“Il carcere non rispetta la Costituzione, va migliorata la qualità della vita dei detenuti” di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 22 agosto 2021 Parla Carmelo Cantone. “Dispiace doverlo ammettere, ma in alcuni casi il carcere non rispetta la Costituzione. Vanno migliorate la qualità della vita dei detenuti, attraverso misure capaci di decongestionare le celle, e quella del lavoro degli operatori, attraverso massicce assunzioni di personale. Il Governo deve centrare questi obiettivi e deve farlo al più presto”. Carmelo Cantone è da poche settimane alla guida dell’Amministrazione penitenziaria della Campania. Ha preso il posto di Antonio Fullone, sospeso dal servizio perché coinvolto nell’inchiesta sui pestaggi avvenuti il 6 aprile 2020 nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. Eppure Cantone, 64 anni, da tempo provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise, ha le idee chiare sulle emergenze e sui problemi strutturali che affliggono le carceri campane, inclusi quelli denunciati dagli avvocati delle Camere penali che a Ferragosto hanno visitato i penitenziari di Santa Maria Capua Vetere, Bellizzi e Ariano Irpino. Nella prima struttura manca il collegamento alla rete idrica e, per bere e per lavarsi, i detenuti sono costretti ad acquistare l’acqua in bottiglia a prezzi spesso e volentieri triplicati rispetto a quelli praticati all’esterno; nei due penitenziari irpini, invece, i reclusi devono accontentarsi di una doccia al giorno e rinunciare alle attività trattamentali a causa della carenza di personale di sorveglianza. “Le direzioni hanno segnalato la mancanza di acqua che si presenta puntualmente quando la domanda è troppo elevata - fa sapere Cantone - Quanto ai prezzi delle merci in carcere, avvieremo una serie di ulteriori verifiche per accertare che essi siano in linea con quelli praticati nelle attività commerciali di riferimento”. Al netto delle emergenze, però, c’è pur sempre da fare i conti con i problemi strutturali dei penitenziari. E il primo è quello del sovraffollamento. Basti pensare che, nelle 15 prigioni regionali, al 31 luglio erano presenti 6.413 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 6.107 posti. In altri termini, dietro le sbarre c’erano ben 306 persone “di troppo”. “Il problema si attenuerà con la fine dello stato d’emergenza legato al Covid - spiega Cantone - Fino a quel momento, le direzioni saranno costrette ad allestire, all’interno delle carceri, spazi per la quarantena dei soggetti provenienti dalla libertà. Per il resto, la speranza è che il Governo acceleri sulle misure indicate dalla ministra Marta Cartabia: non solo un potenziamento delle strutture, ma soprattutto un ragionevole ampliamento del ricorso alle misure alternative, a cominciare dalla detenzione domiciliare. Se poi si riconoscesse al giudice di cognizione il potere di disporre la misura alternativa all’atto della pronuncia della sentenza di condanna, a quel punto centinaia di persone eviterebbero di transitare per il carcere e quest’ultimo ne guadagnerebbe in vivibilità”. L’altro grande problema strutturale è quello del personale. In Campania mancano all’appello circa 500 agenti di polizia penitenziaria. E questo si traduce in forti disagi sia per i detenuti, spesso costretti a rinunciare alle attività trattamentali a causa della mancanza di poliziotti che li sorveglino durante l’orario fissato proprio per quelle attività, sia per le stesse guardie carcerarie, rassegnate a lavorare in condizioni proibitive. Qualcosa potrebbe cambiare a settembre, quando saranno immessi in ruolo circa 970 agenti. Basteranno? Probabilmente no, se si considera che saranno suddivisi tra gli undici provveditorati dell’amministrazione penitenziaria nazionale e che, di conseguenza, in Campania ne arriveranno meno di un centinaio. “Più personale significa non solo più sicurezza, ma anche più formazione, più lavoro e più volontariato in carcere - conclude Cantone - Bisogna colmare al più presto le voragini nelle piante organiche, già abbondantemente sacrificate dalla legge Madia. È in dispensabile per avere penitenziari in linea con la Costituzione e con le leggi”. Mai più magistrati soli al comando con il rafforzamento dell’ufficio per il processo di Nicola Graziano Il Riformista, 22 agosto 2021 Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) prevede una serie di interventi in materia di giustizia tra i quali il reclutamento a tempo determinato di 16.500 unità destinate al rafforzamento dell’ufficio per il processo sia in materia civile sia in materia penale. Si tratta di una misura destinata a modificare l’assetto organizzativo degli uffici giudiziari italiani attraverso un rinnovato vigore dell’ufficio per il processo che è chiamato a cambiare le sorti del concreto esercizio della giurisdizione: uno staff che affianca il giudice con l’obiettivo di ridurre l’arretrato civile e penale e abbattere i tempi della risposta di giustizia. È un progetto ambizioso che, tra l’altro, risponde a una specifica richiesta della Commissione europea volta a ottenere la riduzione del 40% dei tempi di durata dei procedimenti civili, in ogni grado di giudizio, e del 25% di quelli dei procedimenti penali. Una sfida ambiziosa che è stata recepita con grande determinazione da parte del governo Draghi e che sarà destinata a modificare le sorti della giustizia in Italia. Il 6 agosto scorso è stato indetto un primo concorso pubblico per reclutare personale con il profilo di addetto all’ufficio per il processo dal quale emerge che, con riferimento al distretto di Corte di appello di Napoli, saranno 956 le unità da distribuire poi nei vari Tribunali, primi fra tutti quelli di Napoli e di Napoli Nord che, unitamente agli altri, saranno chiamati a una previsione operativa da inserire nei progetti tabellari (per esemplificare, l’ufficio per il processo è previsto nelle tabelle del Tribunale di Napoli per tutte le sezioni penali, comprese Riesame e Prevenzione, e per le sezioni civili con una prima indicazione del personale amministrativo e dei altri addetti all’ufficio stesso). Anche in Campania, dunque, ci si prepara per quella che può essere definita una vera e propria sfida culturale che, se recepita fino in fondo, è destinata a modificare la tradizionale visione dell’esercizio della giurisdizione. Cambierà il modo di lavorare dei magistrati, che non saranno più isolati ma chiamati a operare in staff con risorse che hanno lo specifico compito di supportare il giudice nella ricerca giurisprudenziale, nella redazione di bozze della decisione da assumere e, più in generale, nella efficace organizzazione del lavoro. Lanciata la sfida, però, è tutto pronto? Nel tempo, le prime esperienze collegate all’ufficio per il processo hanno dato buoni risultati in materia civile, mentre la scommessa è (quasi) tutta riferibile al processo penale al quale si deve guardare con grande attenzione perché si tratta di innovare lo stesso, a cominciare dalla digitalizzazione e dall’avvio del processo penale telematico che sarà di supporto fondamentale per i magistrati e le cancellerie. All’orizzonte si intravede il disegno organizzativo che è destinato a rivoluzionare il pianeta giustizia italiano e certamente - accanto alla riforma del processo penale che è quasi definitivamente approvata, a quella del processo civile che vedrà rafforzato il modello conciliativo e di mediazione, alla semplificazione dei riti, alla possibile revisione della geografia giudiziaria per un riequilibrio delle risorse sull’intero territorio nazionale (a svantaggio degli uffici del Sud, oggi gravati da uno sproporzionato carico di lavoro) - va aggiunta l’accelerazione che ha subito l’effettiva entrata in vigore e operatività dell’ufficio per il processo. Insomma, si apre una stagione nuova che guarda con convinta decisione anche alle esperienze già effettuate con successo in vari Paesi d’Europa (primi fra tutti quelli di matrice anglosassone che da tempo hanno introdotto la figura dei judicial assistants) ma forse tutto il pacchetto normativo non basta perché quella che deve cambiare è la mentalità. Deve cambiare, come detto, quella visione isolata del magistrato, oggi chiamato a lavorare in uno staff composto non solo da esperti di diritto ma anche da esperti in economia e informatica in vista di una migliore organizzazione anche dal punto di vista statistico e dei risultati. Ma questo non basta perché il nuovo approccio culturale impone un rinnovato dialogo tra i dirigenti degli uffici ed i magistrati e ancora un nuovo dialogo con l’avvocatura, da sempre e per sempre motore trainante davanti alle innovazioni legislative e nelle aule di giustizia. Spero proprio che stavolta l’occasione non vada sprecata, anzi sono certo che in Campania questa sfida potrà essere raccolta con entusiasmo e passione da tutti gli attori del mondo della giustizia per dimostrare ancora un volta, qualora ce ne fosse bisogno, che il Mezzogiorno sa essere innovatore e protagonista, al di là della previsione di una Commissione per la giustizia nel Sud che non dovrebbe limitarsi a prevedere buone pratiche per gli uffici giudiziari da Roma in giù ma che, una volta per tutte e dati alla mano, dovrebbe riconoscere che gli uffici giudiziari meridionali, oberatissimi e puntualmente sprovvisti delle necessarie risorse, hanno sempre contribuito a un effettivo ed efficace esercizio della giurisdizione tanto in campo civile quanto in campo penale. “Mi candido per rifare la giustizia, chiave per sbloccare il Paese”, intervista a Luca Palamara di Aldo Torchiaro Il Riformista, 22 agosto 2021 Luca Palamara vuole scardinare il sistema da quel Parlamento da cui altri, andati per espugnare, sono finiti risucchiati. Parte da solo, conosce le regole del gioco e prova a rovesciare ancora una volta il tavolo a suo favore. Le elezioni suppletive per la Camera sono una occasione ghiotta, data la sua peculiarità: si può presentare una lista con 400 firmatari, anche con un simbolo inedito e nessun partito strutturato alle spalle. È il caso di Palamara. Ha fatto predisporre un logo essenziale con il suo nome al centro, in campo bianco. E ha incassato il sostegno del Partito Radicale e di Rinascimento con Sgarbi, decisi a supportare il candidato che porta con sé il nome del più controverso (e popolare) magistrato d’Italia. Al telefono con il Riformista è ottimista, nessuna esitazione. Ma il centrodestra è titubante. “Dico no a Luca Palamara candidato del centrodestra a Roma”, fa sapere il deputato di Forza Italia Andrea Ruggeri. “È stato la massima espressione di un sistema eversivo, si è occupato per anni di fare la guerra a Berlusconi per impedirgli di governare l’Italia”. Palamara non vuole rispondergli ma guarda avanti, a un “impegno civile che riguarda tutti”. Permane il silenzio di Fratelli d’Italia, che a Roma dà le carte della coalizione, mentre Matteo Salvini - oggetto della famosa rivelazione sul ‘dargli comunque contro’ - vedrebbe bene l’operazione. Che è comunque prima mediatica che politica. Come è nata l’idea? Per dare seguito a un racconto che non pensavo potesse destare così tanta attenzione e in seguito agli incontri con numerose persone, tra cui molti militanti. Militanti di quali forze politiche? Del centrodestra, soprattutto. Ma ricevo molta attenzione anche da soggetti di centrosinistra. E lei si definisce di centrodestra o di centrosinistra? Sono un uomo di centro, ancorato ai valori comuni della tradizione italiana. Ma non sono un tuttologo, il mio impegno vuole essere quello di chi dà un contributo alla riforma della giustizia, che non ci nascondiamo: è la chiave per sbloccare il Paese. Una grande riforma dovrebbe interessare tutti, senza schieramenti. Ma c’è sempre stata una parte politica più sensibile ai temi garantisti, io parto da lì per parlare a tutti. Voglio squarciare il velo di ipocrisia che ha caratterizzato il racconto della magistratura e deideologizzare il ruolo e l’attività dei magistrati. Si candida a deputato di un vasto collegio di Roma, lo conosce? Sono cittadino romano da moltissimi anni e conosco particolarmente la zona di Roma Nord dove si vota per le suppletive. E le tematiche del territorio mi stanno a cuore. Come è stata amministrata Roma dalla Raggi? È oggettivamente difficili amministrare la Capitale. Roma presenta aspetti problematici, fare l’amministratore pubblico non è mai facile. È una città che mette alla prova chiunque. Chi è stato il miglior sindaco di Roma a suo modo di vedere? Ogni sindaco si è contraddistinto per luci e ombre. Oggi Roma ha bisogno di un forte riscatto e penso che il deputato eletto a Primavalle dovrà svolgere una funzione di ponte tra le istituzioni per dare una mano alla Capitale, chiunque sia eletto sindaco. Durigon e la scivolata su Mussolini, che cosa ne pensa? A me interessano i contenuti più che le singole battute, le scivolate. Il fatto di strumentalizzare sempre le dichiarazioni lo vedo come un modo surrettizio per far inciampare qualcuno sulle situazioni. Cosa risponde a chi in Forza Italia ha chiuso alla sua candidatura? Voglio mettere al centro del tavolo un tema, mettendo senza personalismi la riforma della giustizia come priorità. Molti dei militanti di quei partiti mi hanno chiesto di candidarmi, voglio essere il collante per una intesa nuova che parta da lì per poi andare a riformare tutto il sistema, non solo giudiziario. A quali incontri con i partiti ha preso parte? È notorio l’incontro pubblico con Salvini. Ho incontrato la Lega, e poi anche i militanti di Forza Italia e di Fratelli d’Italia. Non mi nego a nessuno, fino a oggi mi hanno cercato loro. Parlo con tutti coloro che mi vogliono dare una mano. In questo momento Vittorio Sgarbi, il Partito Radicale, i liberali europei del Ple. Tutte interlocuzioni in corso, aperte. Che cosa ha votato, fino a oggi? Sono stato un elettore di centro che ha guardato sempre alla parte moderata della politica. Non mi sono mai sentito in contrapposizione con nessuno e sono stato sempre aperto al dialogo. Per me non c’è mai stato un nemico, c’è stata sempre la necessità di tenere ferme determinate idee, senza avere mai atteggiamenti pregiudiziali. Vaccinato? Certo, vaccinato. Non mi sento un tuttologo anche su questo: voglio dare credito ai medici e se dicono che dobbiamo vaccinarci, lo faccio. Ne abbiamo parlato in famiglia e abbiamo fatto tutti questa scelta. E il green pass? Scaricato. Serve per entrare ormai anche al ristorante. Da presidente Anm parlava sempre con tutti, ora da candidato con chi parla, tra i big? Con tutti coloro che sono interessati a cambiare la giustizia. Non ho fatto accordi con i grandi partiti, una volta eletto voglio