Carceri, il dramma dimenticato di Samuele Ciambriello La Repubblica, 25 agosto 2021 Amnesie e rimozioni sulle criticità presenti nelle carceri italiane. Polemiche diversive e depistaggi di Stato sui pestaggi subiti dai detenuti di Santa Maria Capua Vetere. Al solito quando si parla di carcere, tutto risulta prevedibile e di parte. C’erano le denunce, comprese le mie, ma il ministero e l’amministrazione penitenziaria hanno fatto finta di nulla. La stessa politica, cinica e pavida, ha pensato più al consenso che al senso e alla sua funzione. “Non può esserci giustizia dove c’è abuso. E non può esserci rieducazione dove c’è sopruso. La Costituzione italiana sancisce all’articolo 27 i principi che devono guidare lo strumento della detenzione: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Così il presidente del Consiglio Mario Draghi nel suo discorso fatto il 14 luglio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, alla presenza anche della ministra della Giustizia Marta Cartabia, ribadendo che sui maltrattamenti e le torture di Santa Maria Capua Vetere il Governo non ha intenzione di dimenticare. Ma allora chi ha veramente paura della rieducazione e dell’inclusione sociale dei diversamente liberi? Garantire il dolore delle vittime, l’esigenza di giustizia, la certezza della pena, certo, ma garantire anche il diritto alla vita, alla salute e alla dignità minima dei detenuti. I diritti generano diritti. Se vogliamo sicurezza e reinserimento dobbiamo garantire la dignità di tutti coloro che sono nel carcere, ai vari livelli, dai detenuti agli agenti, dai volontari alle figure sociosanitarie che vi operano. A questi principi deve accompagnarsi la tutela dei diritti universali: il diritto all’integrità psicofisica, all’istruzione, al lavoro e alla salute, solo per citarne alcuni. Questi diritti vanno sempre protetti, in particolare in un contesto che vede limitazioni alla libertà. È tuttavia sbagliato prendere spunto dalla drammatica vicenda casertana per formulare giudizi di generale censura nei confronti dell’intero corpo della polizia penitenziaria. Io che conosco dagli anni Ottanta questo mondo ripeto che piuttosto che una ingiustificata e ingenerosa critica a tutto campo verso l’intero pianeta carcere, occorre promuovere iniziative e realizzare interventi che da tempo appaiono necessari per rendere più moderna ed efficiente l’amministrazione penitenziaria, quella della giustizia, della magistratura di Sorveglianza e riprendere il cammino delle riforme che ha generato una situazione di stallo e di delusione. La responsabilità dello stallo di questo sistema è di tutti. Io, lo ribadisco, sperando, contro ogni speranza, che dei delitti e delle pene non si parli per antipatie, per posizionamenti politici, per carrierismo in magistratura, per posizionamenti di tifoserie su opposte curve. Noi Garanti mettiamo in campo un profilo non artefatto, siamo capaci di uno sguardo multiplo e riassuntivo, siamo osservatori, svolgiamo un ruolo di supporto, stimolo e denuncia. Nelle carceri campane c’è il sovraffollamento, mancano aree della socialità, non vengono utilizzati i campi sportivi, le aree verdi per i colloqui, ci sono celle da sei, otto persone, senza docce. Le ore d’aria si fanno dalle 9,00 alle 11,00 e dalle 13,00 alle 15,00, sotto il sole cocente. Lunghe attese per visite specialistiche e ricoveri. Mancano 500 agenti penitenziari, sessanta educatori, cinquanta psicologi e non ci sono in intere province psichiatri nelle carceri. I magistrati di sorveglianza sono pochi, così come personale e cancellieri e i tempi di decisione dei magistrati sono, anche per questo, lunghi. Abbiamo più di 150 detenuti con sofferenze psichiche. Non dovrebbero stare in carcere ed una decina attende da tempo, nonostante il parere positivo del magistrato, di andare nelle Rems o luoghi alternativi al carcere. Ci sono stati dall’inizio dell’anno in Campania già 5 suicidi, un migliaio di forme di autolesionismo, più di 500 scioperi della fame e della sete, 398 casi di rifiuto dell’assistenza sanitaria. Forse davvero è il momento per far voltare pagina al mondo della giustizia e del carcere. Su queste vite di scarto ci sono troppi silenzi di Stato e indifferenza civica. *L’autore è Garante campano delle persone private della libertà personale Covid: aumentano casi nelle carceri, positivi 70 detenuti e 108 agenti Adnkronos, 25 agosto 2021 In aumento i casi di Covid-19 nelle carceri italiane, sia tra i detenuti sia tra i poliziotti penitenziari. In base ai dati appena pubblicati sul sito del ministero della Giustizia, aggiornati a ieri sera, sono 70 (tra cui 15 nuovi giunti) i detenuti positivi sul totale di 52.199, mentre tra gli agenti i casi sono 108 su 36.939. La scorsa settimana erano rispettivamente 63 e 92, all’inizio di agosto i numeri erano ancora più bassi: 38 detenuti e 63 agenti. Tra i detenuti positivi, 64 sono asintomatici, 5 hanno sintomi e sono gestiti all’interno degli istituti e uno è ricoverato in ospedale. Tra i poliziotti 100 sono asintomatici in isolamento domiciliare, 6 sono ricoverati in caserma e 2 in ospedale. Quattro sono infine i positivi tra le 4.021 unità del personale dell’amministrazione penitenziaria, tutti in isolamento domiciliare. Riforma Cartabia, la vittima del reato non più ai margini del processo di Liana Milella La Repubblica, 25 agosto 2021 Per la prima volta entra nel codice la definizione di “vittima”. La ministra: “La giustizia in cui credo è quella che guarda alle persone cui riconoscere lo status di vittime del reato”. Il giurista Gatta “parlare di vittima significa riferirsi a una persona in carne ed ossa”. Lattanzi: “Finalmente una figura soggettiva legata all’individualità della persona fisica colpita dal reato”. Ci sarebbe da non crederci, ma è proprio così. A tutt’oggi, nei nostri codici, non esiste una definizione di “vittima”. Né quella di un femminicidio, com’è appena accaduto ad Aci Trezza per la povera Vanessa. Né quelle dei tanti terremoti che hanno colpito l’Italia. Né quelle del crollo del ponte Morandi. Né quelle delle stragi di mafia. Né delle vittime del terrorismo. Madri, padri, mogli, mariti, figli, stabili conviventi, tutti abbandonati a se stessi. Coperti - giuridicamente - dalla sola definizione di “persona offesa”, con la prospettiva di un risarcimento civile, con un ruolo non certo da protagonista nel processo penale. Anche se l’Europa, con una direttiva del lontano 2012, ci raccomandava già allora di inserire proprio quella parola - “vittima” del reato - nei codici. Ma la sollecitazione è rimasta lì, lettera morta. Fino a oggi. Ma la riforma del processo penale della Guardasigilli Marta Cartabia riserva una sorpresa. Nel bailamme politico del voto alla Camera di inizio agosto era difficile accorgersi di un comma che adesso, nel testo stampato per il prossimo via libera del Senato, figura a pagina 28, accanto alle altrettanto innovative previsioni sulla giustizia riparativa, e recita così: “Definire la vittima del reato come la persona fisica che ha subito un danno, fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono state causate direttamente da un reato; considerare vittima del reato il familiare di una persona la cui morte è stata causata da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona; definire il familiare come il coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, la persona che convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare e in modo stabile e continuo, nonché i parenti in linea diretta, i fratelli e le sorelle e le persone a carico della vittima”. Parole semplici, che forse non hanno neppure bisogno di essere chiosate, tanto evidente è la loro chiarezza. Riguardano, appunto, innanzitutto chi dev’essere considerato “vittima” di un reato. Colui che ha subito un danno “fisico, mentale, emotivo”. Colui che ha subito altresì una “perdita economica”. Non solo un coniuge, ma il partner di un’unione civile, colui o colei che condivideva una “relazione intima”, ma in modo “stabile e continuo”. Dunque, non certo un partner occasionale. Ovviamente i parenti più stretti, fratelli, sorelle, e anche “le persone a carico della vittima”. Sarà il futuro decreto legislativo a pesare e misurare ogni parola e ogni virgola. Ma la novità c’è tutta già adesso, in quella decina di righe. Righe di cui è pienamente soddisfatta la ministra Cartabia che infatti a Genova, per il terzo anniversario del crollo del ponte Morandi, incontrando i familiari, il 14 agosto ha parlato proprio di questo. “La giustizia in cui credo, per la quale lavoro, è sempre e solo una giustizia dal volto umano, è una giustizia che guarda sempre alle persone. Alle persone che sono dietro ogni fatto e che hanno subito gli effetti di un’offesa così grave. Per questo, tra l’altro, ho fortemente voluto che all’interno della riforma fosse riconosciuto un adeguato status alle vittime del reato”. E ancora: “Si tratta di una novità nel nostro ordinamento, ben nota a livello europeo e internazionale, e che vede nel processo penale un luogo in cui la vittima cerca risposte al suo bisogno di giustizia, cerca attenzione e riparazione per l’offesa subita”. Viene spontaneo chiedersi, ma com’è possibile che già oggi non sia così? Ce lo spiega Gian Luigi Gatta, stretto collaboratore e consigliere giuridico di Cartabia in via Arenula, docente di diritto penale alla Statale di Milano e direttore della rivista Sistema penale: “Il codice di procedura penale è del 1988. Nella versione originaria, quella di Pisapia e Vassalli, la vittima non era mai nominata. Il codice parlava, e parla tuttora, di “persona offesa dal reato”, un concetto generico e impersonale. Mentre il concetto di vittima si riferisce a una persona in carne e ossa. Un concetto centrale per scienze come la criminologia e la vittimologia, un concetto ricorrente nella comunicazione mediatica e nel dibattito pubblico e politico. Ma un concetto che finora non ha avuto altrettanta dignità nel codice che regola il processo penale”. E questo contribuisce forse a spiegare le sistematiche difficoltà e lamentele delle vittime per veder riconosciuti i loro diritti. Ma perché, se l’Europa sollecitava dal 2012 la necessità di inserire l’esplicito riferimento alle “vittime” per garantirne i diritti, non si è fatto nulla? Gatta lo spiega così: “Nella logica originaria del codice del 1988 - e ancor prima nella tradizione del processo penale, in Italia e non solo - la vittima è marginalizzata: è lo Stato, attraverso il pubblico ministero, a farsi carico dei suoi problemi. La vittima non è una parte processuale: è rappresentata dal pm e, nella veste di “persona offesa dal reato”, ha solo alcuni diritti di informazione e di impulso, oltre al diritto di poter essere sentita”. La riforma Cartabia intraprende una strada diversa e valorizza il ruolo della vittima, “al centro di una giustizia penale che è anche riparativa e non solo retributiva”. Nell’Italia delle stragi di mafia e di terrorismo, nell’Italia dei disastri ambientali, ma anche nell’Italia patria del diritto, sembra del tutto incredibile che delle vittime finora non si sia ricordato nessuno. Tant’è che, spiega Gatta, “il processo penale non è in funzione della vittima, ma è tutto teso ad accertare la responsabilità dell’indagato e poi dell’imputato. La vittima è parte del processo solo limitatamente alle pretese civili: la persona offesa è parte del processo non in quanto tale, ma solo se dimostra di essere “danneggiata”, di aver subito un danno dal reato. A determinate condizioni si può costituire parte civile nel processo penale. Ed entra nel processo solo quale parte civile limitatamente alla richiesta del risarcimento del danno da reato”. Dev’essere per questo che a Genova, quando Cartabia ha annunciato quelle poche, ma rivoluzionarie righe che entreranno nel codice, la reazione delle vittime è stata di piena soddisfazione. Lo aveva immaginato la Commissione ministeriale presieduta dall’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, che ha studiato gli emendamenti al testo del processo penale dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, quando ha proposto di trasformare in emendamento la sollecitazione della direttiva Ue del 2012 sulle vittime chiosandola così nella sua relazione: “La definizione di vittima ritaglia, finalmente, una figura soggettiva legata all’individualità della persona fisica colpita dal reato, che si contraddistingue dalla massa delle persone offese dal reato generalmente intese come soggetti titolari del bene giuridico leso dal reato, categoria che include anche persone giuridiche”. “Ero innocente, ma lo hanno stabilito dopo 21 anni di carcere” di Simona Musco Il Dubbio, 25 agosto 2021 “Lo Stato italiano mi ha sequestrato 21 anni per un reato mai commesso”. Angelo Massaro non è mai stato troppo in silenzio. Nemmeno dietro le sbarre, dove per oltre quattro lustri ha continuato a gridare, forte, la propria