Riforma Cartabia, i silenzi su organico e standard di rendimento dei giudici di Eduardo Savarese Il Riformista, 23 agosto 2021 Agli accesi confronti sulla giustizia penale che hanno animato le ultime settimane, accompagnando il testo della riforma voluta dal Governo all’esame del Senato, non seguiranno dibattiti dall’afflato analogo per la giustizia civile. Mi auguro di essere smentito, ma temo che la cosa resterà molto più nelle retrovie degli addetti ai lavori, quando invece essa dovrebbe essere oggetto di un dibattito vasto e democratico dell’intera società civile. Per almeno due ragioni: perché le controversie non di natura penale riguardano da vicino le persone e la loro quotidianità ordinaria; perché sulla riduzione dei tempi del processo civile si gioca l’accesso a importanti risorse finanziarie. Nella relazione illustrativa redatta dalla Commissione presieduta dal professore Francesco Paolo Luiso e diretta alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, si pone l’attenzione su tre pilastri essenziali: l’incentivazione dei meccanismi di soluzione delle liti alternativi al processo statuale; la previsione di una disciplina organica dell’ufficio per il processo; la riduzione dei tempi della giustizia civile attraverso l’introduzione di modifiche processuali. Mi soffermerò su quest’ultimo aspetto, lasciando ad altri il compito di approfondire gli altri due. Una premessa ironica sarà utile: sono in magistratura dal 2004 e già dopo pochi anni di funzione ho imparato a riconoscere, nei colleghi, negli amici accademici e negli avvocati, uno sguardo perso tra terrore, angoscia e sarcasmo ogni volta che il legislatore introduceva l’ennesimo ritocco alle regole processuali con la motivazione di accelerare i tempi del processo civile. Sguardo puntualmente riprodottosi anche in occasione dei Governi succeditisi dal 2018 a oggi, forse uno sguardo vieppiù disperato a causa del piglio teutonico della ministra di Giustizia della quale, a termine del mandato, potrà forse dirsi “volle, volle, fortissimamente volle”. Ebbene, cosa prevede la riforma del rito civile di primo grado? Essa, per un verso, intende disciplinare e ampliare le ipotesi di rito “semplificato” (per le cause di agevole soluzione) e, per altro verso, vuole rendere più efficace la prima udienza davanti al giudice. Trascrivo il passaggio della relazione illustrativa, laddove si dice che, in virtù delle nuove regole, “il giudice è quindi in grado, in prima udienza, di disporre di una gamma di soluzioni diversificate, al fine della più efficace trattazione della lite: avviare subito la causa in decisione, convertire la trattazione nel rito semplificato, concedere i termini per le memorie o dimezzarli (oltre che formulare una proposta conciliativa o mandare le parti in mediazione)”. Poco più oltre, la medesima relazione puntualizza: “Avviare subito la causa in decisione permette una riduzione dei tempi di giudizio che può essere stimata mediamente fino a trecento giorni. La facoltà di ridurre i termini per le memorie dimezzando quelli attuali, a sua volta, comporta automaticamente un risparmio fino a quaranta giorni”. Nel trascrivere questi passaggi, chiari e condivisibili, ho tralasciato un passaggio che è una miniera d’oro, una subordinata inserita dall’attento redattore del documento subito dopo l’avvio del periodo che inizia con “Il giudice…” e che ho sopra riportato. Il giudice potrà sì fare tutte quelle cose, dirigendo con efficacia il processo, ma tanto accadrà (udite, udite) “a condizione che abbia potuto studiare adeguatamente il fascicolo (ma ciò non dipende dalle regole processuali)”. Qui vengono dette due verità risplendenti sul Sinai della giustizia civile: i tempi si abbreviano se il giudice civile detiene fermamente il polso del ruolo di udienza e, quindi, conosce le cause che tratterà; questa conoscenza non deriva dalle regole processuali, che potranno cambiare ogni giorno senza che quella conoscenza si produca o rafforzi. Di qui la domanda: se non dipende dalle regole processuali, da cosa dipende? Di qui un altro, forse malizioso, interrogativo: perché sbandierare la modifica delle regole processuali come viatico di velocizzazione dei processi? Ora, il giudice non ha “studiato adeguatamente il fascicolo” o perché non lavora oppure perché non riesce, a causa del numero dei fascicoli. Se i fascicoli chiamati in prima udienza sono tre è un conto, se sono 12 è un altro. Chiedetelo a un giudice civile di Nola, Santa Maria Capua Vetere, Napoli Nord. Il fulcro, allora, è la sostenibilità della domanda di giustizia rispetto all’aspettativa ragionevole di smaltimento del carico di lavoro del giudice civile italiano. Insomma, è il tema dello standard di rendimento del magistrato, unito a quello della revisione delle piante organiche dei Tribunali italiani. Due temi affondati nel silenzio più compatto: eppure sono cose semplici da spiegare ai cittadini, cose su cui sarebbe interessante un dibattito, magari accanto a quello sui quesiti referendari. Gli interrogati? ministra, Csm e Anm, tra i primi. Restiamo in attesa di chi vorrà scalfire questo fitto silenzio a beneficio dei cittadini, dell’avvocatura e della magistratura. Sassoli: “La riforma Cartabia un passo in avanti per l’Italia” di Valentina Errante Il Messaggero, 23 agosto 2021 “La riforma Cartabia della Giustizia è un passo in avanti dell’Italia”. A sottolinearlo è il presidente del Parlamento europeo David Sassoli, ieri al Meeting di Cl, che ha anche aggiunto di avere fiducia nelle forze politiche e nella maggioranza larga che sostiene il Governo. “Dobbiamo avere fiducia nelle nostre Istituzioni”, dice. Per Sassoli “la stabilità italiana è un progetto politico, non solo una condizione per affrontare una stagione difficile. La stabilità ha senso perché serve a consolidare la svolta avvenuta in Europa, e di conseguenza nelle nostre politiche nazionali di bilancio, di investimento, di coesione sociale”. “Abbiamo un Governo a cui chiediamo stabilità. Questa, certo, è la premessa di tutto - ha osservato - un governo che non è espressione di una formula politica tradizionale. Ma sarebbe sbagliato racchiudere la sua esperienza in uno stato d’eccezione temporalmente limitato”. Quindi ha aggiunto il presidente del Parlamento Europeo, “se la partita più importante, quella decisiva, si gioca in Europa, è con l’Unione europea che vanno sincronizzati i tempi delle politiche nazionali. E lo stesso concetto di stabilità non può ridursi ad esorcizzare momenti di crisi”. A giudizio di Sassoli, “l’interesse del Paese, che, nel nostro giudizio, coincide con il più autentico interesse europeo, è che il cambiamento dell’Europa si radichi, diventi strutturale, e molti degli strumenti adottati diventino permanenti. Ecco perché riteniamo che la missione del Governo non possa esaurirsi nel completamento della vaccinazione e nell’avvio del Pnrr, impegni molto importanti, ma - dice - debba riguardare la stabilizzazione della svolta europea”. Per Sassoli “la svolta compiuta con il Next Generation EU ci dà una grande chance: far mettere radici ad una nuova politica europea di crescita e sviluppo per tutti. Nei prossimi due/tre anni, dunque, ci giochiamo le nostre possibilità nei prossimi vent’anni. Non sfugge a nessuno che il successo e l’insuccesso dipenderanno molto dall’Italia”. Archivio centrale, pasticciaccio di Stato di Benedetta Tobagi La Repubblica, 23 agosto 2021 Il caso De Pasquale: al cuore del sistema archivistico ci vuole una persona che abbia non solo competenze, ma statura e sensibilità costituzionale. I famigliari delle vittime delle stragi, tramite Paolo Bolognesi, hanno chiesto a Draghi di non confermare la nomina di Andrea De Pasquale, già direttore della Biblioteca nazionale centrale di Roma, a sovrintendente dell’Archivio centrale dello Stato, raccogliendo sostegno crescente tra intellettuali, mondo politico e lavoratori del settore (per esempio il collettivo Mi riconosci? Sono un lavoratore dei beni culturali). La polemica riguarda le competenze (perché nominare un dirigente bibliotecario, anziché archivista, alla guida del più importante archivio del Paese?), ma soprattutto il “caso” scoppiato lo scorso inverno attorno all’acquisizione delle carte di Pino Rauti da parte della Bnc, perché questa fu accompagnata da comunicazioni (calco di quelle della Fondazione Rauti) diffuse attraverso la mailing list e pubblicate online che suscitarono vivaci reazioni per il tono agiografico. Omaggio a Rauti “Statista”, non una parola sulle contestazioni alla democrazia né sulla fondazione di Ordine Nuovo, che fu il fulcro della galassia eversiva responsabile delle stragi di piazza Fontana, piazza Loggia (con condanna definitiva di un reggente di On) e dell’omicidio Occorsio. Intervenne l’associazione delle vittime di piazza Fontana, chiedendone conto a De Pasquale. Che ne era dell’autonomia scientifica e del prestigio dell’istituzione da lui diretta? Il ministero della Cultura rimosse dal web il comunicato contenente “valutazioni e giudizi inaccettabili nei siti istituzionali del ministero”. De Pasquale protesta di non aver nulla a che fare con quelle comunicazioni. Ma aveva celebrato l’acquisizione a un evento di Fratelli d’Italia al Senato, mentre (causa Covid) il fondo fu presentato dalla figlia di Rauti, Isabella, senatrice di Fratelli d’Italia, con un video girato nei locali della biblioteca (dunque autorizzato). Non vi fu altra comunicazione, oltre al commosso ricordo famigliare e all’omaggio di parte. Trascuratezza? Debolezza? Compiacenza? Opportunismo? In casi come questi, silenzi e omissioni pesano. Parlano. Mancò del tutto una presentazione storico-critica adeguata, un riconoscimento e una discussione del problema sollevato. Ancora oggi, dal profilo che accompagna l’inventario del fondo Rauti, “accessibile previa autorizzazione” (di chi? in base a cosa?) non si capisce se e cosa c’entri Ordine nuovo con le stragi. Mentre altri aspetti della gestione De Pasquale della Bnc stanno finendo sotto scrutinio, come la brutta storia degli “scontrinisti”, Franceschini tira dritto e il governo tace. Il pasticciaccio si radica nelle ambiguità irrisolte: da una parte la fatica anche solo a dire cosa fu la destra radicale italica, dall’altra le prassi per cui i criteri di nomina ai posti di maggior prestigio sono spesso imperscrutabili, con esiti infausti. L’Italia non brilla per trasparenza, gli archivi sono in sofferenza, si teme che la “direttiva Draghi” (per rendere accessibili anche le carte Gladio e P2, oltre a quelle delle stragi), come le precedenti, resti in larga parte lettera morta. Al cuore del sistema archivistico ci vuole una persona che abbia non solo competenze, ma statura e sensibilità costituzionale, per resistere alle pressioni politiche e sostenere nei fatti trasparenza e autonomia, non atteggiamenti ambigui e scivolosi. Per questo i famigliari delle vittime, preoccupati, chiedono una nomina che non desti così tanti ragionevoli dubbi. Come dar loro torto? Giustizia a rilento. La fuga delle imprese dal Paese dei ritardi di Carlo Nordio Il Messaggero, 23 agosto 2021 Il Presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha aspramente criticato il progetto del ministro del lavoro Andrea Orlando sulle delocalizzazioni, definendolo punitivo verso le aziende. Non sappiamo ancora quale sia il testo di questo progetto, ma sull’argomento possiamo sin d’ora esprimere alcune considerazioni di carattere generale. In un sistema liberale le imprese mirano al profitto, non per rapace avidità, ma per sopravvivenza e crescita. Un’azienda che miri alla perdita è un ossimoro, come mettere al mondo un bambino per soffocarlo nella culla. Il profitto, dal canto suo, è generato da molti componenti. Abbandonata la rozza e visionaria teoria marxista che si tratti di un plusvalore ricavato dal pluslavoro del proletariato, le opinioni si sono moltiplicate, ma una certezza rimane: l’imprenditore investe se la sua attività viene remunerata. Qui non ci interessa sapere quale sia il suo scopo recondito. Taine diceva che lavorando da soli si può raggiungere il benessere, ma la ricchezza si ottiene solo facendo lavorare gli altri. Einaudi, più raffinato, sosteneva che l’azienda è la proiezione del suo creatore, che mira sì al guadagno, ma più ancora a realizzare la sua personalità. In ogni caso la conclusione è la medesima: l’impresa impiegherà i fattori di produzione nel modo più idoneo a raggiungere lo scopo. Superfluo aggiungere che deve farlo nei limiti della legge, proteggendo la dignità e la sicurezza dei lavoratori, e nell’ambito di una redistribuzione dei redditi attraverso un’equa ed efficiente politica fiscale. Cosa che peraltro da noi è assai opinabile. La delocalizzazione dipende sicuramente dall’eccesso dei costi di produzione, essenzialmente di quello del lavoro. Non perché l’operaio guadagni molto, ma perché all’imprenditore costa troppo: ma di questo cuneo si sa tutto, se ne parla sempre e non si conclude nulla. Tuttavia vi è un’altra causa sottostante che induce i nostri imprenditori a investire all’estero, e parallelamente scoraggia quelli stranieri a farlo da noi. Ed è la lentezza della giustizia. Non solo quella penale, sulla cui riforma si è tanto dibattuto, ma soprattutto quella civile. La giustizia penale è fondamentale per la persona, sia perché incide sulla sua libertà e il suo onore, sia perché condiziona la vita politica, e quel che ne segue, da oltre vent’anni. Nondimeno il suo impatto sulla produzione è relativamente modesto, salvo per la presenza di quell’evanescente reato di abuso d’ufficio che paralizza l’attività degli amministratori pubblici e di riflesso le iniziative dei privati. Ma la giustizia civile è enormemente più importante per il nostro