Cambiare il sistema detentivo con idee nuove di Federica Brioschi Left, 27 agosto 2021 I casi di violenza da parte della polizia penitenziaria, il sovraffollamento, la carenza di formazione e di lavoro. L’associazione Antigone fotografa le condizioni dei detenuti e in un documento elabora precise proposte di riforma del regolamento carcerario. I filmati delle telecamere di sorveglianza dell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere hanno mostrato uno spaccato violento del nostro sistema penitenziario. Eppure non è l’unico caso di violenza finito davanti alla magistratura. Infatti a inizio 2021 sono stati condannati per il reato di tortura 11 agenti di polizia penitenziaria per fatti avvenuti nell’istituto penitenziario di Ferrara nel 2017 e nell’istituto di San Gimignano nel 2018. Si tratta delle prime condanne di poliziotti penitenziari per il reato di tortura introdotto nel nostro ordinamento nel 2017. Antigone è attualmente coinvolta in 18 procedimenti penali che hanno per oggetto violenze, torture, abusi, maltrattamenti o decessi avvenuti negli ultimi anni in varie carceri italiane. Alcuni di essi si riferiscono alle presunte reazioni violente alle rivolte scoppiate in alcune carceri tra il marzo e l’aprile 2020 per la paura generata dalla pandemia e per la chiusura dei colloqui con i parenti. I più recenti sviluppi riguardano i casi degli istituti penitenziari di Torino e Santa Maria Capua Vetere. Nel primo caso nel luglio 2021 è stato richiesto il rinvio a giudizio per 25 tra agenti e operatori (tra cui il direttore del carcere) per violenze avvenute nell’istituto tra il 2017 e il 2018. Tra i reati contestati c’è anche quello di tortura. Il 25 novembre 2019 Antigone aveva presentato un esposto. Il caso di Santa Maria Capua Vetere, ora più noto grazie alle immagini dei video di sorveglianza, ha avuto origine dalle proteste dei primi mesi del 2020 legati all’emergenza coronavirus. Il 20 aprile 2020, dopo aver raccolto numerose testimonianze e aver informato il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria su quanto avvenuto nell’istituto il 6 aprile, Antigone aveva depositato un esposto contro la polizia penitenziaria, per ipotesi di tortura e percosse, e contro i medici, per ipotesi di omissione di referto, falso e favoreggiamento. A fine giugno 2021 il giudice per le indagini preliminari, su richiesta della Procura, ha emesso un’ordinanza con la quale ha disposto misure cautelari nei confronti di 52 persone. Il fatto che i casi di violenze emersi siano molteplici è indice della necessità di profonde riforme all’interno del sistema penitenziario italiano. Va rivisto drasticamente il modello di organizzazione pensando a una formazione diversa e multidisciplinare degli agenti penitenziari. Bisogna prevenire i fatti di tortura attraverso la previsione di video sorveglianza in tutti gli istituti, sottoscrizione di un codice deontologico, predisposizione di linee guida nazionali sull’uso della forza, introduzione dei codici identificativi, assunzione di personale civile, fino ad una maggiore generalizzata apertura ai fini di una umanizzazione della pena. Il Rapporto sulle condizioni di detenzione Tuttavia, come sottolineato dal più recente Rapporto di metà anno sulle condizioni di detenzione, presentato da Antigone il 29 luglio, le problematiche del nostro sistema penitenziario non si limitano alla violenza. Rimane preoccupante il tasso di affollamento, al 105,6% quello ufficiale, ma al 113,1% quello reale, considerando soltanto i posti effettivamente disponibili. Tuttavia i 53.637 detenuti presenti al 30 giugno 2021 non sono distribuiti in maniera omogenea fra i 189 istituti penitenziari. Infatti si contano ben 117 istituti su 189 con un tasso di affollamento superiore al 100%. Di questi, 52 hanno un tasso di affollamento fra il 120% e il 150% e 11 un tasso di affollamento superiore al 150%. Per affrontare la questione sovraffollamento bisognerebbe incentivare l’uso delle misure alternative alla detenzione, che sono cresciute molto negli ultimi anni, ma hanno soltanto in minima parte inciso sui numeri del carcere. Basti pensare che ben 19.271 detenuti, il 36%, hanno un residuo di pena inferiore ai tre anni e, se si eccettuano i condannati per reati ostativi, avrebbero potenzialmente accesso alle misure alternative. Se solo la metà vi accedesse il problema del sovraffollamento penitenziario sarebbe risolto. La composizione della popolazione detenuta al 30 giugno 2021 è la seguente: gli stranieri sono 17.019, ovvero il 32,4%, in diminuzione rispetto al 2018. Alla stessa data le donne rappresentano una piccola minoranza della popolazione detenuta. Si tratta infatti di 2.228 persone, il 4,2%. I bambini di età inferiore ai 3 anni che vivono con le mamme all’interno degli istituti penitenziari sono 29, numero che può ancora diminuire e che auspichiamo non ritorni ai livelli pre-pandemici, quando i bambini oscillavano fra i 50 e i 70. Venendo alle attività offerte dagli istituti per la rieducazione dei detenuti, la situazione non è delle più confortanti. Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al 31 dicembre 2020 soltanto circa un terzo dei detenuti lavorava. Di questi, quasi il 90% si trovava impiegato in attività domestiche alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e con un lavoro a tempo. I corsi di formazione professionale sono aumentati nel secondo semestre del 2020, ma il loro numero è rimasto comunque molto più contenuto rispetto a prima della pandemia. Anche la scuola in carcere ha risentito dell’emergenza Covid. Nell’anno scolastico 2020/2021 la scuola in presenza ha conosciuto interruzioni nel 94% degli istituti. Sono pochi i casi in cui è stata garantita la didattica a distanza. Le visite dell’Osservatorio di Antigone Fra il 2020 e il 2021 l’Osservatorio di Antigone ha svolto 67 visite in 14 regioni italiane. Sul totale degli istituti visitati, nel 42% sono state trovate celle con schermature alle finestre che impediscono il pieno passaggio di aria e luce naturale, nel 36% erano presenti celle senza doccia e nel 31% vi erano addirittura celle prive di acqua calda. Nel 65% degli istituti visitati le celle erano aperte almeno 8 ore al giorno in tutte le sezioni, tuttavia nel 24% si segnala che c’erano sezioni in cui si è passati, come conseguenza della pandemia, da un regime di celle aperte a un regime di celle chiuse. Si confermano anche i problemi legati alla carenza di alcune figure professionali. Solo nel 65% degli istituti visitati c’era un direttore assegnato in via esclusiva. Negli altri il direttore era responsabile di più di una struttura. Fortissimo lo squilibrio tra personale di custodia e personale dell’area trattamentale preposto alla reintegrazione sociale delle persone detenute: il rapporto medio negli istituti visitati era di un poliziotto penitenziario ogni 1,6 detenuti e di un educatore ogni 91,8 detenuti. Proposte per un nuovo regolamento penitenziario l’attuale regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario è in vigore dal 2000. Nonostante quel regolamento proponesse un’idea di detenzione fondata sul rispetto della dignità della persona e sul progressivo riavvicinamento alla società esterna, parte delle norme sono rimaste lettera morta e un’altra parte necessita una rivisitazione alla luce dei tanti cambiamenti normativi, sociali, culturali, legislativi, tecnologici intervenuti negli ultimi due decenni. Per questo motivo Antigone ha presentato un documento volto a rinnovare il regolamento in diversi ambiti: la prevenzione e repressione della violenza (con l’introduzione di strumenti di identificazione del personale, l’ampliamento della videosorveglianza, meccanismi di protezione del detenuto che sporge denuncia), la prevenzione del rischio suicidario, il potenziamento dei colloqui e delle telefonate, maggiori tutele per il lavoro delle persone detenute, i diritti dei bambini in carcere con le proprie madri e molto altro. “La questione carcere riguarda tutta la società” di Donatella Coccoli Left, 27 agosto 2021 Migliaia di detenuti potrebbero scontare la pena fuori dalle celle. Ma non accade perché manca una forte risposta collettiva, dagli enti locali agli operatori penitenziari, afferma Lucia Castellano, direttore generale del ministero della Giustizia per l’esecuzione penale esterna. Il problema del carcere e, più in generale, dell’esecuzione penale necessita di una risposta collettiva, non può essere solo l’amministrazione penitenziaria ad occuparsene. Questo sostiene Lucia Castellano, per venti anni, dal 1991 al 2011, a dirigere carceri: da Marassi, Eboli, fino alla casa di reclusione di Bollate, un carcere in cui la relazione con la comunità esterna è diventata una realtà. Autrice insieme a Donatella Stasio nel 2009 di Diritti e castighi. Storie di umanità cancellata in carcere, dopo un’esperienza politica nella giunta Pisapia a Milano e nel Consiglio regionale della Lombardia, dal 2016 Lucia Castellano è direttore generale del ministero della Giustizia per l’Esecuzione penale esterna e di messa alla prova. Tutto quel settore cioè, delle misure alternative alla detenzione su cui ci sono grandi attese e speranze. Recente, infine, è un suo contributo tra i testi che accompagnano la riedizione di Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata di Eugenio Perucatti, il direttore del carcere di Santo Stefano, l’isolotto davanti a Ventotene, che dal 1952 al 1960 fu protagonista di un primo coraggioso tentativo di rendere umani luoghi considerati ai margini della società. Dottoressa Castellano, dopo il caso delle violenze da parte della polizia penitenziaria a Santa Maria Capua Vetere, tenendo ben presente l’articolo 27 della Costituzione, oggi che cosa si può fare in modo che chi sconta una pena in carcere non subisca un trattamento disumano? A questa domanda è d’obbligo una premessa: la Costituzione non parla di carcere ma di pene, che non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono sempre tendere alla rieducazione del condannato. Noi abbiamo già tutti gli ingredienti per 40 Left 27 agosto 2021 applicare l’articolo 27 nella sua cogenza. A differenza di quando ha operato il mio collega Eugenio Perucatti nel 1952, noi dopo la Costituzione possiamo contare su una serie di norme importantissime, molto garantiste, che sono il precipitato di quel precetto, la cui attuazione ipso facto porta a trattamenti umani. Quindi, è già possibile una risposta punitiva costituzionalmente orientata e, per molti versi, viene già attuata. l’Italia è un Paese che ricorre poco alla carcerazione e in Europa è tra quelli in cui il rapporto tra detenuti e liberi è più basso. Quindi, il legislatore ci chiede di ricorrere al carcere come extrema ratio: sotto i 3 anni di pena edittale (in qualche ipotesi anche sotto i 4 o più), è prevista la sospensione dell’ordine di esecuzione, dando così la possibilità di chiedere una misura alternativa alla detenzione. Quanto all’episodio gravissimo e drammatico di Santa Maria Capua Vetere, a mio parere la risposta politica è stata ferma e chiara, attraverso la presenza del presidente del Consiglio e del ministro della Giustizia, volta a garantire al Paese che non è questa la strada per gestire gli istituti penitenziari. Non era mai successo prima (ricordo per esempio un analogo episodio nel penitenziario di Sassari di 20 anni fa, avvenuto nel silenzio della politica) e questo ci sprona ad andare avanti a costruire una quotidianità “intramoenia” realmente conforme a quanto previsto dalla Costituzione e dall’ordinamento penitenziario. Si può fare molto di più, purtroppo, e l’amministrazione credo ne sia consapevole. I 30mila che stanno scontando la pena fuori del carcere potrebbero aumentare? Sono molti di meno di quelli che potrebbero scontare la pena fuori del carcere e invece la stanno ancora scontando dentro. Al 30 giugno erano 11.214 i detenuti presenti condannati con pena inflitta per reati da 1 a 4 anni e 23.415 con pena residua da 1 a 4 anni, anche se in questi casi bisogna considerare che possono esistere preclusioni oggettive e soggettive. Dobbiamo riuscire a organizzare un sistema per cui viene realmente rispettato il principio che entro i 3 \ 4 anni la pena viene scontata sul territorio: in tal modo il carcere sarà riservato solo ai casi maggiormente pericolosi. Questo significa attuare il disposto dell’art 27 della Costituzione. Purtroppo i numeri che ho citato ci dicono che avviene tutt’altro, allo stato attuale. Perché avviene questo? Qual è il problema? Il problema