innocenza. Lo hanno arrestato, processato e condannato per tre gradi di giudizio per un reato che non ha mai commesso: l’omicidio di un suo amico. A febbraio del 2017, dopo aver ottenuto la revisione del processo, i giudici di Catanzaro lo hanno riconosciuto innocente. Ma prima ha trascorso la metà degli anni che ha dietro le sbarre. Oggi, a 54 anni, ha il resto della sua vita davanti. Ma la sua giovinezza l’ha passata a scontare una condanna per aver ammazzato Lorenzo Fersurella, ucciso il 22 ottobre 1995 in Puglia. Ne avrebbe dovuti scontare 24 di anni in cella, tre anni in più rispetto a quelli messi per riconoscere la propria innocenza. E tutti quegli anni in carcere li ha passati per una telefonata male interpretata dagli inquirenti. Per una consonante: gli investigatori che lo hanno intercettato hanno appuntato “muert”, che in pugliese vuol dire morto, al posto di “muers”, che significa, invece, oggetto ingombrante. Una lettera sola ha stravolto la vita di un ragazzo che all’epoca aveva solo 29 anni e un bimbo nato da soli 45 giorni. “Sette giorni dopo la scomparsa del mio amico ho telefonato a mia moglie, dicendole di preparare il bambino per portarlo all’asilo. Ho detto questa frase: “Faccio tardi, sto portando u muers” - racconta. Portavo dietro alla mia auto una piccola pala meccanica per fare dei lavori edili per mio padre. Questa frase l’ho detta davanti ad un’altra persona che non è mai stata sentita dagli inquirenti”. Gli investigatori, quel giorno, non verificano cosa effettivamente Angelo Massaro stia trasportando. E passano quattro mesi prima che qualcuno lo interroghi. “Mi chiesero se ero mai stato a San Marzano, senza dirmi perché melo domandavano”, dice. Le manette arrivano sette mesi dopo quella telefonata. “Era il 16 maggio 1996. Mi stavano arrestando per aver ammazzato l’uomo che aveva battezzato il mio figlio più grande, che avrebbe dovuto battezzare anche il piccolo, il mio compare d’anello - racconta. Sono stato privato dell’affetto dei miei figli. Ero incredulo ma avevo fiducia. Pensavo che ascoltando bene la telefonata avrebbero capito”. Invece prima che qualcuno capisca l’equivoco ci vuole molto tempo e la vicenda diventa sempre più ingarbugliata. “Come potevano pensare che qualcuno trasportasse un cadavere sette giorni dopo un omicidio alle 8.30 del mattino? Avrei potuto dimostrare tutta la verità subito”. Ma nessuno sa rispondere ad Angelo Massaro ora. La sua fiducia rimane invariata anche nel corso del processo. Tanto che la difesa rinuncia a sentire testimoni, sapendo che non c’è prova alcuna della sua colpevolezza. “I testimoni dell’accusa non hanno dato elementi utili”, spiega infatti. All’improvviso, però, spunta un pentito. “Ci siamo opposti ma non è servito - racconta Massaro -. Il collaboratore ha soltanto detto che secondo lui avrei potuto ucciderlo io il mio amico, tutto qua. Può bastare questo? Non credo”. Per tre gradi di giudizio, invece, questo basta e avanza. In appello i legali chiedono una nuova perizia sulla telefonata e l’audizione di altri testimoni, ma non viene concesso. E non serve nemmeno la testimonianza dei carabinieri di Roma, che hanno spiegato come il tono di voce, nella telefonata, fosse tranquillo e come quella parola incriminata - “muers” - possa avere diverse interpretazioni. Le motivazioni delle sentenze, nel merito, non hanno chiarito cosa sia accaduto quel lontano giorno di ottobre, quando Fersurella venne ucciso. Il caso si è riaperto solo nel 2012, dopo una lunga battaglia da parte del suo legale, Salvatore Maggio. La Corte d’appello di Potenza aveva infatti negato la revisione del processo, poi concessa dalla Cassazione nel 2015. Il processo è quindi finito in Calabria, a Catanzaro, che ha ordinato l’apertura della cella dopo 21 anni trascorsi lì da innocente. “Lo stesso procuratore generale di Catanzaro ha criticato la sentenza, definendola piena zeppa di errori”, racconta ancora Massaro. Che stenta a credere di aver potuto passare metà della sua vita da recluso per un errore. “Non ho mai accettato questa condanna, tremendamente ingiusta. Mi ha portato avanti la rabbia, la sete di giustizia e verità”, racconta ora. Quelli in carcere sono stati anni di abusi di potere e violazione dei diritti umani. “Il ministero della Giustizia mi ha sempre considerato pericoloso e fatto girare per molte carceri. Mi hanno ritenuto insofferente nei confronti delle regole penitenziarie”, spiega. E per sette anni, dal 2008 al 2015, non ha potuto vedere i suoi figli, nonostante il tribunale avesse certificato il loro stato di depressione causato dalla lontananza del padre da casa. “Nonostante il magistrato di sorveglianza di Catanzaro abbia richiesto il trasferimento a Taranto, vicino ai miei figli - denuncia - il Dap si è completamente disinteressato”. Le condizioni di vita dietro le sbarre sono state a volte intollerabili. In cella, ad esempio, mancava l’acqua “e mi lavavo con quella delle bottiglie, che ero io a comprare. E cosa è successo? Mi hanno punito con l’isolamento per lo spreco d’acqua. Questa è solo una parte delle cose subite. Ho visto gente perbene ma anche tanta violenza”. Angelo oggi racconta la sua storia in giro per l’Italia. A Catanzaro, in carcere, ha iniziato a studiare giurisprudenza, arrivando a scriversi da solo l’istanza di revisione. L’ha inviata a molti avvocati, fino a quando non ha incontrato Maggio, che ha deciso di credere in lui. Così si è rimboccato le maniche, riascoltando tutti i testimoni in grado di smontare l’accusa. Nelle sue mani prove importanti: Massaro il giorno dell’omicidio non si trovava a Fragagnano, luogo in cui Fersurella scomparve, bensì a Manduria, al Sert. A sostegno della tesi dell’innocenza anche alcune testimonianze e le intercettazioni di un altro processo, “Ceramiche”, nel quale l’uomo si professa più volte innocente. “Insomma, tutta una serie di elementi che non erano stati presi in considerazione”, aveva sottolineato il legale dopo l’assoluzione. Prove che vengono valutate soltanto negli ultimi due anni, quando ormai la pena è stata quasi totalmente scontata tra le carceri di Foggia, Carinola, Taranto, Melfi e Catanzaro. La libertà, ora, la vive da uomo spaesato, felice ma arrabbiato. Perché la spiegazione di quanto accaduto non è ancora arrivata. “Chiedo solo che vengano fatti degli accertamenti, perché privare della libertà una persona a 29 anni è crudele e in uno stato di diritto è immorale”, dice. E invita a riflettere sullo stato della giustizia in Italia, dove molti processi sono stati rivisti e ribaltati. “Chi sbaglia è giusto che paghi ma un giudice prima di condannare una persona e privarla della vita e dei suoi affetti deve chiedersi se lo fa oltre ogni ragionevole dubbio - evidenzia -. Non provo rancore, voglio solo capire se questo errore poteva essere evitato”. Massaro ha potuto riabbracciare sua moglie, all’epoca solo 22enne, e i suoi figli. Una felicità che cresce assieme alla frustrazione. “Perché ho fatto questi 21 anni di carcere?”, si chiede a cadenza regolare. Perché, ribadisce, non è il carcere ciò che non riesce ad accettare, “ma la condanna per un crimine così efferato - ha concluso. Non potevo sopportare che mi si accusasse della morte di un mio amico, non volevo che la mia famiglia venisse additata. Ho lottato, non mi sono mai arreso. Ma spesso mi chiedo: se fosse capitato a qualcuno meno forte di me e si fosse ammazzato, chi avrebbe lottato per dargli giustizia?”. Cassazione: il figlio di Riina deve rimanere al 41bis anche se non era un boss di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 agosto 2021 Respinto il ricorso alla proroga del carcere duro, decisa dal Tribunale di sorveglianza di Roma, che si è soffermato sul ruolo associativo ricoperto nell’ambiente mafioso, riconducibile alla figura egemonica del padre. Pur non avendo ricoperto ruoli apicali, Giovanni Riina, il figlio dell’ex capo dei capi, resta al 41 bis. La Cassazione, con la sentenza numero 31835 di recente depositata, ha respinto il ricorso del figlio di Riina contro la proroga del regime del carcere duro. In sostanza, per la Corte suprema sono corrette le valutazioni del Tribunale di sorveglianza di Roma che ha rigettato il reclamo avverso al decreto di proroga del 41 bis. Quest’ultimo si è soffermato diffusamente sul ruolo associativo ricoperto da Giovanni Riina nell’ambiente mafioso corleonese, riconducibile alla figura egemonica di Totò Riina. Per i giudici Giovanni Riina, pur non avendo ricoperto ruoli apicali, doveva ritenersi un esponente di spicco della criminalità organizzata - È stato evidenziato, infatti, che Giovanni Riina, pur non avendo ricoperto ruoli apicali, doveva ritenersi un esponente di spicco della criminalità organizzata isolana, radicata nell’area corleonese e collegata a Cosa Nostra, tanto è vero che il padre - che, per lungo tempo, era stato il capo indiscusso del raggruppamento consortile in questione e possedeva una caratura criminale addirittura notoria - risultava coinvolto in numerosi delitti riconducibili alla sfera di operatività del sodalizio in cui gravitava, avendo, tra l’altro, partecipato alla deliberazione di tutti gli omicidi “eccellenti” commessi in Sicilia tra la fine degli anni Settanta e il suo arresto, avvenuto nel 1993. Il profilo criminale, la posizione rivestita nell’associazione: indicatori rilevanti - In questa, incontroversa, cornice, la mancata assunzione di ruoli apicali nel contesto associativo mafioso nel quale Giovanni Riina aveva militato nel corso degli anni, secondo la Cassazione non possiede una valenza decisiva, dovendosi valutare la posizione consortile del detenuto in un più in un più vasto ambito, collegato alla sfera di operatività di Cosa Nostra, rispetto al quale assumono rilievo indicatori differenti, come costantemente affermato dalla Cassazione stessa, secondo cui: “Ai fini della proroga del regie detentivo differenziato di c:ui all’art. 41-bis della legge n. 354 del 1975 è necessario accertare che la capacità del condannato di tenere contatti con l’associazione criminale non sia venuta meno, accertamento che deve essere condotto anche alla stregua di una serie predeterminata di parametri quali il profilo criminale, la posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione, la perdurante operatività del sodalizio e la sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, elementi tutti che devono essere considerati mediante l’indicazione di indici fattuali sintomatici di attualità del pericolo di collegamenti con l’esterno, non neutralizzata dalla presenza di indici dimostrativi di un sopravvenuto venir meno di tale pericolo”. Sempre secondo la Cassazione, appaiono pienamente condivisibili le conclusioni alle quali è pervenuto il Tribunale di sorveglianza di Roma, che, nel passaggio argomentativo esplicitato nelle pagine 5 e 6 del provvedimento impugnato, ha evidenziato che “lo status in seno alla famiglia e, dunque, in seno all’associazione comporta la capacità di interlocuzione con una realtà criminale esterna, nonostante la “fluidità” della stessa (…)”, con la conseguenza che “eventuali mutamenti dell’assetto del clan, verificatisi durante la detenzione dell’affiliato, non scalfiscono la collocazione da quest’ultimo assunta in ambito associativo ed il conseguente giudizio di perdurante pericolosità del medesimo (…)”. I giudici di legittimità, nel dichiarare inammissibile il ricorso presentato da Giovanni Riina, ricordano che ai fini della proroga del 41-bis, non è necessario accertare la permanenza dell’attività della cosca di appartenenza e la mancanza di sintomi concreti di dissociazione del condannato dalla stessa, ma basta “una potenzialità attuale e concreta, di collegamenti con l’ambiente malavitoso che non potrebbe essere adeguatamente fronteggiata con il regime carcerario ordinario”. Friuli Venezia Giulia. Troppi detenuti nelle carceri, primato del sovraffollamento di Laura Tonero Il Piccolo, 25 agosto 2021 Nei penitenziari della regione ci sono 637 persone, a fronte di una capienza massima prevista di 467. Antigone: scenario peggiorato dal Covid. Il tasso di affollamento delle carceri della nostra regione risulta il più alto d’Italia. Nelle strutture penitenziarie del Friuli Venezia Giulia si contano in totale 637 persone detenute, quando la capienza regolare ne dovrebbe contare 467, con un tasso di affollamento pari dunque al 136,40%, a fronte di una media nazionale del 106,2%. Dopo quella della nostra regione, le situazioni più critiche si registrano nelle carceri pugliesi, che presentano un tasso di affollamento del 131,72%, e in quelle della Lombardia (126,42%). A trascinare il Friuli Venezia Giulia verso questo triste primato sono soprattutto le cifre relative alle case circondariali di Udine e Pordenone. Il rapporto dell’associazione Antigone, che scatta un’aggiornata fotografia della realtà negli istituti penitenziari, colloca queste due realtà carcerarie tra le 