sviluppo. Perché? Perché su di essa riposa la certezza dei rapporti giuridici che costituiscono l’impalcatura di ogni attività industriale, economica e finanziaria, cioè dei contratti che si stipulano e delle obbligazioni che ne nascono. Produrre un bene è importante: ma ancora più importante è consegnarlo e pagarlo nei termini pattuiti: e se ciò non avviene, ottenerne l’adempimento coattivo e il risarcimento del danno in tempi rapidi. Ora in Italia questo non avviene. Il cliente che ha pagato e non riceve la merce, o l’imprenditore che l’ha consegnata e non viene pagato, devono aspettare il triplo, il quadruplo e anche il quintuplo del tempo del loro omologo concorrente europeo. E lo stesso vale per la giustizia amministrativa. Da noi per aprire un bar occorrono anni, in Austria e in Slovenia bastano poche settimane. La delocalizzazione in questi casi non è colpa della spilorceria dell’imprenditore, ma dell’inefficienza dello Stato. Che fare allora? Occorre semplificare le procedure, aumentare l’organico dei collaboratori amministrativi, accelerare la digitalizzazione, sistemare onorevolmente, mi si perdoni il bisticcio lessicale, i giudici onorari, e, cosa più semplice di tutte, copiare quei sistemi, come quello tedesco, assai più snello e pragmatico, dove le cause durano un sesto delle nostre. Certo, ci viene chiesto uno sforzo immane: non dal punto di vista economico, ma da quello culturale, perché la nostra tradizione giuridica formalistica e bizantina identifica la complessità con la saggezza e la velocità con la sciatteria. E invece oggi non è più così. Non lo è per il nostro corpo, dove alcune operazioni chirurgiche che fino a ieri duravano ore e richiedevano settimane di degenza ora si fanno in pochi minuti e la sera ti mandano a casa. E non lo è nemmeno per la nostra anima, perché la confessione, che un tempo era un’estenuante sequenza di minuziosi interrogatori oggi è una sommaria sottomissione penitenziale, più rapida ma non per questo meno efficace. Se dunque anche la Giustizia divina si affida a criteri di vantaggioso dinamismo, a maggior ragione dovrebbe farlo quella umana. La lepre degli investimenti fugge dalla giustizia lumaca di Angelo Ciancarella Il Messaggero, 23 agosto 2021 Le analisi sulla durata dei processi (civili e penali) non hanno solo valenza interna, ma rappresentano un elemento fondamentale per valutare l’attrattività degli investimenti esteri e l’idoneità del Paese a competere nel confronto internazionale al quale è condannata un’economia aperta (che non può compiacersene solo quando misura le esportazioni). È il tema ricorrente in questi giorni a proposito di delocalizzazione, carenza di manodopera specializzata, efficienza della Pubblica amministrazione e tempi di pagamento delle forniture, di nuovo sensibilmente peggiorati dopo il miglioramento degli ultimi anni. L’Aibe, l’Associazione italiana fra le banche estere, pubblica da anni il rapporto dell’Osservatorio sull’attrattività del nostro Paese presso gli investitori esteri, dal 2021 divenuto Super-Index, elaborato in collaborazione con il Censis e diffuso lo scorso giugno. Fra 18 paesi considerati nell’ambito del G20 l’Italia è nona, a metà classifica: fatto 100 il punteggio della Germania, al primo posto, l’Italia è a 54,5, qualche punto sopra la media generale di 49,2. Ma una lettura consolatoria sarebbe miope. L’Italia è in realtà ultima tra i paesi europei del G20 (Germania, Regno Unito, Francia) ed è preceduta da Canada, Australia, Sud Corea, Stati Uniti, Giappone. Precede di almeno venti punti gli altri nove, a cominciare dalla Cina (che non è economia di mercato): ma questo dovrebbe allarmare, non essere motivo di compiacimento. La seconda considerazione riguarda la necessità di misurare i valori assoluti (fatte le debite proporzioni, ovviamente, rispetto a Stati Uniti e Cina) e superare la logica del confronto a breve termine, delle variazioni modeste che non rappresentano affatto un trend anche quando segnalano miglioramenti. Nel 2020, per esempio, in pieno Covid, il report di EY Attractiveness Survey Europe - anch’esso diffuso lo scorso giugno - ha contato 113 investimenti diretti, più 5% rispetto al 2019, mentre i paesi europei arretravano complessivamente del 13%, con la Spagna a -27%, la Francia a -18% e la stessa Germania a meno 4%. Il rapporto, tuttavia, ricorda che l’Italia resta dodicesima su 20 paesi europei considerati, e la sua quota di mercato degli investimenti esteri è solo del 2%. Al di là delle stime sulle percentuali (ipotetiche e mai inferiori al 2%) di Pil perduto o che si potrebbe guadagnare con pubbliche amministrazioni e giustizia efficienti, tutti questi report - in parte basati su dati, in parte su percezioni di imprenditori e opinion leader - attribuiscono un peso notevole alla instabilità normativa, alle incertezze interpretative e ai tempi lunghi della giustizia. Il Pnrr, più prudentemente, parla di mezzo punto percentuale a dieci anni, a condizione di dimezzare i tempi dei processi. E - sostiene un altro studio - se a dimezzarsi fosse la durata delle procedure fallimentari (la riforma è già legge, ma l’entrata in vigore viene rinviata a causa del Covid!), che oggi superano i dieci anni, sarebbe la produttività a crescere di almeno un punto e mezzo. Un indice molto citato è il Doing Business della Banca Mondiale, più concentrato sui tempi burocratici e degli adempimenti contrattuali. Questi ultimi, con il ricorso alla giustizia e poi ai tempi di esecuzione delle sentenze, richiedono 1.120 giorni: quasi il doppio della media Ocse, più del doppio di Francia e Germania. E così il 58° posto della classifica generale del rapporto 2021, precipita al 122° in materia di giustizia. Da molti anni oscilliamo di pochi punti in più o in meno, spesso in relazione a provvedimenti specifici come la costituzione semplificata delle società a responsabilità limitata. Ma si dimentica che l’Italia non scala una classifica statica: mentre migliora l’indice di un servizio, anche gli altri migliorano il proprio, e più in fretta. Perciò ridurre, come avviene talvolta, del 5% l’anno i tempi medi del processo, serve a ben poco se altri riducono del 10 o del 20% e accrescono il grado di automazione. Quest’ultima considerazione trova un riscontro evidente, e anche molto preoccupante, in un indice più recente, il WJP Rule of Law Index, dal 2014 elaborato dal World Justice Project, organizzazione internazionale promossa dall’American Bar Association (la potente associazione degli avvocati americani) e oggi del tutto autonoma, la cui mission è il progresso dello stato di diritto nel mondo. Perciò non misura soltanto l’efficienza ma anche la certezza delle regole, la trasparenza delle procedure e la presenza di contrappesi fra le diverse istituzioni. Per questo è molto più dettagliato e, anche nei settori esterni alla giustizia, tiene molto in considerazione il diritto oltre che le esigenze dell’economia. L’indice generale è articolato in otto settori, uno dei quali dedicato alla giustizia civile, a sua volta segmentato in sette profili: dalla facilità di accesso (anche in relazione ai costi), alla presenza di elementi di discriminazione nelle leggi e nelle regole processuali, al grado di condizionamento delle decisioni dovuto alla corruzione o alle interferenze del governo e delle pubbliche amministrazioni, fino alla durata dei processi e all’efficacia della fase esecutiva delle sentenze. Infine, tiene conto della presenza, della conoscenza e dei costi delle Adr, le molteplici forme di soluzione stragiudiziale delle controversie, dall’arbitrato alla negoziazione assistita. Nella classifica 2020, diffusa lo scorso marzo, il 27° posto nell’indice generale (composto da 128 paesi) è raddoppiato dal 54° in quello della giustizia civile; e fra i 24 paesi europei considerati l’Italia è, rispettivamente, 18ª e 22ª. Nei sette segmenti prima descritti, da posizioni dignitose sull’accesso (36ª) e l’autonomia dalle interferenze esterne (40ª), si sprofonda al 96° posto per l’efficienza e la durata, fino al 112° sull’efficacia in fase di esecuzione, che è anche l’ultimo in ambito europeo, dove si oscilla sempre intorno alla 20ª posizione su 24. Particolarmente preoccupante il confronto con il passato: nel 2015 la giustizia civile era al 36° posto, rispetto all’attuale 54°. E così in tutti gli altri segmenti. Responsabilità penale: così i giudici tracciano il confine tra dolo eventuale e colpa cosciente di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2021 Sono molti i casi in cui il grado di responsabilità penale si gioca sul crinale tra dolo eventuale e colpa cosciente. Un dilemma che, ad esempio, con molta probabilità avrà un ruolo centrale nel giudizio relativo alla tragedia della funivia Stresa-Alpino-Mottarone del 23 maggio scorso, in cui sono morte 14 persone. Si tratta di una differenza non di poco conto perché la corretta ricostruzione dell’atteggiamento mentale del reo è condizione essenziale per irrogare una pena proporzionata all’effettivo grado della responsabilità. La Cassazione, in proposito, ha spiegato che il giudice deve fare un’indagine accurata su quei dati obiettivi dell’azione che “per la loro non equivoca potenzialità sintomatica sono i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente” (16465/2011). Si tratta di un monito che riguarda in particolare il dolo eventuale: sia per il tenue legame finalistico tra condotta e fatto tipico, sia per la linea sottile che lo distingue dalla colpa cosciente. Il discrimine tra i due atteggiamenti psicologici è stato ben evidenziato dalla sentenza15463/2021 della Cassazione: “Il dolo eventuale non si identifica con l’accettazione del rischio della produzione dell’evento, in quanto tenere una condotta incauta, pur con la consapevolezza della situazione di rischio, è tipico della colpa”. Perché possa dirsi integrato il dolo eventuale ci vuole qualcosa di più, cioè “la consapevole adesione all’evento”, in quanto “l’elemento caratterizzante il dolo in tutte le sue forme non è quello rappresentativo, che può riscontrarsi anche nei casi di colpa cosciente, bensì quello volitivo, ossia la finalizzazione dell’agire umano a un determinato evento prefigurato dal reo”. Nella colpa cosciente, invece, “la volontà dell’agente non è diretta verso l’evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l’evento illecito, si astiene dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo” (Cassazione, 26236/2018). Con una celebre decisione (38343/2014), le Sezioni Unite hanno indicato gli elementi che devono essere presi in considerazione per la ricostruzione del ragionamento logico e decisionale dell’imputato nei casi di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente: la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa, la sua personalità ed esperienza, la durata e ripetizione dell’azione, la condotta successiva al fatto, la sua finalità, la probabilità del verificarsi dell’evento, le conseguenze negative e la liceità o meno del contesto di svolgimento dell’azione. Il giudizio di responsabilità per dolo eventuale è dunque legittimo solo se viene dimostrato, “in maniera rigorosa, che l’interessato si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nel caso specifico, aderendovi sotto il profilo psicologico”. Il dolo eventuale non è compatibile con il delitto tentato, la cui caratteristica strutturale è la volontà “univocamente orientata alla consumazione del reato” senza possibilità di “gradate accettazioni del rischio, consentite solo in caso di evento materialmente consumatosi” (Cassazione, 14342/2012). La giurisprudenza più recente ha rafforzato l’importanza della prova rigorosa dell’elemento psicologico del reato anche per la colpa cosciente. Si tratta di un orientamento quanto mai condivisibile, soprattutto se si considera che, in caso di riconoscimento della colpa cosciente, il reato subisce l’aggravamento di pena previsto dall’articolo 61 n. 3 del Codice penale, ovvero “l’avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell’evento”. Pertanto, è stato affermato che “ai fini della configurabilità della colpa cosciente non è sufficiente la mera probabilità dell’evento, ma occorre la prova della sua previsione in concreto, accompagnata dal convincimento che lo stesso non accadrà, sicché il giudice è tenuto ad indicare analiticamente gli elementi sintomatici da cui la previsione sia in concreto desumibile dall’imputato” (Cassazione, 12351/2020). La regola di giudizio è quella del ragionevole dubbio, tipica del processo penale: dunque non si lascia spazio per le presunzioni di colpa, che sono invece consentite nel giudizio civile (Cassazione, 54575/2018). No alla messa alla prova per i reati del Dlgs 231 di Alessandro De Nicola e Marco Giovanni Mancino Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2021 I giudici di Spoleto escludono l’applicazione alle persone giuridiche. Il Tribunale di Spoleto, con ordinanza del 21 aprile 2021 ma pubblicata solo recentemente, si è pronunciato sul tema dell’ammissibilità della messa alla prova per le persone giuridiche, istituto che per le persone fisiche comporta la sospensione del procedimento penale attraverso il risarcimento del danno cagionato e lo svolgimento di lavori di pubblica utilità. I magistrati spoletini hanno negato nettamente l’applicabilità di questo istituto agli enti, inserendosi nel contrasto giurisprudenziale animato dalle precedenti pronunce contrarie del Tribunale di Milano (ordinanza del 27 marzo 2017) e di Bologna (ordinanza del 10 dicembre 2020) e favorevoli del Tribunale di Modena (ordinanze del 19 ottobre e del 15 dicembre 2020). L’ordinanza in esame prescinde dai rigidi formalismi in tema di tassatività a cui si ancoravano le precedenti tesi negazioniste, approcciando