è che si tratta di una detenzione sociale: molte persone stanno in carcere pur avendo i requisiti oggettivi e soggettivi per scontare la pena in misura alternativa alla detenzione, perché non hanno il permesso di soggiorno, perché non sanno dove andare, perché sono senza fissa dimora. E con questo problema che noi ci stiamo scontrando. Ma la tematica chiama in sé tutta la comunità, non solo l’amministrazione penitenziaria. È chiaro che, rientrando molti autori di reato detenuti in una fascia sociale debole, devono essere presi in carico sul territorio, come qualunque altro soggetto fragile. Noi dobbiamo lavorare insieme ai servizi sociali, alle Regioni, ai Comuni, al ministero del Lavoro o delle Politiche sociali. Ecco quello che oggi in Italia va rafforzato: una risposta collegiale al crimine, che non può afferire solo al penitenziario. Il carcere - e in genere il settore della giustizia - deve perdere la sua proverbiale autoreferenzialità. Non si può pensare di cavarsela da soli nei percorsi di reinserimento sociale dei condannati. Per le migliaia di persone in Italia che devono scontare pene al di sotto dei quattro anni bisognerebbe lavorare insieme alle Regioni, per mettere in campo interventi davvero capillari: comprendere quali sono le cause per cui queste persone sono dentro e provare ad ammetterle alle misure alternative. Questo, tra l’altro, è un lavoro meritorio che sta facendo la Cassa delle ammende (un ente di diritto pubblico che finanzia programmi di reinserimento dei detenuti presieduto da Gherardo Colombo, ndr). Questa prospettiva si scontra con chi, soprattutto a destra, proclama che chi commette un reato debba “marcire in galera”. Che tipo di battaglia culturale è necessaria? Il principio della pena che non può essere contraria al senso di umanità deve costituire la base, il terreno di cultura per qualunque tipo di pena. Non esistono e non devono esistere istituti penitenziari dove questo non si può fare. Per troppi anni noi direttori siamo stati divisi in “trattamentalisti” e “securitari”: “buoni” contro “severi”. Ecco, questo è un approccio non costituzionalmente orientato. Il carcere è solo la mancanza di libertà, niente altro che questo, da Poggioreale a Bollate, da Santa Maria Capua Vetere a Volterra. Il minimo comun denominatore del rispetto del senso di umanità deve far sì che quelle cittadelle fortificate (perché tali sono, da cui non si può uscire), garantiscano i diritti di tutti e dove - e questo è un altro problema culturale che ho affrontato tanto nella mia lunga carriera - non esiste una contrapposizione tra due antagonisti: i detenuti e i poliziotti. Ai detenuti va garantito il rispetto solo della mancanza di libertà, senza alcun tipo di afflittività aggiuntiva, e ai poliziotti e a tutto il personale la qualità del lavoro: ciascun poliziotto deve sentire che c’è attenzione, da parte dell’amministrazione, per il suo delicato lavoro e per la qualità della sua vita professionale (per molti di loro, quelli che vivono in caserma, è essenziale, ancor più che per gli altri). Se il carcere è una comunità, tutti sanno perché esiste e tutti collaborano: è la condivisione del mandato che fa sì che il carcere abbia un senso. Quindi è necessaria una maggiore formazione degli agenti penitenziari? La formazione è fondamentale, per tutte le categorie di operatori penitenziari. E poi c’è un altro problema: se, come vuole la Costituzione, il carcere è una comunità da cui non si può uscire, ma all’interno della quale si può vivere secondo diritto, questa comunità deve essere composita, multidisciplinare, non può essere costituita prevalentemente da detenuti e poliziotti. E quindi bisogna lavorare sull’implementazione di figure come gli educatori, gli psicologi, i volontari, la società civile. E, naturalmente, organizzare una formazione congiunta per gli operatori delle diverse categorie professionali, chiamati a questo difficile compito. Quali prospettive offrono le misure alternative alla detenzione e la messa alla prova? Io adesso mi occupo a livello nazionale di probation, ossia di sanzioni alternative al carcere e di misure di comunità. Nel 2015 il settore è transitato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al Dipartimento della giustizia minorile, per una precisa scelta politica. Si è inteso sganciarlo da una funzione ancillare rispetto al carcere per valorizzarne le potenzialità. In concomitanza con la riforma Orlando, si è cercato di invertire la rotta, di considerare, come si fa per i minori, il carcere come extrema ratio; questo passaggio amministrativo ha coinciso con una serie di leggi che hanno ampliato moltissimo il probation, potenziando le cosiddette misure sospensivo probatorie, in particolare con l’introduzione, nel 2014, dell’istituto della messa alla prova anche nel settore degli adulti. L’imputato può chiedere al proprio giudice la sospensione del processo, quando la pena edittale non superi i 4 anni: svolge un lavoro di pubblica utilità per il tempo stabilito dal giudice e, se la prova va a buon fine, il reato si estingue. Sono 24.954 le persone attualmente in messa alla prova, mentre sono 24.210 quelle che hanno scelto la misura e sono in attesa. La somma raggiunge, più o meno, il numero attuale dei detenuti. La messa alla prova serve anche per fermare la spirale in cui può cadere un giovane che commette un primo reato? L’introduzione della messa è stata una vera e propria rivoluzione. Prima di tutto perché stiamo parlando di indagati o imputati, non sono condannati, non c’è nessuno da “rieducare”, c’è soltanto da offrire, in via assolutamente preventiva, una possibilità alternativa che sospende il processo e può estinguere il reato. Il secondo elemento affascinante è che si tratta di una misura che permette di intercettare la persona prima della condanna, ed è importante soprattutto per i giovani, per proporre loro una strada alternativa. Non a caso è mutuata dalla messa alla prova per i minori, che esiste dal 1988. Se non ci fosse la messa alla prova, con la sola misura della sospensione condizionale della pena, non ci sarebbe la possibilità di rispondere immediatamente alla commissione di un reato e di intercettare per tempo l’autore. Ma anche qui, come con la pena scontata sul territorio, entra in gioco ancora di più il ruolo della società. Pensiamo a chi è imputato per piccolo spaccio: bisogna trovare un ente, pubblico o del privato sociale, con una mission di particolare valore morale e sociale che offra lavoro di pubblica utilità gratuito. È chiaro che se non c’è una forte operazione culturale di sensibilizzazione degli enti, è difficile combattere il pregiudizio e la paura di offrire lavoro a un autore di reato. Quando si riesce a stipulare una convenzione, a livello nazionale, con enti del livello di Lega Tumori, Fai, Legambiente, Croce Rossa e altri, le cui articolazioni territoriali offrano posti di lavoro di pubblica utilità su tutto il territorio nazionale, si crea una catena virtuosa molto importante. Abbiamo registrato che alcune persone entrate in esecuzione della misura della messa alla prova poi rimangono come volontari all’interno dell’ente. Ci sembra un dato molto significativo. Nonostante un certo senso comune, verrebbe da dire che dietro tali misure c’è il pensiero che l’essere umano non è “cattivo” per natura e può cambiare... Sì, e c’è anche un pensiero sul male e sul bene, che non sono mai concetti assoluti ma che dipendono dalle relazioni che si instaurano fra le persone. Io credo sempre nella possibilità di cambiamento. E il tema della giustizia riparativa, che lavora sulla relazione, con lo scopo di riparare alla lesione creata. La riparazione viene messa in atto perché si riconosce il senso di quello che si fa. Se la persona imputata va a lavorare gratuitamente, ad esempio, a Legambiente impara a conoscere l’Italia nella sua parte migliore, entra in relazione, viene contaminato; viceversa, spesso in galera si conosce la parte peggiore dello Stato. Allora interroghiamoci sulla risposta punitiva possibile più utile, quella che serve a prevenire la recidiva. Rispetto a chi dice che devono “marcire in galera”, siamo sicuri che questo aiuta la sicurezza sociale? Io sono sicura del contrario. Infine, lo ripeto, si può cambiare il senso comune chiamando in causa tutta la società civile al rispetto dei valori della Costituzione: il sistema della giustizia, la società, gli enti. Provando a non sentirci, come operatori penitenziari, estranei a quanto accade fuori dal carcere e dal mondo dell’esecuzione penale. Lo strano caso dei sindacati di Polizia penitenziaria di Giulio Cavalli Left, 27 agosto 2021 A fronte di circa 37mila agenti di Polizia penitenziaria in servizio, si contano 36.239 tessere sindacali. La Cgil da tempo chiede al Dap di quantificare il fenomeno delle doppie tessere ma al momento non c’è nessuna risposta. Il doping delle iscrizioni alimenta un giro d’affari milionario e poggia sulle storture di un sistema gerarchico e scarsamente democratico, che fa acqua da tutte le parti. L’ultimo caso è quello di Santa Maria Capua Vetere, ma di esempi ce ne sono tragicamente troppi altri: il mondo carcerario entra nel dibattito politico nazionale e sulle pagine principali dei quotidiani ogni volta che si accende una terribile stortura, ogni volta che una violenza o una morte riesce a uscire dal ristretto giro di un ambiente che si continua a voler pensare estraneo e a diventare una notizia di cronaca. Le modalità di risposta sono più o meno sempre le stesse: da una parte c’è il processo sommario di chi divide vittime e carnefici senza nessuna voglia di leggere le sfumature e dall’altro lato c’è il mondo dei sindacati di polizia penitenziaria che si chiudono a riccio rivendicando una certa intoccabilità del corpo come se loro fossero al di fuori della legge naturale che prevede persone buone e persone meno buone che esercitano lo stesso mestiere. Ma per entrare nel mondo penitenziario italiano bisogna essere pronti e disposti a affrontarne la complessità e la fotografia del quadro complesso (e che probabilmente ha bisogno di riforme) è l’universo delle sigle sindacali, all’interno delle quali spesso si fatica a distinguere posizioni politiche, programmi, aspirazioni e ragionamenti. Le sigle ammesse alla contrattazione nazionale dal ministero della Pubblica amministrazione (quelle che hanno una rappresentatività non inferiore al 5% del dato associativo complessivo) sono il Sappe con 8 distacchi sindacali, l’Osapp e la Uilpa con 5, il Sinappe con 4 sindacalisti a tempo pieno, 1’Uspp e la Cisl Fns con 3, la Cgil Fp/pp e la Fsa Cnpp con due distacchi. Nel caso dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere la ministra Cartabia ha incontrato 24 delegati, perché nell’universo detentivo hanno un peso, comunque minore, anche i medici e gli operatori socio-sanitari. E poi c’è il caos delle dirigenze con il conflitto perenne tra direttori del carcere e comandanti di reparto: nel caso in questione, per fare un esempio che racconta una modalità ricorrente, accade che il direttore scarichi le responsabilità sul reparto e viceversa. Nell’amministrazione penitenziaria ci sono sei dirigenze, con cinque carriere diverse, con regimi e determinazioni giuridiche diverse: prevedibilissimo che alla fine non si sappia mai chi comanda davvero. Tutto parte dal decreto legislativo del maggio 1995 che stabiliva che il sistema della rappresentatività e dell’individuazione delle procedure per accertarla doveva avvenire in conformità alle disposizioni vigenti per il pubblico impiego. In quell’anno non erano ancora state istituite le Rsu nel pubblico impiego (che furono poi introdotte con la cd. legge D’Antona). Quindi all’epoca anche nel pubblico impiego l’unica gamba dell’accertamento era il tesseramento vantato da ogni organizzazione. Dopo la legge D’Antona fu introdotta la seconda gamba dell’accertamento: il peso dei sindacati nelle Pubbliche amministrazioni si misura ancora oggi per il 50% sul dato associativo e per il restante 50% sul dato elettorale. Lo stesso articolo due fu modificato successivamente all’introduzione delle Rsu nel pubblico impiego: l’introduzione, quindi, della possibilità di elezioni Rsu anche per il comparto Forze di polizia è un fatto chiaro. Quell’articolo, però, faceva espresso riferimento ad un successivo accordo fra le parti che, per ragioni di mera convenienza del sindacalismo autonomo, fu sempre osteggiato fino a non essere mai stato discusso in sede di trattativa con il governo nei 5/6 contratti collettivi (Dpr) che si sono succeduti. Il sistema quindi è rimasto ancorato al numero delle tessere ma a fronte di poco più di 37mila unità di personale oggi in servizio si contano 36.239 tessere sottoscritte in favore di organizzazioni sindacali (rappresentative e non). Una sindacalizzazione figlia di un elevato numero di casi di doppia o tripla tessera che ha creato un moloch denso di interessi economici. Mediamente ogni tessera costa dai 12 ai 16 euro mensili (anche se il prezzo è uno degli elementi della sfrenata competizione) e con poco più di 36.200 tessere che ogni mese girano il calcolo è presto fatto: si parla di più di 500mila euro che ballano ogni mese. Si tenga conto anche che nel caso di molti sindacati autonomi le spese sono bassissime e che sul tesseramento sia in atto una sorta di multilevel marketing all’americana che arricchisce le basi e le altezze. Altro dato significativo: su sei organizzazioni sindacali autonome cinque sono rette da pensionati, gente che ha fondato il sindacato anche 30 anni fa e che è magari in pensione da anni senza mollare la propria organizzazione, come avviene nel Sappe, ad esempio, con il segretario nazionale Donato Capece. Le tessere spesso poi sono dopate dalle gerarchie: un poliziotto dentro il carcere si ritrova a dover avere la tessera del proprio capo reparto per evitare problemi, poi quella del proprio comandante che magari è iscritto a un altro sindacato e magari c’è anche l’ispettore di sorveglianza che può tornare utile per ottenere qualche permesso. Così diventa difficile per l’ultimo dei poliziotti decidere di essere libero, autonomo e non condizionato. La gerarchia e la sindacalizzazione influiscono anche in eventi gravemente critici come Santa Maria Capua Vetere: la coincidenza di responsabilità sindacali e istituzionali fa sì che il sindacato autonomo debba difendere la gerarchia (che sia il comandante o il caporeparto) perché quella figura incarna una responsabilità sindacale di quell’organizzazione. E il tutto diventa una mera difesa degli interessi in atto, con una visione poco “politica” nel senso più nobile del termine. La Cgil da tempo chiede che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) quantifichi il fenomeno delle doppie tessere ma al momento non c’è nessuna risposta. A questo si aggiunge che stiamo parlando di un corpo di 37.181 unità, di cui realmente operativi solo 32.545. Secondo il XVII rapporto di Antigone, “la differenza fra personale previsto e effettivamente presente è pari al 12,5%. La carenza di agenti non è però equamente distribuita a livello nazionale. Abbiamo infatti provveditorati con un sotto organico superiore al 20%, come in Sardegna e in Calabria, e altri invece con un numero di unità effettive leggermente superiore a quelle previste, come in Campania e in Puglia-Basilicata”. Il risultato? In un mondo così frammentato e confuso provate a immaginare quanto poco spazio ci sia per un serio ragionamento sulla qualità democratica del corpo, sulla consapevolezza di un ruolo che non sia solo securitario ma anche rieducativo e trattamentale e sulla frustrazione (che spesso sfocia in una pseudo rivalsa) di un corpo senza piena consapevolezza dei propri diritti. Perché, si sa, molto spesso gli effetti hanno cause complesse che bisognerebbe avere il coraggio di affrontare. E che la politica dovrebbe prendersi la responsabilità di riformare. Nelle carceri italiane si prega per il popolo dell’Afghanistan Avvenire, 27 agosto 2021 L’iniziativa promossa dai cappellani e dalla Caritas. Don Grimaldi: “Solo dove c’è la sofferenza e il dramma della solitudine si può comprendere ancora meglio la sofferenza dell’altro”. Le drammatiche immagini di un paese imprigionato nella paura e nel terrore, l’Afghanistan, pongono interrogativi e invitano alla solidarietà umana e spirituale. L’Ispettorato generale cappellani delle carceri d’Italia insieme alla Caritas Italiana promuovono una giornata di preghiera nelle carceri, sabato 28 e domenica 29 agosto. All’Angelus dell’Assunta, papa Francesco ha chiesto a tutta la Chiesa e ad ogni persona di buona volontà di pregare con lui, il Dio della Pace “affinché cessi il frastuono delle armi e le soluzioni possano essere trovate al tavolo del dialogo”. Dalle indicazioni del Pontefice nasce, dunque, l’invito di preghiera comunitaria nelle carceri, sollecitato dall’ispettore dei cappellani delle carceri d’Italia, don Raffaele Grimaldi, e dal direttore della Caritas Italiana don Francesco Soddu. “Solo dove c’è la sofferenza e il dramma della solitudine si può comprendere ancora meglio la sofferenza dell’altro - osserva don Grimaldi - perciò, invito i cappellani dei nostri istituti penitenziari, che seguono con apprensione le sorti del popolo afghano, unitamente ai volontari e agli operatori, di farsi promotori di una preghiera solidale, affinché durante Sante Messe di sabato 28 e domenica 29 di Agosto, i nostri istituti possano diventare dei veri cenacoli di solidarietà e di vicinanza al popolo afgano”. Don Soddu ha sottolineato che “l’esperienza della pandemia ci ha ricordato quanto siamo fragili e che è fondamentale sentirsi parte di una stessa famiglia umana, dove ciascuno ha assoluto bisogno degli altri. Di tutti gli altri. Con la preghiera possiamo davvero essere Fratelli tutti”. L’Ispettore dei cappellani soggiunge che “la preghiera è un’arma silenziosa e potente che squarcia i cieli e giunge al cuore di Dio. La preghiera del cuore, ci fa sentire vicino ad un popolo lontano; nessuno si senta abbandonato perché la Chiesa ha sempre spalancato le sue porte alla solidarietà e all’accoglienza costruendo dialogo con tutti, unica via possibile per soccorrere popoli in difficoltà come quelli dell’Afghanistan dove i deboli sono schiacciati dalla violenza. I detenuti dei nostri istituti, nonostante la loro condizione di ristretti, sono sempre attenti ai drammi e alle criticità fuori dalle mura”. Rivolgendosi quindi ai “carissimi amici cappellani”, don Grimaldi ringrazia “in particolare per l’attenzione che darete a questo invito di preghiera per l’Afghanistan. In questo momento storico la preghiera è, per i nostri fratelli e sorelle prigionieri, uno strumento in favore di un cammino di vera educazione e di promozione dei valori e, nel contempo, è un invito alla riflessione sulla responsabilità di essere attenti ai bisogni dell’altro per accompagnare la rinascita di ogni persona”. Giustizia riparativa: il disegno di legge che attua la direttiva Ue di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 agosto 2021 A inizio settembre, dopo il via libera della Camera, sarà il Senato a votare il disegno di legge voluto dalla ministra Cartabia per la riforma del processo e del sistema sanzionatorio penale. Se l’iter dell’attuazione della riforma Cartabia andrà in porto, avremo finalmente una disciplina organica della giustizia riparativa nell’interesse sia della vittima che dell’autore del reato. Non solo. Sempre nel discorso della riparazione del danno, verrà esteso il concetto di “familiare della vittima”. Non dovrà essere esclusivamente un coniuge, ma anche parte di una unione civile tra persone dello stesso sesso, oppure di una duratura relazione intima. A inizio settembre, dopo il via libera della Camera, sarà il Senato a votare il disegno di legge voluto dalla ministra Cartabia per la riforma del processo e del sistema sanzionatorio penale. Ricordiamo che si tratta un disegno di legge-delega e tra le novità c’è il tema della giustizia riparativa. Il governo è delegato ad adottare, nel termine di un anno dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi per tutte le modifiche e norme contemplate dalla riforma. Ma quali sono i principi e criteri direttivi che la legge delega detta in merito alla giustizia riparativa? In linea con le direttive europee e i principi internazionali - Punto primo. Introdurre, nel rispetto delle disposizioni della direttiva 2012/29/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, e dei princìpi sanciti a livello internazionale, una disciplina organica della giustizia riparativa quanto a nozione, principali programmi, criteri di accesso, garanzie, persone legittimate a partecipare, modalità di svolgimento dei programmi e valutazione dei suoi esiti, nell’interesse della vittima e dell’autore del reato. Punto due. Definire la vittima del reato come la persona fisica che ha subìto un danno, fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono state causate direttamente da un reato; considerare vittima del reato il familiare di una persona la cui morte è stata causata da un reato e che ha subìto un danno in conseguenza della morte di tale persona. Estesa la concezione del familiare della vittima - Interessante la definizione del familiare della vittima. La concezione è finalmente estesa. Può essere non solo il coniuge, ma anche la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, la persona che convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare e in modo stabile e continuo, nonché i parenti in linea diretta, i fratelli e le sorelle e le persone a carico della vittima. Punto tre. Prevedere la possibilità di accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena, su iniziativa dell’autorità giudiziaria competente, senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità, sulla base del consenso libero e informato della vittima del reato e dell’autore del reato e della positiva valutazione da parte dell’autorità giudiziaria dell’utilità del programma. La legge delega prevede di disciplinare la formazione dei mediatori - Per quanto riguarda l’attuazione del programma di giustizia riparativa, la legge delega chiede di disciplinare la formazione dei mediatori esperti in programmi di giustizia riparativa, tenendo conto delle esigenze delle vittime del reato e degli autori del reato e delle capacità di gestione degli effetti del conflitto e del reato nonché del possesso di conoscenze basilari sul sistema penale. Inoltre, bisogna prevedere i requisiti e i criteri per l’esercizio dell’attività professionale di mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa e le modalità di accreditamento dei mediatori presso il ministero della Giustizia, garantendo le caratteristiche di imparzialità ed indipendenza del ruolo. La legge delega chiede che l’esito favorevole dei programmi di giustizia riparativa possa essere valutato nel procedimento penale e in fase di esecuzione della pena. Non solo. Chiede di prevedere che l’impossibilità di attuare un programma di giustizia riparativa o il suo fallimento non producano effetti negativi a carico della vittima del reato o dell’autore del reato nel procedimento penale o in sede esecutiva. La vittima diventa protagonista della giustizia riparativa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 agosto 2021 La giustizia riparativa, fino ad oggi una nicchia nascosta del nostro sistema di giustizia penale, si tratta di una “mediazione” di tutti gli interessi in gioco: responsabile del reato, persona offesa e collettività con evidenti benefici. Viene contemplata per la prima volta il 25 ottobre 2012 dalla direttiva del Parlamento europeo, la quale definisce espressamente la “giustizia riparativa” come “qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale”. In sostanza, viene per la prima volta delineato il principale modus operandi delle prassi di giustizia riparativa: vale a dire, di quell’insieme di proposte avanzate a partire da diverse prospettive teoriche che, pur avendo una specifica ed autonoma sensibilità (abolizionista, vittimologica, comunitaria o anche semplicemente deflativa), convergono tutte nel ritenere necessaria una giustizia meno burocratica e formalizzata, più snella, più vicina all’ascolto e al soddisfacimento delle aspettative e dei reali interessi delle parti in conflitto: la vittima, l’autore di reato, la comunità. Molti paesi europei contemplano ormai esplicitamente forme di giustizia riparativa nell’ordinamento, disciplinandone i potenziali effetti e gli strumenti tecnici. Il nostro ordinamento, invece, non ha ancora deciso lo spazio da attribuirgli. La legge delega, in via di approvazione, della riforma della ministra della giustizia Cartabia, come sappiamo, introduce e norma questa realtà. In Italia esiste, invece, una sperimentazione ventennale di mediazione penale nel rito minorile fondata su piedistalli normativi instabili, e cioè su un’interpretazione fortemente estensiva di alcune norme che consentono di legittimare il rinvio del caso all’ufficio di mediazione, e di