Nuove misure per la ripresa delle attività in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 agosto 2021 Dal 9 agosto, grazie a una circolare del direttore generale del Dap Gianfranco De Gesù, sono state adottate nuove misure per una ripresa delle attività in carcere. Resta fermo, ovviamente, il mantenimento di adeguate misure di prevenzione per evitare la diffusione del Covid 19. Per quanto riguarda i nuovi ingressi in carcere, non sarà più necessaria la rilevazione della temperatura, in quanto misura di limitata utilità dello screening dei positivi. Per tutti i detenuti che entrano (dalla libertà, da permesso e da semilibertà) dovrà continuare a svolgersi l’anamnesi epidemiologica e l’informativa sul Covid 19, con autocertificazioni con richiesta una tantum, salvo l’obbligo di riferire ogni mutamento di status. Sempre per quanto riguarda i detenuti che entrano in carcere, se non documentano spontaneamente di essere in possesso del green pass o comunque di non essere in possesso della copertura vaccinale, resta essenziale l’esecuzione di tampone antigenico rapido all’ingresso: laddove l’esito del tampone sia negativo, i nuovi giunti non dovranno essere sottoposti all’isolamento precauzionale e alla ripetizione del tampone decorsi cinque giorni dalla data di ingresso, ma potranno seguire il percorso ordinario di ingresso in istituto, salvo l’obbligo di riferire ogni mutamento di status. Laddove l’esito del tampone sia positivo, i nuovi giunti dovranno essere sottoposti all’iter già applicato negli Istituti che prevede isolamento, tracciamento e trattamento secondo le ordinarie procedure. Mentre per tutte le persone entranti che documentino di avere completato la vaccinazione o di essere guariti dalla infezione da Covid- 19 non sarà più necessario procedere all’esecuzione del tampone antigenico o di test anticorpali. La circolare del Dap, ordina che il personale sanitario, al momento dell’ingresso dei nuovi giunti, dovrà provvedere a fornire una completa informativa, comprensiva dell’indicazione di una pronta richiesta di intervento se si presentassero sintomi respiratori. Il personale sanitario dovrà altresì provvedere tempestivamente alla vaccinazione dei nuovi giunti non vaccinati, né guariti dal virus da Covid- 19. Per la ripresa delle attività trattamentali, fondamentali per il recupero dei detenuti, gli operatori esterni potranno essere ammessi, se in possesso di green pass, senza altro screening o, in mancanza, mediante l’esibizione di tampone effettuato nelle 48 ore precedenti alla data di ingresso. Nel frattempo il ministero della Giustizia rende noto i nuovi dati sulla diffusione del contagio. C’è una lieve tendenza di risalita, ma il contagio resta controllato. Secondo il monitoraggio settimanale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sono in tutto 70 i casi di positività tra i 52.199 detenuti presenti (7 in più rispetto alla scorsa settimana), di cui 5 sintomatici e uno ricoverato in ospedale. Aumentano da 92 a 108 i positivi fra gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, di cui 100 seguiti in ambito domiciliare, 6 in caserma e 2 ospedalizzati. In controtendenza i numeri che si riferiscono al personale amministrativo: i positivi passano da 10 a 4, tutti in cura presso le proprie abitazioni. Sono, a oggi, 70.686 le somministrazioni di dosi vaccinali alla popolazione detenuta (1.037 in più rispetto alla scorsa settimana), mentre pressoché stabili sono i numeri relativi al personale: sono stati avviati alla vaccinazione 24.219 appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria e 2.638 tra i dipendenti del comparto Funzioni Centrali. Ma in cella non si sta davvero “al fresco” di Lucio Boldrin* Avvenire, 26 agosto 2021 Sento e leggo molte persone che si lamentano per il caldo estivo. Anche io lo avverto, naturalmente. Ma, quando esco dal carcere, penso ai detenuti chiusi in una cella stretta e smetto di lamentarmi per l’afa. Si dice che in galera si sta “al fresco”, ma non è affatto vero. In carcere, forse per colpa del ferro e del cemento, si soffre di più il caldo e non entra mai un alito di vento. In prigione non esiste via di mezzo: fa un caldo bestia oppure un freddo boia. L’afa d’estate fa aumentare l’ansia e l’angoscia: le persone recluse dormono di meno, e di notte - mi raccontano - la nostalgia e il desiderio di libertà si fanno più forti. Un po’ tutto, con il caldo, diventa più difficile e complicato nelle carceri italiane, malate di sovraffollamento cronico. La stessa tutela della salute stessa diventa un’impresa ardua. Affollamento e promiscuità, in ambienti fatiscenti, sono gli elementi di una miscela esplosiva. Dominano la scena gli stranieri, i tossicodipendenti, i malati psichiatrici. Una babele di lingue, di religioni, di usi e costumi. Alte temperature associate a elevati valori di umidità favoriscono la crescita di muffe e acari. E con l’aumento della temperatura e dell’umidità si moltiplicano gli odori sgradevoli: il caldo torrido, gli spazi ristretti, il sudore, l’uso promiscuo dei servizi igienici... Per non parlare dei rischi di contagio. Nelle celle sovraffollate, prevedibilmente, sono all’ordine del giorno contrasti e tensioni. E io non posso certo voltarmi dall’altra parte, perché diventerei inesorabilmente corresponsabile. In questa situazione saltano tutti gli schemi di “trattamento” volto al recupero sociale dei detenuti. E saltano tutti gli schemi di controllo medico. Il carcere, insomma, non riesce a realizzare il suo obiettivo istituzionale principale, la rieducazione, ma è un arido contenitore della marginalità della società odierna. Proteste, scioperi della fame, suicidi, gesti di autolesionismo, molto frequenti in questo periodo, sono tutti segnali d’allarme. I detenuti chiedono attenzione. I detenuti chiedono rispetto di elementari diritti. Di fronte a questi abissi di necessità, cosa si può fare? Per cominciare, si potrebbero realizzare luoghi di accoglienza per ospitare i nuovi giunti in carcere, con la presa in carico per il disagio psichico. Poi si dovrebbe organizzare l’intero ambiente carcerario in modo rispettoso della dignità umana, anche con spazi per coltivare gli interessi affettivi. E bisognerebbe prevedere, qualche regione l’ha già fatto, l’inserimento dei detenuti tossicodipendenti in comunità terapeutiche. Inoltre, occorre mettere la magistratura di sorveglianza nelle condizioni di valutare con maggiore appropriatezza la compatibilità o meno con il regime carcerario: i detenuti seriamente malati non possono e non devono stare “dentro”. Bisogna incrementare le misure alternative al carcere. Non si deve far ricorso al carcere per regolare le situazioni critiche del Paese, per assicurare risposte al bisogno di sicurezza dei cittadini. Non si può ricorrere sempre ed esclusivamente al carcere per neutralizzare la povertà, il disagio, la marginalità. *Cappellano Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia Il caso di Mario Tuti e i conti sempre aperti con la propria coscienza di Adriano Sofri Il Foglio, 26 agosto 2021 Dopo 17 anni di semilibertà, ha destato scalpore la partecipazione dell’ex terrorista nero a un campo estivo di neofascisti. Prima di giudicare occorre farsi un’idea dell’uomo e della sua maturazione. Nel 1975 Mario Tuti, impiegato del comune di Empoli e fascista repubblichino, durante una perquisizione uccise due poliziotti e ne ferì gravemente un terzo. Latitante, venne ferito e catturato mesi dopo. In carcere, nel 1981, partecipò all’uccisione di un altro neofascista, accusato di essere un “infame”. Nel 1987 capeggiò una rivolta a Porto Azzurro, che prese molti ostaggi e si concluse senza vittime. A questo punto si è guadagnato due condanne all’ergastolo e una a 14 anni. Dagli anni 90, nel carcere di Civitavecchia, smette la propria postura di combattente per quella di un detenuto che sta alle regole e partecipa, da quando gli è consentito, alle attività sociali. Quattordici anni dopo, nel 2004, quando ha già ottenuto più volte di visitare la vecchia madre, la magistratura di sorveglianza fiorentina gli concede la semilibertà: lavora fuori di giorno, in una comunità per tossicodipendenti a Tarquinia, e rientra in carcere la notte. Da allora, sono trascorsi altri 17 anni. La sua detenzione dura da 46. All’inizio dell’estate, in una delle licenze di cui usufruisce da tempo, presenzia a un “campo estivo” dei giovani neofascisti del Blocco Studentesco, associati a CasaPound. Un filmato Rai lo mostra fra quei giovani. La notizia solleva l’indignazione della sindaca democratica di Empoli, dove la memoria è più viva, poi dei parlamentari toscani del Pd, e via via di altri esponenti antifascisti e di associazioni di famigliari di vittime del terrorismo. Si interrogano le ministre dell’Interno e della Giustizia. Bisogna pensare solo allo sdegno sincero, perché quello di maniera non merita attenzione: che cosa fa scandalo? Che Tuti sia intervenuto in un campeggio neofascista? Ma non sembra aver violato alcuna prescrizione contraria. “Sapere che esistono centri estivi neofascisti e che nessuno fa niente per impedire che questo avvenga mi pare gravissimo”, dice anche la sindaca di Empoli: così il problema si sposta sulla eventuale illegalità del centro estivo, che per ora non risulta esistere. Allora forse bisogna chiedersi se la presenza fisica di Tuti a quel ritrovo sia la prova, o un indizio forte, di una sua intenzione eversiva attualmente pericolosa, così da inficiare la semilibertà di cui fruisce da 17 anni. Il giudice di sorveglianza competente deve averlo pensato, perché ha sospeso la licenza, e si accinge a esaminare la revoca del lavoro esterno. Io non conosco Tuti, e mi sono fatto delle domande. Siccome la sua detenzione è così lunga (46 anni, e lui ne ha 75) e anche il riconoscimento della sua estinta pericolosità è così lungo (trent’anni), la ferita improvvisa suscitata dalla notizia in una parte di opinione può essere, oltre che il segno di una sensibilità fedele, un indizio della riluttanza ad ammettere le conseguenze di due capisaldi costituzionali e civili, come l’abolizione della pena di morte e l’affermazione che la pena possa restituire il condannato alla società? (Per esempio, è ragionevole chiamare Tuti “terrorista nero”? E’ un tradimento della memoria premettere un “ex”?) Non ho modo di rispondere se non raccogliendo un po’ di dati disponibili. Cessata la non breve stagione “irriducibile”, in cui Tuti pronuncia parole di guerra incresciose, si trovano sue ripetute dichiarazioni di non essere “pentito”. Ma così formulate, per esempio. “Il carcere cambia radicalmente le persone e, anche se non amo definirmi pentito, oggi non sono socialmente pericoloso e non mi ritengo neppure una persona malvagia. Con la mia coscienza, però, il conto è ancora aperto. Non ucciderei più, ma ciò non mi consola. Provo un dolore profondo e incancellabile per ciò che ho commesso” (al Corriere, 2004). Oppure: “Facile dire sono pentito e chiederlo, ma mi sembrerebbe un modo per oltraggiare le vittime. Non me la sento” (La Nazione, 2016). Per anni, se non ricordo male, Tuti tiene una rubrica sul settimanale di Comunione e Liberazione Tempi, attento alla condizione carceraria, e là si leggono scritti addirittura sconcertanti come questo: “E anch’io, alla soglia dei settant’anni (gli anni della nostra vita sono settanta, dice il Salmista) e nel mio quarantesimo anno di detenzione, provo a fare un bilancio della mia vita e di quest’anno ormai trascorso. Ringraziando il Signore - seppure da non credente - per avermi fatto conoscere la colpa, il peccato e la pena. Perché è stata l’esperienza del dolore e della violenza, inferti e in parte subiti, che mi ha reso capace di sentire nella carne e nella coscienza il dolore altrui, che mi ha fatto vivere e riconoscere gli altri in me stesso, aprendo il cuore a quella solidarietà nella pena e nella sofferenza che resta anche quando tutto il resto è ormai perduto. Quel soffrire insieme, quella sympatheia e compassione che può ancora tutto salvare, e cambiare. Dando un senso anche alla nostra caducità, finitudine e colpevolezza. Ti lodo e Ti ringrazio per i momenti di fatica e di angoscia a condividere le ansie, le paure, le fughe, la disperazione, il malessere dei ragazzi della Comunità - cercando sempre di dare un abbraccio e una speranza, ricordando loro le parole del Cristo: ‘Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò…’. Ti lodo e Ti ringrazio per il carcere, la sua solitudine, la sua miseria morale e materiale… senza le quali non avrei rigettato l’orgoglio e imparato l’umiltà, cercando di cambiare il mio cuore di pietra con un cuore di carne!”