la tematica in modo sostanziale e sottolineando come i requisiti di ammissibilità all’istituto per le persone giuridiche sarebbero del tutto incerti, a differenza di quanto accade per le persone fisiche in relazione alle quali l’articolo 168 bis del Codice penale indica in modo specifico quali siano le condizioni per accedere al beneficio della messa alla prova. Il Tribunale evidenzia poi come una tesi estensiva finirebbe per creare una sovrapposizione difficilmente gestibile con quanto previsto dall’articolo 17 del Dlgs 231/2001 che introduce anch’esso un sistema premiale (consistente nel non assoggettamento a sanzioni interdittive) per gli enti che abbiano riparato le conseguenze dei propri reati; mentre tuttavia in quest’ultimo caso il premio consisterebbe in una mitigazione del trattamento sanzionatorio, nell’altro si avrebbe addirittura l’estinzione del reato con conseguente disincentivo a percorrere la strada tracciata dall’articolo 17. L’ordinanza infine utilizza una - invero poco convincente - argomentazione comparatistica con la probation statunitense per valorizzare la propria tesi, sottolineando come l’istituto americano muova da accordi con il public prosecutor per la rinuncia all’azione penale, ove invece lo spirito del Dlgs 231/2001 (che dalla corporate criminal liability statunitense peraltro trae le proprie origini) si traduce in una mitigazione del sistema sanzionatorio, con ciò scostandosi volutamente dall’impianto d’oltreoceano. Ma se negli Stati Uniti uno strumento assimilabile è stato metabolizzato senza particolari rigetti e se anche il nostro ordinamento ha dato ampia prova di saper accogliere nei processi a carico delle persone giuridiche misure previste originariamente per le persone fisiche, perché tanta ritrosia ad innovare quando si tratta di ammissione alla prova per gli enti? Forse è tempo per una riforma della 231. Parma. “Diamo voce alle voci recluse”, una radio apre il carcere con la chiave dell’arte di Lucia De Ioanna La Repubblica, 23 agosto 2021 Maria Inglese e Antonella Cortese raccontano l’esperienza parmigiana della piccola e tenace redazione di Eduradio-Liberi dentro. “I detenuti non sono soltanto ‘reati che camminano’, ma persone cadute che devono essere aiutate a rimettersi in piedi, con vantaggio per l’intera comunità”. Mantenere acceso, dentro di sé, “il desiderio del possibile”, anche di fronte a una condanna fine pena mai: è questa la necessità vitale espressa da Nino, ristretto nel carcere di via Burla la cui voce oggi può uscire dalle pareti di una cella di sicurezza per raccontare di sé un’altra storia in cui alla caduta si mescola la speranza che quel “fine pena mai” non debba rappresentare un muro invalicabile per il dispiegarsi dell’esperienza in nuove, possibili forme. Questa evasione nella direzione di una diversa immaginazione e realizzazione di sé è resa possibile grazie alla piccola e tenace redazione Eduradio&Tv di Parma, parte del più ampio progetto LiberiDentro rivolto alle persone carcerate in Emilia Romagna, nato nell’aprile del 2020 con l’obiettivo di superare le distanze tra carcere e cittadinanza in un frangente di emergenza umana e sociale vissuta acutamente dai carcerati a causa della pandemia. A raccontare l’avventura della prima radio che in Italia fa da ponte tra l’isola del carcere e il continente della società è Maria Inglese, medico psichiatra dell’Ausl di Parma, che da anni si dedica a chi è ai margini, agli invisibili e ai senza voce anche usando il repertorio immaginativo dischiuso dall’arte, via d’accesso privilegiata al cuore di tenebra di ciascuno. Coordinatrice per otto anni dell’èquipe multiprofessionale che opera negli Istituti penitenziari della città, una Uos (Unità operativa semplice) che ha il mandato della presa in carico dei detenuti con problemi psichiatrici e di dipendenza, da circa un anno e mezzo Inglese lavora presso il Csm di Parma ed è referente del Centro studi e ricerche del Daism-Dp (Dipartimento assistenziale integrato salute mentale dipendenze patologiche) coordinando attività riabilitative attraverso lo strumento espressivo-artistico. Con Vincenza Pellegrino dell’università di Parma, da 10 anni Inglese organizza la rassegna Dolore in bellezza oltre a essere mediatrice etnoclinica e mediatrice penale secondo il paradigma della giustizia riparativa. “Quando è iniziata l’avventura di Eduradio-Liberi dentro, ormai oltre un anno fa, pur non lavorando più in carcere, mantenevo un dialogo costante con i colleghi e con i volontari rimasti. Le notizie che arrivavano dalla stampa nell’aprile 2020 raccontavano la paura della diffusione del contagio all’interno degli istituti di pena, le rivolte, con ben 14 morti, molti dei quali a Modena, vicino a noi, e i ‘boss mafiosi che uscivano’ secondo le semplificazioni della stampa. Con un gruppo di amiche ci siamo dette che era necessario raccontare il carcere secondo quanto avevamo appreso lavorandoci dentro, per aiutare la comunità a sentire il carcere non come un corpo estraneo”. Il progetto Liberi dentro Eduradio, nato a Bologna grazie a Caterina Bombarda e Ignazio De Francesco si allarga ad altre città emiliano-romagnole che entrano a far parte del collettivo con puntate autoprodotte trasmesse sul canale televisivo Rtr 292. Tra le prime redazioni a nascere, anche quella di Parma: “Caterina Bombarda e Ignazio de Francesco, amici preziosi che hanno dato forma a questo progetto, sono diventati i nostri compagni di viaggio. Io, insieme a Germana Verdoliva, tecnico della riabilitazione psichiatrica e collega del gruppo di lavoro che coordinavo in carcere, Claudia Chiappini, giornalista e volontaria che a Parma coordina la redazione di Ristretti Orizzonti che coinvolge un gruppo di detenuti dell’alta sicurezza, e ad Antonella Cortese, giornalista locale che del carcere non conosceva nulla ma ha la curiosità non morbosa accompagnata dall’intelligenza di volerci ‘capire qualcosa’, ci siamo inventate una redazione locale e dall’estate 2020 abbiamo cominciato a registrare le nostre puntate, una alla settimana di 30 minuti ciascuna”. Sul fronte del pubblico esterno, osserva Antonella Cortese, Eduradio vuole trasmettere “una diversa narrazione del carcere e dei suoi ospiti, i detenuti, per fare comprendere che non sono soltanto ‘reati che camminano’, ma persone cadute che devono essere aiutate a rimettersi in piedi, con vantaggio per l’intera comunità”. Grazie a una redazione diffusa che si riunisce da remoto (“si registrava da casa e il mio tavolo da cucina era diventata la mia postazione fissa”, racconta Inglese), viene allestito un palinsesto che punta a trovare una prospettiva differente sul carcere, come racconta Inglese: “abbiamo intervistato il pedagogista Ivo Lizzola, Luigi Pagano, ex provveditore carceri Lombardia, Ornella Favero di Ristretti Orizzonti, il giornalista Rai Domenico Iannacone, abbiamo parlato di giustizia riparativa con Franco Bonisoli, dialogato, tra gli altri, con Adrian Bravi, Alessio Forgione e Valeria Parrella, scrittori che parlano di marginalità, di carcere, di vita. Abbiamo poi lavorato ad un format estivo, io e Germana, mettendo a tema il nostro lavoro clinico dentro il carcere su nodi emergenti quali la patologia psichiatrica, le nuove forme di dipendenza, le storie di paternità e di emancipazione attraverso l’arte, l’incontro con i detenuti stranieri, la dimissione come evento critico”. Da ottobre, spiega Inglese, “quando la piccola redazione di Parma è diventata ancora più piccola, io e Antonella abbiamo deciso di portare avanti una trasmissione mensile dal titolo Uomini e Storie. Ancora voci, ancora storie a partire da libri, autori, figure tra cui Tolstoj e il suo romanzo Resurrezione, Il vagabondo delle stelle di Jack London, Simone Weil, Franco Bonisoli e il suo incontro con lo yoga in carcere. E il viaggio continua”. Un viaggio che viene portato avanti tentando di evitare le trappole della retorica: “Abbiamo tentato di raccontare il carcere evitando le consolazioni reciproche, evitando di incontrarsi sulla retorica del ‘siamo tutti buoni’, bensì cercando un incontro sullo ‘sguardo da vita a vita, da dovere a dovere’: si tratta di un incontro molto esigente che non lascia fuori le ombre, anzi ci fa riconoscere, con le parole di Ivo Lizzola, come donne e uomini non innocenti”. I temi al centro degli approfondimenti proposti dalla redazione parmigiana pongono questioni che riguardano tutti, non solo chi si trova in regime di restrizione della libertà: “Parlare di carcere come istituzione interroga tutti noi: ne abbiamo bisogno? Come lo integriamo nella comunità? Siamo pronti a riaccogliere chi ha sbagliato? E ancora: Siamo disposti a modificare la nostra idea di giustizia cercando di favorire una giustizia che ripara, che riunisce, che riconnette? Sono questi i nostri temi. Ci lavoriamo da tanto tempo, l’incontro con la giustizia riparativa è stato per noi veramente sfidante”. E come dare voce alle voci recluse? “Qui ci ha aiutato l’esperienza di Carla Chiappini, i suoi incontri con i detenuti dell’Alta sicurezza, i laboratori di scrittura, gli incontri tra detenuti e studenti. Le storie sono diventate uno strumento per avvicinare il carcere e chi lo abita, forzando la nostra capacità di immaginazione. Cosa altro ci può servire se non la possibilità di immaginare l’altro, le sue emozioni, i suoi sogni, le sue paure e i suoi rimpianti? Oggi occorre un grande sforzo immaginativo - prosegue Inglese -. Immedesimarsi e mettersi nelle ‘scarpe dell’altro: è questa la sfida alla nostra capacità empatica, sempre più fragile. Storie, narrazioni, voci, testimonianze. Abbiamo trovato questo modo per raccontare il carcere. Sapendo che siamo oggetti trasformativi, dal punto di vista clinico, oggetti che trasformano chi vuole essere attraversato dal cambiamento. ‘Essere cambiamento’, come mi ha suggerito una persona ristretta, non solo oggetto del cambiamento, non solo oggetto del giudizio, della condanna, ma soggetto attivo del proprio cambiamento. Anche lì, dove tutto dipende dall’altro, dal grande Altro, anche lì occorre rischiare sulla possibilità di accompagnare il cambiamento, voluto certo, curato, ma come dice Marcel de Certau, mai senza l’altro, non si cambia nella solitudine, nel vuoto, nell’assenza”. Una metamorfosi che non è mai a senso unico: “Anche noi clinici apprendiamo e cambiamo nell’incontro con la marginalità. Ad esempio l’incontro con la popolazione migrante, straniera ha modificato il mio sguardo e il mio agire clinico, l’incontro con la povertà e lo s-radicamento/lo s-legame di tante vite interrotte, sospese; l’incontro con l’uomo del reato, della pena e della colpa ha modificato il mio dialogo interiore (il soliloquio, direbbe il mio maestro Adolfo Ceretti) sul senso di giustizia e ingiustizia. Non si cambia da soli, ci si modifica a vicenda”. Guardando alle prospettive future di questa esperienza, Antonella Cortese osserva che “Eduradio&Tv-Liberi Dentro è una piccola cosa nata per piccole persone, ultimi tra gli ultimi, ma al tempo stesso rappresenta una reale novità nel panorama delle attività umanitarie dedicate ai carcerati. È una prima volta in Italia, che può trovare solo all’estero qualche esperienza paragonabile, in particolare l’inglese Prison Radio Association, nata nel 2007 da associazioni benefiche e che oggi raggiunge 100 case circondariali (audience valutata nel 70% dei detenuti), con un’impostazione educational che è la stessa perseguita dal nostro progetto. Siamo nati durante un’emergenza ma, se le rose fioriranno, potremo diventare un servizio stabile e un modello replicabile anche in altre città e regioni del nostro Paese. Abbiamo imparato da papa Francesco che il tempo vale più dello spazio: ciò che desideriamo è appunto avviare un percorso virtuoso che continui dopo di noi”. Tutti i programmi sono reperibili qui: https://liberidentro.home.blog/liberi-dentro-eduradio/ Imperia. Il Partito Radicale in visita al carcere riviera24.it, 23 agosto 2021 “Ambienti angusti, non esiste un vero e proprio campo da gioco, manca copertura h24 di assistenza medica ed è un carcere privo di direttore e di comandante”. “Abbiamo visitato la Casa Circondariale di Imperia nella giornata di venerdì 20 agosto con una delegazione composta da me e Patrizia Michielotto per il Ferragosto in Carcere del Partito Radicale, era presente all’esterno anche Gian Piero Buscaglia. Ci eravamo recati nei giorni precedenti a Sanremo Valle Armea, Pontedecimo e Marassi. Imperia è in questi giorni un carcere privo di direttore e di comandante, il dottor Frontirrè è appena andato in pensione e la comandante è stata trasferita dal 25 luglio a Marassi, i loro sostituti arriveranno a giorni e la struttura è affidata alla direttrice di Massa (non presente), una situazione purtroppo comune a sempre più istituti a causata dal fatto che non si tengono da circa 20 anni concorsi per l’assunzione di nuovi dirigenti. Ci accolgono e accompagnano nella vista comunque con molta cortesia il vice comandante Berruti e il responsabile dell’area educativa Giancarlo Gandalini” - afferma per il Partito Radicale Stefano Petrella. “Il primo grave problema che riscontriamo (ce lo fa notare il personale) è la presenza di un disabile grave, un uomo di 75 anni fortemente obeso, paraplegico, totalmente incontinente e impossibilitato a muoversi dalla sedia che è stato appena condotto in carcere da Sarzana per una condanna risalente a parecchi anni prima e diventata definitiva: è chiaramente incompatibile con il regime detentivo, ma gli ospedali non sono in grado di accoglierlo perché la sua condizione è stazionaria, non può e non deve rimanere in carcere, stiamo segnalandolo al Dap e al Tribunale di Sorveglianza. Il carcere si presenta in condizioni migliori di