un fatto è certo, senza interventi immediati si rischia il collasso, perché la Procura produce più procedimenti di quelli che il Tribunale riesce a definire, il Tribunale più sentenze di quelle che in Corte d’Appello si riescono a smaltire e la Corte d’Appello più verdetti di quelli che può eseguire. In un’intervista all’Economia del Mezzogiorno, Elisabetta Garzo, Presidente del Tribunale di Napoli, denunziò che sono troppo pochi gli investimenti su strutture e informatizzazione e mancano gli addetti. Al Tribunale di Napoli servono 200 cancellieri, i posti scoperti nella pianta organica dei magistrati penali in appello sono 16 e a questi vanno aggiunti i circa 30 giudici che mancano in Tribunale tra i settori penale e civile. I maggiori ingolfamenti avvengono in Corte d’appello dove confluiscono i processi definiti in primo grado dinanzi ai sette Tribunali del distretto, tra cui uffici grandi come quelli di Napoli, Napoli Nord e Santa Maria Capua Vetere. Ad Aversa i magistrati e il personale amministrativo fanno sforzi enormi ma le carenze e le criticità sono evidenti, non solo mancano 11 magistrati, oltre 30 cancellieri, 15 funzionari, ma ci sono anche problemi logistici irrisolti. Insomma, un quadro davvero sconfortante, che si auspica ora possa migliorare con le risorse stanziate dal Pnrr e la riforma Cartabia. La differenziazione delle performance dei tribunali, con un netto divario Nord-Sud, come scrivono in una nota i professori Orlando Biele, Annamaria Nifo e Gaetano Vecchione, è evidenziata nell’ambito dell’Institutional Quality Index, che si occupa della giustizia civile, e analizza livello ed evoluzione recente degli indicatori nelle diverse aree nel periodo 2004-2019, sulla base di dati del Ministero della Giustizia, Unione Europea e Csm. In base allo studio, c’è un persistente divario tra i tribunali localizzati nel Nord, i cui tempi variano tra i 282 e i 341 giorni, quelli del Centro (383-440 giorni) e quelli del Mezzogiorno, che hanno tempi medi dei procedimenti ben maggiori (tra i 492 e i 674 giorni). Pur se recentemente al Sud la durata dei processi si è ridotta con un risparmio di tempi valutabile in oltre il 25%. I tribunali civili meridionali dove le cose vanno peggio sono Vibo Valentia, Caserta, Bari e Barletta-Andria-Trani. Ciò che lascia a desiderare è la capacità di smaltimento dell’arretrato. Mentre al Centro-Nord la performance migliora, nel Mezzogiorno si assiste a un graduale peggioramento. Non c’è dubbio che le peggiori prestazioni dei tribunali meridionali siano legate alla maggiore domanda di giustizia nelle regioni del Sud: nei 15 anni analizzati dagli studiosi, nel meridione ci sono stati in media 777 nuovi casi iscritti a ruolo ogni anno per 10mila abitanti, a fronte dei 541 del Nord. Il carico di lavoro dei giudici è più elevato al Nord, dove nel 2019 ogni magistrato ha operato su 741 nuovi fascicoli, di cui 500 del settore civile, a fronte di 639 al Sud, 450 nel civile. Monza. Carcere, una polveriera dimenticata di Marco Galvani Il Giorno, 28 agosto 2021 Paolo Piffer, operatore di una coop che lavora in via Sanquirico, dopo la maxi rissa tra detenuti: investire di più. “Se in carcere ci sono risse tra detenuti, aggressioni contro gli agenti, suicidi e manifestazioni di disagio è colpa di un sistema fallimentare che non rieduca. In una struttura su cui non si investe in modo oculato ed efficiente non è pensabile rieducare”. Dopo la maxi rissa tra oltre una decina di detenuti nella sezione 5 della casa circondariale di Monza, domenica scorsa, Paolo Piffer punta il dito contro “decenni di governi che hanno parlato di riforma, ma non è mai cambiato nulla”. Lui il carcere lo conosce bene. Lavora per una cooperativa che porta avanti progetti di reinserimento sociale e lavoratori di detenuti ed ex detenuti. Li conosce in cella e li accompagna quando tornano liberi. Forse il Covid ha appesantito l’insofferenza oltre le sbarre bloccando molte attività all’interno dell’istituto di via Sanquirico, ma “non si devono nascondere le difficoltà antiche del carcere dietro all’emergenza sanitaria”, chiarisce. In un luogo già “pieno di limiti, fatiche e contraddizioni”, il virus “non ha stravolto un granché”. Il vero problema, secondo Piffer, è la mancanza di una cultura alla rieducazione. Perché “siamo in un Paese che sul tema non ha né cultura né competenza. Restituire alla società persone più incattivite di prima è eticamente scorretto ed economicamente sconveniente”. E non è un problema di Monza. Anzi, con le risorse a disposizione si riescono ad avviare diverse attività, lavorative e di formazione, ma “coinvolgono poche decine di detenuti. Sono una goccia nel mare”. “Se il carcere fosse un’azienda, fallirebbe domattina perché non raggiunge il suo obiettivo, cioè quello di rieducare”. Qui “non si tratta di fare i buoni - continua -. La politica deve capire che investire nel carcere è il primo passo per una città più sicura”. E “finiamola con gli antagonismi tra agenti e detenuti. Sono la stessa faccia della stessa medaglia”. Che pagano anche gli effetti di una competenza divisa tra Comune, Regione e Ministero: “Il carcere è l’esempio del vizio italiano di scaricare la responsabilità su altri”. Oristano. Tensione nel carcere di Massama. I detenuti: “Condizioni di invivibilità” linkoristano.it, 28 agosto 2021 La situazione dell’Istituto penitenziario all’attenzione del ministro. I detenuti lamentano “condizioni di invivibilità”, mente i sindacati la carenza di organico. C’è tensione nel carcere di Massama, dove l’esasperazione è culminata con l’aggressione di un agente. Il gravissimo episodio è accaduto ieri sera, pare per dei motivi di carattere sanitario. Secondo quanto si è appreso, un detenuto di circa 40 anni, di origine campana, ha aggredito un poliziotto colpendolo alle spalle con un cazzotto fra capo e collo. Dopo una prima aggressione avvenuta nei pressi dell’infermeria, il detenuto è stato riaccompagnato nella sezione di appartenenza e, proprio nei pressi della stessa, si è voltato improvvisamente sferrando nuovamente un pugno al malcapitato agente che stava compiendo il proprio dovere. Fortunatamente il poliziotto non ha riportato gravi conseguenze, ma subire un pugno in quella parte del collo poteva causare danni irreversibili. Da tempo i sindacati lamentano la carenza dell’organico necessario per fronteggiare simili episodi che hanno visto coinvolti detenuti ad Alta Sicurezza e assicurare il raggiungimento dei fini istituzionali: sicurezza, disciplina e trattamento. Da parte loro i detenuti già nelle scorse settimane hanno manifestato disagi e insofferenza per le condizioni di vita nel penitenziario di Oristano. L’associazione Yairaiha Onlus ha raccolto le loro lamentele e portato la situazione all’attenzione della ministra della Giustizia, attraverso una lettera inviata anche al capo del Dap e al direttore della casa circondariale di Oristano. In particolare, denuncia la Onlus che dal 2006 si occupa della tutela dei diritti