Carcere, sono necessari i numeri identificativi per gli agenti di Samuele Ciambriello Il Domani, 1 agosto 2021 Di solito, quando si parla di carcere tutto risulta molto prevedibile, anche parlare di queste vite di scarto, dei silenzi di Stato, dei pestaggi e dei depistaggi. Sui fatti di Santa Maria Capua Vetere, dei quattordici morti tra i detenuti durante le rivolte, tutti morti per overdose da metadone, così recita la documentazione ufficiale del Ministero della Giustizia siamo un po’ meno omertosi. Insomma il potere dei simboli e il delitto politico. Mostrificare gli uni per assolvere gli altri, ovvero se stessi, lo Stato nelle carceri disumane, i suoi registi e i suoi manovali. E menomale che i filmati della mattanza di Santa Maria Capua Vetere suscitano ancora profondo turbamento, grande preoccupazione e indignazione. Dai filmati della mattanza, dall’ordinanza della magistratura sappiamo anche che, tra i 283 che commettevano episodi criminosi ai danni dei detenuti di S. Maria Capua Vetere, uno solo ha cercato di frapporsi e di limitare le violenze sui diversamente liberi. Una percentuale che dovrebbe preoccupare seriamente tutti i cittadini e le istituzioni ai vari livelli. Provo rammarico, amarezza nel vedere agenti che commettono un reato e non sono perseguibili perché protetti da caschi, perché sulle divise non hanno un numero di identificazione. Sperando, contro ogni speranza, mi auguro che prima o poi si arrivi a questa identificazione. Ma perché non iniziamo almeno a mettere i numeri di identificazione sui caschi, in questo caso degli agenti penitenziari ma più in generale sui caschi di tutte le forze dell’ordine? Eppure ci sono politici e qualche giornale che continuano a difendere l’indifendibile, distratti e omertosi a un anno dai fatti che io ho denunciato. Amnesie e rimozioni anche di fronte all’inchiesta della procura, ai video, alle chat degli indagati. Noi Garanti svolgiamo un ruolo di terzietà, siamo osservatori, svolgiamo un compito di supporto, controllo, stimolo, denuncia. Siamo capaci di uno sguardo multiplo e riassuntivo, di ascolto e condivisone. Eppure contro di me è già partita da un anno la virulenta campagna di attacco e delegittimazione di alcuni sindacati di polizia penitenziaria. Sarebbe, tuttavia, sbagliato prendere spunto da questa drammatica vicenda casertana per formulare giudizi di generalizzata censura nei confronti dell’intero corpo della polizia penitenziaria. Ecco il carcere non può essere per la politica una risposta semplice a bisogni complessi. Occorre decarcerizzare e depenalizzare. Il carcere, e la giustizia in generale, non può diventare una questione di schieramenti, di appartenenze e tifoserie. “Pestaggi in carcere, necessari i numeri identificativi sui caschi degli agenti” di Antonio Averaimo Avvenire, 1 agosto 2021 È grazie alle denunce da lui raccolte che è potuta emergere la verità sul pestaggio avvenuto il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, ora si sta battendo per ottenere un altro risultato: riportare in Campania i 42 detenuti del carcere casertano trasferiti in altre 23 carceri del resto d’Italia. Un provvedimento che fu sollecitato dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere al fine di evitare ritorsioni nei confronti di coloro che avevano denunciato il pestaggio subito, insieme agli altri ospiti del reparto Nilo, di cui si rese responsabile un centinaio di agenti di Polizia penitenziaria. “Nei giorni scorsi sono stato a Roma per incontrare il capo del Dap, Petralia - racconta il Garante dei detenuti della Campania. Gli ho fatto presente che non è comprensibile che i detenuti siano stati mandati a centinaia di chilometri da casa. Questo non vuol dire tutelarli. I detenuti denuncianti potevano essere benissimo trasferiti nelle regioni vicine alla Campania o in altre carceri della regione. Dov’è la territorialità della pena?”. Ora i 42 detenuti potranno fare domanda di trasferimento in carceri più vicine alla Campania, ma non nella propria regione. L’altro pallino del Garante dei detenuti della Campania è la composizione della commissione ispettiva istituita dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per indagare sulla condotta della catena di comando del carcere casertano nel corso della rivolta del 5 aprile e del pestaggio del giorno successivo. “La questione si potrebbe sintetizzare con la seguente domanda: chi controlla i controllori? - chiede Ciambriello. Se questa commissione deve far luce sulle presunte omissioni che ci furono fra i vertici del carcere, allora perché manca un magistrato di sorveglianza, un garante dei detenuti o un rappresentante di un’associazione (penso ad