La Giustizia riparativa non resta in carcere di Luca Cereda vita.it, 21 agosto 2021 A Tempio Pausania in Sardegna è in costruzione un percorso di comunità riparativa. Una esperienza straordinaria che chiude la nostra serie di quattro focus su uno degli strumenti cardine della riforma Cartabia. Il filo rosso che ha legato le esperienze riparative che abbiamo raccontato in carcere tra rei e vittime, anche di reati violenti come quelli di mafia o del terrorismo, ha sempre avuto come punto di partenza e d’arrivo l’impulso il riconoscimento dell’umanità di fondo che accomuna vittime e rei. Il passaggio successivo è quello di aprire sempre più le porte della riparazione al terzo pilastro della giustizia riparativa: la società civile. La giustizia riparativa però è anche - e forse soprattutto - una visione, un orizzonte culturale che immagina qualcosa che ancora non c’è: un mondo diverso, un mondo contrassegnato da valori che non riscontriamo oggi. La giustizia riparativa infatti è anche un insieme di pratiche che è necessario che trovino terreno fertile anche nella società in cui viviamo mirando al benessere di tutti. La rivoluzione della giustizia riparativa: uscire dal carcere, aprirsi alla collettività Si è detto che la giustizia riparativa, prima ancora di essere un percorso che porta a far incontrare vittime e rei, è un orizzonte culturale che appoggia su pilastri delicati come: il rispetto, l’equità, l’inclusione, la partecipazione e lo stare insieme anche se il vivere insieme in una comunità significa scontrarci e strappare legami. “L’obiettivo della giustizia riparativa è quello di rispondere all’esigenza di restituire attenzione alle dimensioni umane, personali e sociali che investono il crimine. Dimensioni senza le quali la pena altro non sarebbe che un’afflizione per il condannato e un serbatoio che fa eco alla rabbia sociale verso queste persone”, spiega Patrizia Patrizi, docente all’Università di Sassari di psicologia sociale e giuridica e membro del board del Forum europeo per la giustizia riparativa. La rivoluzione profonda che introduce la giustizia riparativa risiede nel fatto che le vittime di un reato non si risarciscono con la punizione del reo e neppure la società: dalla punizione non si riceve la riparazione della dignità. Il primo esempio di comunità riparativa in Italia Si tratta di una vera e propria sperimentazione di comunità riparativa quella avvenuta nella città sarda di Tempio Pausania. Il progetto nasce dalla rilevazione di un conflitto sociale. “Nel 2011 apre, a Nuchis, un nuovo istituto penitenziario che, a febbraio 2012, diventa di massima sicurezza: la casa di reclusione “Paolo Pittalis”. Questo evento ha generato una frattura all’interno della comunità”, illustra la professoressa Patrizi. L’istituto ha sempre ospitato condannati per reati molto gravi come l’associazione di stampo mafioso con la maggior parte dei condannati reclusi con anche più ergastoli. “Subito la comunità di Tempio Pausania ha iniziato a temere infiltrazioni sul territorio delle famiglie di questi criminali, anche se dal canto loro i detenuti soffrono come tutti per la distanza dai loro affetti”. È allora che l’università, l’istituto penitenziario, il consiglio comunale, le associazioni locali hanno allora iniziato a lavorare insieme per costruire un nuovo rapporto fra carcere e comunità. Ma non solo. “Il progetto avviato a Nuchis si è posto subito l’obiettivo di sensibilizzare l’intera comunità rispetto a temi riparativi come la pace sociale, la solidarietà, l’inclusione e la coesione sociale come strumenti di benessere per tutte le parti coinvolte”, continua la professoressa Patrizi. Ad oggi - anche se con rallentamenti dovuti a cambi al vertice della guida del penitenziario - vengono portate avanti delle pratiche di giustizia riparativa che coinvolgono il carcere, ma soprattutto l’intera cittadinanza: l’obiettivo è quello di costruire una comunità sociale ad approccio riparativo sul modello delle “restorative city” anglosassoni di Hull e Leeds, rivisitato e riorganizzato in funzione del tessuto culturale, sociale ed economico italiano e sardo. Per questo tenere e coltivare i legami con la direzione della casa di reclusione di Nuchis, con la magistratura di sorveglianza e l’amministrazione comunale, consentono di rendere solido e radicato il percorso di coinvolgimento della cittadinanza. “Il principale strumento di intervento è rappresentato dalle conferenze riparative: si tratta di una serie di incontri in cui le diverse parti del sistema si riuniscono - in disposizione circolare, così da poter interagire anche con lo sguardo - per individuare canali per lo sviluppo del senso di comunità e la costruzione di approcci pacifici per la risoluzione dei conflitti, non solo quelli potenzialmente a rilevanza penale. Incoraggiamo le persone a riflettere sul significato e le potenzialità di una comunità ad approccio relazionale. Le conferenze sono state aperte a tutta la comunità. Hanno partecipato giudici, volontari, educatori, terzo settore, amministratori, forze dell’ordine, docenti”, spiega Patrizi. Un modo per alimentare questa visione collettiva che è la costruzione di una comunità riparativa, sono stati molti gli aperitivi riparativi organizzati per le vie di Tempio Pausania, dove anche il carcere si è aperto alla città e un magistrato di sorveglianza poteva essere al tavolo con un “suo” detenuto e con il salumiere della città. Piantare semi riparativi nei ragazzi e nelle scuole La costruzione di una città riparativa è un progetto a lungo termine. “Necessita molti passaggi che sono di condivisione, di conoscenza diffusa, di adesione libera e di coinvolgimento nei percorsi riparativi proposti. Una comunità per essere riparativa infatti chiede un’attenzione alle persone che, quotidianamente, si interrogano sui modi migliori per giungere all’obiettivo verso cui tutte e tutti tendiamo: vivere una città sicura, intesa come luogo di relazioni basate sulla fiducia, sulla reciprocità, sull’inclusione e la coesione dei suoi sistemi e di tutte le persone che li compongono”, illustra la professoressa Patrizi. Significa quindi agire e interagire nel rispetto reciproco, e giungere alla consapevolezza che star bene insieme è responsabilità di tutte e di tutti. Il conflitto può generarsi, inevitabilmente, ma “conviene” imparare a gestirlo in modo che da quell’attrito si possa uscire nel modo migliore possibile per tutte le parti in causa, nessuna esclusa. Ecco l’importanza del progressivo coinvolgimento delle scuole, con esperienze di messa in guardia da pregiudizi e stereotipi vissute dagli studenti. La loro partecipazione alle conferenze riparative in carcere (foto), il flash mob del 2016 che ha coinvolto l’intera città, fino all’incontro, avvenuto con un ergastolano di Nuchis, Cosimo Rega, che attraverso percorsi riparativi ha cambiato il suo retroterra valoriale da camorrista, fino a partecipare ai dibattiti sulla riparazione del danno con gli studenti. L’orizzonte ultimo: che le comunità siano riparative di se stesse “Sono state tappe davvero significative per l’accrescimento di quella consapevolezza sociale che sta alla base della cittadinanza attiva e della comunità riparativa: ma necessitano di ulteriori sforzi, bisogna lavorare con tutti i cittadini, soprattutto quelli che non sono ancora stati sensibilizzati rispetto alla giustizia riparativa”, analizza Patrizi. Lo sforzo che i progetti sardi invitano a compiere orientano l’azione sociale, non solo della vittima e del reo, in una direzione che non può essere quella dell’odio perché con il tempo, anche i cittadini di Tempio hanno capito che la prigione dell’odio verso i detenuti del carcere di massima sicurezza consuma la vita della comunità. Senza restituirle nulla. L’orizzonte ultimo, sociale e culturale, dev’essere quello che ogni comunità diventi riparativa di sé stessa. Festival di Bioetica. Riflettori sulla giustizia di genere di Matteo Marcello La Nazione, 21 agosto 2021 È il tema della quinta edizione del Bioetica festival. L’ideatrice Battaglia: “Diamo voce alle donne”. La giustizia - uomo, ambiente, animali - è il tema che sarà al centro della quinta edizione del Bioetica festival, promosso dall’Istituto italiano di bioetica e dal Comune di Santa Margherita Ligure in calendario per domenica 22 e lunedì 23 agosto. Nel programma ci sono seminari, tavole rotonde e dibattiti che si svolgeranno nel pomeriggio a Villa Durazzo, e performances artistiche che saranno messe in scena la sera all’anfiteatro Bindi. Ideatrice del festival e fondatrice dell’Istituto italiano di bioetica è la professoressa Luisella Battaglia, premiata nel 2020 con il prestigioso riconoscimento internazionale ‘Fritz Jahr per la bioetica’, assegnato per la prima volta in Europa a una donna e a una filosofa. “Sin dalla sua fondazione, nel 1993, l’Istituto di bioetica si è impegnato a dare voce alle donne - ricorda la professoressa Battaglia - allora in gran parte assenti o scarsamente rappresentate nei comitati di maggior rilievo politico, a partire dal Comitato nazionale per la bioetica, organo della Presidenza del consiglio dei ministri, promuovendo una ‘bioetica di genere’ e valorizzando i contributi del pensiero femminile e femminista ai diversi settori della bioetica: medica, ambientale, animale. Oggi il festival di bioetica pone al centro dei suoi lavori il grande tema della ‘giustizia di genere’, delineandone una sorta di road map. Con la ripresa post Covid si impone infatti una riflessione a tutto campo sull’empowerment femminile, elaborando una serie di proposte non generiche, ma divise per aree di intervento”. Non a caso il Bioetica festival rientra quest’anno tra gli eventi di avvicinamento al G20 ‘Conference on women’s empowerment’, in programma giovedì 26 agosto proprio a Santa Margherita Ligure. Gran finale del festival, la sera di lunedì 23 agosto alle 22.30 all’anfiteatro Bindi, con il conferimento del premio ‘Bioetica festival’ alla dottoressa Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale dell’Istat e presidente del WW20, gruppo internazionale di lavoro sull’empowerment femminile. Il sindaco di Santa Margherita Ligure Paolo Donadoni ha sottolineato che “il Festival di Bioetica sta crescendo ed è diventato un appuntamento fisso della nostra estate ma soprattutto un punto di riferimento per ricercatori e studiosi di una materia che riguarda tutti noi”. Nel corso del festival prevista anche un’esposizione dal titolo “Giovani, giustizia ed arte” che accompagnerà le due giornate di relazioni e confronti, secondo un progetto curato da Maria Galasso. Le opere sono espressioni di giovani artisti coordinati dal professor Mimmo Padovano. I lavori saranno esposti a Villa Durazzo domenica 22 e lunedì 23 agosto dalle 14 alle 17.30. Giustizia tributaria, il nodo dei magistrati. E arriva la petizione su Change.org di Andrea Bassi Il Messaggero, 21 agosto 2021 Il governo lavora alla riforma tributaria. Ma la commissione di esperti, guidata da Giacinto della Cananea, incaricata di riscrivere le regole, ha dovuto prendere atto di una spaccatura tra gli stessi esperti sul punto più delicato della questione: la natura e il ruolo dei magistrati tributari. Oggi i giudici tributari sono soprattutto magistrati “onorari”. Sono persone cioè, che nella vita fanno altro: professori, avvocati, commercialisti, prestati alla funzione di giudice nelle cause tra contribuenti e Fisco. Poi c’è una componente di “togati”. Magistrati ordinari dati in prestito alla giustizia tributaria. Che, però, è materia molto complessa. Questo stato di cose ha portato, nel tempo, a una sorta di cortocircuito. Moltissime sentenze finiscono in Cassazione per il giudizio di legittimità. Ad oggi ce ne sono pendenti oltre 50 mila. E la metà delle volte i giudici supremi le cassano sollevando dubbi sulla qualità delle sentenze stesse. La commissione incaricata di scrivere la riforma guidata da Giacinto della Cananea, si è convinta che i giudici tributari debbano essere sicuramente giudici “a tempo pieno”. E che debbano essere giudici con una elevata specializzazione, ossia conoscenza della materia. Ma su come arrivare a questo risultato, come detto, la stessa commissione si è spaccata. I “conservatori”, partito al quale si possono iscrivere il primo presidente della Corte di cassazione e le associazioni dei magistrati, vorrebbero che i giudici tributari rimanessero “onorari”. In secondo grado potrebbero subentrare dei giudici togati a tempo pieno “prestati” per un massimo di sei anni dalle altre magistrature (amministrativa, contabile, militare). La seconda interpretazione, quella dei “riformisti”, condivisa dagli esperti consultati dalla Commissione (in particolare, dal presidente emerito della Corte costituzionale, Franco Gallo) e dai rappresentanti degli enti pubblici e delle associazioni di professionisti e di studiosi intervenute nelle audizioni, è diversa. Non ritiene che le disposizioni costituzionali, alla luce delle pronunce della Corte costituzionale, comportino l’impossibilità d’ogni modificazione nella configurazione e nel funzionamento delle commissioni tributarie. Dunque ci sarebbe la possibilità d’istituire una magistratura tributaria assunta per concorso. Sulla riforma della giustizia tributaria è stata lanciata da Cambiamo la giustizia tributaria, una petizione su change.org. Solo mediante la nomina per concorso, di giudici tributari professionali, spiega il testo della petizione, è possibile assicurare la qualità delle decisioni in materia tributaria, nell’interesse dei contribuenti ma anche dell’erario. Con la petizione, insomma, si legge ancora, si chiede dunque che il Governo, in linea con la propria anima riformatrice, intraprenda scelte strutturali, coraggiose e non si limiti invece a interventi temporanei, di contorno, parziali e poco rispondenti alle effettive necessità di Giustizia invocate da anni da tutti gli operatori del settore, ivi compresa la stessa Amministrazione Finanziaria. Dubbi molto ragionevoli di Giorgio Spangher giustiziainsieme.it, 21 agosto 2021 Se c’è una notizia di reato, cioè di un fatto sussumibile in una fattispecie incriminatrice, si avvia un procedimento per verificare se quel fatto di cui alla notizia configura o meno un reato. Qualora la notizia si configuri come un fatto non riconducibile ad una ipotesi criminosa, si procede alla cestinazione (auto-archiviazione); dal registro notizie non reato non parte nessun procedimento. Quando per quella notizia di