umani, in particolare di quelli delle persone private della libertà personale, i detenuti lamentano la gestione della vita intra-muraria. “La circolare sui ventilatori e sui frigoriferi nelle celle non viene applicata”, denuncia la Onlus, riportando le parole dei detenuti, “la circolare per l’apertura delle celle mattina e pomeriggio non viene applicata”. “I condizionatori sono presenti solo negli uffici e nelle sale colloquio con gli avvocati e magistrati”, aggiungono, “negli altri spazi, tra cui le sale di ricreazione in sezione, non c’è nessun condizionatore”. “Il telefono e il sistema computerizzato non funziona”, scrivono ancora dall’associazione, aggiungendo che i detenuti hanno problemi ogni volta che devono fare una telefonata “perché la scheda non viene riconosciuta”. Disagi anche per quanto riguarda i rapporti con il mondo esterno: “Chi ha sei colloqui al mese, tramutati in videochiamate”, denuncia la Onlus, “non li può effettuare perché deve fare quattro videochiamate di cui due di due ore, mentre tutti vorrebbero fare 6 videochiamate di 1 ora ciascuna”. Tra le lamentele dei detenuti anche quelle per la sala dove si può telefonare: “È priva di finestra o presa d’aria e bisogna telefonare con la porta chiusa, perché situata in luoghi di passaggio che impediscono la privacy”. “Le domandine per gli acquisti arrivano ogni tre/quattro mesi”, denunciano ancora dall’associazione Yairaiha Onlus. “Gli avvocati si possono telefonare fino alle ore 18 quando, spesso, sono ancora in tribunale. Al lungo elenco di disagi si aggiunge anche l’uso della palestra: “È consentita una volta a settimana ed è vietato usare il bagno”. E i pasti: “Nonostante le elevate temperature di questo periodo il vitto è composto prevalentemente da zuppe bollenti”. I detenuti lamentano anche l’assenza totale della direzione: “Qualsiasi lamentela rimane finalizzata a se stessa con l’agente di sezione”. Verona. Carcere, allarme per Sert e medici. “Nuovo personale già in arrivo” di Laura Tedesco Corriere di Verona, 28 agosto 2021 Le rassicurazioni di Girardi e Smacchia: nessuna interruzione. “All’interno del carcere di Montorio nessuna interruzione dei trattamenti per la lotta alle dipendenze e nuovo personale medico in arrivo già nei prossimi giorni”, assicura il direttore generale dell’Usl 9 Pietro Girardi. A 24 ore dall’allarme lanciato sul Corriere di Verona dalla Commissione Carcere della Camera penale di Verona dopo la visita effettuata a Ferragosto nel penitenziario con la direttrice Maria Grazia Bregoli, l’Usl Scaligera interviene immediatamente e respinge con fermezza paure e polemiche: “I servizi non sono stati bloccati precisa il dg Girardi. Si è verificato un problema d’organico ed è stato necessario provvedere per sostituire gli operatori, in ogni caso la situazione sta per risolversi coi nuovi arrivi che prenderanno servizio nei prossimi giorni”. In particolare, “riguardo alle segnalazioni di criticità pervenute da parte dell’Ufficio di Sorveglianza di Verona, l’Azienda Usl 9 Scaligera garantisce la massima attenzione al tema e, attraverso i servizi territoriali deputati, la piena collaborazione dovuta. Già la scorsa settimana i servizi competenti dell’Usl 9 hanno messo in atto strategie di intervento con carattere di urgenza per sostituire il personale medico in carenza con nuovi medici presenti negli elenchi di disponibilità aziendali e attivando un avviso urgente per titoli al fine di reperire figure educative idonee presso i Sert che possano essere di supporto al Servizio di Sanità penitenziaria - informa ancora l’Usl 9. La situazione segnalata è seguita direttamente dal Responsabile della Sanità Penitenziaria. L’Azienda, attraverso il servizio di gestione delle risorse umane, sta dedicando il massimo impegno per reperire con urgenza personale sanitario a supporto dell’Unità Operativa. Proprio in questi giorni sono stati contrattualizzati quattro medici per il carcere di Montorio”. Inoltre, il responsabile dell’UOC Dipendenze di Verona, dottor Camillo Smacchia, precisa che “nessuna interruzione dell’attività medico-assistenziale si è verificata all’interno del carcere per i detenuti tossicodipendenti. All’interno delle carceri è attivo un servizio medico e infermieristico 24 ore su 24, in capo alla Sanità Penitenziaria, rivolto a qualsiasi tipologia di detenuti che necessitano di cure mediche. In particolare, un medico specialista nell’ambito delle dipendenze patologiche si reca due giorni la settimana in carcere per fornire assistenza sanitaria dedicata a questa tipologia di utenza. Tutte le terapie necessarie, urgenti e di mantenimento, sono garantite e proseguono regolarmente, erogate dal personale infermieristico e controllate dallo stesso specialista”. Vaccinazioni e green pass, tra libertà e doveri di protezione di Gustavo Ghidini Corriere della Sera, 28 agosto 2021 Stupisce che anche commentatori non ascrivibili a ottuse frange fanatiche si siano stracciate le vesti per il vulnus alla “libertà” e alla “democrazia” che sarebbe inflitto dall’obbligo di vaccinazione e persino dalla condizionalità del green pass per accedere ad ambienti affollati e/o chiusi. Caro Direttore, non le pare che nel pubblico dibattito sulla campagna di vaccinazione, oggi per lo più concentrata sul green pass, troppo spesso si siano persi per strada tanto il buon senso quanto il senso del diritto? Rispetto al primo, stupisce che anche commentatori non ascrivibili a ottuse frange fanatiche si siano stracciate le vesti per il vulnus alla “libertà” e alla “democrazia” che sarebbe inflitto dall’obbligo di vaccinazione e persino dalla condizionalità del green pass per accedere ad ambienti affollati e/o chiusi? Ma vogliamo scherzare?! Quei supremi valori civili sono offesi da ben altro! Da cancellazioni e arbitrarie restrizioni del diritto di libera espressione, della libertà di stampa, di voto, di associazione, da vessatorie misure di controllo dei lavoratori, eccetera. Non certo da un paio di iniezioni di vaccini approvati, né da altre misure precauzionali che la stragrande parte della comunità scientifica internazionale addita come idonee a ridurre nettamente il rischio di contagiare se stessi e gli altri. Già, “gli altri”: la comunità rispetto alla quale - vengo all’evaporato senso del diritto - la Costituzione pone “doveri inderogabili di solidarietà… sociale” (art.2), e impegna la Repubblica a tutelare la salute “come fondamentale diritto dell’individuo e della collettività” (art 32.1). E come altrimenti può lo Stato assolvere a un tale impegno se non ponendo in campo tutti i mezzi indicati dalla scienza e dalle best practices internazionali (v. qui, ad esempio, l’energico orientamento della Amministrazione Biden)? E se è pur vero, come anche Maurizio Landini ricorda, che per introdurre l’obbligo di vaccinazione occorre una legge (art.32.2), è altrettanto certo che misure preventive del contagio, come appunto il green pass, possono ben essere introdotte, a fronte di un’emergenza