mettere la mia passione civile a disposizione di tutti. Qualche nome sentito in questi giorni? Berlusconi, Tajani? Meloni, Salvini? Ho incontrato tutti quando ero in Anm, mi conoscono e hanno il mio numero. Ma in queste ultime settimane no, ho intrapreso un percorso con gli amici del Partito Radicale e ho iniziato a parlare con le associazioni, i comitati, il territorio. “Il Sistema” ha superato le 300mila copie. È tra i libri più venduti degli ultimi anni. Se lo aspettava? No, sinceramente. Ci fa capire che il momento della grande riforma della giustizia è arrivato. Il mio impegno per promuovere i referendum va in questo senso. Non dobbiamo rifugiarci in vecchi cliché di una politica che arretra, dobbiamo rispondere agli elettori, soprattutto del centrodestra, che vogliono e pretendono che si faccia qualcosa di concreto per voltare pagina. Processo civile, niente riforma senza intelligenza artificiale di Angelo Ciancarella Il Messaggero, 22 agosto 2021 Dopo la riforma del processo penale dovrebbe ripartire quella civile, ferma da un anno e mezzo al Senato e alla quale la ministra Cartabia, alla luce dell’obiettivo europeo di ridurre del 40% in cinque anni la durata media, attribuisce un rilievo decisivo. Ma davvero la perfezione del rito rappresenta la condizione principale per conseguire l’obiettivo? L’esperienza degli ultimi decenni, nonostante la riduzione dell’arretrato e della durata media, non conferma questa tesi: non emerge alcuna correlazione fra l’andamento dei flussi e le decine di interventi migliorativi (nelle intenzioni) delle regole processuali o di potenziamento, strutturale o temporaneo, degli organici (giudice di pace, giudice unico e monocratico, giudici onorari e ausiliari, sezioni stralcio). E la durata dei processi è del tutto indipendente dal peso dell’arretrato. L’analisi di lungo periodo mostra un forte aumento delle pendenze fino al 2010 (+54% rispetto al 2000; +160% rispetto al 1990) a cui corrisponde una inattesa riduzione dei tempi medi (-8,4% rispetto al 2000), che peraltro ancora nel 2020 (-18,7% sul 2010) restano i peggiori d’Europa dopo la Grecia, come ha confermato il mese scorso la Commissione europea nel Justice Scoreboard 2021 (Il Messaggero del 9 luglio). Se ai due gradi di merito si aggiunge la Cassazione, il processo dura non meno di sette anni. Ed è solo una media generale, oltretutto ben peggiore in materie importanti sul piano economico come i brevetti o i fallimenti. I miglioramenti sono in parte dovuti al processo civile telematico (appena approdato, dopo dieci anni, in Cassazione grazie al Covid) e al lento incremento delle mediazioni. Su questa strada bisogna insistere e incentivare, come prevede anche il disegno di legge, insieme al potenziamento dell’ufficio del processo. Sulla procedura, invece, si assiste a un continuo e improduttivo andirivieni fra processo ordinario, rito sommario, riti speciali, fino all’incredibile vicenda del processo societario, del tutto inadeguato e abrogato dopo pochi anni. E ora si vorrebbe modificare ancora il codice del processo. Solo una radicale svolta tecnologica e organizzativa potrebbe davvero cambiare la prospettiva e conseguire gli obiettivi di riduzione dei tempi. Ma, al di là delle migliaia di assunzioni di personale anche con profili tecnici ed economici, un vero piano per la giustizia digitale, solo evocato nel Pnrr, è ancora tutto da concepire. In febbraio la direzione generale per i Servizi informativi automatizzati consegnò alla neoministra Cartabia la “Ricognizione della digitalizzazione del processo e della transizione digitale”. Il documento spiega quanto potrebbero crescere la rapidità e l’affidabilità delle decisioni, grazie a un uso evoluto della gigantesca mole di dati contenuti nei fascicoli del processo civile telematico, e dell’intelligenza artificiale per l’analisi della giurisprudenza. Ma ammette che il potenziale big data della giustizia digitale è oggi utilizzato come se fosse analogico: un grande archivio elettronico, in cui ogni nuovo file si aggiunge al faldone virtuale del singolo processo. Non analizza i dati né elabora statistiche, non estrae massime di giurisprudenza né individua i precedenti nei casi analoghi. Gran parte delle acquisizioni avviene tuttora con la spedizione alle singole cancellerie di una busta telematica via posta elettronica certificata, anziché con il caricamento degli atti su una piattaforma digitale protetta. L’interruzione del servizio è frequente. All’inizio di luglio la direzione generale, da sempre guidata da un magistrato, è stata affidata a Vincenzo De Lisi, ingegnere con lunga esperienza, anche in imprese multinazionali, di gestione e consulenza nel settore dell’Ict. È auspicabile che possa operare in stretta sinergia con il ministero della Transizione digitale per l’automazione dell’intera Pubblica amministrazione e dei servizi, finanziata con i fondi del Next Generation Eu. Il desiderio di una svolta si coglie anche in un paio di commi inseriti dalla ministra Cartabia nella delega sul processo penale approvata dopo il lungo braccio di ferro fra i partiti su prescrizione e improcedibilità. Prevedono un “Piano triennale per la transizione digitale dell’amministrazione della giustizia” di concerto con l’Innovazione e la Pubblica amministrazione, “per la gestione unitaria () delle risorse tecnologiche, le dotazioni infrastrutturali e le esigenze formative (per la) digitalizzazione del processo”. Non saranno in vigore prima di ottobre, ma è augurabile che i tre ministeri siano già al lavoro sul Piano. E allora, perché insistere sulla riforma del processo civile, una delega che nella migliore delle ipotesi sarà attuata a fine 2022? Non è divisiva fra i partiti come quella penale, ma è contrastata dall’avvocatura, oggi compatta nell’opporsi alla riforma. A fine luglio i presidenti delle istituzioni forensi lo hanno detto chiaramente alla ministra, in visita al loro congresso. L’Accademia non è da meno. Benché il testo governativo derivi dalle proposte della commissione Luiso, professore ed esponente dell’Associazione fra gli studiosi del processo civile, la stessa associazione (già radicalmente contraria alla versione del ministro Bonafede) critica duramente gli emendamenti: “Cambiare per cambiare non ha senso. Sulle nuove regole si litigherà e si discuterà per molti anni. Il processo, oltre ad essere celere, deve fornire sentenze giuste”, che sarebbero tutt’altro che garantite dalle preclusioni. Significa che prove, richieste, liste testimoniali, tutto dovrebbe essere esposto alla prima udienza. Sembra ragionevole, ma agli avvocati non piace (anche per il rischio di azioni di responsabilità da parte degli assistiti). Monza. Cittadella della giustizia coi fondi del Recovery di Stefania Totaro Il Giorno, 22 agosto 2021 La presidente del Tribunale: “A noi il finanziamento maggiore dei 420 milioni. Serviranno per la ristrutturazione dell’ala est e della caserma San Paolo”. La giustizia monzese risorge dalle ceneri del Coronavirus. Il Tribunale di Monza, che tanto ha sofferto e ancora sta patendo per le restrizioni causate dal Covid, è riuscito però a sfruttare l’altro lato della medaglia della pandemia inventandosi una nuova ‘cittadella della giustizia’ e ha ottenuto una pioggia di milioni di euro dei 420 previsti dal Recovery Plan per gli interventi di edilizia giudiziaria. A confermarlo è la presidente del Tribunale monzese Laura Cosentini. “Siamo riusciti a proporre al Ministero della Giustizia tre progetti che sono rientrati nei nove per cui era previsto il finanziamento - spiega - Monza risulta anche di gran lunga il più consistente finanziamento previsto. Il nostro punto di forza è stato quello di avere presentato progetti già pronti”. La presidente non vuole rivelare cifre, ma ammette che si tratta di “diversi milioni di euro”, che dovranno essere utilizzati “entro l’estate del 2026”. I tre progetti riguardano la ristrutturazione dell’ala est del Tribunale lasciata libera dal trasloco in via Solera della Procura di Monza, il risanamento della ex caserma San Paolo per gli uffici giudiziari periferici ora in sedi in locazione e la realizzazione del polo archivistico di tutti gli uffici giudiziari accanto alla Questura di Monza. “Per la ristrutturazione dell’ala est del palazzo di giustizia di piazza Garibaldi, che sarebbe dovuta partire nel gennaio 2022, i tempi si allungano perché è necessaria una gara europea per i lavori e il bando non è ancora partito - sostiene Laura Cosentini - Ma si tratta di un bel progetto che prevede di recuperare anche il sottotetto. Gli altri due progetti riguardano edifici che andranno a trovarsi accanto alle fermate della prevista metropolitana: l’ex caserma San Paolo al capolinea di Monza centro e il polo archivistico alla fermata della zona del rondò dei pini. Il risanamento della ex caserma San Paolo permetterà anche di riqualificare a favore della città un edificio che sta cadendo a pezzi”. Nella zona della ex caserma IV Novembre dove ora sorgono la Provincia e la Questura di Monza e Brianza più di 20 anni fa era in progetto di realizzare una vera e propria “cittadella della giustizia” ma le solite lungaggini burocratiche e cambi di schieramenti politici l’avevano fatto naufragare. Ma ora nella stessa sede sorgerà un polo degli archivi di tutti gli uffici giudiziari, una costruzione che ha l’obiettivo di riunire in un unico edificio gli archivi giudiziari monzesi ora dislocati alla ex Fossati Lamperti, in via Iseo, in via Pompei e ancora anche nella ex sede distaccata del Tribunale a Desio ormai soppressa. A pochi passi dal Palazzo della Giustizia di piazza Garibaldi l’acquisizione e la ristrutturazione della ex caserma militare di piazza San Paolo potrebbe diventare la sede dei giudici di pace che ora sono in via Casati e via Borgazzi e l’ufficio esecuzioni e spese di giustizia di via Ferrari. Bologna. Dozza sempre sovraffollata, molto più della media italiana zic.it, 22 agosto 2021 Non accenna a diminuire il sovraffollamento della Dozza: al 30 giugno erano presenti 744 detenute/i (tra cui 63 donne e 379 stranieri) contro i 706 del luglio dell’anno scorso, il tutto a fronte di una capienza regolamentare di 500 posti. Questi i dati segnalati dal rapporto di metà anno redatto dall’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia. Al momento della visita effettuata da Antigone all’interno del carcere (23 ottobre) le/i detenute/i erano 721 e quindi il tasso di sovraffollamento era del 144,2%: una percentuale molto più alta della media relativa a tutti gli istituti italiani visitati da Antigone nel 2020, pari al 114,2%. Sempre al momento della visita, “le persone detenute con condanna definitiva erano 500, seguite solo da sei educatori rispetto ai nove previsti in organico”, scrive Antigone, riferendo poi che “dall’inizio della pandemia due sono stati i decessi per Covid-19 a fronte di 13 casi di contagio registrati tra i detenuti dell’istituto. Le azioni di prevenzione volte al contenimento dei contagi comprendono molteplici misure, quali la predisposizione di sezioni dedicate all’isolamento sanitario, la sospensione di tutte le attività trattamentali collettive e la drastica riduzione dell’offerta scolastica-formativa. A tal proposito, è stato necessario riconsiderare la capienza delle aule, consentendo la partecipazione ai corsi di un numero ridotto di studenti, peraltro solo quando detenuti nella medesima sezione. Allo stato attuale, dunque, per molti detenuti non è garantito il diritto allo studio. I colloqui con i familiari si svolgono ad oggi in parte in presenza in parte via Skype. L’articolazione della salute mentale femminile (unica in Emilia-Romagna) è chiusa per ristrutturazione dei locali e le detenute che vi erano ristrette sono state trasferite in altre regioni. Al momento della visita era presente un bambino di sei mesi ristretto con la mamma nella sezione femminile, all’interno della quale abbiamo anche osservato episodi di forte disagio psichiatrico”. Antigone segnala poi che “il reparto giudiziario è stato fortemente danneggiato durante la rivolta del 9/10 marzo 2020, ma ora tutti gli spazi sono stati resi nuovamente agibili (tranne un passeggio) e i muri sono stati imbiancati. Le problematiche legate al malfunzionamento dell’impianto di riscaldamento paiono superate. Gli ambienti dell’area trattamentale sono curati e ben tenuti mentre le sezioni visitate sono apparse sporche e in condizioni degradate: le docce comuni nelle sezioni maschili sono poco arieggiate e le pareti sono visibilmente ricoperte di muffa. Le salette della socialità sono spoglie, osserviamo solo la presenza di alcuni tavoli e sedie tendenzialmente impilate all’ingresso, che spesso vengono utilizzate per stendere i panni. Il mobilio delle celle appare piuttosto vecchio e bisognoso di rinnovamento”, mentre “alcuni detenuti hanno lamentato la presenza di scarafaggi”. Da fonti sindacali si è appreso in questi giorni, intanto, che tra il personale del carcere sono stati riscontrati alcuni casi di positività al Covid, con conseguente chiusura, in via precauzionale, di due interi reparti detentivi. Spoleto (Pg): “Fuori dalle gabbie”: un progetto di inclusione per cani e persone detenute news.in-dies.info, 22 agosto 2021 Operativo il piccolo centro di accoglienza e addestramento per cani abbandonati, allestito presso la Casa di Reclusione di Spoleto grazie a un finanziamento della Fondazione Cave Canem. Box coibentati, un ampio spazio verde, la sorveglianza costante degli agenti di polizia penitenziaria e persone detenute adeguatamente selezionate e formate con le quali i cani ospitati possono interagire e giocare nel corso della giornata fino al momento dell’adozione. Un modello di gestione e accudimento alternativo al canile che ha trovato anche il parere favorevole della Azienda Sanitaria locale territorialmente competente e che dallo scorso 26 luglio è operativo e ha permesso di accogliere i primi cani abbandonati. Sono otto, infatti, i cuccioli accolti e affidati dal Comune di Spoleto alle cure di questa nuova realtà. In questa prima fase, i cuccioli verranno coinvolti in attività di interazione e socializzazione per accrescere il loro indice di adottabilità nella speranza che per loro si aprano quanto prima le porte di una vera casa. Proseguono quindi le attività del progetto “Fuori dalle gabbie”, avviato nel 2019 grazie alla sinergica collaborazione tra il Comune di Spoleto, la Fondazione Cave Canem e la Casa di Reclusione di Spoleto. Dopo la prima fase del progetto, che ha visto i detenuti impegnati non solo nella manutenzione del canile rifugio di Spoleto e nella realizzazione del centro di accoglienza, ma anche in un