reato viene formulata una imputazione si sviluppa un processo teso ad accertare la presenza o meno di un reato. Ogni qual volta nel corso del procedimento o del processo si accerta che quel fatto di cui alla notizia non si configura come reato, il procedimento, con i vari provvedimenti previsti dalla legge, si arresta (archiviazioni e varie decisioni in relazione alle diverse fasi e gradi). Il dato emerge con chiarezza dall’art. 129 c.p.p.: obbligo dell’immediata declaratoria delle cause di non punibilità e soprattutto del suo secondo comma. In alcuni casi, il legislatore pur a fronte di una notizia di reato (da verificare) richiede la presenza di un elemento aggiuntivo per poter avviare il procedimento (si pensi alle due situazioni di Salvini in relazione alla presenza o meno dell’autorizzazione a procedere). Anche se emerse nel corso del procedimento, il riconoscimento di una condizione di procedibilità retroagisce all’origine (reato ritenuto procedibile d’ufficio; derubricazione anche in Cassazione; declaratoria di improcedibilità e travolgimento di tutto quanto si è fatto). E’ vero che solo la decisione definitiva chiarisce se un fatto è o non è reato, ed infatti gli effetti della decisione intermedia sono sospesi durante il termine per impugnare e durante l’impugnazione, sia che si tratti di condanna, sia che si tratti di proscioglimento. Diverso è il caso nel quale lo sviluppo del procedimento e del processo si imbatta nell’operatività del novellato art. 344 bis c.p.p. In questo caso, il provvedimento e il processo iniziano e si avviano senza preclusioni; il giudice può decidere tutto quanto previsto dalla legge, il processo si può concludere regolarmente; come ogni altro processo. Non saremo in presenza di un reato (come sostenuto da qualcuno), ma qualcosa ci sarà pure, se può essere applicata una misura cautelare, possono essere fatte intercettazioni, disposti sequestri e perquisizioni, decise provvisorie esecuzioni civili, confische e quant’altro. Con la nuova previsione si stabilisce che se il giudizio d’appello o quello di cassazione non vengono definiti nei termini fissati dal legislatore il giudice deve dichiarare con sentenza l’improcedibilità (dell’azione penale!); invero più che di una improcedibilità sembrerebbe trattarsi di una improseguibilità. Non è questa l’occasione per una disgressione ed un approfondimento sugli elementi di dettaglio della norma (peraltro problematici): tempi differenziati in relazione alla gravità dei reati, nonché indifferenti a quelli delle fasi precedenti; proroghe, numero delle stesse e soggetto che le dispone; limiti alla tutela degli interessi civili; incertezza sull’operatività della previsione alle impugnazioni delle sentenze di non luogo e dell’appello della parte civile per i soli interessi civili; individuazione del termine a quo in caso di conversione del ricorso nonché dell’annullamento con rinvio e quant’altro previsto dalla riforma. Considerati gli effetti della decisione deve riconoscersi che quel fatto non è né reato, né non reato, non c’è né condanna, né proscioglimento, perché la precedente decisione è comunque travolta dalla nuova. Il soggetto sottoposto a misura cautelare non avrà diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, eventualmente patita. Forse l’imputato potrà avvalersi della l. Pinto, limitatamente alla fase delle impugnazioni. Vengono meno le misure cautelari personali e reali (anche quelle a favore della vittima); nessuna decisione sul querelante; si caducono i provvedimenti civili provvisoriamente esecutivi. L’inammissibilità prevarrà sulla improcedibilità! Quale valore ha il materiale probatorio in un diverso procedimento? Qualche “toppa” parziale si potrebbe porre con l’inserimento di un terzo comma dell’art. 129 c.p.p. La questione che allora si pone riguarda il riconoscimento di una copertura costituzionale o sovranazionale alla previsione ovvero il suo contrasto con le stesse previsioni o con altre disposizioni sovraordinate. Non è poi questa l’occasione per considerare altresì se la improcedibilità possa riguardare solo lo sforamento dei termini di alcune fasi (come nel caso di specie, le impugnazioni) ovvero debba coinvolgere, per essere legittima, tutte le fasi del procedimento, nella previsione dei rispettivi termini di durata. Per legittimare la scelta normativa, sembrerebbe agevole il richiamo alla durata ragionevole del processo. La durata ragionevole è un elemento - importante - del giusto processo, ma non è l’unico, dovendosi integrare con gli altri elementi che connotano un processo equo. Indubbiamente il tempo nel processo incide sotto vari profili (tempo delle indagini, tempo per lo svolgimento delle attività processuali; impugnazioni, misure cautelari). Si tratta di un ruolo non secondario, ma che non può non spingersi fino ad annullare completamente il diritto delle parti e della vittima, ad ottenere una decisione, nonché il diritto-dovere del giudice di pronunciarsi. Se appare corretto ritenere che il decorso del tempo possa togliere offensività ad un fatto di reato - se il fatto non è offensivo prevale l’esclusione della sua configurabilità come del fatto di reato - può lo stesso dirsi che il tempo del processo possa togliere ogni valutazione sulla natura o meno di un fatto di reato (senza neppure una valutazione che si possa escludere che si tratti di un fatto di reato). Se qualcosa si cerca di salvare agli effetti civili (con differenza rispetto alla prescrizione sostanziale: C. cost. n. 182 del 2021) ma è dubbio che ciò sia possibile, nulla si salva agli effetti penali. L’esercizio della giurisdizione è una delle attività essenziali e strutturali di una società e di uno Stato che non può essere pregiudicata o addirittura azzerata da elementi che ne devono connaturare l’esercizio, sicché pur dovendosi misurare non essi in termini qualitativi e quantitativi, questi elementi non possono prevalere su di essa, ma possono essere suscettibili di rimedi compensativi, proporzionati alla lesione che si è determinata. Anche riconoscendo che l’imputato può rinunciare all’improcedibilità, l’opzione non opera, né per il p.m., né per la parte civile, né per la persona offesa, né per il giudice. Non sembra allora azzardato sostenere che quanto detto metta in seria discussione il principio di effettività della tutela e della stessa giurisdizione di cui anche all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dove la durata ragionevole si configura come un elemento della stessa, unito, tuttavia, ad altre connotazioni, del pari dell’art. 111 Cost. È vero che spetta allo Stato assicurare l’efficienza delle sue funzioni - giustizia inclusa (nonostante le riserve sull’art. 97 Cost.) - ma quale può essere - se può essere - il limite non superabile oltre il quale, cioè, anche i rimedi compensativi (riduzioni di pena e/o indennizzo) possano essere ritenuti inadeguati. Battibeccò su twitter con Costa, ora il giudice Salvati dice: “Abbassiamo i toni” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 21 agosto 2021 “Non tutta la politica è marcia e corrotta, così come non lo è tutta la magistratura, ma ora smettiamola di picconare altrimenti restano solo macerie”. Antonio Salvati, giudice del lavoro a Reggio Calabria, si era reso protagonista di un battibecco social con Enrico Costa, deputato di Azione, dopo il caso di Marco Sorbara, ex consigliere regione della Val d’Aosta rimasto in carcere 900 giorni da innocente. “Io continuo a dirglielo, caro Costa: se soffiate sul fuoco vi scottate pure voi”, aveva scritto Salvati sotto al post garantista di Costa. Ora, a polemica rientrata, parla della comunicazione sempre più complessa tra politica e magistratura. Dottor Salvati, polemica rientrata? La polemica è rientrata, ma penso che ci sia un problema di narrazione. L’opinione pubblica è convinta che la magistratura sia un corpo così coeso che un piccolo giudice del lavoro di Reggio Calabria possa minacciare un parlamentare addirittura a livello fisico e verbale e questo non riesco proprio a spiegarmelo. Agli occhi degli utenti, e inizialmente anche dello stesso Costa, è apparso com il solito magistrato forcaiolo che minaccia la politica… Organizzo a Palmi da otto anni il festival nazionale di diritto e letteratura e l’associazione è composta in larga parte da avvocati. La seconda edizione fu dedicata interamente all’errore giudiziario e fu seguita da Radio Radicale. Alla base del mio ragionamento, al di là del singolo caso concreto visto che non conosco nulla del caso Sorbara, volevo dire che se ci sono criticità, e sicuramente ci sono nel rapporto di garanzie difensive nel momento delle indagini preliminari, bisogna rappresentare la realtà per quella che è, cioè molto complessa, e non ci si può limitare a dire che è colpa della magistratura, che pure ha i suoi difetti. La mia critica è che se un rappresentante politico vede una cosa così complessa da un punto di vista così unilaterale e polarizzato allora questa narrazione è diversa dal modo in cui io vedo il mondo. Quando è arrivato il chiarimento con Costa? Costa non ha mai detto di essere stato minacciato da me, si è detto scioccato e ha chiesto spiegazioni che poi lo hanno convinto. Stessa cosa ha fatto Calenda, che ha chiuso la questione in maniera molto corretta. Il problema è la reazione del popolo, che non è assolutamente secondaria. Per versanti diversi, sia Parlamento che magistratura sono espressione della volontà popolare e quindi il problema è che la gente pensa che davvero un magistrato possa arrivare a minacciare un politico ma non avrei mai nemmeno potuto pensare di fare una cosa del genere. Dunque la sua esternazione è stata travisata? I problemi della giustizia sono molto complessi, soprattutto quando si parla di ingiusta detenzione, e non si possono ridurre a trovare una soluzione che vale per tutti, rappresentando la Magistratura come un corpo privo di controlli e di responsabilità. Non si può rispondere con slogan. È stata travisata perché viviamo in un mondo sempre più veloce. Ha parlato della complessità della giustizia, pensa che la riforma Cartabia e i referendum possano migliorare le cose? Prima di essere un magistrato sono un cittadino. Spero che le cose migliorino ed è ovvio che quali che siano le riforme che verranno approvate è compito della magistratura applicare le leggi. Ma ho l’impressione che siamo malati di velocità e non penso sia solo colpa dei social. Ma se non sui social mi chiedo dove ci si possa incontrare con i cittadini e spiegare queste problematiche. Crede che Costa abbia fatto di tutta l’erba un fascio? A me basterebbe soltanto che si sapesse che il problema degli squilibri narrativi e tecnici, come nel caso del diritto di difesa e del diritto all’oblio, è assai discusso in magistratura. Ormai anche a livello di media il vero processo è quello che c’è in fase di indagini preliminari e non quello che avviene nel dibattimento, ma se si pensa che la magistratura fa quello che vuole, manda tutti in galera e butta la chiave si dà una rappresentazione distorta della realtà. Se pensiamo allo scandalo legato al Csm la magistratura non sta dando una grande prova di sé... È ovvio che il problema c’è, ma non riesco a ragionare in termini di magistratura e politica. Si tratta di singole persone, politici e magistrati, che sbagliano come qualsiasi altra categoria professionale e se lo fanno per gravi responsabilità è giusto che vadano incontro a sanzioni. Alla notizia di una condanna definitiva di un politico io non penso che tutta la politica sia marcia e corrotta, così come credo che i politici non debbano pensarlo per la magistratura. È necessario trovare un terreno comune di toni bassi per ispirare nuova fiducia nei cittadini. Se invece picconiamo, rimangono solo macerie. “Io, in galera da innocente: così lo stato mi ha rubato 18 anni della mia vita” di Simona Musco Il Dubbio, 21 agosto 2021 Pietro Paolo Melis ha trascorso 18 anni, sei mesi e cinque giorni in carcere, accusato ingiustamente di aver organizzato il rapimento di Vanna Licheri, imprenditrice agricola sequestrata il 14 maggio 1995 e mai più tornata a casa. È la storia di due vite rubate. Una, quella di Vanna Licheri, perduta per sempre, risucchiata da un buco nero. L’altra, quella di Pietro Paolo Melis, spezzata in due, inesorabilmente. Due vite che non si sono mai incrociate e che però sono legate indissolubilmente. Pietro Paolo Melis ha trascorso 18 anni, sei mesi e cinque giorni in carcere, accusato ingiustamente di aver organizzato il rapimento di Vanna Licheri, imprenditrice agricola sequestrata il 14 maggio 1995 e mai più tornata a casa. La portano via mentre si trova a mungere il bestiame di prima mattina, nell’azienda di famiglia. Accade tutto a pochi chilometri dal centro di addestramento di Abbasanta, distaccamento super moderno e super attrezzato nel quale vengono preparati gli agenti delle scorte di magistrati e politici e gli uomini delle squadriglie anti-sequestri. Occhi vigili e pronti ad ogni evenienza che però, in quel momento, sono all’oscuro del dramma che si sta consumando a pochi passi. Un dramma doppio, capace di logorare le vite di molte persone. A quei tempi Melis era un allevatore di 38 anni della provincia di Nuoro, in procinto di crearsi una famiglia. Ma il 10 dicembre 1997 i suoi progetti cambiano bruscamente e inesorabilmente direzione. Una pattuglia dei carabinieri lo aspetta sul ciglio della strada mentre fa ritorno a casa, lo ferma e gli punta il mitra contro. Pietro non sa che aspettarsi, ma è tranquillo. I carabinieri lo arrestano alle porte del suo paese, Mamoiada (Nuoro): in mano, oltre al mitra, i militari hanno un’ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip di Cagliari. Lo cercano per sequestro di persona, ma questo Pietro lo immagina già, perché per la scomparsa di Licheri - che manca da casa già da due anni e mezzo - ha già ricevuto un avviso di garanzia. In quei due anni e mezzo più volte i quattro figli della donna si dicono disponibili a pagare il riscatto, ma la legge non glielo permette. I beni sono congelati, non possono muovere un dito. Devono solo sperare che la macchina della Giustizia non si ingolfi e riporti a casa la loro madre e che i suoi carcerieri ne abbiano pietà. Speranza che si rivelerà vana. Melis non ha idea di chi sia quella donna. Mai vista, mai sentita, dice ai carabinieri. E quindi li segue tranquillo, sicuro che l’innocenza sia un biglietto da visita più che valido per non finire