collettiva, da provvedimenti assunti in sede, e per responsabilità, politica. Semmai, anzi, il green pass dovrebbe essere più ampiamente prescritto per accedere a luoghi affollati: come ad esempio i treni dei pendolari, sempre stipati, e che per sciagurata pressione politica - rivelatrice di quel “mai sopito plebeismo” sferzato da Leonardo Sciascia - sono stati sinora esclusi, in quanto “trasporto locale” (il virus viaggia notoriamente solo sulle lunghe distanze), da quella misura: viceversa applicabile ai Frecciarossa coi posti distanziati e a numero limitato. Conforta sia la convinzione che il Governo saprà insistere sulla via del rigore, sia la constatazione che i giovani stanno aderendo in massa alla vaccinazione. Da ultima, la speranza che sotto l’ombrellone di certi bains-à-penser, alcuni intellettuali ripensino alle loro sbandate (anche Omero talvolta si assopisce): magari rileggendo con attenzione le sacrosante considerazioni che anche sul Corriere ha espresso un gigante del diritto come Sabino Cassese. “Referendum eutanasia? Dopo anni di pandemia la gente vuole decidere” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 28 agosto 2021 Il costituzionalista Michele Ainis: “C’è voglia di riappropriarsi della decisione politica dopo decisioni molto invasive sulle nostre vite”. L’eutanasia “sarebbe solo un diritto in più” per i cittadini, non un obbligo cui sottoporre chiunque indiscriminatamente. Dunque, secondo il costituzionalista Michele Ainis, il referendum promosso dall’Associazione Luca Coscioni è uno strumento per che “restituisce al singolo la possibilità di vivere la propria vita finché è tale”. Professore, sul referendum la contrapposizione è già netta: da un lato i sostenitori del diritto alla vita, dall’altra i difensori del diritto alla scelta. Che idea si è fatto di questa partita? Il referendum obbliga in qualche modo a schierarsi su due trincee, è la natura del Sì o No che esalta le contrapposizioni per cui noi italiani abbiamo una sorta di vocazione: guelfi e ghibellini, juventini e milanisti e via dicendo. Però è anche vero che il luogo delle mediazioni, il Parlamento, non riesce a decidere sui temi etici. Dunque, ammesso che un referendum possa essere un male perché ti costringe a una scelta netta, è comunque un male minore rispetto alla non decisione. Quindi sui temi etici è corretto lasciare la palla ai cittadini? Penso proprio di sì. Tanto è vero che spesso i partiti su questi temi lasciano libertà di coscienza ai propri parlamentari per uscire dall’imbarazzo. Su certi argomenti bisogna essere liberi di decidere senza vincoli. I temi etici si prestano particolarmente al referendum, non dimentichiamo che il primo fu quello sul divorzio. Qualora vincessero i sì all’eutanasia, qualora cioè venisse abrogato l’articolo 579 del codice penale sull’omicidio del consenziente, come cambierebbe il Paese? Gli italiani avrebbero una libertà di scelta in più, da esercitare comunque con tutte le cautele del caso. D’altra parte il referendum non vuole abrogare completamente l’articolo 579, nei casi di minori, infermi di mente o qualcuno la cui volontà sia stata estorta l’articolo 579 rimane invariato. Mi sembra un buon punto di caduta per risolvere un conflitto ed evitare la tirannia dei valori. Eppure i detrattori del diritto all’eutanasia, esponenti del mondo cattolico e non solo, sostengono che una volta abrogato l’articolo 579 potrebbe chiedere di morire anche una persona semplicemente depressa… Ad oggi se una persona depressa decide di suicidarsi può farlo senza commettere alcun reato. Ricordiamoci che la norma in vigore affonda le proprie radici negli anni Trenta, quando non esistevano terapie intensive e il confine tra la vita e la morte era più netto. Oggi l’evoluzione delle cure e della medicina consentono di protrarre per un tempo molto lungo quella condizione di non vita e non morte. Dunque è come se l’eutanasia ci riportasse a una sorta di diritto di natura, lontano dall’artificio della tecnica. Si restituisce al singolo la possibilità di vivere la propria vita finché è tale. Si tratta dunque di un referendum contro l’accanimento terapeutico? Senz’altro. È una libertà in più che eserciterebbe il singolo, senza alcun obbligo. Qualcuno dice che basterebbe modificare l’articolo 580 sull’istigazione al suicidio, come dovrebbe fare il Parlamento su indicazione della Consulta, per evitare di arrivare all’introduzione dell’eutanasia…Sono questioni contigue ma diverse. In ogni caso sono passati tre anni dalla prima sentenza della Corte costituzionale che sollecitava il Parlamento a intervenire in merito, e uno o due da quando la Consulta è intervenuta dichiarando l’incostituzionalità parziale dell’artico 580 ma le Camere non sono ancora riuscite a produrre una legge. È la prova di un’impotenza del Parlamento. Perché il Parlamento resta immobile? Questa è una delle situazioni in cui si può misurare il distacco tra i partiti e i cittadini. Molti partiti hanno ancora paura di offendere la sensibilità dei cattolici e di perdere voti. Peccato che i cittadini, anche quelli cattolici, sono gli stessi che poi vanno di corsa ai banchetti per firmare il referendum. Non è una mancanza di coraggio, è miopia, incapacità di leggere la società italiana. Ma mi faccia aggiungere una cosa. Quando è iniziata la legislatura, gli apostoli del referendum erano i 5 Stelle, che avevano addirittura proposto di introdurre il referendum propositivo. Non c’è più traccia di quella spinta. A spingere sull’uso dello strumento sono rimasti solo i due partiti più antichi dell’arco parlamentare: i Radicali e la Lega, almeno per il referendum sulla giustizia. A proposito di referendum sulla giustizia, crede sia corretto che siano i cittadini a occuparsene? Perché no. I referendum intervengono solo su alcuni punti, sono un luogo di co-decisione non solo su temi etici ma anche su questioni istituzionali. Quindi è giusto responsabilizzare un cittadino su questioni tecniche e non etiche? Abbiamo avuto referendum sul nucleare e sulla procreazione assistita. Temi così tecnici da mettere in difficoltà persino gli addetti ai lavori. Eppure li abbiamo celebrati. Del resto, siamo certi che in Parlamento ci siano tutti questi scienziati in grado di legiferare su certe questioni? I banchetti organizzati dall’associazione Luca Coscioni hanno già portato a casa 750 mila firme. Come legge questo dato sulla partecipazione? È un successo dello strumento in sé. Nonostante questo referendum parli di vita e di morte in una fase particolare delle nostre vite, nel bel mezzo di una pandemia che avrebbe potuto provocare un rigetto degli italiani rispetto a questo tema, i cittadini sono andati a firmare. Perché ciascuno si identifica in un malato grave, ma anche perché c’è voglia di riappropriarsi della decisione politica. In questi ultimi due anni abbiamo subito, a causa dell’emergenza, decisioni molto invasive sulle nostre vite da parte dei governi che si sono succeduti, senza alcuna possibilità