attribuirgli un valore traducibile in termini penalistici come l’estinzione del reato per buon esito della messa alla prova, perdono giudiziale, irrilevanza del fatto. Nel caso di reati commessi da soggetti adulti, è praticamente inesistente l’applicazione della mediazione penale presso il tribunale ordinario. Il carattere fortemente innovativo - dal punto di vista teorico, e più ancora sotto il profilo dei processi concreti coinvolti - della giustizia riparativa, rispetto ai tradizionali paradigmi del diritto penale, impone la mobilitazione di una molteplicità di approcci diversi e complementari. Innanzitutto rimette al centro la vittima. Non è un caso che per la prima volta, grazie alla riforma Cartabia, nel codice verrà inserita la definizione di “vittima”. Non esiste. Viene denominata “persona offesa”, con un ruolo da non protagonista nel nostro sistema sanzionatorio. Così come, non è un caso che la giustizia riparativa nasce in un contesto di crisi diffusa del sistema penale derivante da almeno tre diversi macro- fattori: l’insoddisfazione per gli esiti della pena detentiva, legata alla scarsa effettività di quest’ultima nella riduzione della recidiva; la perdita di legittimazione delle sanzioni carcerarie soprattutto quando determinano frizioni con il sistema dei diritti umani cristallizzato nella giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo e, appunto, lo scarso riconoscimento, da parte del sistema penale, della vittima e dei suoi diritti di accesso alla giustizia. “Le norme per contrastare lo stalking ci sono. Il resto è solo giustizialismo” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 27 agosto 2021 Parla l’avvocato Valerio Spigarelli. “Abbiamo la legge sullo stalking e norme riformate successivamente, tutto sta a farle funzionare”. Valerio Spigarelli, avvocato già presidente dell’Unione camere penali italiane, sulla richiesta di provvedimenti più severi nei casi di stalking e violenza per prevenire i femminicidi, spiega che “è una noiosa demagogia degli adoratori delle manette che non si fanno scrupolo a dire che tutto va male ma poi se si chiede loro di quantificare il dilagare del fenomeno sulla base di dati statistici dal punto di vista criminologico non rispondono perché non ce l’hanno”. Sui casi di uomini che uccidono le donne, magari dopo una relazione finita male, commenta: “Ormai si parla di femminicidio per tutti gli omicidi di donne, ma il rischio è di leggere i numeri in una particolare maniera mentre si dovrebbero paragonare sempre con le tendenze del passato”. Avvocato Spigarelli, pensa che le leggi attualmente in vigore bastino a contrastare il fenomeno dei femminicidio, da ultimo quello di Vanessa? Quando ci troviamo di fronte a questo fenomeno, ancor prima di vedere i numeri, si tira fuori subito il discorso riguardo a ipotetiche norme insufficienti, mettendo in discussione un apparato normativo che tutto sommato è piuttosto nuovo e funziona. I reati contro la persona in Italia sono decisamente in calo e siamo un pese tranquillo. È vero che un numero significavo di reati maturano in contesti familiari e di solito ci troviamo di fronte a un uomo che uccide una donna e da qui la dicitura di femminicidio, ma abbiamo la legge sullo stalking e norme riformate successivamente, tutto sta a farle funzionare. Eppure di femminicidi si parla ormai quasi ogni giorno, c’è una commissione parlamentare sul tema e i casi di cronaca aumentano. C’è una percentuale di casi che maturano in famiglie apparentemente normali, dove ad esempio non ci sono casi di stalking. In questi casi sono delitti difficili da prevenire, in contesti del genere ciò che non funziona non è l’armamentario penale, che è più che sufficiente, quanto il fatto che non ci sia un’adeguata verifica da parte dei servizi sociali. Dove c’è degrado sociale paradossalmente è più facile intervenire. C’è troppa attenzione insomma sui femmicidi? Ormai si parla di femminicidio per tutti gli omicidi di donne, ma il rischio è di leggere i numeri in una particolare maniera mentre si dovrebbero paragonare sempre con le tendenze del passato. Viviamo in una società dove ci sono larghe sacche di comportamenti arcaici ma è la società stessa che deve guarire, è difficile che possa guarire attraverso modifiche al codice penale. Non nego che le donne rischino di subire violenze, eppure, a commento di uno degli episodi di questo genere, ho sentito invocare pene più severe e non si sa quali misure cautelari ma ovviamente non ci sono altre opzioni se non quella di introdurre l’ennesimo automatismo cautelare. Stalking? Tutti in galera. È una maniera aberrante di affrontare queste faccende ma purtroppo è quella più consona al legislatore almeno negli ultimi vent’anni. Non è d’accordo quindi con Travaglio, che commentando il caso di Vanessa ha attaccato la riforma della custodia cautelare i referendum sulla giustizia? Travaglio è un disco rotto anche un po’ noioso. Non hanno deciso i politici che la custodia cautelare sia l’estrema ratio, come dice lui. L’ha deciso la Costituzione. Prima di una condanna dovresti andare in carcere se ci sono pericoli gravissimi ma questo avviene in qualunque paese civile. Andare contro al gip che ha deciso soltanto per il divieto di avvicinamento è offensivo, perché immagino che stia vivendo un dramma. Gli elementi che aveva a disposizione evidentemente non erano tali da prevedere un pericolo gravissimo, tant’è che neanche la procura aveva chiesto la custodia cautelare in carcere. Pensa che il pensiero di Travaglio sia maggioritario nel paese? È una noiosa demagogia degli adoratori delle manette che non si fanno scrupolo a dire che tutto va male ma poi se si chiede loro di quantificare il dilagare del fenomeno sulla base di dati statistici dal punto di vista criminologico non rispondono perché non ce l’hanno. Quando si fece la prima riforma dei reati di violenza sessuale negli ultimi vent’anni al governo c’erano Maroni e Berlusconi. Nello stesso giorno Maroni fece una relazione sull’ordine pubblico in Italia in cui disse che le violenze sessuali erano in calo, se ne prese il merito, ma il governo pubblicò un decreto legge fondato su una situazione di straordinaria necessità e urgenza dicendo che il fenomeno delle violenze sessuali stava dialogando. Una contraddizione assoluta. Fu solo un episodio o è un atteggiamento diventato quasi normale, assecondando quindi il desiderio di giustizialismo certamente presente in una parte dell’opinione pubblica? È ciò che si ripete da un sacco di tempo per un certo tipo di reati tra i quali metterei anche le violenze mafiose e altri, sui quali impera sempre questo modo di ragionare: ci sono tre quattro casi di cronaca e subito si grida all’allarme. I femminicidi sono aberranti, intendiamoci, ma prima di dire che le leggi sono imbelli e che non abbiamo norme per contrastarli dovremmo guardare ai numeri. Non si può sempre dire che il sistema ha fallito, si dovrebbe valutare anche le volte in cui il sistema giudiziario e ciò che gli sta attorno hanno evitato una violenza. C’è demagogia informativa attorno a questo tipo di reati e ciò inquina un po’ il discorso rendendo gli attori della politica non particolarmente razionali nell’affrontare questi temi. “Gravissimo dire che nel caso di Vanessa non si poteva usare il braccialetto elettronico” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 27 agosto 2021 Valeria Valente, presidente della commissione contro il femminicidio: “Non posso pensare che un giudice possa credere che non c’era nulla da fare”. Senatrice Valente, qual è stata la sua reazione di fronte all’omicidio di Vanessa Zappalà? Innanzitutto ho il dovere di smentire quanto leggo rispetto all’omicidio di Vanessa, quando si dice che non si poteva utilizzare il braccialetto elettronico. (“Oggi il braccialetto elettronico si può metter solo agli arresti domiciliari”, ha detto Nunzio Sarpietro, presidente dell’Ufficio gip di Catania, ndr). Nel 2019, con la modifica dell’articolo 282 ter comma 1 del codice di procedura penale abbiamo esteso l’uso del braccialetto anche alla misura cautelare del divieto di avvicinamento, quindi anche nel caso in questione. Quanto affermato è gravissimo. Si riferisce all’intervista a Repubblica in cui in sostanza il gip ha spiegato che non c’era nulla da fare se non quello che ha fatto... Non posso pensare che un giudice possa credere che non c’era nulla da fare. Se si parla di labilità psichica stiamo condannando le donne e non è accettabile. Dire che è stata concessa la misura più tenue perché si erano chiariti è aberrante perché tutti sanno quante volte situazione che sembrano chiarite poi degenerano di nuovo, spesso in peggio. Bisogna leggere le violenze in maniera corretta ed essere adeguatamente formati per applicare le norme che ci sono. La prima sfida da vincere è questa, la seconda è quella di migliorare il sistema. Da cosa è stato causato secondo lei il cortocircuito? Mi permetto di dire che in molti casi una grande criticità è la mancata specializzazione degli operatori. Proporrò alla commissione di acquisire gli atti del procedimento per capire bene la dinamica del fatto. Non sono ancora in grado di dire dove sia stato il cortocircuito ma è quello che voglio capire. Una donna che denuncia non può morire, è una sconfitta di tutti noi. Abbiamo fallito tutti: istituzione giudiziarie e politiche. Con quali conseguenze? Non applicare le norme esistenti è una gravissima ragione che potrebbe spingere tante altre donne a non denunciare, sapendo quali sono i rischi. Noi dobbiamo proteggere le donne che denunciano e se non siamo in grado di farlo allora è un fallimento. Nel caso di specie c’erano norme che non sono state utilizzate. Ma ripeto che per capire dove è stato fatto l’errore devo guardare le carte. Torniamo sulla specializzazione dei gip, quanto è grave il problema e cosa servirebbe per risolverlo? Sul tema della specializzazione degli operatori del sistema giustizia, dagli avvocati ai consulenti fino ai giudici siamo ancora molto indietro. La questione diventa particolarmente critica per i gip. C’è in ogni caso una questione culturale che investe il tema giustizia. Ricordiamo sempre a noi stessi che le misure cautelari nel sistema delle violenze noi le abbiamo mutuate dal codice antimafia e sono legate a una valutazione della pericolosità sociale del soggetto. Di fronte a ciò facciamo una scelta molto forte, limitando la libertà personale del soggetto prima dell’esito del processo e la motiviamo pensando che la tutela della vittima prevalga rispetto alla libertà di un soggetto che in molti casi è ancora solo indagato. Le norme esistenti sono sufficienti a proteggere le donne? Il sistema normativo è robusto e serio. Ma si può sempre fare di più e meglio tant’è che io stessa ho presentato diversi progetti di legge, penso a quelli contro le molestie sessuali nei rapporti di lavoro, penso anche ad alcune proposte di modifica al codice rosso, nel quale abbiamo istituito il reato di violazione delle misure di protezione. Nella riforma del processo penale è stata aggiunta inoltre la possibilità di arresto in flagranza per chi viola le misure di protezione e abbiamo proposto il fermo nella quasi flagranza. Cerchiamo di spiegare, in cosa consiste? Molto spesso capita che il poliziotto non trovi l’autore della violenza ma un quadro già molto esplicito e in quel caso secondo noi si deve andare a prendere e fermare per 24/48 ore al fine di come e se mettere sotto protezione la donna. Per fare questo ci vogliono operatori specializzati. Il tema centrale resta quello della formazione e della specializzazione e di una cultura priva di pregiudizi che porti a credere alle donne senza indugio. Cosa risponde a chi dice che in casi come questo basterebbe arrestare lo stalker o il molestatore così da tagliare il problema alla radice? Chiunque di fronte a qualcosa di così drammatico pensa di volere tutti in galera sbaglia, perché agire solo sul fronte repressivo non aiuta e non ha aiutato. Il tema che non riusciamo ad aggredire è il cambio di rotta culturale. Non dobbiamo più girarci dall’altra parte. Gli uomini che usano violenza non si sentono ancora giudicati anche se, ovviamente, dobbiamo continuare con la strada del recupero degli uomini maltrattanti. “Un database delle violenze, scudo contro i femminicidi” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 27 agosto 2021 Il direttore centrale anticrimine: “Ci sono già 60 mila schede”. “Da sette mesi - racconta il prefetto Francesco Messina - ogni pattuglia di polizia o