. Beninteso, si può ritenere che tutto ciò non sia se non una lunghissima impostura, la maschera di uno che non ha deposto le armi e aspetta solo di trovare qualche giovanotto del Blocco Studentesco per ricominciare e finire in gloria. Mi sembra difficile, non per l’età, ma per l’amor proprio. Ho guardato anche una recente intervista di Tuti a una tv simpatizzante, e ho preso qualche appunto (non testuale) significativo della sua epopea retorica contrastata dalla bonomia del tono e della fisionomia (si smettono anche le facce truci). “Il carcere aiuta a conservare una dignità, un’integrità. Volevo testimoniare che non ci avevano annientato, avevamo messo in gioco la nostra vita e purtroppo anche quella degli altri. Noi e i ‘compagni’, per una decina d’anni avevamo continuato a farci guerra fra noi, e allo stato. Poi abbiamo confrontato i rispettivi immaginari. Furono anni di isolamento, dei famigerati ‘braccetti’, una forma di tortura. Non avrei mai potuto lamentarmene: ero in guerra, lo stato era il mio nemico, io il suo, era dura ma se mi avessero interrogato avrei dovuto dire che avevano ragione a trattarmi così. Oggi è più pericoloso per un romanista finire nella curva laziale che per me trovarmi in un centro sociale o per un compagno a Casa Pound. Sono inserito, seguo un master con docenti tutti più giovani, i ragazzi con cui lavoro mi vogliono bene. Oggi non si può capire che cosa erano quegli anni, e già allora vivevo di altri anni. Per andare a scuola passavo ogni mattina da Santa Maria Novella, e il mio desiderio più struggente era di essere fucilato anch’io nell’agosto del ‘44 su quel sagrato - ma ero nato nel ‘46. Mi sentivo un reduce della Seconda guerra, defraudato di quella tragedia, la sconfitta, la morte. Mi chiedevo se avrei saputo reggere, alla morte, alla prigionia. Quindici anni fa, dopo tanto scriverci, ho incontrato mia figlia, e mi ha chiesto spiegazioni anche lei. Ci provai, ma non capirai comunque, le dissi, nonostante l’affetto. Anche uno di Casa Pound, che magari oggi mitizza Mario Tuti, non potrebbe capire. Il carcere congela la storia, i sentimenti, è inutile cercare quel mondo, non c’è più. A Tarquinia lavoro in tipografia, dalle 12 alle 16 sto coi ragazzi, con lo psicologo, gli operatori, sono un operatore anch’io...”. Ecco. Ho pensato che possiate farvi un’idea. Per fortuna, non siamo giudici di sorveglianza, soprattutto quando le luci si accendono. Giustizia efficiente: non solo è giusto, conviene di Valter Vecellio lindro.it, 26 agosto 2021 Una causa che induce gli imprenditori italiani a investire all’estero, e scoraggia gli stranieri è lo stato comatoso della nostra giustizia. Strano che nessuna voce dal variegato mondo sindacale si levi in questo sensi. Impegnati in discussioni e polemiche di nessun costrutto e di puro fine speculativi, i partiti rappresentati in Parlamento hanno praticamente trascorso l’estate a beccarsi tra loro per un pugno di (sperati) voti; e lasciato dolosamente incancrenire ulteriormente i mille problemi gravosi di questo Paese. I nodi comunque verranno al pettine nelle prossime settimane, e non sarà sufficiente la pur timida e necessaria riforma approntata dal Ministro della Giustizia Marta Cartabia, a risolvere, per esempio, le tante questioni aperte sul fronte giustizia. Non sono solo le condizioni di vita nelle carceri, veri e propri luoghi di pena (molto spesso ingiusta), o di garantire un minimo di efficienza nei tribunali. Si può prendere in prestito la famosa espressione di Michael Corleone al fratello Sonny: “It’s notpersonal. It’s strictly business”. Lo stato della giustizia in Italia non è più “solo” affare dei mille (e troppo spesso sconosciuti) Enzo Tortora, le gogne e i calvari che loro e le loro famiglie devono patire e subire; l’intollerabile durata dei processi (civili e penali), sono un elemento fondamentale per giudicare e valutare la capacità dell’azienda Italia di attrarre investimenti esteri e trattenere quelli ‘nazionali’. Sempre più il Paese è chiamato a una impari competizione internazionale. Si ha un bel condannare (e minacciare) le imprese che delocalizzano, quando si è deficitari in modo grave e massiccio di manodopera specializzata; quando non si sa garantire una Pubblica amministrazione efficiente; quando non si rispettano i tempi dei pagamenti da parte delle amministrazioni pubbliche forniture; quando si viene soverchiati da un regime fiscale oppressivo, miope, farraginoso; quando la Giustizia non funziona e lavora di fatto, e a prescindere dalla volontà dei singoli, contro il cittadino, imprenditore o lavoratore che sia. L’Associazione italiana fra le banche estere, pubblica da anni il rapporto dell’Osservatorio sull’attrattività del nostro Paese presso gli investitori esteri, in collaborazione con il Censis. Fra diciotto paesi considerati nell’ambito del G-20 l’Italia è nona: fatto 100 il punteggio della Germania, al primo posto, l’Italia è a 54,5. Bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto? Proprio no. Il nostro Paese in realtà è ultimo tra i Paesi europei del G20: Germania, Regno Unito, Francia; davanti a noi Canada, Australia, Sud Corea, Stati Uniti, Giappone. Il Doing Business della Banca Mondiale, si concentra sui tempi burocratici e gli adempimenti contrattuali; con il ricorso alla giustizia e i tempi di esecuzione delle sentenze, richiedono 1.120 giorni: quasi il doppio della media Ocse; più del doppio di Francia e Germania. Nella classifica generale del rapporto 2021, l’Italia precipita al 122posto, in materia di giustizia. Per tornare all’economia e l’impresa, è evidente che chi opera nel mondo degli affari investe se la sua attività produce guadagno. Per questo impiega le sue risorse nel modo più idoneo per raggiungere lo scopo: profitti. Ovvio: nei limiti previsti e consentiti dalla legge, rispettoso delle contrattazioni con i sindacati e i diritti dei lavoratori. Ovvio che si delocalizza (cioè si emigra) perché è più conveniente all’impresa; se non lo fosse, si resterebbe dove si è. Lapalissiano. Dunque, per quanto possibile, e senza comprimere diritti dei lavoratori, quello che uno Stato dovrebbe fare è rendere appetibili e convenienti le condizioni per ‘restare’. Di più: renderle parimenti convenienti ad altri investitori, invogliandoli a guastare l’erba del nostro ‘giardino’. Non si finirà mai di dire che una causa che induce gli imprenditori italiani a investire all’estero, e scoraggia gli stranieri è lo stato comatoso della nostra giustizia. Strano che nessuna voce dal variegato mondo sindacale si levi in questo senso. È interesse di tutti i lavoratori, e non solo degli imprenditori, una giustizia rapida ed efficiente. Eppure da Maurizio Landini (Cgil), Luigi Sbarra (Cisl), Carmelo Barbagallo (Uil), silenzio, su queste tematiche. Come mai, perché? La giustizia, quella civile in particolare, pesa enormemente sullo sviluppo e ‘ripresa’: comporta la certezza dei rapporti giuridici, architravi fondamentali di ogni attività industriale, economica e finanziaria. Quello che occorre fare, è stra-noto: semplificare procedure; aumentare gli organici dei collaboratori amministrativi; accelerare la digitalizzazione; prendere esempio da come, in altri paesi si affronta e risolve la questione. Perché quello che accade in Germania non può accadere anche in Italia? Nella patria della cancelliera Angela Merkel le cause durano un sesto delle nostre. Prima di chiudere questa nota, una segnalazione: un libro: ‘Contro gli ergastoli’, curato da tre studiosi che da sempre si applicano sui temi del diritto e della giustizia: Stefano Anastasìa, garante del Lazio; Franco Corleone, ex sottosegretario alla Giustizia e garante di Udine; il costituzionalista Andrea Pugiotto (Futura, Roma 2021, pp. XII-250). Il carcere a vita, sostengono con ragione i tre, “non è la soluzione, ma il problema da risolvere”. Tema da riprendere: il libro fornisce gli argomenti adatti per questa causa di civiltà, oltre che di diritto. La riforma Cartabia assicuri i diritti mai riconosciuti ai giudici onorari di Stefania Cacciola, Monica Cavassa, Massimo Libri* Il Dubbio, 26 agosto 2021 La Commissione Castelli non era un tavolo sindacale, ma una commissione legiferante. Come emerge nella relazione illustrativa, talvolta, non è stato semplice trovare la convergenza tra i suoi componenti, come ad es. per il mantenimento in servizio dell’intera platea sino a 70 anni, ovvero, sulle attività riservate ai giudicanti onorari già in servizio nell’Ufficio per il Processo, che avranno funzioni giurisdizionali con espresso divieto d’assegnazione di compiti di mero supporto, riservati ai giovani giuristi. Piena convergenza, invece, su: ampliamento delle competenze dei requirenti onorari e dei giudici di pace; graduazione delle sanzioni disciplinari; partecipazione dei componenti onorari delle sezioni autonome dei Consigli Giudiziari, con diritto di voto, alle riunioni delle sezioni ordinarie per la predisposizione di tabelle e progetti organizzativi riguardanti la categoria; importo minimo netto mensile, invalicabile, di € 2200, per garantire indipendenza e autonomia del magistrato onorario, non certo comprensivo del ristoro per il pregresso. La Commissione non aveva potere di spesa, sarà la ministra a completare il testo, seguendo le indicazioni della lettera di messa in mora che ha smontato la riforma Orlando, confermando gli arresti eurounitari: i magistrati onorari sono lavoratori e magistrati europei, l’unica figura professionale di riferimento cui parametrare il trattamento economico e giuslavoristico è il magistrato di ruolo. Pertanto, il testo va completato, come già evidenziato in commissione dai tre componenti magistrati onorari: regime fiscale e previdenziale, 13^ mensilità, indennità di funzione, disciplina dei trasferimenti. Termine di risposta alla Commissione Europea è il 15 settembre. Il Parlamento è pronto per ricevere il testo, la calendarizzazione riporta la data 31 agosto. La proroga dello status quo sino al 31 dicembre avvalla il permanere dell’Italia in infrazione. Una riflessone è d’obbligo. L’Europa chiede al Paese standard di efficienza altissimi: come rilevato dai componenti onorari in seno alla Commissione, prevedere slot di giornate di attività mensili sino ad un massimo di 13 e costringere gli Uffici a non impiegare full time chi è in servizio, non gioverà allo scopo. L’efficienza del sistema giudiziario è una condizione fondamentale per mantenere i prestiti del Recovery; i tempi lunghi di risoluzione delle controversie civili e penali generano ogni anno alte perdite economiche e riducono le condizioni di sopravvivenza delle imprese, alterando le condizioni di concorrenza dei mercati. Secondo la letteratura economica le qualità desiderabili in un sistema giudiziario sono tre: “1) efficienza, cioè la capacità di risolvere le controversie in un tempo ragionevole; 2) qualità delle sentenze, intesa come accuratezza e certezza delle decisioni; 3) indipendenza del giudizio. Con riferimento alla giustizia, il nostro Paese si ritrova costantemente nelle ultime posizioni delle classifiche stilate a tal proposito e ciò mina anche la fiducia nel sistema Italia che scoraggia gli investimenti. Secondo una ricerca di Confesercenti l’impatto di lentezza e inefficienza della giustizia è pari a 2,5 punti di Pil, circa 40 miliardi di euro; una giustizia più rapida creerebbe 130000 posti di lavoro in più e circa mille euro all’anno di reddito pro- capite, con effetti benefici sull’erogazione di credito e la sicurezza percepita da imprese e famiglie. I costi associati alla lentezza della giustizia in Italia rappresentano l’1,3% del Pil, pari a 22 mld. La riforma che verrà dovrà affrancarsi da posizioni di chiusura verso la categoria, da una visione miope che, alla stregua della riforma Orlando, disimpiegando gli onorari in servizio, condurrà alla debacle degli Uffici giudiziari. Confidiamo nell’operato della Signora