Disabili, afa e zero acqua fredda. Viaggio nella follia del carcere di Sabrina Renna e Antonio Coniglio Il Riformista, 20 agosto 2021 Nei frigoriferi di alcuni istituti, non si possono mettere bottiglie d’acqua. L’ora d’aria è una boccata di aria rovente. Il tempo divora, sfianca e uccide. “Un orologio che va male non segna mai l’ora esatta, un orologio fermo la segna due volte al giorno”, chiosava Leonardo Sciascia da Racalmuto. Non sappiamo se avesse ragione. Certo è che in carcere gli orologi sono rotti, funzionano male, o non funzionano affatto. Lo abbiamo constatato d’emblée in occasione dell’ultima visita agostana nelle carceri di Siracusa, Vibo Valentia e Catanzaro insieme a Rita Bernardini, Sergio D’Elia e ai compagni di Nessuno tocchi Caino. È stata la prova del nove, un dato materiale che diventa qualcosa che è altro, altrove, un dramma consegnato all’evidenza. In fondo non ha granché senso chiedere che ore sono in un carcere perché, dentro le mura carcerarie, il tempo proprio non esiste. D’altronde potrebbe mai essere diversamente? Che senso avrebbe contare i secondi, i minuti, le ore in un luogo nel quale al massimo puoi prendere una boccata di caldo feroce in un arido passeggio, soffrire il senso dell’inutilità, della depersonalizzazione, della pena che è morte civile? Come ne “La persistenza della memoria” di Salvador Dalì, in carcere gli orologi sono molli, quasi liquefatti, un po’ come la vita dei poveri diavoli che non hanno diritto alla ricerca del tempo perduto. Lo ha deciso l’ideologia della retribuzione, del taglione, quella concezione diabolica che ha partorito strutture nelle quali si deve patire, stentare, soffrire. A guisa dei “fiori del male” di Baudelaire il tempo che passa, in un penitenziario, divora, sfianca, annichilisce. Un detenuto ha un sogno nel cassetto: un sorso d’acqua fredda. Proprio così: nei frigoriferi (ammesso che esistano) di alcune carceri non puoi mettere una bottiglia d’acqua. Un altro malcapitato vorrebbe un ventilatore nel giorno in cui in Sicilia si sfiorano i 48 gradi; un altro ancora sogna d’inverno una coperta dignitosa o uno spazio di socialità. Forse a questo punto è pure saggio non avere un orologio funzionante sulla parete di un carcere perché diventerebbe soltanto un peso smisurato, un ordigno pronto a esplodere, un nemico. È proprio vacuità, il gusto del nulla. Si discute finanche su quante merendine possa portare un condannato a colloquio con i propri bambini (anche questo si è avuto il coraggio di normare) mentre ammalarsi in galera è la peggiore sventura che possa capitare. Può accadere nelle carceri italiane, come a Vibo Valentia e a Catanzaro, di imbattersi pure in disabili fisici e psichici, in vecchietti di 85 anni che sono in predicato di traslocare altrove ma che noi teniamo lì, in cattività, per mettere sul tavolo tutto il peso della violenza di stato, della terribilità. La verità è presto detta: il nostro è uno stato che, nel nome di Abele, sguazza nella illegalità, nella violazione dei diritti umani fondamentali, diviene esso stesso carnefice. Non ha proprio senso sostituirli gli orologi rotti in carcere: promettiamo di non segnalarlo al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il tempo è tiranno, è nemico: meglio non averne contezza. Ci sono in quei luoghi mortiferi colpevoli che provano a tirarsi da terra sollevandosi per i capelli, a non farsi corrodere dal tarlo della rassegnazione. Faticano, studiano, inventano dolci buonissimi, hanno lo sguardo terso di chi non si bagna nella stessa acqua di un tempo. Restano però lì perché “l’orologio” è “rotto” e il tribunale di sorveglianza di Catanzaro non concepisce misure alternative e benefici penitenziari. Tutto è fuori dal tempo in questa storia di orologi rotti. Lo è il carcere stesso: una struttura anacronistica che non dovrebbe più esistere, un ferro vecchio della storia. Si grida spesso che il carcere andrebbe migliorato, reso più umano. Non si può proprio migliorare uno spazio che nasce strutturalmente per arrecare dolore, nel quale, negli anni, migliaia di detenuti si sono tolti la vita. Lo avevano capito Gustav Radbruch ed Aldo Moro: “Non abbiamo bisogno di un diritto penale migliore ma di qualcosa di meglio del diritto penale”. Noi non chiederemo la sostituzione degli orologi rotti. Non c’è nulla da sostituire: il carcere va solo superato. Quarant’anni fa la rivolta (fallita) nelle carceri. Prima puntata di David Romoli Il Riformista, 20 agosto 2021 Da Torino al violento blitz di Alessandria. Ci sono affinità tra la nascita del movimento dei detenuti e l’esplosione di insubordinazione operaia. Come nelle fabbriche, anche nei penitenziari c’erano state avvisaglie precise, innescate dalla rivolta studentesca. Sarà solo una coincidenza se la grande rivolta delle carceri italiane inizia in perfetta sincronia con l’altrettanto imprevista insurrezione operaia, nella primavera del 1969, e nella stessa città, Torino? Forse no. La situazione non era poi troppo diversa. In entrambe le realtà imperava una disciplina ferrea, un comando che non contemplava diritti. Nelle carceri, come nelle fabbriche, la restaurazione operata nella prima metà del decennio precedente non era stata scalfita negli anni 60. Nei penitenziari il timido tentativo di scostarsi dal modello sistematizzato all’inizio degli anni 30 dalla riforma Rocco azzardato all’inizio degli anni 50 era stato sbrigativamente rintuzzato con un ritorno pieno alla concezione esclusivamente afflittiva della pena. Un progetto di riforma si trascinava stancamente dall’inizio dei 60, senza che riuscisse a decollare. Ci sono altre affinità tra la nascita del movimento dei detenuti e l’esplosione di insubordinazione operaia. Come nelle fabbriche, anche nei penitenziari c’erano state avvisaglie precise già nel 1968, innescate dalla rivolta studentesca. All’inizio di luglio c’era stata una protesta molto vigorosa e partecipata nel carcere milanese di San Vittore per chiedere il rispetto della sentenza della Corte costituzionale che bollava come “illegittima’ l’inchiesta svolta senza l’assistenza di un difensore per l’imputato. Il 16 luglio gli studenti avevano deciso di portare la loro solidarietà circondando il carcere. Da quel momento in molte città italiane si erano creati legami tra movimento studentesco e detenuti, anche in seguito al passaggio per le prigioni, breve ma frequente, degli studenti che venivano arrestati. Fu poi essenziale, in entrambe quelle realtà, il ricambio generazionale. È noto che nelle fabbriche furono gli operai più giovani, di solito immigrati, quasi sempre dequalificati, a frantumare l’ordine. Anche nelle carceri la gerarchia interna alla popolazione detenuta permetteva all’istituzione di mantenere l’ordine interno instaurando un rapporto privilegiato con i detenuti che, per provenienza, adesione alla criminalità organizzata o caratura criminale, comandavano la massa dei detenuti. I giovani che arrivavano nelle carceri, però, non accettavano più quella gerarchia. Alle Nuove di Torino la protesta esplose l’11 aprile 1969, giorno dello sciopero generale per l’uccisione di due persone negli scontri con la polizia di Battipaglia. I detenuti chiedevano la riforma del sistema penitenziario e fu sin dall’inizio una protesta diversa da quelle che si erano sporadicamente verificate negli anni precedenti, sempre legate a condizioni specifiche della singola prigione. Nei primi due giorni la gestione rimase nelle mani dei “boss” detenuti, poi passò al Comitato di base. I detenuti scelsero di evitare violenze e devastazioni, chiedendo in cambio l’impegno a evitare punizioni e trasferimenti. Non lo ottennero e nell’ultimo giorno della rivolta i detenuti distrussero uno dopo l’altro tutti i simboli dell’ordine carcerario oppressivo: la cappella, gli uffici matricola e personale, l’infermeria, l’impianto fognario, che risaliva al 1857, i macchinari con i quali si lavorava con turni di 8 ore per un compenso di 350 lire al giorno. Dalle Nuove la rivolta si estese a San Vittore. Il 14 aprile i detenuti assunsero il controllo del carcere, presero alcune guardie penitenziarie in ostaggio e ingaggiarono una vera battaglia con la polizia che irruppe all’alba del 16 aprile. Subito dopo fu il turno di Poggioreale, a Napoli. Da quel momento, per alcuni anni, le rivolte delle carceri furono all’ordine del giorno. Ripercorrerne l’elenco significa sfogliare un bollettino di guerra. I rapporti con il movimento che dilagava al di là delle mura delle prigioni si fecero sempre più stretti. Alla fine del ‘69 nacquero, sull’onda delle lotte operaie, i principali gruppi della sinistra extraparlamentare. In particolare Lotta continua dedicò grandissima attenzione al movimento nelle prigioni, con un settore apposito e molto attivo, “I dannati della terra”, a cui si aggiunse poi il Soccorso Rosso di Dario Fo e Franca Rame. Nel biennio 1971-72, quello in cui le rivolte furono più frequenti e violente, le carceri furono, con fabbriche, scuole e università, la prima linea dello scontro sociale nel Paese, anche per l’emergere tra i detenuti di alcune figure di leader molto politicizzati, a partire da Sante Notarnicola, ex operaio comunista Fiat, già membro della banda Cavallero. I detenuti si ribellano per episodi specifici, come punizioni o trasferimenti in prigioni troppo lontane dalle famiglie, per le condizioni di vita nelle carceri fatiscenti o sovraffollate, per chiedere la riforma complessiva. Adoperano forme di mobilitazione molto diverse, dal rifiuto di rientrare dopo l’ora d’aria alla protesta sui tetti, dallo sciopero della fame alla vera e propria rivolta. Dal 1971 al 1973 le proteste si moltiplicarono senza che lo Stato si decidesse a varare l’attesa riforma. La tragedia arrivò nel 1974. Il 23 febbraio i detenuti delle Murate, carcere di Firenze, salirono sul tetto, tirando tegole agli agenti che risposero sparando. Un ragazzo di appena vent’anni, in carcere per furto, venne ucciso. Il 9 maggio si arrivò al bagno di sangue di Alessandria. Tre detenuti presero in ostaggio 13 persone, guardie o personale carcerario, si asserragliarono nelle cucine, poi nei bagni. Chiedevano un’auto e la garanzia di non essere seguiti. Non era una situazione inedita, episodi del genere si erano già verificati e di solito si risolvevano con una trattativa, aspettando che i detenuti si arrendessero. Ma in quel 9 maggio si era alla vigilia del referendum sul divorzio: lo Stato decise di dare una dimostrazione di forza. Le trattative, giovedì 9 maggio, furono affidate a tre giornalisti di cui i rivoltosi si fidavano ma all’improvviso la polizia tentò un blitz. Nella sparatoria furono uccisi da proiettili vaganti due ostaggi. Il giorno seguente le trattative ripresero, affidate stavolta a un prete, don Maurilio Guasco, e a un consigliere regionale del Pci. Ma da Botteghe oscure arrivò l’ordine di non immischiarsi e a trattare rimase solo don Guasco. I detenuti e i rivoltosi erano ormai chiusi in una stanzetta, ridotti allo stremo. Il generale Dalla Chiesa ordinò lo stesso il blitz. Si concluse con una strage: altri 3 ostaggi e 2 dei sequestratori morti. Era la vicenda più sanguinosa e tragica nella storia delle carceri italiane e lo sarebbe rimasta fino al 2020, quando a Modena, all’inizio della pandemia, sono stati uccisi nel disinteresse generale 9 detenuti. Il parroco mediatore provò a denunciare il comportamento assurdo dei reparti guidati da Dalla Chiesa. Repubblica rifiutò di pubblicare le sue lettere. Il procuratore di Genova Coro, poi ucciso dalle Br, disse che la testimonianza era “inficiata da animosità verso le forze dell’ordine”. Ci fu comunque un supplemento di indagine. Guasco si presentò quindi dal procuratore di Alessandria che gli chiarì la situazione in modo definitivo: “Lei è coraggioso ma anche un inguaribile ingenuo”. L’impatto della strage fu enorme. Il movimento dei detenuti si radicalizzò e proprio di lì nacque uno dei primi gruppi armati: i Nap, Nuclei armati proletari. Nel 1975 la riforma vide infine la luce, Sostituiva le regole Rocco del 1931. Assegnava alla pena una funzione rieducativa e non affittiva. Sanciva la fine, almeno sulla carta, dell’isolamento dell’universo penitenziario. Garantiva il diritto al lavoro all’interno e all’esterno del carcere. Prometteva di difendere “la dignità della persona” anche se detenuta. Non corrispondeva in pieno alle richieste del movimento dei detenuti ma era comunque un passo avanti enorme. Che rimase lettera morta: l’emergenza terrorismo congelò tutto per altri 10 anni. Il detenuto al 41-bis fan dei neomelodici: “Voglio un lettore di cd” di Aldo Fontanarosa La Repubblica, 20 agosto 2021 La Cassazione frena: può servire per comunicare con l’esterno. Il recluso è stato inizialmente autorizzato a ricevere il dispositivo e dischi su richiesta. Poi lo stop: è in regime di carcere duro, l’istituto rischia di essere gravato da oneri di controllo molto pesanti. Nel carcere di Sassari, un detenuto ha chiesto e ottenuto (in prima battuta) che gli venisse fornito un lettore di cd musicali. Che cosa c’è di male se un carcerato gode in cella delle canzoni di suo gusto? Non ha forse diritto, il boss campano, ad ascoltare qualche brano di musica napoletana? Ma la Corte di Cassazione blocca l’operazione perché il criminale - che sconta il carcere duro - potrebbe ricevere dei cd contraffatti dall’esterno dell’istituto. E questi cd rischiano di contenere messaggi del suo clan. Il caso nasce il 26 giugno 2020 quando il magistrato di sorveglianza accoglie il ricorso del detenuto e invita il direttore del carcere a fornire un lettore di cd musicali al prigioniero e una serie di dischi, su sua indicazione. Dispositivo e dischi che il carcerato pagherà con il suo denaro, senza onere alcuno per lo Stato. Momenti di normalità - Il direttore del carcere presenta un reclamo contro l’invito a comprare lettore e dischi. Ma il Tribunale di Sassari conferma che l’uomo recluso ha diritto a ricevere quanto chiede. Le motivazioni sono chiare. Ogni persona, anche se condannata, può coltivare i suoi interessi culturali. E la stessa Corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto del detenuto a “piccoli momenti di normalità quotidiana” e di evasione (in senso metaforico). Un banale lettore di cd, peraltro, non rappresenta una particolare fonte di pericolo. Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) e il ministero della Giustizia tengono il punto e ricorrono alla Corte di Cassazione contro il via libera all’acquisto del lettore. Sostengono il Dap e il ministero: che le norme autorizzano a fornire solo un apparecchio radio (peraltro limitato ai canali in AM); che il detenuto potrebbe ricevere il lettore di cd soltanto “per motivi di studio o di lavoro”; oppure per consultare materiale processuale troppo voluminoso per essere fornito su carta. Un trattamento privilegiato - Infine il Dap e il ministero ricordano che il detenuto sta scontando il carcere duro, in regime di 41-bis. A loro parere, dunque, sarebbe paradossale favorire un criminale così pericoloso (fornendogli lettore e cd su richiesta) rispetto a tutti gli altri (meno pericolosi) che non possono beneficiare di questo trattamento privilegiato. La Corte di Cassazione considera “parzialmente fondato” il ricorso del Dap e del ministero. Dunque rinvia il caso al Tribunale di Sorveglianza di Sassari, perché emetta una nuova sentenza. La Corte di Cassazione, da un lato, riconosce che il lettore di cd garantirebbe al detenuto quelle attività “ricreative e culturali” cui ha diritto. Né sembra esistere un divieto assoluto - nel nostro ordinamento - alla fruizione personalizzata della musica (attraverso il lettore), inclusa quella popolare. Effetto a cascata - Nello stesso tempo, i magistrati della Cassazione spiegano che il carcere deve sempre svolgere una rigida attività di controllo sui reclusi. Attività di controllo che sarebbe molto complicata se tanti detenuti reclamassero un lettore di cd e dei dischi di loro gradimento. Di colpo, il carcere verrebbe investito da un onere molto pesante. Sarebbe chiamato a verificare che i singoli lettori non siano stati manipolati (per trasportare, ad esempio, “oggetti vietati o pericolosi”); e che i compact disc, in arrivo, non siano stati truccati in modo da contenere messaggi vocali per questo o quel criminale. Il controllo è particolarmente doveroso verso chi sconta il carcere duro (il 41-bis), istituto che serve proprio a evitare che i boss “mantengano un legame con il contesto delinquenziale di provenienza e partecipino alle attività illecite del loro gruppo criminale”. Per queste ragioni, la Corte di Cassazione chiede al Tribunale di Sorveglianza di Sassari di valutare un rischio preciso: se l’autorizzazione alla fornitura di lettori di cd e di singoli dischi non rischi di scaricare sul carcere “un impegno difficilmente sostenibile”, in termini di controlli di sicurezza. Come ti lancio un’inchiesta. Tecniche di marketing giudiziario di Enrico Costa* Il Foglio, 20 agosto 2021 Il nome a effetto, la conferenza stampa, i giornali e il frullatore della rete. Una trappola da cui è difficile liberarsi. Geenna è il nome di un’inchiesta che scosse la Valle D’Aosta nel 2019. Come osservava la Stampa, “L’operazione ‘Geenna’ prende il nome dalla Bibbia e significa luogo di eterna dannazione: deriva da una valle alle porte di Gerusalemme che fu segnata di anatema dal re Giosia per essere divenuta sede del culto di Moloch, che imponeva la pratica di bruciare in olocausto i bimbi dopo averli sgozzati, diventando scarico dei rifiuti della città e luogo dove gettare le carogne delle bestie e i cadaveri insepolti dei delinquenti”. Appare evidente il parallelismo studiato con la morfologia della regione oggetto delle indagini. Marco Sorbara è il nome di un ex consigliere regionale della Valle D’Aosta, arrestato nell’inchiesta “Geenna”, che ha trascorso oltre 900 giorni in custodia cautelare prima di essere assolto in Appello perché il fatto non sussiste. Non credo che per Sorbara sarà semplice scrollarsi di dosso quell’abbinamento. Un paio di giorni fa scorrevo un articolo di cronaca politica, e una persona citata era descritta unicamente per l’essere stata indagata e poi prosciolta nell’indagine Mafia Capitale. È la pura verità: ma una verità fangosa, che ti lascia appiccicata un’etichetta indelebile. Perché certe impronte restano impresse nella storia. E resistono alle assoluzioni e ai proscioglimenti. Una scelta accurata quella dei nomi assegnati alle indagini, brevi il giusto per i titoli dei giornali, ficcanti come lame, marchi indelebili su chi ne è coinvolto, assolto o condannato non importa. Chiunque si trovi sulla traiettoria del marketing giudiziario, perché di questo si tratta, è bollato per sempre. Perché il nome dell’inchiesta, sapientemente impastato con la conferenza stampa, con i trailer, con le intercettazioni, con i titoli di giornali, con il frullatore della rete, non lascia scampo. E sopravvive agli eventi processuali. Le sentenze? Buone per il casellario, non certo per ribaltare fiumi di inchiostro. Un marketing non solo tollerato, non solo a opera di pochi, ma sistematico. Molte inchieste vengono rappresentate come fossero dei film. C’è un titolo, un trailer, una conferenza stampa nella quale si proiettano gli arresti, le perquisizioni, i pedinamenti, le intercettazioni anche vocali. Infine, c’è il botteghino di questo capolavoro che è la rete. Eppure si tratta un film in cui parla solo la campana dell’accusa, la difesa non viene citata nemmeno nei titoli di coda. Ma va sottolineato anche che buona parte dei pm lavora silenziosamente, e soffre la spettacolarizzazione che fanno pochi, ma rumorosi colleghi (che poi magari si buttano in politica). Pare addirittura che una forza di polizia disponga di un ufficio centrale al quale sono indirizzate le proposte di denominazione: il via libera è concesso previa verifica che non ci siano altre inchieste con lo stesso nome. Un’altra forza di polizia richiede alle proprie articolazioni territoriali di sfornare comunicati stampa periodici, per dimostrare l’incessante lavoro. Pazienza se non c’è niente da comunicare, l’importante è comunicarlo bene. Le cronache ci danno un riscontro quotidiano della fantasia a senso unico nel battezzare i fascicoli. Dall’operazione Waterloo a quella Petrolmafie, piuttosto che Evasione continua, Metastasi, Farmabusiness, Crimine, Pelli Sporche, Appaltopoli, Università Bandita, Sotto Scacco, Conte Ugolino, Sistemi criminali, Ecoboss, Falsa politica sono inchieste che finiscono con condanne, ma talvolta anche assoluzioni o proscioglimenti prima del processo. E uno stato di diritto deve pensare a chi, innocente, finisce in questo ingranaggio. Il marketing giudiziario è quanto di più pericoloso, incivile, illiberale, arbitrario. Soprattutto perché è studiato per far conoscere e apprezzare un prodotto parziale, non verificato, non definitivo: l’accusa. Un prodotto - per quanto per quanto modificabile e smentibile - presentato all’opinione pubblica come oro colato. Una forma di condizionamento dell’opinione pubblica, ma anche del giudice, raggiunto da una gragnuola di frammenti di informazione proveniente solo da una parte. I media, sempre pronti a evocare il rischio bavaglio a chi invoca la presunzione d’innocenza, assorbono e trasmettono acriticamente: un’inchiesta viene battezzata con un nome a effetto? Tutti a riportare alla lettera. Senza domandarsi chi ha scelto quel nome, perché lo ha scelto, se ne aveva titolo. Domandiamoci. Con quale spirito critico molti giornalisti seguono le indagini e assorbono le informazioni trasmesse dagli inquirenti? L’interesse immediato non è quello di approfondire, ma di pubblicare al più presto. Nome dell’inchiesta prima di tutto. E a seguire l’impostazione accusatoria, visto che in quella fase la difesa ancora non è pervenuta. Sarebbe questa la massima espressione del diritto di cronaca-dovere di informare? Recepire e basta? Scordarsi che dopo le inchieste ci sono i processi? Spegnere il rubinetto delle notizie quando finalmente si apre il dibattimento? La vera sentenza per molti giornalisti è la conferenza stampa della Procura, perché la sentenza vera, quella pronunciata dopo il processo, non interessa più a nessuno. Perché le indagini sono presentate come un processo-inverso: si parte dalla sentenza-conferenza stampa, la si pubblica, la si scolpisce nell’opinione pubblica, poi forse - quando avrà letto gli atti - la difesa potrà controbattere. E potrà farlo in un processo a questo punto senza riflettori, senza titoli, senza interesse. Ecco perché mi sono battuto per recepire la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza, ecco perché ho presentato l’emendamento, accolto, sul diritto all’oblio per gli assolti, ecco perché ho proposto che fosse lo stato a contribuire alle spese legali degli innocenti. Perché uno stato di diritto deve essere attento, quando immerge una persona nell’ingranaggio della giustizia, a garantire che ne esca, se innocente, nelle stesse condizioni di reputazione e immagine di cui godeva in precedenza. *Deputato di Azione, già viceministro della Giustizia Le ombre di Palermo hanno ammazzato di botte Aldo Naro di Attilio Bolzoni Il Domani, 20 agosto 2021 Soltanto una rissa in discoteca e una morte accidentale? Oppure un pestaggio seguito da una verità giudiziaria di comodo alla quale tanti hanno voluto credere? Il giovane medico muore nella notte di San Valentino: i gestori del locale aderivano ad Addiopizzo. Sua era la scarpa, suo il piede, suo anche il calcio che ha ucciso. Uno solo e violentissimo. Sferrato al collo della vittima, soffocata dal suo stesso sangue che è sceso fino ai polmoni. L’assassino si è presentato al portone del carcere minorile, ha confessato il crimine, la giustizia ha fatto il suo corso e implacabile è arrivata la condanna per omicidio. Caso chiuso. Chiuso così comodamente e con tanta speditezza che oggi, a sei anni dal delitto, viene complicato chiamare assassino l’assassino. Nonostante l’ammissione di responsabilità e una sentenza passata in giudicato, nonostante il reo confesso abbia fornito tutte le prove che servivano alla pubblica accusa, preferiamo scrivere di lui ancora come di un “presunto colpevole”. Per come questa storia ce l’hanno raccontata e per come l’abbiamo ricostruita dal fascicolo processuale, c’è qualcosa di troppo e qualcosa di troppo poco nella morte di un ragazzo massacrato da un altro ragazzo a Palermo. Qualcosa di indicibile che si perde in una città che cambia solo quando si mette in mostra, deformata da un gioco degli specchi dove buoni e cattivi si confondono, dove certe verità sono diventate tali solo per il bollo di un giudice. La morte che il destino ha riservato ad Aldo - per i dubbi sollevati, l’ambiguo contesto, l’impasto indecente della Palermo odierna con i suoi labili confini fra legalità e illegalità - merita quanto meno l’esposizione di un’altra versione che tenga in debito conto la voce dei familiari della vittima. Sulle indagini manchevoli, sulle prove scomparse, sulle piste inesplorate. Perché c’è un assassino che piace eccessivamente a tutti, rassicura tutti, perché consente a tutti di non spingersi in fondo a quel pozzo nero che è la nuova Palermo. Aldo è Aldo Naro, venticinque anni, neolaureato in Medicina con 110 e lode, ucciso la notte fra il 14 e il 15 febbraio del 2015 all’interno del “Goa”, una discoteca che nella toponomastica ufficiale ricade nel “quartiere San Filippo Neri”, in realtà è dentro l’inferno dello Zen. L’assassino reo confesso è Andrea Balsano, uno di quei buttafuori della discoteca assoldati alla bisogna, abita anche lui allo Zen, in via Rocky Marciano 21. All’epoca del calcio omicida ha diciassette anni e la vita grama degli adolescenti che crescono nelle periferie più estreme. La cronaca degli avvenimenti è riproposta in una preziosa “Cnr”, comunicazione notizie di reato, un’informativa dei carabinieri di 191 pagine dalla quale gli inquirenti non ne hanno tratto - almeno questa è la sensazione - le dovute conseguenze. Aldo Naro, figlio di un colonnello dell’Arma che è il capo della polizia giudiziaria al Tribunale di Caltanissetta, la notte del 14 febbraio 2015 è al “Goa” insieme alla sua fidanzata Simona Di Benedetto e altri sette fra amici e amiche. Sono dentro un privé, i tavoli sono tre. Uno è il loro, poi c’è un secondo tavolo con dieci ragazzi e un terzo tavolo con venti ragazzi. È la notte di San Valentino, le casse “pompano” Give it e le altre hit disco dei Power Francers. Aldo arriva all’una, la notte è lunga. Un paio d’ore dopo, i suoi amici si accorgono che sono spariti dal loro tavolo due cappelli da cowboy. Li ha presi qualcuno seduto lì accanto. Accade tutto in quindici minuti, dalle 3 alle 3,15. Ne nasce una discussione, molto animata. Al tavolo di Aldo Naro ci sono giovani medici, negli altri due tavoli molti ragazzi con precedenti per spaccio, qualcuno è imparentato anche con personaggi “pesanti” dello Zen, gente schedata come vicina a organizzazioni mafiose. I cappelli non vengono restituiti, i giovani medici sbeffeggiati, spintoni, la discussione si trasforma quasi in rissa. Quasi. Aldo Naro è mascherato da Joker, l’acerrimo nemico di Batman. Cerone bianco sulla faccia, un nastro di seta viola come cravatta. Anche un altro suo amico, Giuliano Bonura, è Joker, un po’ di rossetto in più sulle labbra e un papillon grigio. Sono attimi di tensione e tutto precipita quando nel privé irrompono, all’improvviso, sei “addetti alla sicurezza”. Tre - Gabriele Citarrella, Benito Zammiti e Francesco Troia - hanno un tesserino di riconoscimento. Gli altri - Andrea Balsano, Pietro Covello e Filippo Zito - sono abusivi. Sono tutti dello Zen, ingaggiati per evitare che altri ragazzi dello Zen entrino in discoteca. Guardie del territorio per arginare le esuberanze del trritorio, manovalanza fuorilegge assunta per assicurarsi tranquillità. La rissa non è più una rissa, è un massacro. Una telecamera registra per un secondo una scena, è un fotogramma. Aldo Naro, seduto su una poltrona, si alza e non si capisce se lo fa spontaneamente o è costretto a forza. Poi il pestaggio. Con Francesco Troia e Pietro Covello che trascinano Aldo fuori dal privé, insieme rotolano dalle scale che scendono al guardaroba. Pochi istanti dopo “mentre Aldo Naro era intento a rialzarsi, Balsano Andrea gli sferrava un violento calcio al capo”. Aldo è a terra in fin di vita e Massimo Barbaro, uno dei proprietari della discoteca, ordina a due buttafuori di sollevarlo e portarlo in un giardinetto. Adesso Aldo è immobile. I suoi amici lo circondano, si accorgono subito che respira a fatica, sta per morire. Chiamano il 118: “Serve un’ambulanza velocissima”. L’operatore di turno: “Invece di dire velocissima, si attenga a rispondere alle domande...”