in cella. Sbaglia. Insieme a lui in carcere ci finiscono pure Giovanni Gaddone - che poi si scoprirà essere un “emissario” dei sequestri - Sebastiano Gaddone, Tonino Congiu - gli ultimi due ritenuti i custodi della donna - e Salvatore Carta. Ma vengono condannate solo due persone: Pietro Paolo Melis e Giovanni Gaddone. È il 1997 quando arriva la sentenza di primo grado. Melis, che in aula spiega che la sua famiglia è stata vittima dei sequestri e, dunque, non potrebbe mai macchiarsi di tale crimine, si becca 30 anni di carcere sulla base di alcune intercettazioni telefoniche, nelle quali gli inquirenti riconoscono la sua voce: è lui, per la procura, l’uomo che discute con Gaddone dei particolari organizzativi per la prigionia dell’imprenditrice. Lui, in aula, lo dice più volte: quella voce non è la mia. Ma non serve a nulla se non può dimostrarlo. Il 13 dicembre 1999 la sentenza diventa definitiva: dovrà passare 30 anni in cella. Pietro è distrutto, piange, non sa spiegarsi cosa gli sia accaduto. Sa solo che è innocente. Prova a sopravvivere in carcere, a prendersi cura del suo corpo ma anche della sua mente, studiando e diplomandosi all’istituto artistico in carcere. Sa che rassegnarsi e limitarsi a contare i giorni è il modo sicuro per morire. Per impazzire e farsi del male, come in tanti, intorno a lui, fanno. Insieme a tre compagni detenuti vince un concorso, con un progetto sulle fontane di Spoleto. Il primo premio sono sette ore di libertà. Gli avvocati Maria Antonietta Salis e Alessandro Ricci però non vogliono rinunciare. Provano a scagionarlo, chiedendo una revisione del processo che nel 2012 viene respinta dalla Corte d’Appello di Roma. Lì gli avvocati hanno chiesto nuove analisi su quella telefonata, ma per i giudici la perizia fonica su cui si basa la condanna dell’allevatore sardo non può essere messa in discussione dalle nuove tecnologie. “L’elemento indiziario, rappresentato, secondo la perizia, dalla riferibilità alla persona del Melis della voce intercettata nella conversazione con il Gaddone - scrivono i giudici - non è stato considerato, in sé e per sé, fattore decisivo per l’affermazione della responsabilità, ma è stato dal giudice ritenuto dato utilizzabile per la formazione del suo convincimento una volta che, dopo averlo associato, in un processo di intreccio e concatenamento agli altri elementi di eguale valenza è giunto a ritenere che fosse proprio Pietro Paolo Melis il mamoiadino delle intercettazioni ambientali, non senza puntualizzare che il Melis non ha in alcun modo contestato con i motivi del gravame la ricostruzione operata dal primo giudice a riguardo del ruolo avuto, nel sequestro Licheri, dal mamoiadino delle intercettazioni suddette, essendosi limitato a sostenere di non essere lui l’interlocutore del Gaddone”. Insomma, non ha urlato a sufficienza la sua innocenza. Gli avvocati, però, non si arrendono: fanno ricorso in Cassazione, dove i giudici annullano la decisione presa a Roma spedendo gli atti a Perugia. Anche lì i giudici dicono di no e così tocca fare un altro ricorso in Cassazione prima di trovare un giudice a Perugia. Toccherà fare un nuovo processo, questa volta, però, con la speranza che quell’innocenza possa essere finalmente dimostrata. Il processo di revisione parte e arriva la certezza: la voce in quella registrazione, la prova chiave dell’accusa contro Melis, non è sua. Ma non si tratta solo di questo: quella persona, chiunque essa sia, non è nemmeno originaria di Mamoiada, come lo è Pietro. L’accento lo dice chiaramente: è qualcuno che viene da un’altra parte. Qualcuno che non verrà mai identificato. E il 15 luglio 2016, sono passati due anni e quattro mesi dalla riapertura del processo. La corte d’Appello di Perugia dà ragione, dopo 18 anni, a quell’uomo, che intanto ha perso tutto: Pietro Paolo Melis non ha commesso il fatto, può tornare libero. “Il mio antidoto in tutti questi anni è stato la speranza - ha raccontato dopo la scarcerazione in un’intervista a Panorama -. Sapevo di essere innocente. In carcere, prima a Spoleto e poi a Nuoro, ho avuto solo qualche permesso per far visita ai miei genitori. Mio padre è morto mentre ero dietro le sbarre, mia madre ottantacinquenne mi ha rivisto pochi giorni dopo essere uscito di prigione e non credeva ai suoi occhi. Non ho voluto un pranzo o una festa, non ho nulla da festeggiare. Mi hanno rovinato per sempre. Al momento dell’arresto avevo 38 anni, oggi 56. Avevo una compagna, volevo costruirmi una famiglia, lei ha resistito otto anni poi mi ha lasciato. Non l’ho neanche sentita dopo la mia liberazione, non so se si sia sposata. Con una sola visita a settimana puoi resistere qualche anno, poi i sentimenti si raffreddano, è inevitabile”. Campania. Niente acqua, doccia e prezzi triplicati per il cibo: ecco l’inferno delle carceri di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 21 agosto 2021 In cella la temperatura sfiora i 35 gradi. E farsi una doccia non sempre è possibile: a Santa Maria Capua Vetere manca l’acqua potabile perché, a 25 anni di distanza dall’apertura, il carcere non è ancora collegato alla rete idrica. Non va tanto meglio a Bellizzi e ad Ariano Irpino, dove i detenuti devono accontentarsi di una doccia al giorno. E se qualcuno desidera acquistare un po’ di frutta e verdura, deve rassegnarsi all’idea di farlo a prezzi tre o quattro volte più alti di quelli praticati all’esterno del penitenziario. Ecco il dramma dell’estate dietro le sbarre, ecco lo strazio di migliaia di persone che in cella dicono addio non solo alla libertà ma anche alla dignità. Ad alzare il velo su questo scandalo sono i penalisti campani che hanno visitato le prigioni di Santa Maria Capua Vetere, Bellizzi e Ariano Irpino nell’ambito di Ferragosto in carcere, l’iniziativa di sensibilizzazione promossa dall’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane (Ucpi). La scelta di Santa Maria Capua Vetere non è stata casuale. La casa circondariale Francesco Uccella è nell’occhio del ciclone dalla fine di giugno, quando le forze dell’ordine hanno notificato un’ordinanza cautelare a 52 tra poliziotti e funzionari dell’amministrazione penitenziaria ritenuti a vario titolo responsabili dei pestaggi sui detenuti del 6 aprile 2020. Nonostante il clamore della vicenda, però, sono altri i disagi riferiti dai detenuti agli avvocati delle Camere penali di Napoli Nord e di Santa Maria Capua Vetere. “Abbiamo scelto il penitenziario sammaritano - spiega Felice Belluomo, presidente dei penalisti di Napoli Nord - per ribadire che le condizioni di operatori e detenuti, in particolare le finalità rieducative e risocializzanti della pena, non vanno dimenticate. E alla fine della visita siamo rimasti colpiti dal senso di abbandono in cui versa la struttura: le celle sono dignitose, ma il personale è sottodimensionato e i detenuti devono fare i conti con troppi disagi”. C’è chi deve attendere mesi per una visita medica e chi, nonostante le insistenze, non è stato ancora vaccinato contro il Covid. I prezzi dei beni di prima necessità sono altissimi: non solo gli alimenti, ma anche le bombolette di gas per i fornellini da campeggio costano molto di più rispetto all’esterno del carcere. “E questo è un dramma in una struttura dove manca l’acqua potabile - sottolinea Consiglia Fabbrocini, membro della Camera penale di Nola - Chi vuole bere o lavarsi è costretto ad acquistare l’acqua in bottiglia a prezzi esagerati. E questo è uno sfregio non solo alla Costituzione, ma anche alla dignità dei detenuti”. Non va meglio ad Ariano Irpino, dove i reclusi possono farsi la doccia soltanto di mattina causa problemi alla rete idrica. I problemi sono anche altri: la carenza di personale, in questo periodo ridotto all’osso da ferie e malattie, e la mancanza di attività trattamentali, indispensabili per rendere la detenzione meno insopportabile alla vasta platea di giovani. Senza dimenticare i colloqui che avvengono ancora dietro il pannello divisorio in plexiglass, con buona pace di quei ristretti che vorrebbero abbracciare i propri figli all’aria aperta e per più tempo almeno durante l’estate. A Bellizzi, infine, la situazione sanitaria è allarmante: “Mancano medici specialisti - racconta Giovanna Perna, membro della Camera penale Irpina - e molti operatori e detenuti non sono ancora vaccinati”. Insomma, come sottolinea il responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Ucpi Riccardo Polidoro, “le visite svelano le ingiuste sofferenze patite dai detenuti durante l’estate e confermano la necessità di una cultura della pena finalmente in linea con la Costituzione”. La politica lo capirà? Sul punto Francesco Petrillo, presidente della Camera penale di Santa Maria Capua Vetere, è scettico: “Due anni fa, a visitare le prigioni eravamo in pochi. Ora la nostra delegazione è più folta, a dimostrazione della sensibilità dell’avvocatura. Ciò che non è cambiato è il disinteresse della politica che continua a ignorare il dramma delle carceri”. Napoli. “La giustizia non riparte assumendo i ‘garzoni’ dei giudici” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 21 agosto 2021 Ad accompagnarci nel nostro viaggio nel Foro partenopeo è l’avvocato Antonio Tafuri, presidente del Coa di Napoli. “Oggi - dice Tafuri - la posizione e la considerazione sociale dell’avvocato sono profondamente cambiate. In questo nuovo millennio le difficoltà risiedono, da un lato, in una diffusa diffidenza verso i professionisti e, dall’altro lato, nei tanti formalismi dei sistemi processuali, che aumentano il tasso di incertezza delle istanze. L’avvocatura deve convincersi che fare l’avvocato oggi è tutt’altro rispetto a vent’anni fa e che la nostra professione deve modernizzarsi per restare al passo coi tempi”. Il 6 agosto scorso è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il bando per il reclutamento, a tempo determinato di 8.171 addetti all’ufficio del processo. Il termine di scadenza per la presentazione delle domande è il 23 settembre prossimo. Quando si parla dell’avvocatura napoletana, il pensiero è rivolto a quelli che una volta venivano definiti i “principi del Foro”, capaci professionalmente ed in grado di affabulare con la loro arte oratoria. I tempi, è sotto gli occhi di tutti, sono cambiati. L’avvocatura è afflitta da problemi di vario genere e le preoccupazioni montano giorno dopo giorno. I legali partenopei, comunque, continuano ad essere tra i più apprezzati in Italia. Il loro senso di appartenenza è forte, così come il legame con chi si incontra quotidianamente in Tribunale: i magistrati. Il vincolo intellettuale che storicamente anima il rapporto fra avvocati e magistrati a Napoli è custodito nella Biblioteca di Castel Capuano, inaugurata nel luglio del 1896. Qui è conservato un patrimonio librario di inestimabile valore, che racconta la storia dell’avvocatura partenopea e di una ex capitale. Ad accompagnarci nel nostro viaggio nel Foro partenopeo è l’avvocato Antonio Tafuri, presidente del Coa di Napoli. “Oggi - dice Tafuri - la posizione e la considerazione sociale dell’avvocato sono profondamente cambiate. In questo nuovo millennio le difficoltà risiedono, da un lato, in una diffusa diffidenza verso i professionisti e, dall’altro lato, nei tanti formalismi dei sistemi processuali, che aumentano il tasso di incertezza delle istanze. L’avvocatura deve convincersi che fare l’avvocato oggi è tutt’altro rispetto a vent’anni fa e che la nostra professione deve modernizzarsi per restare al passo coi tempi”. Il 6 agosto scorso è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il bando per il reclutamento, a tempo determinato di 8.171 addetti all’ufficio del processo. Il termine di scadenza per la presentazione delle domande è il 23 settembre prossimo. Al distretto della Corte d’appello di Napoli è stato riservato il maggior numero di posti in Italia (956). Una ghiotta occasione per gli avvocati desiderosi di cambiare vita lavorativa. Il tema degli avvocati che preferiscono partecipare ai concorsi pubblici è uno dei fili conduttori del nostro viaggio nei Fori del Belpaese. Pure a Napoli sono tanti gli avvocati che cercano di conseguire un posto fisso nella PA per mettersi alle spalle una quotidianità diventata sempre più complessa. “Conosco personalmente - commenta Tafuri - alcuni colleghi che hanno superato il concorso di cancelliere. Comprendo perfettamente la scelta e credo che questa sia una soluzione al più grosso problema della nostra professione e cioè all’incertezza del proprio futuro. Non si tratta tanto di arrivare alla fine del mese, quanto piuttosto di avere prospettive per sé e aspettative effettivamente da coltivare per i propri familiari. Sono molto sincero quando, insieme al dispiacere per non avere più fra le nostre fila colleghi validi e preparati, esprimo loro rallegramento per il raggiungimento di una stabilità che obbiettivamente la nostra professione non dà. A Napoli la situazione economica, sempre in bilico e tendente alla depressione, rende la vita degli avvocati particolarmente difficile. Sono tanti quelli che devono quotidianamente sbarcare il lunario e purtroppo molto spesso non sono sufficienti elementi come la preparazione e la serietà per cui, vista l’enorme concorrenza, non è sorprendente che tanti colleghi provino ad aprirsi strade e storie alternative” Sempre meno toghe, dunque, in una città che ha espresso ed esprime il meglio dell’avvocatura? Tafuri spera in un miglioramento della situazione. “Non sono pessimista sul nostro futuro - afferma -, a patto che si riesca a cogliere l’esigenza di cambiare, anche con il coraggio di abbracciare nuovi valori e nuovi principi etici. Per esempio al recente congresso nazionale si è parlato della soluzione del tema della mono-committenza, anche con il superamento della incompatibilità con la subordinazione. Oggi se ne parla ancora poco e ciò dimostra che le coscienze devono maturare ma il sol fatto che l’argomento sia stato posto vuole dire che la riflessione è partita e avrà sviluppi. Questo è solo un esempio, ma mi fa pensare e dire che gli avvocati, sotto vesti diverse e in forme nuove, esisteranno sempre e torneranno ad avere un ruolo centrale nella società e nell’economia”. Al presidente del Coa non piace parlare di “fuga dalla professione”: “Il numero, che resta alto, di nuove iscrizioni, superiore alle cancellazioni, smentisce queste affermazioni e dimostra che l’attrattività dell’avvocatura è intatta”. Sono cambiate le condizioni, questo è sotto gli occhi