Ministra e nella buona politica, il testo della commissione Castelli è la base di partenza che assicura molti diritti prima mai riconosciuti ai giudici onorari, ma si può e si deve fare di più. *Magistrati Onorari e componenti della Commissione Castelli La verità vera è che le manette non fermeranno mai i femminicidi di Alberto Cisterna Il Dubbio, 26 agosto 2021 I colpi di pistola esplosi per strada contro una ragazza inerme di 26 anni nel paese dei Malavoglia, in quelle strade di Aci Trezza che il caldo estivo rende allegre e vocianti la sera, non può andare mestamente a comporre la gelida contabilità delle croci che riempiono il sacrario della violenza contro le donne in questo paese. Certo, morire per mano di un ex compagno che non si rassegna, pagare con la vita le proprie scelte di vita tiene insieme la sorte infelice di Vanessa Zappalà e quella di tante altre vittime innocenti che, come lei, hanno pagato la scellerata ostinazione di uomini dal cuore di tenebra. E non diversa è la sua morte da quella delle altre donne ancora che, nei mesi a venire, quasi certamente subiranno lo stesso destino. Tuttavia, questa volta, ci sono alcuni pensieri da mettere in fila per tentare di affrontare un dramma sociale che merita di essere sottratto alla facile propaganda, alla commozione modaiola e deve essere scrutato con ogni attenzione. Vanessa aveva denunciato, la procura della Repubblica era tempestivamente intervenuta e aveva chiesto che Antonino Sciuto, il suo stalker assassino, andasse agli arresti domiciliari. Un giudice ha ritenuto appropriata una misura meno afflittiva e ha valutato di poter tutelare la vittima delle persecuzioni imponendo all’uomo il divieto di avvicinamento. La legge sul Codice rosso, approvata con grande spolvero nel 2019, era stata, quindi, applicata; ma semplicemente non ha funzionato; non è riuscita a impedire l’assassinio della ragazza con modalità così eclatanti. Una vera esecuzione. Il punto non è di poco conto, perché in questo campo - come in quello delle morti bianche nei cantieri di lavoro - la repressione esiste ed è esemplare, ma non sortisce alcun effetto. Non passa settimana senza che la lista delle vittime innocenti, siano donne perseguitate o poveri lavoratori, non si allunghi. Nessuno è intimidito dalla sanzione, tenuto a bada dalla minaccia del carcere, dalla preoccupazione del processo e delle sue conseguenze. La giustizia penale fallisce proprio laddove si tratterebbe di tutelare i più deboli; nasconde i propri fallimenti con giustificazioni e precisazioni, ma alla fine deve ammettere che il martello della pena, il tintinnare delle manette non sortisce alcun risultato visibile. Tanti anni or sono, in piena emergenza mafiosa, un giudice di prima linea disse che “nelle regioni del sud lo Stato è come la Croce Rossa, soccorre i feriti, conta i morti, avverte le famiglie”, incapace allora di fronteggiare le piovre. Oggi la metafora regge ancora innanzi al peso di queste morti innocenti che nessuna minaccia repressiva riesce a contenere. Sicuramente non sono queste le uniche pratiche di violenza in cui la cultura della repressione carceraria non consegue alcun effetto; di recente, dopo il pestaggio a sangue del giovane Willy Monteiro Duarte, si è inasprita la pena per il reato di rissa e si sono previste altre misure di contrasto, sulla carta, terribili. Il risultato è che il numero degli scontri e dei pestaggi tra bande giovanili è aumentato, del tutto insensibile e indifferente alla visione pancarceraria del nostro legislatore. L’omicida della povera Vanessa si è suicidato. Si è inflitto la massima delle pene, la morte. Eppure, com’è giusto, questa fine non appaga né colma il dolore e la domanda di giustizia che proviene dagli affetti della ragazza uccisa. Si chiedono ancora i suoi cari come sia stato possibile che, malgrado le denunce e malgrado la gravità delle persecuzioni patite, lo Stato non abbia saputo impedire l’assassinio e come abbia consentito a un uomo violento e indagato di venire persino in possesso di una pistola. Si sono lette dichiarazioni più o meno corrette, si sono accampate giustificazioni più o meno persuasive. Tuttavia resta sullo sfondo la difficoltà di ammettere che la repressione giudiziale non riesce a impedire queste morti e queste sopraffazioni. Lo Stato è attrezzato per combattere nemici temibili e pericolosi (tra tutti le mafie e il terrorismo), ma non riesce a difendere gli inermi con questi strumenti. Si dovrebbe riconoscere che, su questo crinale, si è consumato un grave inganno agli occhi del paese facendo immaginare che l’arma delle manette, i regimi speciali (sono previste addirittura le misure di prevenzione antimafia per gli stalker) potessero servire da argine e difesa per i deboli, i soli, i fragili. Occorre chiaramente cambiare rotta e apprestare tutt’altre misure di coazione amministrativa, economica e sociale di lungo periodo che obblighino l’uomo nero a seguire percorsi curativi, riabilitativi, risocializzanti. Che aiutino chi è disperso in pensieri cupi a tirar fuori sé stesso dalla scelta tragica di impiccarsi nella disperata solitudine di un terreno in contrada Trigona, del comune di Trecastagni; anche lui vittima dello stesso, pauroso inganno. Braccialetti per i sex offender? Non bastano per i domiciliari di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 26 agosto 2021 Senza dimenticare le difficoltà di carattere organizzativo da parte delle forze dell’ordine nel controllare i movimenti delle persone su tutto il territorio nazionale. “I braccialetti elettronici potrebbero essere di grande aiuto. Purtroppo la legge ha previsto che si possano utilizzare solo nei confronti delle persone agli arresti domiciliari e non per quelle a cui è stato disposto il divieto di avvicinamento”. A dirlo in queste ore sono tutti coloro, magistrati e avvocati, che si occupano quotidianamente di violenze domestiche e di genere. La morte di Vanessa Zappalà, la 26enne siciliana uccisa a colpi di arma da fuoco dall’ex fidanzato Antonio Sciuto, poi suicidatosi, perché non aveva accettato la fine della loro relazione, ha riacceso il dibattito su come contrastare efficacemente questi reati. Vanessa aveva denunciato l’ex fidanzato e la Procura di Catania aveva chiesto e ottenuto dal gip che fosse posto agli arresti domiciliari. Successivamente, però, Sciuto era stato rimesso in libertà e sottoposto al divieto di avvicinamento in quanto il giudice, avendo evidenziato un ‘riappacificamento’ tra i due, aveva ritenuto eccessiva ogni altro tipo di misura custodiale. Ma se fosse stato possibile utilizzare il braccialetto elettronico, la morte di Vanessa si sarebbe potuta evitare? Il discorso è complesso. Anche se venisse modificata la norma, infatti, ci sarebbe poi il problema della disponibilità dei braccialetti. “Il numero dei braccialetti elettronici è attualmente insoddisfacente per far fronte alle normali esigenze”, proseguono gli addetti ai lavori. E a ciò vanno sommate le difficoltà di carattere organizzativo da parte delle forze dell’ordine. “Con gli attuali organici come si potrebbero gestire le migliaia di segnalazioni di persone che continuano ad essere libere di spostarsi sul territorio nazionale?”. Per un efficace controllo la persona offesa dovrebbe di fatto essere ‘ bloccata’ in casa. Diversamente non sarebbe possibile verificare in tempo reale se il soggetto denunciato sia in avvicinamento o meno. La morte violenta di Vanessa ha, dunque, messo in evidenza le tantissime criticità della normativa, recente modificata con l’introduzione del codice rosso. La legge, varata nel 2019, oltre a un inasprimento delle pene, ha introdotto significative cambiamenti che, nelle intenzioni del legislatore, avrebbero dovuto consentire un migliore contrasto a queste condotte. In particolare, la polizia giudiziaria, acquisita la denuncia, deve darne immediatamente notizia al pubblico ministero, anche in forma orale. Alla comunicazione orale segue senza ritardo quella scritta. Il pubblico ministero, poi, entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, acquisisce informazioni dalla persona offesa o da chi ha sporto denuncia. Tale termine potrà essere prorogato solo in presenza di imprescindibili esigenze di tutela di minori o della riservatezza delle indagini, anche nell’interesse della persona offesa. La polizia giudiziaria procede al compimento degli atti di indagine delegati dal pm, mettendogli a disposizione la documentazione delle attività svolte. Per coloro che sono stati condannati e che vogliono ottenere l’estinzione della pena c’è l’obbligo di seguire percorsi ad hoc in centri specializzati per abbattere il rischio di recidiva. A due anni dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni, il principale punto dolente è la professionalità dei giudici. Secondo Fabio Roia, presidente di sezione al Tribunale di Milano e consulente della Commissione parlamentare sui femminicidi, insignito della massima onorificenze di Palazzo Marino, l’Ambrogino d’oro, per il suo impegno contro la violenza, “solo il 20 percento” dei giudici sarebbe attualmente preparato per affrontare questi procedimenti. “Serve empatia, bisogna essere propensi ad occuparsi di tali reati”, puntualizza Roia. E questo nonostante da tempo il Consiglio superiore della magistratura e la Scuola superiore organizzino, ognuno per la parte di competenza, momenti formativi per le toghe. Con i tempi ristretti che sono stati previsti è poi difficile che si riesca a celebrare il processo prima della scadenza dei termini della custodia cautelare. Senza contare che a dibattimento, sempre a causa dei tempi ristretti, arrivano fascicoli spesso incompleti, con la conseguenza di dover effettuare una completa istruttoria. E per concludere, infine, non va dimenticato l’effetto ‘ emulazione’. Su persone mentalmente instabili può essere un volano per compiere simili atti criminali. La mafia stragista non c’è più, ma l’antimafia è diventato un partito: lo ammette anche Pignatone di Tiziana Maiolo Il Riformista, 26 agosto 2021 Finalmente qualcuno l’ha detto: Cosa nostra non c’è più. Quindi: viva l’antimafia! Il tono del giudice Pignatone ha la morbidezza che si addice al presidente del tribunale vaticano, ma il concetto è chiaro. E non significa che non esista ancora qualche forma di mafia che faccia i propri affari, ma che la stagione sanguinaria che ha lasciato sul selciato delle strade di Palermo centinaia di morti, quelli delle istituzioni e gli altri, è ormai lontana nel tempo e solo nei tristi ricordi di chi ha una certa età. Una realtà che pare rivivere ogni anno, a ogni ricorrenza di luglio o di agosto, quasi fosse vero che La mafia uccide solo d’estate, il famoso film di Pif del 2013. Pignatone le elenca con puntiglio, le vittime più significative, quelle uccise per vendetta e quelle per la loro simbologia: da Rocco Chinnici fino a Falcone e Borsellino. E non può fare a meno di notare, anche se non lo dice esplicitamente, che nel suo elenco, fatta eccezione per l’assassinio di don Pino Puglisi, avvenuta nel 1993, le stragi terminano proprio lì, tra il 29 maggio e il 19 luglio del 1992, con l’annientamento dei due giudici che rimarranno per sempre i simboli della “lotta alla mafia”. È lì che è terminato il potere di Cosa nostra. Ed è lì che anche l’antimafia avrebbe dovuto deporre le armi, dopo gli arresti dei boss latitanti. Invece si sono costruiti carriere e processi, come quello sulla “trattativa” o quelli contro Silvio Berlusconi. La realtà è che restano solo le ricorrenze, con le celebrazioni e le sfilate degli uomini dello Stato. Ma resta anche quel comma tre dell’articolo 416 bis del codice penale che non dovrebbe avere più senso, e che recita “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti…”. Un concetto anacronistico, che pare però così inamovibile da aver indotto il legislatore ad aumentare le pene all’infinito, fino a 26 anni di carcere solo per il reato associativo, se l’organizzazione mafiosa dispone di armi. Anche se, come abbiamo visto dalla ricostruzione storica del dottor Pignatone, per fortuna le armi paiono ormai in disuso. È ormai un ritornello, lo dice sempre anche il procuratore Gratteri di Catanzaro, che ormai le mafie sono nulla di più che comitati d’affari. E i reati dovrebbero esser