Abolire l’ergastolo: tema ormai archiviato anche dalla sinistra di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 agosto 2021 Il superamento del carcere a vita nel libro “Contro gli ergastoli”, a cura di Stefano Anastasìa, garante del Lazio, Franco Corleone, ex sottosegretario alla Giustizia e garante di Udine, e del costituzionalista Andrea Pugiotto. Il carcere a vita non è la soluzione, ma il problema da risolvere. Parliamo dell’ergastolo e il motivo del suo superamento è da ricercare nel recente libro “Contro gli ergastoli”, frutto della collaborazione tra Futura/Ediesse e l’associazione La Società della Ragione. Il volume è a cura del garante regionale del Lazio Stefano Anastasìa, l’ex sottosegretario alla Giustizia e garante di Udine Franco Corleone e il professore di Diritto Costituzionale Andrea Pugiotto. L’abolozione dell’ergastolo è sparita dal dibattito parlamentare - Da un bel po’ di anni a questa parte, il dibattito parlamentare sull’ergastolo è sceso vertiginosamente di livello. Tra i banchi del Parlamento, è arduo trovare chi argomenta con cognizione di causa e coraggio la necessità del suo superamento: si parla dell’ergastolo, ma difendendolo con le unghie e con i denti, solo quando diventa notizia del giorno. Vuoi per taluni articoli sensazionalistici e poco informati, vuoi per le pronunce della Corte Europea di Strasburgo e la Corte Costituzionale stigmatizzate dalla potente lobby dell’indignazione. Nel 1998 il Senato approvò in prima lettura il disegno di legge - Eppure c’è stato un tempo in cui la sinistra e la corrente liberale, in Parlamento, poneva con profonde argomentazioni il superamento della pena perpetua. E lo si faceva quando la stagione stragista si era appena conclusa, grazie alla sconfitta militare della mafia corleonese. Correva l’anno 1998 e lo spiega molto bene Corleone nel libro “Contro gli ergastoli”. Con 107 voti a favore, 51 contrari e otto astenuti l’assemblea di palazzo Madama ha approvato in prima lettura il disegno di legge per l’abolizione del carcere a vita. Al voto si è arrivati con i due Poli sostanzialmente divisi dal momento che i gruppi avevano concesso ai propri parlamentari libertà di voto. Molti degli allora Democratici di Sinistra, Rifondazione Comunista, Verdi, ma anche del Partito Popolare, hanno approvato con convinzione il provvedimento, portando avanti argomentazioni che oggi sono un lontano ricordo tra i banchi del Parlamento. Il relatore del provvedimento fu Salvatore Senese, tra i fondatori di Md - Corleone ricorda che il relatore del provvedimento approvato in Senato è stato Salvatore Senese, tra i fondatori di Magistratura Democratica, giurista colto e rigoroso, scomparso recentemente nel giugno 2019. Nel ‘98 siamo nella prima parte della stagione dell’Ulivo. Come ministro della Giustizia c’è Giovanni Maria Flick che, da una parte ha dato atto della ricchezza, dell’altissimo livello tecnico e politico di Senese, ma dall’altra, a titolo individuale, ha dichiarato di non ritenere opportuno il superamento dell’ergastolo. Ma Corleone, nel libro, sottolinea che è giusto ricordare che l’opinione attuale di Flick non è più quella di prima. Lo abbiamo visto con gli incrementi dell’ergastolo ostativo, i quali lo hanno condotto a rivalutare la scelta abolizionista. A opporsi con forza al disegno di legge, è stata la destra. Dalla Lega, passando per Forza Italia (ma non tutti), fino all’ex Alleanza Nazionale. Le argomentazioni sono simili a quelle che oggi, invece, fa anche gran parte della sinistra. Purtroppo nel 1998 si è perso il treno. L’iter per approvare il disegno di legge si è bloccato. Dopo quell’anno, non solo non sarà più messo in discussione l’ergastolo, ma nemmeno l’abrogazione del Codice Rocco, quello fascista e quindi da Stato Etico. Corleone fa notare che gli ergastoli sono aumentati di 4 volte - Il paradosso che fa notare Corleone è che gli ergastoli sono aumentati di quattro volte, mentre sono diminuiti gli omicidi. Sono passati quasi 30 anni dalla fine delle stragi mafiose, ma ancor si vuole difendere a tutti i costi l’ergastolo ostativo. Fino al 1994 c’era anche l’ergastolo minorile - Non è un caso che il libro parla di “ergastoli”. Il professor Pugiotto lo spiega bene. C’è l’ergastolo comune, quello con isolamento diurno, oppure ostativo alla liberazione condizionale. Non solo. Fino al 1994, abbiamo convissuto a lungo con l’ergastolo minorile. Pugiotto ricorda che è stato abolito grazie all’intervento della Corte Costituzionale. Così come, nel 2018, la Corte ha abolito l’ergastolo ostativo “estremo”: per alcuni delitti, anche se collaborava con la giustizia, il condannato poteva chiedere l’accesso ai benefici dopo 26 anni di detenzione. La pena perpetua c’è. Parliamo, per usare una definizione coniata dall’ex ergastolano ostativo Carmelo Musumeci, di una pena di morte viva. Il professore Stefano Anastasìa nel libro parla di tecniche di neutralizzazione del misfatto nella propria coscienza: “La rimozione della realtà è la condizione che consente ai sostenitori della pena fino alla morte, di esserlo senza sporcarsi le mani con una pena di morte”. Il magistrato di sorveglianza Riccardo De Vito spiega che non funziona da deterrente - Interessante anche il capitolo a firma di Susanna Marietti dove si smentiscono i negazionisti dell’ergastolo. Snocciolando numeri e percentuali, dimostra che in Italia la pena perpetua c’è eccome. “Esiste sulla carta, nella rigidità delle norme. Ed esiste dentro le celle, nella vita effettiva delle persone condannate. A volte fino al suo ultimo giorno”, conclude Marietti nel suo capitolo del libro. Interessante l’intervento del magistrato di sorveglianza Riccardo De Vito, che spiega come una pena esagerata non funziona da deterrente. Anzi. Rischia di creare più nemici di quelli che pretende di neutralizzare. Ma allora si può sostituire l’ergastolo comune? Secondo il giurista Giovanni Fiandaca, sì. E lo spiega nel libro. Un volume impreziosito anche dal testo contro il populismo penale redatto da Papa Francesco, a seguire quello di Aldo Moro, Salvatore Senese e Aldo Masullo. Il libro “Contro gli ergastoli” va letto perché smaschera la pena di morte che, di fatto, vige ancora in questo Paese. Una pena difesa non solo dalla destra, ma anche dalla sinistra che è diventata sempre più reazionaria. La giustizia come professione e il rischio di autoreferenzialità di Gian Paolo Demuro* Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2021 Il 31 maggio la Commissione ministeriale per la riforma dell’ordinamento giudiziario presieduta dal Prof. Luciani ha concluso i suoi lavori presentando una relazione e una proposta di articolato. È facile immaginare che l’attenzione dei prossimi mesi sarà rivolta alla parte relativa alla riforma del Csm, ma rischia di non avere il giusto rilievo un profilo assai rilevante: l’accesso alla Magistratura, la formazione dell’aspirante magistrato, un aspetto in grado poi di condizionare senso e contenuto della futura professione. Leggendo con attenzione il testo ci sono parti assolutamente condivisibili. Convince appieno l’impostazione (finalmente) secondo la quale le prove scritte debbano avere “la prevalente (ancorché non esclusiva) funzione di accertare la capacità teorico-sistematica del candidato, onde evitare che ci si limiti alla verifica della capacità risolutiva di casi pratici, sovente sul modello di precedenti arresti giurisprudenziali, anche recenti”. Sembra assolutamente adeguato che una prova riguardi l’intero diritto pubblico e non solo il diritto amministrativo, attribuendo il giusto ruolo anche al diritto costituzionale. Oggetto di ampia discussione in Commissione è stato anche l’affiancamento al diritto civile e al diritto penale degli “elementi”, delle istituzioni del diritto processuale civile e delle istituzioni del diritto processuale penale: accettabile in via di principio, qui giustamente da parte di alcuni commissari si è però rilevato che il peso della preparazione diverrebbe particolarmente oneroso e si potrebbe aggiungere che il limite degli “elementi” o delle “istituzioni” è terribilmente scivoloso. Necessita di approfondimento il percorso per l’accesso al concorso. La proposta è che si potrà sostenere il concorso immediatamente dopo la laurea (magistrale) in Giurisprudenza senza titoli aggiuntivi: e questo è ampiamente condivisibile, per abbreviare i tempi dell’ingresso in Magistratura. Viene potenziato il ruolo della Scuola Superiore della Magistratura, della quale viene affermata la “centralità” e alla quale viene affidato il compito di provvedere alla preparazione anche dei tirocinanti presso gli uffici giudiziari ex art. 73 d.l. 69/2013. Per svolgere tale ruolo anche in sedi decentrate viene richiesta la dotazione di adeguate risorse logistiche, finanziarie e organizzative. Ora, non sono certamente in discussione le altissime competenze della Scuola Superiore della Magistratura, ma affidare alle Università questo compito formativo, o almeno prevederne una compartecipazione, avrebbe consentito anche una prima parte di percorso comune con chi vuole invece accedere all’Avvocatura, favorendo una interazione di punti di vista e di competenze, in un settore come quello della Giustizia che per definizione si nutre di confronto, critico, professionale, tecnico-giuridico e umano. Il rischio, fondato, è che anche l’Avvocatura ora acceleri legittimamente sul piano delle proprie Scuole Forensi come percorso obbligato per accedere a quella carriera. Insomma due rette parallele che non solo non si incontrano ma nemmeno si guardano. Senza invece considerare che solo avendo un minimo di conoscenza delle rispettive professioni e dei differenti approcci, si è in grado di svolgere ognuno in modo equilibrato e consapevole la propria attività, senza peraltro perdere la propria autonomia, anzi esercitandola meglio. L’autoreferenzialità in tutti i settori, di vitae professionali, è una prospettiva sbagliata e infruttuosa; nel campo del diritto ancora di più. In fondo, come titola il proprio recente libro Zagrebelsky, La Giustizia come Professione, ognuno nel suo ruolo tutti noi giuristi abbiamo comunque una base e soprattutto siamo partecipi di una missione comune: “Il mondo, il diritto non riesce a renderlo giusto ma, senza diritto, sarebbe incommensurabilmente peggiore di quello che è”. Quali le conseguenze delle citate modifiche per la formazione universitaria? Il quadro che ne risulterebbe è quello di un arretramento della sua competenza formativa a una fase iniziale, quasi di primo livello, certamente dignitosa, ma presto superata dall’insegnamento nelle diverse scuole, soprattutto private, proprio per quelle professioni che in fondo spesso costituiscono il motivo per cui ci si appassiona al Diritto e alla Giustizia e dunque ci si iscrive a Giurisprudenza. Insomma l’Università abbandona - si spera non coscientemente - o comunque viene costretta a farlo, i propri laureati, mentre il suo ruolo non dovrebbe arrestarsi col rilascio del titolo ma accompagnare anche nel percorso verso la professione. Innanzitutto perché dovuto ai nostri studenti e laureati e fondamentalmente proprio per favorire quella selezione, a parità di condizioni (anche economiche), basata sul merito che è ciò che a cui tutti aspiriamo. *Ordinario di Diritto Penale nell’Università di Sassari “C’è solo una strada per velocizzare la nostra giustizia: depenalizzare” di Valentina Stella Il Dubbio, 24 agosto 2021 Secondo il professore Fausto Giunta, ordinario di Diritto penale nell’Università di Firenze, dove è direttore della Scuola di specializzazione per le professioni legali, per garantire un abbattimento del sovraccarico giudiziario “la via maestra è il potenziamento delle tecniche di depenalizzazione in concreto. Bisogna entrare nell’ordine di idee che il sistema oggi non può aspirare, come in passato, a processare e reprimere tutto il penalmente rilevante”. E sulla improcedibilità, al centro della riforma di mediazione della Guardasigilli Marta Cartabia aggiunge: “Senza una riduzione del numero dei procedimenti in entrata, l’obiettivo deflattivo non sarà pienamente centrato”. Professore, l’Europa ci ha chiesto di ridurre del 25% la durata dei giudizi penali. Sarebbe stato utile porre sul tavolo della discussione la strada di un diritto penale minimo? Il diritto penale minimo, fatto di poche norme chiare e semplici, costituiva uno degli ideali dell’età moderna. E non sono mancate legislazioni che si sono avvicinate a questo modello. Il numero dei reati previsti nella parte speciale dai codici penali preunitari e dal codice Zanardelli del 1889 era contenuto. Nel suo disegno originario, anche il codice Rocco, sebbene criticato di essere eccessivamente casistico, aveva una parte speciale meno estesa di quella attuale. Senza considerare il profluvio di fattispecie incriminatrici extra codicem che si sono stratificate nel tempo, un universo in continua espansione e cui massimi confini sono ignoti a tutti, come il numero delle stelle del firmamento. Venendo alla sua domanda, bisogna chiedersi se sia praticabile questo ritorno all’antico (che, lo dico tra parentesi, conosce emulazioni recenti a livello comparatistico, ma al prezzo di fattispecie affette da indeterminatezza). Certo la riduzione del numero dei reati avrebbe effetti benefici sul numero dei processi e sulla loro durata. Ma è la premessa che merita una attenta verifica. L’espansione del “penale” non è un fenomeno solo italiano. È un prodotto della complessità sociale. Cresce il ruolo del diritto e con esso anche quello della legislazione penale. La particolarità della situazione italiana sta nel fatto che non abbiamo ancora trovato il modo adeguato di gestire questa tendenza al cosiddetto panpenalismo, al diritto penale totale, per usare un’efficace espressione di Filippo Sgubbi. Tra codice penale e leggi speciali di quanti reati, indicativamente, possiamo essere accusati? Centinaia, migliaia? Tanti, troppi. Non siamo in grado nemmeno di stabilire esattamente il numero delle previsioni di reato attualmente vigenti. Non si tratta di milioni di milioni, come recitava una reclame d’altri tempi, ma di migliaia (in prevalenza fattispecie contravvenzionali extra codicem). Luigi Ferrajoli scrive che “solo un diritto penale ridotto alle figure di reato più gravi - a quelli che Francesco Carrara chiamava i “delitti naturali” perché considerati tali anche dai non esperti di diritto - può restituire credibilità al diritto penale, facendone uno strumento di tutela che non può essere disturbato né disturbare i cittadini per illeciti bagatellari che ingolfano inutilmente, fino a paralizzarla, la macchina giudiziaria”. Non trova che si abusi del diritto penale, utilizzandolo come strumento per rispondere ai bisogni emotivi dei cittadini? Ho già manifestato il mio scetticismo sulla praticabilità del minimalismo penale, soprattutto nella forma estrema autorevolmente proposta da Luigi Ferrajoli, mentre sono d’accordo sulla depenalizzazione delle bagattelle. Va tenuto conto, però, che tra le due categorie dei “delitti naturali”, da un lato, e delle bagattelle, dall’altro, ve ne è una terza estremamente numerosa che è composta da delitti cosiddetti artificiali, che non possono essere espunti dal sistema repressivo. Si pensi ai settori del diritto penale dell’economia, dell’ambiente, ai delitti contro la pubblica amministrazione e l’amministrazione della giustizia, solo per fare alcuni esempi. Va tenuto conto, poi, di un altro aspetto: la depenalizzazione in astratto presuppone che il fatto incriminato non sia in nessun caso meritevole di pena. Non si tratta di ipotesi numerose. Ben più frequenti sono i fatti storici, corrispondenti alla previsione incriminatrice, che non richiedono di essere puniti in concreto. In questi casi la depenalizzazione “orizzontale” comporterebbe irragionevoli lacune di tutele. La giusta risposta politico- criminale sarebbe una depenalizzazione “verticale”, ossia affidata al processo e ispirata a una concezione gradualistica dell’illecito penale. Faccio un esempio: il delitto di truffa non è bagatellare in sé, ma può esserlo in concreto. Altro è la truffa che causi un danno patrimoniale di milioni di euro, altro è la truffa che offenda il patrimonio della vittima in misura trascurabile. Il nostro sistema giuridico, politico, culturale può ambire a un diritto penale come extrema ratio? Il diritto penale deve ispirarsi alla sussidiarietà, ossia deve preferire, quando possibile, soluzioni alternative alla pena nella risoluzione del conflitto sociale. Non si tratta soltanto di una prospettiva feconda, ma di un imperativo categorico. Il diritto penale è il diritto dei limiti sia alla libertà morale, sia a quella personale (perché opera attraverso divieti presidiati da sanzioni ancora oggi in prevalenza detentive). Ne consegue che il suo stesso impiego deve essere limitato nella misura strettamente necessaria. Questo vale per la produzione delle norme penali, ma anche per la loro applicazione. Purtroppo il legislatore e la magistratura sono da tempo sedotte dalle sirene populistiche e credono che la pena sia salvifica. In realtà da sola la pena non basta. Com’è stato ben detto da Massimo Nobili, l’intervento punitivo è un’immoralità necessaria. L’irrogazione di pena che non sia strettamente necessaria, è un’immoralità inutile quando non è dannosa. In merito alla questione delle pene, c’è una tendenza ad aumentarle. Qual è il suo pensiero su questo? Il panpenalismo sconfina spesso nel terrorismo punitivo. La recente legislazione si caratterizza per comminatorie edittali molto elevate tanto nel massimo, quanto nel minimo. Al confronto, il truce codice Rocco sembra un’antologia di penitenze da educande. Fatto questo quadro, quali, allora, le soluzioni possibili? La via maestra è il potenziamento delle tecniche