carabinieri che si trova davanti a una donna in situazione di disagio per una lite con il compagno deve compilare una scheda all’interno di una grande banca dati che si chiama “Scudo”. Abbiamo già 60 mila segnalazioni. Se domani dovesse accadere un altro evento riguardante quella donna ce ne accorgeremmo subito. Dobbiamo arrivare assolutamente prima, per fermare i femminicidi”. Messina è il direttore centrale anticrimine della polizia di Stato, non smette di ripetere il nome dell’ultima vittima di questa strage infinita, Vanessa Zappalà: “In questa trincea - dice - è necessario che si lavori tutti insieme, in sinergia: forze dell’ordine, magistratura, carcere, centri antiviolenza, strutture mediche. È necessario che ogni dato venga messo in condivisione”. Parole che hanno il tono dell’appello. Prefetto, qualcosa non funziona come dovrebbe? “Oggi, abbiamo norme e strumenti importanti per contrastare i femminicidi, stiamo facendo un lavoro di prevenzione senza sosta che ci ha consentito di ridurre i delitti del 13 per cento nell’ultimo anno, ma tutti gli attori in campo devono comunicare fra di loro. Cosa che talvolta non è accaduta. Ci sono state delle dissonanze che non possiamo permetterci”. A cosa si riferisce? “Ho sollecitato con opportune circolari un’attenta implementazione della banca dati Scudo. Tutti i segnali vanno interpretati e raccolti, anche se non sono tali da fare scattare un’indagine, anche se la vittima dice che non vuole denunciare. Ho poi raccomandato che tutte le forze di polizia segnalino alle divisioni anticrimine delle questure i protagonisti degli atti persecutori, così potranno scattare misure di prevenzione come la sorveglianza speciale o l’ammonimento da parte del questore. E ci sono anche altri soggetti in campo da coinvolgere in questo percorso”. Quali? “Abbiamo fatto protocolli con vari provveditorati regionali delle carceri, perché comunichino per tempo le scarcerazioni alle divisioni anticrimine, che poi allerteranno ad esempio la stazione dei carabinieri del paese dove vive la vittima”. Il padre dell’ultima giovane uccisa ha invocato percorsi per curare gli uomini violenti. “A Milano, è stato sperimentato con successo il protocollo Zeus: quando l’uomo maltrattante viene ammonito dal questore, è invitato a fare un percorso trattamentale. In molti aderiscono e nel 90 per cento dei casi non molestano più le donne”. Quali modifiche legislative potrebbero spingere ancora di più i percorsi di prevenzione? “Si potrebbe rafforzare il potere di ammonimento da parte del questore, anticipandolo al momento in cui viene denunciata anche solo una minaccia o un danneggiamento a casa. Si potrebbe anche stabilire l’obbligatorietà del braccialetto elettronico. E poi prevedere l’arresto fuori dalla flagranza del reato o l’introduzione del fermo, modificando la pena edittale”. Ha fatto una circolare a tutti i questori per dire che è “improprio ricondurre” le liti nelle coppie ai “privati dissidi”. “Ho voluto cancellare un equivoco che tante volte ha portato a terribili sottovalutazioni. Obiettivo del personale che opera non deve essere quello di mettere pace, ma valutare cosa sta succedendo. Non vanno trascurati anche i piccoli segnali. L’obiettivo resta sempre uno: condividere le informazioni, solo insieme possiamo evitare un altro femminicidio ancora”. Riforma del Csm. “Valutiamo i magistrati per competenze e meriti” di Francesca Sabella Il Riformista, 27 agosto 2021 “Volete voi che sia abrogata la Legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 25, comma 3, limitatamente alle parole “unitamente ad una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. I magistrati presentatori non possono presentare più di una candidatura in ciascuno dei collegi di cui al comma 2 dell’articolo 23, né possono candidarsi a loro volta?”. Il quesito numero uno del referendum per una giustizia giusta propone la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm). Cosa vuol dire? Immaginate di dover affrontare un processo e che a giudicarvi e a decidere le sorti della vostra vita ci sia un magistrato che è stato scelto più che per le sue competenze, per il rigore morale, per la trasparenza e per i risultati professionali raggiunti, per il sostegno di una corrente che potremmo definire politica. Oggi è così che funziona il Consiglio Superiore della Magistratura, certo ora non si vuole dire che ogni membro del Csm occupi quella poltrona solo perché sostenuto dalle correnti interne alla magistratura, si vuole invece dire che si corre questo rischio e che i recenti fatti di cronaca lo rendono un rischio reale. Solo l’idea mette i brividi e dovrebbe rappresentare una valida motivazione per votare Sì al referendum per disporre di una giustizia, appunto, giusta e che guardi al merito più che alle opportunità. Il quesito referendario mira, dunque, ad abrogare il vincolo delle firme, contenuto nella legge 195 del 1958, in questo modo tutti i magistrati potrebbero candidarsi, senza dover sottostare al condizionamento delle correnti Giuseppe De Angelis presidente del Consiglio di Disciplina del Distretto della Corte di Appello di Napoli e professore della Scuola di specializzazione per le professioni legali presso l’Università degli Studi di Salerno, analizza con Il Riformista il contenuto e l’importanza del primo quesito del referendum sulla giustizia: “Il Consiglio superiore della magistratura è l’organo di autogoverno dei magistrati e ne regola la carriera. Per due terzi è composto da magistrati eletti. Oggi su capacità e competenza prevale, invece, il sostegno delle correnti: con il sì al referendum se ne elimina il peso nella selezione delle candidature, indebolendo lo strapotere delle correnti e il condizionamento della politica sulla giustizia. Questo sistema basato sul “correntismo” deve essere riformato: la carriera di un magistrato deve basarsi esclusivamente sulle sue competenze e sui suoi meriti. Visti gli ultimi avvenimenti (Caso Palamara) la riforma del Csm restituirebbe credibilità alla magistratura”. Presidente, com’è articolato il Csm e con quali modalità oggi vengono scelti i suoi componenti? “Il Csm è presieduto dal Presidente della Repubblica che è membro di diritto al pari del Presidente della Suprema Corte di Cassazione e del Procuratore Generale presso la stessa corte. Gli altri 24 componenti sono eletti per due terzi dai magistrati, scelti tra i magistrati, mentre il restante terzo viene eletto dal Parlamento in seduta comune. Un magistrato che voglia candidarsi a far parte del Csm deve raccogliere dalle 25 alle 50 firme e, pertanto, nei fatti deve avere il sostegno di una delle correnti. Questo si traduce in una magistratura composta da membri scelti non solo sulla base di una valutazione reale delle competenze, dei meriti e della carriera svolta fino al momento della candidatura al Csm, bensì sull’appartenenza a quella corrente che si impegna a sostenerlo”. Quale ruolo hanno le correnti? “Sostanzialmente intervengono per favorire l’assegnazione di incarichi ai componenti del Csm, decidono trasferimenti e nuove destinazioni e si occupano dei procedimenti disciplinari dei magistrati. Si muovono spesso in un’ottica di promozione del gruppo e non sono certo utili per garantire giustizia ai cittadini”. Il “Sì” al referendum quali cambiamenti apporterebbe alla struttura del Consiglio superiore della magistratura? “Se passasse il referendum, verrebbe abrogato l’obbligo per un magistrato che voglia essere eletto di trovare dalle 25 alle 50 firme per presentare la candidatura. Con il sì, quindi, si tornerebbe alla legge originale del 1958, che prevedeva che tutti i magistrati in servizio potessero proporsi come membri del Csm presentando semplicemente la propria candidatura. Avremmo così votazioni che mettono al centro il magistrato e le sue qualità personali e professionali, non gli interessi delle correnti o il loro orientamento politico. Inoltre il requisito dell’indipendenza della magistratura è stato gravemente vulnerato da una serie di episodi e appare all’opinione pubblica una giustizia scarsamente credibile per i criteri di elezione e per le regole progressive in carriera che spesso avvengono in maniera discutibile. Una forma di maggiore democrazia e trasparenza, una magistratura meno legata a logiche correntizie potrebbe restituire alla magistratura la credibilità che ha perso e di cui invece ha un disperato bisogno”. Sette processi e 15 anni di carcere prima di essere dichiarato innocente di Simona Musco Il Dubbio, 27 agosto 2021 Quindici lunghi anni in carcere. Ovvero 5475 giorni dentro una cella malconcia, senz’acqua e senza dignità, per uno scambio di persona. O forse peggio, per una macchinazione o per superficialità. Domenico Morrone non è un assassino, è incensurato e ha pure un alibi. Ma nessuno gli crede, fino a quando due pentiti non fanno il nome del vero colpevole. Ci vorranno sette processi prima che quell’uomo, che ormai ha perso tutto, possa dimostrare la sua innocenza. Un’innocenza sempre proclamata, urlata, sbandierata ma mai creduta. La sua vita cambia il 30 gennaio 1991. Domenico è un pescatore, viene da una famiglia onesta, ha una fidanzata. Una vita normale, insomma. La sua fedina penale è immacolata. Ma all’improvviso viene macchiata da un’accusa terribile: aver ucciso due ragazzini, due minorenni. Trucidati davanti alla scuola media Grazia Deledda di Taranto. Sono le 13.50 di quel giorno di 29 anni fa quando un sicario spara diversi colpi con una pistola calibro 22 contro due studenti, Antonio Sebastio (15 anni) e suo fratello Giovanni Battista (17 anni). I proiettili volano in mezzo alla gente, i due ragazzi rimangono a terra senza vita mentre tutti intorno scappano in preda al panico. Una scena orribile. Poche ore dopo la squadra mobile ha già una pista: si presenta a casa di Morrone, su ordine del Pm del Tribunale di Taranto, Vincenzo Petrocelli. Cerca delle armi, ma non ci sono, e così i poliziotti trascinano l’uomo fino in Questura e poi, a sera, nel carcere di Taranto. Domenico non capisce nulla. Gli dicono che in base agli indizi raccolti da polizia e carabinieri è quasi sicuramente colpevole, anche se lui non sa nemmeno di cosa si stia parlando. Così, poche ore dopo i fatti, viene sottoposto a fermo per duplice omicidio, detenzione e porto illegale di arma da fuoco e munizioni e spari in luogo pubblico. Lo incastra la testimonianza di alcune persone, ragazzini, per lo più. Morrone scuote la testa, spiega che non c’entra nulla. Che è tutto un clamoroso errore. Secondo l’accusa, Morrone avrebbe perso la testa per un litigio avuto una ventina di giorni prima con quei ragazzetti, che trafficavano pezzi di motorini rubati davanti al portone. Eppure dopo il litigio qualcuno ferisce Domenico alle gambe. Qualche giorno dopo, secondo una testimonianza poi ritrattata, avrebbe minacciato i due ragazzini, ritenendoli responsabili di quel ferimento. E tanto basta, secondo la procura, a spingere un uomo di 27 anni innamorato del mare ad armarsi e uccidere. Provano a collegarlo ai clan, ma lui non sa cosa significhi quella domanda, “a chi appartieni”. “A mamma e papà”, dice ingenuamente. Urla di essere incensurato, “ma non è una carta di credito”, contesta il pm. In tempo record la notizia finisce in tv: l’assassino della scuola è stato acchiappato. Viene sbattuto in isolamento per due mesi, con il divieto di parlare con i suoi difensori e la madre. Ci rimane con i vestiti intrisi di salsedine che aveva al momento dell’arresto, che riesce a cambiare solo dopo una settimana e che prova a lavare da solo, tra quelle quattro mura, con una saponetta. Ma quello è solo l’inizio di un calvario lungo 15 anni, 2 mesi e 22 giorni. Al processo, Morrone spiega il suo alibi: al momento del delitto non era davanti alla scuola, ma nell’appartamento di alcuni vicini di casa ai quali stava riparando un acquario. Lo confermano i coniugi e la madre di Domenico, che quel giorno incontra anche un appuntato dei Carabinieri all’angolo di una salumeria. Per i giudici è tutta un’invenzione: è impensabile, sostengono, che all’ora di pranzo qualcuno ripari un acquario. E così sia i vicini sia la madre di Morrone vengono condannati per falsa testimonianza. Per i giudici, il duplice omicida è lui e basta. Ma in quell’aula i fatti prendono pieghe strane. A Morrone, una volta arrivato in Questura, viene eseguito lo stub. Un esame di rito che in un primo momento conforta la speranza dell’uomo di affermare la propria innocenza. Sulla mano sinistra vengono rintracciate due piccole particelle