corso di formazione intensivo per avere competenze e conoscenze di base in materia di corretta interazione con cani senza famiglia, saranno due le attività che caratterizzeranno la seconda fase. Innanzitutto, alle persone detenute, ai professionisti e ai docenti selezionati dalla Fondazione Cave Canem verrà affidato il compito di garantire la piena operatività, il coordinamento e la gestione del centro di accoglienza e addestramento allestito nella Casa di Reclusione di Spoleto, nato per accogliere cani senza famiglia che hanno esigenze specifiche: mamme con cuccioli, cani anziani, cani con problematiche comportamentali. A tal riguardo è stato individuato un gruppo di persone detenute deputate alle attività di accudimento, gestione e socializzazione dei cani che verranno lì trasferiti. Il progetto interesserà nuovamente anche il canile comunale di Spoleto e vedrà le persone detenute impegnate nella manutenzione straordinaria del rifugio, con la possibilità anche di offrire supporto nelle attività di accudimento e socializzazione dei 120 cani ospitati unitamente ai volontari che verranno coinvolti dall’amministrazione comunale. Il progetto “Fuori dalle gabbie” vuole essere uno strumento per garantire un servizio qualitativamente elevato di accudimento dei cani senza famiglia affidati al comune di Spoleto, offrire una seconda opportunità a persone detenute e fare del canile comunale un luogo di transito per gli animali ospitati e un centro di interesse per la collettività. Con questi intenti è stato dato dal comune di Spoleto nuovo vigore alla collaborazione con le associazioni “Il Grande Sogno” e “Antonietta Bruno”, che ha avviato una campagna di supporto con raccolta alimentare per i cuccioli; accettata con entusiasmo anche la proposta dell’associazione Rotaract Club di Spoleto, che ha offerto la propria disponibilità per la promozione delle adozioni. Va quindi avanti con energia un modello di co - progettazione che vuole costituire un precedente significativo di lotta al randagismo e inclusione sociale che vede coinvolti Enti pubblici e realtà non profit con obiettivi comuni e condivisi. Macerata. Perché abolire le carceri. Le ragioni di “No prison” radioerre.it, 22 agosto 2021 Se ne parla questa sera alla libreria Passepartout. Domenica 22 agosto alle 19 il giornalista e scrittore Livio Ferrari presenterà il suo ultimo libro “Perché abolire le carceri. Le ragioni di “No prison” (Apogeo edizioni 2021). Dialogherà con lui Italo Tanoni, già Garante dei diritti dei detenuti ex Ombudsman delle Marche. La prigione umilia, annulla, stigmatizza e impone il dolore, la sofferenza, è crudeltà, crea la mancanza di responsabilità verso il proprio comportamento e aumenta la pericolosità di tutti coloro che vi transitano, che diventano a loro volta moltiplicatori irreversibili e potenziali della violenza ricevuta. Il carcere ha una funzione falsa e puramente ideologica, perché finge di controllare, evitare e prevenire i reati, mentre li produce e riproduce, con effetti e livelli di sofferenza ben peggiori della maggior parte dei reati perseguiti dai condannati, per i quali viola sistematicamente i diritti fondamentali. Il carcere evoca l’annientamento del “criminale” che spaventa e fa passare il messaggio che quelli in libertà possono essere innocenti, mentre quelli imprigionati sono certamente colpevoli. Questo vale soprattutto per gli extracomunitari e i poveri che sono i più arrestati e reclusi rispetto al resto della popolazione, al punto che produce nella gente la convinzione che sono coloro che commettono più crimini. Il carcere è considerato come un male necessario, nella mancanza di coscienza e conoscenza in generale, senza alcuna consapevolezza che provoca più problemi di quanti ne risolve. Sembra non possa esserci alternativa ad esso, mentre è necessario progettare la sua abolizione e sostituzione con forme diverse di gestione degli illeciti. L’abolizione della prigione non è un’utopia. Il carcere è barbarie, in quanto vendicativo ed incurante della reale esperienza delle persone, strumento dell’antica retorica del castigo. È necessario mettere in discussione la costruzione che il diritto penale produce degli atti illeciti, che sta a fondamento delle pene detentive, per operare un salto di paradigma, che conduca ad una conoscenza oggettiva dei fatti perseguiti e di chi li pone in essere, nell’ottica della reintegrazione e della ricostruzione dei legami sociali. Continuare a sostenere il sistema carcerario significa in fondo autorizzare la pratica della vendetta di Stato e della sua violenza, con l’imposizione del dolore e della sofferenza ai ristretti. Non vi è alcun motivo di credere che lo spettro della prigione ridurrà la criminalità, è pertanto assurdo ritardare la ricerca di soluzioni di non carcere. Verso una giustizia per tutti, uomini, ambiente, animali Corriere della Sera, 22 agosto 2021 Oggi si apre il Festival di Bioetica: due giorni seminari, tavole rotonde, dibattiti e performance artistiche. Partecipano filosofi e scienziati del Comitato Nazionale per la Bioetica e dell’Istituto Italiano di Tecnologia. Si apre domenica alle 14 a Santa Margherita Ligure, nella cornice di Villa Durazzo, la quinta edizione del Festival di Bioetica che quest’anno è dedicato al tema della Giustizia nelle sue varie declinazioni: umana, ambientale, animale. Ad aprire la due giorni di dibattiti ed eventi sarà Luisella Battaglia, presidente dell’Istituto italiano di bioetica. L’emergenza pandemica ha sollecitato a riflettere sulle sfide di domani nel quadro di una salute globale: la lotta contro le antiche e le nuove diseguaglianze in ambito sanitario, l’impegno per un’effettiva giustizia di genere, la tutela del benessere dei soggetti più vulnerabili, la salvaguardia del nostro habitat naturale, la difesa dei diritti degli animali. Ed è ormai chiaro a tutti che i problemi che abbiamo dinanzi richiedono una apertura interdisciplinare e una collaborazione dei saperi - dalla medicina all’economia, dall’ecologia al diritto, dall’etologia alla filosofia - in cui la bioetica, in quanto etica del mondo vivente, trova la sua autentica ragione d’essere. Al Festival parteciperanno docenti universitari, membri del Comitato Nazionale per la Bioetica, dell’Istituto Italiano di Tecnologia e rappresentanti di diverse associazioni professionali e del volontariato. Il festival sarà anche l’occasione per festeggiare i cento anni del filosofo Edgar Morin - al cui pensiero della complessità si ispira l’Istituto italiano di bioetica - e per celebrare il centenario della nascita del filosofo John Rawls al quale si deve uno dei più importanti trattati sulla teoria della giustizia del Novecento. Interverranno i filosofi Mauro Ceruti (Società Italiana di Logica e Filosofia della Scienza, Iulm), per Edgar Morin, e Sebastiano Maffettone (Center for Ethics and Global Politics Luiss Roma), per John Rawls. La pandemia ha portato alla consapevolezza che si deve pensare alla salute globale. La crisi sanitaria trascende infatti i confini nazionali e richiede soluzioni globali: apparteniamo ad una comunità mondiale, siamo cittadini di un mondo interconnesso, ma siamo anche membri di un ecosistema in cui la salute di ogni elemento - umano, ambientale, animale - è strettamente dipendente da quella degli altri e alla necessità di puntare su una seria politica dell’ambiente, secondo lo spirito che anima il nuovo piano d’azione per l’economia circolare lanciato dalla Commissione Europea nell’ambito del Green Deal. Distruggere la Terra vuol dire di fatto rompere un patto tra le generazioni. Su questa base si è avviato un importante dibattito su un tema di cruciale interesse per il nostro tempo, quello della “Giustizia ambientale”, un concetto nato negli anni ‘70 sull’onda dei movimenti ambientalisti, e che si è progressivamente sviluppato fino a diventare una sorta di paradigma capace di affrontare diverse questioni di grande complessità, quali il cambiamento climatico, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, la salute e la sicurezza dei lavoratori, i pesticidi, la gestione delle aree verdi e dei parchi pubblici, lo smaltimento dei rifiuti, l’ubicazione degli impianti industriali, il riciclo, la tutela della fauna. Emerge lo stretto collegamento tra rischi ambientali e diseguaglianze economiche e sociali, a partire, innanzitutto dalle diseguaglianze nella distribuzione dei beni, dal mancato riconoscimento dei gruppi sociali più vulnerabili e, conseguentemente, dalla loro esclusione dal processo sociale e politico. Il tema della Giustizia, spiegano gli organizzatori, è il valore più universalmente rivendicato e bisognoso, quindi, di essere definito ed esplorato nei suoi diversi significati e nelle sue varie declinazioni. La sfida che sembra riservarci il futuro prossimo è quella di una cittadinanza planetaria in grado di elaborare carte dei diritti e di progettare istituzioni sovranazionali capaci di tracciare quelle che la filosofa Martha Nussbaum definisce “le nuove frontiere della giustizia”. Covid-19, la giustizia non arriverà dai tribunali di Paolo Biondani L’Espresso, 22 agosto 2021 Da tutta Italia sono piovuti migliaia di esposti per il dilagare della pandemia e il modo in cui è stata gestita. Ma solo una minima parte arriverà a sentenza. E lo scudo vaccinale rischia di proteggere anche chi ha sottovalutato i rischi. Più di 128 mila vittime accertate fino ad oggi. E migliaia di denunce di familiari disperati, che invocano verità e giustizia con esposti individuali o collettivi. La pandemia da Covid-19 ha listato a lutto anche i tribunali. In tutta Italia i magistrati delle procure hanno aperto indagini approfondite, con mesi di accertamenti, per verificare pesanti ipotesi di reato. Ma di processi penali, probabilmente, se ne faranno pochi. Solo in casi di estrema gravità. E con scarse prospettive di ottenere condanne definitive in nome del popolo italiano. Nella giustizia penale i bilanci si fanno alla fine, dopo tre gradi di giudizio, e ogni procedimento fa storia a sé. Ma i primi provvedimenti di chiusura delle istruttorie sull’emergenza coronavirus preannunciano una tendenza di portata generale, che preoccupa i legali, i comitati e le associazioni dei familiari delle vittime: quasi ovunque fioccano le richieste di archiviazione. A Cagliari a fine luglio, prima dello stop feriale che scatta per legge in agosto, la Procura ha chiesto di prosciogliere tutti gli indagati per la diffusione del contagio collegata alla controversa riapertura delle discoteche, decisa dalla Regione Sardegna nell’irresponsabile estate del 2020, tra la prima e la seconda ondata. L’accusa di epidemia colposa, secondo i quattro pubblici ministeri specializzati in reati sanitari, non è sostenibile in tribunale. A Imperia, il giorno prima, i magistrati della stessa pubblica accusa hanno chiesto di far cadere le denunce presentate dai parenti degli anziani morti a decine negli ospizi. A Lodi, una delle province più colpite, dove nel febbraio 2020 fu scoperto il primo contagiato italiano, il procuratore capo, Domenico Chiaro, ha spiegato pubblicamente, il 20 luglio scorso, le ragioni tecniche e normative che lo portano a escludere la punibilità di tutti gli accusati per una delle vicende più drammatiche: 77 vittime in una residenza per anziani a Mediglia. Molte altre istanze di archiviazione sono state presentate nei mesi scorsi dalla Val d’Aosta all’Emilia, dalla Sicilia al Lazio. Le richieste di rinvio a giudizio per i reati-base di epidemia e omicidio colposo plurimo, invece, al momento sono pochissime e devono ancora superare il primo esame dei giudici delle indagini. L’enorme quantità di denunce e quindi di indagini penali, ma anche la prevedibile scarsità di futuri risultati processuali, erano state preannunciate già nel gennaio scorso, all’apertura dell’anno giudiziario, dal procuratore generale di Roma. L’alto magistrato, Antonio Mura, ha spiegato che solo nel Lazio, nel 2020, sono arrivati ben 1.500 esposti collegati al Covid-19, per altro “di segno opposto”: circa mille lamentavano l’insufficienza delle misure varate per fermare il virus, mentre altri 500, al contrario, “contestavano la legittimità delle restrizioni, con tesi negazioniste”. Quasi tutte le accuse al governo centrale o a singoli ministri sono state archiviate in blocco, con un unico provvedimento, per manifesta infondatezza. Per la restante massa di denunce, lo stesso procuratore ha avvertito che il reato di epidemia colposa “presenta evidenti difficoltà di accertamento”, per cui è probabile che i giudici si concentrino su “addebiti di omicidio colposo per singoli pazienti, sulla base della ricostruzione di condotte specifiche”. Casi individuali, insomma, senza pretese di fare processi alle classi dirigenti della sanità nazionale o regionale. Questo monito sui limiti della giustizia penale riguardava la prima ondata. Oggi le indagini si scontrano con una barriera legale ancora più forte: il cosiddetto scudo penale. Nato per difendere medici e infermieri impegnati nella campagna vaccinale, è stato allargato dal Parlamento a tutta l’emergenza. Nell’aprile scorso, in particolare, il governo Draghi ha approvato un decreto legge che ha escluso la punibilità per chi somministra vaccini regolarmente “autorizzati” in modo “conforme alle indicazioni”. Quando è stato convertito in legge, a fine maggio, lo scudo vaccinale è diventato un salvagente generale, previsto dal nuovo articolo 3 bis: i reati di omicidio e lesioni colpose “commessi nell’esercizio di una professione sanitaria” e “che trovano causa nella situazione di emergenza”, restano punibili “solo nei casi di colpa grave”. Che va sempre esclusa, con obbligo per i giudici di assolvere, di fronte a una serie di scusanti, come la “limitatezza delle conoscenze scientifiche al momento del fatto sulle patologie da Sars- Cov-2 e sulle terapie appropriate”. Oppure la “scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero dei casi da trattare”. O “il minor grado di esperienza e conoscenze tecniche possedute dal personale non specializzato”. Una legge salva-tutti, insomma, approvata senza dibattiti e polemiche politiche, mentre le procure indagavano su amministrazioni di ogni colore, dalla Sicilia alla Puglia, dall’Emilia al Veneto devastato dalla seconda ondata. Magistrati, avvocati e giuristi si dividono nei giudizi su questo scudo penale, che per alcuni è sacrosanto, per altri esagerato, ma tutti concordano sull’effetto pratico: per la mala gestione della pandemia si prevedono pochi processi penali. I legali di parte civile continuano a battersi contro le archiviazioni. Ma avvertono i familiari delle vittime che ora la strada