. Poi la conversazione prende una piega assurda e alla voce che chiede aiuto l’operatore grida: “Ma scassaci la minchia”. L’ambulanza alla fine arriva. E sull’ambulanza che corre verso l’ospedale di Villa Sofia Aldo Naro non c’è più. È stato Andrea a ucciderlo con quel calcio? Solo lui? E gli altri autori del pestaggio? Perché i buttafuori si accaniscono soltanto su Aldo che, a detta dei testimoni, è su una poltrona e non partecipa alla fase iniziali della rissa? A centocinquanta chilometri dall’ospedale palermitano di Villa Sofia, nel paese di San Cataldo, sono le 6 del mattino. Il comandante provinciale dei carabinieri di Caltanissetta, il colonnello Angelo De Quarto, suona al campanello di casa Naro. Sale le scale di una palazzina, una porta si apre, il colonnello De Quarto è davanti al suo collega della polizia giudiziaria. Gli sussurra parole di circostanza: “C’è stata una rissa, Aldo è rimasto ferito...”. Il colonnello Naro e sua moglie Annamaria sono su un’auto dei carabinieri, destinazione Palermo. Per tutto il viaggio - un’ora e mezza - la madre chiama il cellulare di Aldo. Squilla a vuoto. Arrivati a Villa Sofia, l’auto imbocca subito il vialetto che porta alla camera mortuaria. La donna se ne accorge: “In quel momento è come se mi strappassero la pelle di dosso”. Aldo è su una lastra di marmo, coperto da un telo, la madre lo solleva e comincia a fotografare il corpo martoriato del figlio. “Guarda come te l’hanno ammazzato”, le dice il marito. In quel momento, nessuno sa ancora cosa è accaduto esattamente qualche ora prima alla discoteca Goa. Rissa, parlano solo di una rissa. Qualcuno aggiunge anche: “È scivolato e ha sbattuto la testa”. L’autopsia, il giorno dopo, all’istituto di medicina legale del Policlinico, la fa il professore Paolo Procaccianti. Non partecipano un avvocato né un consulente di parte. Viene eseguita anche una Tac in tutto il corpo. Intanto, i carabinieri cercano chi ha ucciso Aldo. E perdono tempo, messi su una falsa pista da Massimo Barbaro, “il quale, così come aveva già dichiarato ai primi militari dell’Arma intervenuti sul posto, forniva una serie di elementi ben precisi asseritamente utili all’identificazione dell’autore del fatto, elementi questi però rivelatisi in seguito del tutto falsi e fuorvianti”. Barbaro descrive “una persona i cui tratti fisionomici non trovavano corrispondenza con nessuna delle persone a lui vicine nel momento della commissione del reato”, non dice niente dei buttafuori abusivi assunti per evitare gli scavalcamenti del recinto della discoteca, scarica tutto sugli addetti “regolari” alla vigilanza del locale. I carabinieri scoprono le due facce dei Barbaro che sono poi le due facce di Palermo oggi: i proprietari del Goa da una parte si servono di malacarne dello Zen per mantenere l’ordine e dall’altra sono iscritti ad Addiopizzo, un piede di qua e un piede di là, la copertura di un’associazione “per la legalità” e sotto sotto i metodi di sempre. Dopo l’omicidio di Aldo quelli di Addiopizzo sospendono il Goa dalla loro rete, probabilmente avrebbero dovuto controllare meglio prima. A garantire la tranquillità ai Barbaro nella loro discoteca c’è Giuseppe Militano, figlio di Carmelo e fratello di Francesco, tutti e due “esponenti di Cosa Nostra attualmente detenuti poiché responsabili del reato di cui all’articolo 416 bis”. Sono due capi della mafia dello Zen, il territorio dove c’è il Goa. Prima è Francesco Militano che fa la guardiania, quando viene arrestato - nel giugno del 2014 - il suo posto lo prende il fratello Giuseppe. In sostanza i Barbaro, attraverso il loro uomo di fiducia Francesco Meschisi, contattavano esponenti di Cosa Nostra che a loro volta ingaggiavano “quattro padri di famiglia che avevano bisogno” impiegandoli in servizi di sorveglianza. Un pizzo mascherato. Tre giorni dopo l’omicidio, Marcello Barbaro, fratello di Massimo e comproprietario della discoteca, entra allo Zen con in mano un megafono. Si aggira per le strade del quartiere lanciando messaggi all’autore dell’omicidio: lo invita a costituirsi. Scrivono i carabinieri nella loro informativa: “In tale circostanza lo stesso esponeva la scritta “Io sono Aldo Naro”. Il plateale comportamento, verosimilmente animato più dalla volontà di trovare un risalto mediatico che da quello di supportare le attività investigative, contrastava con la sua scarsa collaborazione dimostrata nel corso delle dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria. Ma torniamo alla notte dell’omicidio di Aldo. Ricordi confusi, testimonianze contraddittorie, indicazioni depistanti. Dal ventre dello Zen però esce all’improvviso un nome. Quello del ragazzo che ha sferrato il calcio mortale al giovane medico. La prima soffiata dice che l’autore è “tale Andrea”, minorenne, nipote di Francesco detto “U’ Patata”, piccoli precedenti per spaccio. Viene identificato come Andrea Balsano, nato a Palermo il 24 giugno 1997. I carabinieri entrano a casa sua allo Zen, in via Rocky Marciano 21. Ma il ragazzo non c’è, è scomparso. Vanno anche dallo zio Francesco “Patata”, non c’è neanche lì. Lo zio, fra le lacrime, dice che il nipote “si è consumato”, ammette che è l’omicida. Poi chiede ai carabinieri “due ore per parlare con alcune persone”, vuole rintracciare Andrea e convincerlo a consegnarsi. Le due ore passano e lo zio non si trova più. Il giorno dopo Andrea Balsano si presenta puntuale al carcere minorile Malaspina di Palermo, accompagnato da un avvocato. Lo sistemano in una cella con altri giovanissimi detenuti, la cella è microfonata. È il 20 febbraio del 2015, cinque giorni dopo l’omicidio di Aldo Naro. Andrea racconta ai compagni cosa è accaduto in discoteca, ricostruisce vagamente la dinamica della rissa, parla del calcio, il suo calcio. Dalle intercettazioni affiorano i primi sospetti. Detenuto 1: “Ma chi minchia ti ci ha portato?”. Andrea: “Ma se gli serviva a tutti il nome”. Detenuto 2: “E ti stai ammuccando (ti stai facendo, ndr) la galera?”. Detenuto 1: “Come si chiama questo ragazzo”. Andrea: “Giuseppe”. Detenuto 2: “Non è che lo hanno preso è...”. Andrea: “Perché facendo questo nome perdiamo...”. Annotano i carabinieri: “Il Balsano Andrea confermava di essersi consegnato per “dare un nome all’autore del fatto”, lasciando così intendere che lo stesso aveva dovuto sottomettersi alla volontà di terze persone...”. E continuano: “Nella stessa conversazione il Balsano faceva un esplicito riferimento a “Giuseppe”, persona che si ritiene identificarsi nel piu? volte menzionato Militano”. Andrea resta in carcere, il colpevole è servito, il delitto della notte di San Valentino risolto. Ma il padre e la madre di Aldo non ci stanno. Per loro comincia una lunga, dolorosa battaglia alla ricerca di un’altra verità. Sono tanti i dettagli fuori posto. A iniziare dalla rissa. Nessuno dei presenti al privè quella notte, gli amici di Aldo, ha un ematoma, una contusione, un solo graffio. Eppure c’è stato un putiferio (almeno questa è la versione ufficiale) che ha coinvolto almeno una dozzina di ragazzi. Com’è possibile, pugni e pedate furiose e solo un ferito che poi è morto? Ed è stata davvero solo una rissa o un pestaggio premeditato? L’obiettivo era forse proprio Aldo? E perché? Anche le deposizioni degli amici di Aldo portano a niente. Tanti silenzi, tanti “non ricordo”. Qualcuno sussurra dalla gelosia di Aldo che quella notte vede la sua ragazza con un buttafuori, vicini, mentre lui le lega un braccialetto al polso. Qualcun altro parla di uno scambio di persona. Qualcuno altro ancora di una vittima “a caso”, uno qualunque da uccidere per imporre il racket della protezione. Tutte piste che una dopo l’altra svaniscono. “Ancora sappiamo ben poco anche se c’è un imputato che ha confessato e che è stato condannato”, spiegano Salvatore e Antonino Falzone, gli avvocati che assistono la famiglia Naro. E aggiungono: “Noi non condividiamo l’impostazione dell’accusa, non abbiamo mai creduto a un solo colpevole perché Aldo Naro è stato assassinato da più persone”. Raccontano di indagini lacunose, di indizi tralasciati, di personaggi mai coinvolti nelle investigazioni. I genitori di Aldo non si arrendono. E sul profilo Facebook “Giustizia per Aldo Naro” pubblicano le foto dell’autopsia eseguita sul cadavere di Aldo. È uno choc, le immagini sono da brividi. Il padre: “È una cosa grave, lo comprendo, ma abbiamo deciso di dire basta. Aldo ha una mamma e una sorella. Abbiamo appena iniziato a mostrare all’opinione pubblica tutte le incongruenze emerse nelle indagini. Non possiamo più stare zitti”. I rapporti fra i genitori di Aldo e alcuni inquirenti si deteriorano. Il padre denuncia un colonnello dei carabinieri, un giorno ha un violento scontro anche con uno dei sostituti procuratori che seguono le indagini. È Carlo Marzella. Il padre di Aldo si presenta nella sua stanza e gli dice: “Sono un ufficiale di polizia giudiziaria e credo che le indagini abbiano delle smagliature”. Il pm ribatte: “Non si permetta, la notte non ci dormiamo su questo caso, l’indagine è impeccabile”. Il padre di Aldo è messo alla porta. Ma subito dopo qualcosa si muove. Al Tribunale di Palermo non la pensano tutti come i pubblici ministeri. È nel febbraio 2019, esattamente quattro anni dopo l’uccisione di Aldo, il giudice delle indagini preliminari Fernando Sestito non crede che sia stato solo il minorenne dello Zen a uccidere Aldo e trasmette gli atti in procura “per le valutazioni di competenza nei confronti di Gabriele Citarrella, Francesco Troia e Pietro Covello”, tre dei buttafuori della discoteca. È un altro sguardo investigativo. Anche perché nel frattempo un nuovo pubblico ministero chiede la riesumazione del cadavere, vuole una seconda autopsia. La ordina un altro gip, Filippo Serio. I risultati sono clamorosi. Scrivono i periti: “Al contrario di quanto affermato nell’autopsia del 14 febbraio 2015 l’azione traumatica non è stata dovuta a un unico colpo ma da molteplici colpi contundenti in sequenza rapida sferrati nella regione cranica”. È un colpo di scena che semina a catena incertezze su tutta l’indagine. Gli avvocati di parte civile si accorgono che dal Policlinico di Palermo non è mai stata acquisita nel fascicolo processuale la Tac eseguita sul cadavere di Aldo, poi scoprono che è anche sparita dal sistema informatico del Policlinico. E scoprono che il cellulare di Aldo risultava sequestrato in un verbale ma per quattro giorni era rimasto in possesso della fidanzata, di telecamere della discoteca visionate con ritardo, di una pista droga mai scandagliata nonostante i molti elementi presenti nell’informativa. Troppe dimenticanze, troppe disattenzioni. E forse anche qualche “fonte confidenziale” che gli apparati polizieschi palermitani hanno voluto tenere al riparo, che non hanno voluto bruciare “solo” per la morte in discoteca di un ragazzo. Meglio far passare per “visionari” un padre e una madre, genitori che sragionano “perché impazziti dal dolore”. C’è odore di patti sotterranei nelle investigazioni sulla tragica morte di Aldo. Ai margini dell’inchiesta per omicidio, una seconda indagine - per rissa - si conclude con condanne a due anni per Pietro Covello, Mariano Russo e Giovanni Colombo. La sentenza è del febbraio 2019, a marzo di quello stesso anno Giovanni Colombo uccide dopo una furiosa lite allo Zen due uomini, padre e figlio, con dieci pistolettate. Colombo abita anche lui allo Zen, anche lui in via Rocky Marciano, al civico 23, Il portone accanto a quello di Andrea. Il reo confesso torna a casa sua alla vigilia di Natale del 2020 dopo una condanna a dodici anni in primo grado, scesa a nove in appello. Dopo averne scontati cinque Andrea, “che ha avuto un percorso di ravvedimento” pur non offrendo alcun contributo utile all’indagine e senza avere mai presentato nemmeno le sue scuse alla famiglia Naro, è affidato ai servizi sociali. Lavora in una pasticceria, non può uscire di casa prima delle 7 e non può rientrare dopo le 21, non può frequentare bar, discoteche e sale da gioco. Il reo confesso e presunto colpevole vaga come un fantasma per Palermo con il suo segreto. Storia dell’anarchico Passannante, tumulato in una torre di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 agosto 2021 Giovanni Passannante era recluso nella torre dell’isola d’Elba perché aveva attentato alla vita del Re. A dire il vero Umberto I di Savoia fu ferito solo di striscio, salvato da un gesto repentino della regina Margherita, ma Passannante fu condannato a morte e poi “graziato”. Ma forse avrebbe preferito la morte perché l’anarchico italiano passò il resto dei suoi giorni in una prigione cupa, tetra e senza possibilità di scampo. “Soprattutto la sera, dopo aver finito di pescare, quando gli uomini si avvicinavano alla torre, dalle viscere del vecchio bastione sentivano udire un lungo, soffocato e lugubre lamento, seguito da un inconfondibile rumore di catene. Ciò che inquietava fu il fatto che quei terribili suoni provenivano da sotto il mare. Parliamo