di piombo ed ammonio, sostanze che avrebbe potuto trovare quasi ovunque. Così nell’immediatezza viene annotato che quelle mani, quel giorno, non hanno impugnato un’arma. Ma un anno dopo viene effettuata una nuova perizia e il risultato è sconvolgente: Morrone ha sparato con tutte e due le mani e oltre al piombo e all’antimonio viene individuato anche il bario, che fornisce la prova dello sparo. Ma c’è di più: gli abiti di Domenico che quel giorno indossa jeans e camicia col colletto marrone - spariscono dalla cancelleria del Tribunale dopo esser stati visionati dai testimoni oculari e che non li riconoscono come gli abiti usati dal killer, che invece sono neri. Nemmeno l’identikit corrisponde a quello di Morrone: chi ha sparato è quasi calvo ed alto, mentre lui, anche oggi, ha ancora tutti i capelli ed è poco più di un metro e sessanta. Quanto al mezzo, l’assassino spara da un’auto nera, Domenico ne ha una bianca, parcheggiata in garage perché con le ruote a terra e malconcia. Ma tutti questi elementi non bastano. Per la procura le prove sono granitiche, anche se Domenico, leggendo le carte, capisce che le cose non tornano. I testi che lo accusano, due ragazzini, sembrano poco credibili. Dicono di averlo indicato come il colpevole forse in un momento di confusione e ritrattano tutto. Morrone si convince di poter essere assolto. Ma a fine ‘ 91, con già un anno di custodia cautelare sulle spalle, arriva la stangata: 21 anni di condanna. La sua fiducia nella giustizia si incrina. La condanna, processo dopo processo, diventa definitiva. Domenico perde il lavoro e la fidanzata, che lo lascia per la vergogna. La madre anziana, senza di lui, vive da sola e in povertà. Per due volte la Cassazione annulla la sentenza d’appello e per altrettante i giudici di secondo grado di Bari confermano la condanna a 21 anni. Morrone non ci crede più. Ma dopo sei anni, a settembre del 1996, qualcuno parla. Due collaboratori di giustizia squarciano il velo: non è stato Morrone. Ma devono passare altri 10 anni per poter ottenere una revisione del processo, perché la richiesta della difesa viene respinta quattro volte. Solo la quinta volta, quando già Domenico ha trascorso 13 anni in carcere, ce la fa: nel 2004 inizia il processo di revisione davanti alla Corte d’appello di Lecce. Domenico torna a guardare in faccia dei giudici, ma questa volta gli credono, credono ai testimoni, credono ai pentiti. A sparare, spiegano, è stato in realtà un uomo che voleva vendicare lo scippo subito da una donna la mattina del delitto proprio dai due ragazzini. Saverio Martinese e Alessandro Ble, i due collaboratori di giustizia, lo dicono chiaramente, indicando Domenico Morrone: “Quell’uomo è estraneo agli omicidi, il vero colpevole è un altro. Si tratta del figlio della donna che ha subito lo scippo, ce lo ha detto lui”. Nel 2006, 15 anni, 2 mesi e 22 giorni dopo il suo arresto, la verità bussa alla porta: assoluzione per non aver commesso il fatto, Domenico ha ormai 42 anni. In carcere ha contratto l’epatite b e ne esce psicologicamente devastato e con 20 chili in più. Il suo primo pensiero è avvisare la madre: “Sono innocente, mamma - le dice al telefono piangendo -. Mi hanno detto che sono innocente!”. Quando la sentenza diventa definitiva, gli avvocati di Morrone presentano il conto allo Stato: una richiesta di risarcimento tra gli 8 e i 12 milioni di euro per errore giudiziario. Ne ottengono 4 e mezzo, poco più di 800 euro per ogni giorno passato dentro da innocente. “Oggi sono libero e felice. Però non è una felicità piena. Continuo a chiedermi perché nessuno mi ha mai creduto? Era tanto difficile ammettere di aver sbagliato? Mi hanno umiliato. Perché?”. Brindisi. Carcere sovraffollato: “Impossibile la rieducazione del detenuto” di Gianluca Greco brindisireport.it, 27 agosto 2021 Oggi la visita di una delegazione del Partito Radicale e di Nessuno tocchi Caino nella casa circondariale in via Appia. “Attualmente 183 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 114. Solo 30 hanno la possibilità di svolgere un lavoro”. Complicata la situazione nel carcere di Brindisi, in linea con quanto avviene in gran parte delle case circondariali italiane. Fra sovraffollamento, spazi angusti, presenza di persone affette da tossicodipendenza e soggetti psichiatrici, diviene impossibile ottemperare alla funzione rieducativa della detenzione. Lo ha spiegato a Brindisi Report l’onorevole Rita Bernardini, al termine di una visita presso l’istituto di pena di Via Appia effettuata stamattina (giovedì 26 agosto) da una delegazione del partito Radicale e di Nessuno Tocchi Caino, cui hanno partecipato anche gli onorevoli Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti insieme a Giovanni Zezza, Anna Briganti, Cosimo Lodeserto, Fabio Di Bello, Silvia Camon, Barbara Mennitti e Stefano Caliciuri. L’iniziativa è scaturita da una serie di aggressioni ai danni di agenti della Polizia Penitenziaria che si sono svolte nelle scorse settimane. Su 183 persone attualmente detenute (a fronte di una capienza regolamentare di 114), sono 111 quelle con sentenza definitiva. Solo 30 hanno la possibilità di svolgere un lavoro. Quarantasette persone sottoposte a trattamento metadonico per problemi di tossicodipendenza. Sono 17, invece, i casi psichiatrici. A tal proposito la delegazione ha incontrato lo psichiatra responsabile di questo e di altri istituti pugliesi, il quale, come spiegato da Rita Bernardini, ha raffigurato una “situazione drammatica”, figlia anche di una chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari “fatta male”. “Nelle carceri - spiega la Bernardini - ci sono persone che non dovrebbero starci, con disagi psichiatrici importanti”. Riguardo alle aggressioni, sono tre i casi singoli di persone con problematiche psichiche riscontrati nell’ultimo periodo. Le celle sono aperte per otto ore al giorno, divise fra i cosiddetti passeggi di cemento, in cui il caldo è asfissiante, e le salette della socialità, che però non bastano per tutti. La Bernardini elogia la direttrice e il comandante del carcere per la professionalità con cui gestiscono la struttura, affrontando notevoli problematiche. La situazione, come detto, è critica a livello nazionale. Una delle proposte avanzate al ministro della Giustizia, Marta Cartabia, dai Radicali e da Nessuno tocchi Caino consiste nella richiesta di riduzione della popolazione detenuta, tramite l’istituto della liberazione anticipata speciale. Basti pensare che in carcere entrano anche persone che devono scontare appena un mese di pena. Verona. Stop al Sert in carcere: “È allarme” di Laura Tedesco Corriere di Verona, 27 agosto 2021 Da giugno l’Usl non rinnova i contratti. Chiesto incontro urgente al direttore Girardi. Stop ai trattamenti e alle cure anti-dipendenza per i detenuti in carcere. Da due mesi a Montorio il servizio e l’assistenza del Sert sono bloccati. Tutto interrotto come un fulmine a ciel sereno, dopo anni di collaborazione. È allarme da quando, il 26 giugno scorso, non si sono più visti all’interno del penitenziario scaligero gli operatori del Dipartimento per la lotta alle dipendenze, in primis quella legata alla droga che anche a Verona affligge una larga fetta della popolazione carceraria. Stop ai trattamenti e alle cure anti-dipendenza per i detenuti in carcere. Da due mesi a Montorio il servizio e l’assistenza del Sert sono bloccati. Tutto interrotto come un fulmine a ciel sereno, dopo anni di collaborazione costante e fruttuosa. È allarme da quando, il 26 giugno scorso, non si sono più visti all’interno del penitenziario scaligero gli operatori del Dipartimento per la lotta alle dipendenze, in primis quella legata alla droga che anche a Verona affligge una larga fetta della popolazione carceraria. La vicenda sta destando seria preoccupazione e ha tenuto banco nel corso della visita a Montorio che la Commissione Carcere della Camera Penale di Verona ha effettuato a Ferragosto. Come in altre città d’Italia, gli avvocati scaligeri hanno voluto testare il 15 agosto la situazione dei detenuti all’interno della struttura. Hanno incontrato la direttrice Maria Grazia Bregoli, che “ci ha segnalato - riferisce la Commissione, di cui è responsabile a Verona l’avvocato Simone Bergamini che è anche membro dell’Osservatorio nazionale carcere - una grave problematica di carattere sanitario che sta incidendo notevolmente sulle condizioni di vita dei detenuti e sui percorsi trattamentali. Dal 26 giugno gli operatori del Sert non sono più presenti all’interno del carcere in quanto l’Usl non ha inteso rinnovare i contratti agli operatori che da anni seguivano i sempre più numerosi casi di persone affette da dipendenza e progettavano percorsi di cura interni o esterni, ambulatoriali o comunitari”. Secondo i penalisti, “questa improvvisa e immotivata interruzione del rapporto, su cui la direttrice Bregoli ci riferisce di avere chiesto spiegazione al Direttore dell’Usl senza ottenere risposta alcuna, sta generando preoccupazione non solo tra gli ospiti della struttura ma anche tra gli educatori, in quanto i percorsi trattamentali in cui la componente sanitaria è sempre più spesso una importante parte, sono di fatto rallentati o bloccati”. Non è finita: “A ciò si aggiunga che, sempre per restare sulla parte sanitaria, ben 5 medici di guardia assegnati all’Istituto hanno già dato le dimissioni”. Come intervenire? “Rispetto a tali problematiche -annuncia la Commissione Cardella Camera Penale Veronese - unitamente con il Garante delle persone private della libertà personale di fresca nomina Don Carlo Vinco, chiederemo urgentemente un incontro con il direttore dell’Usl scaligera Girardi”. Al 15 agosto, cifre alla mano, 461 erano i detenuti totali, di cui 54 donne. In generale, la Commissione ritiene “la situazione positiva e gli sforzi della Direzione nel creare opportunità formative, lavorative e ricreative vanno nella auspicata ricerca di implementare le opportunità alternative al carcere”. I fatti lo dimostrano: “Nonostante la pandemia - sottolineano i penalisti scaligeri - i percorsi trattamentali, formativi e lavorativi non sono praticamente mai stati sospesi, tranne che nei periodi di picco dei cluster interni, e anzi grazie all’intraprendenza della Direzione sono stati addirittura implementati. Da settembre partiranno un corso di odontotecnica e uno per manutentori edili, che si vanno ad affiancare a quello già in essere con l’Istituto alberghiero Berti”. Aumentate anche “le attività legate alla pensione per i cani, al pascolo e alla cura delle pecore, alla cura dei cavalli con la creazione di due corsi specifici per aiuto maniscalco e responsabile di scuderia”. Sono stati poi rinnovati gli accordi con Progetto Esodo e Cariverona, infine “dovrebbe partire a breve una importante opera di riqualificazione del forno interno, della cucina e di alcuni settori della sezione femminile”. Bergamo. I “Dolci Sogni” dei detenuti hanno il sapore del pane fresco primabergamo.it, 27 agosto 2021 È stato inaugurato sabato 15 dicembre in via Locatelli, a Nembro. È “Dolci Sogni”, il nuovo bar con laboratorio per la produzione di prelibatezze da forno sia dolci che salate. L’obiettivo è vendere i prodotti realizzati da detenuti del carcere di Bergamo e da persone diversamente abili della Val Seriana. Il bar laboratorio “Dolci Sogni” è nato grazie alla collaborazione tra diverse realtà no profit del territorio, prima fra tutte la cooperativa sociale Calimero di Albino, che già gestisce il progetto “Dolci Sogni Liberi” al carcere di via Gleno. “Siamo partiti quattro anni fa con il forno alla Casa Circondariale di Bergamo - spiega Rosalucia Tramontano, Responsabile Cooperativa Calimero - perché crediamo nel valore generato dall’inserire nel mondo del lavoro persone svantaggiate come chi sta scontando una pena o ha appena finito di scontarla. Inserire queste persone in un contesto produttivo come questo è un modo concreto per entrare a pieno titolo nel sistema sociale che non solo promuove la legalità, ma si occupa anche di prevenzione e recupero. Ai detenuti offriamo la possibilità di partecipare a un’attività lavorativa che consenta loro di acquisire competenze per una prossima emancipazione attraverso il proprio lavoro. La ricetta è semplice: il lavoro al forno “Dolci Sogni Liberi” aumenta l’autostima e la fiducia in se stessi, rafforzando qualità come la puntualità e l’affidabilità e promuovendo l’interazione con le persone”. L’iniziativa ha avuto successo? Eccome. “Sempre più persone richiedevano i nostri prodotti, che