di depenalizzazione in concreto, alle quali ho già fatto cenno, le sole che possono garantire un abbattimento del sovraccarico giudiziario senza smantellare la necessaria tutela sociale svolta dal diritto penale. Non siamo di certo all’anno zero, ma quel che è stato fatto non è sufficiente. Bisogna entrare nell’ordine di idee che il sistema oggi non può aspirare, come in passato, a processare e reprimere tutto il penalmente rilevante. In relazione ai reati più gravi non può ammettersi che la cifra oscura avvolga una criminalità destinata a rimanere sommersa. Per i reati meno gravi, invece, la repressione non può essere globale, ma va limitata alle ipotesi che richiedono la risposta punitiva. Nella gran parte degli ordinamenti questa scelta è affidata al pubblico ministero, che tuttavia è gravato da responsabilità politica. Il discorso finisce per interessare il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale e l’ordinamento giudiziario. Nel nostro ordinamento, nonostante il contrario disposto dell’art. 112 Cost., il pubblico ministero, selezionando in certa misura e di fatto i reati da perseguire, effettua scelte politico- criminali. Si tratta - sia chiaro - di valutazioni necessarie per la sopravvivenza del sistema, ma opache. La prescrizione sostanziale ha cambiato natura, perché serve a consentire queste scelte occulte: le notizie di reato che non vengono coltivate finiranno nel cono d’ombra del dimenticatoio prescrizionale. A proposito di prescrizione, secondo lei la riforma appena approvata alla Camera detta di “mediazione Cartabia” raggiunge l’obiettivo richiesto dall’Europa, soprattutto in riferimento all’improcedibilità? Come ricordava, il testo non è ancora definitivo e paga, in termini di coerenza, il prezzo di una faticosa mediazione tra le forze politiche governative. Limitando l’attenzione all’improcedibilità dell’azione, si tratta di uno strumento che viene utilizzato con funzione deflattiva. La sua ratio, però, è un’altra: assicurare la ragionevole durata del processo. Senza una riduzione del numero dei procedimenti in entrata, l’obiettivo deflattivo non sarà pienamente centrato. E nemmeno quello della ragionevole durata: consentire al giudice di prorogare il termine dell’improcedibilità per alcuni reati, è come affidare la gestione del semaforo rosso all’utente della strada, ossia all’automobilista che è tenuto a fermarsi. Quanto ai reati soggetti alla disciplina ordinaria, il progetto risente negativamente dei pregressi rimaneggiamenti della prescrizione sostanziale. Un processo che durasse mediamente più di sei anni forse non ci porterebbe fuori dall’Europa, ma fuori dal buon senso sì. In merito al tema affrontato all’inizio di questa intervista come ci poniamo rispetto agli altri Paesi europei? In parte ho già risposto a questa domanda: gli ordinamenti improntati alla discrezionalità dell’azione penale hanno una valvola di sfogo, per così dire in entrata, che consente di dosare il carico giudiziario, evitando il sovraccarico. Posso aggiungere che senza una buona dose di pragmatismo il sistema non funziona. E ancora: il panpenalismo, fenomeno diffuso anche all’estero, da noi è alimentato ora dalla logica della lotta politica di cui diventa strumento, ora da un malinteso concetto di legalità penale, anch’essa politicizzata, ossia piegata a logiche di efficacia del controllo, piuttosto che di garanzia del favor libertatis. Mi ripeto: è diffusa dentro e fuori del mondo del diritto, l’idea (anzi la pericolosa illusione) che la società possa, anzi debba governarsi a colpi di bastone. Ma la minaccia di pena è uno strumento di conservazione, non di palingenesi sociale. Rafforzare il segreto investigativo, per tutelare la presunzione di innocenza ed evitare processi mediatici di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 24 agosto 2021 Nota, nel nostro Paese, è la tendenza di diffondere, per mezzo dei media (televisioni, giornali e social), informazioni afferenti procedimenti giudiziari, con l’implicito effetto di spostare la sede dibattimentale dalle aule di Giustizia ai talk show di ogni genere e sorta. Glauco Giostra, secondo una puntuale definizione, definiva il “processo mediatico” come la raccolta e la valutazione di dichiarazioni, di informazioni, di atti di un procedimento penale da parte di un operatore dell’informazione, quasi sempre televisivo, per ricostruire la dinamica di fatti criminali con l’intento espresso o implicito di pervenire all’accertamento delle responsabilità penali coram populum. Simile tendenza tocca derive pericolose quando si traduce in una lesione di diritti costituzionalmente garantiti dell’imputato e, ancor di più, dell’indagato, venendo meno la sacrosanta presunzione d’innocenza che dovrebbe mantenersi inalterata sino a sentenza definitiva. Gli esempi pratici sono troppi e, in ultimo, si ricorda il caso dell’ex sindaco di Lodi, Simone Ugetti, la cui vicenda iniziata nel 2016 portò ad un’eco mediatica senza eguali, decretandolo come colpevole ancor prima che si potesse giungere a dibattimento. Parimenti per l’ex senatore Antonio Caridi e molti altri. Allo scopo è recentemente stata depositata una illuminante proposta di legge dal collega e onorevole Catello Vitiello, del partito Italia Viva, proprio allo scopo di contemperare due opposti interessi: la presunzione di innocenza, da un lato, e il diritto di cronaca giudiziaria in esplicazione del più ampio principio di libertà di stampa, dall’altro. La ratio della proposta di legge non è quella di tenere i media e l’informazione fuori dalle aule giudiziarie, bensì di regolamentarne l’ingresso. Secondo Vitiello infatti, i media devono essere posti a presidio del potere giudiziario, quale elemento di controllo dei procedimenti, rendendo così inviolabile ma con intelligenza il diritto di cronaca giudiziaria. Il contemperamento tra i due interessi dovrebbe, pertanto, avvenire come segue: impedire che la cronaca giudiziaria abbia accesso alle informazioni afferenti ai procedimenti nella loro fase più delicata, ossia durante le indagini preliminari e del predibattimento, allorquando il perseguimento della verità storica risulti ancora difficile ed incerta. Continua il Ddl sostenendo che l’ingresso dei media nel processo dovrebbe rendersi ammissibile, e contestualmente doveroso, nella sola fase dibattimentale sì da conferire rinnovata centralità al dibattimento e “agevolare anche il lavoro degli investigatori che non avranno più il problema del rapporto con i media e potranno andare avanti nelle indagini senza scompensi mediatici”. La proposta così delineata è ampiamente accoglibile e se ne auspica una rapida approvazione. Le stesse Istituzioni europee hanno piena contezza del problema qui discusso, come dimostra il recepimento della direttiva Ue del 9 marzo 2016 n. 343, intervenuta con lo scopo specifico di garantire maggiori tutele per i soggetti indagati/ imputati, intervenendo sotto due profili: il rafforzamento del principio della presunzione di innocenza; il diritto a presenziare in processo. L’obiettivo, insomma, come espresso dall’articolo 1 della stessa, è quello di garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata definitivamente provata, le dichiarazioni pubbliche delle Autorità procedenti (Pubblico ministero, Polizia giudiziaria), non devono presentare il soggetto indagato/ imputato come colpevole. Un evidente limite alla mediatizzazione del processo o, quanto meno, alla sua esaltazione avanti la gogna pubblica, tramite la sovraesposizione dei protagonisti della vicenda. Ai sensi dell’articolo 5 si prevede altresì che gli indagati e imputati non vengano tradotti “come colpevoli” all’interno delle aule giudiziarie tramite l’utilizzo di coercizione fisica, ad esempio, conducendo l’imputato con l’utilizzo di manette. La proposta dell’onorevole Vitiello è in linea con la direttiva suesposta e, anzi, compie un passo ulteriore proponendo il rafforzamento del segreto investigativo e non già un cambio di atteggiamento delle Procure nell’utilizzo del lessico di fronte alle telecamere. A parere di chi scrive, come già annotato su queste pagine, solo il rafforzamento del segreto investigativo può dirsi uno strumento pienamente efficace nella tutela della presunzione di innocenza, impendendo che informazioni altamente sensibili possano essere masticate con superficialità dal dibattito pubblico, spesso non giuridicamente qualificato, sentenziando ancor prima del dibattimento eventuali colpevolezze ed innocenze. Inoltre, il segreto sulle indagini ha l’ulteriore beneficio di garantire la piena indipendenza degli organi giudiziari nella fase delle indagini, evitando che coloro impiegati nella delicata attività di ricerca delle prove e ricostruzione dei fatti storici, siano sottoposti a pressioni mediatiche che possono eventualmente condizionare l’efficacia e le risultanze delle indagini stesse. Con acutezza il collega militante in Italia Viva rileva come oggi troppo spesso si tende alla commistione tra rivelazione e pubblicazione. Un conto è informare i cittadini sui procedimenti di pubblico interesse, un altro è lasciare che informazioni fuoriescano dalle Procure ancor prima che su tali elementi vi sia stata la possibilità di vagliarne la fondatezza, tramite il sacrosanto strumento dibattimentale ex art. 111 Cost. che viene così irrimediabilmente violato. Emerge con chiarezza la sensibilità del collega, anch’egli penalista, nei confronti di storture sistematiche del nostro ordinamento e si auspica, pertanto, che la proposta di legge de qua possa trovare una sua positivizzazione al più presto nel completamento di un percorso che con il recepimento della direttiva europea ha trovato una sua prima concretizzazione. *Avvocato, direttore Istituto per gli studi politici, economici e giuridici “A Salvini dico: fatto 30 con i referendum ora faccia 31 e sostenga la corsa di Palamara” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 24 agosto 2021 Fabrizio Cicchitto, presidente di Riformismo e Libertà ed ex colonnello berlusconiano, spiega di sostenere la candidatura di Palamara nel collegio di Primavalle perché “è un’occasione irrinunciabile di avere una testimonianza contro il sistema che governa il rapporto tra politica e giustizia”. Perché i garantisti dovrebbero sostenere la candidatura di Palamara a Primavalle? Su Palamara dovrebbero convergere tutti coloro i quali vorrebbero che sia fatta luce sul pianeta giustizia in modo da realizzare un’autentica riforma. Sia dal centrodestra che dal centrosinistra, perché giustizialismo e garantismo non sono rigidamente collocati dall’una o dall’altra parte ma attraversano entrambi gli schieramenti. Palamara non è un criminale, altrimenti sarebbe criminale il sistema. Non faceva telefonate a se stesso o a una singola persona, ma a 10, 15 persone che lavoravano con lui i quali sono rappresentanti delle varie correnti dei magistrati che gestiscono tuttora tutta la baracca, cioè il sistema delle promozioni e degli spostamenti in qualche caso con ricadute politiche. Eppure Palamara era, per sua stessa ammissione, parte integrante del sistema e anzi spesso ne reggeva i fili. Ha senso portarlo in Parlamento? Occorre portarlo in Parlamento come testimone. Poi è chiaro che la candidatura è stata incentivata da quello che è successo, ovviamente lui avrebbe voluto continuare a fare quello che ha sempre fatto ma dobbiamo prendere atto che abbiamo un testimone, forzato ma significativo, che ha detto una serie di cose, e ne può dire delle altre, che nessuno ha contestato. Chiunque sia interessato a smontare un sistema che ha prodotto perversioni incredibili è ben accetto in questa battaglia. Chi sono gli avversari in questa battaglia? La magistratura associata sta cercando di salvarsi presentando il caso come singolo episodio di corruzione e pensando togliendo di mezzo lui tutto si sistema ma questa è una grande balla. Il vicepresidente del Csm e il presidente della Suprema corte di Cassazione sono espressi da questo sistema di assegnazione degli incarichi. Liberandosi di Palamara e condannandolo si pensa di liberarsi di un peso lasciando inalterato il sistema, ma non è così. Chi, invece, gli alleati inaspettati? Uno che se intende, cioè Luciano Violante, che da qualche anno è in una fase di ripensamento culturale, ha detto che ci vorrebbe la separazione delle carriere tra pm e cronisti giudiziari. Potremmo anche divertirci ad associare nomi di magistrati e di notissimi giornalisti che hanno fatto su questo la loro fortuna e la loro carriera nei rispettivi giornali. C’è una violazione non episodica ma sistematica del segreto istruttorio e non si è mai fatto luce su questo perché finirebbero in mezzo pm e pezzi della polizia giudiziaria. Qual è il risultato del “sistema”? Il sistema produce distorsioni e perversioni pazzesche sulle singole persone ma anche a livello politico. Devo dire la verità, sono esterrefatto che alcuni esponenti di Forza Italia gridano contro la candidatura di Palamara quando Berlusconi è stato una delle vittime del sistema. È vero che anche Palamara ha lavorato contro di lui ma il fatto che Palamara lo riconosca è un ulteriore occasione per averlo in Parlamento a testimonianza di ciò. Eppure il centrodestra, tra cui anche Forza Italia, sono molto tiepidi verso la sua candidatura. Che un normale parlamentare venga eletto in quel collegio non direbbe niente, far entrare invece Palamara rappresenterebbe uno scossone. I funzionari di Forza Italia che non lo vogliono non hanno capito niente di questa vicenda e del fatto che si tratta di un’occasione più unica che rara di scuotere il sistema che ha colpito anche Silvio Berlusconi. Siccome qualcuno ha un amico da portare in Parlamento questo prevale su questioni più di fondo. E sull’ipotesi di sostegno da parte della Lega di Salvini? Su tre quarti delle cose che dice Salvini sono in dissenso ma al tempo stesso sta contribuendo alle firme per i referendum dei Radicali sulla giustizia e a mio avviso dovrebbe essere coerente con se stesso appoggiando Palamara in quel collegio. Non cambierebbe nulla dal punto di vista dei rapporti politico parlamentari nel centrodestra, ma cambierebbe molto nei futuri rapporti tra magistratura e politica. Cosa la spinge ad appoggiare così fortemente Palamara che, insomma, non è esattamente uno stinco di santo? Ho dissentito più volte da Palamara nel suo ruolo e l’unica cosa che ci accomuna è la fede romanista. Ma al di là delle battute non stiamo parlando di una vicenda banale, anche se alcuni la trattano su base corporativa per piazzare un amico alla Camera. È l’occasione per continuare una manifestazione di verità rispetto a un sistema che io ho denunciato nel mio libro sui rapporti tra giustizia e politica e che lui ha ribadito nel suo. Ci crede davvero o è una battaglia contro i mulini a vento? In genere, con i collegi uninominali, a meno che non si tratti di zone blindate, non c’è mai nulla di certo. Ancor di più in quel collegio che aveva una maggioranza grillina che non si sa quale fine abbia fatto. In più questa volta il nome pesa e quindi è una vicenda con larghi aspetti di imprevedibilità. A Salvini dico: fatto 30 con i referendum fai 31 sostenendo la campagna di Palamara. La convince Enrico Michetti, candidato del centrodestra per Roma? Faccio una premessa: rispetto a Roma sono assolutamente apartitico, perché reputo Roma combinata in un tale guaio che il punto è avere un sindaco di alto profilo, quale che sia. Al limite dell’essere accusato di qualunquismo, se si fosse presentato Zingaretti, pur dando una valutazione negativa rispetto a quello che ha fatto da segretario del Pd ma positiva di quello che ha fatto in Regione, io l’avrei votato. Così come se si fosse presentata Giorgia Meloni, perché entrambi possono essere sindaci di alto profilo e Roma di questo ha un tragico bisogno. Nello specifico, non perdono al Pd di non aver sostenuto Calenda, che, al netto del fatto che spesso non è simpatico, mi sembra abbia un profilo di capacità amministrative rilevante. Michetti e Gualtieri non li vedo come candidati sindaco di peso. L’ex ministro è un ottimo storico e un buon parlamentare europeo ma non lo vedo come sindaco di Roma. Michetti, quando dice che non consiglierà mai ai romani di vaccinarsi, mi mette in grande difficoltà. Talebani d’Italia, Vanessa è la trentottesima vittima di femminicidio di Sara Volandri Il Dubbio, 24 agosto 2021 La 26enne è stata ammazzata in strada con tre colpi di pistola. L’ex fidanzato della giovane uccisa è stato trovato impiccato. Contesti umani, sociali e politici completamente differenti ma uniti dal filo nero dell’odio per le donne. Dall’Afghanistan all’Italia, la fobia per la libertà e l’indipendenza femminile prende corpo nella violenza cieca e brutale contro “l’altra metà del cielo”, che molti maschi vorrebbero vedere sepolta in terra. E spesso ci riescono. A Kabul la nuova dittatura teocratica dei talebani è una mannaia che si sta abbattendo sui diritti, sui corpi e sul futuro di qualsiasi donna; frustate e bastonate se non indossano il velo, allontanate dalle scuole, dai posti di lavoro, e persino assassinate se hanno l’ardire di rifiutare la legge del padrone. I nuovi signori dell’Afghanistan dicono di essere cambiati, che ci sarà spazio per le donne, ma nessuno gli crede, in particolare non gli credono le afghane, letteralmente terrorizzate dalla stretta integralista che i talebani stanno preparando. Sono centinaia le segnalazioni di abusi nei confronti delle donne che in questi giorni provengono dal paese dell’Asia centrale finito in mano ai fanatici, In molte si sono rimesse il Burqa e sperano di passare inosservate, altre sono state violentate e frustate, altre ancora uccise a sangue freddo. Come è accaduto, alle nostre latitudini, a Vanessa Zappalà, la 26enne assassinata con diversi colpi