perseguiti più come reati economici che non di tipo “mafioso”. Ma il punto è che della mafia resta solo l’antimafia. In un articolo su La Stampa (ma quello di ieri è di Repubblica) del gennaio scorso il presidente del tribunale vaticano operava un distinguo non da poco tra i reati di mafia e quelli di corruzione. Contro i primi si deve “lottare”, sosteneva, per i secondi dovrebbero bastare le regole dello Stato di diritto. Se l’ex ministro Bonafede, è sottinteso (ma neanche tanto), con l’introduzione della legge “spazzacorrotti”, non avesse equiparato i due fenomeni. Che sono diversissimi perché quello della criminalità organizzata è un fenomeno deviante che va studiato e approfondito prima di poter essere combattuto, diceva il dottor Pignatone. Trasformando quindi il pubblico ministero in una sorta di soggetto multitasking. Più che sbirro, meglio sociologo, storiografo, storico. Anche psicologo, suggerisce Gratteri. Poco laico, in definitiva. Ma pur sempre guerriero, in lotta contro i fenomeni criminali. Così succede che, mentre con la mano destra il giudice Pignatone scrive che Cosa nostra è morta, con la sinistra introduce i suoi “però”. E il però sta nella lotta antimafia come il baco sta nella mela. Pare turbato da un piccolo episodio che non dovrebbe preoccupare ma solo far ridere. Racconta dell’intercettazione recentissima di un boss che si lamenta perché la figlia di una sua amica aveva chiesto alla mamma di partecipare a una commemorazione di Giovanni Falcone. Ma stiamo parlando di un pericoloso criminale sanguinario o di Maria Montessori che discetta sull’educazione dei pargoli? Se un capomafia occupa il suo tempo a discettare sulle abitudini di una ragazzina, è proprio vero che Cosa nostra non c’è più. L’antimafia rappresenta un po’ la nostalgia dei tempi andati, quando la lotta aveva un ruolo reale: loro sparavano e tu li arrestavi. Ma continuare oggi con questa insistenza da giapponesi nella giungla a guerra finita è un po’ patetico e un po’ ancoraggio a quello Stato Etico unico governatore del bene e del male che poi rimproveriamo ai Talebani, senza renderci conto di quanto ancora alberghi nella cultura di tanti magistrati, compreso Giuseppe Pignatone. Che è uomo di cultura, ma anche di potere. Se così non fosse non avrebbe avuto lunga vita al vertice della Procura di Roma. Probabilmente non ci sarebbe neppure arrivato. Vero, Palamara? Se oggi neppure lui può mollare l’antimafia, è perché questa è diventata nel corso degli anni un vero partito, oltre che un centro di potere molto redditizio dal punto di vista politico. C’è la Commissione parlamentare il cui ruolo ormai consiste solo nel dare prebende sotto forma di consulenze a un po’ di magistrati, ma che controlla i partiti attraverso le liste elettorali. E poi c’è tutta la schiera dei pubblici ministeri “antimafia”, i più titolati a influenzare anche governo e Parlamento e a gestire processi come quello sulla “trattativa”. E a dare la benedizione del bollino blu. Un po’ come quello, ancor più obsoleto, dell’antifascismo. “Nessuna cifra potrà risarcirmi per i 40 anni rubati alla mia vita” di Simona Musco Il Dubbio, 26 agosto 2021 L’innocenza di Giuseppe Gulotta, la sua vita derubata, martoriata, torturata, vale 6 milioni e mezzo di euro. È questa la cifra stabilita dallo Stato, che ha dovuto ripagare l’errore abnorme di avergli fatto trascorrere 22 anni in carcere senza motivo. Quaranta anni dopo essere finito in manette con un’accusa pesantissima, ad aprile 2016, la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha stabilito quanto costa una vita distrutta, l’errore consumato sulla pelle di un uomo e su quella della sua famiglia, condannando il ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento di un maxi risarcimento. “Nessuna cifra al mondo potrebbe risarcire quanto ho subito - raccontava dopo la lettura della sentenza al Dubbio. Sei milioni e mezzo sono tanti e di certo adesso, dopo una vita di stenti, potrò far fronte alle necessità familiari. Ma dopo 40 anni di vita rubata, possono bastare?”. Non basta. Ogni anno di quella vita, per lo Stato, vale 163mila euro. Poco se si pensa al prezzo pagato invece da Gulotta in quegli anni: la sua vita, la sua libertà. La vita di Gulotta è stata presa e gettata via quando aveva solo 18 anni. Stravolta, divorata, umiliata. Era un giovane muratore quando, di notte, si è ritrovato ammanettato, legato con le caviglie ad una sedia, picchiato e umiliato fino a confessare un reato che non aveva commesso e del quale non sapeva nulla. Per 22 lunghissimi anni, quel 27 gennaio del 1976 è stato lui a trucidare il 19enne Carmine Apuzzo e l’appuntato Salvatore Falcetta, della caserma di “Alkamar”, in provincia di Trapani. Dopo settimane di rastrellamenti, il colonnello Giuseppe Russo e i suoi uomini ammanettarono quattro ragazzi. Furono ore di pestaggi, minacce, finte esecuzioni, scariche elettriche ai testicoli, acqua e sale in gola, fino ad una confessione urlata per ottenere la salvezza. Iniziarono così gli anni di calvario di Gulotta, che ha ottenuto la revisione del processo dopo la rivelazione di un ex carabiniere, Renato Olino, sui metodi usati per estorcere quelle confessioni. Fu poi un pentito, Vincenzo Calcara, a parlare di un ruolo della mafia nella strage, collegandola all’organizzazione “Gladio”, la struttura militare segreta con base nel trapanese: i militari potrebbero essere stati uccisi per avere fermato un furgone carico di armi destinato a loro. L’assoluzione di Gulotta arriva il 13 febbraio 2012, 36 anni esatti dopo il suo arresto. I periti della Corte d’appello di Reggio Calabria, che si sono dovuti cimentare con il peso specifico di una vita distrutta, hanno dichiarato che Gulotta ha subito “un’espropriazione esistenziale, un danno totalmente incalcolabile”. Per sfuggire alla pazzia, l’allora 18enne si creò una dimensione tutta sua, in cui vivere come poteva. “Mi sono chiuso in me stesso, ho evitato ogni rapporto. Mi sono isolato per salvaguardarmi. Non potevo capire chi ci fosse dietro questa storia, ho subito tutto senza sapere né come né perché. So che è stato fatto il mio nome, mi hanno fatto confessare e anche se ho ritrattato subito i giudici non mi hanno creduto. Non lo auguro a nessuno - ha raccontato poco prima della sentenza. Lo Stato, per errore, ha tenuto la mia vita in sospeso per 40 anni. Di mio non ho potuto creare nulla. Ora questo risarcimento serve a ridarmi la dignità, una situazione economia migliore di quella che ho adesso. Spero in un futuro migliore. Ma il mio passato è andato perso, i miei 18 anni non ci saranno più”. A salvarlo dalla follia è stata la sua famiglia, “che mi è rimasta sempre vicina”. E che ha creduto alla verità, urlata per decenni ma sempre etichettata come bugia. “Ora respiro l’aria a pieni polmoni. Bisogna andare avanti e scrollarsi di dosso quel che è stato - ha spiegato -. Malgrado tutto, credo nello Stato e nella giustizia. È vero che ci sono stati magistrati che mi hanno condannato, che non hanno controllato. Ma ci sono anche quelli che mi hanno assolto. Alla fine, la verità viene sempre a galla”. Di questa storia, la storia della sua vita, Gulotta ne ha fatto un libro, dal titolo “Alkamar”, scritto a quattro mani con Nicola Biondo. “Voglio che sia un messaggio di speranza per chi ha vissuto la mia stessa esperienza”. Ma se Giuseppe Gulotta ha potuto raccontare la sua storia, per Giovanni Mandalà le cose sono andate diversamente. Anche lui è stato riabilitato dall’ingiusta accusa di aver ucciso due carabinieri. Ma per Giovanni la giustizia è arrivata dopo la sua morte. Così come il risarcimento, ottenuto dai suoi eredi 18 anni dopo la sua scomparsa. Giovanni è morto nel novembre del 1998, dopo aver scontato 16 anni di galera. Nel 2016, la Corte d’Appello di Catania ha sentenziato il dovere dello Stato di ripagare quella sofferenza con 6 milioni e 400mila euro. Così come Giovanni, non c’entrava nulla Giuseppe Vesco, che accusò tutti gli altri, per poi ritrattare ed essere trovato impiccato in cella. Né Vincenzo Ferrantelli né Gaetano Santangelo, fuggiti in Brasile per sottrarsi a una mostruosa ingiustizia. Anche Mandalà ha sempre urlato la propria innocenza, ma è morto nella disperazione di una condanna all’ergastolo, divorato da un cancro che è stato più veloce della giustizia. Santa Maria Capua Vetere. Detenuto tenta suicidio dopo quarantena di Viviana Lanza Il Riformista, 26 agosto 2021 “Mancano medici, così non si sopravvive”. Nuovi drammi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Terapie saltate, carenza di personale sanitario, detenuti in condizioni di salute precarie, lunghe attese per le visite specialistiche. E ieri si è aggiunto anche il tentativo di suicidio da parte di un recluso del reparto Tamigi che da pochi giorni aveva fatto ritorno nella sua cella dopo un periodo di quarantena a causa del Covid. L’uomo, che ha detto di soffrire di schizofrenia, ha tentato di impiccarsi ed è stato salvato grazie al tempestivo intervento degli agenti della polizia penitenziaria allertati da altri detenuti. Un dramma sfiorato, insomma. Ma comunque un dramma, che si somma alle innumerevoli difficoltà di vita all’interno dell’istituto di pena casertano salito alle cronache, nei mesi scorsi, per i pestaggi finiti al centro di un’inchiesta della Procura. È la garante dei detenuti di Caserta, Emanuela Belcuore, a segnalare le criticità legate alla tutela della salute dei reclusi e lanciare un nuovo allarme. Il caso è quello di un detenuto del reparto Volturno. Ha 46 anni ma è in condizioni di salute precarie. Diabetico e cardiopatico, sabato si è presentato a colloquio con la garante su una sedia a rotelle, con tanti punti di sutura sulla pancia per via di un recente intervento al colon e l’impossibilità di essere autonomo anche per i bisogni più elementari. “Come può un detenuto in quelle condizioni stare ancora in carcere o in quella struttura?” si chiede la garante dei detenuti di Caserta. L’assistenza del caregiver, ingaggiato dal carcere per sole due ore pur fornendo assistenza per l’intera giornata, non basta anche perché si tratta di un assistente che non ha le competenze sanitarie che sarebbero necessarie per supportare un detenuto in condizioni di salute tanto delicate. E non è tutto. La carenza di personale sanitario finisce per incidere anche sul tempismo delle terapie a cui sono sottoposti molti detenuti del carcere sammaritano, tanto che sabato mattina alcuni reclusi hanno raccontato di non aver avuto la dose quotidiana di farmaci e altri hanno lamentato di aver dovuto provvedere a proprie spese alla fornitura di pannoloni e altri presidi di cui hanno necessità. “L’Asl deve inviare altro personale altrimenti la situazione rischia di peggiorare - spiega Belcuore - Anche gli agenti della penitenziaria rischiano di andare sotto pressione perché costretti a sostituirsi ad altre figure professionali pur non avendone le competenze”. Ferrara. Gli avvocati: “Il nuovo padiglione del carcere cancella orti e campo sportivo” La Nuova Ferrara, 26 agosto 2021 Secondo la Camera penale e l’Osservatorio carcere il progetto di ampliamento entra in collisione con la finalità rieducativa della struttura. Il progetto di ampliamento del carcere di Ferrara prevede la realizzazione di un nuovo padiglione nelle aree attualmente occupate dagli orti e dal campo sportivo. È quanto ha constatato, con preoccupazione, la rappresentanza degli avvocati del direttivo della Camera penale ferrarese e dell’Osservatorio carcere nel corso di una visita alla Casa circondariale nell’ambito dell’iniziativa nazionale “Ferragosto in carcere”. Oltre alle misure per il contenimento della pandemia, apprezzate per la capacità di contenere i focolai, l’attenzione della delegazione si è infatti concentrata sulle attività e le strutture volte alla rieducazione del detenuto che, con la collaborazione del volontariato, comprendono appunto orti, scuola, campo sportivo e laboratori. “La scarsità del personale, di fondi e di progetti tuttavia - nota la delegazione - impediscono di estendere le attività trattamentali, e in particolare quelle lavorative, a numeri rilevanti di detenuti, sì da rendere effettiva la finalità rieducativa della pena”. Un problema che potrebbe ora acuirsi con realizzazione del nuovo