è tutta in salita. A Milano, nella procura più importante della regione più colpita, dieci pubblici ministeri lavorano da più di un anno sul disastro sanitario della Lombardia. A guidarli è un procuratore aggiunto, Tiziana Siciliano, che conferma: “Abbiamo moltissimi procedimenti, solo in settembre cominceremo a tirare le somme, ma una cosa va detta subito: non vogliamo fare processi inutili. Di fronte all’enormità di questa pandemia, la giustizia penale non è la soluzione: come magistrati abbiamo il dovere di non illudere i familiari delle vittime”. La magistrata, come i pm di Roma o di Lodi, precisa che lo scudo è un problema per l’accusa, ma non è certo l’unico: “In una situazione mai vista prima, con un virus sconosciuto alla scienza, norme incerte, mascherine introvabili, attrezzature inesistenti o inadeguate, è veramente difficile contestare una colpa. Per noi è un problema dimostrare anche solo il nesso di causa-effetto tra il Covid-19 e un decesso: durante la prima ondata non si facevano nemmeno le autopsie”. Anche a Milano, dunque, gli stessi pubblici ministeri sono orientati a chiedere il processo solo nei casi più gravi, che in Lombardia come in molte altre regioni riguardano soprattutto il dilagare dei contagi negli ospizi. Ma sempre e soltanto per fatti circostanziati. Per il resto, è prevedibile che si applicheranno solo le contravvenzioni alle norme sulla salute e sicurezza del lavoro: reati minori, con termini di prescrizione brevissimi. Anche a Bergamo, la provincia più colpita nella prima ondata, secondo le prime indiscrezioni la procura non sembra intenzionata a imbastire processi per i cosiddetti “atti politici o di alta amministrazione”, che legioni di giuristi considerano “insindacabili”, come la decisione di imporre o meno una zona rossa. Più probabile, anche qui, un giudizio penale per fatti particolari e circoscritti, come la scelta di riaprire l’ospedale di di Alzano Lombardo dopo e nonostante i primi contagi, che trasformò un centro di cura in un focolaio catastrofico. L’avvocato e giurista Luca Santa Maria, che difende i familiari delle vittime del Pio Albergo Trivulzio, l’ospizio simbolo di Milano, ha firmato uno dei pochi esposti che potrebbero sopravvivere allo scudo penale. E il suo commento lascia presagire come si giocheranno i futuri processi: “Lo scudo riguarda solo due reati, lesioni e omicidio colposo. La legge non parla di epidemia colposa o disastro sanitario, che sono reati contro la salute pubblica, che mettono in pericolo una serie indeterminata di persone. Anche sul piano soggettivo, lo scudo è razionale se si applica ai medici, agli infermieri, al personale strettamente sanitario che ha rischiato la vita per curare gli altri. Ma non dovrebbe coprire figure diverse, come l’imprenditore della sanità, il datore di lavoro, il padrone dell’ospedale privato, il dirigente di nomina politica. So bene che nei processi può succedere di tutto. E che le norme favorevoli agli imputati, a differenza di quelle sfavorevoli, si possono interpretare in modo estensivo. Ma di fronte alla gravità dei fatti e al numero spaventoso di vittime penso che sia un errore allargare l’applicazione dello scudo, garantendo l’impunità oltre i confini testuali di una norma dichiaratamente eccezionale”. Gli stessi avvocati delle vittime, per altro, chiariscono che le indagini delle procure, comunque vadano a finire, non sono inutili. Lo scudo penale, infatti, non vale nei processi civili. Dove il problema è un altro: le parti devono pagarsi tutte le spese di tasca propria, compresi gli avvocati e le perizie decisive. Se si muove una procura, invece, paga lo Stato. E in una parallela causa civile anche il più povero può usare testimonianze, consulenze tecniche, documenti sequestrati: prove inarrivabili per il semplice cittadino. Di qui la profezia di molti addetti ai lavori: tranne i casi estremi, la stragrande maggioranza dei processi per il Covid-19 si farà nelle aule (e con i tempi lentissimi) della giustizia civile. Che dopo tante riforme penali di dubbia urgenza, come la prescrizione dei reati modificata per tre volte da tre governi, resta la grande malata cronica del sistema giudiziario italiano. Manicomi, la responsabilità della memoria di Gianfranco Falcone L’Espresso, 22 agosto 2021 Negli anni Settanta non si trattava soltanto di chiudere i manicomi. Nel pensiero di Basaglia e dei suoi collaboratori c’era l’accettazione del rischio insito nell’incontro con l’altro, c’era l’idea di una società da rifondare. Quando Renato Sarti parla del suo spettacolo “Muri”, insieme all’esperienza basagliana rievoca uno spaccato di società. Grazie ai suoi racconti si attraversa un’epoca in cui la chiusura dei manicomi era soltanto uno degli aspetti di un pensiero che qualcuno ha definito realismo magico. Ascolto con avidità le storie, la parola di Renato Sarti, perché come dice Tadeusz Kantor “I politici oggi non sono responsabili, le autorità non sono responsabili, ma l’artista, lui dev’essere responsabile. Sì, soltanto l’artista è responsabile, questi sono i tempi”. Partirei da Muri. In questo spettacolo attraverso le parole di Mariuccia Giacomini ripercorri la storia del manicomio di Trieste e la ventata di cambiamento portata da Basaglia. Metti insieme una storia individuale e la storia di un’istituzione, e ne segui l’evoluzione. Attraverso uno stile semplice costruisci una drammaturgia potente, aiutato in questo dalla splendida interpretazione di Giulia Lazzarini. Come sei arrivato a scrivere Muri? L’idea di scrivere un testo sull’Ospedale Psichiatrico di Trieste è sempre stata latente in me. Basaglia arriva a Trieste nel 1971, l’entrata in vigore della legge è del 1978. Ma il percorso Basaglia l’aveva iniziato molto prima. Certe pratiche a Trieste erano già state attuate, provate. Erano stati sperimentati i centri esterni che erano praticamente delle case famiglia. Non solo. A Trieste inizia la mia prima esperienza teatrale, io entro a far parte come socio di una compagnia, si chiamava Cirt, Centro di ricerca internazionale. Questa compagnia aveva bisogno di uno spazio e si finì per fare riferimento all’Ospedale Psichiatrico di Trieste. Dove erano già in atto certe pratiche di apertura alla musica, all’arte, alla pittura, alla scultura, al ballo. L’arte è sempre stata molto a fianco dell’esperienza manicomiale di Basaglia. Queste iniziative erano dovute a Basaglia o c’erano indipendentemente da lui? Scorrevano nel sangue della psichiatria dell’epoca? Da quello che so io, che mi ricordo io, no, no. Era l’apertura di Basaglia, di Basaglia e dei suoi più stretti collaboratori, Peppe Dell’Acqua, Giovanna Del Giudice, Franco Rotelli. Noi andammo lì per chiedere se ci davano l’uso del teatrino interno all’ospedale psichiatrico, un teatrino molto bello. Ce lo diedero. Ci concessero l’uso della sala. L’unica condizione era che si lasciasse sempre la porta aperta agli utenti per spettacoli e prove. Avevo vent’anni e questa esperienza è stata fondamentale per la mia crescita, più che culturale direi umana. Perché durante le prove arrivavano dentro tre, quattro, cinque, sei persone che erano state chiusi per anni e anni dentro l’ospedale psichiatrico. Te ne cito due, ma ce ne sono tantissime. La Norma e la Brunetta. Erano state lobotomizzate. Quindi si muovevano in un certo modo, camminavano strascicando. Avevano tolto loro una parte del cervello dove ai tempi si pensava, questa era l’assurdità, risiedesse l’area della violenza. In realtà tiravano via una parte del cervello e le persone rimanevano con degli handicap di movimento, di parola. Tengo a far notare che erano “brutte”. Lo dico usando una parola sbagliatissima, mettendola tra virgolette. Erano brutte nel senso che c’era tutta la violenza del potere rimarcato sulla loro faccia, sul loro viso, sul loro fisco, i capelli, i denti, i segni. Questi avevano passato delle giornate intere in quello che era lo sgabuzzino dove ci mandavano le persone che erano particolarmente violente. Mi rendo conto che con Renato Sarti devo prestare particolarmente attenzione. Spesso, da bravo attore qual è, nel suo narrare i gesti raccontano altro rispetto alle parole. Anche quel “particolarmente violente” viene sottolineato con una gestualità che mette in dubbio le stesse parole appena pronunciate. Era uno sgabuzzino, e questo viene riportato all’interno del testo di Muri, in cui non c’era niente. C’era un materasso piegato, una lampadina in alto, e la gente si metteva lì più o meno nuda non nuda. Per questa Norma e questa Brunetta all’inizio c’è stata da parte nostra una sorta non dico di paura, non era paura, però facevano una certa impressione. È andata a sparire dopo pochi giorni. Perché avevamo capito che l’unica cosa che chiedevano la Brunetta e la Norma, e gli altri che entravano, era semplicemente di sedersi vicino a noi e avere qualche piccolo gesto di affetto, una carezza, un abbraccio. A volte succedeva che tra la norma e la Brunetta ci fossero scene di gelosia quando una riceveva una carezza, un abbraccio. Allora l’altra si avvicinava e lo voleva anche lei, un po’ come i bambini. A quei ricordi gli occhi di Renato sembrano illuminarsi di un sorriso gioioso, quasi infantile, partecipe. Brunetta era sdentata, aveva gli occhi un po’ storti, scavati. Però quando sorrideva aveva uno dei sorrisi più belli che ho visto in tutta la vita. Cioè il sorriso di chi per una vita era stato sottomesso, vessato, imprigionato. E loro stavano lì con noi. Era poi successo anche un fatto curiosissimo durante una delle repliche dei primi spettacoli che abbiamo fatto lì, avevamo messo in scena Miss Alice di Edward Holby. All’interno dello spettacolo a un certo punto c’è una festa, e mentre c’è la festa in cui si stappa una bottiglia, Norma, Brunetta e qualcun altro, sono venuti sul palco a festeggiare anche loro. È stata un’esperienza straordinaria. Brunetta io ce l’ho sempre nella mia testa, nel mio cuore, nella mia anima. Mi è rimasta dentro. In un anno abbiamo fatto tre spettacoli con tre compagnie diverse. C’erano un’ottantina di persone che giravano attorno a questa sala. Era bello perché poi il clima era bello. In quel periodo all’interno dell’ospedale psichiatrico si ospitavano artisti, musicisti, Gino Paoli. Venne Dario Fo con “Non si paga non si paga”, Franca Rame con il teatro pienissimo. L’ospedale psichiatrico, mi si passi il termine, in quel momento lì l’ho vissuto un po’ come un centro sociale, un luogo dove c’erano tante iniziative. Era una specie di luogo rifugio per la la città di Trieste, che non sempre o non del tutto è stata una città aperta a queste innovazioni. Era un punto di riferimento. Il venerdì e il sabato andavi lì, andavi a passare la serata lì, perché c’erano iniziative. Bisogna ricordare poi che all’interno dell’ospedale psichiatrico agiva sempre Giuliano Scabia, pittore, artista, teatrante, che faceva delle azioni teatrali più che spettacoli. Fu lui che organizzò la famosa uscita di Marco Cavallo, questo famoso cavallo azzurro fatto di cartone, cartapesta, legno, che è stata l’immagini simbolo dell’apertura dell’ospedale psichiatrico, di questa liberazione, e che poi ha girato tutto il mondo. Questo è il modo in cui tu hai iniziato. Che cosa ti rimane di quella esperienza a distanza di quarant’anni? È stata un’esperienza che involontariamente, forse inconsciamente, ha lavorato dentro di me molto di più di quello che mi sono accorto. Cioè questa libertà, questo senso del rispetto. Una delle parole più importanti del testo Muri è il rispetto. Come fai a guarire una persona da certi disturbi o malattie mentali se usi la violenza? È un principio base, se lo leghi, se lo incateni a un letto non può guarire niente. A fianco a questo c’è anche un’altra esperienza che io ho sempre sottovalutato. Anzi, due piccole cose in più. Uno, una valutazione che ho fatto con gli anni. Trieste è l’unica città al mondo in cui nel suo dialetto, per definire una persona maschile, non femminile, si usa il termine “Mato”. A Trieste per dire è venuta una persona in trattoria si dice “Xe venudo un mato”. Qui chiedo scusa ai cultori dei dialetti per il mio non riuscire a stare dietro a Renato Sarti e al suo triestino. Non perché lui è matto ma perché è sinonimo di persona. Per dire un tipo. L’altro elemento è il fatto che io da piccolo avevo uno zio che si chiamava Marcelo. Era il fratello di mia nonna, lavorava in ferriera. È morto che io avevo quattro anni però me la ricordo benissimo perché era molto particolare, nel senso che era molto divertente. Con me e mio fratello ci faceva fare delle robe infinite. Per esempio veniva a prenderci fuori dalla scuola materna e ci portava nelle trattorie. Verso le dieci, undici di sera lei veniva a raccattarci, con lui che beveva e stava con gli amici. Per noi era una gioia stare in osteria, le patatine, l’aranciata, e comunque le persone in osteria avevano sempre un gesto carino. Erano gli albori della televisione ed erano soltanto i locali pubblici ad averla. Era proprio il clima della trattoria ad essere importante. Lui in ferriera, l’Italsider, ci aveva costruito con le sue mani un triciclo fatto tutto di ferro, per la gioia dei vicini. Noi abitavamo in una casa che aveva un lungo corridoio e puoi immaginare che caos faceva questo triciclo. Questo suo essere estroverso dipendeva probabilmente dal lavoro che faceva, terribile. Lavorare in ferriera, era come lavorare alla Breda, alla Falck, era un inferno. Erano inferni veri e propri, con la paura. Perché succedevano tantissime disgrazie, incidenti. E lui, come molti degli operai che lavoravano lì, beveva. Quando lui finiva di lavorare tracannava. Questo implicava che aveva questi exploit di divertimento, di gioia, di brillantezza e altri di depressione, soprattutto quando mia mamma gli nascondeva i vestiti per impedire che si alzasse alle cinque del mattino e andasse già a bersi il grappino. Insomma, morale della favola, lui ogni tanto dava fuori. Qualche volta buttava fuori dalla finestra le cose. Ad un certo punto i miei avevano chiamato l’ospedale psichiatrico. La storia vuole che quando sono venuti a prelevarlo hanno suonato il campanello di casa nostra. Gli infermieri sono entrati in casa nostra chiedendosi “Ma Marcello dov’è? Dov’è Marcello?”