20 più affollate del nostro paese: quella del capoluogo friulano risulta al sesto posto, con un tasso di affollamento che nei mesi passati è arrivato a toccare il 174,4% (a fronte di 90 posti, lo scorso aprile erano detenute 158 persone); e quella di Pordenone al 13.o, con un tasso di affollamento medio del 150%. Le condizioni sono comunque critiche anche a Trieste, Gorizia e Tolmezzo. Alla casa circondariale Ernesto Mari di Trieste, a fronte di una capienza di 138 posti, i detenuti presenti al 1 agosto 2021 erano 173 (107 gli stranieri), dei quali 17 donne. Una situazione, quella del Coroneo, gestita da 126 agenti della polizia penitenziaria, laddove ne sarebbero previsti 143. A Gorizia, alla “Angiolo Bigazzi”, la capienza prevede 52 posti ma le persone detenute sono 66 (sono 35 gli stranieri) mentre non c’è una sezione femminile. Gli agenti della penitenziaria sono 42, quando l’organico ne dovrebbe contare 47. Nel carcere di Tolmezzo, la struttura più complessa della nostra regione che ospita prevalentemente detenuti soggetti ad alta sorveglianza, con una sezione anche in regime di 41bis, le presenze si attestano intorno alle 200 unità a fronte di una capienza fissata in 149 posti, con un corpo di polizia penitenziaria composto da 170 agenti quando ne sarebbero previsti 218. Sono tutti dati che nel complesso raccontano di condizioni detentive molto difficili, ancor più dopo lo scoppio della pandemia. “Si tratta di un anno tragico - annota il rapporto Antigone analizzando in generale la situazione delle carceri nel nostro Paese - che ha rivoluzionato il modo di essere delle persone libere e di quelle detenute. Il sovraffollamento, da condizione oggettiva di trattamento degradante, è diventato anche questione di salute pubblica”. I dati statistici forniti dal ministero della Giustizia consentono di tracciare un identikit dei detenuti nelle carceri del Fvg. Hanno prevalentemente una fascia di età compresa tra i 30 e 34 anni e tra i 50 e i 59. Tenendo conto che per molti dei reclusi non è possibile accedere a determinate informazioni, che non intendono fornire (come quelle su grado di istruzione o stato civile), il 24% delle persone oggi in carcere in Friuli Venezia Giulia è celibe o nubile, il 32,5% è coniugato, il 4,35% è divorziato, il 2,4% è separato, l’11,5% ha un convivente e lo 0,4% è vedovo. Quanto invece al grado di istruzione, solo lo 0,9% ha una laurea, l’8,5% un diploma di scuola media superiore, l’1,2% ha terminato il ciclo di studi in una scuola professionale, il 22,2% ha solo un diploma di scuola media inferiore e il 5,1% si è fermato al termine della scuola elementare. Campania. Appena 36 posti di degenza per 7400 reclusi di Samuele Ciambriello Il Riformista, 25 agosto 2021 I detenuti non possono ammalarsi: in Campania appena 36 posti di degenza per 7400 reclusi. La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o di infermità. E la pandemia ha certamente peggiorato le condizioni di vita dei detenuti. Il diritto alla salute va sempre tutelato, in particolare in un contesto che vede limitazioni alla libertà. Sono stato un grande sostenitore nel 2008 della riforma della sanità penitenziaria che ha riportato il tema della salute nelle competenze delle sole aziende sanitarie locali, affermando così un principio fondamentale: il diritto alla cura e alla salute è unico per la persona libera come per la persona priva di libertà. Come garante campano delle persone private della libertà personale sono consapevole che il tema della sanità in carcere presenta notevoli difficoltà operative e gestionali e richiede una più ampia cooperazione istituzionale tra Asl e amministrazione penitenziaria. Ho constatato, in questo anno di Covid, come con competenza e scrupolo è stata fronteggiata l’emergenza, impedendo una diffusione di contagi che avrebbe potuto assumere proporzioni allarmanti. In alcuni casi, però, assisto ad un rimpallo di responsabilità che offende le istituzioni e chi le rappresenta. Certo, la sanità, nelle carceri della Campania, presenta molte criticità ma anche buone prassi ed esperienze significative. Solo a Poggioreale e a Secondigliano vi è la presenza di centri clinici oggi chiamati SAI (padiglioni o reparti dove vi è un’intensità di cura maggiore), ma non si tratta di un vero reparto ospedaliero. A Poggioreale, per esempio, vi è un ottimo impianto di Radiologia, di recente acquisto, utilizzabile anche dai detenuti delle carceri limitrofe, ma non vi sono dei macchinari utili e necessari per effettuare in sede una Tac o una risonanza magnetica. Una possibile soluzione, che rappresenterebbe un altro buon esempio di buone prassi nella sanità penitenziaria, sarebbe l’acquisto di una “tac mobile” che possa essere trasportata nei diversi istituti. È auspicabile che quanto prima venga aperto un piccolo reparto attrezzato per detenuti dializzati. Negli ospedali i posti letto da destinare alla popolazione ristretta devono aumentare, in Campania ce ne sono solo 36 per una popolazione di 7400 detenuti. E non si fanno ricoveri in altri ospedali perché non ritenuti idonei alla sicurezza. Un’altra osservazione riguarda i turn-over nei centri clinici. Sono lenti, perché i detenuti che sono lì presenti vi restano il più a lungo possibile. Non parliamo del tema dei farmaci o della loro mancanza. L’assistenza dietetica risulta abbastanza approssimativa. E si registrano difficoltà per l’ingresso dei medici specialisti nominati dai detenuti. Non è tutto. Un’altra criticità riguarda il trasferimento dei detenuti dalle carceri per visite specialistiche, trasferimenti che sono lenti nei tempi sia per le lunghe attese ospedaliere che per la carenza di personale adibito al trasferimento del detenuto e al suo controllo durante la visita. La stessa non stabilizzazione degli operatori penitenziari dell’ambito sanitario impedisce di intervenire bene e con continuità: questo vale per medici, infermieri ed altre figure sanitarie. La cartella sanitaria informatica e la telemedicina devono entrare con forza nei piani regionali di settore. A livello regionale, inoltre, si rilevano anche criticità strettamente collegate alla mancanza di una sistematica attività di monitoraggio epidemiologico volta a definire, in termini di evidenza scientifica, l’entità, la natura e le tendenze evolutive della domanda di salute espressa dalla popolazione dei detenuti. Un capitolo a parte merita il tema della presenza di tantissimi detenuti con problemi psichici. Parlare della salute mentale, nell’ambito della tutela delle persone private della libertà personale, appare quasi un paradosso. La salute mentale è insediata dalla costrizione fisica e dalla dipendenza totale per qualsiasi necessità della vita quotidiana. Il carcere per sua stessa natura può comprimere i diritti individuali. Il carcere non può e non deve essere una risposta per queste persone soprattutto se si considera che in tantissimi istituti mancano gli psichiatri. Il personale sanitario (medici, specialisti, psicologi, infermieri eccetera) opera da anni nel carcere con rarissime e sporadiche attività di aggiornamento o di valutazione del lavoro svolto. Pertanto diventa naturale che vengano segnalati frequentemente episodi di cattive pratiche dipendenti probabilmente dal burnout, fenomeno che notoriamente riguarda il personale di assistenza che opera in condizioni particolarmente critiche (reparti di rianimazione, centri clinici, tossicodipendenti, reparti psichiatrici, e così via). E a tutto ciò si aggiunge il capitolo dolente relativo a tempi e modalità delle decisioni della magistratura di Sorveglianza. Gela. Avvocati visitano detenuti: “Condizioni buone, sì osservatorio” ilgazzettinodigela.it, 25 agosto 2021 Una delegazione della Camera Penale “Eschilo” di Gela è entrata stamattina nell’istituto penitenziario di C/da Balate. L’associazione di avvocati penalisti ha infatti aderito all’iniziativa nazionale “Ferragosto in carcere” promossa dall’Osservatorio carceri dell’Unione Camere Penali Italiane, per manifestare solidarietà nei confronti dei detenuti e del personale carcerario. L’obiettivo è quello di verificare le condizioni di vita dei detenuti, mantenere un occhio vigile sulle strutture penitenziarie e sulle proposte normative. Alla visita erano presenti il presidente della Camera Penale Avv. Maurizio Scicolone e il vicepresidente Avv. Angelo Cafà, i quali hanno eseguito un sopralluogo, unitamente alla direttrice del Carcere di Gela dott.ssa Cesira Rinaldi e al Commissario di polizia penitenziaria Luigi Carfì. Oggetto della visita sono stati la cucina, le celle, i corridoi, aree svago, infermeria e servizi. Non sono mancati i momenti di confronto con i detenuti, i quali hanno interagito con i legali e con l’amministrazione penitenziaria, sottoponendo agli stessi osservazioni e suggerimenti finalizzati al miglioramento delle condizioni carcerarie. I legali dichiarano: L’istituto di contrada Balate ospita circa 70 detenuti, provenienti da diverse parti d’Italia. Durante il sopralluogo abbiamo riscontrato delle buone condizioni igienico-sanitarie, dalla cucina alle celle, munite di frigoriferi e ventilatori, doccia interna con acqua calda e fredda, utili a fronteggiare il caldo estivo. Abbiamo raccolto le osservazioni dei detenuti, i quali hanno trovato anche la disponibilità e l’ascolto della direttrice Rinaldi e del vicecomandante Carfì, nonché di tutto il personale, a cui rivolgiamo il nostro ringraziamento per l’attenzione rivolta alle esigenze dei carcerati. Si è parlato anche di progetti, già in essere, di miglioramento delle condizioni di vita intramurarie e dell’introduzione di strumenti che possono gradualmente avvicinare il detenuto verso il mondo esterno. Nonostante le già ottimali condizioni, la camera penale manterrà una costante attenzione sulle esigenze di vita dei carcerati, istituendo un osservatorio. Sarà cura della Camera Penale replicare in futuro il proficuo incontro odierno. Chiedetevi perché tanti lottano per la democrazia di Gianfranco Pasquino Il Domani, 25 agosto 2021 Sul Corriere della Sera (23 agosto) Sabino Cassese ha scritto, cito per esteso: “La democrazia è un insieme di istituzioni maturate nel mondo occidentale e non è corretto ritenerla migliore di altri reggimenti [sic] politici e cercare di trasferirla in paesi che hanno tradizioni diverse”. Mi è stato subito riferito che le frasi di Cassese hanno già trovato diffusa accoglienza e suscitato grande tripudio in alcuni non imprevedibili ambienti. Seduti in un caffè parigino, una Gauloise fra le dita e un Pernod sul tavolino; rifugiatisi nella loro casetta per il fine settimana su un lago tedesco; raggruppati in vocianti tavolate che criticano aspramente uno qualsiasi dei governi latino-americani; a un congresso in una ridente località balneare fra colleghi politologi, sociologi e persino studiosi di diritto costituzionale; nella riunione di redazione di un quotidiano romano orgogliosamente progressista, molti pensosi intellettuali lamentano con faccia triste che la democrazia è in crisi, è una causa persa, non può essere salvata. Danno tutti ragione a Cassese: la democrazia è un “reggimento” che non regge più. Poi, inopinatamente, mi giungono altre notizie. Rannicchiati e picchiati in qualche prigione cinese, agli arresti domiciliari nel sud-est asiatico, braccati dalla polizia in diversi stati africani, nascosti sotto protezione perché è stata lanciata una fatwa contro di loro, malmenati/e in piazza Taksim, ricacciate in densi burqa, centinaia di migliaia di oppositori, uomini e donne, lottano in nome della democrazia - sì, proprio quella, occidentale, che hanno visto in televisione e nei film americani, e sperimentato come studenti a Oxford, Cambridge, Harvard, persino alla Sorbona, a Berlino e a Bologna (l’ateneo del quale è studente Patrick Zaki da più di un anno in una fetida cella egiziana), organizzano attività, reclutano aderenti, qualche volta mettono consapevolmente a rischio la loro vita. Lo ha confermato di recente, dal carcere nel quale è rinchiuso per insubordinazione, il leader degli studenti di Hong Kong, Joshua Wong: “Anche se siamo lontani, la nostra ricerca di democrazia e di libertà è la stessa”. Per nessun altro regime (reggimento?), mai, così tante persone di nazionalità, di cultura, di colore, di età e di genere diverso si sono impegnate anche rischiando (e perdendo) la vita. Ritengono che la democrazia, quell’insieme di regole, procedure e istituzioni che promuovono e proteggono più estesamente e concretamente i diritti civili, politici, persino sociali, è la forma migliore di governo. Sanno che sarà sempre sfidata in nome dei suoi stessi principi e valori. Come scrisse mirabilmente alcuni decenni fa Giovanni Sartori, professore di Scienza politica, esiste una democrazia “ideale”, quella che ciascuno di noi intrattiene nelle sue speranze ed esistono democrazie “reali” con inevitabili problemi di funzionamento e con