padiglione nell’area dedicata agli orti e al campo sportivo “determinando, così, una drastica riduzione degli spazi all’aperto utilizzati per lo svolgimento di importanti attività della socialità. Su tale situazione la Camera Penale e il suo Osservatorio carcere continueranno a mantenere alta l’attenzione - annunciano il presidente Pasquale Longobucco e i responsabili dell’Osservatorio carcere Filippo Barbagiovanni e Alessandra Palma - perché anche l’impianto edilizio del carcere è parte fondamentale affinché la pena non divenga contraria al senso di umanità e possa tendere alla fondamentale opera di rieducazione”. Palermo. Studente sorvegliato speciale per un anno: ha manifestato contro la polizia di Giorgio Mannino Il Riformista, 26 agosto 2021 Un colpo al cerchio e un altro alla botte. Sembra questa la filosofia della prima sezione penale Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo, presidente Luigi Petrucci, che ha applicato a Chadli Amoui - attivista dei centri sociali locali, istruttore sportivo, noto in città per il suo attivismo nel mondo universitario - la misura della sorveglianza speciale per un anno. Provvedimento ereditato dal Codice Rocco, il Codice penale in vigore durante il ventennio fascista, con cui il regime controllava i dissidenti. La questura “per la sua spiccata pericolosità sociale” aveva chiesto tre anni col massimo delle restrizioni. Per i giudici, però, “le condotte di pericolosità sociale sono appena sufficienti ad inquadrarlo nella fattispecie che richiede la reiterazione delle condotte. Anche per le condotte inquadrabili della fattispecie di pericolosità sociale deve darsi atto che nell’aggressione del 2018 non v’è ancora accertamento della sua specifica condotta”. Dunque pena ridimensionata ad un anno. Insomma Aloui sembra essere “socialmente pericoloso”, ma non troppo. L’avvocato Giorgio Bisagna fa sapere che ricorrerà in appello perché se è vero che da un lato “il decreto del tribunale ha decisamente ridimensionato l’impianto accusatorio, permangono le mie riserve, principalmente di natura sistemica, sullo strumento legislativo applicato, che evidenzierò compiutamente in sede di appello”. Aloui non commenta la sentenza ma il suo legale fa sapere che “non può certo essere soddisfatto”. Per un anno non potrà partecipare a qualsiasi riunione politica o manifestazione pubblica, ha l’obbligo di rientro entro le 20.30 presso la propria abitazione e il divieto di uscire prima delle 7, gli è stata ritirata la patente di guida. Tutto origina dal documento della questura, presentato alla procura, nel quale si parla di “manifestazioni violente, occupazioni di uffici pubblici con atti di vandalismo, aggressioni contro le forze di polizia, danneggiamenti, minacce gravi e lesioni personali in danno di esponenti di partiti o movimenti di estrema destra”. Si elencano, inoltre, precisi episodi che vedrebbero il coinvolgimento di Aloui dal 2010 al 2019. Una lunga collezione di denunce e segnalazioni fatte alle forze dell’ordine. Su questa sequela di fatti la questura aveva richiesto la misura preventiva. “Il mio assistito - aveva ricordato Bisagna - è accusato di una serie di reati per i quali ci sono ancora processi in corso, alcuni, tra l’altro, si sono conclusi con l’assoluzione. Eppure si reputa che Aloui sia un soggetto pericoloso alla luce delle sue condotte pregresse, Aloui è stato condannato in Cassazione con pena sospesa per fatti relativi a scontri con tifosi. E per altro ha avuto già un Daspo. Poi ci sono segnalazioni per manifestazioni non autorizzate che vengono inserite come precedenti di polizia. Che scavalcano il dato giudiziario. Un processo, dunque, alla persona e non al reato”. Negli ultimi mesi una larga fetta di società civile si è stretta intorno ad Aloui per opporsi alla richiesta della questura. Più di un migliaio le firme raccolte prima del 17 novembre scorso, quando Aloui si era presentato per la prima volta davanti ai giudici, mentre fuori dall’edificio un presidio ribadiva a gran voce che l’impegno sociale non può essere considerato pericoloso. Giustizia, il dovere di rieducare di Laura Badaracchi Avvenire, 26 agosto 2021 La pubblicazione “Verso Ninive. Conversazioni su pena, speranza, giustizia riparativa” (Rubbettino). Il significato della pena e il recupero dei detenuti nei dialoghi tra l’arcivescovo di Bologna e una legale specializzata in diritto minorile. Il Cardinale Zuppi: chi è in carcere non può essere “lasciato a marcire”. Qualche settimana prima che alla Camera venisse approvata il 3 agosto la riforma del processo penale, ora passata al Senato (che a settembre dovrebbe vararla definitivamente) in libreria è uscito per i tipi di Rubbeffino il volume “Verso Ninive. Conversazioni su pena, speranza, giustizia riparativa”. Una riflessione urgente e necessaria firmata da Paola Ziccone, avvocatessa specializzata in diritto minorile, da decenni impegnata nel mondo carcerario e nella pratica della mediazione penale, che dialoga con l’arcivescovo della città in cui vive, il cardinale Matteo Maria Zuppi. Il lungo colloquio scaturito da quattro incontri bolognesi, avvenuti durante la pandemia, va dritto al punto: “È molto più pericoloso e meno sicuro “buttare via la chiave” della cella e “lasciare marcire” in carcere chi ha sbagliato, piuttosto che seguire la via faticosa, ma intelligente, della rieducazione e della ricostruzione di un rapporto positivo con gli altri e con la società” afferma il porporato. Proprio il comune sentire riguardo alla punizione ricalca quello del profeta Giona, che s’indigna con Dio perché non stermina i peccatori che abitano a Ninive, ma decide di salvarli perché si sono convertiti. Direttrice dell’Area esecuzione dei provvedimenti del Giudice minorile del Centro giustizia minorile delle Regioni Emilia-Romagna e Marche, credente, ex scout, tre figli, Ziccone annota: “Era dai tempi del cardinal Martini che in molti aspettavamo qualcuno in grado di riprendere all’interno della Chiesa quelle riflessioni e quel dialogo che tanto hanno segnato molte generazioni e le loro scelte”. Zuppi rimarca che “ogni giudice è tenuto a giudicare facendo un necessario discernimento, per non far mancare al detenuto un accompagnamento che gli permetta di guardare al futuro, evitando che si arrivi a una condanna solo ripiegata sul passato”. I fatti, dati alla mano, lo confermano: “Più dei due terzi delle persone che escono dal carcere e che hanno seguito percorsi solo dentro al carcere sono recidivi. Al contrario, coloro che sono stati ammessi a fruire delle misure alternative al carcere hanno una bassissima recidiva” riferisce Ziccone. E l’arcivescovo chiarisce: “La giustizia riparativa non è e non vuole essere assolutamente sostitutiva della pena. Il colpevole, infatti, che non scappa di fronte alla propria responsabilità e che la riconosce, non vuole nessuno sconto di pena, ma vuole mettersi seriamente di fronte al male compiuto. La giustizia riparativa è gratuita, nasce da un incontro fra due disperazioni: una che aiuta l’altra”. I diritti d’autore della pubblicazione verranno devoluti alla cooperativa sociale “Siamo qua” Onlus, che ha allestito un laboratorio di sartoria nel carcere della Dozza di Bologna. Crespi e i film antimafia dopo la condanna per concorso esterno di Ersilio Mattioni Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2021 I giudici lo scarcerano: “La pena sarebbe una doppia riabilitazione”. E resta in attesa dopo la richiesta di grazia. La storia di Ambrogio Crespi, che parteciperà con “Spes contra spem, liberi dentro” al Festival di Venezia. Il Tribunale di sorveglianza ha scritto di lui: “Ha utilizzato la forza della sua arte per combattere le criminalità organizzate. La pena si tradurrebbe in una illegittima duplicazione del percorso di riabilitazione”. Se entro il 9 settembre Mattarella non firmasse il provvedimento di clemenza chiesto dalla moglie e da 9 associazioni, per lui si riaprirebbero le porte del penitenziario. Lo scorso 27 luglio era a San Luca, in provincia di Reggio Calabria, per presentare ‘Terra Mia - Non è un paese per santi’, un documentario sulla ‘ndrangheta proiettato in uno dei luoghi simbolo del potere criminale italiano. In piazza c’erano cento persone: chi interessato al film, chi ostile e chi perplesso. Come il sindaco, che si sforzava di spiegare che “la mafia lì non esiste, ma la inventiamo noi del Nord” e che la strage del 2007 a Duisburg in Germania (6 morti ammazzati come ultimo atto di una faida cominciata 16 anni prima) “nasce da un banale bisticcio, quando un Carnevale si tirarono le uova”. L’8 settembre invece sarà al Festival di Venezia, dove Spes Contra Spem, liberi dentro, forse il suo lavoro più profondo dal punto di vista dei contenuti antimafiosi, ha incuriosito non poco la critica. Non è strano tutto questo viaggiare tra premi e riconoscimenti, perché Ambrogio Crespi è un regista talentuoso. Ma è anche - e questo è decisamente inusuale - un condannato con sentenza definitiva a 6 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Un condannato particolare, perché da un lato deve pagare il suo debito con la giustizia per aver raccolto voti per conto dei clan calabresi e dall’altro riceve pubblici encomi per il suo impegno contro la criminalità organizzata. Come quando, nel 2019, convince un gruppo di rapper napoletani a scrivere una canzone anticamorra. Noemi, una bimba di 4 anni, viene ferita da un proiettile vagante durante un agguato e Crespi chiede a questi giovani artisti un gesto di coraggio: “Li ho incontrati e li ho ascoltati, cogliendo una voglia di libertà e di ribellione ai soprusi. Allora ho lanciato l’idea: ‘Ma voi, queste cose, siete disposti a metterle in musica?’ Mi hanno detto di sì ed è nata ‘Ora basta’. La Fondazione di don Luigi Merola ci diede il patrocinio e il brano fu un successo”, con tanto di premio al Giffoni film festival. Oppure quando nel 2014 dedica un film a Sergio De Caprio: Capitano Ultimo, le ali del falco. Rete4 compra i diritti, ma lo trasmette all’una e mezza di notte. Eppure il documentario fa il 7 per cento di share. Crespi diventa amico intimo dell’uomo che arrestò Totò Riina e che oggi si schiera pubblicamente a favore della grazia: “Ha combattuto le mafie con film coraggiosi, che senso ha rieducarlo?” Sono più o meno le stesse parole, oltremodo lusinghiere, del Tribunale di Sorveglianza di Milano: “Dal 2013 (quando viene liberato dopo 6 mesi di carcere preventivo, ndr) Crespi ha utilizzato la forza della sua arte soprattutto per combattere frontalmente le criminalità organizzate e la loro subcultura, per promuovere la cultura della legalità, della giustizia, della bellezza e della speranza”. I magistrati citano le sue opere, dieci documentari. E chiosano: “I film di Crespi vengono proposti nelle scuole e nelle università, contribuendo a educare le nuove generazioni”. Anche per questo i giudici caldeggiano un gesto di clemenza, perché se scopo della pena è quello di riabilitare, nel caso di Crespi “non avrebbe più senso, in quanto si tradurrebbe in una illegittima duplicazione del percorso di riabilitazione”. Paradossale sotto molti punti di vista, il caso Crespi fa discutere e fa riflettere. Intanto perché il regista dovrebbe essere in cella per le sue amicizie, scrivono nel 2012 i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Milano, “con malavitosi siciliani, calabresi e campani”. Invece gira l’Italia per presentare film contro la criminalità, avendo ottenuto il differimento della pena. Il Tribunale di Sorveglianza (con parere favorevole del Procuratore generale) lo ha scarcerato in attesa di conoscere la decisione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sulla domanda di grazia, presentata dalla moglie di Crespi, Helene Pacitto, per il tramite degli avvocati Andrea Nicolosi, Marcello Elia e Simona Giannetti, con il sostegno di Nessuno tocchi Caino e altre 8 associazioni. Se il capo dello Stato firmerà entro il prossimo 9 settembre, Crespi sarà libero e la sua pena estinta. In caso contrario, passerà dalla cornice dorata della laguna veneziana al penitenziario di Opera. La vicenda giudiziaria è nota. Nasce dall’inchiesta sul voto di scambio politico-mafioso che condizionò le elezioni del 2010 in Lombardia, quando l’allora assessore Domenico Zambetti