. “Marcello è uno alto”. “Ma è quello che è venuto ad aprire alla porta”. “Sì”. Che cosa aveva fatto Marcelo. aveva fatto un gesto d’intesa ed era fuggito. Ecco qui ci vorrebbe tutta la mia capacità di narratore per raccontare lo spasso che c’è nell’ascoltare la cantilena triestina di Renato Sarti, la mimica con cui imita un immaginario zio Marcelo, che strabuzza gli occhi, serra le labbra, e indica agli infermieri l’interno della casa, agitando le mani per far capire che ne sta succedendo di ogni, e che quello dentro la casa è proprio matto. Poi l’hanno beccato. Questo è stato un grande dolore. Non ho mai capito. Mia mamma non c’è più, non me l’ha mai raccontato. Mio papà è morto giovanissimo. Non ho mai capito che cosa avesse spinto a chiedere l’intervento dell’ospedale psichiatrico. Ricordo che mia mamma lavorava in osteria al mattino fino alle tre, tornava e faceva un’oretta o due di lavaggio, preparazione della cena, riposino. Poi tornava e stava in osteria fino alle otto. Era una vita faticosa anche la sua. Ogni tanto mi ricordo che zio Marcelo buttava giù tutta la vasca con la roba a mollo. L’ultima immagine che ho di lui è lui che ci salutava da dietro una finestra dell’ospedale psichiatrico. Poi sono andato a ricostruire. È morto per una malattia polmonare. Era una formula che utilizzavano ai tempi per quelle morti che erano dovute ad altri fattori. Morivano di malattie polmonari perché facevano anche le docce fredde in pieno inverno. Per cui anche questa storia di zio Marcelo mi è rimasta un po’ dentro, mi ha colpito, insieme alle prime esperienze teatrali. Poi c’è anche questa cosa della follia che circola per Trieste. Ho sempre guardato i bambini a Trieste quando “Xe la bora”. Ci sono questi bambini che non capiscono. Accidenti. Ancora una volta più che le parole è la mimica che dà senso a tutto. È uno spasso il senso che viene infuso nelle parole da Renato Sarti, dal dialetto. Sembra di veder volar via i “muleti” come tanti ombrelli colorati. Perché non possono capire da dove arriva questa roba maledetta che ti sconvolge. Perché quando la bora tira a cento, centoventi, se non stanno per mano con la mamma o i genitori volano via. In certe vie di Trieste, soprattutto sul cucuzzolo di San Giusto e di San Giacomo, i colli dove il vento arriva più forte, ci sono i passa mano sulla strada perché uno si attacca. Perché altrimenti vola. Il camminare contro la bora significa camminare piegato a settanta gradi perché altrimenti voli giù. E questa cosa qui secondo me sui bambini può avere un’influenza. A volte ti fa divertire, a volte ti fa impazzire, non capisci. Essendo triestino mi sono rimaste dentro queste cose. Poi una delle esperienze più importanti di quella città è la venuta di Basaglia. Ho sempre reputato la legge Basaglia una delle conquiste più importanti della storia del nostro paese, culturale, politica, sociale, umana, civile. Non è soltanto una legge che riguarda la sofferenza psichiatrica e la malattia mentale. È una conquista culturale, storica. Ma è stata anche un’occasione mancata? No. Per quanto al momento non sia facile e tu ne hai parlato con Peppe [ndr. Peppe Dell’Acqua). Però è intoccabile. Le lancette non si portano indietro, non si può tornare più a quel sistema di allora. Ci sono difficoltà di applicazione di quella legge. Perché è vero che per una famiglia lasciata a se stessa, con una persona con delle problematiche, arrangiarsi da soli è difficile. Ci sono a tutta una serie molto complessa di problematiche. In Muri uno dei pezzi più tremendi e quando questa infermiera, Mariuccia Giacomini, parla del Ralli, [ndr. Ralli. Padiglione dell’Ospedale Psichiatrico San Giovanni a Trieste, dove venivano ricoverati i bambini]. “Ah! Mi dimenticavo del Ralli, che era per i bambini rinchiusi, i figli di internati o di internate, figli di nessuno, caratteriali, con un’infanzia derelitta, quelli che definivano ebeti. Al Ralli ci sono stata solo un giorno e una notte. No, no, gli ho detto. Spostatemi subito. Non posso. Non reggo, Via, via, via. Con la scusa che non si facessero male c’erano i muleti, i piccoli, legati al letto con le catene. Spaventoso”. Alcuni di questi bambini magari nascevano nell’ospedale. Perché certi contatti tra malati e malati c’erano. C’erano delle persone che sono nate lì dentro e sono rimasta lì dentro venti, trent’anni. La loro vita è stata in manicomio. Ecco. Questa cosa non può succedere più. È stato stabilito un prima e un dopo. Non è un caso che la legge Basaglia sia studiata. Vengono in visita studenti brasiliani, australiani. Peppe mi diceva che era stato invitato in Turchia perché volevano istituire una legge che fosse simile, o si spirasse all’ospedale psichiatrico di Trieste. È stata un’esperienza con mille difficoltà, perché poi dipende dai finanziamenti, dipende dalla volontà politica. A fronte di tante persone che hanno ritrovato il senso, la libertà, la vita, il rispetto, se succede in caso di un malato mentale, usiamo questa parola qui, che commette un atto terribile, subito la stampa, i giornali. Non si può tornare indietro. Quella legge è stata stabilita. Da lì c’è un voltare pagina della storia, non solo della psichiatria. Quali istituzioni oggi, se ci sono, hanno preso il posto dei manicomi come discarica umana e sociale? Purtroppo si assiste a un ricorso sempre più frequente delle pillole, al rinchiudere le persone nell’ambito di una casa invece che un’istituzione come il manicomio. La legge basagliana ha segnato qualsiasi esperienza in Italia. Ogni tanto si scopre un ospedale psichiatrico, o un istituto manicomiale, o quello che resta dell’istituto manicomiale, dove ci sono persone chiuse che subiscono vessazioni, che hanno situazioni di degenza negative. Però non è più quel fenomeno quasi istituzionale in cui il manicomio era uguale a un lager. Oggi non puoi tenere in casa uno e imbottirlo di pillole. Massacrarlo. Il tuo è un teatro della memoria. Che cosa unisce spettacoli come Mai morti, Matilde, I me ciamava per nome: 44.787, con Muri? Dal punto di vista della scrittura molti di questi testi nascono dalle testimonianze delle persone. Tutto nasce semplicemente dall’incontrare le persone che hanno vissuto quel periodo, quelle esperienze, dalle lunghe interviste che ho fatto, dagli incontri. Poi c’è anche l’apporto dei libri, dei giornali, delle riviste, dei film. Però la caratteristica, l’idea principale, è quella che nasce dalle testimonianze. Il teatro è bello perché se lo fai tu, se lo fa Gianfranco Falcone lo fa in un modo, se lo faccio io lo faccio in un altro. È una delle arti più individuali che esista. Però una delle mie teorie è che drammaturghi ce ne sono tanti al mondo e noi, quelli che ufficialmente siamo considerati drammaturghi siamo un terminale. Ma a monte c’è un paese, una risorsa incredibile di gente che sa raccontare e racconta, forse meglio di me e meglio di noi drammaturghi, le cose della vita. Le trovi in università, le trovi sul tram, le trovi in osteria, le trovi al bar, le trovi da per tutto. Molte di queste testimonianze per me sono state essenziali. Soprattutto a partire dalle testimonianze degli ex deportati, raccolte a Trieste da Marco Coslovich e Silvia Bon. Io dico sempre che le mie tre scuole teatrali più importanti sono state Strehler, il Teatro dell’Elfo una grande palestra, e le testimonianze di Marco Coslovich e Silvia Bon che mi hanno aperto gli occhi. Con queste testimonianze mi sono reso conto che, al di là dell’importanza delle cose che i testimoni affermavano e dicevano, era importante il modo in cu lo dicevano. Perché la mia attenzione su certe testimonianze si ferma con maggior attenzione, maggiore interesse quando i concetti e le cose sono più o meno le stesse? Per il modo di raccontare. Per esempio mi sono accorto che Annamaria Rolfi, come Riccardo Goruppi, che erano stati deportati, adoperavano un sistema molto semplice. Cosa che fa Paolini e che poi faceva Dario Fo. Non usano il passato remoto, l’imperfetto. Dopo tre, quattro avo, evo, ivo. Dopo tre o quattro uto, ito, ato, l’attenzione scema. Se tu usi il presente nei momenti cardinali, più importanti, l’attenzione si accende. Il presente è il verbo dell’azione. Ti riporta improvvisamente all’interno dell’azione. È come se la vivessi in quel momento lì. Poi altre volte la dislocazione, cioè la frase non sempre costruita col soggetto, verbo, predicato. No. A seconda dell’importanza questa cosa veniva sovvertita. Terza cosa l’insegnamento che aveva dato Strehler e che lì ho realizzato. “Quando non viene l’intenzione per interpretare qualcosa pensate quella frase nel vostro dialetto, e vedrete che comprenderete subito il significato, meglio, di come doverla interpretare”. Era così. L’uso del dialetto ti dà un’immediatezza, la lingua italiana invece fa da filtro in qualche maniera. Non sempre per carità. Non sono verità scolpite sul marmo. Quindi, per me la terza grande lezione è stata la raccolta di queste testimonianze. In certi casi non ho fatto altro che riportarle pari, pari. Lo ammetto, ho copiato. Due frasi citerò. Una di queste frasi è di Riccardo Goruppi. “Chi non l’ha provato non so se la verità ghe xe entrada”. Renato Sarti riprende le parole di Goruppi, la loro forza. E nota quel “Ghe xe entrada”. Non gli è entrata, non gli è andata dentro. E quale parola migliore del triestino? “La verità ghe xe entrada”. Ghe se entrada, gli è entrata dentro. L’altro esempio è della storia di una deportata sempre triestina, slovena. Perde il bambino a Ravensbruck. Il bambino vive quattordici giorni. Le sue parole le ho riportate senza nessuna aggiunta. “Nessuno può capire cos’era, solo quelli che hanno provato. Nessuno mai capirà. Neanche se mi ricoprissero d’oro sarei ripagata per quello che mi hanno fatto”. C’è questa illuminazione “Neanche se mi ricoprissero d’oro”. Una roba alla Goldfinger. Mi immergo nelle parole di Renato Sarti che dà eco a parole antiche, di sofferenza, di dolore, arrivate da Ravensbruck. Potrebbero essere parole che arrivano da qualunque padiglione di qualunque manicomio sparso per l’Italia. In un’Italia in cui i matti non avevano neanche parole. Ti faccio questi due esempi per dirti che noi dalla vita, le parole degli altri, dobbiamo solo imparare in certi casi. Lo spunto arriva dalla vita. Se il teatro non è un po’ lo specchio della vita. C’è chi riesce a scrivere di punto in bianco, di sana fantasia. In qualche caso, in molti casi, secondo me il drammaturgo si ispira alla realtà. Nel caso di Giacomini, nel caso di Muri il caso si fa ancora più complesso, ma anche più bello. Nei tuoi testi c’è il non arretrare di fronte all’orrore. È come se tu avessi fatto una scelta a un certo punto della tua vita, “Guardare negli occhi i mostri della nostra epoca”, i campi di concentramento, il terrorismo, i manicomi. È così? Sì. Diciamo che la mia attività di drammaturgo, teatrante, ha due rami completamente divergenti. Da una parte mi occupò di teatro comico che mi piace molto. Ogni tanto sento proprio il bisogno fisico di farlo. Anche perché dall’altra c’è la testimonianza dell’orrore, le grandi tragedie del nostro secolo, quello che c’è alle spalle, ma anche di questo. Mi sembra inevitabile che il teatro debba dedicarsi ai grandi eventi storici. Come i greci parlavano delle guerre con i Persiani, e della pandemia di Tebe, da cui nasce tutta la storia di Edipo, così è giusto secondo me che il teatro si occupi dell’attualità, dei tempi in cui viviamo. Secondo me il teatro, non è che deve, perché ognuno fa il teatro che vuole, ognuno fa il teatro che gli piace, ognuno trova la sua dimensione. Però quello che appartiene di più a me è legato alla memoria storica. E qui diciamo che il fil rouge di cui parli tu è legato a un altro concetto... Cerco di essere brevissimo. Io abitavo a Trieste in linea d’aria a cinquecento metri dall’orrore, dal luogo simbolo della deportazione, dello sterminio in Italia, la Risiera di San Sabba, in pieno centro, cioè vicino allo stadio. Allo stadio ci sono andato tantissime volte da ragazzo. Sono riuscito anche a prendere la maglia di Santelli, il capocannoniere della Triestina quando era andata dalla serie B in serie A. C’è la via Flavia vicino alla Risiera di San Sabba, l’arteria più importante che corre verso la Slovenia, sul mare. C’erano delle trattorie, c’è il quartiere di Servola, che è una specie di anfiteatro naturale. Hai una via che si chiama via Ratto della Pileria, che se hai una bicicletta vecchia o un motorino Ciao di una volta, non riesci a farla perché ha una pendenza del sedici per cento. Questo significa che è un quartiere che dall’alto vedeva tutto, i camion che arrivavano, i prigionieri, la movimentazione dei militari, il fumo di notte, sentiva l’abbaiare dei cani, le radio a pieno volume di notte per non sentire le grida. C’era questa cosa qui, la Risiera, a cinquecento metri da casa mia, e non sapevo nulla. Ha una particolarità poi il campo della Risiera. È stato l’unico campo di sterminio che ha avuto un forno crematorio in Italia, nazista, all’interno delle mura daziarie. In tutta Europa non esiste un altro campo di sterminio all’interno di una città. Queste caratteristiche avrebbero dovuto renderlo una cosa eclatante. Tutti noi avremmo dovuto sapere che a Trieste c’era la Risiera di San Sabba. Io sono venuto a saperlo un po’ per caso, mai studiato. Questa cosa qui ha lavorato dentro di me, e lavora ancora adesso, molto più di quanto possa pensare, immaginare io stesso. Cioè, sapere che a cinquecento metri da casa mia c’era un posto, il più importante, il luogo topico della deportazione, dello sterminio in Italia, e che io non ho saputo niente praticamente fino a sedici, diciassette anni secondo me è una cosa incredibile. Questo forse ha causato anche il fatto che mi sono iscritta all’università a lettere a indirizzo storico. Ancora adesso sono assetato di storia, perché mi hanno privato di una cosa fondamentale della mia vita. E lo fanno continuamente, lo fanno ancora oggi. I ragazzi pensano che se perdono il cellulare con i dati e i messaggi perdono tutto. Ma se tu perdi la memoria quello che è stato la tua vita precedente, dei tuoi padri, dei tuoi genitori, dei tuoi nonni, hai perso qualcosa di più incommensurabile. Io mi ricordo ancora oggi la frase che mi disse lo storico Teodoro Sala. Avevo scritto un testo intitolato Ravensbruck, il più grande campo di internamento femminile, a ottanta chilometri a nord di Berlino. Si parla di 90mila, 100mila morte. Quando gli chiesi “Perché secondo te mi occupo di queste cose qua?”