vendevamo all’interno di negozi equosolidali dove facevamo anche rifornimento per la materia prima - racconta la responsabile di Calimero - ma non bastava. Da qui l’idea di aprire un punto vendita solo nostro, con annesso un piccolo laboratorio che affiancherà quello già ben avviato nella Casa Circondariale. È aperto non solo a detenuti o ex detenuti, ma anche a persone con disabilità, in particolare che riguardano lo spettro autistico, seguite dalle associazioni che hanno... Bologna. Il Teatro del Pratello di Massimo Marino Corriere di Bologna, 27 agosto 2021 “Memorie di mani” è il nuovo spettacolo diretto da Paolo Billi nel carcere minorile: “La boxe tra un artista e un intellettuale”. Ci sono spunti da favole di Giambattista Basile e dei fratelli Grimm, ma anche da pagine di Heidegger e dello storico dell’arte Focillon alla base dell’ultimo lavoro del Teatro del Pratello all’interno dell’Istituto penale minorile di Bologna. Ci sono padri che tagliano le mani alle figlie e figlie che si amputano gli arti di fronte alle tentazioni sessuali dei fratelli. Ci sono Svevo, Pirandello e altri autori, ma anche la boxe, giocata su un ring, una lotta ritualizzata, con le mani che seguono traiettorie e regole precise. Billi, si vedrà dal 31 agosto al 3 settembre all’interno dell’Istituto penale minorile di via del Pratello, con ingresso, con Green Pass, da via De Marchi 5/2 a partire dalle 20.30 (inizio dello spettacolo alle 21). È il primo studio di uno spettacolo che sarà presentato nella versione definitiva il 4 gennaio nella sala piccola dell’Arena del Sole. La novità è che di solito prima veniva realizzato il lavoro in teatro, con i giovani affidati a comunità esterne al carcere, e poi quello veniva ripreso tra le mura del Pratello. Questa volta avviene il contrario: a causa della pandemia, ma anche per un nuovo investimento nell’attività dentro un Istituto che presto amplierà il numero di ragazzi ristretti. “Abbiamo a disposizione tre piani - ha spiegato alla presentazione la direttrice Paola Ziccone - e finora ne abbiamo utilizzati solo due. Presto dovremo aumentare insieme alla capienza le nostre attività. Da questo punto di vista il teatro di Billi, in continuo e stretto rapporto con le altre iniziative formative interne, ha un alto valore pedagogico. Anche per la capacità di far dialogare il carcere con la società esterna, creando relazioni”. “Memorie di mani” fa parte del progetto triennale del Coordinamento teatro carcere Emilia Romagna “Padri e figli”. Abbiamo visto a Bologna già due creazioni che riflettevano sulle eredità lasciate dai padri e sulla capacità di interpretare le orme, spesso incerte, che impresse dai figli. Qui, in collaborazione con l’associazione Sempre Avanti e con la consulenza di Cristina Angioni, si boxa. “È un incontro di boxe tra un intellettuale e un artista, tra uno che pensa e uno che crea” spiega il regista. E continua: “La nobile arte di menare le mani diventa, evidentemente, una metafora, in uno strano spettacolo, che ho scritto insieme a R. Sulemani - ha aggiunto il regista - L’avevo conosciuto qui dentro per lo spettacolo “Bagatelle” da Laurence Sterne. Poi è uscito, ma ha avuto una storia giudiziaria complicata. L’ho ritrovato in un carcere per adulti: abbiamo iniziato una corrispondenza. Gli ho inviato spunti letterari, lui li ha riscritti, ha dato un ritmo adatto allo spettacolo ai testi, e ne è venuto fuori questo divertissement sulla mano e sulla sua simbologia”. Un esempio dei testi può essere questo inizio di un copione pieno di pazzarielli, bianchi e neri, Pulcinelli, figli, con lo stesso Sulimani e la sorella dalle mani tagliate: “Dammi la mano per me sei un fratello / Dammi la mano la mano che uccide / la mano che graffia la mano che stringe / le mani tagliate / devo stare fermo ho le mani legate / tante speranze nulla reale / l’ape reale in un alveare, l’ape reale in un alveare”. In scena quindici ragazzi o giovani adulti ristretti nel Pratello, con Bianca Pozzorani. Le scene di Irene Ferrari sono state realizzate con i ragazzi dell’Area penale esterna al carcere. Collaborazione di Elvio Pereira de Assunçao e Francesca Dirani, luci di Flavio Bertozzi. “Nel cartellone di Bologna Estate - aggiunge durante la presentazione Giorgia Boldrini, direttrice del Settore Cultura del Comune - abbiamo visto vari lavori del Teatro del Pratello, con ragazzi e soggetti differenti. La sua forza è proprio questa presenza multiforme, in una importante attività che mette in relazione, fa ritrovare: un’esigenza primaria in questi tempi di costretto distanziamento”. Il referendum sull’eutanasia: l’ultimo grimaldello di Michele Ainis La Repubblica, 27 agosto 2021 È la sola voce offerta ai cittadini, specie in questa stagione d’emergenze. Chi ha paura del referendum? Quello sull’eutanasia ha già varcato la soglia delle 500 mila firme (e superato le 750 mila), con sei settimane d’anticipo rispetto alla scadenza; e senza l’appoggio d’un gruppo parlamentare né un partito, dato che il comitato promotore s’incarna nell’Associazione Coscioni, insieme a una rete di gruppi civici e realtà territoriali. Una sorpresa, o meglio una disgrazia, per quanti confidavano nell’inerzia delle Camere. D’altronde la prima proposta di legge sull’eutanasia recava la firma di Loris Fortuna, 37 anni fa: campa cavallo. Sicché è partita la contraerea dei cattolici, anche stavolta nel silenzio dei partiti, ammesso che i partiti cattolici siano ancora vivi. Difatti a ribellarsi è la Conferenza episcopale, la Pontificia accademia per la vita, l’Associazione dei medici cattolici. E la diatriba, al momento, si sviluppa su argomenti giuridici, in attesa della conta nelle urne. Sarà bene prenderli sul serio, benché il diritto, alle nostre latitudini, non sia mai una cosa seria. Primo: l’ammissibilità del referendum. La Costituzione disciplina soltanto quello abrogativo; l’esperienza, viceversa, ci ha donato una quantità di referendum manipolativi, e in sostanza innovativi. Basta cancellare dal testo della legge una virgola di qua, un aggettivo di là, e qualsiasi frase cambia senso, come in un gioco di parole. Ma in questo caso no, nessun giochino. Il quesito che verrà sottoposto agli elettori propone d’amputare un intero periodo dall’articolo 579 del codice penale, quello che punisce l’omicidio del consenziente. Sopravvive tuttavia la pena se il fatto è commesso nei confronti di minori, degli infermi di mente, di persone il cui consenso venga estorto con la violenza o con l’inganno. Dunque un’abrogazione parziale, rispettando in pieno la Costituzione. Secondo: gli effetti. Qui l’obiezione è più tosta, più calibrata. La formula Giovanni Flick, presidente emerito della Consulta: il referendum apre una contraddizione, perché al suo esito rimarrebbe punito l’aiuto al suicidio (meno grave) e non l’omicidio del consenziente (più grave). Vero, ma quest’effetto s’accompagna giocoforza a ogni intervento di depenalizzazione, specie in un ordinamento affollato come il nostro, dove s’incontrano 35 mila fattispecie di reato. A guardarsi attorno, si troverà sempre una condotta penale più innocente di quella che il referendum intende depenalizzare. Dovremmo vietare allora tutti i referendum sui delitti e sulle pene, ma sarebbe, questa sì, una pena. Terzo: il conflitto tra valori. Da un lato, la sacralità della vita, bene indisponibile e intangibile; dall’altro, la libertà degli individui, che si traduce nell’autodeterminazione, nella facoltà di decidere sul proprio destino. Due valori opposti, di matrice etica, religiosa, filosofica, e però anche giuridica, dato che la Costituzione ritaglia uno spazio per entrambi. Come si compone, dunque, la loro antinomia? Attraverso la tecnica del bilanciamento (balancing test), da sempre in uso presso i tribunali costituzionali. Significa che nessun valore può ottenere il sopravvento, schiacciando le ragioni dell’altro; altrimenti s’aprirebbe un varco alla “tirannia dei valori” paventata da Carl Schmitt. Ma è esattamente questa la virtù del quesito referendario, la sua prudenza, giacché l’eutanasia legale rimane illecita in tre distinte situazioni. Quarto: la democrazia referendaria. È un intralcio, se non proprio un ostacolo, alla democrazia rappresentativa? L’accusa risuona contro i referendum sulla giustizia promossi dai Radicali e dalla Lega, che si sarebbero messi per traverso rispetto alla riforma Cartabia; ma viene pronunziata, sia pure a voce bassa, anche nei riguardi dell’eutanasia. Tuttavia è un’accusa infondata, soprattutto in questo caso. Sui temi etici il Parlamento non cava un ragno dal buco; e infatti i ragni stanno tutti sottoterra, dall’omofobia allo Ius soli, dalla legge sulle droghe leggere a quella sull’eutanasia. Il referendum, perciò, è l’unico grimaldello che ci resta. È anche la sola voce offerta ai cittadini, specie in questa stagione d’emergenze, dove rimbomba la voce solitaria del governo. Non a caso da luglio è stata avviata una raccolta firme anche per un doppio referendum sulla caccia. Insomma, presto ci toccherà votare; e non è affatto un male. Negato il diritto al suicidio assistito, denunciata l’azienda sanitaria delle Marche di Mario Di Vito Il Manifesto, 27 agosto 2021 Primo caso in Italia. Malato tetraplegico contro l’Asur che non avrebbe verificato le sue condizioni cliniche. Il reato contestato è omissione di atti d’ufficio spiegano dall’associazione Luca Coscioni che segue il caso. Il tempo è scaduto: dopo la diffida inviata qualche settimana fa, Mario (nome di fantasia), 43 anni, da 10 immobilizzato a causa di un incidente stradale, ha denunciato l’azienda sanitaria delle Marche per omissione d’atti d’ufficio. Per l’uomo, assistito in questa sua lotta per un fine vita dignitoso dall’associazione Luca Coscioni, l’Asur non avrebbe verificato le sue condizioni cliniche in modo da accertare il suo diritto ad accedere al suicidio assistito, così come previsto dalla sentenza della Corte Costituzionale sul caso Cappato-dj Fabo. Ad annunciare il passo, definito “primo caso in Italia di un cittadino che denuncia la pubblica amministrazione per aver violato il proprio diritto all’aiuto al suicidio”, sono stati direttamente Marco Cappato e Filomena Gallo dell’Associazione Luca Coscioni, di passaggio ieri ad Ancona per la raccolta firme per il referendum sull’eutanasia legale. Nell’agosto dell’anno scorso, Mario si era rivolto all’Asur chiedendo di verificare la presenza delle condizioni poste dalla Corte costituzionale per poter accedere al suicidio assistito. L’azienda sanitaria, però, oppose un fermo rifiuto e così il 43enne decise di portare la faccenda in tribunale. In prima istanza, i giudici di Ancona con una sentenza negarono a Mario la possibilità di accedere alla morte assistita, poi, lo scorso 9 giugno, lo stesso tribunale del capoluogo marchigiano ha ribaltato la decisione precedente ed ha emanato un’ordinanza rivolta all’Asur affinché facesse tutte le verifiche del caso. L’Asur però ancora non ha mosso neanche un dito. Mario, dopo aver scritto una lettera aperta a cui ha risposto anche il ministro della Salute Roberto Speranza (dicendo che la sentenza della Corte deve essere applicata), ha infine deciso di andare sul penale, e così è partita la denuncia nei confronti dell’azienda sanitaria delle Marche. “Di fronte alla violenza perpetrata sotto la responsabilità del presidente delle Marche Francesco Acquaroli contro Mario, chiediamo al Governo e al ministro Speranza di agire immediatamente per interrompere la flagranza di reato in corso e attuare un provvedimento di commissariamento della Regione per attuare la visita medica che Mario attende ormai da un anno - insistono Cappato e Gallo -. In caso contrario, alla responsabilità di Acquaroli si aggiungerà anche quella di Speranza, del premier Draghi e di tutto il governo”. Intanto, la corsa della raccolta firme per il referendum sull’’utanasia legale non si ferma. Come annunciato da Cappato, ormai le adesioni hanno superato quota 750.000, di cui 500.000 ai banchetti sparsi per l’Italia e 250.000 online, oltre a un numero imprecisabile raccolte nei Comuni, nei consolati e negli studi degli avvocati che hanno dato la propria disponibilità ad autenticare la campagna. Afghanistan. “Giorni dolorosi”, ma l’Europa continua a non volere i profughi di Leo Lancari Il Manifesto, 27 agosto 2021 “Ci aspettano giorni dolorosi”, dice Paolo Gentiloni quando a Bruxelles cominciano ad arrivare le notizie sugli attentati all’aeroporto di Kabul. Il commissario Ue all’Economia spinge perché l’Unione europea