dell’isola d’Elba dove c’è una torre, subito riconoscibile all’entrata del porto di Portoferraio per la sua forma ottagonale. Un tempo i marinai che passavano nelle vicinanze della torre, soprattutto la sera quando tutto era fermo e silenzioso, potevano udire lugubri e continui lamenti di una persona sottoposta a indicibili torture. La Torre del Martello venne ribattezzata dai marinai “Torre di Passannante”. Ovvero il nome dell’uomo che emetteva quelle grida strazianti. Ma perché Giovanni Passannante era recluso in quella torre che era un piccolo e tetro carcere di estremo rigore? Tutto ha inizio il 17 novembre del 1878, quando la carrozza di Umberto I di Savoia e della regina Margherita percorre le strade di una Napoli festante accorsa a salutare il passaggio della coppia reale. All’improvviso l’anarchico lucano Passannante estrae dalla tasca un fazzoletto rosso in cui è nascosto il piccolo coltellino con una lama di 8 centimetri, si avvicina alla carrozza e colpisce il re. Margherita riesce a urtare l’attentatore con un mazzo di fiori e il re Umberto viene ferito solo di striscio alla coscia. Per capire meglio il suo gesto, bisogna contestualizzare il periodo storico. L’atto di Passannante giunge a breve distanza dai tentativi insurrezionali di Bologna e del Matese, in un’Italia da poco unificata e attraversata da un’infinità di contraddizioni, dove appunto gli anarchici erano molto attivi. D’altronde lo stesso Passannante ha una sua storia personale interessante. Nasce a Salvia di Lucania (poi rinominata Savoia di Lucania proprio come punizione per aver dato natale al suo attentatore) il 18 febbraio 1849 in una famiglia con gravi difficoltà economiche. Costretto ad elemosinare a causa della povertà, Passannante frequenta solo la prima elementare, ma un indomito desiderio di imparare le cose lo porta ad apprendere da solo a leggere e scrivere. Cresciuto, svolge diverse umili professioni, ma il suo carattere ribelle lo porta ad alcuni licenziamenti. A Potenza conosce un suo compaesano, l’ex capitano dell’esercito napoleonico Giovanni Agoglia, che avendo notato la sua passione per la lettura lo assume come domestico offrendogli anche un vitalizio per poter approfondire i suoi studi. Frequentando poi i circoli mazziniani, conosce l’internazionalista Matteo Melillo e intraprende un’attività rivoluzionaria in favore del mazzianesimo che gli costa un arresto a tre mesi per aver incitato i calabresi all’insurrezione e per aver forse pensato di uccidere Napoleone III, che egli riteneva fosse il vero ostacolo alla nascita della Repubblica Universale. Mentre legge e si informa sulle vicende dell’Internazionale e della Comune di Parigi, trova occupazione nella sua regione come cuoco prima di aprirsi una trattoria che spesso elargiva pasti gratuiti alle persone in difficoltà. Il ristorante sarà chiuso nel dicembre del 1877. Intanto si avvicina alle idee anarchiche, diventando prima membro della Società Operaia di Pellezzano e poi della Società di Mutuo Soccorso degli Operai, in entrambi i casi abbandonati per contrasti con gli amministratori. La Campania comunque è un covo di ferventi rivoluzionari internazionalisti, quindi ha trovato altri rifugi per le sue idee e proprio in quegli ambienti che ha cominciato a covare odio nei confronti del re e quindi provare ad ucciderlo. Ma invano. Solo qualche decennio più tardi, ovvero una sera del 29 luglio 1900, qualcuno ci riuscì. Sarà l’anarchico Gaetano Bresci a uccidere il re a Monza con tre colpi di pistola. Si dirà che quelle revolverate chiudevano l’800 e che con esse erano vendicati soprattutto i morti di Milano del maggio 1898, gente comune che chiedeva pane e fu massacrata a cannonate dal generale Bava Beccaris, poi decorato dal monarca. Infatti, se da una parte Umberto I veniva definito il “re buono”, dall’altra c’era chi lo definiva “re mitraglia”. Ma ritorniamo a Passannante. Il processo durerà solo due giorni. La giuria, nonostante il codice prevedesse la pena di morte solo in caso di regicidio, non ha alcuna pietà per l’anarchico e lo condanna alla pena capitale, che sarà poi “magnanima-mente” commutata dal “re buono” in ergastolo temendo che una condanna spropositata potesse trasformare l’attentatore in martire. Ma in realtà proprio la pena di morte sarebbe stato un gesto magnanimo, visto quello che poi Passanante dovette subire. Infatti lui stesso chiese di essere giustiziato sapendo cosa lo aspettava. Fu rinchiuso nella torre dell’isola d’Elba e sepolto vivo in una cella di due metri per uno, alta uno e 50 e situata al di sotto del livello dell’acqua. Perennemente al buio con le catene ai piedi attaccate a un piombo di 18 chili. Venne ridotto ad una larva, costretto a cibarsi delle proprie feci, diventò cieco e si ammalò di scorbuto. Ovviamente la sua mente si perse nei meandri dell’orrore quotidiano. Nel frattempo, per rappresaglia, sua madre e i fratelli vennero rinchiusi nel manicomio di Aversa, dove morirono uno dopo l’altro. Dopo 10 anni di indicibile prigionia alla Torre, dopo una visita del deputato socialista Agostino Bertani che ne rimase scioccato, il caso arrivò in Parlamento. Ma decisiva fu la visita ricevuta dalla giornalista Anna Maria Mozzoni, illuminata attivista e femminista di quegli anni, la quale scrisse articoli di fuoco per denunciarne le condizioni: l’anarchico finalmente subì una perizia medica che lo dichiarava insano di mente, tanto da concedergli la possibilità di passare i suoi ultimi anni di vita nel manicomio di Montelupo fiorentino: oramai malato e impazzito per le torture, Giovanni muore a 61 anni il 14 febbraio 1910. Tutto finito? Nemmeno per sogno. In fase di sepoltura, il corpo di Giovanni venne prelevato grazie al tempestivo intervento di due funzionari di polizia che lo decapitarono con un’ascia. Il cranio fu accuratamente sezionato nella parte superiore, il suo cervello estratto ed esposto sotto formalina insieme al teschio, e quotidianamente “innaffiato” nel museo criminologico di Roma. Solo recentemente i resti di Passannante hanno avuto una degna sepoltura. Ma non senza intoppi. Il 23 febbraio 1999 l’allora ministro della Giustizia Oliviero Diliberto firmò il nulla osta per la traslazione dei resti di Passannante da Roma a Savoia di Lucania, che però avverrà solamente otto anni dopo anche grazie all’iniziativa dell’attore Ulderico Pesce. La sua petizione in favore dell’anarchico fu firmata da numerosi intellettuali, politici ed artisti e contribuirà in maniera decisiva allo sblocco della vicenda. Finalmente il 10 maggio 2007 è avvenuto il via libera alla sepoltura da parte dell’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella, nel paese natale, dei resti di Giovanni Passannante. Savoia è un piccolo borgo del 1200. Strade pulite, case ben tenute e murales ovunque. Molti ispirati a San Rocco, protettore del paese. Accanto al municipio, sotto un portico, ce ne sono due dedicati all’anarchico Passannante. C’è anche un suo pensiero: “I regni sorti dalle rivoluzioni cadono con le rivoluzioni”. Eppure, l’anarchico lucano senza fare una rivoluzione, ma solo un gesto simbolico, patì torture e sofferenze che nemmeno il conte Ugolino conobbe. Tutto questo per aver, in fondo, graffiato la coscia reale. Lazio. “Strategica la funzione sociale dell’esecuzione penale esterna” gazzettadiroma.it, 20 agosto 2021 Paradiso (Assistenti sociali Lazio): “L’attuale situazione non garantisce un adeguato accesso delle persone detenute alle misure alternative al carcere e ai programmi di trattamento per gli utenti in messa alla prova” Solidarietà e condivisione alle richieste avanzate dalle organizzazioni sindacali in merito alla necessità di misure di intervento emergenziali per fare fronte alla carenza di personale e di strumenti che, a Roma, sta paralizzando le attività e l’attuazione delle misure alternative al carcere è stata espressa dall’Ordine degli assistenti sociali del Lazio. “Molto preoccupante la denuncia dei sindacati - dice Laura Paradiso, Presidente dell’Ordine - che sottolineano come all’Ufficio esecuzione penale esterna di Roma risultino operativi solamente 27 assistenti sociali, numero assolutamente insufficiente a gestire in modo adeguato i circa duecento casi che ciascuno dei colleghi deve seguire”. Paradiso, facendo propria la preoccupazione dei colleghi, ricorda che “la cronica carenza di personale che riguarda anche il personale amministrativo e contabile non consente di garantire adeguatamente l’accesso delle persone detenute alle misure alternative al carcere e ai programmi di trattamento per gli utenti in messa alla prova”. “I recenti drammatici fatti di cronaca che hanno portato alla ribalta il grave problema delle carceri, impongono un forte intervento politico che mostri in modo chiaro ed esplicito la volontà di riconoscere l’importanza e la strategica funzione sociale dell’esecuzione penale esterna, al centro della riforma della Giustizia, ma - al momento - resa povera di uomini e mezzi da una intollerabile carenza di investimenti”, conclude Paradiso. Anche per meglio coordinare le iniziative a sostegno del rafforzamento delle misure alternative al carcere previsto, in tempi brevi, un incontro tra la stessa Paradiso e gli assistenti sociali impegnati, a Roma, nell’area della esecuzione penale esterna. Vicenza. Il fratello di Gelindo Renato Grisotto: “Sorvegliato non si sarebbe ucciso” di Benedetta Centin Corriere Veneto, 20 agosto 2021 Adriano Grisotto: “È una bruttissima vicenda, speriamo si risolva il più presto possibile, vogliamo metterci una pietra sopra. Se controllato in carcere sarebbe ancora qui”. Un figlio e fratello da piangere, i “se” e “ma” che tormentano, l’”onta” di un delitto atroce e l’impellenza di un silenzio da far prevalere su tanta sofferenza e sangue versato. Adriano Grisotto, il giorno successivo alla morte del fratello Gelindo Renato, suicida in carcere a Vicenza poche ore dopo aver ucciso il vicino di casa, soffoca le parole tanto è provato. “È una bruttissima vicenda, speriamo si risolva il più presto possibile, vogliamo metterci una pietra sopra”, le sue parole, in riferimento all’omicidio del pensionato Mario Walter Testolin avvenuto lunedì a Marano Vicentino, all’arresto del fratello 53enne, accusato di omicidio volontario, e al suo gesto estremo nella cella in cui era stato da poco recluso, i pantaloni usati come cappio nel vano doccia. “Certo, se lo avessero sorvegliato in carcere sarebbe ancora qui”, riferisce il fratello. Un episodio, il suicidio, su cui il sostituto procuratore Jacopo Augusto Corno, lo stesso che aveva interrogato il killer, ha aperto un’inchiesta - al momento senza ipotesi di reato ed eventuali indagati - “per accertare eventuali omissioni o negligenze”. Il magistrato aveva espressamente chiesto che il muratore e padre di famiglia, che in passato aveva sofferto di alcuni disturbi depressivi, fosse tenuto sotto sorveglianza “vista la situazione di fragilità psicologica”. Una necessità, il monitoraggio del detenuto, che per la procura era stata “indicata nel biglietto di carcerazione dei carabinieri”, quello trasmesso alla casa circondariale. “Avevo interrotto da tempo i rapporti con mio fratello, non conoscevo il suo stato di salute - racconta Adriano Grisotto - e proprio il fatto che non eravamo più in stretto contatto mi porta a soffrire meno ora, ma è una bruttissima storia che va chiusa e in breve tempo”. Eppure non potrà essere così. Ci sono i dovuti accertamenti da svolgere. A partire dall’autopsia su Testolin, freddato con due colpi, alla schiena e un secondo al torace, quando era già a terra, dal 53enne che lunedì mattina era partito da casa con quattro proiettili per raggiungerlo nell’area di campagna in cui stava lavorando. Al seguito Grisotto aveva il fucile caricato a pallettoni che si era costruito circa un anno prima perché - spiegherà agli inquirenti - si sentiva minacciato da quel vicino con cui discuteva da tempo per terreni e proprietà. Oggi il pm incaricherà il medico legale che svolgerà l’esame sul pensionato all’ospedale San Bortolo, dove verrà effettuata anche la tac, a caccia di eventuali schegge. Disposti anche accertamenti di natura balistica. L’autopsia verrà eseguita anche sul corpo dell’omicida reo confesso, presumibilmente la prossima settimana. Una tragedia nella tragedia che accomuna due famiglie - quella dell’arrestato seguita ora ancora più da vicino dai servizi sociali del Comune - e di un’intera comunità che questa sera si ritroverà nella chiesa parrocchiale di Marano. Le riflessioni nella cittadina - “Dopo eventi così tragici l’invito è a riunirsi e pregare assieme” spiega don Fabio, il parroco. “Abbiamo la possibilità di rielaborare quanto accaduto e riflettere sul valore della vita”, fa sapere il sindaco Marco Guzzonato. Vicenza. La Cgil: “Un potenziale suicida non può stare in cella da solo” di Laura Berlinghieri Il Mattino di Padova, 20 agosto 2021 Indagine sulle modalità di custodia dell’uomo che poche ore prima aveva ucciso il vicino di casa. “Quando l’arrivo di un detenuto è anticipato da una segnalazione di questo tipo, la prima cosa che bisogna fare è metterlo sotto stretta sorveglianza. Inserirlo non in una cella singola, ma con altri detenuti italiani, cosicché possa comunicare facilmente. Informare della situazione il personale del carcere, perché proceda con controlli regolari. Al suo primo, possibile tentativo di suicidio, avere una linea diretta con l’infermeria, che deve essere pronta a intervenire. Eventualmente, trasferire il detenuto nella stessa infermeria, dove possono essergli somministrati dei calmanti. Sono queste le cose da fare”. La procedura prevista dal regolamento carcerario è descritta da Giampietro Pegoraro, coordinatore regionale della Cgil polizia penitenziaria, che commenta la tragedia consumatasi nel carcere di Vicenza. Erano le 5.45 di martedì quando veniva constatata la morte di Gelindo Renato Grisotto, muratore 52enne. Meno