di poter co-determinare queste scelte. Credo ci sia in circolo una voglia di tornare a decidere qualcosa dopo un lungo tempo di imposizioni e di confisca di libertà. “Io, dipendente dall’alcol. La mia lezione ai giovani: non si smette quando si vuole” di Tiziana Pisati Corriere della Sera, 28 agosto 2021 Un 54enne di Firenze racconta il suo dramma della dipendenza dall’alcol. A soli 10 anni la prima sbronza. L’escalation lo ha portato alla violenza domestica. L’uscita dal tunnel con gli Alcolisti Anonimi e il centro d’aiuto per maltrattanti. È una strada in salita quella che sta percorrendo Tommaso M. per conquistarsi la serenità di una vita fatta a pezzi dall’alcol. A 10 anni la prima sbronza (“Tutta la notte a vomitare, dopo 3 giorni ero già daccapo”) e da lì un crescendo che in età adulta è degenerato in episodi di violenza: un copione drammatico che si ripete nei malati di alcolismo, in drastico aumento con il lockdown. Tre relazioni importanti e un matrimonio distrutto, incidenti stradali e infine, un anno fa, addirittura una condanna per percosse alla madre di suo figlio. Ricorda quei momenti terribili: “Ho toccato il fondo, non so se riuscirò mai a perdonarmelo. Ma ho finalmente capito che devo cambiare davvero. Avevo già provato a smettere partecipando ai gruppi degli Alcolisti Anonimi: sono stato 12 anni senza bere, recitavo a memoria i 12 passi, i nostri principi guida, sbandieravo come un pallone gonfiato il miracolo del mio recupero senza umiltà, senza empatia. Davo l’esempio con la bocca ma non con i fatti né col cuore. Infatti sono tornato rovinosamente a bere”. Il potere del gruppo - Tommaso ha così ripreso a frequentare gli Alcolisti Anonimi della sua città, Firenze, e da dieci mesi anche il Centro d’ascolto uomini maltrattanti. “Se oggi sono più sereno è perché ho accettato la mia impotenza di fronte all’alcol. Solo così, con onestà e coraggio, posso iniziare a vedere chi sono, scoprendo e correggendo i miei enormi difetti e la mia malattia emotiva. Per riuscirci ho bisogno di un potere superiore, del gruppo, di uno “sponsor”. Da solo rischio di non volermi vedere fino in fondo, di tralasciare, di auto-ingannarmi. La soluzione, un giorno alla volta, non è cambiare il carattere, ma le risposte agli eventi con una nuova prospettiva di sentire, agire, ascoltare”. Poi spiega: “Voglio donare ciò che ho ricevuto”. Cinquantaquattro anni, un buon lavoro, spesso testimonial negli incontri di prevenzione al SerD e con Alcolisti Anonimi, ha scelto di raccontarsi perché la sua esperienza possa far riflettere le persone che “stanno rovinando la loro vita e quella degli altri, perché non ammettono di essere alcoliste. La nostra è una malattia spirituale da cui non si guarisce, dobbiamo stare sempre in guardia con noi stessi. Ma non possiamo farlo da soli, abbiamo bisogno di aiuto. Si sbaglia a pensare: “Smetto quando voglio”. È l’errore di tanti giovani ed è a loro che mi rivolgo perché capiscano in tempo”. Tommaso proviene da una famiglia della buona borghesia fiorentina, “ma disfunzionale: mia madre totalmente presa dal lavoro, difficilissimi i rapporti con lei, la sua durezza nascondeva una fragilità impressionante. Io uguale a lei, in più angustiato da un profondo senso di solitudine. Vivevo in una bella casa con la mia ultima compagna, che se ne è andata dopo l’episodio di violenza. Ho perso tutto. Tendo a chiudermi, ho un carattere aggressivo da tenere a bada, soffro di un egocentrismo smisurato e mania di perfezionismo”. A dargli man forte non c’è solo il sostegno reciproco dei gruppi di auto-aiuto (“Altrimenti con il lockdown sarei impazzito”): a Firenze ce ne sono 9, in tutta la Toscana 22. È affiancato da uno sponsor, “una persona più avanti di me nei percorsi di recupero, in qualsiasi momento della giornata posso chiamarlo. Tutto questo mi ha aiutato a guardarmi dentro senza paura”. Opportunità di rinascita - E ora l’approdo al centro d’ascolto uomini maltrattanti: “Mi ci ha indirizzato la mia compagna. Non ho mai voluto farle del male, confrontandomi con gli altri, siamo in gruppi di 6-7 uomini problematici seguiti da psicologi, ho capito tante cose. Per esempio che violenza è anche farle pesare situazioni di dipendenza economica, schernirla. Non c’è solo la violenza fisica. Guardarmi dentro è la mia opportunità di rinascita”. La disperazione del mondo crea la dipendenza da droga: risaliamo ai colpevoli di Roberto Saviano Corriere della Sera, 28 agosto 2021 Eroina, quando ero ragazzino, era una parola impronunciabile. Eroina, la robba, era dappertutto. Quando mia madre all’alba andava all’Università di Napoli dove insegnava, in un angolo del parcheggio accanto al cortile delle statue c’era sempre un ragazzo (più raramente una ragazza) che si stava iniettando eroina. Era una scena ormai ordinaria, normale, trovare negli angoli nascosti qualcuno che si stava facendo. A scuola quando mi accompagnava mia zia Silvana c’erano lungo il viale centinaia di siringhe, e io le guardavo tutte, rallentavo il passo, cercavo di intravedere quelle con dentro ancora un po’ di sangue. L’epidemia di eroina ha devastato il mondo occidentale negli Anni 70/80. È una memoria che tutti hanno e non importa che non ci si faccia mai riferimento: è elemento costitutivo delle nostre vite. Poi qualcosa cambia. Culturalmente l’eroina viene associata all’Hiv, alla disperazione da strada, l’eroina perde di fascino anche tra chi cerca paradisi artificiali. L’ago è percepito come elemento di morte e non di piacere e quindi la coca, e le droghe che si fumano (anche l’eroina, per essere più venduta inizia ad essere prodotta dai trafficanti per le pipette...) vincono sul mercato. Le mafie che investivano tutto sugli eroinomani, portatori di danaro continuo, iniziano a investire sulla cocaina: altra droga, altre strade. Ma l’epidemia di eroina non è mai passata. Semplicemente si è spostata in altre parti del mondo e - nel nostro di mondo - si è trasformata, rendendosi meno visibile. I bambini nelle piantagioni di oppio - I bambini sono da sempre usati nel raccolto dei papaveri. Non c’è una ragione tecnica specifica come invece per il cotone, dove le mani piccole velocizzavano la possibilità di strapparlo dalla pianta. Bambini perché possono pagarli poco, spesso solo con il cibo. L’Afghanistan è il maggior produttore di eroina del mondo. Il papavero da oppio è un fiore bellissimo, sa creare infinite distese cromatiche, i petali che preferisco sono lillà. Ma che siano bianchi o rossastri, i petali non servono ai trafficanti. Il papavero ha una grossa capsula su cui va praticato un taglio trasversale quando non è ancora maturata per far colare il latte bianco dal quale, dopo un processo di essiccazione, si ricava l’oppio. Perché si arriva al punto di “farsi”? Perché la vita è una merda. L’unica risposta è questa. Perché il mercato delle droghe e degli antidepressivi è un mercato talmente ricco da essere paragonato solo a quello del petrolio? Perché vivere è disperante, non può