di arma da fuoco mentre passeggiava in compagnia di amici sul lungomare di Aci Trezza, in provincia di Catania. La polizia ha poi ritrovato ex fidanzato Antonino Sciuto (che aveva precedenti per stalking e atti persecutori) in un terreno agricolo dello zio. Si è tolto la vita impiccandosi: i suoi conoscenti affermano che non ha digerito l’ultima decisione di Vanessa, che lo aveva lasciato il mese scorso. In Afghanistan avrebbe avuto la legge dalla sua parte, in Italia fortunatamente c’è lo Stato di diritto anche se il fatto che una donna sia libera di scegliere il proprio partner o di restare single a suo piacimento è qualcosa che manda fuori di testa migliaia di uomini. Che spesso si trasformano in aguzzini violenti e puerili, incapaci di incassare il rifiuto, di fare i conti con i fallimenti sentimentali, convinti che la loro partner sia una proprietà privata, che il “tradimento” sia un’onta da mondare con il sangue, come accadeva nei tempi bui del delitto d’onore o quando l’adulterio era un reato penale. Nel solo mese di agosto in Italia sono state quattro le donne assassinate dai loro compagni, 38 dall’inizio del 2021. lo scorso anno le cifre erano ancora più inquietanti con 112 omicidi, uno ogni tre giorni. Oltre a Vanessa Zappala, Marylin Pera (39 anni) è stata uccisa a Pavia con decine di coltellate mentre si trovava nel bagno di casa, Silvia Manenti (48 anni) di Monterotondo Marittimo ha invece perso la vita con un solo colpo di coltello alla gola da parte del marito, mentre Shegushe Paeshti, 54enne di origini albanesi, è stata strangolata dal consorte a Cazzago San Martino (Brescia) che poi si è suicidato, La dinamica è quasi sempre la stessa; mariti, ex mariti, a volte persino padri, che pensano di vivere in un eterno medioevo e di avere diritto di vita e di morte sulle “loro donne”. Una piaga che attraversa tutte le culture e tutte le classi sociali che politica non sembra avere i mezzi per debellare. Le campagne contro i la violenza sulle donne promesse in questi anni dai governi e dalle stesse Nazioni Uniti non riescono a sradicare questa cultura selvaggia e patriarcale e gli arsenali giuridici messi in campo, con politiche che puntano sull’inasprimento delle pene introducendo l’aggravante di femminicidio non hanno dato alcun risultato tangibile e non funzionano come deterrente. I talebani di Occidente non rivendicano nessuna legge coranica e nessuno Stato religioso che metta le donne in un angolo, non c’è alcuna ideologia da sbandierare e nessun codice “morale” per cui battersi, il dominio maschile sul “sesso debole”, l’idea di poter disporre a piacimento del corpo delle donne è semplicemente una condizione psicologica naturale, probabilmente un residuo di un’epoca che appartiene a un passato che non passa e che continua a insanguinare il presente. “Grave errore procedurale” la mancata notifica, udienza da ripetere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 agosto 2021 Un detenuto calabrese finisce di nuovo in carcere, ma né lui né i suoi avvocati erano a conoscenza dell’udienza camerale davanti al tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria. La giustizia italiana ha tanti problemi, come si evince dalle recenti polemiche sulla riforma voluta dalla ministra Marta Cartabia. Dai tempi troppo lunghi dei processi agli abbagli investigativi delle procure. Ma poche volte, o quasi mai, succede che un detenuto vada in carcere, a seguito di un’udienza camerale davanti al tribunale di Sorveglianza, nel caso di specie quello di Reggio Calabria, senza potersi difendere. È successo, invece, lo scorso 24 novembre, quando un detenuto calabrese, Andrea Rudisi, 42enne originario della provincia di Cosenza, condannato in via definitiva per reati quali droga e rapina, è ritornato in cella, nonostante i gravi problemi di salute, che qualche mese prima gli avevano permesso di andare ai domiciliari. Quel giorno, però, non era presente nessuno dei suoi difensori, perché gli stessi non erano stati avvisati del rinvio dell’udienza che si sarebbe dovuta celebrare il 27 ottobre. Un grave errore procedurale, come ha sentenziato la prima sezione penale della Suprema Corte di Cassazione, la quale nei giorni scorsi ha depositato le motivazioni della sentenza di annullamento con rinvio dell’ordinanza cautelare emessa dal tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria. Paradossali sono le giustificazioni adottate dal tribunale di Sorveglianza nella vicenda in esame. “I difensori e gli interessati avrebbero potuto “prendere visione della data di rinvio visionando il ruolo di udienza” che sarebbe stato “affisso nell’ingresso del tribunale”, invitando “i signori avvocati a notiziare dell’eventuale rinvio del procedimento i colleghi difensori appartenenti ad altri fori”. “Grave errore procedurale” contro il detenuto calabrese - La Cassazione ha chiarito ogni aspetto, evidenziando - a seguito del ricorso presentato dagli avvocati Antonio Quintieri e Matteo Cristiani del foro di Cosenza - che tale procedura è avulsa dal sistema penale. “Nel procedimento di sorveglianza - scrive la prima sezione penale della Cassazione - il rinvio a nuovo ruolo dell’udienza camerale, non contenendo l’indicazione della data della nuova udienza, comporta l’obbligo di notificare l’avviso di fissazione di quest’ultima all’interessato e al suo difensore, a pena di nullità di ordine generale, assoluta e insanabile, non solo se il differimento sia stato disposto per legittimo impedimento a comparire del condannato, ma anche se lo stesso sia stato ordinato per qualunque altra causa”. “Nessuna notifica al detenuto calabrese e agli avvocati” - La Suprema Corte ha quindi annullato (con rinvio) l’ordinanza del tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria, “perché emessa in esito ad udienza camerale preceduta da rinvio a nuovo ruolo non seguito da rituale notifica dell’avviso di udienza al difensore di fiducia. Il richiamo contenuto nel provvedimento alla verificata “regolarità delle notificazioni e delle comunicazioni”, in realtà”, si esaurisce in una formula di stile non rappresentativa della realtà documentale in atti, che non lascia emergere un riferimento neppure dell’avvenuto, eventuale, assolvimento della singolare modalità di comunicazione - per la verità del tutto estranea al sistema processuale penale - individuata nella nota del presidente del tribunale reggino più sopra richiamata - in modo assolutamente aleatorio e, perciò, inaccettabile, alla diligenza e iniziativa individuale degli avvocati del distretto di Reggio Calabria”. Piemonte. Proteste per il green pass anche in carcere, gli agenti rifiutano la mensa di Cristina Palazzo La Repubblica, 24 agosto 2021 La Polizia penitenziaria denuncia “situazioni paradossali” per agenti che lavorano assieme quotidianamente. Dopo scuole e aziende, il rebus del green pass scatta anche nelle mense delle carceri piemontesi. E a doverlo risolvere sono soprattutto gli agenti della polizia penitenziaria che in questi giorni si stanno mobilitando. Da Torino a Novara ci sono piccoli o medi gruppi che si stanno astenendo dal pranzo in segno di protesta contro le istituzioni e solidarietà a colleghi senza green pass che dovrebbero consumare il pasto in formato take away al di fuori della struttura. Il problema nei giorni scorsi è stato al centro di una dura lettera che Leo Beneduce, segretario generale dell’Osapp, ha indirizzato alla ministra Marta Cartabia e al capo del Dap Bernardo Petralia sottolineando che “risulta del tutto privo di senso e di finalità concreta “dividere” durante la “pausa pranzo” due o più appartenenti al Corpo delle varie qualifiche che, ad esempio, hanno effettuato insieme una traduzione, ovvero hanno condiviso le stesse postazioni di servizio interne al carcere”. Ma nessuna risposta è arrivata, così in ogni carcere gli agenti si stanno organizzando. A Fossano, Cuneo e Torino sono per lo più azioni singole ma a Novara da ieri un gruppo di agenti prenderà il pasto take away e lo consumerà fuori. Una decisione che i componenti delle diverse sigle sindacali - Osapp, Sappe, Fns Cisl, Sinappe, Uspp - hanno comunicato al direttore (oltre alla mensa, il green pass è richiesto anche per la sala convegni e le palestre) spiegando di non avere “intenzione di essere partecipi di polemiche sull’adesione o meno alla vaccinazione volontaria, troviamo incomprensibile l’applicazione del criterio di utilizzo del green pass così come disposto nella Casa Circondariale di Novara”. Parlano di possibili “situazioni paradossali che potrebbero sfociare nell’assurdo”: due agenti, fanno l’esempio, entrambi in servizio nello stesso settore o ufficio “il cosiddetto fianco a fianco si trovino nella situazione assurda nella quale uno dispone di green pass ed uno no per vari motivi; i due debbano intervenire a sedare una rissa; gli stessi due debbano accompagnare il detenuto (dentro lo stesso furgone) al nosocomio; gli stessi due debbano provvedere ad un eventuale trasferimento urgente del detenuto; gli stessi due tornano in orario di apertura della mensa e quindi devono separarsi perché il titolare di green pass può accedere alla mensa e l’altro deve accomodarsi fuori”. Nella lettera - ricordando quando in piena pandemia “il personale accedeva tutto in mensa” - sottolineano diverse criticità e chiedono interventi, tra cui individuare locali “idonei e dignitosi” per far consumare il pasto a chi non ha il certificato verde. Per questo la decisione da oggi lunedì di prendere il pasto e consumarlo fuori, dopo essere entrati in mensa senza mostrare Il green pass. Bologna. “La Dozza”, gestione difficile nel reparto psichiatrico di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 agosto 2021 C’è grande difficoltà nella gestione del reparto psichiatrico del carcere “La Dozza” di Bologna. L’ultima aggressione avvenuta nei confronti di una agente penitenziaria da parte di una detenuta psichiatrica, spinge Anna La Marca, vice segretaria provinciale del sindacato Sinappe, a sollecitare ancora una volta il Dap per far fronte a questo problema. Come? Non facendo ricadere tutto sugli agenti penitenziari. Una criticità che già era stata denunciata dal sindacato stesso. Mancano tecnici di riabilitazione psichiatrica, oss e infermieri. Senza queste figure sanitarie adeguate, come possono operare gli agenti che non hanno, per ovvie ragioni, una formazione specifica per rapportarsi con le detenute con problemi psichiatrici? “Soprattutto in estate - scrive La Marca del Sinappe - complice probabilmente anche il caldo o un dilazionarsi dei tempi per qualsiasi cosa, è facile per questi soggetti già fragili andare in escandescenza anche per delle sciocchezze. Concepire il carcere come un contenitore dove, di tanto in tanto, buttare qualche briciola di speranza non sta portando da nessuna parte”. Aggiunge sempre la sindacalista: “Anzi, ad oggi, alla Dozza, nel reparto di cui trattasi non essendoci sinergia tra le varie aree e in assenza di un impegno concreto di quella che più di tutte dovrebbe spendersi per le detenute si è assistito ad un peggioramento della vita detentiva da una parte e lavorativa dall’altra con risultati sconcertanti sia sul fronte terapeutico per l’utenza che motivazionale per gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria”. La sezione femminile della Dozza non ha l’aria condizionata, al contrario delle altre sezioni, e persiste l’assenza totale di attività. Oltre all’articolazione che accoglie quattro donne con patologie psichiatriche, c’è il problema che anche tra le detenute cosiddette comuni ci sono donne con un disagio psichico. Una convivenza problematica, in mancanza di interventi mirati. “Ogni singolo/a poliziotto/a ha necessità di sapere che quando si presenta un problema va risolto subito e senza temporeggiare. Le aggressioni in sé e gli sputi ricevuti sono meno offensivi del silenzio alle tante risposte che si attendono da mesi ormai”, conclude la dottoressa La Marca nella missiva. Monza. Dopo la rissa il giro di vite: detenuti trasferiti e celle chiuse anche di giorno di Marco Galvani Il Giorno, 24 agosto 2021 La direttrice Pitaniello: “La professionalità degli agenti ha impedito che la situazione degenerasse ma è urgente ristabilire sicurezza. Video al setaccio per trovare i responsabili, poi gli atti alla Procura”. Una manciata di anni fa, pochi giorni prima di Natale, era successo un episodio simile. Due bande di detenuti s’erano affrontate in una violenta rissa. Come domenica mattina. Italiani e albanesi contro marocchini, egiziani, tunisini e gambiani. Nella sezione 5 del carcere di Monza. Ma “la contrapposizione tra etnie, i litigi tra i detenuti ci sono da sempre in carcere”. Maria Pitaniello, direttrice della casa circondariale monzese, dopo la furiosa aggressione che ha visto coinvolti una quindicina di reclusi, sa bene quanto sia “difficile la convivenza forzata tra persone che già, da liberi, hanno violato la legge”. E certamente “ha un peso l’insofferenza verso una ripresa delle attività interne all’istituto che, causa Covid, è lenta. Abbiamo dovuto seguire l’andamento della campagna vaccinale. Oggi, fortunatamente, il 95% dei detenuti è vaccinato”. Sono ripartite alcune attività, gli insegnanti della scuola oltre le sbarre sono tornati a fare lezione in presenza e nelle sezioni è ripreso da tempo il regime ‘aperto’. Ma dopo quello che è successo, la ‘quinta’ è stata richiusa. Durante il giorno le celle restano serrate. Alcuni detenuti sono stati spostati, tutti in attesa delle indagini. Il film della maxi rissa a colpi di bastoni di legno, sgabelli, lamette e stoviglie scoppiata durante la distribuzione del vitto è stato ripreso dalle telecamere di videosorveglianza che “ci aiuteranno a ricostruire quanto accaduto e individuare nel dettaglio singole responsabilità, per poi inviare gli atti alla Procura”. Ancora troppo presto riuscire a risalire alla causa. Allo sgarro, all’offesa, al conto in sospeso che ha acceso la scintilla e armato i detenuti. “Le loro armi sono tutto quello che legittimamente possono tenere all’interno della cella - chiarisce la direttrice. Alla fine i detenuti feriti hanno prognosi tra 2 e 7 giorni, ma la situazione non è ulteriormente degenerata soltanto grazie al professionale intervento degli agenti”. Poliziotti che fanno i conti con una popolazione di circa 580 detenuti, la metà stranieri. Le tensioni sono all’ordine del giorno. Settimana scorsa altri due detenuti si sono affrontati a mani nude durante l’ora d’aria. “Non è mai facile individuare i motivi, a volte sono dissidi che si trascinano da tempo e che esplodono all’improvviso - l’analisi della direttrice -. Anche per quest’ultimo episodio stiamo valutando tutte le possibilità. È qualcosa che scuote sempre l’istituto, per questo serve un intervento immediato e incisivo. Per ristabilire sicurezza e ordine”. Roma. Lo scandalo dei senza dimora nella capitale d’Italia di Carmen Baffi Il Domani, 24 agosto 2021 È ora di cena. La stazione Termini di Roma appare svuotata dalla frenesia quotidiana, piena soltanto di gente comune che cammina in cerca di qualcosa. Non si direbbe affatto che siano lì in attesa dei volontari dell’associazione don Bosco che, come ogni venerdì sera, portano loro da mangiare. Un ragazzo con delle grosse cuffie bluethoot cammina svelto: a guardarlo di sfuggita non si direbbe mai che vive per strada. Invece saluta la zia e si mettono in fila. Giuseppe ha superato i 50 anni. È un omone sorridente, indossa una polo arancione con una spilla di Che Guevara all’altezza del taschino. Dice di essere un uomo libero, partito alla volta di Roma dalla Calabria. Il suo accento lo conferma chiaramente. Evita di spiegare cosa gli sia successo in passato, dissimula la tristezza che ha nello sguardo improvvisando dei quiz. Conosce a memoria le frasi dei film di De Sica, Troisi e Rossellini e chiede a chi gli sta intorno di indovinare i titoli delle pellicole da cui trae le citazioni. Poi si sbilancia: “Lavoravo in radio, si sente dalla voce che ho”, dice, “ma non mi pagavano, e ho lasciato perdere. Andrò via anche da Roma: c’è troppo “paese” anche qui”. Poco più in là c’è la signora Iva. Una donna di 74 anni, arrivata in Italia trent’anni fa dalla Bulgaria. È ben vestita e curata. Chiede se è rimasto qualcosa per lei e per suo figlio, ma è arrivata tardi, si accontenterà dei biscotti per la colazione. Lei una casa ce l’ha, a Centocelle. Vive con suo figlio di 50 anni, che per “alzare qualcosina” dà una mano a una signora del quartiere, spiega. Iva ha fatto per una vita la badante, accudendo gli anziani, in nero. La pensione non ce l’ha. “In qualche modo si fa” ed è comunque contenta che adesso qualcuno “si prende cura dei poveri come noi”. Solo a piazza dei Cinquecento, davanti alla stazione romana, ci sono più di trenta persone. Prendono tutto quello che i volontari hanno da offrire, poi si rimettono in fila, sperando che avanzi cibo per un secondo giro. C’è anche chi passa per due, tre volte. L’Avvocato è uno di questi. Il suo nome non lo conosce nessuno. Si scusa per essere stato lontano per più di un anno “ma con il Covid-19 me so dovuto ripara’”. Chiede subito una busta, poi un’altra, riesce a riempirle entrambe, tra dolci, pasta e succhi di frutta. Un altro volontario si assicura di distribuire le mascherine chirurgiche, l’Avvocato fa scorta anche di quelle. Poi ringrazia e si allontana. Anche la signora Iva si è allontanata per paura di perdere l’autobus di ritorno verso casa. Giuseppe, invece, continua a proporre quiz di storia, musica e cinema. Secondo le stime della Fondazione Abbé Pierre e della Federazione europea delle organizzazioni nazionali che lavorano con i senzatetto (Feantsa), nell’Unione europea ci sono circa 700mila senza fissa dimora, con un aumento del 70 per cento negli ultimi dieci anni. Tuttavia, durante