enormi capacità di apprendimento e di autoriforma come, Winston Churchill conferma, nessun altro “reggimento” politico. Contro il virus: prevenire i conflitti sociali di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 25 agosto 2021 Autorevolezza e durata limitata devono contrassegnare i provvedimenti per ottenere il loro convinto rispetto e ribadire che, in nessun caso, possono farci regredire ad uno stato pre-giuridico oppure di eccezione permanente. In linea con l’ormai consueto dissenso verso i provvedimenti volti a fronteggiare la virulenta ripresa e la diffusione della epidemia, anche per quanto riguarda la “certificazione verde” attestante la guarigione, l’immunità o la negatività al Covid-19, a tutti nota con l’improprio anglicismo green pass, le contestazioni non mancano. La rilevanza della questione non è rappresentata dalla peraltro non debordante maggioranza dei favorevoli (secondo accreditati sondaggi il 38%) rispetto ai contrari (il 28%), bensì dal rischio che venga postato un ulteriore detonatore di conflitto sociale sul già impervio percorso verso la normalità sanitaria anche se, verosimilmente, non sarà più quella del passato. Una eventualità, quella del conflitto sociale, alimentata, in questo come in altri casi di provvedimenti legislativi, dalla assenza di un corretto inquadramento della regolamentazione e della sua temporaneità. D’altra parte, a distanza di circa due anni dall’inizio della disavventura pandemica, possiamo valutare che oltre al principale e devastante effetto della perdita di migliaia di persone, un dramma al quale purtroppo non potrà essere posto alcun rimedio, il virus ha per lo più aggravato le problematiche che già affliggevano il nostro Paese. Tra le più importanti: la bassa crescita da oltre due decenni della nostra economia, la cui causa è dovuta ad un flebile andamento della produttività lavorativa. Ma anche la mancanza di riforme, a cominciare da quella della pubblica amministrazione la cui funzione principale di servizio verso le imprese e i cittadini, è minata da ingiustificate complicazioni burocratiche e assenza di competenze adeguate per carenza di formazione. Inidoneità delle infrastrutture tra le quali innanzitutto la banda larga che, come è noto, penalizza gravemente le famiglie e le imprese soprattutto del sud del Paese. La scuola e l’università cioè il capitale umano la cui qualità, che costituisce un elemento centrale dello sviluppo sociale prima ancora che economico, deve essere improrogabilmente migliorata. Parliamo di ritardi che non possono essere recuperati soltanto attraverso politiche di bilancio espansive, anche se alla stessa va riconosciuto, ad oggi, il merito della stabilizzazione occupazionale e dei prezzi come a più riprese ha rilevato la Banca D’Italia. Da questo punto di vista, le consistenti risorse di cui potremmo disporre, se adeguatamente utilizzate, potranno consentirci un riallineamento agli altri Stati Europei più evoluti e di sconfiggere le insopportabili asimmetrie culturali ed economiche purtroppo esistenti anche tra varie aree all’interno del nostro Paese. Ecco quindi che l’esplosione del conflitto sociale, vale a dire la più pericolosa insidia prodotta direttamente dal virus, deve essere in ogni modo scongiurato poiché costituisce il vero ostacolo alla cooperazione che è il più potente motore della crescita. Non vi è niente di peggio in questo tempo, che assumere atteggiamenti competitivi che molto spesso trascendono dall’interesse generale per trasformarsi in una lotta di potere o di consensi elettorali, dimenticando che solo l’interdipendenza tra tutti gli obiettivi può consentire che gli stessi siano efficacemente raggiunti. Diversamente il conflitto si risolve con l’imposizione di una parte sull’altra. Quindi, per quanto difficile, i contrasti, anche in una condizione emergenziale, possono essere prevenuti con la creazione di un clima di fiducia. Ciò può avvenire accelerando il cammino verso l’autorevolezza che deve estendersi ad ogni ambito delle Istituzioni e a tutti coloro che a vario titolo, nel pubblico come nel privato, sono preposti a svolgere funzioni di responsabilità e rappresentatività. È un dato che soltanto la piena fiducia nella fonte di produzione di provvedimenti, consente ai cittadini il loro convinto rispetto. Nello specifico del green pass, così come per altre regole evidentemente violative di irrinunciabili diritti, va chiarito che si tratta di eccezioni che, in quanto tali, hanno una limitata, possibilmente molto contenuta, durata. E che, in nessun caso, possono farci regredire ad uno stato pregiuridico oppure di eccezione permanente. Mirabelli: “Per l’obbligo vaccinale i presupposti ci sono tutti, ma ora serve legge” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 25 agosto 2021 Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, spiega che “per rendere obbligatoria la vaccinazione deve esserci un certo grado di ragionevolezza e di fronte a una pandemia con conseguenze così gravi come un numero così alto di morti la giustificazione è da ritenere esistente”. Presidente Mirabelli, cosa implica dal punto di vista giuridico l’ipotesi di rendere obbligatoria la vaccinazione contro il coronavirus? La vaccinazione è un atto medico che possiamo considerare intrusivo rispetto alla persona e perciò la base normale di ogni atto medico è la volontarietà. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario, dice la Costituzione, come principio. E però l’obbligo può esserci, secondo la stessa Costituzione, con una disposizione di legge. Occorre una garanzia della fonte, non può essere un atto del governo a imporlo. La legge lo può fare se risponde a determinati requisiti. Anche qui il principio costituzionale è che la salute è fondamentale diritto dell’individuo ma anche che deve essere tutelato interesse della collettività, cioè proteggere la salute di tutti e bloccare il diffondersi di malattie contagiose di questo tipo. L’obbligo di vaccinazione è previsto in altri casi e alcune malattie sono state debellate ricorrendo proprio alla vaccinazione. Ricordiamo gli effetti della poliomielite e i risultati raggiunti con i vaccini, almeno due, di grande rilievo scientifico, proteggendo i bambini da gravi informità e forti conseguenze. Il viceministro Sileri ha parlato di obbligo nel caso in cui non si raggiunga l’obiettivo dell’80 per cento di popolazione vaccinata entro fine settembre. È plausibile? Perché l’obbligo possa essere imposto deve essere ragionevole. L’obiettivo deve essere la tutela della salute, che deve richiedere uno strumento tale e penso che di fronte a una pandemia con conseguenze così gravi come un numero così alto di morti e nel caso in cui non si raggiunga un certo numero di vaccinati la giustificazione è da ritenere esistente. Ma attenzione: ogni vaccinazione ha un margine di rischio. L’obbligo non potrebbe essere imposto a chi per motivi sanitari si trovasse nella condizione di ricevere danno dalla vaccinazione. Nei casi marginali nei quali vi può essere un danno che consegue al vaccino e giacche il sacrificio della persona è nell’interesse generale, l’effetto negativo deve essere indennizzato. I contrari all’obbligo, da Salvini a Meloni, spiegano che il green pass è già sufficiente, anche se prima erano contrari anche al green pass. Qual è la differenza? Dobbiamo distinguere l’obbligo di vaccinazione generalizzato, che sarebbe possibile introdurre per legge, dalla vaccinazione come requisito e onere per svolgere determinate attività e per partecipare a eventi che determinano il rischio grave di diffusione della malattia. Anche in questo caso possono esserci limitazioni temporanee ma occorre che il requisito richiesto sia adeguato rispetto al fine. Alcuni esempi: per partecipare a eventi sportivi nei quali l’affollamento è vistoso e vi è un rischio alto di diffusione del contagio, il controllo verso chi è vaccinato o chi non è portatore della malattia (perché ha avuto un tampone nativo o è guarito) può essere richiesta, così come per i tradizionali concerti estivi. Così come per svolgere attività lavorative in pubblici esercizi o altri luoghi nei quali il rischio si può determinare. Una distinzione che segnalerei è che mentre la vaccinazione generalizzata ha come obiettivo l’immunizzazione della popolazione, l’onere come requisito è un elemento che può essere richiesto per lo svolgimento di singole attività. Il Comitato nazionale per la bioetica ritiene opportuna la vaccinazione obbligatoria per chi lavora a contatto con il pubblico. È d’accordo? Mi pare che la vaccinazione per chi lavora a contato con il pubblico rientra nella categoria dei requisiti relativi all’obbligo sia per non subire la malattia sia per non essere portatori nei confronti di terzi. Immaginiamo chi lavora in uno sportello bancario o postale. Per quanto riguarda la scuola è evidente che restare per diverse ore al giorno in un ambiente chiuso, per quanto areato, può aumentare il rischio di diffusione della malattia. D’altronde ci sono altre malattie contagiose, diverse dalla Covid, che prevedono misure speciali a scuola per evitare la diffusione del contagio. La valutazione della rischiosità per classi d’età è una valutazione di tipo tecnico e sotto questo aspetto il diritto rimanda a valutazioni fatte in campo tecnico e sanitario. C’è poi il tema dei vaccini obbligatori nelle aziende, con le discussioni tra sindacati rispetto a chi è favorevole o contrario. I protocolli adottati a inizio pandemia sono sufficienti a evitare la diffusione del contagio o serve un passo in più? I protocolli sono stati degli strumenti convenzionali nei rapporti tra lavoratori e datori di lavoro, ma disciplinare la sicurezza nei luoghi di lavoro è compito del legislatore. In questo caso il riferimento va fatto rispetto alle condizioni effettive nelle quali la prestazione di lavoro avviene. Un conto è una prestazione in assoluta sicurezza dove non c’è contatto diretto e continuo tra persone; un altro caso è il lavoro in fabbrica nella quale ci sono centinaia di contatti ogni giorno. In questi casi, se c’è un rischio di diffusione del contagio e dell’epidemia, direi che l’obbligo di vaccinazione può essere imposto. Lo stesso discorso vale per le mense aziendali, ma qui il discorso è relativo alla richiesta di green pass, secondo alcuni sindacati inutile perché “la mensa aziendale non è un ristorante”. Cosa ne pensa? Nelle mense qualcuno ha ritenuto che richiedere il green pass (la cui denominazione peraltro confonde perché sembra quasi una restrizione di libertà) non fosse necessario ma visto che la mensa è un luogo che aumenta la diffusione della malattia, dal momento che per forza di cose si è senza mascherina, allora non c’è ragione per differenziare la mensa aziendale rispetto a un ristorante o una pizzeria. In alcuni paesi, come in Francia, la terza dose di vaccino per anziani e fragili è già raccomandata. Pensa che si possa parlare di obbligatorietà per alcune categorie riguardo a un ulteriore dose di vaccino rispetto alle due previste? In questo caso il presupposto è una valutazione di carattere tecnico, e cioè se l’immunizzazione e la possibilità di non diffondere l’epidemia sia un obiettivo raggiungibile con le due dosi o se sia opportuno rafforzare il processo con una terza dose. D’altronde, non sappiamo nemmeno quale sia ancora la durata dell’immunità data dal vaccino, se pochi mesi o di più. In altri casi dove la vaccinazione è volontaria, come quella anti influenzale, essa ha un’efficacia temporanea e infatti dev’essere ripetuta ogni anno. La ragionevolezza dell’imposizione o meno della terza dose dipende dalle verifiche che possono esser fatte in campo scientifico e anche in questo caso è opportuno che il diritto faccia un passo indietro. Referendum sull’eutanasia, il limite tra fine vita e diritti di Luciano Violante La Repubblica, 25 agosto 2021 Si faccia una battaglia politica e parlamentare per rendere applicabile la sentenza della Corte Costituzionale. Ma si eviti che il Paese autorizzi inconsapevolmente a schiacciare i più deboli. Il referendum sull’eutanasia propone di modificare l’articolo 579 del codice penale per permettere l’omicidio del consenziente, salvi i casi di persona minore, inferma di mente o tratta in inganno. La Chiesa cattolica si è opposta in nome del diritto di esistere e del dovere di vivere. Ma preoccupazioni possono venire anche da un versante laico. Ogni diritto, in una società matura, richiede l’esercizio responsabile delle facoltà che ne derivano, per evitare di danneggiare sé stessi o altri. In nome di questo principio accettiamo la cintura di sicurezza, il casco e i limiti di velocità; puniamo il lavoratore che non faccia un uso appropriato dei mezzi antinfortunistici; puniamo addirittura l’abuso del diritto, se, ad esempio, esercitato al solo fine di danneggiare un terzo. La Corte Costituzionale nel 2019, sollecitata dalla coraggiosa autodenuncia