come l’avevamo trovato nel 2019 grazie ai lavori a cui è stato sottoposto (terminati da 15 giorni con la riapertura del secondo piano) che hanno riguardato una parte degli ambienti e le celle, in particolare i servizi e le docce che si presentano finalmente in buone condizioni (con l’eliminazione di muffe e umidità che li infestavano e un’opportuna piastrellatura), rimesse a nuovo anche le pareti delle celle, le suppellettili (sgabelli, tavoli e armadietti) sono purtroppo ancora le stesse e in stato molto precario e l’intervento andrà completato con la loro sostituzione, la risistemazione dei corridoi e un impianto di condizionamento d’aria per l’area trattamentale (aule, una piccola palestra, biblioteca e sala conferenze) realizzata nell’arroventato sottotetto e inagibile nei mesi estivi, ancora in attesa del suo destino il vano seminterrato destinato forse a sostituire la piccolissima infermeria per problemi irrisolti di agibilità. Grazie ai lavori Imperia ha visto un opportuno sfoltimento di presenze, i detenuti sono 57 (30 stranieri) su 58 posti regolamentari, fino al 2020 era capitato che ne ospitasse mediamente 80-90, arrivando a volte a punte di 100-120, il doppio della sua capacità; 57 anche gli agenti (sui 67 previsti), 49 quelli effettivamente presenti” - sottolinea per il Partito Radicale Stefano Petrella. “Gli ambienti sono comunque angusti, le celle da 2 o 4 posti, ma quelle da 2 così piccole da avere necessità del castello e i 3mq calpestabili per detenuto previsti (al netto delle suppellettili e del letto) non si vede come possano esservi stati calcolati, il piano terra e il primo non hanno il regime di apertura sulle 8 ore delle celle (per 4 stanno all’aria, per il resto accedono a turno al campetto e alla saletta di socialità), l’apertura da mattino a sera della cella è presente al secondo piano (la sezione a custodia attenuata), le finestre oltre alle sbarre hanno un pannello esterno. Al terzo piano l’area trattamentale soffre dei problemi di cui si accennava, ma è l’unico spazio dove si respira una certa aria di libertà e l’unico ambiente luminoso e accogliente dell’istituto. Due i passeggi, uno dei quali adibito a campetto (per pallavolo, pallamano e calcio tennis, di dimensioni troppo esigue per giocarci a calcio), non esiste un vero e proprio campo da gioco, l’unica saletta per la socialità si trova vicino ai passeggi, ai piani non ve n’è alcuna. L’assistenza medica è dalle 8 alle 22 (feriali e festivi), manca purtroppo la copertura h24 garantita fino a dieci anni fa e nelle ore notturne l’unico defibrillatore resta chiuso nell’infermeria perché il personale non è stato formato ad utilizzarlo, gravemente carente l’assistenza psichiatrica con presenza del medico (lo stesso che si occupa anche di Sanremo) per poche ore alla settimana al mattino, meno presente rispetto al passato anche il Ser.T. Sarebbero necessari la presenza stabile di uno psichiatra a Sanremo, la copertura per un maggior numero di ore a Imperia e l’apertura della promessa REMS” - fa sapere per il Partito Radicale Stefano Petrella. “Migliore la situazione Covid con nessun positivo tra i detenuti e 5 nel personale tra il 2020 e il 2021 (nessun ricoverato); circa il 70% del personale ha ricevuto le due dosi del vaccino (Astra Zeneca e Moderna), le vaccinazioni dei detenuti sono partite soltanto a luglio (con Moderna) e solo il 21% dei detenuti ha ricevuto entrambe le dosi, il 66% la prima; all’isolamento fiduciario e sanitario è adibita la vecchia sezione femminile (con 3 celle e un passeggio), utilizzata fino a poco tempo fa per i semiliberi. Colloqui e telefonate sono tornati alla situazione ordinaria: fino a 6 in presenza con facoltà di sostituirne alcuni con chiamate Whatsapp (2 da 30’ per ogni colloquio non effettuato), non viene rispettata la raccomandazione di mantenere parte delle telefonate o videochiamate aggiuntive. Pesanti le ricadute sulle attività interne, interamente sospese per oltre un anno ad eccezione di quella scolastica e del (da poco ripreso) corso di tecnica espressiva, solo alcuni dei circa 40 volontari sono tornati in carcere finora. Punto di forza dell’istituto resta l’ottimo lavoro che vi svolge da anni l’area educativa e il buon rapporto che questo ha saputo costruirsi con le istituzioni, le associazioni e il volontariato presenti sul territorio, dovrebbero tenerlo presente quanti continuano a proporre la realizzazione di istituti in località isolate e staccate dall’abitato, dimenticando di visitare quelli già esistenti con caratteristiche simili come Sanremo Valle Armea. Una sola la visita del magistrato di sorveglianza nel 2021, quasi inesistenti quelle di consiglieri regionali e parlamentari nel 2020 e 2021 (esclusa la Lega), a riprova del fatto che la Liguria non può attendere oltre la nomina del Garante Regionale dei Detenuti e città che ospitano strutture penitenziarie (come Sanremo e Imperia) avrebbero ragione di cominciare a prendere in considerazione l’istituzione di un Garante Comunale” - dice per il Partito Radicale Stefano Petrella. Catanzaro. Da killer di mafia a dottore, ergastolano si laurea in sociologia della sopravvivenza di Alessandra Ziniti La Repubblica, 23 agosto 2021 “L’ho fatto per non perdere le mie figlie”. Salvatore Curatolo non è mai uscito dal carcere. Aveva solo la quinta elementare. Ma ha deciso di ritrovare la libertà nei libri. I libri sono il viaggio della mente, l’unico possibile per chi ha come unico orizzonte della vita lo spicchio di cielo oltre le sbarre. I libri sono il filo che ti lega alle tue figlie che una vita diversa dalla tua per fortuna se la sono costruita, andando via da quel fazzoletto di terra siciliana in cui respiravano solo mafia. E “il tempo utilizzato leggendo libri, studiando, è il tempo più degno della mia vita. Oggi, senza speranza di sopravvivere al carcere, mi salverò grazie ai libri, il mio viaggio”. Il 23 maggio del ‘92, quando nelle celle di tutta Italia si brinda alla morte di Giovanni Falcone, Salvatore Curatolo è in carcere da appena tre mesi. Ha la quinta elementare ma è sostanzialmente analfabeta. L’unico insegnamento che porta con sé è quello che gli aveva dato suo padre, un semplice operaio: “Devi pensare che hai un coltello puntato alla gola: se abbassi la testa per dire sì, il coltello ti infilzerà la gola. In altre parole, se dici di sì, il che equivale a dire ‘sono stato io’, queste parole si ritorceranno contro di te: bisogna negare sempre e comunque”. Una vita senza futuro - È così che Salvatore Curatolo, nato a Caltanissetta, si ritrova a fare il mafioso e finisce in carcere con una sfilza di condanne per associazione mafiosa, estorsione, omicidi. A collaborare con la giustizia non ci ha mai neanche pensato. Ventinove anni dopo, l’ergastolo ostativo sulle spalle, fine pena mai e mai un solo giorno di permesso, Salvatore, a 65 anni, è diventato dottore in sociologia. Per l’esattezza, sociologia della sopravvivenza, quella che gli ha fatto trovare lo strumento, lo studio, per resistere a dodici anni di carcere duro e soprattutto alla prospettiva di non avere più un futuro. Dalla sua cella del carcere di Catanzaro non lo hanno fatto uscire neanche per partecipare alla piccola cerimonia della sua laurea, traguardo impensabile per uno come lui, raggiunto grazie all’incontro con Charlie Barnao, professore associato di sociologia generale all’Università di Catanzaro. L’arte di sopravvivere - Salvatore Curatolo fa della sua vita e di quelle dei suoi compagni di carcere uno strumento di ricerca. “Prima del carcere, come tutti, avevo un’altra vita. I codici scritti, quelli che normano la vita sociale, mi erano sconosciuti, quelli non scritti erano gli unici che riconoscevo... ma tutto sommato ero carcerato prima di entrare in carcere”. Peccato che sia finita come è finita. Una vita persa ma che, alla fine, rinasce in uno straordinario messaggio di speranza diffuso dal suo piccolo mondo dietro le sbarre ai tanti come lui che invece sopravvivono cercando rifugio nella ‘libertà della follia’ o nel ‘carrello della felicità’, quello con gli psicofarmaci che ogni sera i secondini del carcere passano ai detenuti per annientare i loro pensieri. “È all’interno delle sezioni carcerarie speciali che i detenuti sviluppano le loro strategie per adattarsi alle continue trasformazioni e ai conflitti che la vita detentiva impone”. Follia o psicofarmaci? Carcere di Caltanissetta, padiglione A, cella numero 2, 23 maggio 1992. Quando alla Tv passa la striscia che annuncia la strage di Capaci e qualcuno tira fuori i bicchieri per il brindisi, “capimmo che da lì in poi sarebbe stata dura. La repressione fu totale, sembravamo in guerra”. E’ così che anche Salvatore conosce la ‘discoteca’ di Pianosa: “Una cella isolata, potevi gridare quanto volevi, nessuno ti vedeva né ti sentiva, anche perché mettevano un giradischi ad alto volume e ti picchiavano per giorni”. “E’ quando la prospettiva di vita ti si riduce a questo che qualsiasi essere umano cerca l’evasione nella follia: c’è chi pulisce ossessivamente lo stesso metro quadro di cella, chi avverte tutti di non mangiare patate, chi va all’aria solo in tre e mai in quattro, chi ogni notte si alza per mangiare qualcosa di dolce”. E alla fine trovi rifugio nel “carrello della felicità: passa fra le celle tutte le sere, distribuendo compresse colorate, gocce, flaconi e pillole. Farmaci che calmano l’ansia e procurano benessere chimico”. Da analfabeta a laureato, per non perdere tutto - E poi ci sono gli amori della sua vita: Maria, “mia moglie, ci siamo amati da sempre e non mi ha mai lasciato solo”, Valentina, la figlia maggiore, una laurea in giurisprudenza e un master in economia, oggi apprezzata consulente aziendale, e Serena, “una lettrice seriale”, insegnante di italiano. I colloqui dietro il vetro con le ragazze si fanno difficili, non si va oltre un “tutto bene, tutto a posto”. Un giorno Salvatore confessa alla moglie: “Ho l’impressione che sto perdendo le mie figlie” e Maria risponde aprendogli quello che sarà il suo nuovo universo: “Le tue figlie sono cresciute dal punto di vista culturale e se tu parli di televisione non sanno cosa risponderti, loro leggono e studiano e non guardano la tv. Se le sentissi discutere rimarresti a bocca aperta”. “Fu così che iniziai a leggere libri e saggi, dopo aver letto tutto quello che trovavo. Il primo di cui discussi con loro fu ‘Guerra e pace’ di Tolstoj. Alla fine del mese mi arrivò il pacco della sopravvivenza, pieno di libri. E da quel momento in poi non ho fatto altro che studiare da autodidatta finché sono stato al 41 bis. Poi ho preso la quinta elementare, la terza media e il diploma all’istituto tecnico per geometri. E poi mi sono iscritto all’Università”. Trento. “Lo sport che abbatte i muri - Il fair play nel sociale” di Marianna Malpaga ildolomiti.it, 23 agosto 2021 Tra calcio e frisbee, ecco il progetto di Csi Trento e Uepe che coinvolge dieci ragazzi, alcuni esecuzione penale esterna. “Lo sport che abbatte i muri - Il fair play nel sociale” è un progetto proposto dal Csi di Trento in collaborazione con Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) tra l’autunno del 2020 e giugno di quest’anno, che a breve sarà riproposto con un finanziamento Caritro. I cinque ragazzi iscritti al progetto hanno giocato a calcio e a ultimate frisbee assieme ad altrettanti ragazzi in Epe (Esecuzione Penale Esterna). Tra una partita e l’altra, i ragazzi in Epe hanno “svelato” la loro identità e, assieme a Uepe Trento, si è parlato di giustizia riparativa e di reinserimento sociale. Il termine fair play racchiude un mondo. Con quest’espressione inglese si indica letteralmente il “gioco corretto”, una regola non scritta che però dovrebbe essere rispettata da tutti gli sportivi. Il fair play è stato al centro di un progetto proposto dal Centro Sportivo Italiano (Csi) di Trento in collaborazione con l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe), che prende in carico persone in misura d’affidamento, detenuti domiciliari e semiliberi. “Lo sport che abbatte i muri - Il fair play nel sociale” è stato finanziato da un bando della Fondazione Caritro, e si è svolto per tre volte tra ottobre del 2020 e giugno del 2021. A breve sarà riproposto, sempre attraverso un bando della Caritro. Tutto nasce da una collaborazione tra Csi e Uepe di Trento che prende spunto da una convenzione siglata a livello nazionale tra il Ministero della Giustizia e il Centro Sportivo Italiano. “Ho pensato che fosse importante avviare una collaborazione con il Csi di Trento - spiega Luisa Russo, assistente sociale di Uepe - perché la fascia di utenti in messa alla prova tra i 18 e i 29 anni è in crescita, ed è cruciale prestare attenzione ai loro bisogni e favorire delle azioni di inclusione sociale”. Il progetto è stato ideato da Gianluca Fedel del Csi di Trento assieme a un ragazzo in servizio civile, ed ha coinvolto ogni volta dieci ragazzi e ragazze diversi, di cui cinque in Esecuzione Penale Esterna (Epe). Gli iscritti a “Lo sport che abbatte i muri”, però, non sapevano con chi - o contro chi - stessero giocando. L’identità dei cinque ragazzi in Epe è stata svelata solamente in un secondo incontro, dopo una prima partita di calcio giocata nei campetti dell’Arcivescovile di Trento. Gli sport scelti sono stati il calcio e l’ultimate frisbee. Non si è trattato di una decisione casuale. “Sono entrambi degli sport di squadra, ma presentano alcune differenze - spiega Gianluca Fedel, laureato in Scienze motorie. Mentre il calcio purtroppo rappresenta spesso ‘l’antisportività’, nell’ultimate frisbee i valori del fair play sono molto più accentuati. I partecipanti al progetto, quindi, si sperimentano prima in uno sport arbitrato e regolamentato come il calcio e poi