. Lui mi rispose “Semplicemente perché non hai niente alle spalle. Hai il vuoto alle spalle. Fai come tanti ragazzi che conosco io, che vengo a studiare storia. Vengono lì perché sentono di non avere niente dietro”. Il nostro è un paese che ha costruito il suo progetto escludendo la storia. Frase che adopero dappertutto fino alla nausea, “Ha fatto dell’oblio lo sport nazionale e della memoria storica un optional”, con le conseguenze che vediamo. Quindi questa roba qui della storia per me è stato fondamentale, perché è importante la memoria storica. È importante parlare degli ebrei, degli oppositori politici, degli zingari, dei testimoni di Geova imprigionati e uccisi per il loro pacifismo. La prima categoria colpita dal delirio della razza ariana nazista, la prima categoria di untermenshen, di sotto uomini, colpiti in Germania sono gli handicappati, i malati mentali, i bambini affetti da malformazioni, il diverso per eccellenza. E capisci che se togli via tutto questo dopo venti, trent’anni, questa roba torna fuori. Poster sulla porta. Manicomio di Pesaro. © Giacomo Doni. Torniamo a Mariuccia Giacomini. Perché è così importante questa donna? Perché è importante il suo percorso. A Trieste intervisto Mariuccia e mi rendo conto di essere davanti a un gigante per la sua storia. Lei era entrata giovanissima all’ospedale psichiatrico perché la provincia di Trieste allora doveva dare lavoro a persone che avevano certe particolari difficoltà, tipo gli esuli, tipo quelli che avevano malattie, tipo gli handicappati, anche le ragazze madri. La provincia le assumeva dall’inizio temporaneamente e poi i via definitiva. Lei arriva prima di Basaglia, nel Sessantotto. Basaglia arriva nel ‘71. E lei per due anni fa l’infermiera secondo i metodi che erano instaurati lì, che erano la pratica quotidiana. E lei lo dice anche “Ma sì mi sembrava una roba normale, il metodo era quello. O dio mi dicevo, ma perché li pestano così sta gente poveracci? Ma più di tanto…”. Aveva visto gli elettroshock, i pestaggi, il Ralli, la bruttura dell’ospedale psichiatrico. Sapeva che c’erano dei lobotomizzati. E per due anni Mariuccia vive questa situazione qui. Donna di popolo, semplice, del quartiere di Servola, quello sopra la Risiera, che ha il dialetto più vivace della città. Al punto che il famoso Angelo Cecchelin, il Petrolini triestino, si ispirava tra le altre fonti alle donne di Servola che venivano a vendere il pane in città. Però oltre a vendere il pane avevano la lingua che andava, come serpente. E come da tradizione quelli che fanno i mercati sono anche quelli che parlano, sono il giornale della città, ai tempi più di oggi. Lei faceva parte di questo quartiere, con questo dialetto bellissimo, vivace. A Trieste impera il witz, la battuta, il motto di spirito, la presa in giro, nell’educazione, nella crescita, nel modo di vivere la città. E lei vive due anni così. Poi però arriva Basaglia, che non cambia solo la sua vita professionale, ma anche personale. Prima cosa il rispetto per se stessi e per gli altri. Lei praticamente incomincia ad avere ogni giorno incontri su incontri, riunioni su riunioni. Dove però lei imparava. E quindi acquista, apprende, un modo di parlare che è fatto con gli psichiatri, con i dottori, con le persone specializzate. È un’evoluzione per lei. Cambia anche il suo modo di parlare. A farla breve Mariuccia fa un percorso linguistico interessantissimo. Perché dal dialetto più puro triestino impara una lingua evoluta. Lei si fa tutto il periodo basagliano, è la sua famiglia, lo dice. Dal punto di vista linguistico c’è un intreccio tra un italiano, che poi diventa anche alto, che si intreccia come un fiume carsico all’interno del suo modo triestino di parlare che è molto vivace. Le parole più importanti sono il rispetto dell’altro. “Se io rispetto una persona anche l’altra avrà rispetto di me. Non mi violenterà”. Anche lì alcune cose ho aggiunto, alcune cose ho cambiato, sistemato un po’, anche su indicazione di Giulia Lazzarini. Però la matrice è la testimonianza, che ha questo valore aggiunto, un triestino che man mano si intreccia con l’italiano. Poi lei fa esperienze con il Sert, fa mille cose. Per lei è uno shock perché dice “Io prima lavoravo in osteria”. E a Trieste si trinca, si beve. Gli alcolizzati per noi erano normali. Negli ospedali succedeva il contrario, non gli davano una goccia di alcool. Anzi gli davano degli antagonisti, pastiglie contro l’alcol che una volta che qualcuno le ingurgitava, se beveva un goccio d’alcol andava fuori. E usavano apposta queste tecniche. Quando uno dava fuori di matto, diventava violento, gli davano questa pastiglia antagonista e poi a forza lo bloccavano e gli buttavano dentro una scodella di vino bianco. È questo collassava, cianotico. La vera terapia, la vera risposta alle situazioni di disagio mentale è fare comunità? Non è un caso che la Cooperativa Abitare, che ospita il Teatro della Cooperativa, tra le altre attività, oltre a dare casa, sistemare gli ascensori, mettere a posto gli scorri mano, i box, e tutto il resto, dedica una parte del proprio bilancio a una piccola realtà che segue le persone nell’area del disagio. Quindi all’interno della Cooperativa Abitare c’è un’attenzione per le persone che hanno bisogno. Il che non vuol dire che non abbiano anche punti di riferimento esterni di cui possono usufruire tutti. No, ce n’è una in più, con un’attenzione sul luogo, sul quartiere. Quindi, le persone nell’area del disagio, ragazzi che hanno particolari difficoltà, gli anziani, vivono questo processo di partecipazione insieme a una collettività, al quartiere. Non è facile neanche lì, ci sono difficoltà di tutti tipi, però la persona in difficoltà è contestualizzata all’interno del territorio dove abita. Perché una cosa sono i CPS, una cosa invece è se all’interno della Cooperativa Abitare, all’interno dei caseggiati tu hai, così come c’è, il dopo scuola e tante altre attività. Il teatro può diventare la vera terapia? Muri debutta nel 2008, l’abbiamo fatto per tanti anni. Anche se solo una persona avesse cambiato il modo di pensare al malato mentale, smettendo di considerarlo una persona da emarginare, che dà fastidio, da tenere dentro perché violenta, io sarei felice. Spero che sia avvenuto per più di uno. Spero si comprenda non solo l’aspetto negativo di un certo modo di fare psichiatria, ma soprattutto la responsabilità che un soggetto deve assumere nel momento in cui capisce che le logiche sono un po’ più complesse. Desaparecidos, Cartabia: estradare ex militari cileni condannati di Alfredo Sprovieri La Repubblica, 22 agosto 2021 Firmata la richiesta di arresto provvisorio da parte del ministro della Giustizia per tre ex componenti dell’esercito di Pinochet: Rafael Francisco Ahumada Valderrama, Manuel Vasquez Chahuan e Orlando Moreno Basquez. Il momento della resa dei conti con la storia è arrivato. Il ministro della Giustizi, Marta Cartabia, ha firmato la richiesta di estradizione per tre ex militari cileni condannati all’ergastolo in Italia per la morte e la sparizione di due cittadini di origini italiane nel 1973, anno del sanguinoso golpe di Pinochet. Si tratta del 71enne colonnello Rafael Francisco Ahumada Valderrama, del 80enne sottoufficiale Orlando Vasquez Moreno e del 71enne brigadiere Manuel Vasquez Chahuan, per i quali da parte delle autorità italiane c’è anche la richiesta di arresto provvisorio, inoltrata anche all’ambasciata italiana a Santiago del Cile. I tre, per i crimini commessi durante il golpe di Pinochet coinvolti anche in altri processi in patria e all’estero, sono stati localizzati in Cile e, in attesa che la richiesta venga esaminata dalle autorità locali del loro Paese, hanno il divieto di varcarne i confini. La richiesta italiana assume un valore storico e potrebbe rappresentare un precedente non di poco conto nelle numerose vicende analoghe. Arriva infatti dopo che il primo luglio scorso le condanne all’ergastolo comminate nel maxi-processo Condor di Roma sono diventate definitive per il mancato ricorso alla condanna in Appello dei tre. Pochi giorni dopo la Corte di Cassazione di Roma ha prodotto altre 14 condanne per altrettanti esponenti delle giunte militari e dei servizi di sicurezza di Paesi sudamericani al potere a cavallo tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli 80. Se la richiesta di rendere esecutive le pene dei tre ex militari cileni con l’estradizione in Italia si completerà positivamente, la stessa sorte potrebbe toccare agli altri condannati di Uruguay, Paraguay e Bolivia. I tre golpisti cileni, in particolare, alla fine di uno dei primi processi mossi in Europa per l’accertamento dei crimini commessi durante le dittature militari latino americane, sono stati riconosciuti colpevoli della morte e della sparizione di Juan Josè Montiglio, detto Anibal, guardia del corpo del presidente Salvador Allende e di Omar Venturelli Leonelli, ex sacerdote e professore universitario protagonista nell’occupazione delle terre dei contadini “mapuches”. Ora sarà la Corte Suprema di Giustizia cilena a dover pronunciarsi sulla richiesta di estradizione arrivata dall’Italia, In caso di accoglimento della richiesta firmata dalla Cartabia, la palla poi passerebbe all’omologo ministro cileno che sarà chiamato a pronunciarsi in un particolare momento storico che vede le istituzioni del Cile intente a liberarsi delle scorie della dittatura, anche attraverso una nuova costituzione. “Siamo molto soddisfatti di quest’atto del governo italiano”, ha dichiarato Jorge Ithurburu, della 24Marzo, la onlus che ha seguito i famigliari delle vittime durante la ventennale attività del processo italiano. “Siamo davanti a una prima volta che dimostra che il percorso iniziato tanti anni fa non ha portato solo memoria e verità, ma soprattutto giustizia e fine dell’impunità. Ci auguriamo che ora l’ambasciata italiana in Cile presti la massima attenzione ai passaggi previsti della legge perché la giustizia che attendono i parenti di queste vittime sia vera fino in fondo”. La storia dei due desaparecidos italiani è paradigmatica degli anni che hanno insanguinato il Cile. I due primogeniti di entrambi vivono e lavorano da anni in Italia, durante il processo Condor, al fianco delle madri, non più in vita, hanno deposto raccontando la tragica storia dei loro padri. Montiglio, di origine piemontese, era un giovane studente socialista. Voleva diventare professore di biologia a Santiago, ma il giorno prima della nascita del suo primogenito la sua vita cambiò per sempre. Il partito gli comunica infatti che è stato scelto per entrare a far parte della scorta personale del presidente Allende ed è un compito che Montiglio decide di assolvere fino alle estreme conseguenze, trasferendosi con la giovane famiglia nella residenza presidenziale e rimanendo nel palazzo della Moneda assediato dai bombardamenti anche quando ormai il presidente era morto e il Cile caduto. È rimasto desaparecido per anni, fino a quando il ritrovamento di alcuni frammenti ossei non hanno dimostrato che è stato preso dai golpisti e portato in una caserma fuori città, dove è stato costretto prima a scavarsi la fossa, poi è stato fucilato e infine raggiunto da granate atte a cancellare ogni traccia. Diversa la storia di Omar Venturelli Leonelli, la sua famiglia proveniva da una comunità contadina dell’appenino modenese trapiantata al Sud de Cile. Lì come sacerdote si è schierato dalla parte dei contadini mapuche nel processo di riappropriazione delle terre donate ai coloni e per questo è stato sospeso a divinis dal vescovo Pinera, zio del futuro presidente cileno. Ha iniziato a insegnare all’università, si è sposato e ha messo al mondo una bambina, e quando all’avvento del colpo di Stato ha scoperto di far parte di una lista di proscrizione si è consegnato spontaneamente alla caserma più vicina. Al padre dissero che si trattava di una formalità, era il 25 settembre del 1973. Non ha più fatto ritorno a casa. Dopo Kabul, l’imputato Occidente e le pulsioni antiamericane di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 22 agosto 2021 Dietro c’è sempre stata la condanna in blocco per le libertà occidentali, politiche, civili ed economiche. La conclusione della vicenda afghana non è soltanto la più disastrosa sconfitta subita in tempi recenti dalla società occidentale ad opera di un movimento totalitario. Segna anche, paradossalmente, il momento di un suo amarissimo successo. I disperati che si aggrappavano agli aerei in volo, le donne terrorizzate dal ritorno dei barbari e tutti coloro che cercano ora di scappare prima che l’inferno li inghiotta, testimoniano che, nonostante vent’anni di guerra e tanti errori, gli occidentali erano riusciti ad aiutare gli afghani a creare, quanto meno, un embrione di società decente. Una società in cui le bambine potevano andare a scuola e le ragazze all’Università, in cui gli uomini e le donne potevano impegnarsi in attività economiche che non consistessero nella coltivazione dell’oppio, in cui per tanti, insomma, era possibile ricominciare a vivere, sperare di nuovo nel futuro. Perché mentre fioccano i commenti liquidatori della guerra in Afghanistan nel suo insieme è importante ricordare, oltre agli errori, anche quanto di buono era stato comunque fatto? Perché è evidente da molti segnali che quelli fra noi che l’hanno sempre detestata si apprestano ad istruire un “grande processo” contro la società occidentale, i suoi principi e le sue realizzazioni. I politici, di qualità o mediocri, capiscono sempre al volo quali siano i potenti in declino e quali quelli in ascesa, e adattano immediatamente le loro tattiche e le loro strategie ai cambiamenti nella distribuzione di potenza. Seguiti in ciò da settori più o meno ampi dell’opinione pubblica. Poiché la leadership internazionale degli Stati Uniti, già prima in declino, esce assai malconcia dalla vicenda afghana, ci possiamo aspettare nei prossimi mesi e anni una forte ripresa dell’antiamericanismo (peraltro, mai scomparso) in Europa. La crescita dell’antiamericanismo è l’inevitabile conseguenza del declino della potenza americana, della sua perdita di credibilità e di reputazione. Ma, attenzione, l’antiamericanismo in Europa non è mai stato solo espressione di una opposizione agli Stati Uniti. C’è molto di più. Neanche troppo nascosta dagli slogan antiamericani è sempre stato possibile scorgere l’ostilità per la civiltà liberale occidentale nel suo complesso, della quale gli Stati Uniti, dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi, sono stati guida e motore. L’antiamericanismo era ed è lo strato più superficiale. Negli strati più profondi c’è sempre stata la condanna in blocco per le libertà occidentali, politiche, civili ed economiche. Come prova il fatto che l’antiamericanismo è andato a braccetto, invariabilmente, con l’elogio per i regimi autoritari e totalitari. A sinistra come a destra. C’è stato un tempo in cui l’antiamericanismo di sinistra si sposava con l’ossequio per l’Unione Sovietica e poi, in epoca post’68, per la Cina di Mao, per la Cuba di Fidel Castro, eccetera. Nello stesso periodo, nell’estrema destra, l’antiamericanismo esprimeva l’ostilità per quelle “demoplutocrazie” che, proprio in nome della civiltà liberale, avevano