esempio ad Antigone)? Tra chi dovrà indagare ci sono solo figure interne al ministero”. Alla luce di quanto è accaduto l’anno scorso nel carcere di Santa Maria e di altri 16 episodi analoghi su cui indagano altrettante procure italiane, Ciambriello chiede “numeri identificativi sui caschi. Le telecamere di sorveglianza non bastano - osserva il garante dei detenuti della Campania Questo è ciò che mi auguro. E non diciamo, come si sta già facendo: “Non si può fare”. Alcuni fra gli autori del pestaggio avvenuto il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria non sono stati identificati proprio perché indossavano il casco. Ancora non sappiamo, per esempio, chi si rese responsabile del pestaggio che ha destato più clamore, ovvero quello di un detenuto costretto sulla sedia a rotelle”. Ciambriello ricorda che “il carcere di Santa Maria, inaugurato 25 anni fa e costruito a due passi da un impianto di trattamento dei rifiuti, è ancora privo di condotta idrica. Ogni giorno devono arrivano autobotti e bottiglie d’acqua per i detenuti. Solo ora saranno attivati i fondi per la costruzione della condotta idrica del carcere, che furono stanziati già tre anni fa. Curioso peraltro che ai reparti del carcere siano stati dati i nomi di fiumi famosi di tutto il mondo: una presa per i fondelli?”. La giustizia che interessa agli italiani di Massimo Giannini La Stampa, 1 agosto 2021 Non sono un magistrato. Non sono un giurista. Ho una laurea in giurisprudenza, ho fatto una tesi in diritto costituzionale, per qualche tempo ho fatto l’assistente volontario alla Sapienza. Ma non serve essere Salvatore Satta o Costantino Mortati, per capire che la riforma della giustizia penale appena varata dal governo Draghi coglie un’opportunità ma non scioglie le criticità. È vero, aspettiamo dalla notte dei tempi una dignitosa riscrittura delle regole, che realizzi davvero il dettato della Costituzione: il diritto ad ottenere giustizia, con un processo giusto nella forma e ragionevole nella durata. Alle spalle abbiamo quella che impropriamente si continua a definire la “guerra dei trent’anni”: come se Mani Pulite, pur con i suoi eccessi, fosse stata solo una “Intentona” delle toghe rosse per liquidare la vecchia partitocrazia, e non invece l’ovvia conseguenza di una Tangentopoli che quel sistema aveva costruito per blindarsi al potere. Di fronte abbiamo un ordine giudiziario pieno di eroi operosi e silenziosi, ma anche infestato dai serpenti e delegittimato dalle correnti: le procure svilite a corti di Bisanzio, le cene di Palamara e i dossier di Amara, gli errori giudiziari e i detenuti in attesa di giudizio. Tutto questo è incontestabile. E rende imprescindibile “una” riforma. Ma spiace dirlo: non “questa” riforma, ambiziosa ma discutibile. Anche dopo le ultime modifiche apportate dal Consiglio dei ministri. Le “criticità” del testo sono evidenti. Se i “garantisti” in servizio permanente effettivo non vogliono credere ai togati “giustizialisti” come Gratteri e Musolino, ascoltino un grande giurista come Vladimiro Zagrebelsky. La ministra della Giustizia sostiene che “dopo un reato è fondamentale accertare tutti i fatti e tutte le responsabilità e farlo in tempi certi. Nell’interesse delle vittime, degli imputati, di tutti i cittadini”. Ma la domanda è proprio questa: la formula dell’improcedibilità, fissata in modo categorico dopo due anni in appello e dopo un anno in Cassazione, risponde davvero a questa esigenza? Purtroppo no. Lasciamo stare i processi per mafia, terrorismo, droga e quelli per delitti puniti con l’ergastolo: se anche per queste fattispecie gravissime scattasse comunque la tagliola dell’improcedibilità saremmo davvero al “de profundis” della Costituzione. La possibilità di proroghe motivate, rinnovabili e impugnabili, prevista in questi casi estremi con le modifiche apportate dall’ultimo Cdm, è davvero il minimo sindacale per uno “Stato di diritto”. Ma cosa succede ai processi per altri reati, esclusi dall’elenco delle deroghe aggiunte dopo le febbrili trattative tra governo e maggioranza? Per definizione, quando si stila un elenco si include e al tempo stesso si esclude. Nessuno scandalo: semplicemente, l’esecutivo fa una scelta politica su cosa debba rientrare e cosa debba star fuori. Ora è un fatto oggettivo, non smentito, che se questa riforma fosse già in vigore sarebbero esclusi dall’elenco delle deroghe, e dunque finirebbero nel “nulla improcedibile”, processi come la strage di Viareggio, la tragedia della funivia del Mottarone, l’omicidio in carcere di Stefano Cucchi, i morti sul lavoro. Cosa resta, in questi casi, dell’”interesse delle vittime” di cui parla giustamente la Cartabia