in uno sport meno conosciuto e auto-arbitrato, l’ultimate frisbee. Si gioca inizialmente con un arbitro che pone delle regole che bisogna rispettare, per poi confrontarsi in un gioco del quale bisogna conoscere alla perfezione il regolamento, perché ognuno è al tempo stesso giocatore e arbitro”. Tra la partita di calcio e quella di ultimate frisbee è avvenuto anche un altro passaggio: i ragazzi in Esecuzione Penale Esterna hanno “svelato” la loro identità e, assieme a Uepe Trento, si è parlato di giustizia riparativa, pregiudizi e reinserimento sociale. “Prima di arrivare a raccontarsi davanti ad altre persone, esterne all’ambito della giustizia, alcuni ragazzi si sono preparati assieme a me - racconta Chiara Paris, psicologa -. A volte per loro è difficile parlare di ciò che è successo persino con noi, anche perché molte persone spesso non riconoscono neanche la gravità del reato che hanno commesso. Farlo davanti ad ascoltatori non formati è ancora più difficile. È stato un salto nel vuoto per loro, anche perché ci sono molti pregiudizi sulle misure alternative: alle volte da fuori si pensa che rappresentino una sorta di vacanza in cui una persona non si mette in gioco e conduce una vita facile, come se avesse ricevuto una sorta di regalo”. Che effetto ha fatto giocare a ultimate frisbee dopo il momento di riflessione sull’esecuzione penale esterna? “Molti ragazzi mi hanno confessato che non è cambiato niente - spiega Gianluca Fedel - e che il rapporto che avevano sia da compagni di squadra sia da avversari con i ragazzi in Epe era lo stesso rispetto a quello che avevano quando ci avevano giocato non conoscendoli assolutamente. Anche i ragazzi in Epe si sono sentiti più tranquilli: nella prima partita, infatti, avevano un po’ di timore perché sapevano che avrebbero dovuto ‘svelarsi’”. Per i ragazzi e le ragazze in Epe ci sarà in futuro la possibilità di fare un corso di formazione - come arbitro o aiuto-animatore - al Csi di Trento, in modo tale da coinvolgerli maggiormente in percorsi di reinserimento sociale. “Il reato è solo un aspetto della vita della persona - sottolinea Chiara Paris -. La parte più rilevante del lavoro di Uepe riguarda spesso la presa in carico di situazioni disfunzionali che vanno ben oltre il comportamento deviante. Abbiamo a che fare con problematiche legate alle dipendenze, non soltanto da sostanze ma anche da gioco d’azzardo, o con persone che hanno un vissuto complesso: immigrati o ragazzi che hanno situazioni familiari difficili alle spalle. Alcune delle persone che seguiamo sono in affidamento o in detenzione domiciliare, e si trovano spesso in una situazione di solitudine ed emarginazione. Uno dei nostri scopi è proprio quello di supportarli nella costruzione di un contesto sociale più sano. Ed è anche uno degli obiettivi del progetto ‘Lo sport che abbatte i muri’, grazie al quale i ragazzi in Epe possono conoscere dei loro coetanei che non hanno contatti né con il nostro ufficio né con il mondo della delinquenza”. Storia di George Jackson, il detenuto ribelle ucciso nella guerra razziale americana di David Romoli Il Riformista, 23 agosto 2021 Mezzo secolo fa, la mattina del 21 agosto 1971, George Jackson, detenuto nel carcere di San Quentin, aspettava con ansia la visita del suo legale Stephen Bingham, un giovane avvocato bianco, upper class, diventato negli anni 60 militante rivoluzionario. Alle 12 Bingham non era ancora arrivato. Jackson, solitamente tranquillo, si innervosiva sempre di più. L’avvocato era bloccato ai cancelli dalla sorveglianza, che insisteva per fargli lasciare il registratore con cui il legale diceva di voler registrare la testimonianza di Jackson, accusato con altri due detenuti neri, Fleeta Drumgo e John Clutchette, di aver ucciso una guardia carceraria nel penitenziario di Soledad, il 16 gennaio 1970. In quell’agosto 1971 George Jackson era probabilmente il detenuto più famoso d’America, uno dei principali leader afroamericani, una leggenda per i giovani rivoluzionari e radicali dell’intero occidente. Il suo libro Soledad Brothers era un bestseller ovunque. La campagna in difesa dei 3 “fratelli di Soledad” era al centro della politica radical in tutta l’America e oltre. Jackson era entrato in carcere 10 anni prima. Per una rapina da 70 dollari era stato condannato a pena variabile da un anno di carcere all’ergastolo. Ogni anno una corte avrebbe dovuto decidere se liberarlo o fargliene passare altri 12 dietro le sbarre. Ogni anno il pollice era stato puntualmente verso. In carcere si era politicizzato, aveva studiato i classici del marxismo, nel 1966 aveva fondato uno dei primi gruppi comunisti e rivoluzionari neri, la Black Guerrilla Family, radicata soprattutto nelle prigioni, poi si era avvicinato al Black Panther Party di Huey Newton diventando “maresciallo di campo” per le carceri. Il 13 gennaio 1970, nel penitenziario di Soledad, due gruppi di prigionieri, neri e bianchi, erano stati mandati insieme, per l’”ora d’aria”, nello stesso angusto cortile. Nessuno di loro era mai uscito dalla cella da mesi: erano carichi di rabbia ed energia repressa in una fase di tensione razziale altissima. Lo scontro era inevitabile, probabilmente cercato dalla stessa direzione del penitenziario, ed esplose puntualmente. Per “sedare la rissa” una guardia carceraria, dalla torretta, aprì il fuoco, uccise tre detenuti neri e ne ferì un quarto. Tra questi W.L. Nolen, amico di Jackson e anche lui leader della Bgf e delle Black Panthers. Tre giorni dopo il poliziotto fu assolto da ogni accusa dal Grand Jury. Nello stesso giorno un’altra guardia carceraria fu ammazzata all’interno del carcere per rappresaglia. Dell’omicidio furono accusati “i fratelli di Soledad”, tutti militanti rivoluzionari. Al processo, nel 1972, Drumgo e Clutchette furono assolti. Jackson, a quel punto, era già morto. Angela Davis, docente e militante comunista nera, fu tra le più attive nel difendere i Soledad Bothers. Fay Stender, avvocatessa bianca e radical che aveva già difeso con successo il fondatore del Black Panther Party Huey Newton, assunse la difesa anche di Jackson. La causa dei tre detenuti diventò una bandiera. Al Comitato che si formò per sostenerli aderirono Marlon Brando e Jane Fonda, Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti, Noam Chomsky, Benjamin Spock, Pete Seeger, Tom Hayden. Angela Davis non incontrò mai il prigioniero di Soledad, nel frattempo spostato con i co-imputati a San Quentin. In compenso diventò amica di Jonathan Jackson, fratello minore di George, attivissimo nel Comitato. Il 7 agosto 1970 Jonathan, 17 anni, si presentò nell’aula del tribunale di Marin County, California, dove una corte presieduta dal giudice Haley processava James McClain, detenuto e pantera nera, accusato di aver ucciso una guardia carceraria. Nonostante il caldo portava un giaccone lungo. Quando la polizia, insospettita, si avvicinò per perquisirlo tirò fuori un fucile e alcune pistole. Armò McLain e altri due detenuti neri presenti in aula come testimoni. I quattro presero in ostaggio il giudice, il procuratore Gary Thomas e tre membri della giuria. Chiesero la liberazione dei Fratelli di Soledad e un aereo a disposizione per lasciare il Paese. All’uscita del tribunale la polizia sparò sul furgone con dentro rapitori e ostaggi. Tre sequestratori, tra cui Jonathan Jackson e McClain, furono uccisi. Perse la vita anche il giudice Haley, il procuratore Thomas rimase paralizzato dalla vita in giù. Angela Davis, che aveva comprato le pistole usate da Jackson, fu accusata di complicità. Fuggì e diventò a propria volta un idolo dei movimenti rivoluzionari. Fu catturata, arrestata, processata con gli occhi di tutto il mondo puntati sul suo caso. Nel 1972 una giuria composta solo da bianchi la assolse. Dopo la strage di Marin County e dopo che Fay Stender era riuscita a far pubblicare le sue lettere dal carcere con immediato ed enorme successo, George Jackson diventò il nuovo eroe rivoluzionario per i neri come per i radical bianchi. Avrebbe potuto sfruttare la posizione per imporsi come uno dei principali leader della nuova sinistra americana e puntare sulla mobilitazione cresciuta intorno al caso dei Soledad Brothers per ottenere assoluzione e scarcerazione. Non era nel suo carattere. Voleva agire, pensava di evadere per accendere la miccia della rivoluzione americana. Dopo la morte del fratello cercava la vendetta. Chiese all’avvocatessa Stender di portargli un’arma in carcere e il rifiuto provocò una brusca rottura tra i due, legati sino a quel momento anche sentimentalmente. In cella aveva appeso un grande manifesto di Jonathan e sotto aveva scritto, citando Ho Chi Minh, “Il dragone è arrivato”. Ripetè la stessa frase il 21 agosto 1971, minacciando con una pistola due guardie. Forse gli aveva portato l’arma l’avvocato Bingham, nascosta in quel registratore che alla fine la sorveglianza aveva fatto passare. Forse, ma è poco probabile, gli era arrivata per altre vie. Di certo dopo il colloquio con l’avvocato una guardia notò che Jackson aveva qualcosa nascosto nella folta capigliatura crespa. Prima che riuscisse ad avvicinarsi il detenuto aveva impugnato la pistola, con la quale costrinse le due guardie ad aprire le celle, liberando prima 6 detenuti tra cui Drumgo e il suo amico Johnny Spain, di padre nero e madre bianca, poi spalancando tutte le 34 celle del braccio. Nella mezz’ora successiva ci fu una vera mattanza. I rivoltosi sgozzarono cinque guardie, tre delle quali persero la vita. Furono uccisi anche due detenuti bianchi. Dall’interno di San Quentin fu dato l’allarme, il carcere fu circondato. Jackson, il solo armato tra i rivoltosi, e Spain tentarono comunque di traversare il cortile. Il primo fu colpito a morte. Il secondo si arrese, seguito poi da tutti gli altri. L’avvocato Bingham si rese latitante, riparò in Francia dove rimase per 13 anni. Nel 1984 si consegnò alla giustizia americana e due anni dopo fu assolto per insufficienza di prove. Il processo contro i principali rivoltosi, i “San Quentin 6”, si svolse nel 1977 e proseguì per 17 mesi, il più lungo nella storia americana sino a quel momento. Produsse migliaia di pagine di testimonianze senza riuscire a chiarire la dinamica della rivolta e del massacro. Dei sei imputati tre, fra cui Drumgo, furono assolti, altri tre condannati. Solo Spain, in catene per tutta la durata del processo, fu condannato per omicidio ma qualche anno dopo la Corte federale annullò la condanna riconoscendo che i diritti costituzionali dell’imputato erano stati violati tenendolo in catene. La scia di sangue non si fermò lì. L’uccisione di Jackson innescò un’ondata di proteste che portò il 9 settembre alla rivolta del carcere di Attica, conclusa con la più sanguinosa strage in uno scontro tra americani dai tempi della guerra civile: 43 vittime. Il 28 maggio 1979 Edward Glenn Brooks, un detenuto della Black Guerrilla Family appena liberato sulla parola, irruppe nella casa dove Fay Stender, ex avvocato di Jackson, viveva col figlio e la compagna. La costrinse a scrivere poche righe: “Ammetto di aver tradito George Jackson e il movimento delle carceri quando avevano più bisogno di me”. Poi le sparò sei colpi. L’avvocatessa, paralizzata dalla vita in giù, si suicidò l’anno dopo. Fleeta Drumgo, scarcerato, fu ucciso per strada pochi mesi dopo, nel novembre 1979. Nell’orazione funebre Angela Davis lo definì “un martire comunista”. Come George e Jonathan Jackson. La democrazia e i diritti sono un “valore universale” di Sabino Cassese Corriere della Sera, 23 agosto 2021 Ma non c’è un unico modello. Per far valere questo diritto vi sono mezzi diversi e diversi promotori, perché più democrazia vuol dire un mondo più pacifico. Il fallimento della ventennale missione americana in Afghanistan ha confermato l’opinione di molti che la democrazia non possa essere trapiantata. La tesi che la democrazia non sia merce da import-export è antica. La sostengono coloro per cui la democrazia è il prodotto di ogni singolo popolo: ogni società ha il suo diritto e sceglie il suo sistema politico. Le istituzioni politiche debbono essere di origine locale per poter essere accettate dalle rispettive società. Il principio di autodeterminazione dei popoli comporta che essi possano decidere di non scegliere ordinamenti democratici, optando per regimi politici di altro genere. Questo modo di ragionare continua così: ogni singolo popolo dovrebbe disinteressarsi della democraticità dei sistemi politici degli altri popoli. La democrazia è un insieme di istituzioni maturate nel mondo occidentale e non è corretto ritenerla migliore di altri reggimenti politici e cercare di trasferirla in Paesi che hanno tradizioni diverse. È il popolo che decide le sue sorti e sceglie di intestarsi ed esercitare il potere, oppure di affidarlo ad altri accontentandosi di ordinamenti oligarchici, o autoritari, o dittatoriali, o totalitari. Questo punto di vista, che chiamerò la versione estremistica della democrazia, ignora un cambiamento importante avvenuto nel mondo intorno all’inizio del nuovo millennio: il riconoscimento universale del diritto dei popoli alla democrazia. Già la dichiarazione internazionale (poi universale) dei diritti dell’uomo del 1948 e il patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, ambedue adottati nell’ambito delle Nazioni Unite, facevano riferimento a una “società democratica”. Poi, la dichiarazione delle Nazioni Unite del millennio, del 18 settembre 2000, prevedeva l’impegno a promuovere la democrazia e a rafforzare la capacità di tutti i Paesi di realizzarne i principi e le pratiche. Su questa base fu istituito il fondo delle Nazioni Unite per la democrazia e la parallela istituzione dell’Unione Europea. Questi, mediante finanziamenti ad