di Marco Cappato, è intervenuta su un diverso caso di “morte desiderata”, quello previsto dall’articolo 580 del codice penale: “Istigazione o aiuto al suicidio”. Nell’articolo 579, oggetto del referendum, la morte è data da un terzo; nell’articolo 580, riformato dalla Consulta, si tratta di suicidio agevolato. La Corte ha ammesso la non punibilità dell’agevolazione quando riguarda “l’esecuzione del proposito di suicidio, a) autonomamente e liberamente formatosi, b) di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, c) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma d) pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, e) sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, f) previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Il referendum va molto oltre i confini ragionevolmente fissati dalla Corte perché liberalizza ogni forma di omicidio del consenziente, anche se determinato, ad esempio, da una depressione, da un fallimento finanziario, da una delusione sentimentale, da una momentanea fragilità psichica e anche se commesso con mezzi violenti. Ma non è questo il solo esito preoccupante del referendum. Nel 2020 sul profilo Facebook del presidente di una Regione si definivano gli anziani: “Persone non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese, che vanno ‘però’ tutelate”. Poche settimane or sono un affermato giornalista ha scritto su un quotidiano nazionale a proposito del Covid: “Non capisco proprio perché per salvare settuagenari od ottuagenari, in genere affetti da due o tre gravi patologie, sia bloccata la vita di intere generazioni a cui il Covid non poteva far nulla. Che muoia chi deve morire e smettiamola con questa tragica farsa”. Oggi il costo di una giornata di degenza in una struttura dedicata alle cure palliative è di circa 300 euro e quello di una giornata di ricovero in un ospedale pubblico è di circa 470 euro. Quale sarà il destino dei malati vecchi e poveri in una società che invecchia, con una sanità costosa, dove sia possibile sopprimere chiunque lo consenta e dove circolano idee come quelle sopra indicate? Sono certo che i proponenti del referendum non hanno convinzioni eugenetiche e tuttavia non sempre le buone intenzioni riescono a fermare le cattive conseguenze. Si sostiene che il referendum è necessario perché, in mancanza delle disposizioni di attuazione per il Servizio sanitario nazionale, la sentenza della Corte non sarebbe direttamente applicabile. Si faccia allora una rigorosa battaglia politica e parlamentare per rendere applicabile la sentenza della Corte. Ma si eviti che il Paese, prigioniero delle buone intenzioni, autorizzi inconsapevolmente a schiacciare i più deboli. Il Garante nazionale dei detenuti: interrompere le espulsioni degli afghani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 agosto 2021 A seguito della tragica salita al potere dei Talebani in Afghanistan e dopo la presa della capitale Kabul del 16 agosto 2021, il Garante nazionale delle persone private della libertà ha chiesto di interrompere, in Italia, le espulsioni verso l’Afghanistan a tempo indeterminato. Il Garante, in qualità di organismo nazionale di monitoraggio dei rimpatri forzati, ha ricordato gli obblighi internazionali di protezione cui l’Italia è vincolata. Già all’inizio del mese di agosto la Corte europea dei diritti umani si è pronunciata accogliendo la richiesta cautelare di un cittadino afghano che chiedeva di non essere rimpatriato dall’Austria. Una decisione che crea, quindi, un precedente importante. Il Garante sottolinea che la pronuncia, visto il drammatico sviluppo degli eventi, impone a tutti gli Stati parte della Convenzione l’interruzione immediata e a tempo indeterminato di qualsiasi allontanamento di persone, anche indiretto, verso l’Afghanistan. In base ai dati raccolti dal Garante tra il 1° gennaio e il 30 aprile 2021, non si registrano rimpatri forzati di cittadini afghani dall’Italia, mentre sono quattro le persone respinte in frontiera verso l’Afghanistan e sei, tra cui tre donne, quelle riammesse in Slovenia. Sei sono transitati da Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr). Ma per il Garante devono ancor più far riflettere i numeri del 2020: è stato realizzato il rimpatrio forzato di un cittadino afghano, sette persone sono state respinte in frontiera verso l’Afghanistan e 327, tra cui quattro 4 donne, sono state riammesse in Slovenia. Cinque sono transitati per Cpr. “È necessario un ripensamento urgente dell’attività di controllo delle frontiere nei confronti dei cittadini afghani e una riorganizzazione complessiva delle politiche di accoglienza anche a livello europeo specie per quanto riguarda la cosiddetta rotta balcanica”, ha osservato il Garante nazionale. Nel frattempo, c’è l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che chiede alle autorità italiane ed europee di mettere in atto tre linee guida per agevolare la protezione della popolazione civile in Afghanistan. Ovvero evacuare, accogliere e proteggere. “L’Italia, anche tenuto conto del ruolo assunto dalle proprie forze militari nel corso degli ultimi venti anni in Afghanistan sottolinea l’Asgi - ha il dovere di garantire o, comunque, agevolare in ogni modo l’ingresso tramite le proprie frontiere marittime, aeree e terrestri dei cittadini afghani che si presentino anche in esenzione di visto e fornire loro tutte le informazioni utili affinché gli stessi possano accedere alla richiesta di protezione”. L’Asgi sottolinea come, data l’impossibilità del rilascio di visti di ingresso da parte della autorità consolari europee in Afghanistan, sia necessario modificare direttamente il Regolamento n. 539/ 2001 prevedendo “la possibilità di ingresso in Europa in esenzione di specifico visto per i cittadini afghani”. Per questo motivo viene rivolto un invito alle autorità italiane per garantire procedure “rapide e semplificate” per coloro che sono attesa di visti di ingresso per ricongiungimento famigliare o visti umanitari “trasferendo alle rappresentanze consolari italiane nei Paesi limitrofi anche le competenze relative al rilascio di visti”. La resa dell’Europa: “Non possiamo più portare in salvo tutti i profughi afghani” di Victor Castaldi Il Dubbio, 25 agosto 2021 Magari in molti se lo aspettavano, ma per le migliaia e migliaia di afghani che tentano di lasciare il loro paese caduto nelle mani dei fanatici integralisti, la porta chiusa dell’Europa è un’autentica doccia fredda. Lo ha detto Berlino, hanno confermato Londra, Parigi e Madrid: impossibile mettere in salvo tutti con i ponti aerei. Chi avrà la forza e la fortuna, scapperà dall’Afghanistan con mezzi propri, ovvero si dovrà arrangiare. E pazienza se molti di coloro che rimarranno indietro sono in pericolo di vita: la massiccia operazione di salvataggio di informatori, interpreti, ex militari e collaboratori di vario genere che negli ultimi 20 anni hanno aiutato la Nato a tenere sotto controllo la delicata situazione della sicurezza è destinata a fallire. Amnesty e altre ong chiedono agli occidentali di restare ancora per mettere tutti in salvo, ma la loro voce è rimasta inascoltata. Se l’Unione europea quadruplica gli stanziamenti per aiutare gli afghani, il ponte aereo ininterrotto deve fare i conti con una situazione logistica e di sicurezza che degenera di ora in ora. “I fondi per finanziare il programma umanitario passeranno da oltre 50 milioni a oltre 200 milioni di euro. Questi aiuti umanitari si aggiungeranno ai contributi degli Stati membri per aiutare il popolo afghano” ha detto al vertice del G7 la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Il problema è che se non ci sarà una presenza in loco di operatori e una protezione adeguata quei fondi saranno inutili. Così la Francia annuncia che concluderà le evacuazioni dall’Afghanistan domani mentre gli Stati Uniti confermano il ritiro totale entro il 31 agosto. Nicolas Roche, capo dello staff del ministro degli Esteri transalpino, Jean-Yves Le Drian, ammette sconsolato: “Se gli Stati Uniti completano totalmente il ritiro il 31 agosto come previsto vuol dire che la nostra operazione termina giovedì sera”. Neanche la Spagna, da parte riuscirà a evacuare tutti i cittadini afghani che hanno collaborato con la missione diplomatica di Madrid a Kabul a causa della “drammatica” situazione sul terreno come dice alla radio Cadena Ser la ministra della Difesa Margarita Robles. “Evacueremo quanta più gente possibile ma ci sono persone che resteranno indietro per ragioni che non dipendono da noi ma dalla situazione”. “Anche se l’evacuazione andasse avanti fino al 31 agosto o addirittura qualche giorno in più, non sarà abbastanza per evacuare coloro che noi o gli Stati Uniti desiderano evacuare”, ha aggiunto il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, con l’attuale scadenza, gli americani “avranno certamente bisogno di due giorni solo per evacuare i propri militari”. È “improbabile” che le evacuazioni dall’aeroporto di Kabul vengano estese oltre il termine, ha dichiarato il ministro della Difesa britannico, Ben Wallace. Quella accoglienza da imparare di Karima Moual La Stampa, 25 agosto 2021 È sempre un buon segno vedere una comunità in mobilitazione verso un’altra in grave difficoltà. È quello che abbiamo avuto modo di osservare in questi giorni in Italia rispetto a quanto sta accadendo in Afghanistan. Donne, bambini e famiglie intere in fuga da una guerra che promette di mutilare la loro esistenza. “Corridoi umanitari”, si è gridato all’unisono solo a guardare le immagini che ci arrivano da Kabul. Bene, ma attenzione a farsi trasportare dalla sola emotività senza una visione a lungo termine, che spetta alla politica, di quella che non può essere solo una iniziativa umanitaria per salvare la pelle a migliaia di persone. Parallelamente bisogna già da ora avere l’ambizione l’obiettivo preciso di costruire fondamenta solide per una vera integrazione appena varcato il suolo italiano. Deve essere chiaro che è in arrivo nella nostra casa un’umanità - sì ferita da anni di conflitti, ingiustizie e povertà, ma allo stesso tempo è anche una diversità con le sue complessità culturali e valoriali, che dovremmo già aver compreso quanto alle volte siano in contrasto con un impianto democratico e rispettoso dei diritti umani, che continuiamo anche noi a salvaguardare, giorno dopo l’altro. Ci sono almeno 5 punti, che non sono scontati e possiamo dire che abbiamo avuto modo con l’esperienza di trovarli al centro di conflitti sociali non secondari. In estrema sintesi: le donne, il ruolo e il posto che devono avere nella nostra società che non può essere subalterno a nulla, in nome del rispetto di altre culture. Così come quello dei figli minori. Di pari importanza deve essere chiarito il significato delle libertà, compresa quella di espressione. C’è poi da spiegare anche il ruolo e il posto che ha la fede rispetto alle leggi nel nostro Stato. Il significato di democrazia, e l’importanza che ha la diversità e la pluralità che deve avere pari dignità, diritti e doveri. I rifugiati afgani che stanno arrivando nel nostro paese, che siano donne, bambini o uomini(da notare che questa ultima categoria sembra che per qualcuno sia meglio da evitare, come se i nuclei famigliari non siano formati anche da uomini) come primo approdo hanno bisogno di salvarsi la pelle, ma per salvare la loro e anche la nostra bisogna dotarsi degli strumenti adeguati per inserirli, integrarli al fine di dargli quella opportunità di emanciparsi come individui e cittadini a pieno titolo nella nostra società. Perché la vera sfida per tutti noi, sarà poi la convivenza. Buona o cattiva non potrà essere liquidata come colpa loro ma solo il risultato di quanto avremmo noi costruito per un’accoglienza che dovrà affrontare anche l’aspetto culturale, dei diritti e dei doveri della cittadinanza. Siamo pronti? Il nostro archivio storico non è rassicurante, perché ancora privo di un patto di cittadinanza chiaro e fruibile per chiunque arrivi. A maggior ragione, credo che sia il caso di rimboccarsi le maniche. Ius soli, il rilancio del Pd: “Entro l’anno la legge” di Gabriele Bartoloni La Repubblica, 25 agosto 2021 Il responsabile sicurezza dei dem, Borghi: “Ci sono le condizioni per approvare la norma”. Il Financial Times critica l’Italia sulla cittadinanza: “Leggi troppo dure”. Il Partito Democratico spinge affinché a settembre riparta la discussione sullo Ius soli. Lo fa attraverso il deputato dem Enrico Borghi secondo “ci sono le condizioni affinché si arrivi ad un’approvazione da parte di un ramo del Parlamento entro la fine dell’anno”. Il pressing arriva nel giorno in cui il Financial Times critica le leggi italiane sulla cittadinanza: “Le più dure d’Europa”, secondo il quotidiano britannico. Allo stato attuale presso la Camera sono depositate tre proposte di legge: la prima porta la firma Laura Boldrini, la seconda di Matteo Orfini e, infine, la