la recente crisi sanitaria, questo numero è fortemente diminuito grazie alle misure di emergenza finalizzate a fornire un riparo ai più fragili. Secondo il rapporto pubblicato dalle due fondazioni, infatti, basterebbe mobilitare meno del 3 per cento delle sovvenzioni previste nel bilancio del Recovery Fund per togliere dalla strada tutti i senzatetto, trovando per loro alloggi dignitosi per un anno intero. Il problema di queste stime è che, nonostante siano riportate nel rapporto del 2020, non vengono aggiornate dal 2015: “È un dato a fisarmonica, che aumenta o decresce a seconda dei periodi e delle condizioni esterne”, spiega Caterina Cortese, sociologa e referente per l’area di Analisi e ricerca sulla condizione delle persone senza dimora della Federazione italiana organismi per le persone senza dimora (Fio.psd). “In caso di flussi migratori può sembrare che il dato migliori, com’è successo anche nel caso della pandemia. Invece, nell’ultimo anno e mezzo ci sono state persone finite in povertà estrema dopo aver perso il lavoro, che si sono aggiunte a quelle che già c’erano”, prosegue Cortese. In Italia, si calcolano oltre 55mila senzatetto, persone con problemi di salute e disturbi mentali, fragilità relazionali, barriere linguistiche e condizioni di vita precarie che richiedono un approccio di intervento complesso e coordinato tra le diverse realtà territoriali. La Fio.psd si occupa proprio di coordinare i servizi presenti su tutto il territorio, ma, precisa la referente, “i servizi per gli homeless sono solo dei servizi cuscinetto”, a fronte di una problematica cronica che affligge da sempre il paese. “Molti italiani sono in strada da oltre quattro anni. A loro si sommano i migranti, arrivati in cerca di lavoro e rimasti incastrati nelle strutture di prima accoglienza in condizioni di povertà; le persone con problemi di salute, a volte anche non certificate, che proprio per questo hanno perso il lavoro; molte donne vittime di trauma”, spiega Cortese. Le difficoltà provocate dall’arrivo del Covid-19, dunque, hanno solo reso visibile una problematica che c’era da molto tempo prima. Soprattutto nelle grandi città, dove, come conferma Cortese, è più difficile avere a disposizione alloggi a sufficienza. Tornare al mondo - A Roma si contano intorno agli 8mila senza fissa dimora. L’obbligo del distanziamento ha comportato una diminuzione dei posti letto disponibili: “Dove prima entravano due letti a castello, quindi quattro persone, se ne possono accogliere due o una soltanto”, afferma Augusto D’angelo, responsabile dei servizi per senza fissa dimora della comunità di Sant’Egidio. Loro, come associazione dedita al sostegno dei più vulnerabili, nei mesi di lockdown hanno tolto dalla strada più di un centinaio di persone. “Non ci siamo fermati. Abbiamo iniziato a distribuire i pasti in più zone e abbiamo aperto nuove sedi in tutti i quartieri di Roma”. Prima della pandemia, Sant’Egidio era presente a Roma con tre centri di distribuzione alimentare, a giugno 2020 erano diventati 28, perché al diminuire degli alloggi è conseguito un aumento delle persone in strada. “Siamo riusciti ad aprire diversi dormitori più piccoli in periferia: noi conoscevamo le persone e altri mettevano a disposizione lo spazio”, racconta ancora D’Angelo, che aggiunge che grazie alla collaborazione di molti è stato possibile avere ulteriori idee, pur di accogliere persone in difficoltà. Sono infatti partiti diversi progetti di co-housing: “Abbiamo avuto la possibilità di vedere che fra piccoli gruppi di persone si stavano creando dei legami, quindi abbiamo provato a metterli in case condivise”, in modo da poter permettere loro di dividere le spese e riuscire a mantenere gli appartamenti con i pochi soldi a disposizione. Molti senzatetto, infatti, hanno accesso al reddito di cittadinanza oppure a piccole pensioni. Calmierando i prezzi degli affitti, per loro si presenta la possibilità di cambiare vita, a partire dall’avere un tetto sopra la testa. Un’altra iniziativa avviata da Sant’Egidio è l’Accordo del buon samaritano. “Sempre nei mesi del lockdown abbiamo pensato di andare da un albergatore nei pressi della stazione Termini. Gli abbiamo proposto di calmierare i prezzi delle stanze in modo da consentire ai nostri amici senzatetto di avere un riparo, pagando una stanza intorno a 250 uro al mese. Lui ha accettato, ed è stato poi seguito da altri”, spiega D’Angelo, che precisa che dopo le chiusure, nessuno è tornato a vivere in strada. Nemmeno gli albergatori hanno ritirato la loro disponibilità: “Molte strutture hanno lasciato a disposizione due, tre stanze a un prezzo più basso per chi dovesse averne bisogno. Hanno deciso di continuare ad aiutare chi ha aiutato loro nel momento più difficile di tutti”, prosegue D’Angelo. Tuttavia, le soluzioni trovate riguardano solo piccoli numeri. Chi è rimasto fuori dai dormitori, dalla Caritas o da altre iniziative intraprese dalle associazioni attive sul territorio si è ritrovato a vivere un dramma. E non per il Covid-19. Fra i senzatetto, infatti, come riporta D’Angelo, i casi di positività sono stati pochissimi, perché queste persone vivevano già da prima un distanziamento obbligato. “Si sono ritrovati a non avere più un riferimento: la maggior parte vive nelle stazioni, dove trova tutto quello di cui ha bisogno, raccogliendo anche un po’ di soldi dai passanti”, il lockdown ha tolto loro anche questa minima forma di socialità. L’incertezza del futuro - La costante che accomuna chi non vive in strada è di pensare solo al presente, basta ascoltarli per notare subito che nel loro lessico il futuro non è contemplato. “La loro priorità ogni mattina è cosa e dove mangiare, dove dormire, dove lavarsi”, spiega Caterina Cortese della Fio.psd. Tuttavia, le soluzioni trovate nei mesi più duri dell’emergenza sanitaria hanno provato che un cambiamento duraturo è possibile. “Il dormitorio deve rappresentare una risposta emergenziale, in piccola scala e sul medio periodo. Poi bisogna fare accoglienza a lungo termine, con appartamenti, case condivise, housing first”, precisa. Il nodo è trovare case accessibili. L’housing first è uno degli approcci d’intervento più recenti e innovativi nel contrasto alla marginalità sociale. Si tratta di un modello sviluppato dal Sam Tsemberis, newyorkese, negli anni Novanta. Dal 2014 iniziano i primi progetti sperimentali anche in Italia. In pratica, le persone che vivono da anni in strada entrano in contatto con i servizi sociali territoriali che offrono loro la possibilità di entrare in un appartamento, godendo inoltre dell’accompagnamento di un gruppo di operatori sociali. “Oggi ci sono almeno 50 comuni che hanno investito in un progetto di housing first e e hanno aperto almeno un appartamento”, afferma Cortese. Anche in questo caso, le difficoltà maggiori si riscontrano nelle metropoli. “Su Roma è difficile trovare gli appartamenti, così come a Milano, mentre il numero dei senza dimora è molto alto”. In queste città, infatti, almeno per ora si è optato per soluzioni su larga scala, che includano più persone possibili, seppur in modo precario. “La difficoltà deriva dai prezzi del mercato immobiliare, che sono inaccessibili. È vero che si possono usare altre soluzioni, come le strutture del demanio pubblico, magari piccole case in cui si ricavano più appartamenti per una o due persone, oppure si può pensare allo sblocco dei beni confiscati alla mafia, ma raramente questi sono pronti all’uso”, spiega ancora Cortese, la quale aggiunge che “chi riesce a entrare in progetti housing, acquisisce una dignità di vita: quando si ha una casa e un accompagnamento, chi è in età lavorativa riesce anche a trovare lavoro. Altri si ricongiungono con i figli, perché in molti casi prevale la vergogna di dover dire loro che si è finiti per strada e decidono di tagliare i rapporti. Avere una casa è l’inizio di una nuova vita”, conclude. Stando ai dati contenuti in tre diverse ricerche pubblicate sul sito della Fio.psd, infatti, in 8 casi su 10 la persona che esce dall’isolamento, stabilizza il proprio benessere psico-fisico, si prende cura della propria salute e si impegna in attività lavorative. Lo scorso 28 luglio, il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha approvato il Piano nazionale per gli interventi e i servizi sociali di contrasto alla povertà per gli anni 2021-2023, destinando inoltre 490 milioni di euro del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) in progetti e servizi per persone senza dimora, inclusi progetti di housing. Starà alle amministrazioni, però, decidere in che modo spenderli, migliorando la vita di migliaia di cittadini. Roma. La pandemia ha mostrato il vero volto della città di Ylenia Sina micromega.net, 24 agosto 2021 La pandemia ha divaricato ancora di più la forbice delle disuguaglianze e colpito più forte la “città del disagio”. Una riflessione sulla Capitale a partire dal libro “Le sette Rome” (Donzelli Editore).. Nel numero del 4 giugno di Micromega, la giornalista e ricercatrice Sarah Gainsforth denunciava l’assenza cronica di “dati elementari per costruire politiche pubbliche” a Roma. A pochi mesi dalle elezioni amministrative, a colmare almeno in parte questo vuoto è la pubblicazione del libro Le sette Rome. La capitale delle disuguaglianze raccontata in 29 mappe (Donzelli Editore), scritto a sei mani da Keti Lelo e Salvatore Monni, rispettivamente ricercatrice e professore associato all’Università di Roma Tre, e dal dirigente pubblico Federico Tomassi, già autori nel 2019 di un volume diventato in poco tempo un pilastro per la comprensione delle dinamiche sociali della capitale, Le mappe della disuguaglianza. Una geografia sociale metropolitana. Anche nella nuova pubblicazione i dati relativi a demografia, condizioni socioeconomiche, livello di istruzione, tipologie occupazionali, preferenze politiche, provenienti da diverse fonti, istituzionali e non, diventano il materiale per fotografare la situazione, con analisi, mappe e grafici. Il cuore della tesi proposta è una non convenzionale geografia di Roma: raggruppando le aree con caratteristiche sociali ed economiche simili la capitale d’Italia non è più una sola città, ma sette. Sei di queste trovano riscontro anche nella geografia fisica: la città storica, “colma di testimonianze artistiche, architettoniche e archeologiche”; la città ricca “che unisce i quartieri benestanti di Roma nord, i villini dell’Eur, le grandi ville dell’Appia Antica e la gated community di Olgiata”; la città compatta “dei quartieri residenziali intensivi costruiti negli anni dell’espansione post bellica”; la città del disagio “in gran parte case popolari e borgate nate in maniera abusiva”, la città dell’automobile “disposta lungo i principali assi di viabilità di scorrimento” e la città-campagna “che comprende tutto ciò che resta dell’Agro Romano”. La settima, “estesa su tutto il territorio comunale”, è la città delle decine di migliaia di ‘invisibili’, formata dai senza tetto, dai migranti dei centri di accoglienza, dai rom, dalle occupazioni abitative, dai detenuti, dagli anziani, dai disabili e dalle prostitute. “Le abbiamo chiamate città perché ognuna di esse”, scrivono gli autori, “pur non essendo delimitata da un punto di vista amministrativo, è perfettamente riconoscibile nelle proprie peculiarità e problematiche, nelle memorie e nei cliché che la riguardano”. Questa lettura del territorio ha la forza di osservare con lucidità fenomeni altrimenti difficilmente visibili con gli strumenti semplificati che troppo spesso dominano il discorso cittadino, sui media o in politica, in questo momento particolarmente incline a lanciarsi in analisi e promesse: dalla contrapposizione tra centro e periferia, intese rispettivamente come luogo di benessere contrapposto a povertà e disagio, alla presentazione di problemi e di conseguenti proposte politiche pensate come risposte a determinati settori, spesso su spinta degli interessi delle singole categorie, pur legittimi. Non è un caso che in Le sette Rome particolare attenzione venga data proprio al grande assente dalle principali preoccupazioni che guidano l’elaborazione di politiche pubbliche cittadine: a Roma le disuguaglianze tra le condizioni sociali, economiche e, più in generale, di qualità della vita tra diverse aree urbane raggiungono livelli preoccupanti e alcune ‘città nella città’ sono prima rimaste escluse “dai benefici dello sviluppo” del cosiddetto ‘Modello Roma’ di inizio Millennio e poi ulteriormente colpite dalla crisi degli anni successivi. La pandemia ha evidenziato ancora di più questo quadro, mettendo in mostra i problemi irrisolti della capitale. In virus, veritas è il titolo eloquente del terzo e ultimo capitolo. Un esempio dà la dimensione dell’abisso: nel 2018, il reddito medio nella zona semicentrale del II municipio era di 41.744 euro mentre nel VI municipio, all’estrema periferia orientale del territorio comunale, di 17.460. Meno della metà. “Sarebbe veramente utile poter confrontare questi valori e la loro distribuzione con dati più recenti, quando saranno disponibili, poiché è evidente che la crisi sanitaria ha fatto emergere con forza il divario economico e sociale che già avevamo descritto in Le mappe della disuguaglianza”. È già utile, sarebbe da aggiungere, aver posto questa domanda in una città dove solo alcune organizzazioni del terzo settore e di volontariato sembrano essersi poste il problema di comprendere chi sono, perché lo sono e a quale livello questi esclusi e non solo di tamponare una generica emergenza con bonus e contributi spot. Sarebbe interessante, per esempio, se il Comune di Roma rendesse pubblici i dati relativi ai quartieri da cui sono arrivate più richieste di bonus affitto emessi proprio per l’emergenza di Covid 19 o alla composizione famigliare e occupazionale dei nuclei che hanno richiesto i buoni spesa. Il lavoro di Lelo, Monni e Tomassi mette in fila tutti i dati a disposizione. La pandemia, raccontano, ha divaricato “ancora di più la forbice delle disuguaglianze” e colpito più forte la città del disagio, dove case più piccole, lavori meno qualificati poco adatti allo smart working e maggiore incidenza di disturbi come diabete, obesità e malattie cardiovascolari, “più frequenti in aree urbane povere e disagiate”, hanno portato a una più alta circolazione del virus. La città del disagio è quella che ha pagato, e pagherà, di più la crisi, ma sarebbe un errore non leggere come la mappa della geografia della città post pandemica del 2020 disegni una difficoltà trasversale alle diverse aree urbane, la cui incidenza a lungo termine andrà verificata nei prossimi anni. Per esempio: “A fare le spese della contrazione dei posti di lavoro dovuta alla crisi sono soprattutto le donne (-2,2% rispetto al -1,1% degli uomini), i giovani (-2,7% rispetto all’1% degli over 50), e i lavoratori poco qualificati (-3,5% con la sola licenza media rispetto al 0,4% dei laureati)”. Anche l’analisi dei numeri delle domande di Reddito di cittadinanza (Rdc) e di Reddito di emergenza (Rem), introdotto a maggio 2020 con il decreto rilancio e accolte a settembre 2020, offrono una geografia interessante. Se per il primo è la città del disagio a spiccare per assegnazioni, con il 5,4% dei residenti con più di 15 anni di età ad usufruirne contro il 3,2% della città-campagna, il 3,1% della città storica, il 2,9% della città dell’automobile e il 2,7 di quella compatta, le percentuali della seconda misura di sostegno economico sono identiche nella città del disagio e in quella storica, 1,9%, con una distanza meno marcata anche dalla città compatta che arriva all’1,5%. Il motivo è da ricercare nella differenza dei requisiti di accesso: “Se infatti per il Rdc è necessario essere residenti in Italia da almeno dieci anni, per il Rem è sufficiente la sola residenza, ed è quindi possibile fare domanda per gli stranieri residenti da poco in Italia”. Risultati “paradossali” sono emersi anche dall’analisi delle domande di bonus e indennità una tantum: la città storica, ricca e compatta supera i quartieri del disagio. “Questa apparente stranezza si spiega in parte con la presenza dei lavoratori domestici, quasi esclusivamente stranieri, che vivono vicino alle case dove svolgono la propria attività”. Senza raccogliere, aggregare e analizzare i dati della nuova geografia che abbiamo di fronte sarà difficile per la politica (e quindi per i candidati a sindaco) comprendere ciò che sta accadendo e agire di conseguenza. Quanto si sono aggravate le condizioni socio-economiche-educative dei quartieri da sempre considerati disagiati? Quali sono le città - per restare nella geografia di Le sette Rome - che, per esempio, pagheranno di più il crollo del settore turistico registrato nelle aree centrali? Chi sono i nuovi poveri? Sarà una condizione temporanea? Come invertire la tendenza che porta Roma a essere una città sempre più diseguale? Viterbo. Con “Semi Liberi” in carcere si coltivano anche le relazioni di Maurizio Ermisino retisolidali.it, 24 agosto 2021 Nella Casa circondariale di Viterbo tra germogli e lamponi si formano i detenuti e si coltivano relazioni. Da qualche mese vi stiamo raccontando una serie di storie di volontari che hanno scelto di impegnare il loro tempo e le loro risorse ad aiutare chi vive in carcere, o chi è appena uscito e vive in un limbo che non è ancora una vita normale. L’occasione di iniziare questo viaggio è nata dall’iniziativa di Semi di Libertà Onlus, che ha organizzato un corso on line, Volontario dentro e fuori il carcere, per far conoscere molti aspetti utili a chi vuole occuparsi di questo mondo così delicato da approcciare, e aperto un gruppo su Facebook per discuterne. È qui che abbiamo conosciuto molte delle storie che vi raccontiamo, per capire che cosa c’è dentro chi sceglie di fare volontariato