di tutti. “Sono più difficili - prosegue - i costi sono altissimi, i rapporti con la committenza sono spesso critici. Nel nostro osservatorio napoletano siamo molto attenti ai bandi di gara che violano la legge sull’equo compenso. Questa comunque è solo la cruna dell’ago, perché ciò di cui la categoria ha bisogno è la reintroduzione dei minimi tariffari inderogabili, di reali forme di tutela verso la committenza forte e di una previdenza sostenibile. Ritengo che queste siano le priorità, che, se affrontate senza pregiudizi, possono restituire all’avvocatura il ruolo di punto di riferimento per la tutela della legalità”. Non basta il Pnrr per essere felici. Il presidente del Coa Napoli ne è convinto fermamente. Con la schiettezza che lo contraddistingue ritiene che tanti proclami vengano fatti passare per soluzioni in grado di migliorare la vita di tutti noi. “Riponiamo - conclude Tafuri forti speranze nelle iniezioni di danaro che provengono dal Pnrr e dal Recovery fund. Dobbiamo essere franchi nell’esprimere delusione dalla riforma del processo penale e dalle quasi certe modifiche del processo civile, targate governo Draghi”. E ancora: “Non possiamo certo credere che la panacea dei mali sia l’assunzione a tempo determinato dei nuovi “schiavetti” del giudice o l’introduzione di preclusioni che solo il giudice potrà discrezionalmente allargare. Le nostre speranze, che per cultura e ruolo nella società siamo obbligati a coltivare, vanno riposte allora nella generale ripresa economica del Paese”. Infine la usa ricetta: “Deve essere innescata la fiducia, motore essenziale e imprescindibile per attivare circoli virtuosi anche nel rapporto, oggi molto critico, tra lo Stato e le professioni e, in particolare, tra il cliente e l’avvocato”. Busto Arsizio. Carcere, proteste sul tetto di Sarah Crespi La Prealpina, 21 agosto 2021 I detenuti sono a quota 400. Ogni giorno risse e disordini. In tre in celle da due. Ha toccato quota 400 il numero dei detenuti in via per Cassano. Le sezioni scoppiano, gli ospiti si esasperano e la polizia penitenziaria è allo stremo. Il livello di intolleranza è così elevato che mercoledì 18 agosto due maghrebini si sono arrampicati fino al tetto dell’area passeggi in segno di protesta, gli agenti sono rimasti impegnati tutto il giorno per convincerli a scendere, per tutelarne l’incolumità e per evitare emulazioni e quindi gravi disordini. Del resto il carisma di capi popolo ce l’hanno entrambi visto che uno è stato protagonista della rivolta a Varese e l’altro di quella a San Vittore. Ma è una lotta quotidiana anche tra carcerati: ogni pretesto è buono per scatenare un pestaggio, una rissa, atti di autolesionismo. La quarta sezione - La quarta sezione è l’emblema del disagio che serpeggia nel penitenziario: è occupata da settantasei uomini divisi in venticinque celle concepite per due persone. Ma se la matematica non è un’opinione, devono stringersi in tre, in condizioni strutturali, climatiche e igieniche precarie. La muffa prolifera ovunque, dai tetti piovono perdite, l’acqua è fredda. Nei giorni scorsi il cappellano don David ha distribuito 400 doccia-schiuma e per la popolazione carceraria è stata davvero una manna. Organizza proiezioni cinematografiche (pare che Fast and Furious 9 abbia esaltato tutta la sezione che per prima siederà in sala, ispirando una raccolta firme di un’altra sezione che non vuole perdersi il nuovo episodio della saga). Ma è chiaro che ci vorrebbe un intervento drastico a più livelli. “Nonostante i carichi di lavoro e lo stress correlato, il personale è estremamente ridotto all’osso ed è stanco al punto da richiedere supporti psicologici”, denunciano i delegati locali del sindacato Uilpa della polizia penitenziaria Francesco Paolo D’Aries e Davide Armenia. “A Busto non arrivano agenti, non ci sono assegnazioni perché risulta ancora in pianta organica quel personale assente da anni, a disposizione dell’ospedale militare in attesa di quiescenza o quelle unità distaccate in altri istituti penitenziari”, spiegano i rappresentanti sindacali a chi non ha idea delle criticità della casa circondariale. Vicini al collasso - “Il sistema penitenziario è giunto al limite, al collasso, non si prendono provvedimenti a livello centrale e regionale nonostante l’impegno e lo spirito di corpo dei poliziotti penitenziari di qualsiasi ruolo”. Una situazione che si trascina da tempo. Molti sono i disagi patiti nell’area sanitaria sempre a causa della carenza di personale: c’è un infermiere preposto alla somministrazione delle terapie e ciò significa che qualcuno deve attendere anche fino a notte inoltrata prima di ricevere il farmaco, con ovvie ripercussioni sull’ordine interno. “L’istituto è diventato una discarica dei detenuti che creano problemi, tanto è vero che ospitiamo tanti fautori e responsabili di allarmanti proteste nelle carceri di tutta la Lombardia”, spiegano dalla Uilpa della polpen locale. Qualcuno insomma dimentica un principio sancito dalla Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tutelando la salute psichica di chi dietro le sbarre ci lavora. Il sindacato Uilpa: “Non siamo un ospedale psichiatrico” - C’è una piaga, dietro le sbarre, di cui nessuno parla: il settanta per cento dei detenuti assume terapie psichiatriche o è addirittura conclamato paziente psichiatrico. Il carcere non dovrebbe quindi essere il luogo idoneo per scontare la pena. “Il Governo ha il dovere di prendere provvedimenti”, ammonisce Pierpaolo Giacovazzo, delegato provinciale del sindacato Uilpa polizia penitenziaria. Gli specialisti a disposizione sono insufficienti per garantire un percorso ritagliato sulle esigenze di detenuti malati, la polizia penitenziaria non è formata per assistere e trattare con soggetti fragili e spesso ingestibili, ma le Rems (residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza) sono sature, gli ospedali psichiatrici giudiziari sono stati chiusi e quindi la galera è l’ultima spiaggia. “Gli agenti che lavorano in sezione a turni di otto ore non reggono più. Nei giorni scorsi ho avuto modo di parlare con il comandante Rossella Panaro che si è resa disponibile per un confronto con la nostra organizzazione sindacale per poter salvaguardare gli agenti che operano nei reparti detentivi, individuando dei posti di servizio dove possa avvenire un intercambio così da concedere una valvola di sfogo al personale”, annuncia Giacovazzo. “È giunta ‘ora che la politica consideri il fallimento del sistema penitenziario provvedendo a riformare seriamente il corpo della polpen, confrontandosi con chi veramente conosce il carcere. I dirigenti penitenziari in divisa sono consapevole delle realtà quotidiane ma sono gerarchicamente sottoposti a dirigenti civili”, fa notare. C’è poi una considerazione sull’organizzazione del penitenziario di Busto: è forse l’unico in Lombardia in cui non esistono i detenuti in articolo 21, ossia quelli che, lavorando, rientrano in cella di sera solo per dormire. Uniformarsi al resto del sistema potrebbe allentare la pressione inframuraria. Rimini. L’allarme dal carcere: “Condizioni disumane nella prima sezione” Corriere della Romagna, 21 agosto 2021 “Nella prima sezione del carcere di Rimini i detenuti vivono una condizione inumana e degradante. È una vergogna, uno scandalo, addirittura un passo indietro rispetto all’ultima visita che risale al 2019. In una cella il water è di fronte ai fornelli, per trentasette persone c’è solo un frigorifero in comune e solo cinque docce, tre delle quali non funzionanti”. Rappresentati del Partito Radicale, come è loro consuetudine attorno a Ferragosto, e avvocati della Camera penale di Rimini sono entrati ieri all’interno della casa circondariale locale per conoscerne le condizioni di vivibilità e verificare quali rimedi erano stati adottati per fronteggiare caldo, emergenza sanitaria e sovraffollamento e ne sono usciti inorriditi. I numeri da soli non raccontano la realtà: i detenuti attuali, infatti, sono 129, ben oltre la capienza regolamentare (112), ma meno rispetto al passato. “Si tratta però di un dato falsato - spiega Ivan Innocenti, consigliere del partito radicale - A causa del Covid, infatti, le sezioni sono state ridefinite: due sono riservate alle quarantene e la gran parte dei detenuti si concentra nella prima e nella seconda sezione (in tutto sono cinque ndr)”. Così nella prima sezione si trovano rinchiusi 37 detenuti, rispetto a un massimo di 23, e nella seconda 25 (rispetto ai 14 previsti). “Bisogna aver visto, scrisse Piero Calamandrei riferendosi alla disumanità del carcere” - nota Enrico Amati, avvocato e docente di diritto penale, anche lui parte della delegazione radicale assieme ad Aldo Brunelli e Giovanni Benini. “Una riflessione ancora attuale”. La visita ha lasciato una profonda impressione anche nei rappresentanti della Camera penale di Rimini: il presidente Alessandro Sarti, la vicepresidente Tiziana Casali e la referente per il carcere Sonia Raimondi. Abituati a fermarsi nella sala colloquio con l’aria condizionata, si sono ritrovati trascinati dall’altra parte del carcere e ne sono usciti come da un viaggio all’inferno. “L’indignazione - spiega Sarti - si tradurrà in gesti concreti”. C’è la volontà di cambiare le cose a costo di presentare una denuncia in procura. “Di sicuro valuteremo la possibilità di chiedere l’accesso agli atti per esaminare le ultime relazioni periodiche dell’azienda sanitaria”. Nonostante la professionalità e l’impegno degli operatori e in particolare degli agenti della polizia penitenziaria (sotto organico e con l’età media che avanza), le condizioni in cui versano i detenuti della prima sezione sono ai limiti della violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che proibisce la tortura e i trattamenti inumani o degradanti. “Il modello di esecuzione della pena va profondamente riformato”, aggiunge Sarti. Più della metà dei carcerati è di origine straniera, i tossicodipendenti rappresentano il 44 per cento del totale. “Pagano sempre gli stessi, è il penitenziario spesso è un mero contenitore: ci sono perfino malati psichici per i quali non è ancora stata trovata un’adeguata collocazione”. Quasi la metà dei 129 detenuti attuali è in attesa di giudizio definitivo. Trentanove uomini sono in custodia cautelare senza neanche una sentenza di primo grado. “Statisticamente si può dire, visto l’esito dei processi, che oggi come oggi ci sono venti innocenti rinchiusi in quelle condizioni. Una situazione che Rimini non può tollerare. I Radicali torneranno nel carcere di Rimini il 15 settembre prossimo in concomitanza con la Giornata internazionale della democrazia per raccogliere anche tra i detenuti le firme sui sei quesiti referendari che riguardano la giustizia promossi assieme alla Lega. Uno riguarda la custodia cautelare, cioè la custodia preventiva a cui un imputato può essere oggi sottoposto prima della sentenza nei casi in cui c’è il pericolo di fuga, di inquinamento delle prove o di compimento di nuovi e gravi reati. Il quesito referendario interviene su questi specifici casi, limitando il carcere preventivo alla terza ipotesi di pericolo, e cioè ai soli reati gravi. Ma tra qualche settimana parte anche “Settembre senza tabù” un corso di educazione sessuale dedicato ai detenuti, ideato e promosso da un medico riminese. Sassari. Per gli agenti senza green pass la mensa è in una tenda esterna La Nuova Sardegna, 21 agosto 2021 Una tenda nei parcheggi esterni per accogliere gli agenti della polizia penitenziaria privi di green pass che non possono avere accesso ai locali mensa. Succede nel carcere di Bancali e la cosa ha scatenato le inevitabili proteste. “Una scelta discutibile e penalizzante - dice Antonio Cannas, delegato nazionale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria - che evidenzia la difficoltà dell’amministrazione ad assumere provvedimenti con un minimo di buon senso: i colleghi sono costretti a mangiare all’aperto, vicino ai cassonetti dell’immondizia, tra i gas di scarico, in piena visuale dei passeggeri del tram. L’assurdo è che gli agenti fanno servizio sugli automezzi per il trasporto dei detenuti e nelle sezioni detentive fianco a fianco. Invece per la mensa di servizio si consuma il pasto in luoghi diversi. Auspichiamo che la direzione revochi il provvedimento”. Gorizia. L’arte entra in carcere, spettacoli e teatro con i detenuti di Timothy Dissegna ilgoriziano.it, 21 agosto 2021 Tre serate dedicate al carcere e a chi lo vive. Tra ottobre e novembre anche gli spettacoli dei detenuti. Le porte del carcere di Gorizia si aprono al pubblico, o meglio si riaprono. Ritorna in città “Se io fossi Caino”, rassegna di teatro sociale giunta ormai alla sua terza edizione e realizzata da Fierascena, con la collaborazione della Caritas. Da mercoledì a venerdì, saranno organizzate tre serate - patrocinate dall’amministrazione comunale - sul tema del carcere e di cosa significhi viverlo, da una parte e dall’altra le sbarre. Un percorso che arriverà fino a ottobre e novembre, quando saranno gli stessi detenuti a salire sul palco nella veste di attori. Nel frattempo, sulla scena saliranno Salvatore Striano ed Elisa Menon. Il primo è ormai un nome di primo piano del cinema e teatro italiano, avendo esordito in Gomorra ed essere stato tra i protagonisti di Cesare deve morire, film dei fratelli Taviani premiato con l’Orso d’oro a Berlino nel 2012. L’amore per la recitazione è nato quando era ospite a Rebibbia, portando così sulla scena la storia dura e cruda del suo percorso, da giovane destinato a una vita da delinquente alla redenzione con l’arte. Dall’altra parte, c’è Menon, anima di Fierascena e curatrice della rassegna. Se la prima pièce sarà in Palazzo de Grazia, quest’ultima - intitolata Silenzio - sarà a Parco Basaglia. Monologo scritto e diretto da lei stessa, sarà un viaggio negli aspetti più orribili della violenza su minori, tema. Questa prima fase si concluderà con la conferenza “Quando il carcere non c’era”, dedicata all’evoluzione della pena nella storia e alle sue prospettive future. A partire dall’idea di carcere europeo, lanciata proprio in città negli spazi dell’ex Ospedale vecchio di via Vittorio Veneto. Tra gli ospiti, ance il docente di teologia e filosofia don Franco Gismano. In autunno, quindi, la parola passerà alle persone detenute a Gorizia e Trieste, che metteranno in pratica quanto fatto in questi mesi. Menon, infatti, sta seguendo una dozzina di persone in via Barzellini (molte aggiuntesi in