per una volta si decida ad aprire le sue porte almeno agli afghani più vulnerabili che si potrebbero portare via organizzando dei corridoi umanitari. “Stiamo parlando di qualche decina di migliaia di persone, non di milioni”, spiega. Inutilmente, viene da dire, visto che almeno per ora i 27 non sembrano essere in grado di fare scelte comuni. Ieri si è tenuta una riunione degli ambasciatori dalla quale sarebbe dovuto uscire almeno il numero di afghani che l’Ue è disposta ad accogliere, ma non si è giunti a nulla di fatto. Tutto rimandato, magari a martedì prossimo, 31 agosto, quando si terrà un vertice dei ministri dell’Interno per valutare le misure da adottare in conseguenza alla nuova e sempre più drammatica situazione in cui è precipitato l’Afghanistan. Si discuterà di sicurezza, ma anche della gestione di un eventuale - anche se per ora improbabile - flusso di rifugiati che dovesse muovere verso l’Europa. E ancora una volta si va in ordine sparso: “Non ripeteremo l’errore strategico del 2015” ha ripetuto anche ieri il premier sloveno Janez Jansa che già nei giorni scorsi, senza che nessuno glielo chiedesse, ha affermato che l’Ue “non organizzerà corridoi umanitari”. Nel frattempo la Commissione europea ha ricordato come tutti gli Stati membri devono presentare entro la metà di settembre “i propri impegni” in materia di accoglienza e in particolare sulle quote di rifugiati che sono disposti ad accogliere. In questo caso, però, si parla di quanti hanno collaborato con gli occidentali e che per questo rischiano di essere uccisi dai talebani. Su tutti gli altri regna l’incertezza. Nei giorni scorsi l’alto rappresentante per la politica estera della Ue, Josep Borrell, aveva proposto di utilizzare per i profughi afghani una direttiva del 2001 sulla protezione temporanea per i richiedenti asilo. La direttiva prevede il riconoscimento della protezione per tre anni, ma nessuna obbligatorietà per gli Stati ad accogliere i profughi. Successivamente, però, un portavoce della Commissione ha smentito la possibilità di poterla utilizzare visto che la stessa commissione ha proposto di abrogarla per sostituirla con un nuovo regolamento. In ogni caso, comunque, visto che non era previsto nessun obbligo per gli Stati di accettare i profughi, si sarebbe proceduto come al solito su base volontaria. Cosa intenda fare l’Europa per fermare i profughi è comunque chiaro: se proprio non è possibile evitare che escano dall’Afghanistan allora vanno bloccati nei Paesi confinanti, Pakistan, Iran e Tagikistan. “Non dovremmo aspettare di avere rifugiati afghani alle nostre frontiere esterne”, ha spiegato la commissaria agli Affari Interni Ylva Johansson, che ha invitato gli Stati membri a “non intraprendere azioni unilaterali”. Viceversa, per la commissaria occorre stanziare fondi per aiutare sia gli afghani che ancora si trovano nel Paese, che gli Stati confinanti con un finanziamento di 200 milioni di euro in aiuti umanitari. Un modo, ha concluso Johansson, per “assicurarsi di non finire in una situazione in cui molte persone intraprendono pericolose rotte dei trafficanti che portano alle nostre frontiere esterne”. Afghanistan. Morte a Kabul: i due fronti di un incubo che si aprono di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 27 agosto 2021 Chiudere la fase critica, consapevoli di quanto sia difficile la nuova. E quanto incerti siano gli scenari per chi è stato in tutti questi anni al fianco degli Stati Uniti, alleati in quella che si è trasformata in una tragica disfatta. L’inferno scatenato in queste ore nell’aeroporto di Kabul consegna al mondo la fotografia di una minaccia che fino a qualche settimana fa appariva impensabile. Le immagini dei feriti, delle vittime, delle madri disperate che vagano alla ricerca dei propri figli mostrano al mondo gli effetti della sconfitta subita in pochissimi giorni dall’Occidente. E rende concreto il rischio di abbandonare al proprio destino gli afghani che in questi anni sono stati collaboratori preziosi del contingente e delle organizzazioni che si illudevano di portare pace e democrazia. L’attacco di ieri pomeriggio e i timori di quello che può ancora accadere costringono il governo guidato da Mario Draghi a rivedere la pianificazione delle prossime ore, ridisegnando una strategia diplomatica e di intelligence dagli esiti tutt’altro che scontati. A Kabul erano rimasti circa 120 italiani tra personale della Farnesina, soldati, carabinieri. E 500 afghani che avevamo preso l’impegno di proteggere e portare in salvo. Funzionari e militari che hanno rischiato la vita soltanto perché “dobbiamo finire il lavoro”, come ha ben spiegato il giovane console Marcello Claudi. Il rientro di tutti è stato previsto entro il 31 agosto, data imposta dai talebani per il ritiro completo che comprenda anche e soprattutto gli Stati Uniti. È una corsa contro il tempo, l’obiettivo è dichiarare prima possibile l’operazione conclusa. Chiudere la fase critica, consapevoli di quanto sia difficile la nuova che si apre. E quanto incerti siano gli scenari per chi è stato in tutti questi anni al fianco degli Stati Uniti, alleati in quella che si è trasformata in una tragica disfatta. C’è l’incubo del terrorismo che ritorna in un occidente già fiaccato da quasi due anni di pandemia e da una crisi economica gravissima. Ma non sembra questa la prima emergenza da contrastare. Adesso c’è da affrontare la crisi umanitaria, bisogna farsi carico di un popolo ostaggio dei nuovi governanti e della loro possibile vendetta. Si devono mettere al sicuro le donne che i talebani minacciano di rendere schiave e quelle che hanno già deciso di eliminare. L’accoglienza di 4.000 afghani che sono stati finora al fianco degli italiani, è soltanto una minima parte dell’impegno. “Non abbandoneremo nessuno” ha promesso dieci giorni fa il ministro degli Esteri Luigi Di Maio mentre i talebani conquistavano la capitale afghana. E ieri ha proposto al governo una “cabina di regia” che gestisca nei prossimi mesi l’arrivo dei profughi e la loro permanenza nel nostro Paese per garantire loro una vita dignitosa. Sono migliaia di persone che cercheranno ogni modo e ogni mezzo per fuggire dalla propria patria dove nessuno è in grado di garantire loro la sopravvivenza. Senza tralasciare il sostegno economico e logistico alle organizzazioni non governative che hanno scelto di rimanere in Afghanistan per stare al fianco di chi non è riuscito ad andare via. È la sfida che l’Italia dovrà affrontare sin da oggi, la scommessa che dovrà vincere. Ma non potrà farlo da sola. Quel piano in cinque punti che il governo sta mettendo a punto in queste ore per proteggere chi si è messo a disposizione degli occidentali negli ultimi anni, deve essere condiviso con l’Unione europea e con la Nato. Improvvisare non è consentito. La posta in gioco è troppo alta. Il fenomeno migratorio proveniente in modo particolare dall’Africa che negli ultimi anni ha trasformato il nostro Paese nella porta di accesso dell’Europa ha dimostrato quanto fragili siano gli equilibri internazionali, quanto forti gli egoismi dei vari governi, i distinguo di alcuni partiti. Ora c’è bisogno di uno scatto. Si devono predisporre corridoi umanitari, organizzare ponti aerei. Si deve collaborare perché non ci sia chi rimane indietro e perché non sia consentito a nessuno di guardare altrove, di illudersi che il problema non lo riguardi. L’appello rivolto ai Paesi del G7 dal presidente Draghi è stato chiaro: “Finora non siamo stati in grado di avere sul tema dell’immigrazione un approccio coordinato e comune. Adesso dobbiamo compiere su questo sforzi enormi”. E bisogna farlo tutti insieme. Colombia. Stillicidio di attivisti, a Bogotá la protesta punta al Congresso di Claudia Fanti Il Manifesto, 27 agosto 2021 Almeno 112 i leader sociali uccisi nel 2021, 819 dall’insediamento della destra di Duque. La mobilitazione si allarga: non solo contro le violenze, ma per scuola, salute e reddito. Ancora massacri, violenze, assassinii selettivi, repressione. Non accenna ad arrestarsi quel “genocidio politico” di cui il Tribunale permanente dei popoli, nella sua sentenza del 17 giugno scorso, ha riconosciuto colpevole lo Stato colombiano durante gli ultimi 19 governi. E se il Tpp ha ricondotto le maggiori atrocità ai governi presieduti da Álvaro Uribe, dal 2002 al 2010, di certo non scherza neppure quello del suo figlioccio politico, l’attuale presidente Iván Duque. Secondo l’Indepaz, l’Istituto di studi per lo sviluppo e la pace, solo nel corso di quest’anno si sono registrati 67 massacri e sono stati uccisi 112 leader sociali - gli ultimi tre tra sabato e mercoledì -, per un totale di 819 a partire dall’insediamento presidenziale di Duque nel 2018 e di 1.227 dalla firma, due anni prima, di quell’Accordo di pace rimasto in massima parte sulla carta. Con l’assassinio, domenica scorsa nel dipartimento del Caquetá, di Jair Danilo Calderón Aranda, sono arrivati a 284 gli ex combattenti per cui è risultata fatale la rinuncia alle armi, 35 dei quali uccisi nell’anno in corso. Tra loro anche Hernán Vásquez, assassinato il 9 agosto, sempre nel Caquetá, mentre si trovava in vacanza dai suoi studi di medicina a Cuba, dove sarebbe dovuto rientrare domani. Grande indignazione ha provocato in particolare, lunedì scorso, l’assassinio a Popayan, in pieno centro, del leader studentesco Esteban Mosquera Iglesias, 26 anni, studente della facoltà di Musica dell’Università del Cauca, raggiunto da diversi proiettili sparati da due sicari a bordo di una motocicletta. Già nel dicembre 2018, durante una pacifica mobilitazione studentesca, Mosquera aveva perso l’occhio sinistro a causa di un gas lacrimogeno lanciato, dritto in faccia, da un agente dell’Esmad, lo Squadrone mobile antisommossa della polizia colombiana. Non aveva tuttavia rinunciato alla lotta, iniziando a collaborare con il mezzo di comunicazione alternativa Contra Portada, per il quale accompagnava il “paro nacional”, la rivolta anti-governativa iniziata il 28 aprile e mai del tutto rientrata. Perché, malgrado la sospensione delle mobilitazioni decisa a giugno dal Comité del paro, la lotta della “Primera línea” - l’avanguardia delle proteste costituita soprattutto dai giovani dei quartieri poveri, i veri protagonisti, nei mesi scorsi, di barricate e blocchi stradali - non si è mai interrotta. Tant’è che, come ha riferito ieri il quotidiano El Tiempo, proprio per la sua partecipazione alle proteste antigovernative è stato arrestato a Bogotá il 34enne italiano Silvio Ginanneschi, che verrà immediatamente espulso dal paese. Entrato in Colombia il 21 agosto, si era unito alla Primera línea, entrando a far parte di un gruppo di circa 200 persone che si erano scontrate con l’Esmad, martedì scorso, a Usme, un quartiere della capitale. Già a fine luglio, del resto, il governo colombiano aveva espulso la cittadina tedesca Rebecca Sprösser, con l’accusa di aver preso parte alle manifestazioni di protesta a Cali. Era con lei che si trovava il leader della Primera línea Johan Sebastián Bonilla, già vittima di minacce e intimidazioni, quando il 22 luglio scorso è stato raggiunto da 13 colpi di arma da fuoco. “Abbiamo dovuto portarlo in tre ospedali, perché i primi due erano pieni - ha poi riferito Rebecca Sprösser - Non si è mai lamentato, ha lottato come un leone. L’unica cosa che mi ha chiesto è stata di non lasciarlo solo. E ho mantenuto la promessa”. Ed è proprio di fronte ai reiterati massacri e assassinii di leader sociali e di ex combattenti, alla persecuzione dei giovani manifestanti, alle permanenti violazioni dei diritti umani e all’assenza di dialogo con i settori sociali che il Comité del paro ha convocato ieri una nuova giornata di protesta a Bogotá e nelle principali capitali dipartimentali. Una mobilitazione che si è posta, tuttavia, anche altri due obiettivi: quello di denunciare il nuovo progetto di Riforma Tributaria - dopo la revoca del primo a causa della rivolta sociale - e quello di esigere dal Congresso la discussione dei dieci progetti di legge presentati dal comitato dopo il fallimento dei negoziati con il governo Duque, dal reddito di emergenza all’accesso gratuito all’università, dal rafforzamento del sistema di salute pubblico al sostegno alle piccole e medie imprese, fino alle garanzie del diritto alla protesta pacifica. ANCHE SE, IN ASSENZA di una pressione delle piazze come quella registrata a maggio, è assai improbabile che i progetti di legge presentati dal Comité del paro possano trovare accoglienza in un Congresso dominato dalle destre.