di 24 ore prima aveva ucciso il suo rivale di sempre - Mario Valter Testolin, un artigiano di 67 anni - con due colpi di fucile. Non ha retto ai sensi di colpa. Si è suicidato, all’alba della sua prima giornata in carcere, mentre si trovava in una cella singola. Ma non è la regola, come si potrebbe pensare, in tempi di pandemia che impongono la sorveglianza sanitaria sui nuovi ingressi nei penitenziari: “All’interno di ogni carcere, è prevista una sezione dedicata all’isolamento per il Covid. Ma non si tratta di una cella singola, bensì di una stanza in cui vengono collocati i diversi detenuti positivi al virus” spiega Pegoraro. In ogni caso, visto che le fragilità di Grisotto erano state segnalate nel “biglietto di carcerazione” consegnato al suo arrivo in carcere, adesso la procura intende vederci chiaro e capire se la tragedia avrebbe potuto essere evitata. Alla carcerazione, infatti, il magistrato aveva dato disposizioni ai carabinieri di informare il personale della fragilità psicologica dell’uomo e della necessità di stretta sorveglianza. “Purtroppo i suicidi avvengono anche al di fuori delle strutture penitenziarie. Ma all’interno del carcere sono necessarie maggiore sorveglianza e assistenza psicologica. Perché quando entri in una cella e senti alle tue spalle la porta che si chiude con due giri di chiave, hai intorno a te soltanto quattro mura e una finestra, allora avverti che la libertà ti scivola via, vieni avvolto da un senso di insicurezza che rimarrà per sempre o, almeno, fino a quando rimarrai lì dentro. Per questo è importante che le persone più fragili siano in cella con almeno un altro recluso” continua Pegoraro “Al suo arrivo in carcere, il detenuto è sottoposto a una visita medica e a una psicologica, quindi viene condotto nella camera. L’agente lo sorveglia e, se nota comportamenti strani, è tenuto a riferirlo al suo superiore, che eventualmente può indirizzare il detenuto all’infermiera. A questo punto può subentrare uno psicologo, che è una figura fondamentale. Ma, di notte, quando si consuma la maggior parte dei suicidi, i soli psicologi sono gli agenti”. Grisotto si è impiccato, appeso per i pantaloni a una trave del box doccia della sua cella. “Purtroppo quando una persona si vuole togliere la vita trova infiniti modi. Ho visto gente impiccarsi con le lenzuola, costruire dei lacci con i sacchetti di nylon, oppure sniffare in un sacco il gas spruzzato con una bomboletta. Non possiamo eliminare le lenzuola, non possiamo spogliare le celle di ogni cosa. Queste persone sono a rischio e bisogna aiutarle, con un supporto psicologico” conclude Pegoraro. - Avezzano (Aq). Detenuto ingoia una lametta e batterie, è grave in rianimazione di Barbara Orsini rete8.it, 20 agosto 2021 È in gravi condizioni, nel reparto di Rianimazione dell’ospedale di Sulmona, il detenuto 42enne di nazionalità marocchina che ha tentato il suicidio nel carcere di Avezzano ingoiando una lametta e alcune batterie al litio. A dare l’allarme è stato un agente in servizio durante il giro di ricognizione. Una volta arrivato al Pronto soccorso dell’ospedale di Avezzano, vista la gravità si è disposto il trasferimento d’urgenza a Sulmona, in eliambulanza. In passato l’uomo aveva già tentato il gesto estremo. Proprio in questi giorni nel carcere di Avezzano i detenuti hanno aderito alla protesta nazionale per il miglioramento delle condizioni negli istituti di pena battendo sulle inferiate delle celle, due ore al giorno, le scodelle di metallo in cui ricevono il cibo. La protesta va avanti da lunedì scorso. Siena. Carcere di Ranza, troppi detenuti per quattro educatori di Simona Sassetti radiosienatv.it, 20 agosto 2021 Manca personale anche in Infermeria. Visita a Ranza nell’ambito dell’iniziativa organizzata dall’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali italiane “Ferragosto in carcere”. Siamo entrati al carcere di Ranza insieme ad una delegazione della Camera penale di Siena e Montepulciano, nell’ambito dell’iniziativa organizzata dall’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali italiane “Ferragosto in carcere”. Quello che è emerso dalla visita è che nel complesso la situazione dei detenuti è migliore di molte altre carceri italiane. Sono emerse, però, anche alcune criticità. Criticità che si notano subito con i dati alla mano: se per 274 detenuti ci sono 229 agenti (anche se operativi in sede sono 180), a mancare è l’area trattamentale. Ci sono solo quattro educatori. “Io seguo 94 detenuti - afferma un’educatrice che abbiamo incontrato durante la visita - confidiamo nell’assunzione di altre educatrici perchè la mole di lavoro è elevatissima”. Manca personale anche nel reparto Infermeria. I medici sono due e coprono le 24 ore. Gli infermieri sono invece solamente tre e coprono 13 ore. Sei sono invece gli operatori sanitari. Il personale è stato svuotato con il covid, inoltre all’interno del reparto c’è un odontoiatra due volte a settimana, un dermatologo, un otorino e un cardiologo una volta al mese. Le liste di attesa di conseguenza superano i due anni. Come da due anni manca un ecografista nonostante la presenza dell’ecografo. Questi disagi comportano quindi dalle 4 alle 5 uscite al giorno per raggiungere ospedali all’esterno. La maggior parte dei detenuti sono cardiopatici. Essendo un carcere di alta sicurezza si deve considerare anche l’età, per cui occorre un frequente monitoraggio. Nota positiva è che al momento non si registra una situazione di sovraffollamento, anche se all’interno del carcere di alta sicurezza ci sono ancora da ormai un anno e mezzo 10 detenuti di media sicurezza. Sono stati trasferiti lì dopo aver partecipato alla rivolta nel carcere di Modena di marzo 2020. All’inizio erano 43. Si appoggiano nelle celle predisposte per l’isolamento, in più a mancare all’appello sono anche due sezioni chiuse per lavori che finiranno a novembre. Positiva anche la parte relativa alle attività di formazione, come la scuola, anche se attualmente è chiusa e riaprirà a settembre. Ranza è anche polo universitario, 33 sono gli attuali iscritti, 15 i nuovi immatricolati. Abbiamo visitato proprio la cella di un detenuto che fa l’università. Sta preparando un esame, peccato che per studiare la sera deve restare con la luce accesa per tutta la notte. “L’interruttore è all’esterno - spiega il detenuto -, e una volta che l’agente l’accende resta accesa fino al mattino”. I detenuti che fanno l’università sono soli in cella, tutti gli altri sono in due in dodici metri quadri compreso il bagno. Per passare il tempo c’è l’area passeggio, la sala pittura, la sala hobby e il campo di calcio, dove proprio in questo periodo è in pieno svolgimento un torneo. Peccato che le ore d’aria coincidono con quelle della formazione e vanno dalle 4 alle otto ore. Poi c’è chi lavora, ma in quel carcere (ecco un altro limite) o stai in cucina, o aggiusti o pulisci. Per i semiliberi che cercano un lavoro all’esterno, San Gimignano offre solo lavori estivi legati al turismo: agriturismi, alberghi. Nota dolente anche quella del trasporto, l’ultima linea che collega Ranza crea disagi ai lavoratori, essendo alle 17.40. Fermo. “Anche in carcere ci sono poveri da aiutare” Il Resto del Carlino, 20 agosto 2021 Il consigliere Interlenghi ha visitato la struttura: “La vita non è gratis, le piccole comodità si pagano e c’è chi non può permettersele”. Un paese moderno e civile si misura anche per le sue carceri. Lo sottolinea Renzo Interlenghi, consigliere comunale di opposizione, che in qualità di avvocato ha visitato la casa Circondariale di Fermo che conta una cinquantina di detenuti tra definitivi e in custodia cautelare: “Per fortuna il carcere a Fermo conta “zero contagi”, sintomo di un’eccellente organizzazione socio sanitaria. I problemi però non mancano. Nelle celle, piccole, dove vivono tre, quattro o più detenuti, lo spazio è centellinato, le distanze di sicurezza non possono essere garantite. Il caldo amplifica le difficoltà”. Interlenghi ricorda che la vita del carcere non è gratis. Certamente vengono garantiti il vitto e un letto dove poter dormire ma ogni altra cosa, in carcere, si paga, sia che si tratti di un pacchetto di sigarette, che di un bagnoschiuma: “Vi è differenza tra coloro che possono vantare un reddito proveniente dall’esterno, un sostegno familiare che permette loro di avere vestiario adeguato alle stagioni e coloro che, invece, non hanno nulla di tutto ciò. Prima del Covid vi si svolgevano attività volte anche al futuro inserimento sociale: corsi di cucina, corsi di lingua, pet terapy. Oggi non è possibile incontrare de visu i propri familiari ma solo via Skype e non è semplice gestire la sala dove si possono svolgere le chiamate che avvengono in contemporanea tra più detenuti”. Interlenghi ricorda che occorre una maggiore attenzione per i detenuti che abbiano problematiche di natura psichiatrica: “A Fermo, come nel resto del sistema carcerario, mancano gli educatori. Le istituzioni locali, Provincia e Comuni potrebbero farsi carico di garantire ai detenuti sprovvisti di risorse economiche un kit di ingresso: spazzolino, dentifricio, bagnoschiuma, il cui costo è ridottissimo e se fosse ripartito nella collettività provinciale con poco risolverebbe un problema all’ingresso dei detenuti. Sarebbe un piccolo ma simbolico gesto di attenzione e solidarietà. Inoltre si potrebbe organizzare un sistema di accoglienza all’uscita dal carcere. Molti, una volta scontata la pena, non sanno cosa fare e dove andare. Creare un meccanismo di assistenza sociale individuando un punto di riferimento che possa garantire a chi abbia pagato il conto con la società, aiuterebbe a risolvere un problema che non ha una valenza esclusivamente soggettiva ma anche e soprattutto collettiva”. Rimini. Ferragosto in carcere, due anni dopo Il Resto del Carlino, 20 agosto 2021 Dall’iniziativa promossa dal Partito radicale con l’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali emerge uno scenario definito “di preoccupante degrado” e di “grave affollamento”. Il riferimento va in particolare a una delle sezioni della casa circondariale di Rimini, la numero uno: 37 i detenuti presenti a fronte di una capienza massima prevista di 23. Complessivamente, i detenuti sono 129. Più di quanto stabilito dal limite regolamentare (fissato a 112), meno di quello tollerabile (che a Rimini è di 157). E così, mentre la capienza di due delle cinque sezioni è stata ridotta causa Covid (le aree sono destinate a nuovi arrivi e isolamenti), nelle altre c’è affollamento. Contestualmente, per il presidente della Camera penale di Rimini Alessandro Sarti e per il consigliere generale del Partito radicale Ivan Innocenti “c’è un problema di organico sottodimensionato”: 108 persone impegnate, dovrebbero esserne 150. Non solo: il 44% dei detenuti è in attesa di giudizio definitivo. “Vuol dire che in carcere ci sono molti innocenti”. Rieti. Il Progetto Sant’Erasmo, che aiuta a rimettersi in carreggiata di Maurizio Ermisino retisolidali.it, 20 agosto 2021 Volontariato e carcere. Un progetto che nasce da Il Guazzabuglio Odv per il recupero e reinserimento dei detenuti, grazie alla messa alla prova. “A volte il treno sbagliato può portarti nel posto giusto”. È una frase di Paolo Coelho che identifica bene Sant’Erasmo - Accoglienza socio affettiva riabilitativa alternativa, il progetto che nasce da Il Guazzabuglio Odv, organizzazione di volontariato di Rieti che si occupa di emergenza alimentare, povertà e disabilità. E ora anche della messa alla prova, della riabilitazione e della cancellazione della pena dei detenuti. “Attraverso uno sbaglio queste persone arrivano nel posto giusto” spiega Federica Paolucci, per tutti Nanina, presidente de Il Guazzabuglio. “Quando noi chiudiamo un verbale, la nostra più grande vittoria è essere riusciti nel percorso. Aver peso in carico una persona e averla presentata al tribunale con un’autostima più alta. Con la consapevolezza di aver fatto qualcosa di buono”. Il progetto è un parallelo a tutte le attività dell’associazione. “Abbiamo voluto diversificare nel tempo i nostri interventi nel sociale, allargando le nostre vedute”, ci racconta Nanina. “Ci sono utenti che volontariamente o involontariamente, o anche per altri fattori, hanno compiuto degli errori. Che magari in passato si potevano sanare attraverso il carcere o gli arresti domiciliari. Il mondo va verso pene alternative, che non chiudano in una struttura carceraria i detenuti, ma che traccino percorsi alternativi di alta valenza sociale che li faccia uscire migliorati. Il carcere, di certo, non li migliora”. Perché la messa alla prova - Ci sono una serie di associazioni, come Il Guazzabuglio, che sono convenzionate con il tribunale per progetti importanti dedicati alla persona messa alla prova attraverso i LPU, i lavori di pubblica utilità. “Se un utente compie un reato c’è la possibilità di farlo partecipare a un percorso alternativo al carcere”, spiega la presidente. “Così si presenta davanti al giudice con il proprio avvocato chiedendo di essere messo alla prova, con lavori di pubblica utilità”, spiega Nanina. “Ma deve avere un foglio dell’associazione che attesti la disponibilità ad accoglierlo”. A volte si presenta questa richiesta nella fase precedente alla condanna, altre volte persone già condannate in di primo grado, attraverso questa possibilità, puntano alla cancellazione della pena. “Prima della condanna chiedono di essere messi alla prova”, spiega Nanina. “Se il progetto presentato viene giudicato possibile, il tribunale di sorveglianza decide di accoglierlo. Tutti insieme ci sentiamo e sosteniamo questa road map sociale, cercando di andare incontro alle peculiarità dell’utente. Se è una persona che ha sempre fatto lavori manuali, cerchiamo di impiegarlo in quelli. Chi ci sa fare con i giovani lo impieghiamo in progetti relativi a lavori di convivialità con ragazzi”. Viene cancellato un marchio - Il tribunale stabilisce un monte ore giusto affinché venga scontata la pena per il reato. L’utente firma l’ingresso, l’uscita, si verbalizza in un giornalino di bordo l’attività di quel giorno. “È una sorta di progetto di riabilitazione, di inclusione sociale a più facce”, spiega la presidente. “Ci sono un educatore, un tutor, un ragazzo fragile e un utente messo alla prova. Serve un collante tra loro per amalgamarli, farli avvicinare. Far capire loro che non esiste solo la strada nera ma anche quella bianca e attraverso la bianca possono uscire da quella nera. Distribuzione di spesa e altri beni per i poveri Otto casi su dieci ci premiano. Queste persone arrivano alla cancellazione del reato e hanno la fedina penale pulita. Viene cancellato così un marchio che può condizionare tutta la loro esistenza”. In questo senso Il Guazzabuglio ha vinto un altro bando per un progetto, Oltre il cortile. “Da sempre la parola cortile ci fa pensare a uno spazio delimitato da cui ci sembra impossibile uscire” spiega Nanina. “Questo progetto allarga il nostro operare a favore delle persone che, attraverso percorsi speciali sociali particolari, si vogliono riabilitare. È una strada che collega il loro mondo nero al nostro”. Chi ci troveremo di fronte - Ci vuole coraggio, lungimiranza, una sensibilità molto particolare per rendersi parte di un percorso di riabilitazione come questo. “Oggi molte associazioni si rifiutano di accogliere queste persone perché non hanno personale specializzato per seguirle”, spiega la presidente. “E perché hanno sempre paura di non poter gestire la situazione, per l’incognita delle persone. Non sappiamo mai chi troveremo di fronte a noi. Ci può essere una persona remissiva, che ha capito di aver sbagliato, ma anche no. Spesso gli avvocati girano, ma non trovano associazioni. C’è gente che arriva da noi dall’Umbria e, in generale, molte persone che arrivano da fuori regione. Possibile che in tutta una regione non si trovi un’associazione?”