cordo d’opera) su 60 persone totali, e la stessa struttura accoglierà nella sua nuova sala il pubblico. Nel capoluogo giuliano, invece, si punta ad utilizzare gli spazi del Rossetti. Un’esperienza che, come precisa la stessa regista, “tiene a mente chi sono queste persone, che hanno rotto un patto con la società” ma che da anche strumenti per ripartire. Tra gli enti finanziatori, c’è anche Enaip, che ha riconosciuto in queste attività un modo per fornire competenze utili una volta usciti dalla casa circondariale. Insieme a lei, anche la Fondazione Cassa di risparmio di Gorizia, presente questa mattina alla presentazione della kermesse nel parco del municipio. “Questo è anche un modo per coinvolgere le vittime e la comunità - ha commentato Simone Orsolini, referente per i progetti della Caritas - e ridare dignità al detenuto”. Un qualcosa su cui l’Arcidiocesi è da tempo attiva, anche grazie al progetto Bisma, sul tema rieducativo. Plauso all’iniziativa arriva anche dal sindaco Rodolfo Ziberna e dall’assessore alla cultura, Fabrizio Oreti. “Far acquisire competenze è importante - ha sottolineato il primo cittadino - anche attraverso il teatro. Ciò aiuta a relazionarsi sia dentro che fuori, è anche uno strumento per evitare la reiterazione dei reati. Ero abituato a sentire iniziative analoghe in altre città d’Italia, sono contento si faccia anche a Gorizia”. Dal canto suo, Menon ha posto anche l’accento su come, questa attività, “non è solo teatro di resistenza ma aiuta a far capire chi si è e dove ci si trova”. Peppino Jr Garibaldi, che finì in prigione con Pertini e Saragat di Damino Aliprandi Il Dubbio, 21 agosto 2021 Il Messico è pieno di vie e piazze dedicate a Garibaldi. Una si trova proprio al centro della capitale. Ma non è il Giuseppe Garibaldi che viene subito da pensare. Parliamo del nipote. Si chiama anche lui Giuseppe, ma veniva chiamato Peppino, naturalizzato in Josè. Suo padre, Ricciotti Garibaldi - nato in Uruguay - era il figlio, appunto, di Giuseppe Garibaldi e Anita. La storia di Ricciotti è degna di nota. Figlio quartogenito del grande eroe dei Due Mondi, era salito sul treno Roma - Sulmona per inaugurare la nuova impresa ferroviaria, in veste di deputato dell’appena nato Regno D’Italia. Ma il treno si fermò in una minuscola stazione per ricostruire le sue scorte di carbone e intraprendere le nuove salite verso l’Abruzzo: Riofreddo. La temporanea sosta a Riofreddo, piccolo comune romano, bastò a Ricciotti per sceglierlo come luogo di un futuro investimento. Il figlio di Giuseppe Garibaldi comprò un terreno e iniziò a costruire le fondamenta per quella che doveva essere una dimora estiva. I fatti andarono diversamente. L’avventatezza di Ricciotti Garibaldi negli affari era proverbiale e in pochi anni costò al battagliero figlio dell’eroe dei Due Mondi, tutto il proprio capitale. Secondo la legge dell’epoca, a Ricciotti venne lasciata in dotazione solo la proprietà di minor valore, per permettergli di sopravvivere al proprio disastro. Per l’Italia, Ricciotti e la sua numerosa famiglia dovevano scegliere di vivere a Riofreddo oppure emigrare. L’arrivo nel piccolo paese della provincia romana venne però salutato con entusiasmo dal nucleo familiare. Ricciotti aveva sposato a Londra Constance Hopcraft, una donna dotata di grandissimo carattere, capace di sostenere spesso con le sue sole forze l’intera famiglia. E con lo stesso impeto, Costanza trasformò le tre stalle presenti sul terreno al momento dell’acquisto in quella che nel tempo sarebbe diventata Villa Garibaldi, oggi sede di un suggestivo museo. A pensare che prima ancora di conoscere sua moglie, a Londra Ricciotti ebbe la possibilità di andare a trovare Karl Marx e Engels. La sua popolarità fra circoli operai e anarchici aumentò e, dopo la morte di Giuseppe Mazzini, assieme a qualche mazziniano e a qualche garibaldino, fondò, nell’agosto 1872, riunendo 300 persone al teatro Argentina, l’associazione dei Franchi cafoni o “associazione dei Liberi Cafoni”, denominazione con richiami contadini, e probabilmente di ispirazione bakuniana con cui avrebbe voluto riunire i democratici italiani per organizzare la “democrazia pura”. Il nome dell’organo di stampa del movimento, “Spartacus”, è indicativo dei propositi rivoluzionari dell’associazione, che tra i suoi obiettivi poneva quello del suffragio universale. L’associazione ben presto assunse i caratteri di associazione di ideali socialisti finendo in poco tempo per essere disciolta dalla questura romana. Tutti i figli di Ricciotti mantennero fede al mito di nonno Giuseppe. Tutti si impegnarono, a vario titolo nelle cause indipendentiste, irredentiste, nazionaliste. Alcuni scelsero strade opposte, altri morirono da eroi negli assalti alla baionetta sul fronte trentino. Ma tra loro spicca il primogenito Giuseppe (detto Peppino), nato a South Jarra, in Australia, che fece dei viaggi e dell’impegno politico il proprio credo. Allievo del collegio tecnico di Fermo, fuggì per arruolarsi col padre nella spedizione del 1897 in Grecia durante la guerra greco-turca e in seguito si stabilì a Buenos Aires. Nel 1903 offrì i suoi servizi in Sudafrica nelle guerre boere come volontario per l’esercito britannico e poi combatté in Venezuela contro Cipriano Castro durante la cosiddetta Rivoluzione liberatrice. Arrivò in Messico all’inizio del 1911 per unirsi alle forze maderiste, quelle capeggiate da Madero, considerato un paladino della democrazia messicana e propugnatore di profonde riforme sociali. Partecipò a diverse battaglie nello stato di Chihuahua, tra cui la battaglia di Casas Grandes contro l’esercito federale di Porfirio Díaz, dopodiché raggiunse il grado di generale attirandosi persino le ire del celebre anarchico Pancho Villa, che gli giurò vendetta e tentò di addirittura di eliminarlo fisicamente. Successivamente fu nominato capo della cosiddetta Legione Straniera, che riunì una quarantina di individui e in cui lavoravano volontari di diverse nazionalità. Tanti erano italiani. Ma la sua designazione, inizialmente, creò malcontento. Quando trionfò la rivoluzione maderista, Garibaldi decise di lasciare il Messico. Andò in Grecia nel 1912 per combattere nella prima guerra dei Balcani contro la Turchia, e vi rimase fino al 1913. Ma non finisce qui. Ora viene il bello, ed è una storia poco conosciuta. Il buon Peppino decise di tornare in Italia nel 1922 e assieme a un altro nipote di Garibaldi, fondò il Movimento “Italia Libera” per opporsi all’avanzare fascista, che però non ebbe successo. A quel punto fondò anche una vera e propria banda armata con l’intento di uccidere Benito Mussolini e rovesciare il regime che si stava instaurando. Diverse qui sono le ricostruzioni storiche, ma pare che tale banda fosse appoggiata da Domizio Torriggiani, Gran Maestro della Massoneria Italiana e dal fratello Ricciotti. Un tentativo di colpo di Stato, intensificato dopo il ritrovamento del deputato socialista Giacomo Matteotti. Sul piano per eliminare Mussolini c’era pieno accordo tra i fascisti dissidenti e i partiti di opposizione. Il piano fallì, la dittatura si instaurò e Peppino fu costretto a fuggire negli Stati Uniti. Furono anni bui, rischiarati solo da un matrimonio, che sarà molto felice, con Maddalyn Nichols, una giovane americana appartenente ad una famiglia importante. Peppino dovette tuttavia condurre una vita modesta, e ricorse all’aiuto della sorella Josephine (Giuseppina), per ritornare in Italia nel 1940. Il fratello Ricciotti tenta di riunire la famiglia sotto l’egida di Peppino per pesare sulla situazione interna italiana. Anche quello fu l’ennesimo fallimento. Nel 1943 Peppino Garibaldi fu arrestato per ordine della Wehrmacht tedesca e detenuto al carcere romano di Regina Coeli, in via della Lungara, a Trastevere. Da ricordare che in quel carcere romano, dalla caduta di Mussolini (luglio 1943), vennero detenuti i vecchi fedeli del Duce, gerarchi e dirigenti. Dopo l’armistizio dell’8 settembre invece, e la conseguente occupazione nazista di Roma, il carcere venne governato dalle SS tedesche che si impegnarono a torturare gli oppositori nel terzo braccio. In quel carcere vi rinchiusero giornalisti, politici, ebrei, scrittori, gente comune. Si ritroverà, nel sesto braccio, arrestato il 20 novembre del 1943, Carlo Ginzburg, scrittore, esponente del Partito d’azione. Non uscirà vivo di li. Morirà in seguito alle torture riportate dopo un pestaggio ad opera dei fascisti. Tra gli antifascisti chiusi nel sesto braccio c’erano anche Sandro Pertini e Giuseppe Saragat, entrambi partigiani, socialisti, odiati dai fascisti e trasferiti in quell’ala del carcere in attesa della fucilazione. I due futuri presidenti della repubblica riusciranno ad evadere. Ma Peppino Garibaldi no e fu in attesa della fucilazione. Solo la liberazione di Roma lo salvò da una fine tragica. Dopo la guerra, condusse vita riservata e morirà a Roma il 19 maggio 1950. Da povero. Vaccini, dobbiamo accettare la complessità per vincerla di Mauro Magatti Corriere della Sera, 21 agosto 2021 Mentre nei paesi occidentali la percentuale di popolazione vaccinata è in molti casi superiore al 60%, nelle zone meno sviluppate non si arriva al 2/3%. Le 50 nazioni più povere - che contano il 20% della popolazione mondiale - hanno finora ricevuto solo 2% delle dosi. “Fare profitto sulla iniquità dei vaccini: un crimine contro l’umanità?” É questo il titolo shock dell’editoriale con cui il British Medical Journal - una delle riviste scientifiche più accreditate - ha pochi giorni fa criticato lo stato confusionale in cui si trova la politica vaccinale internazionale. A causa degli enormi squilibri nella distribuzione dell’antidoto, il contenimento nella circolazione del virus sta diventando una chimera irraggiungibile: mentre nei paesi occidentali la percentuale di popolazione vaccinata è in molti casi superiore al 60%, nelle zone meno sviluppate non si arriva al 2/3%. Le 50 nazioni più povere - che contano il 20% della popolazione mondiale - hanno finora ricevuto solo 2% delle dosi. L’analisi del British Medical Journal sottolinea una serie di incongruenze: l’abnorme crescita dei profitti delle imprese produttrici; il mancato rispetto delle promesse fatte in sede internazionale sulla distribuzione dei vaccini ai paesi più poveri; il fallimento dei negoziati non solo per la sospensione temporanea dei brevetti vaccinali ma anche per la diffusione della capacità produttiva in paesi terzi; l’ accaparramento delle dosi disponibili da parte dei paesi ricchi (il Canada ha acquistato dosi per sette volte il suo fabbisogno, l’Inghilterra quattro) fino al vero e proprio spreco, con la notizia di centinaia di migliaia di fiale distrutte perché lasciate scadere o mal conservate. Il problema - lo sappiamo - è l’assenza di una governance istituzionale in grado di coordinare il compito di una pluralità di attori nell’affrontare la complessità di problemi legati all’interdipendenza globale. L’organizzazione mondiale della sanità (WHO) è troppo debole. Così, ogni paese si muove in ordine sparso sula base dei propri interessi, e lo stesso fanno le grandi imprese commerciali. Allo stato attuale, l’unico strumento di cui disponiamo per coordinare - in modo indiretto - una pluralità di attori diversi è la concorrenza di mercato (dove concorrere, lo ricordiamo, significa correre verso lo stesso obiettivo). Ma quando questo dispositivo non funziona - come nella maggior parte delle situazioni critiche del nostro tempo - il pur riconosciuto bisogno di collaborazione diventa difficile da realizzare. Col rischio concretissimo di una escalation delle tensioni e quindi della conflittualità. Sciogliere questo nodo è tutt’altro che facile. Anche perché per superare questa inadeguatezza istituzionale è necessario un passaggio culturale: la natura “complessa” dei fenomeni con cui ci troviamo oggi a confrontarci che pone delle domande circa il modo in cui leggiamo la realtà e la logica con cui proviamo a gestirla. Usata per mascherare un discorso vago, incapace di inquadrare con precisione un problema, la parola “complessità” è divenuta quasi impronunciabile. Ma forse dovremmo fermarci un momento per capire le implicazioni di un termine che diventa invece ogni giorno più essenziale per sopravvivere nel mondo che abbiamo costruito. Etimologicamente, complessità viene da complexus cioè tessuto insieme. In effetti, le questioni che dobbiamo affrontare sono costituite da una pluralità di piani da considerare nella loro interdipendenza. Qui stiamo parlando del vaccino. Ma considerazioni analoghe valgono per il riscaldamento globale, per la questione delle migrazioni, per la sicurezza digitale, etc. Scrive Edgar Morin: “Il pensiero della complessità ci dice che nulla è acquisito una volta per tutte, che le forze di disgregazione di dispersione e di morte riappaiono sempre; ci dice che anche solo per sussistere, tutto ciò che è vivente umano culturale sociale deve autorigenerarsi, autoprodursi incessantemente. In altre parole, ciò che è complesso - cioè migliore - è fragile”. Ciò significa che la complessità non è un modo per definire un grado superiore di complicazione del mondo e dei suoi processi. Piuttosto, un termine che ci serve per capire che un processo non è interamente rappresentabile, cioè che vi sono dimensioni del sapere in cui l’alea è irriducibile. È esattamente questo il tema della campagna vaccinale e delle altre grandi questioni globali: per trovare, un passo dopo l’altro, il bandolo della matassa - al di là di ogni fantasia attorno a soluzioni miracolistiche - occorre muoversi alla luce di una ragione capace di dare priorità, nel processo di conoscenza, alle connessioni e alla circolarità tra le parti e i livelli, piuttosto che alle separazioni, ai riduzionismi, alle spiegazioni meramente lineari. Semplicemente perché non esistono soluzioni facili a problemi complessi. Morale della favola: per evitare una escalation dei conflitti, i problemi dell’età globale hanno bisogno di collaborazione e cooperazione, tra paesi, culture, istituzioni, attori economici, approcci, discipline scientifiche diverse. Una attitudine che però, come dimostrano i fatti, siamo ben lontani dall’aver acquisito. Non è detto che ce la faremo. Quello che possiamo sperare è riuscire a imparare velocemente dall’esperienza, soprattutto dai fallimenti. Un po’ per volta comprendere che “quando si è tutti sulla stessa barca” - quando, cioè, i problemi sono imbricati l’uno nell’altro - alla fine, la