associazioni private, promuovono dall’esterno la democrazia in molti Paesi del mondo. Una volta riconosciuto il diritto dei popoli alla democrazia, sorgono molti problemi: a quale democrazia hanno diritto i popoli? E quali possono essere i promotori della democrazia? Infine, con quali mezzi essi possono agire? La democrazia è una fabbrica composita, composta di elementi diversi: libertà (in particolare, libertà di stampa e di associazione), eguaglianza (in particolare, eguaglianza di genere), diritti delle minoranze, rispetto del diritto, separazione dei poteri, controllo reciproco tra i poteri, periodiche e libere elezioni, decentramento dei poteri. Questi ed altri elementi si mescolano in modo diverso e producono diversi tipi di democrazie. É quindi naturale porsi la domanda: a quale tipo di democrazia hanno diritto i popoli? A questa domanda ha dato una risposta la risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 24 ottobre 2005: la democrazia è un “valore universale”, ma “non c’è un unico modello di democrazia”. La diversità dei tipi di democrazia favorisce il loro trapianto e l’attecchimento in contesti politici e sociali diversi. La seconda domanda riguarda i guardiani universali della democrazia. Finora, la circolazione degli istituti democratici è stata promossa da altri Stati (ad esempio, gli Stati Uniti d’America in Iraq) e da ordinamenti sovranazionali o globali (come nel caso delle Nazioni Unite in Bosnia e dell’Unione Europea in Ungheria e in Polonia). Ma ci si può chiedere se poteri pubblici sovranazionali o globali possano svolgere il ruolo di veicolo della democratizzazione di poteri pubblici nazionali, o di facilitatori dell’esportazione della democrazia da un ordinamento nazionale ad un altro, non essendo essi stessi pienamente democratici (perché traggono la loro legittimazione indirettamente dagli Stati nazionali). E ci si può chiedere quale sia l’equilibrio giusto tra l’unità giuridica del mondo e la differenziazione delle sue parti e tra i principi democratici comuni e il rispetto delle tradizioni locali. Ancor più difficile la risposta alla terza domanda: con quali mezzi possono organizzazioni sovranazionali e globali, o singoli Stati, imporre o ripristinare la democrazia in altri Paesi? Con la forza degli eserciti, come fecero durante la seconda guerra mondiale le forze alleate in Giappone e in Germania (non dimentichiamo che la Germania è rimasta sotto il tallone delle forze di occupazione fino al 1949, che solo dal 1955 ha avuto piena sovranità, e che Berlino è stata sottoposta a occupazione fino al 1990) o le forze multinazionali sotto la bandiera delle Nazioni Unite in Bosnia nel 1992-1995, oppure finanziando associazioni private, come fa l’organizzazione delle Nazioni Unite dal 2005? Conclusione: l’universalità del diritto non è un mito e non lo è il diritto dei popoli alla democrazia. Per far valere questo diritto vi sono mezzi diversi e diversi promotori, perché sia gli Stati, sia le organizzazioni sovra-statali hanno interesse al rispetto di un “corpus” essenziale di regole democratiche da parte di tutti: più democrazia vuol dire un mondo più pacifico, come ha dimostrato il parallelo andamento della crescita della democrazia e della diminuzione della violenza organizzata nel mondo. Le “guerre culturali” nella politica italiana di Alberto Mingardi Corriere della Sera, 23 agosto 2021 La politica è compromesso e proprio per questo è utile che ci sia chi, non facendo il parlamentare ma lo studioso, richiami alla coerenza e al rigore delle scelte. Da una parte e dall’altra. C’è un curioso paradosso, nella politica italiana. Da una parte, il Paese è governato da un esecutivo sostenuto da quasi tutti i partiti, i quali sembrano essere mossi da una convergenza pragmatica (evitare di perdere per strada i fondi di Next Generation EU) e anche dalla convinzione che per governare sia necessario mettere in campo le migliori competenze disponibili. Sull’idea riposa la legittimità di Mario Draghi, premier “non eletto” (si sarebbe detto in un’altra stagione) ma pure un italiano dal cursus honorum inarrivabile. Dall’altra, soprattutto sui social ma non solo, la discussione pubblica sembra snodarsi in una serie di “guerre culturali”, nelle quali domina la convinzione che non vadano fatti prigionieri. Nei giorni scorsi, per esempio, il Ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, è stato additato al pubblico ludibrio come un “sabotatore” della transizione ecologica stessa, da parte di alcuni intellettuali convinti che vada fatto molto di più, molto più in fretta, e soprattutto senza porsi fastidiosi problemi circa i costi della “transizione” stessa. Ciò che colpisce non è tanto che alcuni esponenti del mondo delle idee pretendano di più, per così dire, dagli uomini di governo. La politica è compromesso e proprio per questo è utile che ci sia chi, non facendo il parlamentare ma lo studioso, richiami alla coerenza e al rigore delle scelte. Da una parte e dall’altra. Non è neppure scandaloso che tenda a presentare il suo punto di vista nei termini più netti. Per illustrare un principio, ha scritto Walter Bagehot che non a caso era un grande giornalista, devi esagerare molto e omettere molto. Ma che succede quando ciò che viene omesso è l’idea stessa che la politica debba fondarsi sul compromesso? Succede che si rifiuta non dico la possibilità che gli altri possano avere ragione, ma persino l’idea che abbiano argomenti. Nel caso di Cingolani, che la decarbonizzazione, come qualsiasi altra cosa, non è un pasto gratis. La pandemia ha accentuato una tendenza che da alcuni anni domina l’opinione pubblica dei Paesi occidentali. Per citare, suo malgrado, il presidente del consiglio, tutto è diventato un whatever it takes. Non c’è nulla o quasi che non sia una “battaglia di civiltà”: formula che piace molto al segretario del PD Enrico Letta. E se qualcosa è una battaglia di civiltà, vuol dire che bisogna vincerla, appunto, whatever it takes, costi quel che costi. Ma vuole anche dire che dall’altra parte non c’è un pezzo della società che ha opinioni, sensibilità, interessi diversi, quanto invece un’orda barbarica. È comprensibile che PD e Lega vogliano rassicurare i propri elettori su quanto restano distanti, anche ora che governano insieme. Ma non è solo un gioco delle parti. La pandemia ci ha insegnato a vedere nel nostro prossimo un vettore di contagio, che è incidentalmente una persona. Ci proteggiamo dagli altri mettendoci una maschera sul viso. “Tenere le distanze” è diventata un’espressione di cautela, non di diffidenza. Qualcuno invece ha pensato che “tanto non capiterà mai a me” e si ritiene al di sopra di ogni precauzione. Questi atteggiamenti rafforzano la tentazione di dire agli altri cosa debbono fare. Chi non si vaccina sta dalla parte del virus, chi si vaccina si è fatto fare il lavaggio del cervello da Big Pharma. Buona parte della discussione di questi mesi non è stata neppure pensata come un tentativo di persuaderci dei meriti delle rispettive posizioni. Erano affermazioni col solo scopo di rinfrancare chi le faceva: per sentirsi dalla parte dei giusti, contro l’ignoranza o contro il potere. Seguendo un filosofo del secolo scorso, Michael Oakeshott, possiamo distinguere due approcci all’attività politica. Da una parte, c’è chi considera la politica come un’attività pratica, la cui efficacia è necessariamente limitata e pertanto ritiene debbano esserlo anche i suoi scopi. Dall’altra, ci sono coloro per cui la politica deve realizzare una missione: sradicare il privilegio, eliminare la diseguaglianza, salvare il pianeta dall’inquinamento, eccetera. Ci sono quelli per cui lo Stato deve essere un arbitro e quelli per cui è il capitano della squadra. Questi punti di vista intersecano, di volta in volta, istanze, interessi, prudenze ed entusiasmi diversi. La democrazia è stata più volte paragonata alla discussione scientifica, ma la discussione scientifica è fatta di filtri, di strumenti per depotenziare i pregiudizi (che tutti abbiamo) e soprattutto ammette che nessuno ha diritto all’ultima parola. Invece noi ci ritroviamo con un dibattito in cui tutti vogliono averla, e se possibile ridurre al silenzio l’avversario. Non utilizziamo neppure strumentalmente ciò che dice per mettere a punto le nostre tesi, proprio non lo vogliamo ascoltare. Sentirsi in guerra contro le forze del male è un’esperienza galvanizzante. Per gli adolescenti. Poi si cresce e si comprende che gli altri non necessariamente la vedono come noi e “maturare” è imparare a farci i conti. È curioso che proprio in una società vecchia come la nostra comportarsi da adulti sia fuori moda. L’urgenza dello Ius soli. I timori degli italiani vanno affrontati dalla politica, non negati di Eugenio Scalfari La Repubblica, 23 agosto 2021 La discussione sullo Ius soli, come ha autorevolmente scritto Renzo Guolo su questo giornale, si incaglia sul nodo del consenso. Molti italiani sono scettici verso l’inclusione dei migranti residenti di prima e seconda generazione. Per motivi ideologici e identitari, per timore della concorrenza sul piano del welfare e del lavoro, per paura del futuro. Queste preoccupazioni vanno affrontate dalla politica, non negate o peggio ignorate. “Perché la politica di cittadinanza fondata come in tutti i grandi Paesi occidentali sullo Ius soli non trovi troppe resistenze - osserva Guolo - è necessario non solo tutelare i diritti di chi si ritrova ingiustamente nelle condizioni di figli di un dio minore, ma anche disegnare una cornice nella quale quel provvedimento parli alla Nazione indicando un orizzonte”. Questo non sta succedendo nel dibattito italiano. La questione si pone ormai con urgenza. “La sacrosanta battaglia sullo Ius soli dovrebbe essere un tassello nella più vasta riflessione sull’integrazione culturale. Ed è su questo punto che vanno fornite rassicurazioni”. È anche da questo che si valuta una classe dirigente. C’è una parte importante dell’Europa che ha avuto e ha tuttora una vita collettiva notevolmente difficoltosa. Sono varie etnie, varie comunità, spesso in lite tra di loro: ciascuno difende le proprie famiglie, le proprie amicizie, i propri interessi. Poi dovrebbero congiungersi per lottare uniti contro gli altri gruppi che hanno interessi contrastanti. I territori che nel corso dei secoli hanno dato luogo ad avvenimenti di questo genere sono numerosi e distinti tra di loro: vanno dalla Polonia, la Slovenia, quello che attualmente si chiama il Mare del Nord e quindi l’Olanda, la Manica e insomma terra e mare dell’Europa nordica. Che può partire infatti dall’Olanda e arrivare fino ai monti Urali e alla Russia europea. Una figura orizzontale dal punto di vista geografico, cui bisogna aggiungere il senso verticale di questa terra, la quale arriva naturalmente alla Grecia e scende verso il Mediterraneo e l’Egitto. Questo blocco geografico ha una storia secolare che tuttavia ancora oggi è di grande interesse. Quando si parla dell’Egitto e contemporaneamente della Polonia si porta in ballo il Mediterraneo. Attenzione però: il Mediterraneo ha un andamento verticale (Nord-Sud) e al tempo stesso orizzontale dalla Grecia all’Italia alla Francia alla Spagna e sull’altro versante da Gibilterra fino alla Turchia e al Libano. Questo è il blocco spettacoloso, nell’ambito del quale sono passati secoli e secoli, storie e storie, guerre e alleanze, religioni e divinità. Il cristianesimo è una delle religioni più recenti poiché la sua nascita è dovuta in parte agli ebrei ma soprattutto al giovane Gesù di Nazareth. Gesù viene chiamato anche Cristo ma è un modo non corretto, il vero Gesù si rivela da solo nell’Ultima Cena e poi nell’Orto di Getsemani dove il nuovo portatore di Dio si recò cercando il contatto divino tra lui e un supposto Dio il quale tuttavia ne rifiutò la presenza. Non a caso, storicamente, il Gesù del Getsemani fu arrestato e cominciò in questo modo la spaventosa passione di una moderna divinità. La quale fu ulteriormente colmata con il perdono di uno dei due condannati crocifissi con lui. I greci, i siriani, gli iracheni, il Mare del Nord e infine il Volga e poi gli Urali e infine la Siberia al Nord e la Cina al Sud con in mezzo una quantità di popoli, di religioni e di civiltà. Questa è la Storia del Mondo. Quel mondo che noi conosciamo. Questa complessivamente è la storia della nostra vita. E Dio? È formidabile la storia di Dio, la quale comporta anzitutto la numerosità divina: non c’è un Dio unico e neppure un Dio solitario. La divinità è un fenomeno gigantesco che va in tutte le direzioni, in tutti i significati, in tutta l’esistenza. Dio è divino. Attenzione però: divino ma non unico. Le religioni, come abbiamo già visto, sono molteplici anche se tendono all’unificazione dell’Ente. Nasce in questo modo una immensa categoria di pensiero: gli Dei, il Dio. Ci sono studiosi di formidabile importanza nella vita degli uomini, il più importante dei quali è Cartesio con il suo cogito ergo sum ed Eraclito con il suo panta rei e Parmenide con la sua filosofia dell’Essere. Probabilmente una figura della massima importanza che abbiamo conosciuto e conosciamo tuttora è Papa Francesco. Ha in mente una divinità che si compone di energia e di identificazione dell’universo con il Dio unico e totale. Con lui terminiamo con un Dio che si identifica con la vita. Perché abbiamo perso la sfida dei diritti umani di Donatella Stasio La Stampa, 23 agosto 2021 Quindici anni dopo son ci sono più certezze. È una sconfitta anche per il nostro Paese. Caro Direttore, leggo e ascolto le cronache dall’Afghanistan e inevitabilmente torno col pensiero al 2006, l’anno in cui l’aspettativa di costruire uno Stato di diritto, conciliando la Sharia con il rispetto dei diritti umani, aveva