esistere una politica antidroga che non sia una politica in grado di sollevare la vita umana da competizione, conflitto, infelicità. Le droghe esistono da quando esiste l’uomo, certo, ma le epidemie di dipendenza esistono sempre in presenza di una disperazione sociale. Il consumo di eroina è, insieme all’alcol, la porta in cui entrare per sospendersi dal vivere. Descrivere come vizio un consumo lo ammanta di colpa morale e permette di prescindere dalle responsabilità sociali. Trasformare una sostanza in un’epidemia - Per intenderci: se dico che chi si droga è uno che ricerca il piacere vizioso o chi beve è un cialtrone posso star dicendo il vero sul singolo individuo, ma perdo l’occasione di capire quali sono i meccanismi che portano all’uso e quali le colpe politiche. Le dipendenze non sono mai vizi, sono sempre veleni. Ossia risposte sbagliate a dolori esistenti, a mancanze profonde, a disagi mal gestiti. L’eroina continua, in Egitto, in Iran, nelle periferie americane, inglesi, italiane e nell’Afghanistan stesso ad essere la risposta alla disoccupazione, al disagio, all’inferno dei regimi, alla solitudine delle democrazie. Farmaci oppiacei sono sempre di più usati non come antidolorifici per il corpo ma per l’anima. Cosa si prova “facendosi” di eroina? In questo ci aiuta William S. Burroughs, il cantore supremo delle droghe: la sensazione stessa dell’orgasmo moltiplicata per 30 minuti. Poi di quel consumo a lungo andare ci muori, la dipendenza ti porta a non riuscire nemmeno a trattenere le feci, ti trasformi. Tutto questo lo sappiamo. Quello che non sappiamo è che trasformare una sostanza in un’epidemia (parola che mai come in questo momento conosciamo bene) è la disperazione. Non riconoscerla è un delitto. La guerra afghana si alimenta dei soldi dell’eroina. In una sola parola: della disperazione del mondo. Il diritto di non morire, l’unica speranza di un popolo di Domenico Quirico La Stampa, 28 agosto 2021 Per afghani, tigrini, siriani, l’Occidente è salvezza ma anche un salto nel vuoto. Le nostre ricette di felicità infallibile si scontrano con valori inconciliabili. Era un migrante un po’ anziano, i capelli corti ricci e lanosi. Era lì fermo a guardare gli autobus che partivano, ma non sembrava provasse desiderio di salirvi. Li seguiva con gli occhi finché scomparivano in lontananza come un cane che fiuta l’aria dopo la partenza del padrone. Sembrava felice, scandalosamente felice. Gli chiesi perché. Non mi rispose che aveva ricevuto il permesso di soggiorno o il lasciapassare del rifugiato, che aveva trovato un lavoro o che la famiglia lo aveva finalmente raggiunto in Italia. Perché nulla di questo era vero. Era bloccato in un centro di accoglienza, non poteva andare da nessuna parte, non poteva lavorare se non illegalmente. Era solo. Eppure… Allora perché sei felice? “Perché qui in Italia sono vivo, nessuno mi ucciderà”. Mi sono ricordato di lui guardando le immagini degli afghani massacrati mentre tentavano di salire sugli ultimi aerei da Kabul prima che il cancello si chiuda. E di quelli che fuori dall’aeroporto attendono ancora fino all’ultimo, forse già sapendolo, invano. Li ha divisi un dettaglio come i destini di uomini in altri innumerevoli posti del mondo che ho attraversato: un attimo di ritardo o di esitazione prima di fuggire, un oggetto dimenticato, un posto di blocco più esigente, una strada sbagliata, vivere in un quartiere o in una città più lontana, il telefonino scarico a cui non sono arrivate le indispensabili indicazioni dei soccorritori. E così sono rimasti sotto la perentorietà del Corano o stanno volando verso una nuova vita nei fortunati paesi dei diritti. O sono morti. Per i sopravvissuti, in modo diverso, la lontananza è diventata la condizione umana. Per quelli che partono l’Afghanistan, ormai lontanissimo e irraggiungibile, continuerà a esistere, chiederà continuamente di essere risuscitato nella memoria, li tormenterà, dividerà la loro vita in un prima e in un dopo, li assalirà come un esigente fantasma. Ma anche per i dimenticati del Grande Salvataggio, anche se non hanno vissuto lo sbarco in qualche terra straniera che dà loro asilo, c’è stato il salto nel vuoto, l’affrontare l’ignoto. Sono rimasti nel loro paese ma un paese che non riconoscono più perché ne avevano scelto, illudendosi per vent’anni, un altro in cui taleban sharia virtù obbligatoria non esistevano se non come minaccia. Fuggiaschi ancor più crudelmente quotidiani, soffriranno da soli, senza testimoni. Per rammentare l’altro Afghanistan, come quelli che vivono a Roma o a Detroit, dovranno chiedere la collaborazione della memoria, e viverne una estraneità piena di stupori, una lontananza religiosa. Gli uni e gli altri si raccoglieranno la sera per parlare del passato come fanno i vecchi. I liberi ad alta voce, gli altri sussurrando. Per loro l’Occidente chiede esige assicura ricette di felicità infallibile. Ma non sa, proiettando la nostra ansia di garantire, giustamente, sempre nuovi e più sofisticati diritti, che gli afghani, e i somali i siriani i nigeriani i tigrini e tutte le alte scaglie del popolo dei fuggiaschi dalle tragedie del millennio, sono ancora fermi alla prima casella della mirabile dichiarazione: il diritto di sopravvivere. E di quello si accontenterebbero come di un definitivo miracolo. Noi dobbiamo ridurre ogni evento che ha qualità di storia mondiale alla dimensione occidentale per sentirne la grandezza e valutarne gli effetti. Ma l’unificazione dei modi di vita ai nostri non è un problema davvero attuale, la omogeneizzazione dei modi di morte al contrario è già silenziosamente acquisita. Tortura governativa o poliziesca, fanatismo etnico o jihadista, massacro a colpi di machete di kamikaze o di missile, spirito di tribù o di fazione, lotta al terrorismo o carestia prodotta o accudita: l’uniformazione accelerata delle procedure di massacro è la sola evidenza planetaria. E invece, ancora una volta per l’Afghanistan, ci chiediamo stupefatti come questa tragedia sia maturata così “improvvisamente”. Ma ogni giorno in quei luoghi gli uomini lottano non per poter votare senza brogli o ottenere diritti sindacali o ospedali e scuole decenti, semplicemente per restare vivi fino alla sera. Sono i sudditi, ahimè innumerevoli, del non diritto. Nel mondo della salute, dei tribunali, delle leggi tutto funziona come se la morte violenta non esistesse, nessuno ne tiene conto, la quotidianità l’abolisce. I soldati che sono uccisi svolgendo il loro lavoro diventano eroi. In luoghi come l’Afghanistan delle guerre infinite la morte, non come transito ma come grande bocca vuota, permea tutto ciò che facciamo. Non bisogna dimenticarlo quando ci si china su quelli che sono partiti e soprattutto su quelli, vivi e morti, che abbiamo lasciato indietro. Se ci emoziona solo la morte di Cecilia Strada La Stampa, 28 agosto 2021 Cartolina dalla rada di Augusta, dalla nave di soccorso “ResQ People” che sta per finire la sua quarantena dopo aver sbarcato 166 naufraghi soccorsi nel Mediterraneo centrale. Cinque minuti di pausa, un social network: “Cecilia, vuoi rivedere i tuoi ricordi?”