cosa che conviene a tutti è trovare strategie efficaci di dialogo e cooperazione. La faticosa (ma necessaria) costruzione di nuovi assetti e strumenti istituzionali sul piano internazionale ha bisogno di conquistare prima questo diverso sguardo culturale. Il che non è responsabilità solo dei politici, ma di tutti. Ritorno in classe: questa volta non si può sbagliare di Gianna Fregonara Corriere della Sera, 21 agosto 2021 Studenti, insegnanti e presidi e famiglie chiedono che non succeda come nel 2020, che la scuola non si rinchiuda nella didattica a distanza come è successo lo scorso autunno dopo poche settimane in classe. Non servono sondaggi né sono necessarie ricerche troppo approfondite per sapere che cosa si aspettano gli studenti, gli insegnanti e presidi e le famiglie dalla scuola che riaprirà nella maggior parte delle regioni dal 13 settembre. Chiedono che non succeda come nel 2020, che la scuola non si rinchiuda nella didattica a distanza come è successo lo scorso autunno dopo poche settimane in classe. Perché resti aperta non basta però annunciare che la scuola in presenza è la priorità. Promessa certamente importante e da prendere sul serio, dopo due anni così travagliati che hanno lasciato ferite profonde nella vita e nella preparazione degli studenti, come è stato ampiamente dimostrato dai risultati dei test Invalsi della scorsa primavera. Questa promessa deve potersi reggere su regole certe, chiare e applicabili. Regole per i periodi di normalità, della nuova normalità a cui ci ha abituato il Covid, ma anche norme e indicazioni su come si dovrà gestire un’eventuale nuova emergenza. Lo scorso anno il governo non è riuscito a convincere alcuni presidenti di Regione, da Emiliano a De Luca, a riaprire le scuole anche quando la situazione pareva migliorare: ci sono purtroppo voluti la mobilitazione dei genitori e persino i ricorsi al Tar per indurre governatori e sindaci a riflettere sull’importanza dello stare in classe. Tenere le redini del Paese ed evitare che ognuno vada per conto suo, che si scivoli di nuovo verso quella che sembrava un’anarchia dettata dal crescere del numero dei contagi, è la sfida dei prossimi mesi. Lo scorso settembre era tutto nuovo, mancavano le mascherine, persino i famosi banchi, c’erano le graduatorie da aggiornare, gli spazi da misurare, lo scontro sul plexiglas sì plexiglas no, le distanze, le rime buccali, la confusione sui termometri a scuola. Non eravamo abituati a nulla, eravamo anche spaventati. L’incertezza sul da farsi e le regole in evoluzione continua hanno finito per convincere l’opinione pubblica, ma in fondo anche molti insegnanti e famiglie, che stare al sicuro in casa potesse essere meglio. Ecco, questo non deve più accadere. La scuola per poter restare aperta ha bisogno di un’altra condizione: la stabilità. Per questo non bastano le “raccomandazioni”, i consigli, gli aggiustamenti. Se la misura del metro non più obbligatoria, va detto con chiarezza. Si può farne a meno, ora che il 90 per cento del personale scolastico è vaccinato e la metà degli studenti pure? Le scuole si stanno organizzando in ordine sparso, chi ha mantenuto un po’ di lezioni a distanza a rotazione perché lo spazio non basta, chi considera che la flessibilità nella distanza sia una buona soluzione. Sui mezzi pubblici serve o no la mascherina Ffp2? Persino le regole per il controllo del green pass del personale scolastico stanno diventando una fonte di tensione che non è davvero necessaria e che rischia di trascinare in polemiche infinite una misura che è giusta e utile. Va bene ripetere che c’è l’autonomia scolastica, insistere perché ogni scuola, ogni città trovi le regole e le soluzioni migliori. Ma lasciare all’iniziativa dei singoli misure complesse come per esempio quelle per migliorare il ricambio dell’aria nelle classi - unico consiglio governativo: aprire le finestre anche se entra un po’ di freddo - senza cercare di guidare, proporre e poi controllare rischia di trasformarsi, proprio nelle realtà più deboli del Paese, in un invito a lasciar perdere, a non provare neppure sul serio. Per restare in classe tutto l’anno non bastano i fondi stanziati, che sono molti rispetto al passato, serve la collaborazione di tutti - famiglie, sindacati, personale della scuola e anche studenti - serve pazienza ma anche una guida e un controllo che non permettano che la situazione sfugga di mano come abbiamo purtroppo già visto. Questa volta non si può sbagliare. Flick: “Eutanasia, un referendum ambiguo” di Marco Iasevoli Avvenire, 21 agosto 2021 Professor Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale ed ex ministro della Giustizia: dopo il rinvio del voto sulla legge Zan per via del controverso concetto di identità di genere, si affaccia nel dibattito politico italiano un nuovo dossier sensibile con implicazioni etiche molto, molto maggiori: il referendum dei radicali per l’eutanasia legale. Che idea ha maturato circa il quesito sul quale sono state raccolte le firme? Prima di esprimere un parere, vorrei se possibile fissare delle coordinate senza le quali è difficile capirci e capire, ma che non sono formalismi giuridici. Prego... Dobbiamo avere tra le mani vari strumenti. Il primo, il più importante, è la sentenza 242 del 2019 della Corte costituzionale a seguito del caso “dj Fabo - Marco Cappato”. Il secondo, il Codice penale, gli articoli 579 sull’omicidio di persona consenziente e l’articolo 580 sull’aiuto al suicidio. Il terzo, la legge 219 del 2017 sulle Dat, Disposizioni anticipate di trattamento. Il quarto, il testo-base sul suicidio assistito da poco approvato nelle commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera. Il quinto, infine, il quesito radicale che tante adesioni ha raccolto. Capisce la complessità. Certo. Proviamo a fare ordine. Intanto la sentenza della Consulta. È precisa: a fronte di un’ipotesi di reato per Marco Cappato per aiuto al suicidio di dj Fabo, la Corte ritiene parzialmente incostituzionale l’articolo 580 del Codice penale nella misura in cui non contempla quattro circostanze in cui l’aiuto al suicidio andrebbe depenalizzato. Ricordo le quattro circostanze: la persona è affetta da patologie irreversibili, prova sofferenza intollerabile, è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale ed è capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Attenzione, ricordiamolo, la Corte non reputa incostituzionale il reato di aiuto al suicidio in generale, giudica incostituzionale la punizione dell’aiuto in presenza di queste quattro circostanze. D’accordo. Lei ricorda questa sentenza, ma il quesito dei radicali non chiede l’abrogazione dell’articolo 580 del Codice penale sull’aiuto al suicidio, bensì l’abrogazione dell’articolo 579 sull’omicidio del consenziente, depenalizzandolo se non per le tre circostanze che la legge già adesso considera omicidio “tout court” anche in presenza di un consenso: l’uccisione di un minore, di una persona inferma di mente, di una persona cui il consenso a essere uccisa è stato estorto con violenza o inganno. Ed è proprio questo il problema che segnalo. Mentre la sentenza della Corte costituzionale chiede al legislatore di intervenire con puntualità sul 580 e su una parziale depenalizzazione dell’aiuto al suicidio, il quesito referendario depenalizza, diciamolo pure liberalizza l’omicidio del consenziente, salvo le tre circostanze che lei ricordava, le quali annullano il consenso. Insomma il referendum va ben oltre la sentenza... Non è questo, o almeno non solo questo, che voglio sottolineare; mi sembra vi sia anche una contraddizione non da poco (non un semplice formalismo). Se il referendum abrogativo è ammesso e poi riceve il consenso dei cittadini, noi avremmo una situazione per cui chi uccide una persona maggiorenne e cosciente di sé che glielo chiede, anche in buona salute, non rischia il carcere; mentre tuttora rischierebbe le sanzioni previste dall’articolo 580 sull’aiuto al suicidio un medico o un familiare stretto o un amico che procura il farmaco letale a una persona che non si trova nelle quattro condizioni indicate dalla Consulta. Insomma: la questione già molto divisiva e sensibile della “terza persona” che aiuta un suicidio non ha determinate tutele se non ci sono le quattro condizioni indicate dalla Corte; le ha invece, queste tutele, chi uccide una persona sana che glielo chiede perché, magari, stanca della vita? Già. A meno che non si proceda in modo molto, molto creativo, considerando l’abrogazione del 579 un intervento implicito anche sul 580. Ma non capirei come, perché la Consulta non ha definito incostituzionale il reato di aiuto al suicidio. E i referendum sono solo abrogativi, non esistono referendum che aggiungono o integrano pezzi di legge per via interpretativa. In sostanza si finisce per punire l’aiuto al suicidio (“meno grave”) e non l’omicidio del consenziente (che è “più grave”). Insomma, professore, alla luce di tutto ciò, che giudizio dà al quesito referendario? Mi sembra crei una grande confusione, determinata ancora una volta da una politica che attraverso le leggi penali non vuole più dare certezze ai cittadini, ma far valere una specifica visione della vita. È un andazzo sempre più spinto che preoccupa. Cosa c’entrano la legge sulla Dat a il ddl in esame sul suicidio assistito, che lei ha citato? La prima è la legge che già oggi limita l’operatività dell’articolo 579 nel caso in cui il paziente rifiuti ogni tipo di cura o intervento, e che inoltre è indicata dalla Consulta come possibile sede di una correzione dell’articolo 580 negli aspetti in cui esso è dichiarato parzialmente incostituzionale. Il ddl in discussione alla Camera sul suicidio assistito è invece il testo che si è fatto carico, in sostanza, di “trascrivere” le indicazioni della sentenza 242 del 2019 della Consulta. Un dibattito serio e approfondito dovrebbe svolgersi attraverso questi due strumenti. La Consulta può bocciare il referendum? Non faccio previsioni. Allo stato mi limito a segnalare che il tentativo referendario mette le basi di nuove ambiguità, nuove contraddizioni e nuove difficoltà interpretative in sede giudiziaria e costituzionale. Pensa di poter essere ascoltato, dato il “successo mediatico” che sta avendo il principio di autodeterminazione? Non ho questa pretesa. Credo però che i partiti che ereditano una significativa tradizione culturale oltre che politica dovrebbero prestare più attenzione all’effetto che il principio di autodeterminazione, mal tradotto in leggi confuse e incerte, può avere sulla convivenza civile; al rapporto tra libertà e solidarietà; al grande e “senz’appello” problema del fine vita. Ma su questi punti si potrà, anzi si dovrà tornare in seguito, sperando in un clima di dialogo costruttivo, di rispetto reciproco e non di scontro senza limiti. Afghani in salvo, l’Italia estende i criteri. L’appello ai prefetti: “Trovate le strutture” di Francesco Olivo La Stampa, 21 agosto 2021 Sui voli per Roma anche gli attivisti che rischiano la vita. Accordo Lamorgese-Guerini sull’accoglienza. La ministra degli Esteri olandese è sconfortata: “In questo momento non abbiamo un’immagine chiara di quale aereo abbia imbarcato la nostra gente, o i cittadini di altri Paesi europei o alleati della Nato, o del personale afghano. Nessun Paese ce l’ha”. Non tutti hanno la franchezza di Sigrid Kaag, ma è chiaro che l’operazione salvataggio che gli Stati occidentali hanno messo in moto si complica. Vale per tutti, insomma, a cominciare dagli Stati Uniti che hanno perso il conto dei propri collaboratori da mettere in salvo, nella “evacuazione più difficile della storia”, come ha detto Joe Biden. L’Italia mostra un certo ordine, anche se i criteri con i quali si finisce sulle liste dei partenti non sono più così chiari. L’indicazione del governo è “allargare le maglie”, per accogliere quante più persone in pericolo possibile, sempre d’accordo con i partner dell’Unione europea e della Nato. Mentre il Viminale fa un appello ai prefetti per trovare strutture adeguate a un’accoglienza degna, evitando di separare le famiglie. Le “operazioni Aquila”, con le quali si organizzava la cosiddetta “esfiltrazione” delle persone che a avevano collaborato con gli italiani è stata travolta dagli eventi. Man mano che i taleban si avvicinavano a Kabul i passaggi burocratici sono saltati. Fino alla settimana scorsa i criteri per finire nelle liste degli evacuati erano due: aver collaborato con i militari o aver lavorato con l’ambasciata e la cooperazione. Ora si è aggiunta una terza voce: gli attivisti per i diritti umani in pericolo. Nessuno lo conferma apertamente, ma così spiega l’arrivo di Zahra Ahmdati, l’imprenditrice, con la famiglia a Venezia, sbarcata a Fiumicino giovedì. Questa nuova categoria può generare confusione e a lungo andare subire il sospetto di una certa arbitrarietà nella selezione, ma è coerente con le raccomandazioni della Nato, emerse nel vertice di ieri dei ministri degli Esteri: “Garantire l’evacuazione sicura degli afghani a rischio”. Il concetto di “afghani a rischio” può essere considerato vago, la situazione nel Paese però è troppo grave per pretendere precisione. I numeri indicano che siamo in una fase nella quale si cerca di salvare il più alto numero di persone possibile: con gli otto aerei italiani che fanno la spola tra Fiumicino e Kabul sono state messi in salvo oltre 1500 cittadini afghani, come annunciato ieri dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini, circa 1000 solo da lunedì scorso. In pochi giorni quindi si è praticamente raggiunto il numero delle prime liste stilate prima dell’offensiva finale dei taleban. E calcolando che alcuni componenti di questi gruppi sono rimasti bloccati a Herat, dove l’aeroporto non è agibile, se ne deduce che, oltre ai collaboratori, siano state imbarcate anche altre persone a rischio estremo. Da Roma si sottolinea come i nostri aerei “non siano tornati indietro vuoti”, come successo a spagnoli e olandesi, costretti a decollare senza che le persone presenti nelle liste riuscissero a presentarsi all’aeroporto. E proprio da Madrid arriva una storia terribile che racconta del caos in cui ci si muove in queste ore: una famiglia è partita verso la Spagna senza la figlia, che si è persa nel caos dell’aeroporto di Kabul. C’è un altro aspetto che si sta definendo in queste ore. I ministri della Difesa Lorenzo Guerini e dell’Interno Luciana Lamorgese hanno concordato di garantire un’accoglienza degna per gli afghani