terza è quella di Renata Polverini. Quella della deputata di Forza Italia avrebbe maggiori possibilità di essere approvata. Il testo, infatti, non parla di un vero e proprio Ius soli, ma di uno Ius scholae, che permetterebbe ai minori di ottenere la cittadinanza una volta portato a termine almeno un ciclo di studi e su cui ci sarebbe un accordo di massima con il Movimento 5 Stelle e Leu. Il successo degli atleti azzurri alle Olimpiadi di Tokyo, ha riaperto il dibattito sulla cittadinanza. I partiti del centrosinistra - principalmente Pd e Leu - sono tornati a chiedere l’introduzione dello Ius soli. Anche la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese si è dimostrata aperta al dialogo. Rimangono contrari i partiti della destra sovranista (Lega e FdI), mentre qualche liberal di Forza Italia ha già dato la sua disponibilità a votare una nuova legge. Da Italia Viva, invece, filtra cautela. Al momento, in Commissione Affari costituzionali non esiste un testo base. Ma il presidente del M5S Giuseppe Brescia ha già fatto sapere che sarebbe disposto a portare avanti la versione che prevede il completamento di un ciclo di studi. Una disponibilità su cui potrebbe giocare di sponda anche il segretario del Pd Enrico Letta, convinto che il momento giusto per far riprendere il percorso della legge sia l’inizio dell’autunno. “Faccio appello a tutte le forze politiche, perché subito, a settembre, si apra un tavolo in Parlamento per discutere della nuova legge sulla cittadinanza, senza brandire bandiere”, aveva detto il leader dem prima della pausa estiva. “Se non la si trasforma in una battaglia ideologica, si può fare”, dice Ettore Rosato, coordinatore di Italia Viva. “Se finisce per diventare una battaglia utile alla destra o alla sinistra per parlare al proprio elettorato, è chiaro che andrà a finire con un nulla di fatto”. Il supporto di Italia Viva non è scontato, sebbene sia fondamentale affinché la legge venga approvata, specie in Senato dove i numeri sono più incerti. Migranti. I ventimila fantasmi di Castel Volturno sospesi tra rifiuti e l’incubo del Covid di Raffaele Sardo La Repubblica, 25 agosto 2021 Il grido d’aiuto della città in provincia di Caserta dopo l’allarme lanciato a fini luglio dalla ministra Lamorgese. Migliaia di persone, soprattutto immigrati, non sono iscritte all’anagrafe e i servizi sono al collasso. “Vacciniamo tutti: ma non possono avere il Green Pass perché privi di tessera sanitaria”. “A Castel Volturno siamo in 28 mila. E poi ci sono i fantasmi. Nel nostro comune c’è quasi un fantasma per ogni cittadino. Un numero tale da formare un’altra città”. Pasquale Marrandino, assessore all’Ambiente della giunta di centro destra che amministra il Comune del litorale domizio in provincia di Caserta, parla di fantasmi, cioè di cittadini “invisibili”. Si riferisce a quelli non iscritti ufficialmente all’anagrafe, che sono per la maggior parte immigrati e che contribuiscono a mandare in tilt i già scarsi servizi del Comune. “Sono almeno 20 mila - spiega - che aggiunti ai cittadini residenti, si arriva quasi a 50 mila abitanti. Il fatto è che queste persone hanno una ricaduta pesante sulle casse del nostro Ente e non solo. Perché hanno bisogno e usufruiscono dei trasporti pubblici, dell’acqua potabile, dell’energia elettrica, dell’anagrafe, dell’Asl, usufruiscono delle poste, ormai al collasso. E, ovviamente, producono rifiuti. Immaginate 20 mila persone che ogni giorno producono rifiuti oltre a quelli che già normalmente lo fanno. Sono costi in più che non vengono addebitati a chi si dovrebbe, ma siamo costretti a spalmarli su coloro che risultano iscritti ufficialmente come cittadini all’anagrafe. Così non reggiamo. Siamo al collasso”. E’ un grido di allarme, ma anche di aiuto, di una città spalmata su 27 chilometri di costa, incastrata tra Varcaturo a Mondragone, che sembra abbandonata ad un destino infame e che in alcune zone è sommersa da rifiuti, per lo più ingombranti, che ogni qualcuno incendia. I rifiuti, appunto, tra le tante criticità di Castel Volturno, sono uno dei punti cruciali sui quali si gioca il futuro finanziario dell’Ente e, di conseguenza, anche quello politico. Dal 2019 una giunta di centro destra, guidata dal sindaco Luigi Petrella, di Fratelli d’Italia, e sostenuta dalla Lega di Salvini, arranca quotidianamente e rischia di scivolare proprio sui rifiuti che a fatica vengono smaltiti. In molti posti restano in bella mostra cumuli enormi di ingombranti a testimoniare l’affanno di una storia lunghissima e che è destinata ad aggravarsi. “Mi appello allo Stato, a chi può darci una mano - dice l’assessore Marrandino - Perché qui è impossibile andare avanti. Siamo usciti dal dissesto nel 2016, ma tra poco rischiamo di ricadere nel baratro finanziario. Da soli non ce la facciamo. I numeri sono impietosi”. Nel 2018 è stato emesso un ruolo per la Tari (Tassa sui rifiuti) di 7.973.958 milioni di euro. Sono stati incassati appena 3.500.000 milioni di euro. Il rapporto tra spese e incassi è più o meno sempre lo stesso, ogni anno. Un servizio in perdita che prosciuga le casse dell’Ente. Nel 2019 stesso andazzo. Emesso un ruolo per 7.832.000 euro. Incassati 3.154.000. Per il 2020 va addirittura peggio. Il ruolo è di 7.794.000 euro, incassati 2.627.158 euro. “Abbiamo affidato ad una società di riscossione esterna, la Sogest, il compito di gestire i tributi. Lo fa egregiamente. Ma ci sono alcuni dati di fatto da cui non si prescinde. Un 50% di questi tributi sono a carico di cittadini che vivono sul nostro territorio, ma che non hanno niente da perdere. Non è che non vogliono pagare, non possono, non hanno i mezzi. Diciamo che un 10/15 per cento di evasione sarebbe fisiologica. Ma qui parliamo di persone che non hanno niente, dove l’agenzia di riscossione non può fare nulla. Gli togli il reddito di cittadinanza? Ci abbiamo provato, ma non si può fare”. “Fortunatamente - aggiunge l’assessore che ha anche la delega alla polizia municipale - da un paio di anni si sta lavorando bene su questo altro fronte. Qualcosa arriva nelle casse del comune grazie alla Polizia Municipale. Siamo passati da 14 mila euro di multe incassate nel 2018/2019, a quasi un milione di euro per il 2020. Abbiamo comprato un rilevatore di targhe sulla macchina. Abbiamo ripristinato un autovelox mai usato da 23 anni. Abbiamo comprato telecamere installate in località Bagnara per controllare sversamenti abusivi, abbiamo installato un photored per rilevatore di targhe per assicurazione”. Ma sono i rifiuti la palla al piede di ogni amministrazione che si è succeduta alla gestione del Comune. È come se questo settore subisse i sussulti di un territorio complicato che porta in dote il suo “peccato originale”: i “fantasmi” che nessuno vuole vedere, perché tali non sono. Sono persone che hanno esigenze, necessità, diritti. “Avete deciso che devono stare qui gli immigrati? Bene - afferma l’assessore Marrandino - Ma ci vogliono i fondi per far reggere i servizi. Dateci i fondi e noi provvediamo. Pensate - insiste l’assessore - Solo per i funerali degli immigrati a carico del Comune, paghiamo quasi 180 mila euro all’anno”. E, come se non bastasse, c’è anche tutta la tematica dei vaccini che va affrontata. La Pandemia fa paura. Se non ci sono stati focolai pericolosi, è stato un miracolo. Come fare per vaccinare anche “i fantasmi”? L’Asl di Caserta ci sta provando grazie anche alla collaborazione del Comune, alla rete di associazioni di “Castel Volturno solidale” (Emergency, il centro Fernandes della Caritas di Capua, la protezione civile di Castel Volturno e i volontari del “Progetto Demetra”, il centro sociale ex canapificio di Caserta, i padri comboniani). Dal 21 luglio è stato aperto un centro vaccinale presso il poliambulatorio Asl di Castel Volturno, dove due volte a settimana, il mercoledì e il venerdì, si può fare la vaccinazione dei residenti, ma anche di chi non ha documenti in regola. “Sino ad ora sono circa 2000 i cittadini stranieri senza permesso di soggiorno che sono stati vaccinati. - afferma Mimma D’Amico del centro sociale ex canapificio - La regione Campania è stata la seconda in Italia a permetterlo, dimostrando grande sensibilità e civiltà”. “Qui vacciniamo tutti - assicura Stefano Zippo, operatore di strada del progetto Demetra - ci raccordiamo con il poliambulatorio di Emergency e con il centro Fernandes che ci forniscono i nomi degli immigrati e che poi vengono inviati al centro Asl di Francolise per l’approvazione. A tutti facciamo il Moderna o il Pfizer. Qualcuno chiede di fare il Johnson & Johnson perché dopo l’uso obbligatorio del green pass c’è chi deve partire e il Johnson & Johnson prevede una sola dose. Sono arrivati per prima gli immigrati che hanno una voce in capitolo nella loro comunità. Qui l’informazione avviene ancora con il passaparola. Così chi si vaccina è di esempio anche ad altri, che cominciano a fidarsi e poi arrivano qui senza problemi”. “Ora - aggiunge Mimma D’Amico - si pone il problema del Green pass a chi pur avendo completato il ciclo vaccinale, non riesce a scaricarlo dal sito perché privo di tessera sanitaria. Stanno arrivando le direttive del ministero della salute. Speriamo che anche su questo la Regione Campania sia attenta e provveda a risolvere il problema”. Ma, tornando al problema dei rifiuti, per l’assessore all’Ambiente “è una lotta impari. Ci sono pezzi di territorio, Destra Volturno e Bagnara, che chiamiamo “zona rossa” dal punto di vista della raccolta dei rifiuti, che ci danno particolari problemi. La zona è altamente popolata da immigrati e da poche famiglie di italiani, tutte provenienti dall’hinterland napoletano. Senza nessuna offesa per l’hinterland napoletano, sono tutte persone che sono qui in cerca di fortuna. Si arrangiano. Attaccano l’acqua, corrente elettrica, spesso le case sono occupate o con affitti irrisori. Parliamo almeno di 10 mila persone che abitano in questa zona. Vivono per lo più di reddito di cittadinanza e sono dediti a lavori tipo svuota cantine, ferrovecchi e lavori simili. Poiché qui c’è sempre da buttare un mobile, un televisore, pulire il giardino, ecc, vengono chiamate queste persone che caricano tutto e, se siamo fortunati, li vanno a scaricare nell’isola ecologica. Se siamo sfortunati, scaricano vicino ai cassonetti. Ecco perché ci sono tutti quei cumuli di ingombranti”. Ma i problemi relativi ai rifiuti sono stati in qualche modo aggravati anche dalle società che dovrebbero assicurare la raccolta. Da due anni il servizio è andato avanti grazie alle ordinanze del sindaco che affidavano ad una società, la Teknoservice, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, dopo che erano finite nei guai le altre due precedenti società che avevano vinto gli appalti, la DHI e la Senesi, per problemi di certificazione antimafia. È stata l’Anac, l’autorità anticorruzione, a sollecitare gli amministratori per fare una regolare gara per l’affidamento del servizio. Gara che è ancora in alto mare. “Nei giorni scorsi abbiamo espletato una gara ponte attraverso l’Asmel - spiega l’assessore Marrandino - con l’affidamento del servizio per 8 mesi, con un capitolato che si avvicina a quello che vorremmo fare per i prossimi cinque anni. Hanno partecipato solo in due ditte e ha vinto una società di Ischia, la ISVEC, della famiglia Balestrieri che ha presentato un ribasso maggiore rispetto a Teknoservice. Il passaggio di cantiere dovrebbe avvenire a settembre”. Le malelingue sostengono che gli affidamenti provvisori sono serviti soprattutto ad alimentare il serbatoio clientelare dell’amministrazione comunale. Ma per l’assessore è solo una questione tecnica. “Abbiamo preparato un nuovo piano industriale grazie al responsabile dell’ufficio ecologia che si è avvalso di un piano elaborato dall’ingegner Francesco Girardi e in parte anche di quello che la DHI presentò nel 2010. Vogliamo ripartire da qui per arrivare a mettere insieme le varie zone di Castel Volturno anche per la raccolta differenziata.” La raccolta differenziata. Appunto. Rispetto all’amministrazione precedente che era arrivata a percentuali che superavano appena il 40 per cento, con l’esecutivo attuale la percentuale è ulteriormente scesa di almeno altri dieci punti. “Da soli non ce la faremo mai” continua a dire sconsolato l’assessore Marrandino, con la speranza che il suo grido di aiuto arrivi al Governo centrale per far fronte ad una situazione che rischia il collasso. Un grido di aiuto a cui, per il momento, ha prestato attenzione il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, che il 26 luglio scorso, nella sua visita in prefettura a Caserta, ha ammesso che Castel Volturno da sola non ce la può fare. “L’immigrazione - ha riconosciuto nell’occasione la ministra - è un problema che non può essere affrontato solamente dal Sindaco, su questo non c’è dubbio. Sono interventi che non sono stati fatti in vent’anni, lo Stato non è intervenuto con un’azione forte e come possiamo pensare che possa farcela un Sindaco da solo, senza risorse e capacità di gestire un fenomeno così complesso?”