comprò 4mila voti dalla ‘ndrangheta al prezzo di 200mila euro. Molte condanne e qualche assoluzione. E il nome di Crespi indicato come collettore di 2.500 preferenze, raccolte in ambienti criminali. A chiamarlo in causa è un boss della malavita calabrese, Eugenio Costantino, che parla del regista come di un uomo potente, che conosce “gli amici giusti” e manovra consenso. Dalle carte emerge anche dell’altro: i due non si conoscono, non si incontrano mai, non si parlano al telefono. E l’unica volta che un mafioso di piccolo cabotaggio aggancia Crespi per chiedergli di dare una mano a una candidata alle elezioni di Milano nel 2011, lui rifiuta. Da ultimo, i sono i soldi della corruzione elettorale: quei 200mila euro che vengono divisi tra più soggetti, ma al regista non va neppure un centesimo. “Non voglio essere definito una vittima della malagiustizia né voglio essere paragonato a Enzo Tortora”, premette Crespi a Ilfattoquotidiano.it, parlando della sua vicenda giudiziaria e anche della sua vita. Sgombrando il campo da possibili equivoci: “Sono finito dentro un sistema e ho pagato conseguenze pensatissime. Mi sono sempre considerato innocente ma ormai ho accettato la condanna. Mi confortano le parole bellissime del tribunale di Sorveglianza, che mi hanno commosso e mi hanno convinto che ho fatto bene a non smettere di credere nella giustizia. Continuerò a farlo, in ogni caso”. In cella Crespi c’è stato prima e dopo la sentenza. Prima, quando fu arrestato il 10 ottobre 2012. Il fratello Luigi - noto alle cronache per essere stato il sondaggista di Silvio Berlusconi - lo va a trovare e gli fa coraggio: “Non smettere di lavorare. Quando tutto questo sarà finito, con il tuo talento, andremo al Festival di Venezia”. Ambrogio non ha voglia di scherzare: “L’ho mandato letteralmente al diavolo. L’impatto con la prigione è stato devastante: lì ci sono soltanto sfiga, dolore e rabbia. Il resto non esiste. Non ci sono capi né boss, anche se qualcuno si atteggia e finge di comandare. Ma non esiste neanche la possibilità di cambiare, di pentirsi davvero e di tornare a vivere. Chi ci rimane a lungo ne esce peggiore, quasi sempre. Mio fratello però aveva ragione. In quei sei mesi ho concepito il documentario su Enzo Tortora e c’è stata la svolta sui temi dell’antimafia e della legalità, dopo aver conosciuto il Capitano Ultimo. Ho sentito un’urgenza, quella di combattere la subcultura mafiosa”. Spes contra Spem è esattamente questo. Nel 2016 Crespi torna in carcere, all’inizio controvoglia, per girare un film che andrà lontano, in Italia e all’estero, passando per le prestigiose location dei festival ed entrando persino nelle istituzioni, alla Camera e al Senato, anche se la prima nazionale viene proiettata a Opera. Il docu-film è un’istantanea scattata sulle miserie umane, che mette a nudo la mafia e la ridicolizza attraverso le parole dei suoi affiliati, quelli che stanno in cella da decenni e non si pentono. A uno di loro, però, scappa una confessione: “Meno male che mi hanno arrestato, perché così ho salvato i miei figli”. Crespi chiosa: “Quella frase, da sola, vale più di mille discorsi, di mille convegni. Ho sempre sostenuto che rappresentare la malavita in film d’azione è facile ma può essere pericoloso: si riveste il crimine di fascino. Comprendo le ragioni commerciali di registi e produttori, ma combattere la mafia significa demitizzarla”. Anche da detenuto, Crespi non si fa problemi a palesare ciò che pensa: “Ho ripetuto in continuazione che ‘la mafia è una montagna di merda’, che non bisogna farsi sedurre dei boss, che se ne può e se ne deve fare a meno”. Una volta lo dice alla persona sbagliata e riceve minacce di morte: “È vero, ma non desidero parlarne. Così come non mi considero una vittima, non voglio neppure recitare la parte dell’eroe. Ho detto in cella le stesse cose che dico fuori. Forse era pericoloso, ma ai miei figli ho sempre insegnato che nel mondo ci sono le guardie e ci sono i ladri. E che bisogna scegliere da parte stare”. “Pannelliano impenitente” e oggi “orfano” del leader radicale, il regista non saprebbe a chi dare il proprio voto ma promuove il governo Draghi “perché riesce a fare, chiamando i partiti alla prova della responsabilità”. Dalla politica, però, vuole stare lontano. “Mi ha procurato troppi guai. Il che non vuol dire stare lontano dall’impegno civile per far nascere anticorpi anti-mafiosi, soprattutto nelle terre dimenticate”. Come a San Luca, dove Crespi ha già ottenuto un risultato: uno dei protagonisti del suo film, Benedetto Zoccola, l’imprenditore che da 9 anni vive sotto scorta perché si rifiutò di pagare il pizzo e denunciò la camorra, è stato eletto consigliere comunale d’opposizione nella lista Klaus Davi Sindaco. Gli elettori neppure lo conoscevano, lo hanno visto la prima volta nel 2019 durante le riprese del documentario ‘Terra mia’, lo hanno sentito parlare e poche settimane dopo lo hanno votato. “Un piccolo traguardo - dice il regista - che non è ancora un punto di svolta. Ma per me, che ho adottato questo paesino dove regna degrado e disillusione, è una vittoria bellissima”. Eutanasia, raggiunte le 750mila firme. E la raccolta continua di Giacomo Puletti Il Dubbio, 26 agosto 2021 Le firme digitali hanno superato le 250.000. Oggi, intanto, Cappato e Gallo ad Ancona annunceranno nuove azioni legali sul caso di “Mario”. Sono più di 750.000 le persone che ad oggi hanno firmato il referendum per la legalizzazione dell’eutanasia. Oltre 500.000 firme sono state raccolte ai tavoli mentre quelle digitali hanno superato le 250.000. A questi numeri si aggiunge un numero ancora imprecisato di firme raccolte nei Comuni, nei consolati e negli studi degli avvocati e da alcuni gruppi che si sono aggiunti alla mobilitazione nelle scorse settimane. Tra le ultime firme raccolte, anche quelle di Roberto Saviano, Pif e Francesco Guccini. “Ho firmato - ha detto Saviano perché oggi, senza una legge che la regolamenti, l’eutanasia non è un diritto accessibile a tutti. Ho firmato perché sia libero di scegliere anche chi non può permettersi di raggiungere paesi dove l’eutanasia è legale. Firmare per promuovere questo referendum, comunque la si pensi, è un atto di rispetto per la vita e per il prossimo”. Raccolta firme, parla Gallo - Il risultato “straordinario della raccolta firme - ha dichiarato Filomena Gallo, segretario Associazione Luca Coscioni - dimostra che il referendum affronta e dà risposte a una grande questione sociale rimossa dal Parlamento e dai capi dei grandi partiti: quella della qualità del vivere e della libertà di scelte fino alla fine della vita. Sono fiduciosa che supereremo il milione di firme”. I tavolini per strada e gli altri punti di raccolta firme “saranno aperti per tutto il mese di settembre, trasformandosi nelle nostre “sedi da marciapiede”, cioè luoghi di informazione ai cittadini su tutti gli strumenti per vivere liberi fino alla fine, inclusi il testamento biologico, le cure palliative e il suicidio assistito, legalizzato dalla Consulta ma boicottato dal Servizio sanitario nazionale, come nel caso di Mario, che andremo a trovare ad Ancona”, ha dichiarato Marco Cappato, Tesoriere Associazione Luca Coscioni. Domani, infatti, Cappato e Gallo ad Ancona annunceranno nuove azioni legali sul caso di ‘ Mariò, il marchigiano di 43 anni, tetraplegico da 10, che pur avendone il diritto si è visto negare l’accesso al suicidio assistito dalla Asur della sua Regione. “Siamo per un fine vita dignitoso, fuori dalla clandestinità e per la libertà…” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 26 agosto 2021 Parla l’avvocato Rocco Berardo che per l’associazione “Luca Coscioni” ha curato il quesito referendario sull’eutanasia. “Piena libertà nelle scelte di fine vita”. Rocco Berardo, avvocato, ha curato il quesito referendario per l’Associazione Luca Coscioni, e ora che è stata raggiunta quota 750mila firme, spiega che “i passi immediati sono costituiti dal continuare a raccogliere il massimo numero di firme possibile fino al 30 settembre e consegnarle alla Corte di Cassazione”. Sulla discussione con la Chiesa è netto: Quello che tentiamo di spiegare è che noi non vogliamo imporre nulla a nessuno: eutanasia legale significa consentire a ognuno di decidere per se stesso lasciando piena libertà nelle scelte di fine vita Cosa rappresenta per voi il traguardo delle 750mila firme raccolte per il referendum sull’eutanasia? È senz’altro un grande successo. Abbiamo messo insieme più di diecimila volontari in tutta Italia. Quasi tremila autenticatori. Tra questi centinaia di consiglieri comunali che in autonomia dal loro partito si sono messi a raccogliere firme nei loro comuni. Voglio ringraziare in particolare i 1667 avvocati (numero che continua a crescere) che per la prima volta hanno potuto esercitare il ruolo di autenticatori con l’entrata in vigore della nuova legge sulle autenticazioni. Legge che a dire il vero abbiamo dovuto diffondere noi, vista un’inspiegabile inerzia da parte degli Ordini forensi di quasi tutta Italia. Cerchiamo di spiegare: chiedete l’abrogazione dell’articolo 579 del codice penale in merito all’omicidio del consenziente che sia maggiorenne e capace di intendere e volere. Quali saranno i vostri prossimi passi? Diciamo subito una cosa. Oggi il Codice penale non definisce espressamente l’eutanasia ma punisce ogni condotta eutanasica tramite il reato di matrice fascista di “omicidio del consenziente”. E questa è già una prima grossa distorsione semantica e concettuale che deriva evidentemente dallo spirito del tempo in cui fu scritta la norma. Ma tornando alla sua domanda, i passi immediati sono costituiti dal continuare a raccogliere il massimo numero di firme possibile fino al 30 settembre e consegnarle alla Corte di Cassazione. I contrari, soprattutto la Chiesa, giudicano la vita come sacra fino alla fine, a prescindere da quali condizioni impongano determinate malattie. Ritenete impossibile costruire un dialogo con chi la pensa diversamente su questi temi? Dialoghiamo con tutti, per strada, ogni giorno, con i tavoli. Lo facciamo da quando abbiamo presentato la proposta di legge di iniziativa popolare sull’Eutanasia legale nel 2013. E quello che tentiamo di spiegare è che noi non vogliamo imporre nulla a nessuno. Eutanasia legale significa consentire a ognuno di decidere per se stesso lasciando piena libertà nelle scelte di fine vita. Il diritto ad una morte dignitosa secondo il proprio sentire presuppone proprio diversità di pensiero e libertà di scelta. Se l’eutanasia sarà legale ognuno sarà libero di decidere se e quando fare ricorso alla morte volontaria nella piena legalità e non nella clandestinità che oggi caratterizza questi percorsi. Altri, come Luciano Violante, esprimono dubbi per quanto riguarda, ad esempio, l’eventualità dell’omicidio di una persona che voglia lasciarsi andare dopo una delusione amorosa o una crisi depressiva. Cosa rispondete? Che c’è un errore giuridico di fondo: la parziale abrogazione oggetto del referendum, promosso dall’Associazione Luca Coscioni, fa salve le tutele per le persone minorenni, incapaci ed il cui consenso sia stato estorto con violenza o minaccia. Come prevede la giurisprudenza l’incapacità è da intendersi come una minorata capacità psichica, anche con compromissione del potere di critica e minorazione della sfera volitiva ed intellettiva che agevoli la suggestionabilità della vittima e ne riduca i poteri di difesa contro le altrui insidie. Dunque delusioni amorose e crisi depressive rientrerebbero nelle eccezioni sottratte al quesito referendario. In Parlamento c’è un iter per le modifiche all’articolo 580, quello sull’aiuto al suicidio, dopo le sollecitazioni della Corte costituzionale. Qual è la vostra posizione a riguardo? Stiamo parlando del reato di istigazione o aiuto al suicidio, oggetto della sentenza della Corte Costituzionale nel processo Cappato/Antoniani che ha dichiarato incostituzionale l’articolo con una sentenza additiva e stabilito che non è più reato aiutare qualcuno al suicidio in presenza di quattro condizioni (irreversibilità della malattia, sofferenze psichiche o fisiche intollerabili, dipendenza da un trattamento di sostegno vitale e consenso della persona) e nel rispetto delle procedure indicate dalla Corte