contagiato non solo l’Italia - “Paese guida”, in ambito Onu, nel processo di riforma della giustizia afghana - ma anche le istituzioni e la popolazione, in particolare le donne. Di quelle aspettative sono stata testimone, le ho respirate e raccontate sul Sole-24 Ore (quotidiano per il quale lavoravo all’epoca), insieme alle contraddizioni e agli ostacoli che sembravano smentirle quotidianamente; così come, peraltro, a cinque anni dall’intervento militare americano, la mancanza di luce, di acqua, di strade asfaltate, le fogne a cielo aperto, le scuole fatiscenti sembravano smentire qualunque idea di “nation building” in atto. Di certo, la sfida più difficile ma cruciale era proprio quella assunta dall’Italia: non già “esportare” le nostre regole penali, civili, penitenziarie, ma promuovere il rispetto dei diritti umani nell’interpretazione della Sharia e della giustizia tribale. Un obiettivo ambizioso, niente affatto minimalista, rispettoso della storia e della cultura di un Paese di 20 milioni di abitanti divisi in gruppi tribali ed etnici spesso in lotta tra loro (pashtun, tajiki, hazara, uzbeki, turkmeni), in cui per secoli la giustizia formale ha convissuto con quella informale, e quest’ultima ha sempre gestito il 90% dei conflitti, svolgendo peraltro un ruolo fondamentale nel mantenimento dell’ordine sociale, soprattutto nelle province rurali. Obiettivo talmente cruciale da essere temuto dai talebani, i quali, già nel 2007, in occasione del rapimento del giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, minacciarono di far pagare all’Italia la “colpa” di aver cercato di promuovere - nelle università, nei tribunali, nelle istituzioni - un’interpretazione progressista e non fondamentalista della Sharia (espressamente richiamata dalla Costituzione del 2004). Proprio nel 2006, le cronache diedero ampio risalto al caso di Abdul Rahman, l’afghano convertitosi, 16 anni prima, al cristianesimo e accusato di apostasia, crimine punito dalla Sharia con la pena di morte (l’uomo, anche grazie all’intervento italiano, fu poi scarcerato e trasferito in Italia come rifugiato politico). In realtà, la condanna per apostasia non porta sempre alla pena di morte: dipende dall’interpretazione che si dà alla legge islamica. Ne ebbi la conferma in quei giorni: da Kabul mi trasferii nella provincia di Logar, dove la giustizia è amministrata quasi esclusivamente secondo tradizioni tribali, spesso precedenti al Corano, dove predominavano gli integralisti e da dove i taleban, di fatto, non se ne erano mai andati. Eppure, quando riuscii a parlare con Sardagull - maestro di professione ma anche “giudice” in quanto componente del Consiglio degli anziani (Shura) di Pul-I-Alam, capoluogo di Logar - e gli chiesi dell’apostata, le sue parole furono: “Ogni persona è nata libera. Se Abdul Rahman fosse davanti a me, non lo toccherei, lo lascerei libero. Quando sarà davanti a Dio dovrà spiegare a lui del perché lo ha rinnegato”. Scendendo più a Sud, nella provincia di Paktya ai confini con il Pakistan, un altro “anziano” della Shura locale, Akbar Nikzad, economista e ingegnere, mi rispose invece così: “La Sharia è chiara: il murtad, l’apostata, va condannato a morte e nessuno può interferire dall’esterno sulla Sharia”. Ecco, Sardagull e Nikzad ben rappresentavano le due anime dell’Afghanistan: molto legato alle proprie tradizioni locali e religiose ma anche capace di trovare all’interno di quelle tradizioni risposte rispettose dei diritti umani. Sardagull mi confermò che l’integralismo islamico può lasciare spazio a interpretazioni del Corano compatibili con il rispetto dei diritti umani, delle donne, dei bambini, dei disabili, delle diverse etnie e delle differenze religiose, e che quindi la strada imboccata dall’Italia (con un impegno finanziario che nel 2007 era arrivato a 62 milioni di euro) era giusta, seppure in salita. Una strada fatta non solo di norme scritte ma anche di strumenti di comunicazione come la radio (perché nelle zone rurali non tutti avevano la tv), manifesti, favole, fotografie. Un approccio senza forzature ma penetrante. Naturalmente, il governo afghano doveva fare la sua parte, per esempio nel garantire una magistratura indipendente e competente (la maggior parte dei magistrati proveniva dalle madrasse, le scuole coraniche che sfornano mullah privi di qualsiasi cognizione giuridica) e formata anche da donne (all’epoca, su 1500 magistrati, le donne erano solo 60). E avrebbe dovuto arginare il fenomeno della corruzione, dilagante nei tribunali statali: mi colpì entrare in questi luoghi spesso rinfrescati da poco e rendermi conto che erano quasi sempre vuoti mentre davanti alle Shure c’erano lunghe file di persone che aspettavano una parola di giustizia. “La Giustizia statale è costosa, lenta e non dà certezze, mentre quella tradizionale è rapida e dà risposte certe” fu la semplice risposta di Nikzad quando gli chiesi come mai i tribunali statali fossero deserti e le Shure affollate. Tuttavia, malgrado il contesto difficile, ripartii carica anch’io di aspettative, con negli occhi il viso tondo di Sardagull incorniciato dalla sua bella barba nera e nelle orecchie le parole con cui mi salutò, ricordandomi che lui, pasthun, si sentiva “un afghano, e basta”. I miei ricordi si fermano qui. Quindici anni dopo, l’Afghanistan non sembra avere né certezze né aspettative sulla costruzione di una comunità fondata sul rispetto dei diritti umani: questo dice la grande fuga dal Paese. E questa è una sconfitta anche per l’Italia. *Responsabile della comunicazione della Corte Costituzionale Le ragazze di Kabul e la libertà negata di Elvira Serra Corriere della Sera, 23 agosto 2021 Possiamo vestirci come ci pare, amare chi vogliamo, studiare, lavorare e dire sciocchezze sui social, mentre da un giorno all’altro abbiamo “scoperto” la questione afghana e quanto può mancare - davvero - la libertà. Possiamo diventare astronaute, avvocate, giornaliste, pornostar, ballerine, deputate, economiste o chirurghe. Possiamo vestirci come ci pare, con i pantaloni o con la minigonna, con il reggiseno o senza. Possiamo scegliere di votare a destra o a sinistra, di manifestare nelle piazze contro il governo, di partecipare a rave illegali, di andare ai concerti dei nostri cantanti preferiti; perfino a quelli improvvisati, in migliaia e senza mascherina. Possiamo amare chi vogliamo, uomini o donne, baciare il nostro partner per strada, tenergli la mano, farci l’amore in spiaggia nelle notti d’estate. Possiamo divorziare, possiamo risposarci, possiamo essere single. Possiamo abortire, possiamo restare a casa in maternità (quando non ci fanno firmare prima le dimissioni, ma questa è un’altra storia...). Possiamo lavorare e possiamo provare a far carriera anche se abbiamo una famiglia (è più difficile, non ci regalano niente, ma sì, possiamo fare pure questo, tra molte acrobazie e una determinazione di ferro). Possiamo dissentire sui social senza metterci la faccia, basta solo un nickname. Possiamo offendere gli altri, protetti dall’anonimato, scrivere cose interessanti o qualsiasi stupidaggine. Anche la più stupida di tutte: che in Italia c’è un regime, una dittatura sanitaria, lo schifo. E possiamo scriverlo nel momento in cui vediamo chiudersi sopra il cielo dell’Afghanistan una cappa che vuole cancellare il futuro delle donne e dei bambini, degli studenti, degli uomini di buona volontà. Cancellarlo per davvero. Amputare ogni germoglio di speranza. È per questo che abbiamo visto madri (e padri) lanciare i propri figli oltre il filo spinato dell’aeroporto di Kabul, tra le braccia dei soldati stranieri. È per questo che le ragazze afghane sono andate a comprarsi il burqa, sapendo di doverlo indossare presto. È per questo che piangono nei video che fanno il giro del mondo. Perché in questo momento loro, davvero, non possono fare niente. Mentre noi, che da un giorno all’altro abbiamo “scoperto” la questione afghana, ci lanciamo in paragoni spericolati tra ballerine retribuite che si esibiscono con un paralume in testa e giovani donne che non potranno più uscire di casa senza essere scortate dal padre o dal fratello. Dicono che in Italia non ci sia libertà. Trovate le differenze. Per proteggere le donne afghane non bastano i corridoi umanitari di Giorgia Serughetti Il Domani, 23 agosto 2021 Per l’opinione pubblica occidentale, “salvare” le donne e le bambine afghane appare come una priorità unanime. Persino Matteo Salvini sposa l’ipotesi di corridoi umanitari dedicati solo a loro. Queste risposte rischiano di lasciare immutata la realtà, esonerando le democrazie occidentali dal volgere lo sguardo al proprio interno, alle proprie politiche in materia di frontiere, migrazioni e asilo. Le nostre procedure d’asilo stentano a riconoscere come forme di persecuzione la violenze che hanno luogo nel “privato”, le violazioni della libertà, della salute, dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne. Con le immagini di corpi e volti nascosti dal burqa, le donne afghane tornano a rappresentare il simbolo dell’oppressione fondamentalista islamica. Non solo: dopo il collasso delle istituzioni di Kabul di fronte al ritorno dei talebani, il destino di quelle giovani donne, cresciute nella faticosa conquista di libertà, istruzione, lavoro, evoca la fragilità del modello democratico e dei diritti umani nel mondo. Per questo, per l’opinione pubblica occidentale, “salvare” le donne e le bambine afghane appare come una priorità unanime. Persino Matteo Salvini sposa l’ipotesi di corridoi umanitari dedicati - beninteso, solo a loro: “Porte aperte per migliaia di uomini, fra cui potenziali terroristi, assolutamente no”. Di contro, voci critiche come quella della scrittrice Igiaba Scego mettono in guardia verso il “white saviorism”, cioè la retorica paternalista dell’occidente bianco: “le donne afgane”, ha scritto su Facebook, “non vogliono essere salvate, vogliono essere appoggiate nella loro battaglia di autodeterminazione. Non cercano salvatori/salvatrici, ma alleate e alleati”. Naturalmente, come hanno mostrato le immagini di persone fuga all’aeroporto di Kabul, tante donne e tanti uomini vogliono letteralmente essere messi in salvo fuori dai confini del paese. Ciò rende particolarmente urgente l’apertura di corridoi umanitari. Tuttavia, le critiche alla retorica umanitaria colgono un aspetto cruciale: passata l’onda emotiva, queste risposte rischiano di lasciare immutata la realtà, esonerando le democrazie occidentali dal volgere lo sguardo al proprio interno, alle proprie politiche in materia di frontiere, migrazioni e asilo, con speciale riguardo proprio alle donne. L’Afghanistan è la seconda nazionalità per numero di domande d’asilo nell’Unione Europea e, secondo i calcoli dell’Ispi, sono almeno 310.000 le persone di questo gruppo oggi prive di protezione, di cui circa 60.000 sono donne, quasi la metà minorenni. Al di sotto delle accorate denunce dei diritti conculcati in altre parti del mondo, la realtà è che le nostre procedure d’asilo stentano a riconoscere come forme di persecuzione le violenze che hanno luogo nel “privato”, le violazioni della libertà, della salute, dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne - anche per l’assenza di riferimenti al “genere” nel diritto internazionale dei rifugiati. Nel nostro libro Donne senza Stato, Ilaria Boiano ed io sosteniamo che per rispondere alla richiesta di protezione di donne che subiscono violenze di genere nel proprio paese occorrerebbe “un sistema rivisitato sotto il profilo dei presupposti e che potrebbe trovare ispirazione dal diritto di asilo previsto all’articolo 10 della Costituzione italiana”, secondo cui l’asilo va accordato allo “straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche”. Si tratta di una proposta radicale e senz’altro ambiziosa per la vastità dei gruppi umani, in particolare di donne, che potrebbe interessare. Ma come essere all’altezza altrimenti dei principi che professiamo? La caduta di Kabul alimenta le preoccupazioni di Israele di Davide Lerner Il Domani, 23 agosto 2021 Lo stesso ex primo ministro Ehud Barak ha detto “l’Afghanistan è a migliaia di chilometri dagli Stati Uniti, e nulla che possa accadere laggiù è una minaccia diretta ai suoi cittadini”. Per lui quella di Biden è “una mossa audace che la storia non mancherà di apprezzare”. Al contrario dell’ex leader laburista, le destre israeliane interpretano la presa del potere da parte dei Talebani come un monito a mantenere il più a lungo possibile il controllo sui territori occupati, in primis la Cisgiordania palestinese. A breve ci sarà però il primo incontro fra il nuovo premier israeliano, Naftali Bennett, e il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, previsto per giovedì 26 agosto, a dominare l’attualità nello stato ebraico. Folle di fuggitivi assiepati sulla barriera di separazione. Un esercito che dopo vent’anni si lascia alle spalle il caos. I combattenti islamisti che spazzano via quello che resta delle unità di collaboratori locali. In Israele le immagini dell’aeroporto di Kabul si sono immediatamente sovrapposte con le memorie del ritiro dal Libano, il 24 maggio 2000, quando la decisione attesa ma improvvisa dell’allora primo ministro Ehud Barak gettò nel panico i soldati dell’Esercito libanese del sud (Sla), appendice dell’esercito israeliano (Idf) ormai allo sbaraglio con l’avanzare dei miliziani sciiti di Hezbollah. Dopo essere penetrato in Libano negli anni della guerra civile per annientare Arafat e la sua Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), l’esercito di Israele aveva cercato di stabilire potentati locali amici. La proclamazione del “Libano libero e indipendente” nel sud del paese, da parte del fondatore del Sla Saad Haddad, e il tentativo