. “Quando ci chiamano non mettiamo un limite al soggetto” continua. “Lo vogliamo incontrare, in un colloquio conoscitivo, con un educatore e la psicologa. Siamo vestiti tutti con la stessa maglia, perché l’utente deve avere la scioltezza di essere quello che è normalmente. È lui che ci racconta quello che è capitato, ed è portato a dire i punti di debolezza piuttosto che quelli di forza. Spesso hanno problemi economici, lavorativi. La maggior parte è straniera. Non hanno compiuto grandi reati. Spesso è la guida in stato di ebbrezza, o il mancato pagamento di assegni di mantenimento. Anche se a volte ci sono stati reati di lesioni colpose”. L’importanza di umanità ed empatia - Il lavoro fatto sul dialogo, sull’incontro con le persone da accogliere, è allora fondamentale. Servono professionisti, ma anche persone con una certa umanità ed empatia. “Facendo parte di un progetto a livello regionale siamo obbligati dalla legge ad avere uno staff tecnico di qualità, educatore e psicologo”, spiega Nanina. “Ma questo non dà per scontato che siamo legati a una grande e profonda umanità verso il prossimo. Abbiamo scelto persone che hanno sempre lavorato nell’ambito della strada. Persone capaci di leggere nell’interiorità di questi soggetti”. “La chiave di lettura è un buon 40% nella riuscita di un progetto” continua. “Se riusciamo a capirli, riusciamo a salvarli. Devi essere una psicologa nata: a volte trovi davanti facce pulite che nascondono personalità contorte. A volte ci sono persone che sembrano difficili da trattare, troppo forti, toppo briose. E magari sono le persone che rimangono nell’ ODV e continuano a fare volontariato. E diventano i nuovi volontari”. Un aiuto per la microfattoria - E nel progetto Sant’Erasmo ci sono delle belle storie di messa alla prova. “Un ragazzo di 21 anni di origine nigeriana, giovane e brioso, ha partecipato alla remise en forme della nostra microfattoria” ci rivela Nanina. “Arriva al sabato, e insieme a lui abbiamo fatto le palizzate nuove, e ora si occupa di trasferire i nuovi animali nelle piccole strutture”. “L’educatrice lo spinge a parlare italiano” continua. “Mentre lavora ha uno stimolo a imparare la nostra lingua. La sua è una formazione. Serve a capire che integrarsi vuol dire non dimenticare le proprie origini ma integrarle con gli usi e costumi del paese che li ospita. Molti dei ragazzi sono stranieri e musulmani, i nostri usi e costumi sono molto distanti. Diciamo loro: “non stiamo chiedendo a voi di dimenticare ciò che siete o da dove venite, ma vi diamo la possibilità di arricchire il vostro bagaglio con una nuova lingua e nuovi modi di cucinare”. È un discorso che facciamo mattina e sera”. Una donna che aiuta le donne - Nella storia del progetto Sant’Erasmo c’è anche una ragazza, una minore vicina alla maggiore età. “È una ragazza giovane, straniera”, racconta Nanina. “È una studentessa e abbiamo pensato di impegnarla al magazzino. Si occupa delle derrate alimentari destinate ai bambini, i pacchi solidali per le mamme di bambini da 0 a 3 anni. Controlla le scadenze, si occupa di pannolini e omogeneizzati. È un lavoro di psicoterapia di emergenza. È così giovane da averte tutte le possibilità di rimettersi in carreggiata. Le abbiamo detto: sei tu che puoi dare tanto a queste mamme sole. Fa del bene alle mamme una donna per le donne”. A volte ritornano - Un’altra storia di messa alla prova che arriva dal progetto Sant’Erasmo fa sorridere. “È quella di un uomo che ha avuto tre mogli, non ha mai pagato gli alimenti e lo hanno denunciato”, racconta Nanina. “Si è dedicato ai lavori socialmente utili ripetutamente. Quando veniamo ricontattati ormai ci viene da sorridere… è lui che ci chiede: “se avete un posto…” È un omone grande e grosso, una forza lavoro non indifferente nella cura degli alberi. È un esperto nella cura del green. È uno di quelli che qualche volta ci ha dato la mano a prescindere dalla fine del primo percorso. È entrato in quel circuito mentale in cui donare agli altri aiuta se stessi”. La nostra grande ipocrisia sui diritti degli altri popoli di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 20 agosto 2021 Esportare la democrazia: si è fatta strada in Occidente la strana idea che la libertà, la dignità, la democrazia, forse dipendono dalla storia dei Paese, che insomma non sono valori universali. Tra le giustificazioni ascoltate in queste ore per cercare di non vergognarci della nostra condotta in Afghanistan, insieme stupida e vile, una merita l’oscar dell’ipocrisia. È quella secondo la quale sarebbe sciocco oltre che inutile tentare di “esportare la democrazia” in culture diverse dalla nostra. (Un discorso completamente diverso, anche se spesso furbescamente confuso con questo e quindi da tenere separato, è quello sui modi, giusti o sbagliati, con i quali lo si può fare). Su che cosa si debba intendere per democrazia si può discutere anni. Diciamo, tenendoci proprio ai minimi termini, che per democrazia intendiamo un governo che in qualche modo risponda ai governati e che riconosca e garantisca agli stessi, sia uomini che donne, un certo numero di diritti basilari di libertà (chiamiamoli pure diritti umani). Bene: oggi molti si affrettano a sostenere che un regime siffatto - che trae origine da un’evoluzione storica propria della cultura dell’Occidente - sia adatto per ciò solo alle popolazioni che condividono tale cultura, e che quindi esso non possa essere in alcun modo trapiantato dove tale cultura non ha mai allignato. Tuttavia questa affermazione perentoria solleva inevitabilmente una domanda: chi lo decide che le cose stanno davvero così? Chi decide circa la validità di questa sorta di legge bronzea dell’incompatibilità culturale? Il Congresso Mondiale degli Antropologi e degli Storici Riuniti? Chi? Sembrerebbe abbastanza ovvio che forse dovrebbero deciderlo gli interessati, cioè gli stessi appartenenti alla cultura “altra” rispetto alla nostra. Che dovrebbero essere loro a dire: “No grazie, la libertà di parola non c’interessa, e della garanzia di non essere prelevati nottetempo dalla polizia e magari fucilati senza processo facciamo volentieri a meno”. Peccato che invece a invocare l’argomento della incompatibilità culturale rispetto alla democrazia siano regolarmente non già gli eventuali diretti interessati ma solo e sempre coloro che sono arrivati a governarli, sebbene non abbiano ricevuto quasi mai, guarda caso, alcuna effettiva e credibile investitura. Ad arrogarsi il diritto di proclamare la legge bronzea dell’incompatibilità culturale, infatti, sono sempre e soltanto “le autorità”, le élite civili, militari, culturali o religiose, cioè quelli che in qualche modo comandano e dirigono e che come è ovvio hanno tutto l’interesse a continuare a farlo indisturbati. Naturalmente guardandosi bene dal chiedere l’opinione dei diretti interessati. È una vecchia storia che peraltro riguarda anche noi. Non è forse vero che anche qui in Europa al loro tempo i governanti fascisti e comunisti sostenevano che la marcia e corrotta democrazia liberale non era adatta ai loro rispettivi popoli, alla loro cultura, alle loro aspirazioni? In queste ore, dunque, una fitta schiera di occidentali molto sapienti e avveduti o di politici furbastri di tutti i colori ci ripetono quale sciocchezza sia stata la spedizione in Afghanistan, che pure ha avuto l’innegabile conseguenza di dare per qualche anno un po’di eguaglianza e di libertà a un certo numero di donne e di uomini di quel Paese. Mi chiedo però perché mai a nessuno degli acuti osservatori di cui sopra venga in mente che forse bisognerebbe chiedere anche a quelle donne e a quegli uomini se l’idea di andare a Kabul a “esportare la democrazia” fosse davvero così assurda e da scartare? La loro opinione è proprio così irrilevante? La verità è che c’è un solo argomento forte a favore dei sostenitori dell’incompatibilità culturale: la Storia. Ognuno se ne stia a casa sua, rassegnato e contento di ciò che il passato ha deciso per lui: quale cultura seguire, sotto quale legge, o religione o regime politico vivere. E dunque se in quel posto alle fanciulle si pratica da sempre l’infibulazione, o se da un’altra parte la sorte riservata agli omosessuali è l’impiccagione, o se da un’altra parte ancora si fanno marcire in galera gli oppositori politici, ma se tutto ciò avviene in omaggio a qualche tradizione, a qualche cultura o religione più o meno liberamente interpretata o manipolata, chi siamo noi occidentali per arrogarci il diritto di intervenire, di far valere i nostri princìpi sfidando il Passato e il Moloch della Storia? Ma davvero è questo ciò che pensano oggi i democratici italiani? E se realmente essi credono che non si debba né si possa esportare la democrazia, che solo noi possiamo godere di certi diritti, perché mai allora da anni si ostinano a chiedere ad esempio che l’Egitto rinunci alla sua “cultura” e si decida a far processare come si deve gli assassini di Giulio Regeni o a liberare il povero Patrik Zaki? Forse, immagino, perché pensano che in questo caso non si tratti per nulla della cultura degli egiziani ma semplicemente degli sporchi interessi del loro governo. Ma se è così, allora in chissà quanti altri Paesi del mondo capita la stessa cosa, e cioè che chi è senza potere, la gente comune, vorrebbe un po’ di habeas corpus e di diritti civili ma chi detiene il potere ha deciso altrimenti: e naturalmente lo fa sempre in nome della Cultura, della Storia, della Religione. Chissà in quanti altri Paesi: forse anche in Afghanistan… Ancora: perché mai i democratici di casa nostra, se davvero pensano che dobbiamo lasciare indisturbati i Paesi con una storia diversa da quella occidentale, non perdono però occasione di invocare continuamente le Nazioni Unite, le quali con tutta la sfilza delle loro carte e dichiarazioni sulle libertà e i diritti sono senza dubbio la più grande organizzazione mondiale per l’esportazione ideologica della democrazia? Perché? E tuttavia, si dice, è questione anche di modi: si può mai esportare la democrazia con la guerra? Può avere dei dubbi nel rispondere solo chi dimentica che da un paio di secoli proprio questo è successo innumerevoli volte. C’è una sola cosa sulla quale invece non si possono avere dubbi: ed è che se si fa una guerra del genere allora bisogna assolutamente vincerla, costi quel che costi. Ma questo, come si capisce, è un altro discorso. La retorica sui corridoi umanitari e i pericoli annessi di Salvatore Fachile* Il Manifesto, 20 agosto 2021 Dopo aver preso atto del disastro, si discute dei possibili rimedi e si evocano i corridoi umanitari, attribuendo loro significati e capacità di impatto molto diversi, spesso fantasiosi. Con il termine corridoi umanitari si intende indicare, almeno in Italia negli ultimi anni, quei progetti autorizzati dallo Stato e condotti da organizzazioni non governative o dall’Alto commissario Onu per i rifugiati (con il similare istituto del resettlement) con cui si è riuscito ad assicurare l’ingresso autorizzato in Italia di cittadini stranieri in fuga dal loro paese di origine e che si trovavano in gran parte in un paese di transito. Un istituto che investe alcune migliaia di persone che vengono scelte sulla base di criteri di opportunità, normalmente basate sul grado di vulnerabilità. Nel quadro di qualsiasi crisi, i corridoi umanitari non hanno mai preteso di rappresentare una soluzione ma neppure uno strumento di intervento che incida significativamente sulla dinamica complessiva. Rappresentano uno mezzo umanitario teso a fornire un importante aiuto a una nicchia ristrettissima di persone, che ovviamente non possono vantare alcun diritto in questo senso ma vengono selezionati dagli organizzatori stessi. Un atto caritatevole per pochi, non certo uno strumento tecnico o politico che possa influire seriamente in una crisi di enormi dimensioni come quella afghana. Di contro, però, rischia - come già accade - di essere strumentalizzato