che prevedono la verifica delle condizioni da parte del SSN e il parere del comitato etico competente. L’approvazione di una legge che ricalchi il dettato costituzionale (che è comunque applicabile dal giorno dopo la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale) è sicuramente un fatto positivo ma non basta perché lascia fuori tanti malati che hanno bisogno di un aiuto diverso, esterno, per poter porre fine alle loro sofferenze. Per tutti questi malati abbiamo proposto il referendum che legalizzi l’eutanasia. Dopo la nota verbale sul ddl Zan e relativa risposta del governo, ora lo scontro con la Chiesa è sull’eutanasia. Credete si possa aprire una fase di discussione costruttiva tra stato italiano, che è laico, e Santa sede? Come Associazione Luca Coscioni, crediamo da sempre che serva un grande dibattito pubblico sul fine vita. E certamente anche con chi rappresenta istanze religiose ampiamente diffuse nel nostro Paese. Ma ci è stato costantemente negato. E aggiungo comprensibilmente negato, visto che i principali partiti che costituiscono la stragrande maggioranza parlamentare sanno benissimo quale sia il sentimento popolare sul tema del fine vita. Santa Sede compresa. Insomma, nessuno è voluto intervenire sul Referendum Eutanasia Legale se non quando ci si è accorti che i cittadini hanno prevalso sul silenzio imposto. Ora finalmente stiamo strappando un grande dibattito pubblico grazie al Referendum. E sicuramente sarà più costruttivo del silenzio. Eutanasia, parla l’Arcivescovo Paglia: “La vita è sacra” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 26 agosto 2021 Il monito dell’arcivescovo Paglia: “Noi sempre contrari a chi vuol dare la morte. La Chiesa da parte sua è e resterà sempre contraria all’eutanasia”. Monsignor Paglia, il comitato promotore del referendum sull’eutanasia ha annunciato il raggiungimento delle 750mila firme, qual è la reazione della Chiesa di fronte a queste cifre? La Chiesa prende atto che nella società italiana esiste una forte tendenza a declinare la libertà individuale anche nel senso di decidere della propria morte. È già accaduto in altri paesi europei, ora è il momento dell’Italia. La Chiesa da parte sua è e resterà sempre contraria all’eutanasia intesa come “dare la morte” ad un altro, aldilà delle motivazioni. E non è certo il numero che può decidere di un tema così complesso come quello del “fine vita”. Questo non vuol dire che la Chiesa non sia attenta alle problematiche che questo tema richiama: il dolore terribile sia del corpo che dell’animo. Di qui il grande impegno che io stesso - con la Pontificia accademia per la vita - ho messo per la promozione delle cure palliative. E soprattutto non dimentichiamo l’abbandono in cui versano di fatto le migliaia di malati gravissimi a cui nessuno pensa e che vorrebbero essere aiutati a vivere. Il referendum chiede l’abolizione di una parte dell’articolo 579 del codice penale, relativo all’omicidio del consenziente maggiorenne e capace di intendere e volere. Perché siete contrari? Vorrei chiarire che non solo la Chiesa è contraria a questa proposta referendaria. Ci sono anche non credenti che ritengono sbagliata questa prospettiva. Eviterei perciò di contrapporre Chiesa e laici attorno a questo referendum. È una questione squisitamente umanistica. C’è chi ha parlato di “ira” del Vaticano. In realtà, la Chiesa vuole semplicemente difendere una convinzione che riguarda valori fondamentali per la convivenza umana: la tutela della dignità della persona, soprattutto nel momento estremo della fragilità. La Chiesa, come ogni umanesimo da Ippocrate in poi, continua a non accettare che si “tolga la vita” a qualcuno (questo è l’eutanasia). Questo non significa insistere ad oltranza nei trattamenti medici: è doveroso valutare quando vanno evitati o sospesi, lasciando che la morte accada. Insomma no all’eutanasia, no all’accanimento terapeutico, si all’accompagnamento: già oggi in Italia è possibile morire senza essere torturati dal dolore: la lotta al dolore è decisiva, soprattutto in questo tempo in cui la tecnica provoca nuove condizioni. C’è poi un iter parlamentare già avviato per le modifiche all’articolo 580, quello sull’aiuto al suicidio, sulla scia delle indicazioni date dalla Corte costituzionale. Qual è il suo parere? Il referendum va ben oltre i confini fissati dalla Corte perché liberalizza ogni forma di omicidio del consenziente, anche se determinato, ad esempio, da una depressione, da una delusione, da una momentanea fragilità psichica. C’è chi ricorda che poche settimane orsono un giornalista scriveva su un quotidiano nazionale: “Non capisco perché per salvare settuagenari, in genere affetti da due o tre gravi patologie, sia bloccata la vita di intere generazioni a cui il Covid non poteva fare nulla. Che muoia chi deve morire e smettiamola con questa tragica farsa”. Sono parole che debbono far riflettere. La Corte Costituzionale, con la sentenza 242 del 2019, ha invitato il Parlamento a legiferare, indicando anche alcuni criteri. Mi auguro che il dibattito sia ampio e adeguato al fine di redigere una legge che tenga conto della complessità e della delicatezza del tema. Mina Welby ha spiegato che il Comitato promotore è a favore della vita, ma di una vita che sia degna di essere vissuta fino alla fine. Cosa risponde a chi ha affrontato in prima persona le vicende legate all’eutanasia? Ho ricevuto proprio in questi giorni uno studio di 15 esperti, fra cui diversi medici, che hanno riflettuto in particolare sulla esperienza belga. Sarebbe utile leggerla. Prendo solo due tra le molte suggestioni. Là dove si è informato il paziente che ci sono le cure palliative e che sono attivate davvero, la richiesta di eutanasia cala drasticamente. Anche perché bisogna discernere: dietro la domanda di eutanasia vi è la richiesta della morte o quella di non soffrire e di non rimanere soli? La seconda riguarda gli effetti sociali della legge che consente l’eutanasia. I dati ufficiali dicono che aumentano le morti eseguite senza una esplicita richiesta, per es. di malati mentali o di disabili. Gli effetti complessivi fanno allora vedere che in nome di una maggiore libertà di qualcuno si comprime e si contraddice la libertà di molti per lo più i più fragili e i più esposti. Si tratta sempre o non è politica di Donatella Di Cesare La Stampa, 26 agosto 2021 Prima di chiedersi se sia opportuno dialogare con i malvagi bisognerebbe chiedersi chi siano i “malvagi” e quale sia il contesto. Da almeno un secolo non viviamo più in quel teatro bellico da cui Carl Schmitt derivò la sua idea di politica, dove ci sono fronti precisi, limiti certi, nemici pubblici (non privati) ben riconoscibili. L’inimicizia diventerebbe essenziale per l’identità, come pure la frontiera che sarebbe un fronte di guerra prolungato, decisivo per lo spazio politico. Chi ragiona secondo queste vecchie categorie novecentesche semplifica, banalizza - e lo fa spesso per portare acqua al proprio mulino del populismo sovranista. Da decenni ormai, ben prima dell’11 settembre, che ha segnato comunque un punto di svolta, il paesaggio politico globale è complesso, frastagliato. I confini tradizionali svaniscono, al punto che diventa difficile persino distinguere tra pace e guerra. Il conflitto bellico non segue regole, non è improntato al duello dei tempi che furono. Prova ne sia che sono soprattutto i civili le vittime inermi delle atroci guerre attuali. Ma soprattutto il nemico non è più identificabile; coperto da molte maschere può essere chiunque e palesarsi all’ultimo secondo: il supermarket, l’ufficio, la scuola diventano scenari bellici. È il problema degli attentati e, più in generale, del terrorismo. Come si sa, una delle conseguenze più eclatanti della poco riuscita “guerra al terrore” è la criminalizzazione sistematica del sospetto terrorista che, ritenuto un combattente irregolare, può essere consegnato, al di là di ogni diritto, a poteri straordinari di polizia. Nascono da qui la cultura della paura e l’ossessione della sicurezza. Sennonché il baratro della criminalizzazione ha effetti devastanti e imponderabili. Il caso dei taleban è eclatante già per la loro natura ibrida, difensori e paladini del territorio, ma anche collusi con organizzazioni terroristiche. Sono la milizia del Male? Sono i disumani “tagliagole” che non conoscono tabù, gli artigiani apocalittici della violenza, i mostruosi fuorilegge senza pietà? C’è da chiedersi a che cosa serva e a chi serva l’immagine satanica dei taleban. Respingerli fuori non solo dai confini della legge, ma anche da quelli dell’umanità, serve a relegarli nella follia, nell’irragionevolezza, di fronte alla ragion di Stato. E dove c’è la follia, la mostruosità, la malvagità non c’è nulla da capire. Perché trattare, dunque, con questi acrobati del nulla, questi nemici perversi dell’umanità? Che senso avrebbe? Questo modo di vedere le cose ha un duplice vantaggio: da un canto fa credere che dalla parte dei taleban demonizzati non ci sia un progetto politico (o teologico-politico), dall’altro offre un ottimo alibi alla politica fallimentare di chi per vent’anni ha detenuto il potere con i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti. E per di più questa stessa politica, che con facilità avrebbe potuto evitare il disastro umanitario dell’aeroporto di Kabul evacuando tempestivamente chi ne aveva il diritto, trova un bel pretesto, una comoda scusante per il proprio fiasco millantando di non voler avere nulla a che fare con i taleban. Così la politica occidentale ne uscirebbe persino con l’immagine della purezza. Ma sappiamo bene che chi oggi mette in salvo i pochi afghani sugli aerei ha la coscienza sporca verso tutti gli altri. Trattare? La questione è ipocrita: si tratta già da tempo dietro le quinte. Dialogare? È un verbo più impegnativo a cui, però, oggi la politica non si può rinunciare, a meno - come ha sottolineato Agnese Moro - di non voler abdicare al proprio compito. Non dunque per motivi contingenti, perché i taleban avrebbero dato prova di “atteggiamento distensivo”. Né per mostrare compiacenza, arrendevolezza, avviandosi verso una china scivolosa. Ma perché nello scenario complesso in cui viviamo, sull’orlo di una catastrofe umanitaria senza precedenti, il dialogo è l’unico strumento di riscatto per la stessa politica. È in fondo quello che suggerisce Merkel. La serietà della crisi afghana e i bizzarri sberleffi a Biden di Paolo Mieli Corriere della Sera, 26 agosto 2021 Il precipitare della situazione a Kabul deriva dagli accordi di Trump con i negoziati di Doha ed era prevedibile. Ma nessuno dei critici di oggi, allora ha detto una parola. C’è qualcosa di improprio negli sberleffi, nei rilievi a tratti inutilmente offensivi dai quali in questi giorni è sommerso il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Da Ferragosto, quando i talebani sono entrati a Kabul, praticamente non è passato un attimo senza che da qualche parte del pianeta un politico (o, più spesso, un improvvisato commentatore di vicende asiatiche) non si sia sentito in diritto di spiegare al capo di Stato americano quali errori aveva commesso. E di indicargli cosa dovrà fare di qui al termine del suo mandato. Quasi sempre biasimi e suggerimenti sono stati accompagnati da sgradevoli considerazioni sulla sua cultura, sulla sua preparazione e perfino sul suo status mentale. Il trauma provocato dall’improvviso ingresso degli “studenti coranici” nella capitale afghana poteva giustificare all’inizio questa messe di severissime lezioni all’uomo della Casa Bianca. In pochi hanno resistito alla tentazione di spiegare al capo della maggiore potenza mondiale quale posizione dovrebbe assumere nei confronti di Ahmad Massud, in che tempi avrebbe dovuto lasciare la base di Bagram, come riguadagnare un rapporto cordiale con Hamid Karzai. Comunque, era da mettere nel conto qualche reazione stizzita che ricordasse a Biden alcune sue improvvide dichiarazioni. Soprattutto quelle di luglio con le quali il presidente aveva negato che potesse accadere quel che poi è purtroppo accaduto. Era però evidente già allora che quelle previsioni azzardatamente ottimistiche gli erano state suggerite da capi militari che prima o poi verranno rimossi. In ogni caso era legittimo, ripetiamo, rinfacciargliele. Anche