. Ecco, appunto. Il Governo intervenga se ha intenzione di far rientrare Castel Volturno tra le città dove si vive dignitosamente. In mancanza il futuro è già segnato. Droghe. Rave di Valentano, oltre gli stereotipi di Pino Di Pino* Il Manifesto, 25 agosto 2021 Dopo l’esperienza allo Space Travel Vol II, ribattezzato dai media “Rave di Valentano”, a cui ero presente come operatore della Riduzione del danno (RdD), credo sia necessario fare chiarezza su alcuni aspetti. Da una parte, lo sconcerto per come la stampa lo ha raccontato, con toni quasi fantascientifici e allarmistici, con molte notizie false ed altre non ancora verificate, che confermano che il mondo dei free party e delle controculture è ancora un oggetto misterioso. Dall’altra, come operatori siamo tutti ancora travolti dalle emozioni di una settimana passata come una sola equipe, senza gruppi di appartenenza e con uno spazio temporaneo a darci una identità. Più o meno lo spirito di un free party, insomma. Hanno risposto in 80 all’appello del Cnca e di Itardd - Rete Italiana della RdD. Quando abbiamo capito che qualcosa di enorme si preparava per Ferragosto, ci siamo detti che serviva qualcosa di altrettanto enorme per garantire un intervento. Qualche mese fa, in occasione di un evento a Tavolaia, e in altre occasioni prima di allora, due o tre equipe si erano coordinate per garantire interventi di RdD, ma mai prima di Valentano 80 persone da 12 regioni hanno lavorato assieme per mettere in piedi uno spazio così ampio a tutela dei partecipanti. Questa è la rete che siamo capaci di essere. C’erano i gruppi che più di tutti lavorano ai free party, ma c’era chi una festa del genere non l’aveva mai vista; la dottoressa anestesista che si mette a disposizione e gira la festa assieme alla consumatrice che per due giorni dà il proprio contributo alla chill out. L’energia che chi c’era e chi ha seguito da lontano questo intervento si portano a casa viene da qui, dall’intesa perfetta, dall’integrazione delle competenze senza piccole identità da difendere, senza gruppi fra i quali confrontarsi ma con una solo maglia addosso. Gli interventi condivisi sono la regola in Europa, quando l’Unione europea copre i costi di questo sforzo con finanziamenti adeguati, ma in Italia mai prima d’ora si era messo in piedi qualcosa del genere. Cuore, intelligenza e mestiere: la rete per la RdD ha dato prova dell’enorme risorsa che è, pronta a essere in campo quando si parla di droghe e sicurezza delle persone. Nei giorni del Teknival il ventaglio delle azioni che questa unica equipe ha fatto è enorme: informazione onesta e trasparente sulle droghe; colloqui che hanno accompagnato verso scelte consapevoli, anche testando le sostanze; cure mediche di primo soccorso; mediazione con le tribes e le autorità per garantire un contesto più sicuro, senza sottrarsi anche a consolare gli amici nella elaborazione di un tragico lutto. Una presenza importante e fondamentale come abbiamo colto dalla stima ricevuta dai partecipanti, da chi ha messo in piedi un muro di casse, dal 118 e perfino dal Funzionario della Questura. Quando parliamo di “sicurezza”, di questo parliamo. È solo l’inizio. Tocca tornare alla realtà adesso e ricordare che ognuno di noi continuerà il proprio lavoro nelle mille difficoltà quotidiane. La RdD è un LEA, livello essenziale di assistenza, ancora disatteso in Italia. Tocca adesso tornare ad esigerla in ogni Regione e magari per la prossima festa saremo in molti più che 80. C’è da augurarsi che l’energia di questa squadra non sia dispersa mentre ci si prepara alla Conferenza Nazionale sulle Droghe. E che quando si parla di questi eventi lo si faccia pensando innanzitutto alla sicurezza di chi vi partecipa. Proprio mentre la carovana di camper delle Unità di Strada stava uscendo da Valentano ci è arrivata la notizia che ci ha lasciati Claudia, amica e collega del progetto Nautilus di Roma. Questo immane lavoro è dedicato a lei che ci voleva proprio come siamo stati. *L’autore fa parte della Rete Italiana per la Riduzione del Danno L’Occidente e l’Afghanistan: gli interessi e i valori di Antonio Polito Corriere della Sera, 25 agosto 2021 Tra pochi giorni saranno vent’anni dall’attacco alle Torri gemelle da dove tutto è partito. Gli Usa a Kabul non hanno perso la guerra, piuttosto hanno perduto e noi con loro, la sfida politica, civile e morale. “Chi salva una vita salva il mondo intero”, dice il Talmud. Ma stavolta l’America e i suoi alleati non salveranno il mondo. Sotto l’avviso di sfratto dei talebani, che hanno dato una settimana per sloggiare, è ormai chiaro che il cosiddetto Occidente sta per abbandonare al loro destino decine di migliaia di afghani che ha prima “liberato”, poi illuso, infine tradito, e ai quali ora non sa ora offrire nemmeno semplice protezione. Eppure dal 2005 le Nazioni Unite hanno inserito nei loro statuti il principio della “responsabilità di proteggere”, che mette in testa alla comunità internazionale il dovere di difendere i popoli quando i loro governi non vogliono o non possono farlo, usando ogni mezzo diplomatico e umanitario. Principio basato sul fatto che tutte le donne e tutti gli uomini nascono liberi e uguali, dunque hanno tutti gli stessi universali diritti umani, qualsiasi sia la loro lingua, cultura o religione, e anche se il loro stesso governo li nega o li conculca. È un obbligo morale che persone come Tommaso Claudi, il nostro console a Kabul che si china al di là di un muro per prendere in braccio un bambino, ha compreso in pieno. Joe Biden no. Le sue scelte sono state mosse da un altro principio: l’interesse politico. Confermato dalla decisione di resistere alle pressioni del G7 e mantenere la scadenza del 31 agosto per il ritiro definitivo. Il risultato è quello che da giorni ci riempie gli occhi di lacrime impotenti, di rabbia e commozione. Quando il presidente americano ha detto che il “nation building”, la costruzione di uno Stato, non era mai stato un compito della missione in Afghanistan, ha detto infatti una cosa non vera. E ha reso un torto alle migliaia di militari e civili, tra cui tanti italiani, che in quel paese sono andati proprio per aiutare gli afghani a mettere su un sistema giuridico, una polizia, un esercito, una scuola per tutti, un apparato sanitario. Il “nation building” era esattamente il compito che l’Occidente si diede (Enduring Freedom, “libertà duratura”, così si chiamava la missione), e con il quale intese giustificare la lunga occupazione militare. E se non fossimo scappati, qualcosa di buono l’avremmo anche lasciata dietro di noi. Altrimenti non si spiegherebbe perché tanti afghani in queste ore sembrano disposti a morire all’aeroporto di Kabul pur di non tornare ai tempi dei talebani. Dal punto di vista militare, gli Stati Uniti non hanno perso la guerra in Afghanistan, come si dice. Da un anno e mezzo non un solo soldato americano è stato ucciso. E Bin Laden, il nemico numero uno, è stato eliminato. Agli smemorati di queste ore va infatti ricordato perché gli americani andarono in Afghanistan il 7 ottobre 2001. Neanche un mese prima, l’11 settembre, un’organizzazione terroristica ospitata e protetta dai talebani aveva ucciso 3000 persone a New York nel più spettacolare attacco sul suolo americano della storia. Quando Usa e Regno Unito intimarono ai mullah di consegnare la leadership di Al Qaeda, i talebani rifiutarono, e il loro paese fu invaso. Tra qualche giorno, nel ventesimo anniversario delle Torri gemelle, potremo aiutarci con film e documentari a rinfrescare la memoria, a ricostruire la sequenza degli eventi, da dove partì l’attacco. Ciò che l’America ha perso, e noi con lei, è piuttosto la sfida politica, civile e morale. Al punto che ora, pur essendo l’unica ad averne la forza, non dispone più della voglia e della credibilità per salvare gli afghani in fuga. Ha perciò ragione il governo italiano, presidente di turno del G20, quando individua in quel consesso, che comprende anche Cina, Russia e Turchia, uno strumento più efficace del G7 riunitosi ieri per affrontare il caos afghano. Perché oltre alle decine di migliaia di persone in fuga, abbiamo una responsabilità anche nei confronti dei quasi 40 milioni di afghani che resteranno, e ai quali dobbiamo per quanto possibile evitare il bis della barbarie dei talebani, che non sembrano affatto né migliori di vent’anni fa né più disposti a una “distensione” che non sia la nostra genuflessione. Avendo perso la sua chance, l’Occidente può fare adesso solo due cose: nascondere la faccia per la vergogna e voltarsi dall’altra parte per non vedere ciò che accadrà; oppure provare a salvare il salvabile, utilizzando ogni mezzo di cui dispone, dunque anche il dialogo con potenze meno sensibili al rispetto dei diritti umani ma proprio per questo più pronte a colmare il vuoto strategico lasciato nell’area. Le nostre democrazie hanno ancora molti strumenti per aiutare gli afghani. Innanzitutto portando via in queste ore da Kabul il maggior numero di profughi, e dichiarando aperte per loro le porte dell’Europa, invece di alzare muri e giocare allo scaricabarile come molti governi nella Ue hanno già cominciato a fare. E poi preparandosi per condizionare con tutta la forza politica, diplomatica e finanziaria i futuri governanti afghani, affinché il costo di una nuova barbarie risulti per loro intollerabile. Lo dobbiamo all’Afghanistan, il Paese con uno dei tassi di mortalità infantile più alti sulla Terra. Ma è anche nel nostro interesse. Tutto il mondo sta a guardare, per capire se le democrazie occidentali sono diventate così deboli e rinunciatarie da poter essere nuovamente e impunemente sfidate ovunque. La diplomazia fra Spagna e Marocco e il destino dei minori alla frontiera di Elena Marisol Brandolini Il Domani, 25 agosto 2021 All’improvviso e senza alcun annuncio, alla vigilia di Ferragosto, il governo spagnolo ha avviato la procedura di rimpatrio dei 750 minori marocchini rimasti a Ceuta, dopo lo sbarco massivo del maggio scorso di oltre 10mila persone provenienti dal Marocco, lasciate fuggire dalle autorità di Rabat per ritorsione nei confronti dello stato spagnolo, colpevole di avere dato ospitalità al leader del Fronte Polisario. Il rimpatrio dei giovani è il frutto dell’accordo tra il ministero dell’Interno spagnolo e la monarchia marocchina, volto a ristabilire un clima di normalità nelle relazioni diplomatiche tra i due paesi. La procedura di respingimento, in assenza di garanzie a tutela dei minori, è stata fortemente contestata dalle Ong che lavorano con i migranti, dalla giustizia spagnola che l’ha temporaneamente bloccata e dal socio di minoranza del governo spagnolo, Podemos, che rivendica il rispetto della legislazione spagnola sugli stranieri e della convenzione dell’Onu sui diritti dei minori. Il presidente socialista del governo spagnolo Pedro Sánchez incassa intanto il riconoscimento del re Mohamed VI, che chiude la crisi diplomatica con la Spagna nel desiderio di aprire una nuova tappa di relazioni con lo stato spagnolo. Ma il tribunale di Ceuta che giorni fa aveva sospeso i respingimenti dei minori, ne ha confermato ieri il blocco perché realizzati senza il rispetto dei requisiti di legge. Come si è arrivati fino a qui - Da lunedì 17 maggio e per due giorni, sono arrivati a nuoto sulla costa meridionale della Spagna oltre 10mila persone provenienti dal Marocco, sotto lo sguardo distratto delle autorità di controllo di Rabat; tra loro, più di un migliaio erano minori di età. Persone in fuga dalla pandemia che ha chiuso la frontiera per molti mesi, facendo venir meno l’unica fonte di reddito certa della città marocchina di Castillejos. Nell’aprire la frontiera, il Marocco ha spinto alla fuga i suoi concittadini verso le coste europee, una minaccia esercitata già in altre occasioni nei confronti della Spagna e, più in generale, dell’Europa. In questo caso, è stato un atto di ripicca nei confronti dello stato spagnolo, per avere accolto, nell’aprile scorso, il leader del Fronte polisario e presidente della Repubblica democratica araba dei Sahrawi, Brahim Ghali, malato di Covid. Anche se questo sarebbe stato solo il pretesto per esprimere invece il fastidio di Rabat al mancato allineamento dell’Europa e della Spagna alle posizioni di Donald Trump che, a fine mandato, aveva riconosciuto la piena sovranità del Marocco sul Sahara. La crisi diplomatica si è convertita presto in una grave crisi umanitaria. La polizia militare spagnola ha accolto i migranti che si erano buttati in mare per raggiungere la costa europea e ha realizzato 5.600 respingimenti. A Ceuta sono rimasti oltre 750 minorenni, ricoverati in vari centri di accoglienza, in attesa del loro smistamento tra le Comunità autonome spagnole che non è mai avvenuto. A farne le spese sul