salvati. Dopo la quarantena di dieci giorni effettuata nelle strutture dell’Esercito (Roccaraso e Camigliatello Silano, oltre a quelle messe a disposizione dalla Fondazione Veronesi), i passeggeri dei ponti aerei, dopo essere stati vaccinati, non finiranno nei centri d’accoglienza, come successo in passato, anche perché in quel caso si dovrebbero separare uomini e donne, dividendo le famiglie. I prefetti sono stati incaricati dal Viminale di cercare strutture adeguate (quelle della Difesa non sempre lo sono), anche sfruttando la disponibilità (bipartisan) di molti sindaci, coordinati dall’Anci. Cosa ci insegna il coraggio degli afghani in quelle piazze colme di giovani e di donne di Dacia Maraini Corriere della Sera, 21 agosto 2021 Assurdo continuare a parlare di valori occidentali, quasi che la libertà sia una invenzione dei ricchi bianchi mentre i popoli poveri amano il totalitarismo. Finalmente sta avvenendo quello che tutti ci aspettavamo: la protesta degli afghani contro i talebani che minacciano un totalitarismo religioso inaccettabile per la maggior parte degli abitanti di uno dei Paesi più disgraziati del mondo. Una protesta contro l’inaccettabile ritorno indietro rispetto alle conquiste recenti, anche se parziali, di libertà e diritti civili. Sia su Al Jazeera che sulla Bbc che sulla Cnn stanno circolando interessantissime immagini che mostrano le ribellioni popolari. Si vedono migliaia di giovani, ma soprattutto di donne che, a faccia scoperta, issano bandiere afghane e urlano slogan libertari. Drappi talebani contro drappi rosso-verdi. Quelli talebani esprimono l’odio per il diverso e il verde-rosso esprime la voglia di comprensione dell’altro. A questo punto è assurdo continuare a parlare di valori occidentali. Quasi che la libertà sia una invenzione dei ricchi bianchi, mentre i popoli poveri amano e reclamano il totalitarismo, il ritorno alle pene corporali tipiche del medioevo (taglio della mano, escissione, lapidazione, taglio della testa, frustate, ecc). Dovremmo una volta per tutte riconoscere e asserire che i diritti civili, ovvero la libertà di parola, di pensiero, di movimento, non sono valori occidentali, ma universali. Diventa razzismo sostenere che ci sono popoli naturalmente portati alla tirannia e quindi alla parola e al pensiero unico. La religione c’entra ma fino a un certo punto. Si tratta direi dell’antica e ben conosciuta volontà di potenza che gli esseri umani hanno sempre giustificato con la parola divina e l’etica sociale. Come ha spiegato bene Roberto Saviano su questo giornale, i talebani non sono dei montanari straccioni che cercano di imporre una visione del mondo arcaica basata su una lettura letterale del Corano; questi giovanotti barbuti sono pieni di soldi, di macchine sofisticate e di armi da guerra. E sebbene dicano che stanno eliminando i commerci di droga, in realtà si capisce che hanno fatto patti coi potenti fabbricanti di eroina per ottenere libertà di azione. È probabile che l’esercito nazionale sostenuto dagli americani fosse imbelle e corrotto, lo dimostra la mancanza totale di reazione all’invasione dei talebani, ma non è vero che il popolo intero sia altrettanto inerme e pronto ad accettare il fanatismo intollerante dei giovani barbuti. Lo dimostrano prima di tutto i tantissimi che cercano in tutti i modi di fuggire dal Paese. E non mi pare giusto chiamarli collaboratori, parola spregevole usata dai talebani per le carneficine e le vendette facili, ma insegnanti, giornalisti, artisti e storici che hanno lavorato per l’emancipazione del Paese, persone coraggiose e all’avanguardia nella ricerca di nuovi metodi di convivenza pacifica. Sbagliatissimo infine parlare di democrazia da esportare, perché in tutti gli esseri umani c’è la voglia di capire, migliorare, educarsi, applicare forme di eguaglianza. La democrazia è una conquista umana, non un privilegio di pochi. Gli americani avrebbero dovuto aiutare e sostenere soprattutto la parte civile e progressista, anti-guerresca e antidroga del Paese. Quella sola che oggi protesta rischiando la vita, quella sola che potrebbe portare pace e benessere al Paese. “Ora basta violenze”. Ma donne e società civile non ci credono di Giuliano Battiston Il Manifesto, 21 agosto 2021 Emergono gli orrori dell’avanzata verso Kabul. I talebani: “Danni collaterali, non accadrà più”. E l’aeroporto resta una trappola. All’aeroporto di Kabul si continua a giocare una drammatica partita politica e umanitaria, dopo 6 giorni dalla presa del potere dei Talebani e con le truppe americane ancora nel Paese. L’aeroporto è una trappola per i civili, anziché una via di fuga sicura. Di fronte al caos di questi giorni, il presidente Joe Biden torna a parlare pubblicamente dell’Afghanistan, impegnandosi per l’evacuazione dei connazionali, degli alleati e del personale a rischio. Ma dovrà passare per il via libera dei Talebani, che controllano il perimetro dell’aeroporto e quasi l’intero Paese. Come riconosce Vladimir Putin, che ieri in una conferenza stampa al Cremlino con Angela Merkel ha suggerito di fare i conti con la realtà dei fatti: i Talebani sono destinati a governare. Meglio trovare un modo per cooperare. Merkel sostiene che il primo impegno è evacuare il personale afghano che ha lavorato con la Nato. Il Qatar lamenta troppi arrivi e la Germania mette a disposizione la base militare di Ramstein per chi verrà evacuato. Destinazione Stati Uniti. Lontano dall’Afghanistan e dai Talebani, che tra Kandahar e Kabul continuano le consultazioni per la formazione di un nuovo governo. Inclusivo, dicono, perché questa volta è un’altra storia. Così assicurano. Ma le donne afghane non ci credono e scendono per strada. Poche, ma coraggiose: vogliamo far parte del governo, dicono a Kabul. La società scalpita, non teme. Sa che in queste ore frenetiche, di debacle diplomatica, di cancellerie senza argomenti e senza leve di convincimento, a contare sono i civili, la società. Quella afghana è pronta a farsi sentire. A non piegare la testa. Più che i reduci del Panjshir, più che il figlio del comandante Masud, più che il figlio del maresciallo Fahim, più che l’ex vicepresidente Amrullah Saleh che si dichiara ora “presidente legittimo”, i Talebani dovranno temere una società demograficamente giovane, attiva, soprattutto nelle città. La vera partita è il conflitto sociale, più che quello militare con i panjshirì che rilasciano interviste e mostrano le armi per ottenere di più nel futuro governo, non per combattere veramente una guerra che gli afghani non vogliono più vedere. Per ora, all’aeroporto di Kabul si condensa il fallimento di venti anni di guerra. Sono almeno 18.000 le persone evacuate dall’Afghanistan dal 15 agosto, secondo un funzionario della Nato. Da allora l’aeroporto della capitale, intitolato all’ex presidente Hamid Karzai che in questi giorni negozia con gli studenti coranici, è preso d’assalto. In mancanza di chiari meccanismi di evacuazione, con i canali diplomatici in fibrillazione, informazioni confuse e la pressione di migliaia di persone intorno alle mura dell’aeroporto, molti afghani che pure avrebbero le carte in regola per farlo non riescono a lasciare il Paese. Altri, che pure in questi anni sono stati il fiore all’occhiello delle ambasciate straniere perché rappresentavano il volo democratico della società civile, non sono stati inclusi nelle liste delle persone a rischio. Mancano le informazioni più essenziali. Cosa fare, a chi chiedere, chi è in carica. A proteggere gli ingressi dell’aeroporto ci sono le truppe statunitensi o le unità dell’intelligence dei Talebani. Non vengono risparmiate le maniere forti. Vengono usate contro tutti. Con particolare accanimento, secondo alcuni resoconti, contro i membri della comunità hazara, la minoranza sciita già perseguitata al tempo dell’Emirato islamico, il governo dei Talebani rovesciato nel 2001, e più di recente obiettivo della Provincia del Khorasan, la branca locale dello Stato islamico che punta a capitalizzare la difficile transizione in corso nel Paese, soffiando sul fuoco del settarismo. Di fronte al caos dell’aeroporto, il comunicato sull’Afghanistan rilasciato ieri dai ministri degli Esteri della Nato suona impotente. Arriva dopo una sconfitta militare epocale, nel pieno di una gravissima crisi umanitaria che riguarda metà della popolazione. “Il nostro compito immediato è continuare l’evacuazione sicura dei nostri cittadini” e degli afghani a rischio, “in particolare quelli che hanno contribuito al nostro sforzo”. Sono quelli più a rischio di rappresaglie secondo molte testimonianze e secondo il Norwegian Center for Global Analyses. La Nato annuncia poi la fine di ogni sostegno alle istituzioni afghane e, responsabile di migliaia di vittime civili afghane, chiede che il prossimo governo sia inclusivo, tuteli donne e minoranze e rispetti i diritti fondamentali. Ma nella comunità degli hazara c’è forte preoccupazione. Gli hazara conoscono per esperienza diretta le brutalità dei Talebani. Non si tratta solo di abusi passati. Un rapporto reso pubblico due giorni fa da Amnesty International spiega che “i Talebani hanno massacrato nove uomini di etnia hazara dopo aver preso il controllo della provincia di Ghazni, lo scorso mese”. Tra loro c’era Sayed Abdul Hakim, 40 anni, prelevato da casa, picchiato ferocemente, ucciso. Il corpo gettato per strada. O Jaffar Rahimi, 63 anni, accusato di aver lavorato per il governo perché nel suo portafogli erano stati trovati dei soldi. “I Talebani lo hanno strangolato con la sua stessa sciarpa”. Secondo Amnesty “la brutalità a sangue freddo di questi omicidi”, avvenuti nel villaggio di Mundarakht, nel distretto di Malistan, è “la prova che le minoranze etniche e religiose rimangono particolarmente a rischio sotto il governo dei Talebani”. Ma i Talebani dicono che si tratta di “danni collaterali”, come spiegato dal portavoce Zabihullah Mujahid. Ora che la guerra è finita la violenza non è più necessaria, giura. A Kabul i Talebani hanno preso in carico la sicurezza di alcuni santuari sciiti, dove i fedeli hanno potuto pregare. E si sono fatti fotografare con alcuni esponenti della comunità di Sikh e Hindu. Rilasciano dichiarazioni in cui sostengono che sì, qualche abuso, qualche ricerca casa per casa c’è stata, ma si tratta di sbagli dei militanti meno avveduti. Errori inevitabili in questa delicata fase di transizione. Una volta che il governo verrà ufficialmente inaugurato, non ci sarà più nessun abuso. Così giurano. Ora salviamo Latifa Sharifi l’avvocata dei diritti delle donne lasciata nelle mani dei talebani di Francesco Caia* Il Dubbio, 21 agosto 2021 L’appello dell’Osservatorio degli avvocati in pericolo per consentire a Latifa Sharifi di lasciare Kabul. L’occupazione militare dell’Afghanistan da parte della Nato ha avuto il più tragico degli epiloghi. Nonostante sia stato da tempo annunciato e preparato, le modalità e le conseguenze del ritiro delle forze militari straniere, tra le quali quello delle nostre forze armate, ha lasciato sgomenta l’opinione pubblica internazionale, suscitando interrogativi angosciosi per chiunque abbia a cuore non solo il rispetto dei diritti umani ma il futuro stesso delle nostre democrazie. Come è stato possibile spendere cifre colossali, in venti anni di occupazione, per armare e addestrare un esercito che avrebbe dovuto assicurare il rispetto dei diritti più elementari dei cittadini afghani, quelli delle donne, dei minori e delle minoranze innanzitutto, almeno nelle zone sotto il controllo governativo, per poi vedere quello stesso esercito dissolversi praticamente senza opporre alcuna resistenza all’avanzata dei talebani? Cosa diciamo ai familiari dei 53 soldati italiani morti ed alle centinaia di feriti? Come è possibile conciliare le dichiarazioni del Presidente americano Biden, che ha affermato che l’unico obiettivo della missione era sconfiggere il terrorismo, con i tante volte sbandierati obiettivi, da parte di molti governi, tra i quali tutti quelli italiani che si sono succeduti dall’inizio della occupazione militare nell’arco di un ventennio, di assicurare pace e rispetto dei diritti di donne, bambini, minoranze etnico- religiose e di orientamento sessuale? Cosa diciamo ai tanti civili afghani che hanno creduto nella possibilità di sviluppare una società più giusta ed inclusiva, supportati dalle democrazie occidentali, che sono poi stati abbandonati al loro destino da una vera e propria fuga, diventata sempre più precipitosa col passare delle ore a seguito dell’inesorabile e fulminea avanzata dei talebani, fin dentro il palazzo presidenziale ignominiosamente abbandonato dal Presidente? Intendiamoci, sappiamo bene che i nostri militari hanno realmente svolto una importante opera di sostegno alle popolazioni civili, rendendo possibili la costruzione di scuole ed ospedali che adesso si spera non vengano distrutti e, proprio questo, rende ancora più incomprensibile la scelta di abbandonare repentinamente il Paese. Ma non è questa la sede per analisi, necessariamente complesse, peraltro già svolte dai più autorevoli giornalisti ed esperti di politica internazionale, alcuni dei quali ricordano gli enormi interessi economici sottesi alla produzione di droga, eroina in primis, in Afghanistan, ed alla vendita degli armamenti, due business che non hanno mai registrato crisi. Questo è invece il momento di agire, di tentare comunque di fare qualcosa di concreto per aiutare in primis coloro che rischiano la vita restando in Afghanistan e, poi, per tentare di non abbandonare le popolazioni civili inermi. L’assoluta gravità della situazione è testimoniata dalla mobilitazione della società civile internazionale che a tutti i livelli, nonostante il periodo delle vacanze estive, chiede con forza ai Governi di non abbandonare a loro stessi i civili inermi. Una tale indignazione e protesta non si registrava da molto, troppo tempo, speriamo davvero che sia l’inizio di un risveglio delle coscienze. Il Consiglio nazionale forense ha chiesto formalmente che, in occasione del G20 sull’empowerment femminile, che si terrà a Santa Margherita Ligure il prossimo 26 agosto, le autorità presenti si impegnino nella creazione di corridoi umanitari internazionali per consentire alle donne afghane che ne fanno richiesta di lasciare il paese e intraprenderà strategie di condivisione di iniziative umanitarie con le associazioni che operano e sono impegnate per la salvaguardia dei diritti delle categorie a rischio e non hanno abbandonato