in carcere. È qui che abbiamo conosciuto Agnese Inverni, che ha frequentato il corso e al momento è volontaria presso la Casa circondariale di Viterbo con la Cooperativa Sociale Agricola O.R.T.O. (Organizzazione Recupero Territorio e Ortofrutticole), attiva nella formazione e inserimento di persone disagiate nel settore dell’agricoltura multifunzionale. “Io mi sono avvicinata al mondo del carcere grazie alla cooperativa”, racconta Agnese. “Avevo già fatto volontariato nell’ambito di un progetto del servizio civile, dove mi ero occupata di educazione ambientale nelle scuole”. Un ambiente sconosciuto - Agnese Inverni è una donna ed è giovanissima. Sempre più spesso, in questo nostro viaggio nel volontariato, abbiamo incontrato ragazze come lei, che hanno deciso di fare volontariato in carcere. È forse una questione di sensibilità. “Il carcere è un ambiente al non ci si avvicina, ma non lo si conosce”, ha spiegato Agnese. “Io ho la tendenza a non basarmi sul sentito dire. Così ho deciso di provare”. Ma qual è stato il primo impatto con il carcere? “Le prime volte che sono entrata in carcere mi ha colpito il fatto di dover attraversare i cancelli, dover fare tanti controlli, che ci fossero tanti agenti”, ha spiegato Agnese Inverni. “Anche con i ragazzi, i detenuti, le prime volte che sono entrata, non sapevo come approcciarmi. Pian piano si prende confidenza. Bisogna essere attenti al carattere di ciascuno. Dopo un po’ quasi ci si dimentica di aver a che fare con detenuti. Si è creata confidenza”. Semi Liberi - E poi c’è la fortuna di stare all’aria aperta. “C’è un uliveto, un campo, due serre, una lamponaia e uno spiazzo dove abbiamo costruito delle aiuole. Siamo all’aperto e non c’è la percezione dei cancelli e delle celle” ci racconta Agnese. “Semi Liberi” è un progetto di agricoltura sociale partito nel 2017 all’interno della serra della Casa Circondariale di Viterbo, che ha l’obiettivo di riqualificare le persone in detenzione grazie al reinserimento nel ciclo produttivo e alla formazione continua. “All’inizio è nato con la produzione di germogli freschi, destinati ad essere mangiati cosi come sono”, racconta la volontaria. “Fanno molto bene alla salute. È una coltura ecosostenibile, che tutela l’ambiente e la salute. Poi abbiamo iniziato a coltivare 300 piante di aloe, per produrre il gel. La lamponaia produce abbondantemente, e ci sono le piante aromatiche e officinali. Lo scorso anno c’era un corso su queste piante, fermato dal lockdown, ma adesso è ripreso. Un altro corso di formazione è quello sulla qualità delle produzioni agroalimentari”. Un’esperienza dolceamara - La speranza è che le attività del progetto “Semi liberi” per molti ragazzi un giorno possa diventare un lavoro. “Noi lavoriamo sia sui corsi di formazione, che sull’attività pratica”, spiega Agnese inverni. “Qualcuno dei volontari è esperto, ed è in grado di trasmettere queste conoscenze. Ma il lavoro agricolo in carcere porta un beneficio immediato. Prima di tutto c’è il fatto di stare all’aria aperta, che non è scontato. E poi c’è soprattutto il contatto umano, la confidenza: i ragazzi sono liberi di parlare, di aprirsi. C’è un beneficio psicologico, è un modo per sfuggire ai pensieri. Il bello è stare con altre persone che vengono da fuori dal carcere. Sono un carcere maschile e noi siamo tutte donne, e c’è un rapporto che va oltre le differenze di genere. C’è un rapporto confidenziale, si ride e si scherza”. Se ai detenuti questa attività sta dando tanto, quanto sta dando alle volontarie? “A me sta dando tanto”, risponde Agnese Inverni. “Ma è un’esperienza dolceamara. Mi dà tante soddisfazioni, ma quando inizi a parlare con queste persone vedi l’altra faccia della medaglia. Spero che questa esperienza possa servire, che possano avere una vita diversa fuori, un inserimento lavorativo. È un’esperienza che arricchisce tanto. È un’esperienza forte”. Napoli. “La Voce di Dio dietro le sbarre”, presentazione del libro di Don Raffaele Grimaldi napolitoday.it, 24 agosto 2021 Quello delle carceri e della loro funzione riabilitativa è uno dei temi ancora attuali nel nostro Paese. Chi si è sempre battuto per un accompagnamento spirituale del detenuto e non ha mai smesso di lottare per una nuova cultura della pena, è Don Raffaele Grimaldi, Ispettore Generale dei Cappellani delle Carceri d’Italia. Secondo Don Raffaele, bisogna sempre offrire percorsi di riabilitazione e reinserimento ai detenuti, metterli in condizione di non restare ai margini della società una volta scontata la propria pena. Ed è per questo che ha scritto un libro, dal titolo “La Voce di Dio dietro le sbarre”, finalizzato proprio a sensibilizzare la cultura di massa su un sistema carcerario basato su una giustizia che sia anche costruttiva e non soltanto punitiva. La presentazione del libro di Don Raffaele Grimaldi, “La Voce di Dio dietro le sbarre”, scritto con la prefazione di Don Luigi Ciotti, avverrà domenica 29 agosto, alle ore 18:30, presso il Palazzo dell’Ostrichina al Fusaro. Oltre all’autore ed alla testimonianza, molto forte, di un detenuto, interverranno: Josi Gerardo Della Ragione, Sindaco di Bacoli; Margherita Di Giglio, Magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Napoli; Giulia Russo, Direttrice del Centro Penitenziario di Secondigliano; Gennaro Pagano, Cappellano del carcere minorile di Nisida. Modera la giornalista Rita D’Addona, ufficio stampa dell’ispettorato dei cappellani delle carceri d’Italia. Gorizia. Il teatro come strumento d’incontro fra i detenuti e il mondo esterno udineoggi.news, 24 agosto 2021 Il teatro come strumento d’incontro fra i detenuti e il mondo esterno al carcere. Ma anche come momento di riflessione sulla società. Ci riprovano gli organizzatori di “Se io fossi Caino” ovvero il Festival di teatro e arte del carcere che, il 20 agosto hanno presentato l’iniziativa, giunta alla terza edizione, nel parco del municipio di Gorizia, alla presenza del sindaco, Rodolfo Ziberna, dell’assessore alla cultura, Fabrizio Oreti, del presidente della Fondazione Carigo, Alberto Bergamin e dei rappresentanti della Caritas diocesana e della curia, don Paolo Zuttion e Simone Orsolini. Sia il sindaco Ziberna sia il presidente Bergamin, sottolineando l’importanta di una rete isituzionale che sostenga eventi volti a sensibilizzare il pubblico su tematiche di grande impatto sociale, hanno espresso grande apprezzamento per l’iniziativa che “coinvolge direttamente i detenuti, stimolando la loro capacità di recupero e di reinserimento nella società”. La regista, autrice e attrice, Elisa Menon, ha quindi illustrato i temi trattati nelle varie rappresentazioni e la straordinaria partecipazione, anche emotiva, dei detenuti attori. Il Festival, che prenderà il via il 25, 26, 27 agosto a Gorizia è alla sua terza edizione. La Manifestazione, che continuerà fino a novembre spostandosi anche a Trieste, è dedicata al tema della detenzione e propone eventi che coinvolgono direttamente i detenuti così come proposte artistiche che favoriscono una maggiore consapevolezza e stimolano una riflessione da parte del pubblico. L’obiettivo è quello di aprire alla vista e alla comprensione delle persone la realtà del carcere, che è generalmente poco conosciuta e che spesso fa paura. Il carcere è un luogo fisico ma non solo, è anche il luogo in cui molte questioni etiche, morali, giuridiche e sociali convergono. Il Festival rivolgendosi alla Comunità mette in atto un tentativo di riflettere su di esse attraverso l’arte. Non solo Teatro con i detenuti dunque, ma anche spettacoli, laboratori, conferenze per promuovere una maggiore consapevolezza nella Comunità e dialogare con un pubblico trasversale, e non solo di “addetti ai lavori”. E proprio agli eventi collaterali è dedicata questa prima parte del Festival alla quale seguiranno altre due tappe ad ottobre, con lo spettacolo dei detenuti della Casa Circondariale di Gorizia, e a novembre, con lo spettacolo dei detenuti della Casa Circondariale di Trieste ed i laboratori dedicati alle fasce di età più giovani. Vediamo dunque il programma delle giornate di agosto: mercoledì 25 agosto alle ore 20.30 presso Palazzo De Grazia va in scena il monologo “Il giovane criminale - Genet / Sasà” di e con Salvatore Striano. Salvatore Striano, attore e autore, nel carcere di Rebibbia si appassiona al teatro, esordisce al cinema in Gomorra grazie al regista Matteo Garrone, interpreta poi magistralmente la parte di Bruto in “Cesare deve morire”, film dei fratelli Taviani (Orso d’Oro al Festival di Berlino). Lo spettacolo è consigliato ad un pubblico adulto. Il 26 agosto, al Parco Basaglia, è la volta di Elisa Menon con “Silenzio” monologo per bambola e attrice. Interprete, autrice e regista del lavoro, Elisa Menon ci racconta una storia delicata che si mette dalla parte della vittima per scandagliarne le dinamiche emotive e psicologiche. In chiusura, il 27 agosto, presso l’Oratorio Pastor Angelicus, potremo assistere all’interessante Conferenza “Quando il carcere non c’era” che illustrerà le tappe dell’evoluzione della pena dall’antichità ai giorni nostri con uno sguardo alle prospettive future rappresentate dalla giustizia riparativa, non mancherà il tempo per una riflessione filosofica e spirituale curata da Don Franco Gismano. Tutti gli eventi sono ad ingresso gratuito, i posti sono limitati ed è consigliata la prenotazione, sarà infatti possibile accedere anche presentandosi in loco, ma solo se ci saranno ancora posti disponibili. Informazioni e prenotazioni all’ indirizzo mail fierascena@gmail.com oppure chiamando il 333 3762495. La partecipazione agli eventi è subordinata al rispetto delle regole adottate per la prevenzione della diffusione del Covid-19. Il Festival, organizzato dalla Compagnia Teatrale Fierascena in collaborazione con la Caritas Diocesana di Gorizia che ha partecipato alla definizione del programma e ha affiancato la Direzione artistica nell’organizzazione delle serate è finanziato da: Regione Fvg, Fondazione Carigo, Arcidiocesi di Gorizia - Caritas Diocesana, Fondo Beneficenza di Intesa Sanpaolo, Enaip (Rete nazionale di servizi per la Formazione e il Lavoro), e ha il patrocinio del Comune di Gorizia. Collaborano inoltre al Festival le Carceri di Gorizia e Trieste, il Prap (Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Triveneto), il Teatro stabile Rossetti e il Coordinamento nazionale Teatro e Carcere. Un ringraziamento sentito va alla Parrocchia dei Ss. Ilario e Taziano e al Centro di Salute Mentale 24ore Distretto Alto Isontino di Asugi. Livorno. Rugby. Le Pecore Nere de Le Sughere partecipano al campionato Old 57100livorno.it, 24 agosto 2021 Le Pecore Nere, la squadra dei detenuti del carcere livornese de Le Sughere, parteciperà al campionato Old 2021/22. Nove le formazioni impegnate nel raggruppamento toscano, che si snoderà con la formula del classico girone all’italiana, con gare di sola andata. Primo turno nel mese di ottobre, ultimo turno a fine maggio 2022. Ovviamente la formazione delle Pecore Nere disputerà tutti i suoi otto incontri ufficiali sul proprio campo, sul ‘piccolo’ terreno in sintetico posto all’interno dell’istituto penitenziario. La rappresentativa labronica riposerà nell’ultima giornata, prevista in plenaria (da decidere la sede). Al termine della fase regionale lunga nove giornate (ma con ‘soli’ otto impegni per ciascuna formazione), la prima classificata si aggiudicherà il titolo toscano. Le prime due in graduatoria (escludendo dal lotto le Pecore Nere) proseguiranno il proprio cammino nel torneo interregionale di categoria. Le partite del campionato Old si giocheranno nel primo pomeriggio del sabato. Nel primo turno (il 30 ottobre?) subito un derby specialissimo. Per uno scherzo del calendario, si giocherà nella giornata di apertura la sfida tutta livornese tra le Pecore Nere ed i Rino…Cerotti, la rappresentativa Old dei Lions Amaranto Livorno. Un derby in famiglia, visto che le due realtà labroniche fanno capo alla stessa società - quella dei Lions appunto - e che gli allenatori delle Pecore Nere sono (anche) giocatori Rino…Cerotti. Tanto per completare il cerchio, è in agenda domenica 5 settembre (ore 9:00) un allenamento congiunto, sul sintetico dell’istituto con protagonisti proprio i giocatori delle Pecore Nere e dei Rino…Cerotti. L’iniziativa di un pallone ovale da far viaggiare all’interno del carcere livornese ha una sua precisa data di partenza: sabato 27 settembre 2014. In quella occasione, 22 giocatori tesserati Lions Amaranto portarono questa palla dalla forma speciale all’interno dell’istituto. Accompagnati dal presidente della stessa società amaranto Mauro Fraddanni, dall’allenatore Manrico Soriani (il vero promotore delle lodevoli iniziative rugbistiche svoltesi nell’istituto penitenziario livornese) e dai rappresentanti del comitato toscano della FIR, Marco Bertocchi e Claudia Cavalieri, i 22 dettero vita, sul terreno di gioco de Le Sughere, ad un allenamento piuttosto sostenuto, con tanto di partitella in famiglia. Durante la seduta, lunga circa 60 minuti, si svilupparono varie fasi di gioco e furono mostrati i fondamentali dello sport del rugby. Un centinaio di detenuti, presente all’allenamento, mostrò entusiasmo e grande partecipazione emotiva. Da quel giorno, grazie al lavoro dei Lions (ed in particolare grazie all’impagabile attività svolta dallo stesso Soriani e dai suoi colleghi-allenatori Michele Niccolai e Mario Lenzi), sono iniziati veri allenamenti per i detenuti. Ben presto è stata allestita una squadra di composta, appunto, da atleti reclusi nella casa circondariale livornese. La formazione, con grande autoironia, è stata battezzata, dagli stessi detenuti, Pecore Nere. Tali giocatori, tutti con pene piuttosto lunghe, hanno iniziato ad effettuare, una volta alla settimana (la domenica mattina), sul campo sportivo del carcere, sedute piuttosto intense. Grazie alla stretta collaborazione e alla grande sensibilità della direzione e del personale della casa circondariale stessa, l’intenzione di far disputare anche alcune gare amichevoli si è trasformato in realtà. Ancor prima della partecipazione al campionato Old 2019/20, varie squadre federali si sono presentate all’interno dell’istituto carcerario, per giocare partite ricche di significato. Belle gare, nelle quali la formazione dei detenuti ha palesato buone qualità. Brillanti i risultati di tali amichevoli e brillanti i risultati ottenuti nelle quattro partite giocate nel campionato Old, girone 2, toscano 2019/20. Le Pecore Nere - tesserati Associazione Amatori Rugby Toscana, altra realtà che collabora in modo concreto per la riuscita del progetto - nel proprio primo impegno ufficiale, con punti in palio, hanno pareggiato con gli Allupins Prato, per poi sconfiggere, nei tre successivi incontri, le rappresentative dei Sorci Verdi Prato, degli Zoo Vasari Arezzo e dei Ribolliti Firenze. Poi l’emergenza della pandemia del Covid-19 ha costretto la FIR a sospendere e annullare tutti i campionati federali. Il 5 luglio 2020 ecco la notizia più brutta: ad appena 55 anni Manrico Soriani ci ha lasciati. ‘Chico’, promotore e allenatore delle Pecore Nere (nonché capitano dei Rinoce…Rotti) ‘ha passato l’ovale’. Con lui, è scomparso un rugbista dalla rara generosità. Significative, per ricordare Soriani, le parole di Riccardo Bonaccorsi, presidente del Comitato Toscano della FIR: “Persona unica, degna di stima e amicizia, ha lavorato sempre per il mondo del rugby con passione e dedizione, donando a tutti il suo tempo e il suo impegno. L’ultimo suo progetto con le carceri ha dato frutti insperati tra quei ragazzi, che hanno ricevuto da lui molta più attenzione e passione di quanto la vita avesse dato loro fino ad allora. Ci mancherà”. La squadra delle Pecore Nere, anche per onorare la sua memoria e pur con le difficoltà legate alla pandemia, ha poi ripreso gli allenamenti. A guidare le sedute, oltre a Niccolai e Lenzi, anche Vincenzo Limone, altro allenatore Lions che si è aggiunto nello staff tecnico. La loro opera è appoggiata dai preziosissimi nuovi dirigenti Maurizio Berti e Massimo Soriani (fratello di Manrico). La volontà di far continuare a viaggiare il pallone ovale su quel terreno di gioco, posto all’interno dell’istituto de Le Sughere non è venuta meno neppure quando è stata ufficializzato l’annullamento della stagione Old 2020/21. Quella delle Pecore Nere è, in Toscana, l’unica squadra composta da detenuti attiva in un campionato di rugby federale. Sono pochissime, anche fuori regione, realtà simili. “Vendetta: guerra nell’antimafia”, l’ambiguità del bene in una docuserie che farà discutere di Federico Varese La Repubblica, 24 agosto 2021 L’immagine forse più bella della nuova, suggestiva miniserie di Netflix, Vendetta: guerra nell’antimafia, è quella del giornalista Pino Maniaci e della sua compagna che ballano nella piccola corte della loro casa a Partinico, in una giornata di pieno sole. È un ballo estemporaneo, sulle note della canzone di Dean Martin, That’s amore, per stemperare la tensione alla vigilia del verdetto del tribunale di Palermo nel processo dove Maniaci è accusato di estorsione ai danni di due amministratori locali e diffamazione. Poche inquadrature dopo ci troviamo invece nella casa alto-borghese di Silvana Saguto, ex presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, che ha saputo da poco della sua condanna in primo grado a otto anni e mezzo per corruzione nella gestione dei beni confiscati alla mafia, e dell’assoluzione di Maniaci dall’accusa di estorsione. L’ex magistrato, elegante e composta, con indosso un foulard di seta, è sola, incredula e furibonda per i due esiti. La miniserie intreccia le vicende umane e processuali di Maniaci e Saguto in quello che può essere considerata una continuazione della fortunata serie Sanpa: luci e ombre di San