nella retorica pubblica, per concentrare l’attenzione su un punto minimale del tutto, per mistificare la realtà, fatta invece di un popolo bloccato che ha pochissime possibilità di sottrarsi alle persecuzioni e quasi nessuna di raggiungere l’Europa. Difficile uscire dall’Afghanistan ma soprattutto quasi impossibile attraversare le frontiere libiche e turche, che sono bloccate su mandato europeo. Se si ritiene che l’Italia e l’Europa abbiano un dovere di intervento, allora bisogna agire con strumenti finalizzati a garantire il diritto di movimento dei cittadini afghani e non solo con azioni laterali. Oppure si dichiari apertamente di non avere alcun dovere, di non aderire più alla visione universalista emersa dopo la seconda guerra, quantomeno non servirà più a giustificare interventi militari come quelli in Afghanistan. Da anni assistiamo all’umanesimo europeo che degrada inesorabile nell’intervento umanitario e sempre più scivola nella banalità dell’ipocrisia. *Asgi Afghanistan, la paura dell’Europa. Si rischia un’ondata di 250 mila profughi di Fabio Tonacci La Repubblica, 20 agosto 2021 I piani del Viminale per accogliere i collaboratori del nostro esercito e le loro famiglie in arrivo da Kabul. I Comuni: “Portateli da noi”. L’“effetto talebani” è appena agli inizi. “Con gli ultimi voli atterrati a Ciampino sono più di 500 gli afghani arrivati nel nostro Paese”, ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio al G7. “Il piano è trasferire circa 2.500 persone”. Ciò a cui stiamo assistendo in queste ore, conseguenza del ponte aereo tra Kabul e Roma organizzato da Difesa e Farnesina per mettere in salvo le famiglie di coloro che hanno collaborato con la missione italiana a Herat, può essere l’incipit di una devastante crisi umanitaria. Negli ultimi 25 anni, infatti, i grandi esodi del popolo afghano, in corrispondenza delle guerre civili e delle barbarie del regime oscurantista talebano, hanno portato in Europa ondate di 250.000 profughi. Una cifra che è ben presente agli analisti e a cui guardano con timore i governi dell’Unione. Adesso c’è la corsa, tra i sindaci, a offrire ospitalità. Milano, Roma, Bolzano, Napoli, Ferrara, Bari, Padova, Firenze, Bologna, San Giorgio a Cremano, Mazara del Vallo. Per una volta anche comuni della Lega si stanno offrendo. Appena scendono dai KC767 del Comando operativo di vertice interforze, gli evacuati da Kabul sono portati in una caserma a Roccaraso per i dieci giorni di quarantena. Poi il Viminale li sistemerà nei Cas, i Centri di accoglienza straordinari gestiti dalle prefetture. “I talebani, da quello che ho visto, non sono cambiati”, racconta un ufficiale della polizia afghana. “Uscito dal lavoro li ho visti sulle strade: dal loro atteggiamento ho subito capito che c’era una minaccia imminente alla mia vita e a quella della mia famiglia. Le successive 72 ore sono state un incubo. Il giorno dopo l’entrata dei talebani a Kabul, un gruppo armato si è presentato nel mio quartiere. Mi cercavano, perché lavoravo per il governo, avevano la mia foto in mano. A quel punto ho contattato le autorità italiane a Kabul”. I sindaci hanno chiesto al ministero dell’Interno di ampliare i posti Sai, i progetti di accoglienza sviluppati dai municipi ma finanziati dallo Stato. Una volta si chiamavano Sprar, garantiscono agli ospiti maggiore integrazione, la disponibilità di assistenti sociali e insegnanti di lingua, un aiuto per trovare la lavoro. “È il luogo migliore dove sistemarli”, sottolinea l’ex viceministro Matteo Mauri. “Sono soprattutto famiglie, con donne e bambini: devo avere strutture adeguate”. C’è una legge, la 141 del 2014, che definisce lo status di chi ha lavorato con la missione Isaf. Possono portare in Italia il coniuge, i figli e i parenti di primo grado, hanno diritto alla protezione internazionale e a stare per trentasei mesi nel sistema per richiedenti asilo e rifugiati. Ad oggi il nostro Paese accoglie 76.488 migranti, di cui 1.237 negli hotspot, 49.829 nei Cas e 25.422 nei Sai. Questi ultimi, secondo una ricognizione dell’Anci, hanno ancora 300 posti a disposizione per gli afghani. Ne servono di più. “Chiediamo al Viminale di aumentare i fondi per il sistema Sai, tanti comuni che si sono messi a disposizione”, dice il presidente Anci e sindaco di Bari Antonio Decaro. “Ogni giorno che passa diventa sempre più difficile voltarsi dall’altra parte”. La vera misura della solidarietà, però, si avrà se e quando frotte di richiedenti asilo dovessero sbarcare sulle coste o prendere la via di terra lungo la rotta dei Balcani. Prima della presa del potere dei talebani, i profughi afghani erano 2,9 milioni: 1,5 milioni si trovano nei campi in Pakistan, 800 mila sono in Iran. Dall’inizio dell’anno, quando l’avanzata degli studenti coranici si è fatta frenetica, in 500 mila hanno lasciato la propria casa e ora vivono in tende su territorio afghano. Circa 5.000 persone ogni giorno attraversano le due porte con il Pakistan, a Torkham e a Chaman, ma molti sono commercianti. “È prematuro fare previsioni su quanti si metteranno in cammino per l’Europa”, osserva la rappresentante dell’Unhcr Chiara Cardoletti. “Non sappiamo come i talebani si comporteranno con le donne e con chi ha collaborato con gli Occidentali. Lo capiremo solo nelle prossime settimane”. Gli affari armati dietro alla “guerra permanente” di Francesco Vignarca* e Giorgio Beretta** Il Manifesto, 20 agosto 2021 Boom in borsa e mega profitti per le aziende militari. L’offensiva sull’Afghanistan ha spianato la strada ai conflitti successivi e sdoganato l’uso dei contractors: tutti i dati degli ultimi 20 anni. La missione militare in Afghanistan è stata un fallimento. Ma non per tutti. Non lo è stata per chi la lanciato l’offensiva militare e l’ha sostenuta per 20 anni: il complesso militare-industriale americano e i suoi alleati. Partiamo dall’andamento in borsa. Secondo un’analisi condotta da The Intercept, l’acquisto di 10mila dollari in azioni equamente divise tra i principali fornitori militari del governo Usa (Boeing, Raytheon, Lockheed Martin, Northrop Grumman e General Dynamics) effettuato il 18 settembre 2001 - giorno dell’autorizzazione di George W. Bush all’intervento militare in risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre - varrebbe oggi, con utili reinvestiti, oltre 97mila dollari. Un rendimento dell’872%, ben superiore a quello realizzato nello stesso periodo dalle aziende del listino Standard & Poor’s 500 che si ferma al 516% (dai 10mila dollari iniziali se ne sarebbero ricavati “solo” 61mila). Il “boom” in borsa è sotto gli occhi di tutti: un’azione Lochkeed Martin (famosa in Italia per la produzione degli F-35) è passata da 44,6 a 356,6 dollari; una di Raytheon (la compagnia che inserisce le guide laser sulle bombe MK prodotte in Sardegna e poi usate dai sauditi in Yemen) valeva 30,8 dollari nel 2001 ed è ora quotata a 85,4. Lo stesso vale per Northrop Grumman (da 42,8 a 363,16) e General Dynamics (da 41,2 a 196,8). Queste quattro aziende ricevono la maggior parte delle loro entrate dal governo degli Stati uniti, ma la crescita è evidente anche per Boeing, con un portafoglio più differenziato anche sul civile, che ha sperimentato un balzo delle proprie azioni da 33,1 a 219 dollari. L’elemento chiave della profittabilità delle aziende del complesso militare-industriale non è principalmente legato alle loro performance azionarie che possono essere influenzate dai giochi di Borsa degli investitori o da scelte strutturali ed errori dei manager come avvenuto nel caso dell’italiana Leonardo/Finmeccanica che, a differenza delle aziende americane, ha più che dimezzato il proprio prezzo di listino. Il cuore del successo economico dei produttori di sistemi militari risiede invece nel “fatturato sicuro” e nella conseguente capacità di garantire dividendi sempre più alti, che contribuiscono per oltre un terzo del rendimento finale. La già citata Lockheed Martin garantiva un dividendo di 0,44 dollari ad azione nel 2001, mentre l’anno scorso ne ha distribuiti 9,80 (massimo storico). Raytheon è passata da 56 centesimi all’anno a oltre due dollari, mentre Northrop Grumman da 72 centesimi a ben 5,67 dollari all’anno per azione. Tutto questo grazie proprio al “fatturato sicuro” garantito anche dal conflitto in Afghanistan. Gli 83 miliardi di dollari investiti nelle forze afghane sono quasi il doppio del budget annuale per l’intero corpo dei marines e superano i fondi stanziati l’anno scorso da Washington per l’assistenza in buoni pasto a circa 40 milioni di americani. Ovviamente le aziende produttrici di armamenti non hanno venduto i propri prodotti solo ed esclusivamente per la guerra in Afghanistan. Ma proprio questo conflitto è alla base della crescita poderosa e inarrestabile delle spese militari mondiali, comprese quelle dedicate a nuove armi, dopo il calo post Guerra fredda. L’infinita “guerra al terrorismo”, emersa come mantra politico nelle relazioni internazionali dopo l’attacco alle Torri gemelle ha fornito agli Stati di tutto il mondo e alle lobby transnazionali degli armamenti il pretesto e la giustificazione politica per dedicare sempre più risorse e fondi a eserciti e armamenti. Lo testimoniano i dati del Sipri di Stoccolma, che evidenziano l’enorme crescita delle spese militari, quasi un raddoppio tra il 2001 e il 2020 (da 1.044 a 1.960 miliardi di dollari a valori costanti comparabili) con un trend in aumento che è destinato a rafforzarsi negli anni a venire. E che ha garantito in questi ultimi due decenni risorse e contratti facili ai produttori di armamenti. Non a caso i dati dello stesso Sipri relativi al fatturato militare delle prime quindici aziende del settore registrano un aumento complessivo del 30% tra il 2002 e il 2018 (ultimo dato disponibile): da 199 a 256 miliardi di dollari. Lockheed Martin è la compagnia che è riuscita ad approfittare maggiormente di questa congiuntura favorevole quasi raddoppiando il proprio fatturato militare (da 26,3 a 47,2 miliardi di dollari a valori costanti) seguita da General Dynamics (da 13,7 a 22 miliardi) e Raytheon (da 16,7 a 23,4 miliardi). In questo senso anche le aziende non statunitensi sono riuscite a seguire la scia di denaro aumentando di molto i propri ricavi armati: la britannica BAE Systems è passata da 18,2 a 21,2 miliardi di dollari mentre l’italiana Leonardo (in precedenza Finmeccanica) è passata da 6 a 9,8 miliardi di dollari. Il conflitto in Afghanistan ha dato il via a questa dinamica di profitto armato permettendo di giustificare costosi interventi internazionali e dispiegamenti di truppe fino a quel momento non previsti e comunque non tollerabili dalle opinioni pubbliche e dai parlamenti. Dopo il dispiegamento contro Kabul è stato più semplice intervenire militarmente in Iraq e in tutte le altre zone di tensione che vedono attualmente impegnati gli eserciti occidentali con nuovi armamenti, logistica e servizi. Ma c’è di più. Il conflitto afghano ha permesso anche di sdoganare l’utilizzo su ampia scala delle compagnie private non solo di natura militare, ma anche e soprattutto con funzioni logistiche e di ricostruzione. Il tutto iscritto però in un sistema impostato in modo da permettere ai cosiddetti contractors di frodare a piacimento il Pentagono che spesso firmava i cosiddetti accordi “costo zero”: qualunque fosse l’ammontare per un progetto presentato, il governo avrebbe pagato. Attirando dunque chiunque cercasse un profitto facile, ma con un prezzo alto: in Afghanistan sono morti più dipendenti di queste compagnie che soldati americani. Anche questo è servito a rendere sempre più “accettabile” la guerra ai decisori politici e ai portatori di interessi economici. *Rete italiana pace e disarmo **Osservatorio OPAL Nessuna lezione dalla catastrofe afghana di Manlio Dinucci Il Manifesto, 20 agosto 2021 Il “Washington Post”: “I presidenti Usa e i leader militari hanno fuorviato deliberatamente il pubblico sulla più lunga guerra americana, condotta in Afghanistan per 20 anni”. Nel discorso del 16 agosto alla Casa Bianca, il presidente Biden ha fatto una lapidaria dichiarazione: “La nostra missione in Afghanistan non ha mai avuto come scopo la costruzione di una nazione, non ha mai avuto come scopo la creazione di una democrazia unificata e centralizzata”. Una pietra tombale, messa dallo stesso presidente degli Stati uniti, sulla narrazione ufficiale che ha accompagnato per vent’anni la “missione in Afghanistan”, in cui anche l’Italia ha speso vite umane e denaro pubblico per miliardi di euro. “Il nostro unico interesse nazionale vitale in Afghanistan rimane oggi quello che è sempre stato: prevenire un attacco terroristico alla patria americana”, spiega Biden. Ma sulle sue parole getta ombra il Washington Post che, volendo svuotare il proprio armadio dagli scheletri delle fake news diffuse per vent’anni, titola: “I presidenti degli Stati Uniti e i leader militari hanno deliberatamente fuorviato il pubblico sulla più lunga guerra americana, condotta in Afghanistan per due decenni”. Il pubblico è stato “deliberatamente fuorviato” da quando, nell’ottobre 2001, gli Stati uniti, affiancati dalla Gran Bretagna, attaccavano e invadevano l’Afghanistan con la motivazione di dare la caccia a Osama bin Laden, perseguito come mandante dell’attacco terroristico dell’11 settembre (la cui versione ufficiale faceva acqua da tutte le parti). Reale scopo della guerra era l’occupazione di questo territorio di primaria importanza geostrategica, confinante con le tre repubbliche centrasiatiche ex sovietiche (Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan), l’Iran, il Pakistan e la Cina (la regione autonoma Xinjiang Uygur). Vi erano già in questo periodo forti segnali di un riavvicinamento tra Cina e Russia: il 17 luglio 2001, i presidenti Jang Zemin e Vladimir Putin avevano firmato il “Trattato di buon vicinato e amichevole cooperazione”, definito una “pietra miliare” nelle