. E così mi ricordo che esattamente dieci anni fa, oggi, condividevo la notizia di un attentato al mercato di Lashkar-gah, provincia di Helmand, Afghanistan. Venticinque feriti arrivati in ospedale, tre morti prima di entrare in sala operatoria, compresa una bambina di pochi anni (sei-sette? Non lo sapevamo: era una bambina che chiedeva l’elemosina davanti alla banca). Invece cinque anni fa, oggi, ero a Kabul e pubblicavo la foto della lavagna del pronto soccorso del Centro per feriti di guerra: 102 letti occupati, 18 liberi. Un dettaglio di quella lavagna: “Lavanderia 0”. E perché mai sulla lavagna di un pronto soccorso ci dovrebbe essere uno spazio dedicato alla lavanderia? Perché quando i feriti sono troppi, e non ci stanno più da nessuna parte, bisogna usare anche quella stanza per metterci i meno gravi. Quante volte è successo in questi anni in Afghanistan, nel solo ospedale di Emergency a Kabul? Tante, troppe. Quante stragi di civili in tutto il Paese, quanti morti negli attentati talebani, quanti nei bombardamenti dei soldati della coalizione internazionale? Troppi. E quanti titoli sui giornali italiani? Troppo pochi. Quanti post commossi sui social network? Idem. Eppure erano le stesse persone, le stesse famiglie che oggi si accalcano all’aeroporto. Oggi li vorremmo salvare tutti, ed è giusto così - perché non siamo stati capaci di vederli anche ieri? Ecco, forse l’Afghanistan dovrebbe aiutarci a capire questo: che è meglio occuparsi dei vivi finché son vivi. Finché hanno ancora una possibilità di salvezza, prima che siano completamente fregati. Un po’ come succede con le immagini che arrivano dal mare, quel Mediterraneo che è diventata la frontiera più letale al mondo per donne, uomini e bambini che cercano di attraversarla. Abbiamo tutti - o quasi - pianto sulla foto di Alan Kurdi a faccia in giù nella sabbia. Abbiamo detto “Mai più”. È giusto, è umano provare dolore e pietà per un bambino morto in mare. Perché non riusciamo a provare la stessa emozione per quei bambini che sono ancora vivi, in mezzo al mare, che saranno fra le onde domani o la prossima settimana? E soprattutto, perché non riusciamo a tradurre l’emozione in azione, quando siamo ancora in tempo a cambiare le cose? Quando c’è ancora qualcuno da salvare? Le risposte non le ho, sono solo piena di domande. E un’altra suona così: ci rendiamo conto che le persone che cercano di scappare dall’Afghanistan hanno diritto a farlo con un visto, su un sedile di un aereo e non attaccati alla carlinga? Se non usciranno su un aereo li ritroveremo da un’altra parte: in mezzo a un qualche mare, per esempio. Vivi o morti. Sulla rotta balcanica, con i piedi piagati. E come li guarderemo, allora: sempre con gli occhi della pietà e della solidarietà, o come i clandestini da lasciare annegare, congelare, sparire nel nulla? E quelli che provano ad aiutarli, tirandoli fuori dall’acqua o medicando ferite in una piazza di Trieste, come guarderemo loro? Con gli occhi con cui oggi guardiamo Tommaso Claudi sul muro dell’aeroporto di Kabul (tashakor, tashakor dal profondo del mio cuore) o di nuovo come se fossero pirati e criminali? L’Afghanistan oggi è in fiamme. E sono le stesse persone che morivano ieri, nel nostro silenzio, e che moriranno domani, in tutti gli Afghanistan del mondo. Che cosa vogliamo fare con gli afghani? La risposta che ci daremo sarà anche la risposta a un’altra domanda: chi vogliamo essere noi? Afghanistan. L’allarme delle Ong: “Ospedali pieni, mancano le medicine” di Natasha Caragnano Corriere della Sera, 28 agosto 2021 Gli aggiornamenti dal campo di Medici senza frontiere ed Emergency. L’ong premiata con il Nobel avverte: “Nei reparti pediatrici due pazienti per letto, non c’è spazio per tutti”. A Kabul, nel centro fondato da Gino Strada ci sono solo 4 posti liberi dopo l’attentanto all’aeroporto. Dietro alle esplosioni e alle migliaia di persone in cerca di fuga all’aeroporto di Kabul c’è l’emergenza umanitaria. Una realtà che l’Afghanistan conosce da anni ma che in questi mesi con l’avanzata dei talebani è aumentata: e che nei prossimi mesi con il freddo alle porte, l’economia bloccata e gli aiuti umanitari fermi non potrà che peggiorare. A lanciare l’allarme sono due delle Ong che da più tempo lavorano nel Paese: Medici senza frontiere ed Emergency. “Il nostro ospedale è pieno. Abbiamo più di 300 persone già in cura. Nel reparto pediatrico ci sono già due pazienti per letto, ma facciamo ancora fatica a trovare spazio per tutti”, racconta un dottore di Medici senza frontiere dall’ospedale di Lashkar Gah in una nota diffusa dall’organizzazione. Nel distretto a sud dell’Afghanistan, l’organizzazione riceve il gran numero di pazienti nell’ospedale provinciale di Boost, tutti gli altri centri sono chiusi per mancanza di personale o farmaci. In Afghanistan, Msf continua a lavorare con progetti attivi a Herat, Kandahar, Khost, Kunduz e Lashkar Gah. “Siamo rimasti sempre in ospedale per curare i nostri pazienti. Il 21 agosto abbiamo curato 862 persone nel pronto soccorso, penso sia il numero più alto mai registrato. Alcuni arrivano in condizioni critiche perché hanno aspettato la fine dei combattimenti”, racconta il medico a Lashkar Gah, di cui non è stato diffuso il nome per motivi di sicurezza. Dal 15 al 21 agosto, le persone visitate nel pronto soccorso sono state 3.698 e i ricoveri 415. Circa 50 bambini al giorno ricevono cure nel reparto di pediatria, mentre nel centro nutrizionale terapeutico i ricoverati sono passati da 25 a 77 in una sola settimana. “Cerchiamo di lasciare le persone il maggior tempo possibile nel pronto soccorso, mentre cerchiamo di trovare spazio”, spiega il dottore: ma trovarlo per tutti diventa sempre più faticoso. A Khost, Medici senza frontiere gestisce un ospedale materno-infantile e supporta otto centri sanitari nelle aree rurali. Tra il 15 e il 22 agosto, nell’ospedale sono state ricoverate 402 donne incinte. Trentatré i neonati curati nel reparto neonatale dell’ospedale. Sebbene la città non abbia subito i pesanti combattimenti visti in altri luoghi, i medici dell’organizzazione stanno riscontrando difficoltà nel reperire i farmaci. “Le persone stanno affrontando tanta incertezza, specialmente le donne incinte. In precedenza, l’ospedale si concentrava sulla fornitura di cure mediche alle donne in gravidanza con complicazioni ostetriche. Adesso per aumentare l’accesso all’assistenza sanitaria della comunità, abbiamo ampliato i nostri criteri di ammissione e forniamo assistenza a qualsiasi donna incinta per aiutarla a partorire”, racconta Msf. Nel centro nutrizionale di Herat sono stati ammessi dal 16 al 22 agosto 64 bambini malnutriti, il 36% in più rispetto alla settima precedente. Nello stesso periodo la clinica di Kahdestan ha effettuato 1.725 visite mediche e offerto 128 consulenze prenatali. In un Paese con un sistema sanitario