combattuto e sconfitto nazismo e fascismo. Queste purtroppo non sono solo pagine di storia che non ci riguardano più. Invece, ci riguardano. Poiché la politica non ammette vuoti, il declino americano, la scelta degli Stati Uniti, ribadita ora da Biden in perfetta continuità con Trump (e in accordo con quanto chiede l’opinione pubblica americana) di ripiegare su se stessi, lascia il campo libero alle grandi potenze autoritarie, dalla Cina alla Russia e a uno stuolo di medie potenze anch’esse di stampo autoritario e parimenti nemiche della società occidentale. Saranno quelli i nuovi punti di riferimento (con cui plausibilmente stringeranno alleanze e legami) degli eredi e successori degli antiamericani europei, di destra e di sinistra, dei tempi della Guerra fredda. Naturalmente, le regole di un sistema internazionale multipolare come è quello in cui oggi viviamo sono diverse da quelle di allora. In epoca di Guerra fredda il nemico principale delle società libere era uno. Oggi le sfide sono multiple e diffuse. Qualcuno ha detto saggiamente che la debolezza dimostrata dagli Stati Uniti potrebbe spingere la Cina a tentare, prima o poi, una prova di forza su Taiwan. A loro volta, i russi possono ora contare su quella debolezza per rafforzare le loro posizioni, certamente in Medio Oriente e, forse anche in Europa, ai confini con la Nato. Anche la politica neo-ottomana, dei turchi, esce ringalluzzita dalla vicenda afghana e, prima che il castello di carte costruito da Erdogan crolli, potremmo assistere ad altre sue prove di forza, in funzione anti-europea e anti-occidentale. Il tutto mentre la vittoria talebana galvanizza l’estremismo islamico in Asia, in Africa, in Europa. Per gli europei la situazione è difficile. L’ombrello americano su cui abbiamo sempre contato è ora pieno di buchi e non c’è, al momento, un ombrello di ricambio. La divaricazione fra le due società liberali, quella europea e quella americana, è forte ora come ai tempi di Trump: Biden ha fatto le sue scelte per ragioni di politica interna senza preoccuparsi dei contraccolpi negativi sull’Europa. Cosa che, certamente, contribuirà ad alimentare l’antiamericanismo europeo. Ciò potrebbe, in un prossimo futuro, ridare slancio e consensi a forze dai tratti illiberali che, in diversi Paesi europei, apparivano, ancora poche settimane fa, in via di ridimensionamento. Forse le democrazie europee istituzionalmente più solide e ove è maggiormente condivisa l’adesione ai principi liberaldemocratici, resisteranno meglio alla pressione ma è facile immaginare che le democrazie più fragili, come la nostra, possano subire pesantemente le conseguenze della nuova situazione internazionale. Se non stiamo attenti, se non saremo capaci di mettere in campo efficaci contromisure, arriverà un tempo in cui l’Italia diventerà il terreno di scontro fra fazioni con referenti internazionali differenti, Europa e Stati Uniti da una parte, Cina, Russia e chissà chi altro dall’altra parte. Il partito filo-cinese ha già ora alzato la testa: “bisogna dialogare con i talebani che oggi si dicono più moderati di un tempo”, “dobbiamo stabilire legami solidi con la Cina”, eccetera. Anche gli amici italiani di Putin, sicuramente, non si faranno sfuggire l’occasione. Qualcuno invoca l’Europa. Ma l’Europa, nel bene e nel male, siamo noi. E c’è sempre il problema di come si fa a sollevarsi dal fango tirandosi da soli per i capelli. Afghanistan, scali e campi profughi: le rotte della salvezza finiscono contro i muri di Gabriella Colarusso La Repubblica, 22 agosto 2021 Grecia e Turchia blindano i confini, Iran e Pakistan rafforzano i controlli. La crisi divide gli Stati Ue. I Balcani accolgono i fuggitivi diretti negli Usa. La caduta dell’Afghanistan nelle mani dei talebani sta spingendo migliaia di persone a cercare una via di uscita dal Paese, mentre gli Stati della regione blindano i propri confini. La Grecia ha annunciato ieri di aver completato la costruzione di un muro di 40 chilometri, alto 5 metri, alla frontiera con la Turchia. La decisione di estendere le recinzioni lungo il fiume Evros, al confine orientale, era in realtà già stata presa dal governo di Atene nello scorso ottobre. A gennaio erano iniziati i lavori e nell’ultima settimana l’intera area è stata militarizzata con telecamere, radar e dispositivi acustici. La crisi afghana ha messo in allerta anche la Turchia del presidente Erdogan. A metà luglio Ankara aveva autorizzato la costruzione di un nuovo muro in cemento nella provincia orientale di Van, alla frontiera con l’Iran, che si estenderà per circa 64 chilometri e va ad aggiungersi ai 149 chilometri di recinzioni già costruite in diversi punti del confine lungo le province di Agru, Hakkari, Igdir. Il Pakistan, che con l’Afghanistan condivide 2.670 chilometri di confine, ospita già 1,4 milioni di afghani legalmente registrati, ma un totale di circa 3 milioni tenendo conto anche degli irregolari. Aveva chiuso i valichi di frontiera prima della presa del potere da parte dei talebani, ma ha dovuto riaprirli per non bloccare il trasporto di merci e il passaggio di persone che lavorano tra i due Paesi. La circolazione è comunque limitata da controlli rigidi, soprattutto al valico di Torkham che è stato per decenni il principale punto di arrivo dei rifugiati in Pakistan. L’Iran ha rafforzato i controlli in tre province di confine e sta allestendo campi di accoglienza temporanea. In Iran ci sono 780mila afghani secondo l’Unhcr, l’alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, ma la cifra arriva a oltre 2 milioni con gli irregolari. All’interno dell’Afghanistan la situazione è sempre più difficile per le migliaia di persone che tentano di lasciare il Paese. I talebani hanno piazzato diversi checkpoint lungo le strade che portano all’aeroporto di Kabul, controllano chi vuole entrare nello scalo e impediscono a molti di raggiungerlo, rendendo ancora più difficile le già caotiche operazioni di evacuazione degli americani e degli alleati Nato. Il presidente americano Joe Biden ha detto che con il ponte aereo delle forze armate Usa sono state evacuate 13mila persone dal 14 agosto e 18mila da luglio. Il Regno Unito ha portato via dall’Afghanistan 1.200 persone. L’Italia, dal giugno scorso, quando ha avviato l’operazione Aquila, ha fatto uscire 1.000 persone, 500 sono in attesa all’aeroporto di Kabul per essere imbarcate su voli militari. La Germania ha evacuato finora 1.700 persone, la Turchia 500, la Spagna circa 160. Si tratta di cittadini statunitensi ed europei e dei Paesi Nato, personale delle ambasciate, molti afghani che hanno collaborato con i governi e le organizzazioni occidentali o che sono particolarmente a rischio come attivisti, giornalisti, oppositori. Gli aerei che partono da Kabul fanno scalo a Doha, in Qatar, a Tashkent, in Uzbekistan, a Islamabad, in Pakistan. Da lì gli afghani vengono caricati su voli di linea per raggiungere i Paesi in cui verranno accolti dopo le procedure di riconoscimento e per il visto. Lo scalo di Doha ha raggiunto però la sua capacità massima di accoglienza e questo ha rallentato nelle ultime ore le operazioni di evacuazione. Albania, Kosovo e Macedonia hanno chiuso un accordo con gli Stati Uniti: accoglieranno temporaneamente gli afghani diretti negli Usa. La base aerea di Torrejón de Ardoz, vicino a Madrid, sarà invece l’hub logistico dove verranno ospitati i cittadini afghani evacuati dai Paesi europei, ma per non più di 72 ore, in attesa delle procedure per ricevere un permesso temporaneo di ingresso in Europa o l’asilo, in base alle scelte politiche dei singoli Stati. La crisi afghana ha spaccato l’Europa, con Paesi come l’Austria che non solo si sono rifiutati di accogliere afghani, ma hanno promesso anche che continueranno con i rimpatri forzati, e Stati come la Germania di Angela Merkel che invece hanno annunciato di voler aprire le porte a circa 10mila afghani considerati a rischio. La Grecia ha minacciato di rimandare indietro gli afghani che arriveranno dalla Turchia. Gli Stati Uniti si sono impegnati ad accogliere 10mila profughi, il Canada 20mila dando precedenza a donne, bambini, attivisti per i diritti umani e tutte le persone più esposte, lo stesso criterio che il Regno Unito ha annunciato di voler seguire per accogliere 20mila afghani con un programma di ricollocamento che verrà realizzato però nei prossimi mesi, se non anni. Un muro lungo 40 chilometri, la Grecia blinda il confine di Dimitri Deliolanes Il Manifesto, 22 agosto 2021 Lungo il fiume Evros. Ultimata la barriera alla frontiera con la Turchia. Erdogan non ha rassicurato Mitsotakis, ora i suoi ministri agitano “possibili nuovi flussi migratori”. Presto verranno assunte 250 guardie e sarà rafforzata la sorveglianza con mezzi elettronici. Mentre giganteschi incendi divorano ancora gran parte dell’Attica e minacciano di nuovo i sobborghi di Atene, il governo greco ha voluto approfittare della clamorosa disfatta della Nato in Afghanistan per fare esibizione di forza contro i migranti al confine terrestre con la Turchia, lungo il fiume Evros. Ben due ministri, Nikos Panayotopoulos per la Difesa e il problematico Michalis Chrysochoidis per l’Ordine Pubblico hanno visitato le postazioni di frontiera per farsi immortalare dalle telecamere mentre stringono le mani a poliziotti e militari e provano con le loro poderose mani la resistenza della muraglia eretta dal governo nella parte meridionale della frontiera, vicino alla cittadina Feres. Pugni sulle pareti anche sul posto di guardia e sorveglianza di Kastanies, egualmente eretto in fretta e furia dopo il tentativo di attraversare in massa la frontiera da parte di migliaia di migranti nel mese di marzo del 2020. Con la nuova aggiunta, la muraglia di confine ha raggiunto un’estensione di circa 40 chilometri, mentre i punti di attraversamento del fiume (a piedi e senza barche nel periodo estivo) sono tutti controllati da telecamere e sensori. Da luglio è in funzione anche il dirigibile Eagle Owl di Frontex con compiti di sorveglianza dei passaggi di confine. In una conferenza stampa senza domande da parte dei giornalisti, i due esponenti della destra al governo si sono autocomplimentati per “l’ottima collaborazione tra polizia ed esercito”, mentre Chrysochoidis ha balbettato sulla “nuova situazione geopolitica” che si è creata dopo l’Afghanistan, in grado di provocare “possibili nuovi flussi migratori”, di fronte ai quali “la Grecia non può rimanere inerte e deve difendere le sue frontiere”. Presto, hanno aggiunto i due esponenti del governo, saranno assunte 250 nuove guardie di frontiera, mentre sarà rafforzata la sorveglianza con mezzi elettronici. Nessun accenno agli obblighi del paese derivanti dalle convenzioni internazionali sul diritto d’asilo. “Un doppio passo falso”, ha commentato l’ex ministro di Syriza Nikos Toskas: “I due ministri hanno trasformato il problema dei profughi da questione europea in questione bilaterale tra Grecia e Turchia, mentre la sicurezza interna diventa difesa delle frontiere, con il rischio di un’escalation”. Il confine dell’Evros è uno dei più militarizzati dei Balcani, con un intero corpo d’armata schierato per affrontare eventuali tentativi d’invasione da parte dei turchi. La preoccupazione di Atene è che Erdogan usi ancora una volta i flussi migratori per destabilizzare i paesi confinanti e l’Unione europea. Per ottenere qualche assicurazione in questo senso il premier greco Kyriakos Mitsotakis ha avuto venerdì un colloquio telefonico con il presidente turco. I due leader hanno concordato sul fatto che i loro paesi non possono diventare “depositi di stoccaggio di anime umane”, ma, secondo le scarse informazioni fornite dalla parte greca, il presidente turco non ha fornito le assicurazioni chieste da Atene, preferendo insistere sul “contenimento dei flussi” da parte dei paesi confinanti con l’Afghanistan. Secondo l’avvocato Valantis Pantsidis di Orestiada, a pochi chilometri dal confine, generoso difensore dei diritti dei migranti, per il momento le grida allarmistiche dei mezzi d’informazione filogovernativi non trovano riscontro. I flussi migratori sono nella media stagionale, assicura al telefono, e in buona parte riguardano kurdi e oppositori turchi che cercano rifugio nel paese. Altre fonti denunciano la costante oramai pratica dei poliziotti greci di respingere immediatamente, consegnando ai colleghi turchi, i richiedenti asilo, prima ancora che possano presentare richiesta. Secondo le stesse fonti, gli unici migranti che riescono a evitare il respingimento e a farsi portare al “Centro di Accoglienza e di Identificazione” collocato a Fylakio, fuori Orestiada, sono coloro che vengono scoperti nascosti dentro i mezzi di trasporto. E questo perché i poliziotti sono costretti a redigere un verbale per l’azione penale contro il trasportatore, quindi non è possibile ricorrere alla pratica illegale del respingimento istantaneo. Ma si tratterebbe di un numero estremamente ridotto di chi riesce ad attraversare la frontiera. Il governo fra assistenza e timori. Via tutti, ma attenzione a chi arriva di Francesco Grignetti La Stampa, 22 agosto 2021 Kabul, i controlli su chi si imbarca sui voli per Roma sono saltati. Il Copasir non esclude il rischio di infiltrazioni di terroristi. Ora che a Kabul tutto è precipitato, è perfino ovvio che non si può stare a sottilizzare con i pezzi di carta e la burocrazia. Sugli aerei dell’Aeronautica militare che vanno e vengono dall’Afghanistan si cerca di imbarcare più persone possibile. C’è un eroico console, Tommaso Claudi, diplomatico trentenne al suo primo incarico, che si è ricavato uno spazietto nell’aeroporto e lì da giorni firma i documenti d’ingresso per chi verrà in Italia. È questo l’imperativo morale che viene dal governo: salvare non solo i collaboratori del contingente o dell’ambasciata, compresi i loro familiari, ma anche attivisti e chiunque si sia esposto contro i taleban in passato. E quindi, nella fretta, nel caos, nella frenesia, sono saltati anche i controlli di sicurezza che erano una competenza dei servizi segreti. Ma ciò non significa che i controlli non si faranno più: semplicemente si sono rovesciate le priorità e quei controlli che andavano fatti a monte, ora si faranno a valle. Già, perché comunque nessuno può escludere che un terrorista islamista si infili tra tanti disperati che fuggono verso Occidente. Il problema è stato toccato in diverse sedi istituzionali. Quando i comunicati ufficiali del Copasir, per dire, inseriscono il “pericolo terrorismo” tra gli argomenti su cui sono stati sentiti il responsabile dei nostri servizi segreti, l’ambasciatrice Elisabetta Belloni, o il ministro Luigi