Patrignano. Anche in questa storia i Buoni appaiono meno immacolati della loro immagine pubblica, ma proprio per questo più interessanti. Vendetta è al suo meglio quando mostra l’ambiguità del bene e Pino Maniaci emerge come il personaggio più interessante. I sei episodi, scritti, prodotti e diretti da Ruggero Di Maggio e Davide Gambino per la casa di produzione siciliana Mon Amour Films, con l’apporto dell’americana Nutopia, sono frutto di molti anni di lavoro. La serie segue Maniaci e Saguto fino all’esito di due processi nei quali sono coinvolti. Entriamo nelle case, negli studi televisivi, parliamo con i figli, i mariti, le compagne, gli avvocati del giornalista e dell’ex magistrato. Il materiale è filmato in tempo reale, gli stessi protagonisti non sanno cosa succederà nella scena successiva, che per loro è vita. In gioco ci sono accuse per 11 anni e sei mesi di reclusione per Maniaci e quasi 16 anni per Saguto. Nonostante i due si dichiarino vittime di processi mediatici, non si sottraggono alle telecamere di Di Maggio e Gambino. Gli autori non prendono posizione, non introducono una voce terza che giudichi, corregga o indaghi alcune tesi palesemente implausibili. “Spetta al pubblico giudicare”, dicono gli autori a Repubblica, “ma non vogliamo buttare alle ortiche 30 anni di lotta antimafia”. Senza dubbio, la miniserie farà discutere. Le vicissitudini umane e legali sono complesse. Pino Maniaci a un certo punto della sua vita pittoresca (senza particolari titoli di studio, ha fatto tanti lavori) decide di diventare un giornalista e rileva la piccola emittente Telejato di Partinico. Attraverso di essa, comincia a denunciare politici e mafiosi locali, con epiteti pesanti e spesso volgari. Piccolo di statura, con baffi folti (la Saguto lo chiama “il baffone”), magro fino a essere emaciato, capelli nero pece, non bello ma con una forte carica vitale, Maniaci ha un fare da guascone, sempre sopra le righe. Il suo stesso avvocato ammette che è “un soggetto molto creativo”, che sogna di “essere un protagonista”. Maniaci non appartiene alla Palermo bene, colta e ben inserita e si trova a suo agio col dialetto (i registi sottolineano la distinzione di classe rispetto alla Saguto, ripresa mentre va dal parrucchiere e pranza al ristorante). Quando nel 2014 i due amatissimi cani di Maniaci vengono trucidati, l’Italia intera esprime la propria solidarietà per quello che Maniaci descrive come l’ennesima intimidazione mafiosa. Il mondo gli crolla addosso quando il giornalista viene denunciato per estorsione e diffamazione nel 2016. Per Maniaci l’indagine è, appunto, una vendetta di Saguto, la quale era stata duramente attaccata da Telejato per la sua gestione dei beni confiscati. La Saguto, da parte sua, è furibonda che i suoi colleghi palermitani abbiano dato credito alle accuse di Maniaci e iniziato a indagarla, in un processo in cui si è ritrovata imputata insieme al marito, il padre (poi assolto), il figlio, diversi professionisti e colleghi. In realtà, non vi sono prove che i due procedimenti siano stati orchestrati per una vendetta incrociata e nemmeno che il processo Saguto sia partito dalle accuse di Maniaci. I protagonisti non ammettono di aver fatto nulla di male. In privato Maniaci dice all’amante che le orrende torture contro i due cani sono l’opera del marito geloso, ma in pubblico continua a sostenere la tesi della minaccia mafiosa. Nonostante il fatto che Saguto desse in affidamento beni confiscati a un professionista che poi assumeva il marito, questa continua a difendere un sistema quantomeno opaco. Un difensore di Maniaci sostiene che “la Sicilia è una terra solare, ma è anche una terra del buio, della penombra”, ricca di veleni e trappole. In questa visione, errori privati vengono perseguiti come punizione per aver infastidito i poteri forti, ovviamente collusi con la mafia. Senza giudicare, i registi ci fanno entrare in un mondo rovesciato, dove nessuno si sente in dovere di ammettere le proprie colpe e di scusarsi. Ma queste due storie giudiziarie mostrano, oltre ogni teoria cospirativa, che la Sicilia è un luogo dove a volte gli sbagli si pagano, le menzogne vengono svelate e dove ogni tanto sorge il sole. Quesito sul fine vita, ecco perché Flick sbaglia di Andrea Pugiotto Il Riformista, 24 agosto 2021 Il presidente emerito della Consulta solleva in un’intervista forti perplessità sull’iniziativa referendaria. La Corte non dovrà valutare però se è giusta o sbagliata, ma soltanto se è ammissibile o meno. 1. Solo adesso che l’iniziativa referendaria promossa dall’Associazione Luca Coscioni ha superato largamente la soglia delle 500.000 firme, il quesito pro eutanasia sale agli onori della cronaca. Era ora. Ignorata dai media e oscurata dai sei quesiti sulla giustizia, ha centrato egualmente l’obiettivo: d’estate, in piena pandemia, senza l’aiuto di grandi partiti (veri serbatoi di autenticatori e sottoscrittori), addirittura sperimentando l’inedito della firma digitale. Riuscirci sembrava impossibile, ma “impossibile è la definizione di un avvenimento fino al momento prima che succeda” (Erri De Luca). È un miracolo laico, dovuto a due concorrenti ragioni. La prima è la credibilità dei promotori, acquisita in anni di riconosciute battaglie politiche e giudiziarie sul “fine vita”. La seconda è la tragica esperienza - diretta o per interposta persona - che in tanti conoscono: quella di un corpo che si fa prigione dolorosa e insopportabile, dal quale per troppi è impossibile evadere se non con l’aiuto di terzi, violando la legge o varcando il confine. Questo comune sentire unisce persone di qualsiasi età, ceto sociale, appartenenza politica, perché riguarda - in potenza - tutti e ciascuno. Il referendum ritorna così alle origini, quando interpellava gli elettori su un tema capitale, trasversale, presente nella società ma eluso o normato obtorto collo dal Parlamento: il divorzio, l’aborto, l’internamento per i malati mentali. Dalla vita delle persone al cuore della politica, ora non diversamente da allora. 2. Il successo della raccolta firme (che proseguirà fino al 30 settembre) attesta un fatto notorio: “Ben oltre la metà degli italiani, secondo ogni rilevazione statistica, è a favore dell’eutanasia legale, per poter scegliere, in determinate condizioni, una morte opportuna invece che imposta nella sofferenza”. È l’incipit della relazione alla proposta di legge d’iniziativa popolare in tema di “rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia”, depositata nel 2013 e mai discussa in Parlamento. Se così fosse, dovremmo allora trarne una conclusione: su quando e come morire, a decidere finora è stata una minoranza all’insegna dell’“io non voglio, dunque nessuno può”. Una logica, questa, che trasforma il peccato in reato battendo sul tavolo il pugno guantato dal codice Rocco del 1930. Il referendum costringerebbe alla conta, svelando l’arcano. Così, chi finora si è barricato dietro la prudenza parlamentare (“meglio non legiferare”) è costretto a cambiare strategia: “meglio non votare”. Nel 2005 fu vincente l’invito all’astensione, che impedì il raggiungimento del quorum di validità dei referendum in tema di procreazione assistita. Replicare sarebbe un azzardo perché, questa volta, il quesito sembra in grado di fare il pieno alle urne. Non resta, allora, che anticipare la strategia a quando la Corte costituzionale deciderà se voteremo o meno, convincendola a bocciare il referendum. 3. In questa cornice si collocano le dichiarazioni del Presidente emerito della Consulta, Giovanni Maria Flick (Avvenire, 21 agosto). Gli argomenti giuridici spesi meritano una replica, e non solo per l’autorevolezza dell’interlocutore. La ragione è di metodo: è solo nell’opposizione tra tesi diverse che avanza la conoscenza, purché razionalmente argomentate. Ben venga, dunque, la dialettica del dialogo, troppo spesso soppiantata dallo spettacolo delle chiacchiere (in inglese: talk show). 4. “Quesito sbagliato” è il titolo, sbagliato, della sua intervista. Un quesito referendario, infatti, non si può giudicare giusto o sbagliato, ma soltanto ammissibile o inammissibile. La Consulta a questo sarà chiamata, non a esaminare nel merito la normativa producibile dal referendum. L’art. 2 della legge costituzionale n.1 del 1953 è lapidaria: spetta alla Corte giudicare se il referendum richiesto sia ammissibile “ai sensi del comma secondo” dell’art. 75 Cost., che vieta l’abrogazione popolare di talune specifiche leggi. Nella contraddittoria giurisprudenza referendaria è certamente accaduto che sia stato anticipato, in sede di ammissibilità, un giudizio di legittimità sulla c.d. normativa di risulta, fino a bocciare il quesito perché possibile causa di una disciplina irragionevole. Sono precedenti costituzionalmente censurabili, per almeno tre ragioni: 1) confondono - fino all’impropria sovrapposizione - due giudizi che hanno ritmi, regole processuali, finalità differenti; 2) raccontano di un sindacato prematuro e astratto - quasi profetico - su una normativa che potrebbe anche non vedere mai la luce, quando invece il giudizio di legittimità non è a oggetto ipotetico, svolgendosi sempre su disposizioni già in vigore, valutate nel loro significato applicato; 3) espongono la Corte all’accusa di negare arbitrariamente il diritto di voto (referendario), indebolendo la propria legittimazione. La metamorfosi del sindacato sul referendum è una patologia del sistema, perché l’ordinamento non prevede un giudizio di costituzionalità preventivo. Farà bene allora la Consulta a tenere separati i due piani. 5. Sostiene Flick che, con la vittoria dei sì nel referendum, “in sostanza si finisce per punire l’aiuto al suicidio (“meno grave”) e non l’omicidio del consenziente (che è “più grave”)”. Sarebbe il caos normativo. La produzione continua di norme è sempre fonte di potenziali antinomie con quelle precedenti. L’ordinamento giuridico appresta strumenti per risolverle: l’interpretazione dei giudici; l’impugnazione della norma di dubbia costituzionalità; la sopravvenuta modifica legislativa. Rimedi che devono scattare nel momento applicativo della legge o alla luce di esso. Non prima, nella fase della produzione normativa (legislativa o referendaria). Lo stesso procedimento referendario (legge n. 352 del 1970) prevede possibili rimedi a un temuto caos normativo, prevenendolo. Riconosce al legislatore la possibilità di intervenire sulla legge oggetto del quesito “prima della data dello svolgimento del referendum” (art. 39). Consente al Capo dello Stato, su richiesta del Governo, di ritardare l’entrata in vigore dell’abrogazione referendaria “per un termine non superiore a 60 giorni” dalla pubblicazione dei suoi esiti (art. 37, comma 3), concedendo altro tempo per approvare una legge o decreto legge in materia. A rigore, dunque, l’argomento di Flick non gioca contro il referendum ma per una legge sull’eutanasia legale, sull’esempio di Belgio, Olanda e Spagna. 6. Infine, Flick è preoccupato di un referendum che, in buona misura, “depenalizza, diciamo pure liberalizza l’omicidio del consenziente”. Come la Corte costituzionale ha circoscritto l’applicazione dell’art. 580 c.p., così il referendum fa con l’art. 579 c.p. Il reato di omicidio del consenziente, infatti, sopravvivrà a sanzionare il fatto se commesso contro un soggetto vulnerabile: minore o infermo di mente o il cui consenso sia stato estorto o carpito con inganno. Quanto all’accertamento del “consenso”, varrà ciò che prevede la legge sulle disposizioni anticipate di trattamento. Né è da escludersi un’estensione per via interpretativa delle procedure di accertamento introdotte dalla sent. n. 242/2019 sul “caso Cappato”. Il suicidio è una libertà di fatto, non essendo punito nemmeno a titolo di reato tentato. Per alcuni, però, scegliere di morire con dignità è penalmente vietato: a loro non resta che un’eutanasia clandestina, se rifiutano l’accanimento terapeutico o la sedazione profonda. Il quesito, nella misura possibile per uno strumento abrogativo, ripristina un’eguaglianza negata. Legalizza una facoltà, rimessa alla libera scelta individuale. 7. In realtà - denuncia Flick - il referendum vuole “far valere una specifica visione della vita”, attraverso lo strumento penale. È vero. L’intento dei promotori è rovesciare il paradigma del codice Rocco: dall’indisponibilità del diritto alla vita al principio di autodeterminazione in ordine alle scelte di “fine vita”. Si può essere o meno d’accordo: deciderà il voto. Ma sono argomenti di politica del diritto, estranei al giudizio cui è chiamata la Corte costituzionale. Sarà, il suo, un tornante impegnativo. Ecco perché l’annuale seminario “preventivo” ferrarese (www.amicuscuriae.it), si titolerà “La via referendaria al fine vita. Ammissibilità e normativa di risulta del quesito sull’art. 579 c.p.”. L’appuntamento è per venerdì 26 novembre. Il Presidente Flick è fin da ora invitato. Intelligenza artificiale, siamo in una nuova fase evolutiva ma occorre studiarne i risvolti etici di Luigi Gallo* Il Fatto Quotidiano, 24 agosto 2021 Con l’agenda digitale abbiamo esteriorizzato la nostra memoria, la nostra capacità di astrazione per il calcolo e i ragionamenti mentali li abbiamo affidati ai pc; il pensiero è condizionato dalla velocità delle reazioni sui social, e ci ha ricondotto ad animali impulsivi, condizionati dalla scia, da perfetti follower nell’inseguire e reagire ai pensieri altrui che leggiamo in rete o che riceviamo sul nostro smartphone con la messaggistica digitale. C’è un “nuovo essere digitale”, un nuovo “modo di essere” dell’individuo che è già cibernetico, anche se per adesso la tecnologia è un’appendice esterna al nostro corpo, nel giro di 10 anni sarà dentro di noi. “Siamo in connessione perenne con tutto e più andremo avanti e più le realtà avanzate, digitali e immersive saranno diffuse intorno a noi e diventeranno abitudini del vivere quotidiano, come oggi lo è la nostra simbiosi con lo smartphone. Nel 2030 ci affideremo sempre più alle macchine, ai software, alle intelligenze artificiali. Nel 2030 saremo perennemente in connessione con tutto e avremo strumenti di realtà avanzate spingendoci al di là delle nostre capacità biologiche.” (Ricerca Cultura 2030, commissionata dal Movimento 5 Stelle a Domenico De Masi, che ho seguito e presentato alla Camera dei Deputati nel 2018.) Sconfiggere la noia, o quel vuoto che abbiamo dentro, sembra essere diventato la nostra unica preoccupazione e l’industria dell’intrattenimento, digitale, tecnologica è pervasiva e non ha bisogno del tuo spazio di riflessione, perché fermarsi non è produttivo, uccide il business, manda in crash il nostro modello economico fondato su consumismo ed estrazione infinita di materie prime, in un continuo affronto ai fragili equilibri naturali. L’ozio e la pausa diventano quindi sovversivi. L’ozio, le relazioni di affetto senza consumo, il dono e la cura non retribuita sottraggono dati alle intelligenze artificiali, clienti alle piattaforme digitali, profitti ai plurimiliardari padroni degli imperi digitali. È tuttavia vano pensare che l’avanzare dell’evoluzione tecnologica sia arrestabile, come non lo è stata la rivoluzione industriale che dalla metà del ‘700 non ha visto interruzioni né con il boicottaggio, né con il luddismo. Se la rivoluzione industriale è stata caratterizzata dall’avvento delle macchine e di nuove fonti di energie inanimate, appare chiaro che oggi siamo in una nuova fase evolutiva che ha nuove caratteristiche rivoluzionarie. Sono stati teorizzati e studiati i mutamenti in campo economico, tecnologico ed energetico con profonde analisi sulla società post-industriale, dell’informazione e della terza rivoluzione industriale postulata da studiosi e sociologi del calibro di Daniel Bell a Jeremy Rifkin. Gli elementi che oggi tuttavia sembrano essere quelli più dirompenti, capaci di avviare una nuova era con capovolgimenti degli schemi sociali, economici e politici esistenti, sono l’uso generalizzato delle intelligenze artificiali e la penetrazione della “cultura digitale” che parte dai nostri smartphone o pc, perennemente presente grazie alla rete. L’uso di queste tecnologie da parte delle più grosse aziende mondiali e degli uomini più ricchi del mondo sta determinando il nostro futuro in forma unilaterale e a velocità supersonica. Noi siamo diventati una risorsa da estrarre sotto forma di dati digitali, profili psicologici da sfruttare e manipolare, organismi bio-digitali da modellare. Il filosofo francese Pierre Levy ha teorizzato il concetto di intelligenza collettiva che è chiaro che potrà agire tanto in competizione quanto in cooperazione con l’intelligenza artificiale, purché esca dagli stati primordiali per prendere consapevolezza delle proprie potenzialità e distorsioni. Siamo nel pieno della società dell’intelligenza artificiale e dell’intelligenza collettiva gravemente inconsapevoli di tutto questo. Dobbiamo studiare i risvolti etici, come ha iniziato a fare l’Europa, con il libro bianco del 2019 e il nuovo regolamento e legge sull’intelligenza artificiale nel 2021, lo devono fare gli accademici, lo deve fare la politica, senza sconti, finte o scorciatoie. Attualmente è quasi tutto senza controllo. Serve un pacchetto di proposte legislative su Etica, Intelligenza Artificiale e Società digitale ed è già tardi. *Deputato M5S, già presidente Commissione Cultura L’Europa litiga sui migranti di Monica Perosino La Stampa, 24 agosto 2021 I Ventisette divisi sull’accoglienza. Austria e Ungheria: “Chiudere i confini”. La sfida di Gentiloni: “Non serve unanimità, sui rifugiati decide la maggioranza”. Non erano neanche atterrati i primi voli umanitari da Kabul che già nelle cancellerie europee si alzavano muri reali e metaforici per impedire a tutti i costi “un altro 2015”, l’anno in cui l’Unione fu costretta ad