precario, la violenza sta aggravando le difficoltà di accesso delle persone alle cure mediche. A Kandahar, seconda città dell’Afghanistan, Medici senza frontiere gestisce un progetto per pazienti con tubercolosi resistente ai farmaci. Durante gli scontri lo staff ha dovuto offrire consultazioni a distanza e scorte di riserva di farmaci per evitare alle persone di attraversare la linea del fronte. In prima fila c’è anche Emergency. Dopo l’attentato all’aeroporto di Kabul avvenuto ieri pomeriggio, 16 persone sono arrivate morte, tra cui bambini molto piccoli, al centro gestito dall’ong fondata da Gino Strada, che proprio della presenza in Afghanistan ha fatto da anni una delle sue bandiere. “I feriti sono stati 62, di cui 36 ricoverati per ricevere cure chirurgiche importanti. Altri 10 medicati e poi dimessi”, ha detto il coordinatore medico Alberto Zanin durante un briefing su Zoom. Molte ferite sono state causate dall’onda d’urto dell’esplosione o da schegge metalliche. “In questo momento nell’ospedale ci sono solo 4 posti liberi, anche dopo l’allargamento da 100 a 115 fatto ieri in condizioni di emergenza”, Zanin racconta che nei feriti assistiti “ho notato gli sguardi estremamente assenti, come se avessero visto la cosa più brutta del mondo, erano investiti dal terrore più profondo”. Afghanistan. Via da Kabul, l’ultimo volo per l’Italia. Talebani in aeroporto di Giuliano Battiston Il Manifesto, 28 agosto 2021 Sale a 170 il numero delle vittime causate dall’attentato dell’Isis. Per i 13 soldati statunitensi la Casa bianca promette “vendetta”. Il bilancio delle vittime civili afghane causate dall’attentato di due giorni fa all’aeroporto di Kabul si fa pesantissimo: almeno 175 secondo le ultime stime. A cui si aggiungono i 13 soldati statunitensi per i quali in un discorso alla nazione il presidente degli Usa ha promesso vendetta. “Non perdoneremo, non dimenticheremo. Vi colpiremo ovunque voi siate”, ha dichiarato Biden. Il quale chiude il ventennio della guerra afghana - lanciata nel 2001 come rappresaglia agli attentati dell’11 settembre alle Torri gemelle e al Pentagono - usando parole simili a quelle con cui il predecessore George W. Bush 20 anni fa inaugurava la war on terror. Questa volta la vendetta è contro lo Stato islamico, gruppo terroristico che allora non esisteva e che oggi rivendica una strage dagli obiettivi molteplici. Il primo sono gli Stati uniti: colpiti nel momento di massima debolezza, vulnerabilità ed esposizione, a poche ore dal completamento del ritiro concordato nell’accordo di Doha del febbraio 2020 voluto da Donald Trump e confermato nella sostanza da Joe Biden. Ieri il presidente Usa ha rivendicato la scelta: non c’erano alternative al ritiro. L’unica, sostiene, era ricominciare “una guerra già vinta” inviando migliaia di nuovi soldati. Curiosa visione delle cose, quella di dichiarare vittoria mentre il Paese è in mano ai Talebani, ieri nemici, poi interlocutori diplomatici, infine alleati contro lo Stato islamico e per la sicurezza dell’aeroporto. Dove ieri sera sono entrati mezzi e soldati delle truppe speciali dei turbanti neri, le ormai famigerate Unità Badri 313: ci prendiamo anche l’ultimo territorio rimasto fuori dal nostro controllo, facevano sapere sui loro canali social. Quando gli viene chiesto conto della debacle in corso, del perché “l’uscita onorevole” dal pantano afghano si sia rilevata una catastrofe, Biden fa ricorso ai più vetusti cliché orientalisti, intrisi di razzismo: l’Afghanistan non è mai stato un Paese unito, ma un insieme di tribù belligeranti, ha sostenuto. La missione civilizzatrice dell’uomo bianco, questo il sottinteso, non può riuscire in una terra simile. Nonostante l’eroismo dei “nostri soldati, i più coraggiosi sulla terra, la spina dorsale degli Stati uniti”. Spezzata dai Talebani, oggi al potere, ma colpiti anche loro dall’attentato della branca locale dello Stato islamico, la “Provincia del Khorasan”. I Talebani sono il secondo obiettivo di un attentato che, fa sapere Washington, è stato causato da un solo attentatore suicida. L’unica esplosione sarebbe quella avvenuta all’Abbey Gate, uno dei cancelli d’ingresso all’aeroporto “Hamid Karzai” e il collo di bottiglia dove ancora ieri, nonostante la strage del giorno precedente, centinaia di persone si sono radunate in cerca di una via di fuga. Il Dipartimento di Stato Usa fa sapere che il ponte aereo continua, anche se l’ingresso dei Talebani all’aeroporto potrebbe segnare novità significative. Non è un caso che abbia lasciato Kabul anche Stefano Pontecorvo, già ambasciatore italiano in Pakistan e ora rappresentante civile della Nato in Afghanistan, tra le persone che hanno gestito il processo di evacuazione. Dalla capitale afghana ieri è partito anche l’ultimo C-130J con a bordo i militari italiani. Game over. Partita finita. Perlomeno per le truppe straniere. Se ne apre però un’altra. I Talebani, che appena arrivati al potere hanno rivendicato il monopolio della forza, rassicurato la popolazione sulla loro capacità di proteggerli, di dar loro sicurezza, di mettere fine a un conflitto che ogni anno ha mietuto almeno 3.000 vittime civili, provocate anche da loro, sono in difficoltà. I membri della Commissione cultura sostengono che quanti partono sono migranti economici, in cerca di migliori prospettive di vita. Che nessuno teme i Talebani. Spostando lo sguardo altrove, al confine con il Pakistan, la scena è simile. La spinta migratoria è enorme. Tra le 4.000 e le 8.000 persone attraversano ogni giorno il confine di Spin Boldak-Chaman, accolti con riluttanza da Islamabad, che vuole relegarli nei campi profughi a ridosso della Durand Line e che continua a giocare una partita oscura. L’establishment militare coltiva rapporti sia con la Provincia del Khorasan, sia con gli Haqqani, la rete più oltranzista dei Talebani, che negli anni passati ha stretto accordi temporanei con lo Stato islamico, poi ripudiati. E che oggi ha la responsabilità della sicurezza a Kabul. Un movimento che promette legge, ordine, disciplina, fine della guerra, i Talebani devono affrontare anche altri problemi rispetto alla sfida dello Stato islamico. Meno visibili, ma altrettanto rilevanti. Da gruppo armato e movimento di guerriglia devono farsi partito di governo e istituzioni. Devono mandare avanti un Paese da 35 milioni di abitanti in profonda crisi economica e drammatica crisi umanitaria. Dovranno presto fare i conti, letteralmente. Per ora si limitano a muovere la macchina della propaganda. Il governo - non ancora formalmente annunciato - funziona, fanno sapere. Siamo in grado di governare. Anche con la partecipazione delle donne. Ieri hanno annunciato che tutto il personale femminile del ministero della Salute può tornare al lavoro. Mentre la delegazione della Commissione per l’Istruzione ha tenuto “un incontro di rassicurazione con i funzionari ministeriali”. Ieri sera, troppo tardi per darne conto qui, era previsto un importante discorso alla nazione del vice capo