Di Maio, si dice anche questo. Il “pericolo terrorismo” si può nascondere nel grande prevedibile flusso di persone che scapperanno nelle prossime settimane o prossimi mesi dall’Afghanistan. Ma può celarsi anche tra le centinaia di persone che sono arrivate o sono in arrivo attraverso il ponte aereo. Nelle riunioni e audizioni del Copasir è emerso con chiarezza che la gran fretta imposta dagli eventi, considerando poi che circola la notizia che l’evacuazione dovrà concludersi in pochissimi giorni, ci espone al pericolo di infiltrazioni. Ne parleranno sicuramente anche con il direttore dell’Agenzia esterna, il generale Gianni Caravelli, che è atteso domani. Ma il tema è all’attenzione di tutti gli apparati coinvolti: Esteri, Difesa, Interno. Lo sforzo di dare una sistemazione “degna” a questi profughi afghani, che peraltro hanno diritto all’asilo umanitario secondo una legge del 2014, e che sarebbe una ignominia abbandonare a loro stessi, in fondo nasconde anche questa esigenza: creando un canale parallelo e dedicato, non mescolando gli arrivi dall’Afghanistan con gli arrivi normali degli sbarchi, crea le premesse per un’accoglienza sicuramente migliore, ma anche più attenta. E quindi, quei controlli di sicurezza che i servizi segreti avrebbero dovuto svolgere a Kabul prima di dare il nullaosta al trasferimento in Italia, ora li faranno da noi. E non solo l’intelligence, ma anche le forze di polizia, attraverso i classici uffici dell’antiterrorismo e della polizia dell’immigrazione, saranno chiamate a vigilare su questi nuovi arrivati. Si consideri che una prima lista di 228 collaboratori del contingente, tra interpreti e autisti, è stata esaminata e riesaminata per un paio di mesi. Una seconda lista con 400 nomi, a forza di screening, è stata superata dagli eventi. Ora si parla di accogliere tra le duemila e le duemilacinquecento persone. E siamo già arrivati, con gli ultimi decolli, a quasi duemila sfollati. Mobilitarsi per i diritti delle afghane di Linda Laura Sabbadini* La Stampa, 22 agosto 2021 Ora tocca a noi non lasciare sole le donne afgane, i bambini e tutti coloro che vogliono essere liberi. Ora tocca a noi, donne del mondo, e a tutti I cittadini che credono nei diritti umani, agire. Ora tocca a noi, Paesi democratici, Europa, intervenire seriamente per salvare cittadini e cittadine disperate, sottoposte a caccia all’uomo o alla donna casa per casa. Dopo gli errori che sono stati fatti è il minimo che si possa fare. Altro che nuovi Talebani! Una profonda commozione ha attraversato il mondo di fronte alle immagini del disastro E anche nel nostro Paese. Le donne sono in marcia. Più di 80 associazioni e reti femminili si sono attivate, chiedendo corridoi umanitari, mettendosi a disposizione per l’accoglienza, e sono state ricevute al Ministero degli Esteri dal sottosegretario Benedetto della Vedova. Sono tante,in pochissimo tempo, da Le contemporanee a Rete per la parità, a Soroptimist, Se non ora quando Libere, La Casa internazionale delle donne, Fuori quota. Tante, di estrazioni diverse, unite nell’obiettivo. E oggi Wall of dolls organizza #White4AfghanWomen con l’obiettivo di mettere una foto sui social vestiti di bianco in solidarietà con le donne afgane. C’è determinazione nelle donne, indietro non si deve tornare. Ora tutte siamo coscienti che dobbiamo concentrarci per salvare più vite umane possibili. Ma nello stesso tempo sappiamo anche che dobbiamo prepararci a una solidarietà a lungo termine. Non lasceremo sole le donne afgane. Sorellanza è sempre più necessaria. Dovremo agire con un’unica voce. Quella delle donne del mondo che reclamano e pretendono diritti umani. Fondamentale sarà il ruolo del G20, lo ha detto chiaramente il nostro premier. Non a caso Women20, il gruppo del G20 che si occupa dell’uguaglianza di genere, ha lanciato un appello proprio al G20 per un’azione attiva contro la violazione dei diritti umani fondamentali del popolare afghano, in particolare delle donne e le bambine. Women20 chiede al G20 di contribuire attivamente a stabilire pace, stabilità e diritti umani nella regione e a rafforzare l’impegno perchè l’Afghanistan mantenga le donne e le bambine afgane libere da ogni forma di violenza. Chiede aiuti umanitari per donne e bambine rimaste in Afghanistan, e assistenza per l’evacuazione e passaggio sicuro per le donne e le bambine che scelgono di lasciare il paese. Ma si batte anche perché il G20 sostenga la creazione di un organismo indipendente che monitori la situazione dei diritti umani in Afganistan in particolare di donne e bambine. Rilancia la posizione assunta da Emma Bonino solo pochi giorni fa dalle pagine di questo giornale. C’è l’occasione del 24 agosto quando si riunisce il Consiglio dei diritti umani dell’ONU a Ginevra. Che si costituisca un organismo indipendente che vigili sulla situazione in Afghanistan e in particolare delle donne e delle bambine. Perché bisogna garantire istruzione dalla scuola primaria all’università in un Paese dove il 70% delle donne è analfabeta, lavoro e occupazione dignitosi, partecipazione politica, libertà di parola ed espressione; accesso sicuro a Internet, telecomunicazioni e tecnologia digitale; libertà da ogni forma di violenza, libertà di movimento. Il W20 invita,inoltre, la leadership del G20 a porre immediatamente fine al ritorno forzato in Afghanistan dei migranti, in particolare donne e bambini. No al “silenzio assordante” dei Paesi musulmani di cui parlava Tahar Ben Jallun nel bellissimo articolo di ieri su Repubblica. Sì alla netta posizione di Ursula Van der Layen quando dice “Il miliardo di euro di fondi Ue per gli aiuti allo sviluppo, accantonato per sette anni, è legato a strette condizioni: il rispetto dei diritti umani, un buon trattamento per le minoranze e rispetto per le donne e le ragazze. Ad un regime che nega i diritti delle donne non andrà nemmeno un euro. Ascoltiamo le parole dei talebani, ma le misureremo soprattutto sui fatti e sulle loro azioni”. Le donne del mondo possono fare una sola cosa per le sorelle afgane. Mobilitarsi, mobilitarsi, mobilitarsi. In tutti modi possibili. Per salvare le loro vite. Per la loro libertà. *Direttora centrale dell’Istat Egitto. Patrick Zaki in cella da più di 550 giorni e tutto tace di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2021 È passato più di un anno e mezzo dall’inizio della detenzione dello studente egiziano e nessuno spiraglio sembra aprirsi per la sua liberazione. La sorella a ilfatto.it: “Il caso di mio fratello ha zero trasparenza e supporto”. Amnesty: “Armi, risorse energetiche. Intanto Italia ed Egitto hanno fatto progressi nei rapporti”. “C’è qualcosa di molto più grande di Patrick e del suo attivismo dietro la sua detenzione, ne sono convinta. Tanti prigionieri come lui vengono rilasciati mentre su mio fratello pende ancora la minaccia di una sentenza di condanna e di una lunga carcerazione. Come detenuto politico, il caso di Patrick ha zero trasparenza e supporto, considerando che le accuse nei suoi confronti sono un’enorme montatura”. Marise Zaki inizia a prendere coscienza di come il suo amato fratello maggiore possa essere finito dentro un complesso e sottaciuto gioco tra le parti, dove le parti sono i due Paesi coinvolti nel suo caso, Italia ed Egitto, e i loro rispettivi interessi. La detenzione di Patrick Zaki ha superato un altro anniversario simbolico, un anno e mezzo dal suo arresto appena sbarcato, il 4 agosto 2020, all’aeroporto internazionale del Cairo. Zaki rientrava per una breve vacanza/visita ai suoi familiari dopo aver trascorso i sei mesi precedenti a Bologna dove aveva appena terminato la prima sessione di esami di un corso Erasmus all’Università di Bologna. Alcuni suoi, presunti, post anti-regime pubblicati sui social dall’Italia gli stanno costando la libertà e il futuro da più di 550 giorni. Con il papà malato, nei mesi scorsi finito anche in ospedale, e la madre a occuparsene, Marise Zaki è il perno di collegamento tra Patrick e i suoi legali dell’Eipr (Egyptian initiative for personal rights), l’ong con cui il 30enne ha collaborato a lungo prima del viaggio accademico in Italia: “È tornato il silenzio - aggiunge Marise Zaki - nessuno ci fornisce informazioni e aiuto sul suo caso, lasciandoci nel totale smarrimento. Le nostre richieste cadono nel nulla, non sappiamo quando sarà fissata la prossima udienza, quali siano le sue condizioni giorno dopo giorno, i suoi bisogni e i suoi problemi. L’Eipr aveva chiesto, proprio in nome di mio fratello, che Patrick fosse il simbolo della campagna vaccinale in cella, negli ultimi mesi abbiamo ribadito la richiesta, ma le istituzioni governative e carcerarie non muovono un dito. Resta la mobilitazione degli amici di Patrick, qui e in Italia, e la campagna social, fondamentale per darci speranza”. Sono diversi gli attivisti e i prigionieri politici per reati di coscienza che nel corso del 2021 sono stati liberati. I giornalisti Solafa Magdy e suo marito Hossam al-Sayad, Esraa Abdel Fattah, l’avvocatessa Mahinour al-Masry e altri. Tantissimi, tuttavia, restano ancora in cella a Tora nelle varie sezioni, tra cui Scorpio II, la più dura e famigerata, e soffrono le pene dell’inferno. Nei giorni scorsi due detenuti in attesa di processo e con il caso giudiziario rinnovato, i blogger Mohamed Ibrahim ‘Oxigen’ e Abdelrahman Tarek ‘Moka’ hanno tentato il suicidio ingerendo farmaci. Se sono vivi lo devono ai compagni di cella che hanno dato l’allarme. Il 4 agosto Ahmed Samir Santawi, studente alla Ceu (Central european università), 30 anni come Zaki e come lui arrestato il 1° febbraio scorso al rientro in Egitto dall’estero, ha terminato lo sciopero della fame dopo 40 giorni. Lui, a differenza di Zaki, ha subìto una condanna a 4 anni dopo un processo-lampo: “Il caso di Patrick è molto simile a quello di Santawi - spiega Aida Seif al-Dawla, storica direttrice del centro anti-tortura ‘el-Nadeem’. Secondo un recente documento diffuso dal ministero dell’immigrazione, il regime di al-Sisi considera gli studenti egiziani all’estero come una delle minacce più pericolose per la tenuta sociale dello Stato. Secondo la Ministra, Zaki, Santawi e altri sarebbero influenzati dal concetto fuorviante che i Paesi occidentali hanno dei diritti umani e userebbero certe informazioni per diffamare l’immagine dell’Egitto all’estero”. Una chiave di lettura molto interessante quella espressa da Aida Seif al-Dawla che sul caso Zaki aggiunge: “Le campagne social per aiutare il caso di Patrick sono fondamentali e aiutano, non solo moralmente, lui e la sua famiglia. Detto questo, purtroppo, non sarei sorpresa se il regime estendesse la sua detenzione fino al secondo anno o decidesse addirittura di inserirlo in un nuovo caso. Il regime del Cairo non ascolta, ignora le influenze esterne e va avanti per la sua strada”. Meno si parla del caso Zaki e meglio è per la politica e per gli interessi incrociati tra Italia ed Egitto: “Continuo a non voler pensare che Patrick sia una pedina di scambio e dunque un ostaggio della politica internazionale. Sta di fatto che negli ultimi otto anni, da quando al-Sisi è al potere, l’Italia è sempre stata accondiscendente nei confronti dell’Egitto e, salvo alcune parentesi, ha sempre blandito il presidente egiziano usando le solite parole d’ordine: silenzio, cautela, dialogo. Parole d’ordine che non hanno portato a nulla”. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, conosce molto bene il caso di Patrick Zaki e dopo diciotto mesi si è fatto un’idea chiara: “In questi anni c’è stata una progressione dei rapporti tra i due Paesi, penso alle forniture di armi, con l’Egitto ormai saldamente a primo posto tra i nostri clienti, senza dimenticare le risorse energetiche. I rapporti tra i due Paesi in tal senso sono idilliaci. Per l’Italia è come se niente stia accadendo e l’Egitto ringrazia - spiega Noury - . L’importanza delle nostre campagne? Se non ci fosse stata una mobilitazione già nelle prime ore dal suo arresto, quando Patrick era desaparecido, per lui poteva finire molto peggio. L’obiettivo della strategia del governo e delle autorità carcerarie del Cairo, rinvii infiniti e zero comunicazioni, è dimenticare chi sta in cella e le loro sorti. Le iniziative in Italia e parte dell’informazione hanno contribuito a tenere i fari accesi sul caso Zaki”. Sul fatto che l’Egitto faccia calcoli di comodo su ognuno dei detenuti sbattuti in cella, azzerando qualsiasi diritto, lo conferma anche Mohamed Lotfy, direttore dell’Ecrf, l’organizzazione che segue, tra gli altri, il caso di Giulio Regeni: “Per il governo egiziano conta l’attenzione internazionale ricevuta dal singolo caso e la pressione esercitata per il rilascio - commenta Lotfy, a modo suo colpito dalla repressione del regime con l’arresto e la detenzione di sua moglie, Amal Fathi, tra il 2018 e il 2019 - . Maggiore è l’interesse per la singola vicenda processuale, più le autorità egiziane puntano a ottenere vantaggi sul rilascio del prigioniero. In generale, l’Egitto considera e tratta i prigionieri come degli ostaggi e il caso di Zaki è emblematico”. Negli ultimi mesi la politica italiana sembra essersi dimenticata della vicenda dello studente dell’Unibo. In questo senso servirà tempo per valutare l’impatto del cambio diplomatico voluto dalla Farnesina, con Michele Quaroni nominato nei giorni scorsi Ambasciatore al Cairo al posto di Giampaolo Cantini. Le iniziative politiche, dentro e fuori dal Parlamento, sono limitate alla discussione sul conferimento della cittadinanza italiana a Patrick Zaki e poco altro. Chi non smette, con una “goccia” quotidiana, di ricordare a tutti perché sia giusto lottare a favore della liberazione dello studente egiziano è Filippo Civati, ex Pd, fondatore di Possibile. Dal 22 dicembre scorso pubblica lo stesso tweet “Ve lo ripeteremo ogni giorno. Maledetti” con l’hashtag Free Patrick Zaki: “La goccia scava un solco, giorno dopo giorno, denuncia il disinteresse in Italia e contribuisce a dare forza a Patrick e alla sua famiglia - spiega Civati. L’immobilismo del nostro governo preoccupa, mentre è assordante il silenzio che arriva dall’Europa, sul caso Zaki e in generale su quanto accade in Egitto a proposito di diritti umani. Zaki è un figlio di tutti, non è solo uno studente straniero in Italia e della sua vicenda carceraria, non giudiziaria, ce ne dobbiamo assolutamente occupare. Lo stallo attuale è inquietante. L’Italia non ha alcun potere contrattuale nei rapporti internazionali, non ha peso politico e lo ha già dimostrato con la vicenda di Giulio Regeni. Insomma, non conta nulla. Zaki ‘merce di scambio’ tra i due Paesi? Magari, sarebbe l’unico modo per vederlo libero subito”.