il Paese, tra le quali Emergency e la Croce rossa, nonché con l’UNHCR e l’Osservatorio internazionale migrazioni (OIM), con i quali ha sottoscritto protocolli di intesa. Il massimo sforzo sarà compiuto, in sinergia con il CCBE e l’OIAD per assicurare un sostegno alle avvocate ed avvocati afghani che chiedono di lasciare l’Afghanistan, al quale dovrà esser consentito di abbandonare il Paese e di fare richiesta di asilo. L’Osservatorio degli avvocati in pericolo (OIAD) si è attivato, a seguito dell’appello pubblicato sul Corriere della Sera del 19 agosto scorso, per l’avvocata afghana Latifa Sharifi, specializzata e impegnata nella difesa dei diritti delle donne fin dal 2009. In particolare assiste le donne vittime di violenza domestica nelle procedure di divorzio e per questo ha subito intimidazioni e minacce. Il Corriere ha pubblicato la notizia del suo incredibile ed inaccettabile respingimento all’aeroporto di Kabul, dove si era recata domenica 15 agosto col marito ed i figli nel tentativo di rifugiarsi all’estero, ed il contenuto di una lettera scritta alla sorella che vive in America, contenente una richiesta di aiuto. Le intimidazioni e le gravissime minacce di morte subite negli anni, nei confronti suoi e dei suoi familiari, l’hanno costretta ad abbandonare la propria abitazione ed a vivere in clandestinità. Per questo l’Oiad chiede che venga immediatamente concesso all’avvocata Latifa Sharifi la possibilità di lasciare l’Afghanistan, unitamente alla sua famiglia, e di richiedere asilo politico. A tal fine ha rivolto un pressante appello all’Alto commissario per la politica estera della Unione europea, al Presidente del Parlamento europeo ed ai ministri degli Esteri dei Governi francese, italiano, spagnolo e svizzero, in quanto Governi dei paesi di cui fanno parte gli ordini nazionali forensi fondatori dell’Osservatorio e component del direttivo. *Presidente dell’Oiad e Coordinatore della commissione diritti umani del CNF Dall’oppio il potere dei talebani di Antonella Soldo* Il Manifesto, 21 agosto 2021 Parlare di droghe è considerato sempre qualcosa da stravaganti. Non parlarne, soprattutto in alcuni casi, è da superficiali. E fa perdere il nodo della questione. Il fatto che l’Afghanistan sia il leader mondiale del traffico d’oppio è un dato assolutamente non trascurabile per analizzare la situazione nel paese. Capire come i talebani abbiano gestito il 90% del mercato nero mondiale dell’oppio serve a spiegare l’origine del loro potere. Serve a conoscere come sia stato possibile per loro costruire un esercito più potente di quello americano che ha operato in questi ultimi 21 anni. Nel 2001 i talebani erano contrari alla gestione di questo traffico, considerato avverso ai dettami del Corano. Poi hanno cambiato idea. Non sono stati gli unici: gli estremisti islamici di ogni dove hanno sdoganato il traffico di stupefacenti per finanziare le proprie jihad e hanno ritenuto compatibile l’uso personale di droghe con il proprio percorso di radicalizzazione. In molti casi, per esempio, gli esami tossicologici fatti sui corpi dei responsabili di attentati suicidi in Europa hanno rivelato l’uso di sostanze nelle ore e nei giorni precedenti agli attacchi, probabilmente in funzione “preparatoria” (fonte: European Monitoring Centre for Drugs). Così è accaduto che anche nel secondo paese più povero al mondo, si sia sviluppato un mercato illegale che vale oltre 6 miliardi di dollari all’anno. Secondo l’ultima rilevazione dell’UNODC, l’Ufficio droga e crimine delle Nazioni unite, la superficie totale coltivata a papavero da oppio in Afghanistan è stimabile in 224.000 ettari nel 2020, il che rappresenta un aumento del 37% rispetto all’anno precedente. La regione sud-occidentale, l’Helmand è rimasta la principale produttrice. I talebani, pian piano, sono passati dal tassare i produttori a prendere in mano l’intera filiera di produzione e di prima trasformazione del papavero e della gomma da oppio che viene raffinata in morfina ed eroina nei laboratori sparsi in tutto il paese. L’oppio prodotto in Afghanistan rifornisce i mercati del Vicino e Medio Oriente, dell’Asia meridionale, dell’Africa e del Nord America. Va ricordato che l’oppio non è una coltura tradizionale afgana, fu importato negli anni ‘50 ed ebbe la sua massima diffusione negli anni ‘80, gli anni dell’esplosione di eroina in tutto il mondo. A incentivarla furono proprio gli americani attraverso la CIA per creare una sorta di moneta parallela utile a finanziare la guerra contro la Russia. Anche per questo, forse, il silenzio americano sul tema. Il controllo di questo traffico ha avuto conseguenze dirette sul potere dei talebani di acquistare armi, reclutare migliaia di giovani, corrompere e tenere in mano il territorio. L’eco di queste trasformazioni ha risuonato nel resto del mondo: secondo il World Drug Report tra il 2010 e il 2019, il numero di consumatori di oppiacei in tutto il mondo è quasi raddoppiato: da poco più di 31 milioni a poco meno di 62 milioni stimati utenti dell’anno passato. In questo contesto occorre chiedersi: c’è un modo di sottrarre questo mercato e questo potere ai talebani? Magari provando a regolamentare un pezzo di produzione e vendita? Nel 2005, l’allora commissaria europea Emma Bonino, al termine di una missione degli osservatori Ue che aveva guidato a Kabul, prospettò una soluzione simile. Per arginare il fiume di droga che attraversa l’Asia centrale, disse, i Paesi occidentali avrebbero dovuto acquistare dai coltivatori una buona parte dell’oppio destinato a diventare eroina per trasformarlo in farmaci. Proposta che il ministro dell’Interno Giuliano Amato rilanciò a margine del G8 di Mosca del 2006. Poi non se ne fece niente e si scelsero altre vie. Secondo un rapporto SIGAR (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction) Washington ha speso circa 8,6 miliardi di dollari tra il 2002 e il 2017 per soffocare il traffico di droga in Afghanistan al fine di negare i fondi talebani. Oltre all’eradicazione del papavero, gli Stati Uniti e gli alleati hanno appoggiato programmi di colture alternative (per esempio l’ulivo), raid aerei su sospetti laboratori di eroina e altre misure. Questi sforzi “non hanno avuto molto successo”, ha detto a Reuters il generale in pensione dell’esercito americano Joseph Votel. Invece, avrebbero alimentato la rabbia contro il governo di Kabul e i suoi sostenitori stranieri - e la simpatia per i talebani - tra agricoltori e lavoratori che dipendono dalla produzione di oppio per sfamare le loro famiglie. Occuparsi di traffico di stupefacenti vuol dire occuparsi di democrazia. Vuol dire capire chi ha il potere e come lo usa. A parte qualche eccezione, come i richiami di Roberto Saviano, il tema non sembra interessare l’approfondimento istituzionale e pubblico di questi giorni. Eppure ignorare il tema è estremamente pericoloso. *Coordinatrice di Meglio legale Congo. Nell’inferno del carcere di Kinshasa: morti oltre 150 detenuti in 6 mesi africa-express.info, 21 agosto 2021 In solo sei mesi sono morti almeno 150 detenuti nella più grande prigione della Repubblica Democratica del Congo. Il penitenziario “Makala” si trova a Kinshasa, la capitale della ex colonia belga, costruito per una capacità massima di 1.500 detenuti, attualmente ne ospita oltre 9.000. Una prigione sovraffollata, la cui costruzione risale agli anni 50. Se la situazione è invivibile per la popolazione carceraria maschile, figuriamoci per quella femminile. La gravissima condizione dei detenuti è stata denunciata in un rapporto da Association congolaise pour l’accès à la justice (Acaj), nel quale evidenzia la totale mancanza di rispetto per le persone vulnerabili e fragili, in particolare la condizione delle prigioniere e dei loro figlioletti che si trovano in carcere con le mamme. Secondo l’associazione, attualmente ci sono 186 donne nel carcere e 4 neonati, costretti a vivere in celle fatiscenti, vecchie, dove i servizi igienici-sanitari sono praticamente inesistenti. Il dispensario del carcere non è in grado di far fronte ai bisogni dei detenuti che necessitano di cure mediche, anche se, rispetto a un anno fa, secondo ACAJ, la situazione è leggermente migliorata, altrettanto l’approvvigionamento di viveri, fino a poco fa quasi inesistente per mancati stanziamenti di fondi da parte del governo centrale. Malgrado le migliorie apportate, sono morti almeno 150 carcerati nei primi sei mesi del 2021. Un numero ben più alto rispetto allo scorso anno e dovuto, secondo la ONG, all’inadeguatezza del servizio medico-sanitario della prigione, alla promiscuità e alle celle obsolete. Urge, dunque, costruire quanto prima nuovi penitenziari che corrispondano agli standard internazionali. Intanto la sicurezza continua essere precaria in molte zone del Paese e per questo motivo pochi giorni fa Felix Tshisekedi, presidente del Congo-K, ha dato il via alle forze speciali USA di combattere accanto ai militari congolesi (Fardc) contro il gruppo terrorista Allied Democratic Forces (ADF), organizzazione islamista ugandese, presente anche nel Congo-K dal 1995. Secondo fonti della Chiesa cattolica congolese, ADF (che gli USA hanno classificato come gruppo terrorista) avrebbe ammazzato oltre 6.000 civili dal 2013 a oggi, mentre Kivu Security Tracker (KST) ha aggiunto che nella sola area di Beni (Nord-Kivu) avrebbero perso la vita 1.200 persone dal 2017 in poi. I militari americani saranno soprattutto presenti nei parchi nazionali Garamba e Virunga, dove i miliziani di ADF sono particolarmente attivi. Il Virunga, area nella quale ha perso la vita anche il nostro ambasciatore Luca Attanasio, la sua guardia del corpo, Vittorio Iacovacci e l’autista congolese di PAM (Programma Alimentare Mondiale), Mustapha Milambo, è una zona a altissimo rischio. Cuba. Un bilancio della repressione delle proteste dell’11 luglio di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 agosto 2021 L’11 luglio migliaia di persone hanno manifestato pacificamente in molte città di Cuba per protestare contro la situazione economica, la mancanza di medicinali, la gestione della pandemia da Covid-19 da parte del governo e l’assenza di libertà di espressione e di riunione pacifica. Le autorità cubane hanno reagito applicando le consuete tattiche, in più ricorrendo questa volta anche alle interruzioni di Internet e alla censura online, in quella che è risultata una delle più dure repressioni in quasi 20 anni. Amnesty International ha nominato sei nuovi prigionieri di coscienza, di cui chiede il rilascio immediato e incondizionato, in rappresentanza delle centinaia di persone che a loro volta meriterebbero tale qualifica. Luis Manuel Otero Alcántara, artista ed esponente del Movimento San Isidro, nato per contestare la legislazione sulla censura dell’arte, è stato arrestato all’Avana, alle 15 dell’11 luglio, dopo aver pubblicato un video in cui annunciava la sua adesione alle proteste. Si ritiene che sia detenuto nella prigione di Guanajay, non è chiaro per quali accuse. Amnesty International lo aveva nominato prigioniero di coscienza già tre volte. José Daniel Ferrer García, leader del partito di opposizione non registrato “Unione patriottica di Cuba”, a sua volta già riconosciuto prigioniero di coscienza, è stato arrestato l’11 luglio a Santiago de Cuba, mentre si stava recando a una manifestazione, da agenti della sicurezza che lo stavano pedinando. Da allora di lui non si è più saputo nulla: la sua detenzione non è stata registrata e i familiari non possono incontrarlo né comunicare con lui. Ai sensi del diritto internazionale, la sua è una sparizione forzata. Gli altri quattro prigionieri di coscienza nominati da Amnesty International sono stati arrestati prima dell’11 luglio. Esteban Rodríguez, giornalista indipendente di Adn Cuba, è stato arrestato all’Avana il 30 aprile mentre stava prendendo parte a una protesta pacifica in favore di Luis Manuel Otero Alcántara, che in quel periodo era in sciopero della fame e controllato a vista dalla polizia situata all’esterno della sua abitazione. Rodríguez è accusato di “resistenza” e “disordini pubblici” e si trova nella prigione di Combinado del Este. Thais Mailén Franco Benítez, attivista per i diritti umani, è stata arrestata insieme a Rodríguez e deve rispondere delle medesime accuse. Dopo l’arresto ha trascorso un periodo in ospedale a seguito di un collasso. È detenuta nella prigione Guatao dell’Avana e, secondo i suoi familiari, non riceve cure mediche adeguate. Maykel Castillo Pérez, conosciuto col nome d’arte Maykel Osorbo, musicista e attivista per i diritti umani, è stato arrestato il 18 maggio e accusato di “aggressione”, “resistenza”, “evasione” (per essere sfuggito a un precedente tentativo di arresto, il 4 aprile) e “disordini pubblici”. Si trova nella prigione di Pinar del Río. È l’autore di “Patria e vita”, un brano diventato iconico delle proteste. Hamlet Lavastida, artista grafico tornato a Cuba dopo aver trascorso un periodo a Berlino, è stato arrestato il 26 giugno, terminata la quarantena, per “istigazione a commettere un crimine”, ossia aver proposto, in una conversazione privata, l’organizzazione di una performance artistica peraltro mai realizzata. Si trova nella prigione di Villa Marista. Tra le tattiche usate anche in occasione delle proteste dell’11 luglio, volte a impedirvi la partecipazione, c’è la sorveglianza fisica delle abitazioni dei dissidenti, che si trovano così di fatto agli arresti domiciliari. Le giornaliste indipendenti Luz Escobar e Iliana Hernández sono rimaste in questa condizione per settimane a partire proprio dall’11 luglio. In altri casi, l’obbligo di restare a casa viene formalizzato attraverso la “reclusione domiciliare”, una misura cautelare che prevede che un imputato in attesa del processo non possa lasciare la sua abitazione se non per motivi di lavoro, studio e salute, talvolta dietro autorizzazione del tribunale. Tra le persone agli arresti domiciliari c’è Mary Karla Ares González, anche lei arrestata il 30 aprile nella manifestazione di solidarietà per Luis Manuel Otero Alcántara. Si trova in questa situazione da 75 giorni senza avere notizie circa la data di un eventuale processo. Il 5 agosto Amnesty International ha scritto al presidente Diáz-Canel e al procuratore generale di Cuba chiedendo informazioni sul numero delle persone arrestate l’11 luglio, sugli attuali luoghi di detenzione e sui reati dei quali sono state accusate, senza al momento ricevere risposta.