affrontare una crisi migratoria senza precedenti. Armin Laschet, che aspira a occupare il posto di Merkel dopo le elezioni del prossimo mese, lo ha detto chiaramente: “Il 2015 non deve ripetersi”. Oggi come allora le resistenze granitiche di singoli Paesi e le posizioni tiepide sull’accoglienza di altri pesano sulle decisioni dell’Europa. A scardinare lo stallo è arrivato il commissario Ue Paolo Gentiloni che dal meeting di Cl a Rimini ha detto che per accogliere i profughi dell’Afghanistan non serve che tutti i Paesi dell’Unione siano d’accordo: “L’Europa deve lavorare sull’accoglienza e sulle quote di immigrazione legale di rifugiati afghani e deve farlo anche togliendosi l’alibi della unanimità nelle decisioni”. Una bella sfida per quei Paesi, Ungheria e Polonia in testa, che da sempre contano sul difficile consenso sulle questioni più divisive. “Ci saranno sempre 4-6 Paesi contrari - ha aggiunto Gentiloni -, ma questo si può fare con quello che le regole europee definiscono cooperazione rafforzata, la protezione temporanea si decide a maggioranza e non all’unanimità. Orban e altri leader europei non saranno d’accordo”. Ecco, per l’appunto, Orban d’accordo non lo è affatto, lui che ieri ha ribadito: “Proteggeremo l’Ungheria dalla crisi dei migranti”. Secondo il premier ungherese occorre evitare che i profughi lascino la regione (“Mandiamo assistenza lì, non portiamo problemi qui”,) ed è necessario “sostenere la Turchia - che avrà un ruolo “chiave” - per evitare l’ingresso dei migranti nell’Ue”. Dal canto suo, Ankara, che ha appena completato il muro di 295 chilometri al confine con l’Iran, non intende farsi carico di un’eventuale ondata di migranti dall’Afghanistan: “Non saremo il deposito dell’Ue per i rifugiati”. Capitolo chiuso, apparentemente. Sulla stessa linea di Orban anche il cancelliere austriaco Kurz, che rievoca il 2015 (“Non ripetere gli stessi errori”) e chiude le porte ad “altri profughi”: “Devono essere aiutati dagli Stati vicini”. Il muro di Orban e Kurz si trascina dietro i Paesi sulla rotta balcanica, come la Croazia, che non cessa di respingere le famiglie afghane ammassate da mesi ai suoi confini, e la Slovenia, che continua con i proclami del premier Jansa (“Nessun corridoio per i migranti”). Nel disordine generale Estonia, Lituania, Lettonia e Polonia chiedono all’Onu di agire contro il regime di Minsk, accusato di incoraggiare i migranti afghani a violare i confini per entrare nell’Ue, come ritorsione per le sanzioni inflitte sulla Bielorussia. Intanto Varsavia si porta avanti e inizia a costruire un muro al confine “contro i terroristi”. Dall’altra parte, scottati dalle politiche d’accoglienza del passato, Germania e Francia, per ora oppongono una flebile “cautela”. La caduta dell’Afghanistan ha costretto migliaia di persone a fuggire dal Paese, ma ha anche terrorizzato i politici europei che temono che l’arrivo di nuovi migranti alimenterà le braci di quei movimenti di estrema destra e populisti anti-immigrazione che hanno rimodellato la politica dopo il 2015. Nessuno però, parla ancora di numeri: quel che pare certo è che il flusso migratorio sia destinato a crescere, anche se gli esperti non sanno in che misura, sebbene paia probabile che la gran parte degli sfollati si fermeranno nei Paesi vicini. In ogni caso, se emergenza sarà, non la vedremo prima di un anno, il tempo che ci metteranno gli afghani in fuga a coprire via terra la terribile rotta balcanica. L’Unhcr afferma che oltre 550.000 afgani hanno perso la loro casa da gennaio, oltre ai 3 milioni di persone che erano già sfollate all’inizio dell’anno. La maggior parte di questi, circa 300.000, ha lasciato le proprie case dopo l’offensiva taleban, ma finora non c’è stato un esodo di massa dal Paese, anche perché gli islamisti e il Pakistan hanno sigillato i confini. Per la protezione temporanea non serve l’unanimità di Filippo Miraglia Il Manifesto, 24 agosto 2021 La Direttiva del 2001. Il numero minimo per l’Ue dovrebbe essere 250 mila persone da accogliere nel territorio dei 27 Paesi, considerando la gravità della crisi e quanto già oggi afghani e altri gruppi obbligati a lasciare le loro case pesino sul resto del mondo e non sull’Europa, che fa di tutto per impedire a rifugiati, profughi e sfollati di arrivare alle nostre frontiere per esercitare il diritto di asilo. Dopo anni di scelte sbagliate, in linea con i governi sovranisti e le destre xenofobe, l’accoglienza dei profughi afghani potrebbe essere l’occasione per l’Ue, per le forze democratiche europee, per un cambio di direzione. L’occasione giusta per imboccare una strada coerente con la Carta Europea dei Diritti e con le convenzioni internazionali. Le dichiarazioni di Di Maio sull’impegno italiano a mettere in salvo 2500 afgani sono imbarazzanti, se pensiamo alla dimensione della crisi e alle nostre responsabilità. Il premier canadese, per citarne uno, ha dichiarato subito che il suo Paese è pronto ad ospitarne 20 mila. Il Canada ha poco più della metà della popolazione italiana. L’Italia e l’Ue dovrebbero per lo meno impegnarsi in uno sforzo paragonabile a quello del Paese del nord America. Il numero minimo per l’Ue dovrebbe essere 250 mila persone da accogliere nel territorio dei 27 Paesi, considerando la gravità della crisi e quanto già oggi afghani e altri gruppi obbligati a lasciare le loro case pesino sul resto del mondo e non sull’Europa, che fa di tutto per impedire a rifugiati, profughi e sfollati di arrivare alle nostre frontiere per esercitare il diritto di asilo. 250 mila persone da evacuare (meglio non usare la formula dei corridoi umanitari, come è già stato scritto sul manifesto, attivati volontariamente da organizzazioni religiose, per non ingenerare confusione sulla responsabilità di accogliere, che deve essere degli Stati) in sicurezza, con l’obiettivo di metterne in salvo anche molte di più se sarà necessario, senza aspettare che i sentimenti di preoccupazione e solidarietà svaniscano, per poter così uscirne con poco o nessun impegno concreto, come sembrano voler fare molti dei leader dei partiti e dei governi europei. Ci vogliono atti concreti e non parole vuote o dichiarazioni di principio, né tanto meno la riproposizione cinica, come nel caso del capo della diplomazia europea Borrell, che dobbiamo fermarli prima che arrivino alle nostre frontiere e scaricarli sui Paesi limitrofi, per accogliere al massimo i collaboratori dei vari paesi. Lo strumento per intervenire c’è ed è la Direttiva europea n.55/2001 sulla protezione temporanea. Uno strumento legislativo che può essere attivato a maggioranza e non necessita dell’unanimità (quindi i governi contrari, i sovranisti e i loro amici, potranno farsene una ragione), ma di coraggio e intelligenza politica. La Direttiva parla di afflusso massiccio o di imminente afflusso massiccio (parla di persone che sono state evacuate, quindi prevede il sistema dell’evacuazione), e ha l’obiettivo di concedere la protezione temporanea ai profughi e di promuovere l’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri. La Direttiva prevede altresì una copertura finanziaria dell’Ue e una stretta collaborazione con Unhcr. Si può realizzare quindi una operazione di evacuazione europea, con risorse comunitarie e un piano di ripartizione adottato congiuntamente dagli Stati membri. Se si vuole davvero fare qualcosa di concreto, e farlo come Unione europea, per evitare che le persone in fuga dai talebani si mettano nelle mani dei trafficanti e rischino a vita (o per lo meno per tentare di ridurre il danno), la Direttiva andrebbe attivata con urgenza: sarebbe la prima volta e darebbe davvero un bel segnale, anche se dubitiamo che i governi europei saranno in grado di fare scelte giuste e lungimiranti. Il Patto europeo su Immigrazione e Asilo va esattamente nella direzione opposta. Il rischio concreto è che si perseguano le politiche e gli obiettivi delle destre, esprimendo grande solidarietà verso le donne e condanna contro i talebani, ma poi adoperandosi concretamente affinché quelle donne, insieme a uomini e bambini, restino dove sono a subire violenze e a vedere calpestata la loro dignità o che, se va bene, riescano a trovare asilo nel vicino Iran o in Pakistan. Le forze politiche e l’Ue devono decidere da che parte stare. La crisi afghana è l’occasione giusta per farlo. Si deve trattare con i malvagi? di Agnese Moro La Stampa, 24 agosto 2021 Caro direttore, l’uso della a parola “dialogo”, riferita alle relazioni che devono e che dovranno intercorrere tra le altre nazioni e i Talebani, ha creato in questi giorni un vivace dibattito in cui non sono mancate posizioni favorevoli a questa ipotesi, ma anche molte nettamente contrarie. Una simile contrarietà mi sembra preoccupante. Il dialogo, infatti, è lo strumento principe della politica, anche nella sua forma di diplomazia, e rifiutarlo significa dire che la politica è inutile nelle situazioni complesse e di crisi. Forse potrebbe essere utile chiarire che dialogo non è sinonimo di arrendevolezza, sottomissione, compiacenza, approvazione. Non è nemmeno sinonimo di riconoscimento politico. Non è una strizzatina d’occhio, né una svendita di valori o una forma di vigliaccheria. È piuttosto la scelta di una via possibile per chiedere, per ascoltare, per conoscere e farsi conoscere, per capire e farsi capire. Dialogare implica - da entrambe le parti - un po’ di riconoscimento di una comune umanità (con tutta la complicazione e la contraddittorietà che questo termine implica), e quindi di un minimo di terreno comune sul quale poter costruire. Altrimenti, come ottenere corridoi umanitari, possibilità sicura di arrivare all’aeroporto, di lasciare il Paese se lo si desidera? L’alternativa quale sarebbe? Armare ancora una volta gli oppositori del regime come è stato fatto a suo tempo con Bin Laden, e in molte altre occasioni, con tutte le conseguenze del caso? A favore della necessità del dialogo si incontrano motivazioni di cultura democratica e umanistica, tanto care a noi occidentali, e ragioni di realismo e prudenza, necessarie in qualsiasi relazione diplomatica e civile. Ragioni, entrambe, che non vengono offuscate se l’interlocutore è lontano da noi culturalmente, crudele, difficile. Anzi. Bisogna almeno provare, e con estrema tenacia e convinzione. Non posso nascondere che mi accompagna il dubbio che il rifiuto del dialogo, così irragionevole e privo di alternative come è stato posto in questi giorni, copra altre motivazioni. Come potrei dimenticare le reali intenzioni - e le loro drammatiche conseguenze per la mia famiglia e per il Paese - di chi durante il sequestro di mio padre Aldo difese strenuamente, e altrettanto irragionevolmente, la tesi che non si dovesse trattare con i terroristi? Mi chiedo se il rifiuto del dialogo con i Talebani sia dettato solo dall’indignazione - da tutti noi condivisa - per il loro comportamento, o anche dal timore che dialoghi efficaci portino ad aprire davvero una strada per portare qui tanti profughi, vittime possibili o certe del regime. Vite forse che possono essere perse pur di non scomodarci? Afghanistan, Draghi frena Salvini: sui rifugiati l’Italia parli con una sola voce di Concetto Vecchio La Repubblica, 24 agosto 2021 Una telefonata e un colloquio tra il premier e il leghista. Ma la giornata finisce con un nuovo attacco a Lamorgese. La giornata di Matteo Salvini è iniziata e finita allo stesso modo: con un attacco alla ministra degli Interni Luciana Lamorgese. Nel mezzo c’è stato l’incontro con il premier Mario Draghi, non felicissimo per questi continui cannoneggiamenti proprio nel momento in cui Palazzo Chigi chiede unità d’intenti sui rifugiati afghani. Salvini sa benissimo che la ministra è blindata, e infatti assicura di non avere chiesto rimpasti, e che la mozione di sfiducia annunciata da Giorgia Meloni dalle colonne de La Verità (“la vicenda di Viterbo grida vendetta davantia Dio!”, ha detto la leader di Fdi) non ha alcuna possibilità di successo. Eppure insiste, nella sua campagna, proprio per non lasciare troppo campo alla sua rivale nel centrodestra. È difficile ipotizzare una fine delle ostilità. Lo si è capito ieri. Non erano ancora le nove del mattino quando Salvini ha dichiarato: “Rave party, baby gang che terrorizzano la riviera romagnola e oggi una nave con bandiera norvegese lascerà 322 immigrati in Italia. Lamorgese dove sei?”. Poi ha incontrato l’ambasciatore dell’Afghanistan, Khaled Ahmad Zekriya e quello del Pakistan, Jauhar Saleem, quest’ultimo è stato invitato a partecipare al G20. E mentre era a una manifestazione elettorale è stato raggiunto dalla telefonata del premier che lo invitava a prendere un caffè a palazzo Chigi. Chiacchierata di mezz’ora. Draghi ha invocato una maggiore sobrietà e gli ha spiegato che il governo si batterà per i corridoi umanitari: rappresentano una priorità e l’Italia dovrà parlare con una voce sola. Ora Salvini ripete da giorni che il Paese non può diventare un campo profughi (“non hanno il Green pass e nemmeno il vaccino!”), riecheggiando le parole del premier sloveno Janez Jansa, l’attuale presidente di turno dell’Unione europea, che ha espresso la sua contrarietà alla creazione di corridoi umanitari per i profughi che stanno scappando dall’Afghanistan. La posizione di Jansa è quella di Fratelli d’Italia. Nella moral suasion alla moderazione sui rifugiati c’è quindi implicita anche la raccomandazione a non calcare la mano sulla titolare del Viminale, che finora sugli sbarchi ha condiviso le decisioni col premier. Salvini si è detto preoccupato per le potenziali ricadute che la presa di Kabul avrà sul nostro Paese. Teme un’ondata di profughi. E infatti alle 17, a Città di Castello, dove ha presentato il candidato sindaco, è tornato a tuonare: “Il ministro dell’Interno non sta svolgendo il suo ruolo e a dirlo sono i numeri. Siamo a quasi 40mila sbarchi: mi domando come il ministro passi le sue giornate”. La Lega le chiederà di riferire in Parlamento: “Se un altro ministro europeo avesse permesso di svolgere un rave party abusivo con migliaia di persone, con droga, morti e feriti per sei giorni nel cuore dell’Italia, non sarebbe più al suo posto”. Nel faccia a faccia non si sarebbe affrontato il caso Durigon, il sottosegretario leghista all’Economia che vorrebbe intitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini, il fratello del Duce. Una vicenda che ha avuto echi sulla stampa straniera. “Non credo che Draghi sia interessato ai nomi dei parchi”, si è mostrato spavaldo il capo della Lega. Più il tempo passa e più Durigon si rafforza. Salvini per il resto ha promesso a Draghi il massimo sostegno a realizzare “le riforme utili all’Italia”: giustizia, taglio della burocrazia, delle tasse, codice degli appalti e la riforma pensionistica, che immagina “non penalizzante”. Il 31 dicembre scade quota 100, e alla nuova legge sta lavorando anche il sottosegretario Durigon. E poi “ci sono da sbloccare 60milioni di cartelle di Equitalia”. Il capo della Lega, preoccupato dagli incendi, ha proposto una modifica per consentire l’immediata messa a dimora di nuove piante sui terreni bruciati e ha contestato la fusione tra carabinieri e corpo forestale, “fatta dal governo Renzi”. Ma è sull’immigrazione che vengono i pericoli più insidiosi per palazzo Chigi, con un Salvini, preoccupato dall’ascesa di Giorgia Meloni, eternamente di lotta e di governo. Afghanistan. Sui corridoi umanitari manca ancora una posizione chiara di Francesca De Benedetti Il Domani, 24 agosto 2021 Questa non è certo la prima volta che il premier sloveno mette in imbarazzo l’Europa. Per dirne una, Janez Jansa è stato praticamente l’unico dei leader dell’Unione a twittare che era il suo amico Donald Trump, il vero vincente alle ultime elezioni Usa: “Più si insiste a voler ritardare o negare l’assegnazione della vittoria a lui, più ne esce forte”. Stavolta però lo scivolone è più pericoloso, per l’Unione europea. Jansa ha la presidenza di turno e si arroga ora il diritto di negare accoglienza agli afghani a nome dell’Europa tutta. Per usare le sue parole: “L’Ue non aprirà nessun corridoio umanitario né canali migratori, per l’Afghanistan. Non permetteremo che si ripeta l’errore strategico del 2015. Offriremo aiuto solo a chi a sua volta ce l’ha dato durante l’intervento Nato, e agli stati membri che proteggono la nostra frontiera esterna”. Il motivo per cui questa uscita di Jansa suscita disagio non è tanto e solo perché trae conclusioni che l’Ue formalmente non ha ancora tratto, ma anche perché scopre le carte: è vero che questa è la posizione dei governi? Chi si oppone ai corridoi umanitari? “Presidente Jansa, questa posizione contro i corridoi umanitari dove è stata discussa e decisa? Lei non ha titolo a parlare a nome dell’Ue senza mandato”, ha reagito sùbito dal gruppo socialdemocratico Brando Benifei, che è il capodelegazione Pd all’Europarlamento e che assieme ai colleghi già una settimana fa ha chiesto formalmente a Charles Michel, Ursula von der Leyen e Joseph Borrell l’apertura dei corridoi e un Consiglio europeo straordinario sul tema. Anche il commissario Paolo Gentiloni aveva da sùbito preso posizione per i corridoi. Dopo l’uscita di Jansa, il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli, ha ribadito a nome degli eletti europei che “non sta alla presidenza slovena decidere la linea, ci si confronti nelle istituzioni Ue, certo è che abbiamo bisogno di solidarietà”. Risposta del premier sloveno: “Sta agli stati membri decidere se vogliono un’altra ondata migratoria oppure no. Al momento questa ipotesi non ha consenso”. Quando ha assunto la presidenza di turno, Jansa è stato oggetto di critiche da parte degli eurodeputati per due motivi: che sotto la sua guida la Slovenia non brilla sul versante dello stato di diritto, e che il premier sloveno emula, spalleggia e