con qualche asprezza. Ma adesso, in merito agli accadimenti di Kabul, non è giusto far ricadere interamente su di lui qualcosa di più di una responsabilità oggettiva. Nella lunga stagione in cui fu vice di Obama, Biden maneggiò con grandissima cautela il dossier Afghanistan. Fu poi Donald Trump ad impostare, con i negoziati di Doha, le modalità di uscita dal conflitto. Tutto ciò sulla base di un’esplicita trattativa con quello che nei documenti ufficiali viene tuttora definito “Emirato islamico afghano che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come stato ed è noto come i Talebani”. Quei colloqui andarono avanti a lungo e si conclusero con un accordo, il 29 febbraio del 2020, che prefigurava l’evoluzione odierna. Un anno e mezzo fa. Senza alcuna sostanziale obiezione da parte di quel che siamo soliti definire Occidente. All’epoca dei negoziati - due anni fa - non c’era atto di Trump (neanche un tweet) che non provocasse polemiche interminabili. Curiosamente, però, nessuno o quasi nell’emisfero a cui apparteniamo ebbe alcunché da ridire sui patteggiamenti Usa di Doha. Neanche sul documento con cui quei patteggiamenti si conclusero, nel quale, in buona sostanza, si annunciava che i poteri sarebbero tornati nelle mani dei Talebani. Anzi, tutto avrebbe dovuto realizzarsi in maggio, poche settimane dopo l’insediamento di Biden, ed è toccato all’”Emirato islamico afghano che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come stato ed è noto come i Talebani” - così, ripetiamo, viene definito nei documenti di Doha - concedere una dilazione di qualche mese. Pochissimi (ma qualcuno ci fu) si resero conto di ciò che si stava preparando. Anche in tempi più recenti. Tutti distratti. Marilisa Palumbo ha ricordato ieri su queste pagine che, quando a metà giugno si riunì festante il vertice G7 in Cornovaglia (il primo con Biden), nel comunicato finale il dossier Afghanistan fu collocato ad uno dei penultimi posti, il cinquantasettesimo su settanta. Ora si può tranquillamente affermare che, se in Cornovaglia qualcuno avesse suonato l’allerta, avremmo avuto un centinaio di giorni per procedere ad un’evacuazione dall’Afghanistan assai più ordinata. Magari protetta da uomini armati rimasti sul territorio. Invece tutti, anche gli europei, hanno programmato di riportare in patria i militari lasciando sostanzialmente a quel che restava dell’esercito statunitense l’incombenza di proteggere l’esodo degli afghani. Analoghe considerazioni potremmo farle per i diplomatici. Che, come i militari, avrebbero forse dovuto andarsene per ultimi. E invece … Per ciò che riguarda l’Italia, appena gli eredi del mullah Omar sono entrati a Kabul, il nostro ambasciatore Vittorio Sandalli si è imbarcato tra i primi su un aereo destinato a riportarlo in patria (per carità, su esplicito input di Luigi di Majo). Fortunatamente, a testimoniare il contributo italiano all’impresa di salvataggio degli afghani, sono rimasti sul posto i carabinieri del Tuscania, il console Tommaso Claudi (immortalato dalla celeberrima foto in cui aiuta le attiviste di Pangea a mettere in salvo un bambino), il rappresentante Nato Stefano Pontecorvo. Loro e pochi altri come loro. Dal che si può facilmente comprendere come nessuno abbia i titoli per “ingiungere” al Presidente americano di trattenere i soldati statunitensi oltre il 31 agosto sul suolo afghano. E di violare platealmente quel che il suo Paese ha pattuito con l’”Emirato islamico …”. L’aver rispettato gli accordi darà agli Stati Uniti più forza per intervenire in modo diverso, anche militarmente, ma in discontinuità con la presenza dei vent’anni trascorsi. Stare ai patti, tener fede alla parola data, offrirà più titoli domani per dar vita ad alleanze che siano in grado di costringere gli uomini del Mullah Abdul Ghani Baradar (o di chi per lui) a rispettarli anche loro quei patti. Quanto a Joe Biden, sarebbe ingeneroso mettere per intero sul suo conto ciò che si è verificato in Afghanistan nell’agosto 2021. Aspettiamo prima di dare un giudizio sui mesi iniziali della sua presidenza. Afghanistan, bisogna agire prima che sia troppo tardi. Ecco quali pericoli ci sono dietro l’angolo di Enrico Sbriglia* Il Secolo d’Italia, 26 agosto 2021 È auspicabile che chi ha la responsabilità della sicurezza stia ponendo in essere tutte le iniziative opportune per preservare l’Italia dagli enormi rischi che derivano dalla disfatta dell’Occidente in Afghanistan. Conforterebbe sapere che si stanno considerando i diversi scenari possibili per agire, a prescindere da quanto intenderanno fare i nostri alleati, in primis gli Usa. Le minacce che dobbiamo temere sono almeno di tre ordini di cose: una di tipo terroristico, di natura fondamentalista. Potrebbe, anche a breve, essere indirizzata verso i paesi che si erano assunti l’onere di traghettare verso un sistema democratico un così vasto e anche variegato Paese; una sul versante della lotta alla criminalità organizzata. È presumibile che i Talebani, al di là delle dichiarazioni di facciata che si scrivono sull’acqua, certamente intensificheranno la produzione di oppio. Quindi, inonderanno i mercati del traffico illecito, favorendo il formarsi di nuovi cartelli e gruppi criminali organizzati che, inevitabilmente, entreranno in contatto o in contrasto con quelli già presenti. Il rischio è quello di guerre sanguinarie tra loro. Sarebbe davvero ingenuo pensare che il board talebano intenda rinunciare a una fonte certa di guadagno; un’altra ancora è il rischio concreto che tantissimi giovani, soprattutto quelli che abbiano origini medio-orientali e magrebine, emarginati nelle periferie delle città, siano ammaliati dalla possibilità di rafforzare le fila di un esercito di “Senzadio”. In conclusione, pur non smettendo di dover aiutare quanti, in questo momento, stanno cercando di abbandonare l’infermo dell’Afghanistan - che è frutto anche dell’ignavia europea - sarà da realizzarsi un sistema che sia in grado di assorbire le ondate di disperati veri. Ossia, di donne per davvero minacciate e di bambini che altrimenti diverranno soldati in erba. Un’ultima riflessione. Attenti alle carceri, fucina tradizionale di ogni terrorismo sanguinario, dove i detenuti, a motivo delle sopraggiunte criticità mal governate, derivanti del rischio Covid, sono inevitabilmente indirizzati all’odio ed all’aggregazione criminale, soprattutto in questi tempi, perché privi di un approccio sano con il mondo del volontariato, della formazione professionale e dello studio, nonché finanche esclusi dalle relazioni con i propri cari, favorendo così le altre “famiglie”, quelle criminali. In quel mondo, la presenza di detenuti che si dicono di religione islamica è rilevante, benché tanti nulla sappiano di scuole coraniche, di sura e versetti, di piccola Jihad e grande Jihad. Spesso si tratta di giovanissimi, ma senza alcuna speranza in Terra, per cui la possibilità di un riscatto in cambio del quale si chieda a loro semplicemente di essere violenti, nel nome di un orgoglio identitario che li renderebbe visibili, può essere dirompente e contagiosa, pertanto occhio e, soprattutto, si investa davvero di più in psicologi, educatori, direttori, di poliziotti penitenziari, nonché si favorisca la presenza di Imam riconosciuti dalle autorità penitenziarie. Insomma, occorre buttare acqua anche sul piccolo fuoco, ove non si voglia che divampi un incendio dalle proporzioni gigantesche e con danni incalcolabili per tutti. *Penitenziarista, Componente dell’Osservatorio Regionale Antimafia del Friuli Venezia Giulia Medio Oriente. Gaza, lo scontro tra Israele e Hamas è solo rinviato di Michele Giorgio Il Manifesto, 26 agosto 2021 Si è conclusa senza le conseguenze temute alla vigilia la nuova manifestazione contro il blocco israeliano di Gaza. Intanto Israele mette a punto i piani di attacco all’Iran. Le centinaia di “gilet gialli” schierati da Hamas, su pressione dell’Egitto, non hanno fatto molto per contenere i manifestanti che ieri a migliaia si sono radunati a Khouza e a est di Khan Yunis per protestare contro il blocco israeliano della Striscia di Gaza. In ogni caso la protesta non è sfociata nel tragico bilancio che aveva segnato quella di sabato quando decine di palestinesi sono stati feriti dal fuoco dei cecchini israeliani - un ferito, Osama Khaled Duaij di Jabaliya, è spirato ieri all’alba in ospedale - e un soldato è stato colpito alla testa da un proiettile esploso da un palestinese armato di una pistola. Ieri cinque manifestanti sono stati feriti da proiettili veri e due da proiettili rivestiti di gomma. I militari israeliani schierati in gran numero lungo le linee di demarcazione con Gaza hanno fatto uso abbondante soprattutto di gas lacrimogeno. Non c’è stata l’ennesima strage ma la tensione resta molto alta. “Le attività popolari a Gaza aumenteranno fino a quando il nostro popolo non otterrà i suoi diritti giusti e legittimi e l’occupazione non avrà altra scelta che sottomettersi e rompere l’assedio”, ha avvertito il portavoce di Hamas Abd al-Latif al-Qanou. La possibilità di una nuova escalation militare, perciò, resta concreta perché nessuno dei nodi del confronto è stato sciolto dallo scorso maggio a oggi. La mediazione egiziana non ha ottenuto nulla riguardo la fine del blocco israeliano di Gaza e di fatto si limita ad intimare ad Hamas di non andare a un nuovo scontro armato. Ad aggiungere benzina sul fuoco sono ora anche gli abitanti delle località israeliane adiacenti a Gaza che invocano il pugno di ferro contro i palestinesi che lanciano palloncini incendiari. Ieri a decine hanno bloccato le strade per impedire il transito al convoglio di automezzi carichi di generi di prima necessità e altre merci dirette al valico di Kerem Shalom da dove si accede a Gaza. La protesta è durata poco ma dovesse arrivare in futuro a fermare sul serio gli aiuti per gli oltre due milioni di palestinesi della Striscia, finirebbe inevitabilmente per innescare uno scontro militare. Per una guerra sempre più possibile lungo le linee tra Gaza e Israele, un’altra è in via di preparazione. Poche ore prima dell’incontro previsto oggi alla Casa Bianca tra il premier israeliano Naftali Bennett e il presidente Joe Biden, è sceso in campo il capo di stato maggiore israeliano Aviv Kochavi per annunciare pubblicamente che le forze armate ai suoi ordini hanno accelerato l’attuazione di nuovi piani operativi contro l’Iran e che da tempo vengono sferrati attacchi una volta ogni due settimane. Gli attacchi, ha spiegato, sono effettuati utilizzando missili, sia in mare che in territorio siriano. Infine, ha negato che Damasco sia in grado, come sostengono più parti, di abbattere i missili lanciati dagli aerei israeliani. Poco dopo le dichiarazioni fatte da Kochavi, l’esercito ha fatto sapere che il capo della divisione strategica, il generale Tal Kalman, sta mettendo a punto un possibile piano per attaccare le centrali nucleari e i siti missilistici dell’Iran. Nicaragua, ecco la nuova tattica repressiva: le sparizioni forzate di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 agosto 2021 In un nuovo rapporto Amnesty International ha denunciato il ricorso delle autorità del Nicaragua a una nuova tattica repressiva per ridurre al silenzio dissidenti e voci critiche: le sparizioni forzate. A partire dal 28 maggio 2021, con l’approssimarsi delle elezioni alle quali si candida per un quarto mandato il presidente Daniel Ortega, sono state arrestate almeno 30 persone che vanno ad aggiungersi alle oltre 100 finite in carcere a partire dal 2018. L’organizzazione per i diritti umani ha documentato dieci casi di sparizione forzata: Daysi Tamara Dávila, Miguel Mendoza, José Pallais, Suyen Barahona, Víctor Hugo Tinoco, Félix Maradiaga, Ana Margarita Vijil, Violeta Granera, Jorge Hugo Torres e Dora María Téllez. Ufficialmente, sebbene abbiano confermato l’arresto di queste dieci persone, le autorità si ostinano a non rivelare dove siano detenute. Su insistenza dei familiari della maggior parte degli scomparsi, agenti di polizia hanno dato qualche vaga informazione a voce. I familiari e i loro avvocati hanno presentato almeno 40 ricorsi per ottenere visite dei legali e dei familiari, atti giudiziari e certificati medici ma queste iniziative non hanno ottenuto riscontro.