della Commissione politica, Sher Mohammad Abbas Stanikzai, tra gli artefici dell’accordo di Doha che ha portato al ritiro delle truppe straniere. Forse anticipato rispetto alla data scelta da Biden, il 31 agosto. Stati Uniti. Sarà liberato dopo 53 anni l’assassino di Robert Kennedy Corriere della Sera, 28 agosto 2021 Douglas Kennedy: “Ora sono grato perché vedo un essere umano che merita compassione”. Dopo 53 anni di carcere sarà liberato Sirhan Sirhan, condannato all’ergastolo per aver assassinato di Robert Kennedy, candidato alle presidenziali del 1968, ucciso a colpi di pistola all’Hotel Ambassador a Los Angeles, poco dopo aver tenuto un discorso in seguito alla sua vittoria alle importanti primarie democratiche in California. A spingere per la scarcerazione si erano schierati nei giorni scorsi personaggi eccellenti. I due figli del senatore democratico, Robert F. Kennedy Jr. e Douglas Kennedy, si sono espressi a favore della scarcerazione di Shirhan durante la sua sedicesima udienza presso la commissione per la libertà vigilata. Sono sopraffatto dall’essere stato in grado di vedere Shiran faccia a faccia”, ha dichiarato Douglas Kennedy, “credo di aver vissuto la mia vita nella paura di lui e del suo nome, in un modo o nell’altro. E sono grato oggi di vederlo come un essere umano meritevole di compassione e amore”. Da rifugiato palestinese cristiano, Sirhan aveva maturato odio nei confronti di Kennedy per il suo sostegno agli aiuti militari statunitensi per Israele e il suo atto (otto pallottole, che ferirono altre cinque persone), gli costò la condanna a morte il 17 aprile 1969, sentenza commutata in ergastolo nel 1972, dopo che la Corte Suprema della California nel 1972 abolì temporaneamente la pena capitale. La decisione del rilascio sarà ora riesaminata nei prossimi 90 giorni dal Parole Board della California prima che diventi definitiva. Poi il governato dello stato, Gavin Newsom, avrà 30 giorni di tempo per confermare il rilascio del 77enne Sirhan, respingerlo o rinviare la decisione al board. Era la sedicesima volta che Sirhan compariva davanti alla commissione californiana, la prima però in cui la procura non si era presentata a sostenere la necessità che il condannato restasse dietro le sbarre. Cina. Organi prelevati ai detenuti, l’orrore nelle galere di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 28 agosto 2021 L’espianto forzato di organi di detenuti appartenenti a minoranze etniche, linguistiche e religiose continua in Cina al punto da aver indotto sette Special Rapporteurs (SR) - tra loro Nils Melzer, SR sulla tortura - e il gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite, a intervenire pubblicamente. Lo hanno fatto dopo aver ricevuto informazioni credibili su come questa tipologia di detenuti possa essere sottoposta con la forza a esami del sangue e degli organi, con ecografie o radiografie. I risultati di questi esami sono poi registrati in una banca dati degli organi che ne facilita l’assegnazione. Gli organi espiantati sono principalmente cuori, reni, fegati, cornee e, meno comunemente, parti di fegato. Alle famiglie dei detenuti e dei prigionieri deceduti non è consentito reclamarne i corpi. “Nonostante il graduale sviluppo di un sistema di donazione volontaria di organi, continuano a emergere informazioni su gravi violazioni dei diritti umani nell’approvvigionamento di organi per i trapianti in Cina”, hanno alla fine affermato gli esperti delle Nazioni Unite che hanno auspicato un’indagine indipendente su quanto sta accadendo. La conclusione a cui giungono è in sintonia con quella a cui è pervenuto il Tribunale sull’espianto forzato di organi da prigionieri di coscienza in Cina, istituito in Inghilterra nel 2018 per accertare l’attendibilità delle rassicurazioni con cui, dal 2015, la Cina sostiene di aver bandito il prelievo degli organi dai condannati. Questa giuria, presieduta da Sir Geoffrey Nice, già procuratore del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, ha accertato che vengono condotti sistematicamente esami medici per identificare i prigionieri appartenenti al Falun Gong - un movimento spirituale che si ispira al buddhismo e a tecniche tradizionali di meditazione che il regime cinese vuole annientare - e gli uiguri. È altresì provato che vengono prelevati organi senza la constatazione formale della morte cerebrale e su prigionieri ancora in vita del Falun Gong. Inoltre la “tortura brutale e disumanizzante” viene praticata abitualmente su questi gruppi, con stupri e violenze sessuali. Per il Tribunale si tratta di crimini contro l’umanità e nelle sue conclusioni ha richiamato i Governi e ogni privato cittadino, attivisti e politici di ogni sorta a “fare ciò che ritengano sia il loro dovere rispetto a qualsiasi chiara malvagità che emerga dalla constatazione che l’espianto di organi sia avvenuto o stia ancora avvenendo nella Repubblica Popolare Cinese (RPC)… Un’azione tragicamente priva di controllo ha fatto sì che molte persone morissero in modo orribile e senza alcuna necessità al servizio di obiettivi che gli eredi dell’attuale Rpc potrebbero riconoscere come assolutamente non necessari per il benessere e la crescita dello Stato”. In Cina l’espianto forzato di organi dai prigionieri è permesso dal 1984. Le Nazioni Unite hanno già affrontato la questione con il governo cinese nel 2006 e nel 2007. Si sono però sempre trovate di fronte a risposte evasive sulle fonti di provenienza degli organi e sul funzionamento dell’intero settore degli espianti e dei trapianti. Sta di fatto che grazie anche a campagne internazionali, la Cina dal 2010 si è impegnata a introdurre un sistema di approvvigionamento di organi su base volontaria. Il che ha significato passare da una fornitura carceraria a una ospedaliera di donatori volontari dichiarati morti. Funzionari cinesi hanno annunciato che dal 1° gennaio 2015 i donatori ospedalieri sarebbero stati l’unica fonte di organi. Eppure se si considera credibile che ogni anno sono stati effettuati fra i 60 e i 90mila interventi di trapianto, e che il numero ufficiale di donatori disponibili nel 2017 ammontava a 5.146, è lecito concludere che devono esistere una o più altre fonti di organi e cioè che deve esserci stato un gruppo di donatori non identificati. In questa macchina infernale sono coinvolti sanitari, medici, anestesisti chirurghi e infermieri. Tant’è che tra le organizzazioni più attive vi è quella dei Medici contro il prelievo forzato degli organi (Dafoh) che diffonde studi, rapporti e informazioni su questa immane tragedia che si consuma in un Paese dove il divorzio tra scienza e coscienza è prassi consolidata. Rabelais diceva che la scienza senza coscienza non è che la rovina dell’anima. Per salvare l’anima di un Paese come la Cina, e del mondo, è della coscienza allora che dobbiamo avere cura. I principi di compassione, verità e tolleranza praticati dal Falun Gong e violati dal regime cinese, ci vengono in soccorso per salvare con la Cina anche noi.