viene supportato dal suo omologo ungherese Viktor Orbán. Le parole anti-accoglienza pronunciate ieri rispecchiano senz’altro la posizione dell’Ungheria, che rispetto agli altri stati membri si è distinta da subito: non ha neppure sottoscritto la prima dichiarazione di supporto alla popolazione promossa dall’alto rappresentante Borrell. Sempre a est, Polonia e paesi baltici stanno innalzando muri per evitare gli arrivi dal confine con la Bielorussia. La stessa linea di chiusura è condivisa dalla mitteleuropea Vienna, che è governata da Sebastian Kurz, il cancelliere che ha già trasformato le pulsioni anti-migratorie in capitale politico. “Accettare volontariamente altra gente? Non accadrà certo durante il mio mandato”, le sue parole di adesso. Ma anche senza sconfinare a est o tra i più irriducibili avversari dell’accoglienza, stavolta anche Francia e Germania puntano più all’esternalizzazione dei rifugiati in Turchia, Iran e Pakistan; e l’Italia all’ultimo consiglio Ue ha supportato questo scenario. Che prende forma: mentre Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, ne discute con il presidente turco Erdogan, l’alto rappresentante Borrell intrattiene telefonate con il governo pachistano. L’uscita di Jansa costringe i governi europei a venire allo scoperto. “Serve un dibattito, per ora ci sono state solo parole a metà, mi aspetto un Consiglio europeo in tempi rapidi”, dice Benifei, che pretende anche “che Jansa venga a riferire all’Europarlamento” ed è certo che alla plenaria di settembre i deputati prenderanno posizione sui corridoi. Ikram Nazih è libera: il Marocco riduce la pena di Chiara Cruciati Il Manifesto, 24 agosto 2021 Ridotta a due mesi la condanna per “blasfemia”: la 23enne italo-marocchina è stata rilasciata ieri dopo un lungo lavoro diplomatico di Roma. Era stata condannata per una vignetta considerata offensiva della religione. Ikram Nazih è libera: ieri l’udienza di appello si è conclusa con un mezzo ribaltamento della sentenza di primo grado. Alla fine di giugno la giovane italo-marocchina, 23 anni, nata a Vimercate, era stata condannata a tre anni di prigione e al pagamento di una multa di 50mila dirham, poco meno di 5mila euro. La sua colpa: nel 2019 aveva pubblicato sui social una vignetta che definiva un passaggio del Corano, la sura 108 (nota come sura dell’Abbondanza), come “versetto del whiskey”. Post poi cancellato, dopo gli attacchi ricevuti da un’associazione religiosa. Era stata per questo condannata per blasfemia da una corte di Marrakesh, poco dopo essere tornata da Marsiglia (dove studia) nel paese di origine, a Casablanca, per la festa del Sacrificio. Secondo le ricostruzioni, a portare all’apertura delle indagini era stata proprio la segnalazione dell’associazione religiosa che aveva tacciato il comportamento di Nazih come insulto alla religione. L’ultimo mese ha visto una mobilitazione importante del governo italiano. Il sottosegretario agli esteri Enzo Amendola è volato in Marocco dove, insieme all’ambasciata e al consolato italiano, ha dato il via a un lungo lavoro diplomatico, accompagnato da incontri con il team della difesa di Nazih e con la stessa Ikram, in cella. Un lavoro che ieri ha portato a una risoluzione: come ci spiegano fonti della Farnesina, l’udienza iniziata ieri in tarda mattinata si è conclusa, dopo qualche ora di camera di consiglio, con la riduzione drastica della pena. Da tre anni a due mesi di reclusione e la cancellazione della multa. A condurre alla sentenza è stata anche l’assunzione di colpa della giovane che si è definita colpevole del reato di blasfemia, di cui - ha detto - non conosceva i termini legali marocchini. Una vittoria a metà, dunque, ma che ha comunque condotto al rilascio di Nazih (i due mesi di prigione sono stati di fatto già scontati). Ad attenderla fuori dal carcere di Rabat, c’era il padre, che la riaccompagnerà in Italia. Si congratula la politica, con messaggi bipartisan dal Partito democratico alla Lega a Forza Italia. Commenta anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “Assieme abbiamo seguito la vicenda dal primo momento, avendo a cuore unicamente il benessere della nostra connazionale, nel pieno rispetto del lavoro delle istituzioni e della giustizia marocchine”, ha detto il ministro. E adesso lavoriamo per Zaki di Luigi Manconi La Stampa, 24 agosto 2021 Quella della liberazione di Ikram Nazih è una gran bella notizia. Una giovane donna, titolare di doppia cittadinanza (italiana e marocchina), nata a Vimercate ventitré anni fa, ha potuto lasciare la cella del carcere di Marrakech dove era reclusa dal 20 giugno scorso a seguito di una condanna per blasfemia. La colpa di Ikram sarebbe stata quella di aver condiviso su Facebook, nel 2019, una vignetta satirica su una sura del Corano. Una ironia talmente innocua e, direi, innocente da apparire quasi infantile. Ciononostante, denunciata da un’associazione religiosa, Ikram, appena arrivata all’aeroporto di Casablanca per visitare i parenti, è stata arrestata, processata e condannata a tre anni e sei mesi. Per ottenere la sua liberazione, il Ministero degli Esteri italiano ha operato con tempestività e determinazione. Oggi, dunque, possiamo festeggiare questo successo, che resta, tuttavia, gravemente offuscato da quanto accaduto appena ventiquattr’ore prima in un tribunale egiziano. Qui, Patrick Zaki, in carcere da un anno e mezzo per accuse fantasiose e mai documentate, ha visto rinnovare, ancora una volta, il dispositivo della custodia cautelare. Un ennesimo rinvio del dibattimento in spregio di tutte le procedure e le garanzie proprie di un equo processo. Va da sé: quello dell’Egitto e quello del Marocco sono due regimi assai differenti sotto molti profili: e, tuttavia, resta la sensazione di un atteggiamento immobilista del governo italiano nei confronti del sistema dispotico di al-Sisi. Nel caso di Zaki sembra prevalere una sorta di fatalismo: il collegamento difficilmente decifrabile - ma così pesantemente avvertibile - con il processo in Italia contro i presunti mandanti ed esecutori dell’omicidio di Giulio Regeni sembra intralciare e impastoiare i movimenti della Farnesina. È come se risultasse ancora più accentuato quel “complesso di inferiorità” che ha segnato, in questi anni, le complesse relazioni tra i governi italiani e il regime egiziano. Andrebbe raccolto, piuttosto, l’invito a di Amnesty International a “fare finalmente tutte le pressioni necessarie” a favore di questo trentenne egiziano, cristiano copto, per il quale il Parlamento italiano, a stragrande maggioranza, ha richiesto la concessione della cittadinanza. Motivatamente, considerato che Zaki è già profondamente “italiano”: un vero cittadino europeo per la cultura espressa, per i valori di riferimento, per le aspirazioni coltivate e le aspettative nutrite. Diversa è la vicenda di Ikram. Questo giornale si è battuto, dal primo giorno, per ottenere la sua liberazione, criticando il silenzio che circondava la vicenda. Il rischio, in altre parole, è che si diffonda un atteggiamento di assuefazione, che dia per scontata - o comunque inevitabile - la violazione dei diritti umani fondamentali. E che ritenga la prigionia come un esito possibile e un effetto collaterale della libera circolazione delle persone, anche tra stati con i quali intercorrono ordinarie relazioni politico-diplomatiche (è il caso del Marocco). Sullo sfondo, fa capolino un pregiudizio assai insidioso: quello del relativismo etico. Ovvero, l’idea che la piena libertà di pensiero e di espressione, irrinunciabile risorsa delle democrazie, debba ritrarsi e cedere il passo quando si misura con altre culture, altre confessioni religiose, altri ordinamenti giuridici. Insomma, la giovane Ikram, libera in Italia di esprimere qualsiasi opinione, avrebbe dovuto astenersi da quel commento ironico e da quella giocosa tentazione, così occidentale, di “scherzare con i santi”. Si sarebbe dovuta guardare, cioè, dall’irritare la sensibilità di quell’altra parte di sé a cui rimanda la cittadinanza marocchina. Ma una libertà dimezzata non è libertà. Un mese dopo la Tunisia è senza democrazia di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 24 agosto 2021 Il 25 agosto terminano i 30 giorni di “congelamento” delle istituzioni ordinati dal presidente Saied. Ma una via d’uscita non c’è ancora. Hamma Hammami al manifesto: “Non è cambiato nulla, serve una seconda rivoluzione”. 0,69 per cento. Fedele alla linea di una sinistra divisa e frammentata anche in Tunisia, Hamma Hammami ha sempre la risposta pronta e lo sguardo lucido, anche quando si tratta di commentare la bruciante sconfitta elettorale del 2019: “Dopo il 25 luglio però i sondaggi ci danno in crescita”, afferma sorridendo. Una storia militante che inizia negli anni 70, fatta di arresti, torture e pestaggi da parte della polizia sotto i regimi di Habib Bourguiba e Ben Ali, il segretario del Partito dei lavoratori da cinquant’anni è ancora uno dei volti più riconoscibili del paese. Lui, come la moglie Radhia Nasraoui, avvocata e militante per i diritti dell’uomo, una delle figure che più si è battuta contro l’uso sistemico della tortura. Una famiglia di lotta e (quasi) di governo. “Sono stato arrestato più volte, questo mi aiuta a comprendere la situazione oggi - commenta Hammami nel suo studio al quartiere generale del partito nel centro di Tunisi, lontano per un momento dal caldo torrido della città - Siamo passati da più esperienze, non posso sbagliarmi. Nel 1987 tutto il mondo era con Ben Ali. Tranne noi comunisti, eravamo clandestini, ci dicevano che eravamo pazzi, che Ben Ali era per la democrazia ma noi ripetevamo che dovevamo fare attenzione, dovevamo fare un’analisi di classe”. La classe. Una parola che ritorna spesso nei discorsi di Hamma Hammami quando affronta quello che è successo in Tunisia un mese fa. Il 25 luglio scorso il presidente della Repubblica Kais Saied, dopo diverse manifestazioni in tutto il paese contro il governo e il partito di maggioranza Ennahda, ha decretato lo “stato di pericolo imminente” applicando l’articolo 80 della costituzione. Questo ha portato il responsabile di Cartagine a sospendere il parlamento, sciogliere il governo, togliere l’immunità ai deputati e conferirsi pieni poteri esecutivi, legislativi e giudiziari per almeno 30 giorni. Una mossa giustificata da una crisi politica, economica, sociale e sanitaria che da mesi attanaglia il paese. La clessidra dei 30 giorni scade domani. Intanto, mentre a Tunisi si è registrata la temperatura più alta di sempre con 49 gradi, l’organo istituzionale che dovrebbe decretare la fine dello stato d’eccezione (la corte costituzionale) non esiste e Saied ha affrontato questo periodo arrestando deputati, giudici e uomini d’affari legati a casi di corruzione, il dossier più caro al presidente; ha promesso la nomina di un governo mai arrivato; ha fatto evacuare i locali dell’Istanza nazionale di lotta contro la corruzione, presidiata adesso 24 ore su 24 dalla polizia, e ha affidato all’esercito la campagna vaccinale dove, in due giorni di porte aperte, sono state somministrate più di un milione di dosi ai giovani. Le organizzazioni della società civile hanno reagito facendo appello a un foglio programmatico chiaro e a un ritorno celere al percorso democratico. Il sindacato più importante, l’Ugtt, ha dato un appoggio condizionato dopo aver tentato nei mesi scorsi, invano, di convocare un dialogo nazionale per uscire dalla crisi. Ennahda, il movimento di ispirazione islamica e il più colpito dalla decisione presidenziale, attraverso il suo leader Rached Ghannouchi ha prima fatto appello a un golpe per poi aspettare le mosse di Saied. Chi fin da subito ha condannato l’azione del presidente è stato Hammami: “La prima volta che ho detto che eravamo vicini a un colpo di forza è stato il primo maggio. Saied si è appoggiato sull’esercito e sull’apparato securitario e non ha applicato il contenuto dell’art. 80. Non lo si attua in questo modo, è andato contro le conquiste democratiche di questo paese presenti nella costituzione del 2014 unendo tutti i poteri”. Esporsi pubblicamente significa entrare a gamba tesa in un dibattito estremamente polarizzato e scivoloso. Hammami però non ha dubbi: “Ennahda è il primo responsabile di questa situazione ma Saied non è la soluzione. Noi siamo marxisti e sappiamo che è la classe che governa, i partiti politici sono i servitori. Il presidente non ha colpito i grandi interessi. Neanche a livello della corruzione, non li ha toccati. Serve un cambiamento radicale, economico e sociale: serve una seconda rivoluzione”. Prima di congedarsi dal suo ufficio, il segretario del partito che nacque in clandestinità nel 1986 ci tiene a mostrare un vecchio foglio di giornale: “L’11 novembre 1987, quattro giorni dopo il colpo di Stato, l’87% della popolazione era con Ben Ali - sorride - Oggi l’87% dei tunisini sembra essere con Saied. Quello che fa ridere è che le persone sostenevano Ben Ali perché credevamo di passare a una democrazia. Oggi le persone applaudono Saied perché vogliono passare da una democrazia corrotta a un regime presidenziale, forte, repressivo e autoritario. Questa è la storia”. Sahel, i lutti senza fine e quello più tragico decretato dalle parole di Mauro Armanino* Il Fatto Quotidiano, 24 agosto 2021 Il mestiere più pericoloso nel Sahel adesso è quello del contadino. La strategia dei Gruppi Armati Terroristi li ha infatti presi come fin troppo facile bersaglio. Chini sulla terra da coltivare sono uccisi da uomini armati che arrivano all’improvviso, il mattino o il pomeriggio, sicuri di trovarli al lavoro. I militari sono l’altro bersaglio dei Gruppi Armati, quando pattugliano oppure sono di scorta ai civili com’è accaduto recentemente nel Burkina Faso. Si chiama la zona delle “tre frontiere”, quelle del Mali, del Niger e del citato Burkina Faso che si trova, suo malgrado, a essere una delle regioni più pericolose al mondo. Dall’inizio dell’anno i morti nel Sahel si contano ormai a centinaia. I massacri sono opera dei terroristi, banditi armati e sedicenti jihadisti, ma anche delle Forze di Difesa e di Sicurezza, oltre che dei gruppi di “autodifesa” o suppletivi. Questi ultimi si sono costituiti in seguito all’evidente incapacità delle forze armate di difendere i contadini dei villaggi nella regione. Formati e armati in modo sommario si aggregano spesso secondo appartenenze etniche e ciò li rende vulnerabili agli attacchi dei gruppi armati. I lutti sono anche per loro. Il Burkina Faso ha iniziato giovedì un lutto nazionale di tre giorni, in seguito all’attacco jihadista che ha ucciso 65 civili, 15 gendarmi e 6 suppletivi delle forze armate del Burkina. Secondo alcuni specialisti, i gruppi armati attaccano con più frequenza i convogli misti, con lo scopo di controllare questa parte del Paese. Il governo nigerino, da parte sua, lo scorso martedì ha decretato un lutto nazionale di 48 ore, in seguito all’attacco condotto lunedì da uomini armati non identificati, uccidendo 37 civili. Il lunedì 16 agosto l’attacco è stato perpetrato nei campi del villaggio. Tra questi si contano 13 minori e 4 donne. Il mese scorso lo stesso villaggio aveva subito un attacco simile. Uomini armati non identificati avevano ucciso 16 contadini che lavoravano nei loro campi. Questa zona si trova al confine col Mali e subisce attacchi armati fin dal 2017. Quindici soldati di questo paese sono stai uccisi durante un agguato imputato ai jihadisti il giovedì 19 agosto nel centro del Paese. Oltre une ventina sono stati feriti e condotti all’ospedale per cure. Un lutto nazionale di 72 ore è stato decretato dal presidente della Transizione del Mali, Assimi Goita, per rendere omaggio alle vittime degli attacchi concertati in quattro villaggi nel nord del paese, nella notte da domenica a lunedì. Il presidente ha affermato che le forze armate del Mali faranno il possibile per ricercare e “neutralizzare” gli autori di questa barbarie e chiede al popolo di rimanere unito e determinato in questa prova in vista di continuare la lotta contro il terrorismo. Chi parla è colui che ha guidato l’ultimo colpo di stato nel Mali l’anno scorso. Da allora le cose non sono migliorate e le speranze riposte nella giunta militare si stanno gradualmente sfaldando. I giorni di lutto proclamato nel Sahel hanno ancora un bel futuro. Un lutto nazionale di tre giorni è stato decretato per i soldati del Chad uccisi da Boko Haram, gruppo che a sua volta avrebbe perso un centinaio di combattenti. Nell’isola dell’omonimo lago le unità di Forza e Difesa citate erano state inviate per proteggere la popolazione. Neppure gli operatori umanitari sono risparmiati. Sui 35 umanitari uccisi dall’inizio dell’anno, 11 sono morti nel Sudan del Sud, 9 nella Repubblica Democratica del Congo e 2 in Centrafrica. La maggior parte delle vittime sono lavoratori locali e i loro nomi saranno presto dimenticati. Proprio come quelli dei contadini, dei soldati e delle migliaia di donne e bambini costretti a fuggire per sopravvivere al prossimo lutto decretato dai governi dei Paesi del Sahel. Il primo lutto è quello della politica che, per la sua assenza o per avidità di potere, ha tradito se stessa col popolo che dopo sessant’anni d’indipendenza merita di più che dichiarazioni di lutti. L’altro lutto è quello di ideologie che hanno preso Dio in ostaggio e, profittando del vuoto della giustizia sociale colmato da radicalismi salafiti, crea e giustifica nel Suo nome i delitti più efferati. Il lutto più tragico, infine, è quello decretato dalle parole, perché tutto parte e si radica nella menzogna che altro non è che uno stupro perpetrato su di loro. I lutti si trasformeranno in gioia solo quando le parole risorgeranno dalle tombe e danzeranno coi bambini vestiti di festa. *Missionario, dottore in antropologia culturale ed etnologia