relazioni tra i due paesi. Washington considerava la nascente alleanza tra Cina e Russia una minaccia agli interessi statunitensi in Asia, nel momento critico in cui gli Stati uniti cercavano di occupare, prima di altri, il vuoto che la disgregazione dell’Unione sovietica aveva lasciato in Asia Centrale. “Esiste la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse”, avvertiva allora il Pentagono in un rapporto del 30 settembre 2001. Quale fosse la reale posta in gioco lo dimostrava il fatto che, nell’agosto 2003, la Nato sotto comando Usa assumeva con un colpo di mano “il ruolo di leadership dell’Isaf”, la “Forza internazionale di assistenza alla sicurezza” creata dalle Nazioni Unite nel dicembre 2001, senza che in quel momento avesse alcuna autorizzazione a farlo. Da quel momento oltre 50 paesi, membri e partner della Nato, partecipavano sotto comando Usa alla guerra in Afghanistan. Il bilancio politico-militare di questa guerra, che ha versato fiumi di sangue e bruciato enormi risorse, è catastrofico: centinaia di migliaia di morti tra i civili, provocati dalle operazioni belliche, più un numero inquantificabile di “morti indirette” per povertà e malattie causate dalla guerra. Solo gli Stati uniti - documenta il New York Times - vi hanno speso oltre 2.500 miliardi di dollari. Per addestrare e armare 300 mila soldati governativi, sbandatisi in pochi giorni di fronte all’avanzata talebana, sono stati spesi dagli Usa circa 90 miliardi. Circa 55 miliardi per la “ricostruzione” sono stati in gran parte sprecati a causa della corruzione e inefficienza, Oltre 10 miliardi di dollari, investiti in operazioni anti-droga, hanno avuto come risultato che la superficie coltivata ad oppio è quadruplicata, tanto che l’Afghanistan fornisce oggi l’80% dell’oppio prodotto illegalmente nel mondo. Emblematica è la storia di Ashraf Ghani, il presidente fuggito in un esilio dorato. Formatosi all’Università Americana a Beirut, faceva carriera alle università Columbia, Berkeley, Harvard e Johns Hopkins negli Usa e alla Banca Mondiale a Washington. Nel 2004, in veste di ministro delle finanze, otteneva dai paesi “donatori”, tra cui l’Italia, un “pacchetto di assistenza” di 27,5 miliardi di dollari. Nel 2014, in un Paese in guerra sotto occupazione Usa/Nato, veniva nominato presidente ufficialmente col 55% dei voti. Nel 2015 il presidente Mattarella lo riceveva con tutti gli onori al Quirinale, insieme alla ministra della Difesa Pinotti che lo aveva incontrato un anno prima a Kabul. Questa catastrofica esperienza si aggiunge a quelle che l’Italia ha già vissuto per aver partecipato, violando la propria Costituzione, alle guerre Nato dai Balcani al Medioriente e al Nordafrica. Nessuna lezione ne viene però tratta dalle forze politiche che siedono in parlamento. Mentre a Washington lo stesso Presidente demolisce il castello di menzogne sugli “alti scopi umanitari”, con cui è stata motivata la partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan, a Roma, come nel romanzo 1984 di Orwell, si cancella la storia. L’incubo dell’effetto domino, in Sahel una seconda Kabul di Domenico Quirico La Stampa, 20 agosto 2021 L’amnesia collettiva delle nazioni è qualcosa di diverso dal dimenticare dei singoli, è un tacito accordo a non ricordare errori e vergogna. Allora prepariamoci ad altre ritirate. Kabul un caso unico? Niente affatto. Un secondo Afghanistan è già imbandito, trascinato anche questo dall’imperativo categorico della lotta al terrorismo e dal misero fallimento delle sue soluzioni semplicistiche, ricorso alle armi e appello alle anime. per evitare l’esportazione dell’estremismo dinamitardo nelle nostre tranquille democrazie, aggirando la necessaria fatica di rimettersi in questione, di dire la verità, torniamo al filtro magico: bugie e giochetti di prestigio fatti di droni, forze più o meno speciali, fondi per lo sviluppo ma dei complici locali, ignoranza, scarsa preparazione morale, rovina di una classe dirigente. Anche stavolta, come a Kabul, sono schierati gli italiani, a rimorchio di un’altra potenza in declino, la Francia. Poichè non si può resuscitare il passato a Parigi si è condannati a ricostruirlo esibendo materiali eterogenei e in cui si cerca la propria eternità. Teatro della prossima ritirata il Sahel. La ambigua natura della presenza francese in quelle eterne colonie, sfruttamento economico e geopolitico e contrasto ai califfati islamisti, è causa di imbarazzo. Allora si riduce l’una all’altra, si forgia un bersaglio unico: la lotta ai fanatici del jihad e come rafforzativo la migrazione ovviamente clandestina. La mobilitazione morale così si riduce alla mobilitazione militare. Non vi ricorda Kabul, la caccia a Ben Laden diventata la liberazione degli afgani dall’oscurantismo? Ricapitoliamo: siamo appostati lungo linee di frattura, frontiere arbitrarie e fatali disegnate dai francesi secondo logiche del ‘‘divide et impera’’. Ficcate come in un sacco si aggiungano la corruzione tollerata di proconsoli obbedienti incaricati di amministrare fedelmente la ditta coloniale, convulse e sanguinose risse etniche e religiose, neri e arabi, tuareg agricoltori, nomadi. Il califfato africano così lussureggia, scende verso sud, graffia ormai il golfo di Guinea. La Francia ammonticchia operazioni su operazioni, la Legione marcia e contromarcia bombarda occupa si ritira rioccupa. Arruola mercenari locali, in nome della sicurezza collettiva ovviamente, che si dedicano al saccheggio delle popolazioni che dovrebbero difendere. Anche qui si fa il conto dei nemici abbattuti, come collezionisti maniaci. Inutilmente. Guerra persa. I talebani locali hanno sette vite, sono diventati parte del Sahel. Nessuno credeva sarebbe accaduto. Sembra accaduto per caso, per un errore di calcolo. una guerra è andata avanti per anni a torbida, senza convinzione, con il sentimento della sua inutilità. Le popolazioni, la società civile, persino i governi si ribellano: invocano ormai apertamente il ritiro dei francesi. Per poter trattare, loro, direttamente con i jihadisti. Potrebbero scambiare le loro esperienze con gli afgani: di giorno bombardati dai francesi, e angariati dai loro trucidi alleati con l’accusa di collaborazionismo. di notte sottoposte alle vendette delle milizie di Al Qaida e dell’Isis che li accusano invece di essere renitenti alla guerra santa. La soluzione militare contro i talebani del Sahel è fallita come in Afghanistan. Bilanci che si assomigliano: due miliardi di euro gettati via ogni anno dal 2013, due milioni di rifugiati e profughi, migliaia di morti civili, Stati in frantumi, bassezze compiute come se fossero eroismi, milizie locali che si incaricano della autodifesa e saldano vecchi conti con comunità nemiche fornendo reclute ai terroristi. La Francia per condividere i guai e diminuire la spesa invoca che la lotta al terrorismo diventi europea. Ora gli alleati fanno comodo. La mediocrazia dell’Unione si accoda, aderisce anche l’Italia che, tra sbadigli e indifferenza, spedisce soldati in Niger. Dove le popolazioni considerano i soldati stranieri una disgrazia. Non siamo certo noi occidentali dei maniaci o dei mostri, ma i nostri droni bombardano e abbiamo armi letali per eliminare i terroristi. La gente nel Sahel, come gli afgani, soccombe per errore, talvolta perché deve, pena la vita, ospitare i jihadisti. Sente da anni la guerra e la strage vicina, ha dimenticato la pace. nelle accademie militari si suggeriva di conquistare, oltre ai territori, anche le menti e i cuori. Bene. Ma non si deve dimenticare che sono sempre racchiusi in un corpo. Bielorussia. “Si fugge dal Paese, per non essere incarcerate, picchiate, stuprate” La Repubblica, 20 agosto 2021 Il libro-testimonianza scritto da Laura Boldrini e Lia Quartapelle, con la prefazione di Anna Zafesova, con un testo di Giulia Lami e gli interventi di Ekaterina Ziuziuk e Riccardo Noury. Il 9 agosto dell’anno scorso, appresi i risultati delle elezioni presidenziali, frutto di brogli e intimidazioni, una mobilitazione mai vista si riversa nelle piazze per protestare contro la conferma a presidente della Bielorussia di Aleksandr Lukashenko, da 26 anni al potere. Le autorità di Minsk danno vita a una massiccia campagna di arresti nei confronti di migliaia di manifestanti pacifici, cui seguono torture nei centri di detenzione della capitale e di altre città del Paese. Sia Laura Boldrini (ex Presidente della Camera e deputata di “Liberi e Uguali) che Lia Quartapelle (deputata, membro della Commissione Esteri della Camera dove fa parte dell’Ufficio di presidenza ed è capogruppo per il PD) solidarizzano immediatamente col movimento di protesta, il cui epicentro è l’attivismo delle donne: vanno a Vilnius per incontrare la leader dell’opposizione, Svetlana Tikhanovskaya, poi tornano in Italia per raccontare il loro viaggio e fondano un comitato di solidarietà, che intende sostenere il processo democratico raccogliendo intorno a sé l’attenzione dei movimenti per i diritti umani e che coinvolge da subito la diaspora bielorussa in Italia. Le pagine del libro. A distanza di un anno da quegli avvenimenti, il libro da loro scritto vuole fare il punto della situazione, rendere omaggio alla straordinaria prova di coraggio delle piazze bielorusse, in modo particolare delle donne, e raccontare la recente storia di un Paese di cui si conosce poco. “Una rivoluzione popolare, che oggi viene repressa con una brutalità che in Europa non si era vista dal 1968, dai carri armati russi a Praga. Le ragazze di Minsk che tanto avevano entusiasmato i fotografi oggi sono in carcere […] oppure sono scappate dal loro Paese, per paura di venire incarcerate, picchiate, stuprate”. “Si arrestano le persone per una parola sbagliata”. “L’Ucraina, la Polonia e la Lituania sono piene di esuli - si legge nellepagine del libro - migliaia di persone che hanno scelto la fuga, spesso all’ultimo momento prima dell’arresto, di fronte al dilemma atroce se rischiare la libertà o mettersi in salvo e lasciare come ostaggi al regime parenti e amici. Le denunce di torture - per far confessare, per rivelare i nomi di altri attivisti, per puro sadismo - sono centinaia: manganelli, elettroshock, soffocamenti e le morti sospette in cella sono casi su cui nessuno indaga, nonostante alle famiglie vengano restituiti corpi con evidenti segni di traumi. Si viene arrestati per una parola sbagliata, un colore dei calzini (bianco-rosso) sgradito, per un post su Telegram”. (Anna Zafesova). Arabia Saudita. Le illusioni di riforma e il vero volto del regime di Alessandro Perelli avantionline.it, 20 agosto 2021 Non sappiamo bene cosa abbia spinto Matteo Renzi a parlare di “nuovo rinascimento” per quello che sta accadendo in Arabia Saudita. Forse il fatto che Ryad abbia presieduto il G20 lo scorso anno e che lui sia stato invitato dal principe ereditario Mohammed bin Salman a tenere un intervento nel quale ha lodato i progressi economici e tecnologici compiuti dal Paese, gli hanno fatto dimenticare i continui soprusi nei confronti dei diritti umani che vi vengono compiuti. Non convince l’immagine di rinnovamento presentata dal principe ereditario con quanto si continua a fare nel Paese arabo contro gli elementari diritti civili e di libertà. Il volto autoritario e violento del regime saudita lo si era ben conosciuto tre anni fa quando a Istanbul i sicari trasportati colà dagli aerei della compagnia di stato, avevano torturato e ucciso il giornalista Jamal Khashogi. Si era parlato della complicità indiretta di Mohammed bin Salman, che però aveva evitato l’incriminazione. Ma la repressione degli avversari politici continua ininterrottamente. Almeno quaranta persone sono state giustiziare nei primi sei mesi di quest’anno, le carceri sono pieni di oppositori che vengono torturati alla scopo di estorcere loro confessioni forzate. Lo denuncia Amnesty International, da tempo impegnata per l’abolizione della pena capitale fornendo testimonianze di quanto accade nelle carceri. Le accuse che le autorità saudite imputano a coloro che arrestano sono di “attentare alla coesione sociale e indebolire l’unità nazionale” impedendo cioè l’esercizio della libera espressione e instaurando un clima di terrore in coloro che osano pronunciarsi o manifestare contro il regime. Anche quelli che dopo mesi di carcere vengono rilasciati devono impegnarsi a non parlare in pubblico, a non proseguire la loro attività propagandistico e a non utilizzare i social media. Non parliamo dei diritti delle donne. Anche qui le deboli aperture di Mohammed bin Salman non riescono a nascondersi la realtà di una condizione che rimane inaccettabile. Nel Paese funzionano tuttora le case di detenzione e rieducazione per quelle donne accusate di comportamenti non adeguati e favorevoli a una parità di genere che il regime saudita continua a ignorare. Le illusioni di riforma promesse si sono rivelate inconsistenti e dichiarate probabilmente solo allo scopo di migliorare le relazioni internazionali. Gli sostanzialmente buoni rapporti di Riad con gli Usa, Israele e mondo occidentale non devono essere la scusante per chiudere gli occhi di fronte di fronte alle continue violazioni dei diritti perpetrate. I mega progetti in fase di realizzazione come la città verde e sostenibile di Alula che hanno attirato l’attenzione di Matteo Renzi nel corso della sua recente visita in Arabia Saudita, i progressi tecnologici che lo hanno visto anche consulente del principe ereditario Mohammed bin Salman, non possono mascherare e rendere accettabile lo spregio dei più elementari diritti e dei valori di democrazia e libertà sui quali si basa l’Unione Europea e che vengono continuamente calpestati. Recentemente tre donne attiviste per i diritti umani dopo tre anni di carcere per il loro “reato” ideologico sono state scarcerate, ma non possono andare all’estero e vivono nel terrore di essere nuovamente messe in prigione perché la loro pena è stata solo sospesa.