piano politico, è stata l’allora ministra degli Esteri del governo spagnolo Arancha González Laya, considerata responsabile dell’accoglienza del leader del Fronte polisario e quindi sostituita alla guida del dicastero da José Manuel Albares, nella rimodellazione del governo voluta da Sánchez nel luglio scorso. L’imminente apertura dell’anno scolastico e la necessità di ripristinare le relazioni diplomatiche con il vicino del Nord Africa per garantire il controllo dei flussi migratori, hanno dunque spinto il governo spagnolo al rimpatrio forzato dei ragazzi marocchini ancora presenti a Ceuta. La procedura di rimpatrio - Tutte le ricostruzioni delle prime ore di venerdì 13 agosto narrano di un intervento della Policía Nacional improvviso e dalle finalità di cui solo pochissimi tra i protagonisti erano a conoscenza. Certo non i 15 ragazzi di 16 e 17 anni, trasferiti a loro insaputa su un pulmino dal centro dei minori di Santa Amelia a Ceuta a un centro di assistenza sociale di Martil, località del Marocco a 40 chilometri di distanza. Neppure le diverse Ong che da maggio seguono la situazione dei minori a Ceuta, allertate dai messaggi dei ragazzi nei centri atterriti dal rimpatrio forzato. L’operazione inizia senza che ci sia alcun ordine firmato, solo una mail diretta alla delegazione del governo a Ceuta e al governo locale, proveniente dal ministero dell’Interno spagnolo guidato da Fernando Grande-Marlaska che, nella nuova configurazione dell’esecutivo spagnolo, ha ormai la piena gestione della politica migratoria. L’iniziativa viene sùbito contestata dalle Ong. No Name Kitchen, Elin, Maakum e Andalucía Acoge emettono un comunicato di protesta per l’accaduto, perché non si rispetta l’interesse superiore del minore, né la legislazione nazionale e internazionale che lo proteggono. Save the Children, Andalucía Acoge e Gentium presentano al Comitato dei Diritti del Bambino dell’Onu una comunicazione con la richiesta di misure urgenti per la sospensione del rimpatrio, a nome del migliaio di minorenni marocchini non accompagnati che entrarono a Ceuta a maggio. Il pubblico ministero chiede al ministero dell’Interno la giustificazione di ciascuno dei respingimenti realizzati, come stabilisce la legge sugli stranieri che prevede, nel caso di rimpatrio di minori, l’avallo del pubblico ministero e un rapporto individuale stilato per ciascun caso. Si oppone alla procedura di respingimento in atto anche il ministero dei Diritti sociali del governo spagnolo, diretto dalla leader di Podemos Ione Belarra. Il piano del ministero dell’Interno è di rimpatriare 15 ragazzi al giorno, c’è una prima lista di 150 adolescenti già pronta anche se nessuno conosce il criterio con cui sono stati scelti, forse la prossimità alla maggiore età, i fogli numerati secondo la data del trasferimento contengono appena qualche dato anagrafico. Il ministero, che dice di essere intervenuto su sollecitazione del governo di Ceuta, rivendica l’iniziativa in nome dell’accordo firmato a Rabat nel 2007 sulla cooperazione nell’ambito dell’emigrazione illegale di minori non accompagnati, che finora Rabat non ha mai voluto applicare a Ceuta e Melilla considerandoli territori propri. Il governo di Ceuta, dopo il trasferimento dei primi 45 giovani, ammette che i respingimenti sono iniziati senza stilare alcun rapporto individuale, ma assicura che non hanno riguardato nessun minore qualificato come vulnerabile. Violare i diritti dei minori - Le Ong lamentano il mancato rispetto dei princìpi a tutela dei minori, che non hanno avuto voce in capitolo, né l’assistenza di un legale. Save the Children denuncia che nelle 354 interviste ai ragazzi realizzate nel centro di Piniers, in molti hanno ammesso di essere scappati da violenza fisica, abusi e sfruttamento sul lavoro. Mentre Ceuta reagisce all’espulsione dei minori senza troppe critiche, il panico si diffonde tra i ragazzi ospitati nei centri di accoglienza, un centinaio di loro preferisce scappare e buttarsi nuovamente in strada piuttosto che tornare in Marocco. Finalmente, le denunce delle Ong sortiscono l’effetto sperato: lunedì 16 agosto, un tribunale di Ceuta sospende il trasferimento dei 15 ragazzi previsto per quel giorno, come misura cautelare urgente. E ieri la giudice competente ne conferma il blocco, perché la procedura di rimpatrio dei minori non è stata realizzata nel rispetto dei requisiti di legge. Di fronte all’accusa di violazione dei diritti dei minori che mette in difficoltà il governo spagnolo, aggravata dall’incertezza che accompagna il processo di respingimento in Marocco, il discorso del re Mohamed VI rappresenta una boccata d’ossigeno per Sánchez. Pronunciato in occasione della festa della Rivoluzione del re e del popolo, il re del Marocco assicura di volere inaugurare una tappa inedita nelle relazioni con la Spagna. Sembra che a disinnescare la crisi sia stata la destituzione di González Laya da titolare degli Esteri. Anche l’aumento della tensione nelle relazioni con l’Algeria avrebbe giocato a favore di un ripristino di quelle con Madrid. Il presidente del governo spagnolo ringrazia il monarca marocchino per le sue parole, mentre le autorità europee sottolineano l’importanza strategica dei rapporti del Marocco con l’Unione europea. Ma la pronuncia del tribunale di Ceuta obbliga il governo spagnolo a rivedere la strategia di rimpatrio dei minori. Haiti. La tragedia dimenticata del Paese più povero d’Occidente di Elisa Cornegliani Il Fatto Quotidiano, 25 agosto 2021 La corsa di Fondazione Rava: “Siamo noi a cercare chi ha bisogno”. Come se non bastasse, a Jeremie, nell’estremo Ovest, alcuni giorni fa è crollato un ponte. Un camion pesante - troppo - lo ha attraversato e ha fatto cadere tre dei cavi che lo tenevano in piedi: un villaggio, così, è rimasto isolato. Gli abitanti del posto si sono messi a smontarlo e a rovistare fra le macerie per ricavare ferro da vendere. Cercano di guadagnare qualcosa, comprare cibo. Haiti è in emergenza. Il Covid fa morire a colpi di variante Delta e mancanza di vaccini, l’uragano Grace ha travolto gran parte del territorio e soprattutto il terremoto di magnitudo 7.2 del 14 agosto ha provocato oltre 2mila morti, 12mila feriti e 344 dispersi. “C’è una grande differenza rispetto al sisma del 2010”, spiega Mariavittoria Rava, presidente di Fondazione Francesca Rava-Nph, presente dal 1987 nel Paese centramericano che è agli ultimi posti nel mondo per condizioni dell’infanzia, statistiche di mortalità, indigenza. Rispetto al terremoto del 2010 la differenza è “un cambio di direzione dei soccorsi - spiega Rava - se nel 2010 erano le persone a raggiungere l’ospedale della capitale, che si ritrovò al completo, ora dobbiamo essere noi a raggiungere le aree rurali. Perché le scosse del sisma e le piogge determinate da Grace hanno bloccato la gente nei villaggi”. Le zone più interessate sono Jeremie, Maniche, Ranbo, Port Salut e Aquin. Tutte in campagna e tutte difficili da raggiungere. “Ad Haiti, già in condizioni non emergenziali, non ci sono mezzi pubblici”. E considerando che il Paese è grande come la Lombardia, come ci si sposta? “A piedi. Facendo chilometri con carichi pesanti sulla testa per fare provviste”. Oppure con i tap-tap: “Autobus organizzati dalla gente locale per cercare di supplire alla mancanza di linee. Si sale, si bussa sul tetto (da qui il nome tap-tap) e poi lo si fa di nuovo quando si decide di scendere”. Lo staff di Fondazione Rava, che fa capo all’ospedale Saint Luc ed è composto da 1600 addetti, svolge perciò le cosiddette attività di “out reach”: “Raggiungiamo i villaggi più poveri con cliniche mobili, per agire il più possibile in strada”. Dall’inizio dell’emergenza sismica hanno soccorso così 3500 persone. Distribuisce medicine, antibiotici, acqua. “All’ospedale di Port-au-Prince ci sono 40 pazienti, ma è un numero che continua ad aggiornarsi”. Il sacerdote e medico Rick Frechette si trova ad Haiti dal 1987 e dirige la Ong Nuestros Pequeños Hermanos, rappresentata in Italia dalla Fondazione Francesca Rava. Sul sito ricorda le prime scosse così: “Stavo bevendo una tazza di caffè con alcuni dei nostri lavoratori e il terreno ha iniziato a tremare. Si è sollevato ancora ed ancora, e siamo usciti fuori per evitare che la merce impilata in alto nel magazzino ci cadesse addosso. Fortunatamente, avevamo già una squadra medica Saint Luc che stava svolgendo campi sanitari estivi in zona, a Port Salut e Camp Perrin. È stato facile trasformarla immediatamente in un team di traumatologia, per aiutare l’ospedale generale di Les Cayes e per curare i feriti lievi, cosa che abbiamo fatto dal primo giorno. Abbiamo portato loro i rifornimenti lo stesso pomeriggio in camion, con un viaggio di quattro ore”. Si sta occupando di assistere le persone rimaste senza casa distribuendo tetti (600 per ora) famiglia per famiglia. Come scrive lui stesso in un report, ha raggiunto le aree di Rendel, Morne Blanche (Nippes) e Aquin. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, Haiti è il Paese più povero dell’emisfero occidentale. Il 76% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno. La mortalità infantile sotto i cinque anni conta 72 decessi ogni 1000 bambini, la speranza di vita non va oltre i 62 anni di età e l’accesso all’acqua potabile è tutto fuorché scontato. “Si va avanti a cisterne. Sia nelle aree povere che in quelle benestanti come Petroville, la zona ricca di Port au Prince”, spiega Mariavittoria Rava. “Lo stesso vale per l’energia elettrica, che non c’è. Si usano i generatori, lo facciamo anche noi: in ospedale ci sono 250 letti, di cui l’80% è di terapia intensiva. Non possiamo permetterci di restare senza corrente”. Le tre lance che hanno colpito il Paese in questo momento (variante Delta, terremoto e Grace), spiega Rava, inaspriscono e affondano perciò un contesto che è già di norma emergenziale. “Poco prima del sisma, i miei colleghi impegnati sul posto avevano chiesto aiuto perché erano in grave carenza di ossigeno all’interno dell’ospedale. Immaginiamo come possa essere la situazione ora”. Un modo per appianare l’urgenza c’è, e passa per l’ampliamento delle conoscenze scientifiche dei locali: “Un esempio su tutti, noi collaboriamo con l’università di Torino. Ha istruito il personale del posto a realizzare i farmaci lì, senza farli arrivare da fuori”. Qualche spiraglio quindi c’è, anche se la situazione rimane critica: “Avevano esaurito il Betadine, un disinfettante fondamentale in caso di traumi. Hanno imparato a produrlo in loco”. Su tempi medio - lunghi, il percorso necessario per far rialzare il Paese è l’istruzione. Sui tempi più immediati invece è necessaria un’azione strutturale, da intendere prima di tutto in senso letterale: “Servono i tetti per le case”, ricorda Rava. “Cominciamo da quelli”. Iran. Il capo delle carceri si scusa dopo le immagini degli abusi nella prigione di Evin di Sowmya Sofia Riccaboni periodicodaily.com, 25 agosto 2021 Il capo delle carceri iraniane si è scusato per “eventi amari” nella prigione di Evin a Teheran dopo che i video trapelati dagli hacker hanno mostrato pestaggi di prigionieri, una rara ammissione di abusi da parte delle autorità. Cosa mostravano i video sulle carceri iraniane? Un gruppo di hacker che si fa chiamare Edalat-e Ali (Ali’s Justice) ha diffuso sui social media i video che sembrano provenire dalle telecamere di sorveglianza della prigione e mostrano le guardie che picchiano i prigionieri e trascinano un detenuto sul pavimento. “Riguardo alle foto della prigione di Evin, mi assumo la responsabilità di un comportamento così inaccettabile e mi impegno a cercare di prevenire il ripetersi di questi amari eventi e a trattare seriamente i malfattori”, ha detto in un tweet Mohammad Mehdi Hajmohammadi, capo delle carceri iraniane. dai media statali. “Mi scuso con Dio Onnipotente, il nostro caro leader (leader supremo Ayatollah Ali Khamenei), la nazione e le onorevoli guardie carcerarie, i cui sforzi non saranno ignorati a causa di questi errori”, ha detto Hajmohammadi. È stata una rara ammissione di violazioni dei diritti umani in Iran, che spesso ha respinto le critiche alla sua situazione in materia di diritti umani come prive di fondamento. La prigione di Evin, che contiene principalmente detenuti accusati di sicurezza, è stata a lungo criticata dai gruppi per i diritti umani ed è stata inserita nella lista nera dal governo degli Stati Uniti nel 2018 per “gravi violazioni dei diritti umani”. “Le autorità (Evin) usano minacce di tortura, minacce di detenzione a tempo indeterminato e tortura dei membri della famiglia, inganno e umiliazione, interrogatori giornalieri multipli che durano fino a cinque o sei ore, negazione delle cure mediche e negazione delle visite dei familiari” afferma un rapporto sui Diritti umani. A luglio, l’Iran ha subito attacchi informatici al sito web del suo ministero dei trasporti e della compagnia delle ferrovie statali.