di sostenere il cristiano Bachir Gemayel a Beirut, si erano però rivelati dei fallimenti. Per anni l’Idf avrebbe subappaltato l’occupazione della cosiddetta “zona di sicurezza” ai miliziani alleati, ma continuando a subire perdite ingenti per mano della guerriglia islamista. Migliaia i libanesi che ottennero asilo in Israele dopo il ritiro, e che vivono a oggi nel nord nel paese. Le differenze - Lo stesso ex primo ministro Barak, fautore del disimpegno, ha detto la sua mentre il paragone avventato con le vicende di Kabul si affermava nel discorso pubblico israeliano. In un editoriale sul giornale Yedioth Ahronoth ha fatto notare che a differenza del Libano “l’Afghanistan è a migliaia di chilometri dagli Stati Uniti, e nulla che possa accadere laggiù è una minaccia diretta ai suoi cittadini”. Per lui quella di Biden è “una mossa audace che la storia non mancherà di apprezzare”. Al contrario dell’ex leader laburista, le destre israeliane interpretano la presa del potere da parte dei Talebani come un monito a mantenere il più a lungo possibile il controllo sui territori occupati, in primis la Cisgiordania palestinese. È il caso dell’ex primo ministro e leader dell’opposizione Benjamin Netanyahu, che ha rivelato un episodio curioso per ribadire l’importanza strategica dell’occupazione. “Nel 2013 (l’ex Segretario di Stato) John Kerry mi invitò a fare una visita segreta in Afghanistan per vedere, a quanto diceva lui, come gli Stati Uniti erano stati in grado di creare un esercito locale che teneva testa al terrorismo da solo”, ha raccontato su Facebook. “Il messaggio era chiaro: quello afghano era il modello che gli Stati Uniti volevano applicare alla questione palestinese (cioè dotando di mezzi militari l’Autorità di Ramallah, ndr)”. Netanyahu, a cui era stato offerto di viaggiare servendosi di un travestimento, declinò l’invito. A breve ci sarà però il primo incontro fra il nuovo premier israeliano, Naftali Bennett, e il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, previsto per giovedì 26 agosto, a dominare l’attualità nello stato ebraico. L’ultima volta che due leader neoeletti di Washington e Gerusalemme hanno avviato un confronto, all’epoca del primo mandato di Barack Obama e del ritorno al potere di Netanyahu nel 2009, le cose non sono andate per il verso giusto. Lo racconta lo stesso Obama nella sua lunga autobiografia (il primo volume è uscito in Italia per Garzanti, 805 pagine), seppur nei toni prudenti che caratterizzano il libro. La sua richiesta di andarci piano con gli insediamenti illegali, in occasione dei primi contatti, scatenò fin da subito un’aggressiva campagna di Bibi, volta a screditarlo nei circoli più influenti di Washington. “Il chiasso orchestrato da Netanyahu aveva ottenuto l’effetto desiderato: farci perdere tempo, metterci sulla difensiva e ricordarmi che le normali differenze di vedute con un primo ministro israeliano - perfino se a capo di una fragile coalizione - avevano un prezzo in termini di politica interna che semplicemente non dovevo mettere in conto quando trattavo con il Regno Unito, la Germania, la Francia, il Giappone, il Canada o un altro dei nostri alleati più stretti”, ha scritto Obama. E ancora: “Era difficile dire se Netanyahu avesse ereditato dal padre anche l’ostilità nei confronti degli arabi che dichiarava senza batter ciglio”. In un’occasione, Netanyahu pubblicizzò una normale attesa prima di un incontro con Obama alla Casa Bianca come un grave affronto allo stato ebraico. Ma seppur provenienti da schieramenti opposti, come Obama e Netanyahu, le premesse all’incontro Bennett-Biden sono migliori. L’amministrazione americana ha interesse a favorire la sopravvivenza del governo di coalizione capeggiato dall’ex allievo di Bibi, che include anche forze progressiste, ed è dunque improbabile lo metta alle strette su questioni divisive. Bennett è il decimo leader israeliano che Biden incontra in vesti istituzionali - la prima fu Golda Meir quando era ancora senatore negli anni 70 - e i precedenti restituiscono una tendenza accomodante. Da parte sua Bennett, che come Netanyahu è cresciuto a cavallo fra Israele e Stati Uniti, ha bisogno di entrare in sintonia con Biden per costruirsi una statura internazionale. Dai rispettivi comunicati sull’incontro affiorano però vecchie frizioni. Mentre quello della Casa Bianca cita la questione palestinese fra i temi da affrontare, quello dell’ufficio del primo ministro israeliano non ne fa menzione. In linea con l’era Netanyahu, in cima alle preoccupazioni di Gerusalemme c’è piuttosto il nucleare iraniano, e la possibilità che i negoziati di Vienna rilanciano l’accordo Jcpoa che era stato cestinato dall’ex presidente Donald Trump. “Sia noi che gli americani non vogliamo che l’Iran ottenga armamenti nucleari”, dice il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Lior Hayat, ex console negli Stati Uniti. “Differiamo soltanto su come raggiungere questo risultato”, aggiunge, sminuendo i possibili attriti fra i paesi alleati. Durante il colloquio, Biden potrebbe tornare sulla questione degli investimenti cinesi in Israele, che da tempo impensieriscono la Casa Bianca. Lo stesso capo della Cia, William Burns, durante una visita a Tel Aviv nella seconda settimana di agosto, aveva sollevato il problema del possibile coinvolgimento di aziende di Pechino in infrastrutture strategiche israeliane, come il porto di Haifa. Il timore è che gli appalti favoriscano la penetrazione dei servizi di intelligence cinese. Proprio in una fase in cui l’apertura di Pechino al nuovo regime talebano in Afghanistan porta alcuni analisti a paventare un’espansione strategica del Dragone in Medio Oriente. È invece difficile venga sollevata la questione di Zablon Simintov, l’ultimo ebreo dell’Afghanistan, che pure sta impensierendo i vertici delle istituzioni israeliane. La preoccupazione per le sue sorti ha fatto ipotizzare rocambolesche operazioni di salvataggio, per cui potrebbe servire la cooperazione degli Usa. Ma secondo rappresentanti dello stato ebraico sentiti da Domani, lo stesso Simantov avrebbe manifestato la volontà di rimanere a Kabul. “Israele in passato ha aiutato ebrei a fuggire da territori ostili”, dice Lior Hayat del ministero degli esteri israeliano, “ma prima di tutto bisogna che vogliano venire loro, e in questo caso i nostri contatti suggeriscono il contrario”. Noto per il carattere scontroso e mitomane, oltre che per il consumo copioso di bevande alcoliche, Simintov è già stato in prigione sotto l’ultimo regime talebano. Così come il suo ultimo correligionario afghano Isaak Levi, nel frattempo scomparso. I due, che vivevano barricati in zone diverse della cosiddetta “Moschea ebraica”, il palazzo che ospita due ex sinagoghe in via dei fiori in centro a Kabul, si consideravano “l’uno il peggior nemico dell’altro” secondo un dispaccio in presa diretta del Guardian nel 2002. Tanto che fu denunciandosi a vicenda che finirono per attirare l’attenzione dei talebani. Gli islamisti li avrebbero poi liberati perché esasperati dai loro furiosi litigi in cella. Egitto. Patrick Zaki rimane ancora in carcere: rinnovata la custodia cautelare La Repubblica, 23 agosto 2021 Si attende la notifica per sapere di quanti giorni sarà prolungata la sua detenzione. Ci speravano, ci contavano come sempre i suoi amici, gli attivisti che da oltre un anno e mezzo si battono per la sua liberazione. “C’era anche la coincidenza di una importante festività della comunità religiosa copta, speravamo che potesse indurre il giudice a mettersi le mani sulla coscienza” commenta Riccardo Noury, voce di Amnesty International Italia. Non è andata così: Patrick Zaki, lo studente egiziano attivista per i diritti umani e iscritto all’università di Bologna, rimane in carcere. La custodia cautelare nella prigione di Tora, alle porte del Cairo, è stata rinnovata dopo l’udienza di oggi. Lo ha confermato all’Ansa una sua legale, Hoda Nasrallah, senza poter precisare per quanti giorni: questo verrà notificato domani o dopodomani, ha aggiunto l’avvocatessa. L’annuncio è arrivato prima del previsto, dato che in genere la notifica dell’esito delle udienze viene dato il giorno dopo, ma stavolta è stata una delle rare eccezioni a questa regola. Si tratta dunque ora di apprendere se l’ennesimo prolungamento sarà, come di norma, di 45 giorni o meno, come ha lasciato supporre la legale senza voler formulare ulteriori previsioni sull’esito dell’udienza svoltasi presso il Tribunale allestito nell’Istituto per assistenti di polizia, annesso al carcere di Tora, all’estrema periferia sud del Cairo dove Patrick è rinchiuso dormendo per terra. Viene disatteso dunque l’augurio espresso da Riccardo Noury che per Patrick “18 mesi e mezzo di detenzione, senza potersi difendere” fossero “sufficienti”. E resta ancora senza risultati la mobilitazione italiana in suo favore, culminata istituzionalmente in una richiesta della Camera dei deputati al Governo di cittadinanza italiana. Eppure, su richiesta italiana, diplomatici delle Ambasciate di Italia, Regno Unito e Usa si erano recati in tribunale al Cairo nell’ambito del meccanismo di osservazione processuale dell’Unione europea. Diplomatici italiani hanno seguito tutte le udienze e anche stavolta sono intervenuti in rappresentanza di tutta l’Ue. Già da mesi non è più consentito agli esterni, e quindi nemmeno ai diplomatici, l’accesso al Tribunale per la sicurezza di Stato dove si svolgono le udienze e i funzionari, come di consueto, hanno depositato una comunicazione scritta per segnalare al giudice l’interesse per il caso e la volontà di riprendere ad assistere alle sedute. I diplomatici hanno comunque colto l’occasione per raccogliere aggiornamenti dall’avvocatessa di Patrick, Hoda Nasrallah, e parlare con attivisti che lo sostengono. Patrick fu arrestato il 7 febbraio 2020 ma la custodia cautelare in Egitto può durare due anni con possibilità di prolungamenti se emergono nuovi elementi d’accusa. Se si andrà a processo, secondo Amnesty International, il ricercatore-attivista per i diritti umani e civili rischia fino a 25 anni di carcere. Le accuse a suo carico sono basate su dieci post di un account Facebook che i suoi legali considerano curato da un’altra persona ma che hanno configurato fra l’altro la “diffusione di notizie false”, “l’incitamento alla protesta” e “l’istigazione alla violenza e ai crimini terroristici”. Abu Dhabi. Imprenditore italiano in carcere: “Costretto a fare a botte per divertire le guardie” di Mattia Todisco Il Giorno, 23 agosto 2021 Rivelazione choc del trader milanese Andrea Giuseppe Costantino da cinque mesi senza sapere perché alla moglie nell’unica telefonata concessa. Andrea Giuseppe Costantino, il quarantanovenne trader milanese finito in carcere ad Abu Dhabi dopo un arresto avvenuto il 21 marzo scorso in un albergo a Dubai, è finito in infermeria a seguito di un combattimento tra detenuti. A raccontarlo è la moglie, Stefania Giudice, che insieme agli avvocati Cinzia Fuggetti in Italia e Albdel Alqadir Ismail sul posto sta cercando di aiutare il marito in ogni modo possibile. “Andrea mi ha detto che le guardie carcerarie organizzano combattimenti per loro divertimento”, ha raccontato a Studio Aperto dopo una delle telefonate concessa dal carcere, sporadicamente e per pochi minuti. “Mi rendo conto che giorno dopo giorno Andrea diventa un prigioniero del silenzio - aggiunge. Mi ha chiesto di insistere con l’avvocato locale, con la Farnesina e con l’ambasciata e questo lo facciamo sempre, ogni giorno. Non ne passa uno che io e l’avvocato non scriviamo a tutti”. I mesi passano, da quel 21 marzo. Un tempo infinito per chi è costretto dietro le sbarre e non conosce ancora il motivo. Secondo quanto raccontato in questi mesi dai legali e dalla Giudice, non c’è ancora un capo d’accusa. Gli stessi avvocati hanno smentito che l’uomo sia sottoposto a un’indagine per riciclaggio di denaro e finanziamento del terrorismo. I rapporti tra i Paesi interessati dalla vicenda, Italia ed Emirati Arabi, sono politicamente molto complicati per vari motivi, non ultimo l’embargo sulla vendita di armi all’UAE deciso lo scorso gennaio e per il quale si sta discutendo in queste settimane nel mondo politico italiano. In attesa di novità dai vertici politici, a cui continua a rivolgersi, l’avvocato Fuggetti non nega una forte preoccupazione. “Ero presente alla conversazione tra la moglie e Andrea Costantino perché era il compleanno di Stefania Giudice, non mi sono sentita di lasciarla sola - ci ha spiegato -. Messo in vivavoce ho sentito la telefonata e lui ha raccontato che lo hanno portato nella clinica interna. Personalmente, conoscendo Andrea, ne avverto la stanchezza e da professionista, dopo tanti anni, non ho mai sentito un mio detenuto così provato. Ho assolutamente paura per la sua stabilità psichica oltre che per l’incolumità fisica. Temo possa prendere decisioni definitive”. Va ricordato che nelle passate settimane al detenuto italiano non è stata accordata alcuna richiesta: una risonanza magnetica di controllo per una precedente operazione, più banalmente la possibilità di scegliere un legale. La persona che sta lavorando ad Abu Dhabi, Albdel Alqadir Ismail, è stato interpellato dalla famiglia ma formalmente non ha ricevuto l’incarico dal Costantino e quindi non ha accesso ai file. “Sono disperata - dice ancora lamoglie - perché nell’ultima telefonata ho sentito un uomo completamente consumato. Nostra figlia Agata di 4 anni ha capito che era lui al telefono e chiedeva di papà. Ho chiesto se poteva salutare e ha avuto cinque secondi, il tempo di dirle che la ama tanto e le mandava tantissimi baci. Poi la linea si è interrotta. Questo è l’incubo che stiamo vivendo da cinque mesi e tutto questo mi devasta”.