e di cui riempiamo sdegnati le prime pagine dei giornali, ogni volta che processi di questa portata cadono in prescrizione? Accorciare i tempi, per evitarlo, è sacrosanto. Ma l’improcedibilità è la soluzione migliore? Non lo è, con buona pace della Guardasigilli che obietta: “I termini che abbiamo messo sono raggiungibilissimi alla luce dei dati statistici”. I numeri del suo dicastero dicono altro: i procedimenti pendenti nelle Corti d’appello che non rispettano i due anni stabiliti dalla riforma sono quasi 190 mila, e pesano per il 75% del totale. Si va da un “massimo” a Napoli (2.031 giorni) a un “minimo” a Firenze (745 giorni). Come impatterà la tagliola, in questi distretti? Qualche dubbio deve averlo avuto lei stessa, visto che per le nuove norme ha introdotto un “regime transitorio” monstre di tre anni. Poi certo, c’è “l’opportunità”, che è altrettanto evidente. Si chiama Next Generation Eu. I primi 25 miliardi sono in arrivo. Poi arriveranno gli altri 180, se faremo davvero le riforme. La giustizia è la prima sulla quale il premier si è impegnato con Bruxelles. Per questo ha annunciato subito la fiducia sul maxi-emendamento e lo vuole al traguardo prima delle ferie d’agosto. Tutto legittimo. Purché, anche qui, si dica la verità. La priorità degli interventi per noi è scritta nel Recovery Plan, a pagina 51: “Nelle “Country Specific Recommendations” indirizzate al nostro Paese negli anni 2019 e 2020 la Commissione Ue… invita l’Italia ad aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile”. Perché una giustizia civile più efficiente spinge il Pil dello 0,5% l’anno, rende “i mercati più contendibili”, riduce “l’incertezza sui rendimenti di capitale”, migliora il “finanziamento per famiglie e imprese”, stimola “investimenti interni e dall’estero”. Di penale, nel Recovery tricolore, si parla in tutt’altro senso: la Commissione invita l’Italia “a favorire la repressione della corruzione, anche attraverso una minore durata dei procedimenti penali”. Tutto qui. Naturalmente nessuno si sogna di dire per questo che un intervento sul penale non serve. Al contrario: è urgente, per i motivi che ho spiegato. Ma quello che dobbiamo invece dire è che la clausola del “ce lo chiede l’Europa” in questo caso non funziona. L’Europa, qui ed ora, ci chiede altro (la riforma del civile). E questo “altro” Draghi e Cartabia lo hanno posposto. Anche questo è legittimo: si tratta, di nuovo, di una scelta politica. Come sostiene il commissario Paolo Gentiloni, nell’intervista che pubblichiamo oggi, le polemiche ci sono sempre, ora “l’importante è “guardare avanti”. Ma è un punto delicato, che va spiegato all’opinione pubblica. Siamo tutti d’accordo, Mister Draghi è una benedizione per l’Italia, perché è credibile nel mondo e perché “rompe le noci più dure” (copyright New York Times). Ma non per questo bisogna accettare acriticamente tutto quello che fa il suo governo. Diversamente, passa l’idea sbagliata del solito “ricatto tecnocratico” (che già funzionò tra i 2008 e il 2011, all’epoca della crisi dei debiti sovrani): per incassare i fondi europei dobbiamo offrire in cambio riforme purchessia. Non importa se buone e giuste. Invece, per noi cittadini, questa è l’unica cosa che conta. Tutto il resto è chiacchiera politica, compresa la rituale contabilità dei vincitori e dei vinti. Sul campo di battaglia ognuno ha piantato la sua “bandierina identitaria”. Draghi ha vinto perché ha imposto la linea (mentre è chiaro che cedendo ai 5S ha stabilito un precedente pericoloso in vista del semestre bianco). Conte ha vinto perché ha tenuto il punto sulla prescrizione (mentre è chiaro che la Supernova grillina è ormai implosa, la coesistenza con Di Maio è difficile e la coabitazione nell’esecutivo di unità nazionale è scomoda). Salvini ha vinto perché ha cancellato la legge Bonafede (mentre è chiaro che senza la mediazione di Giorgetti il risultato non sarebbe arrivato). Cartabia ha vinto perché ancora una volta ha prevalso il suo “metodo” (mentre è chiaro che la sua corsa al Colle è diventata più impervia). Forse ha vinto pure Renzi, per motivi che ora ci sfuggono ma un giorno capiremo. Va tutto bene. Purché tra qualche anno non scopriamo che gli unici a perdere sono stati gli italiani. Perché questa riforma è una sfida per tutti di Carlo Bonini La Repubblica, 1 agosto 2021 Se si ha voglia di sottrarsi al mortifero abbraccio tra chi teorizza che a Palazzo Chigi le organizzazioni mafiose abbiano una loro quinta colonna, o, peggio, un Attila del principio di legalità e di uguaglianza di fronte alla legge, e chi, specularmente, non coltiva altra ambizione di riforma del processo penale che non una resa dei conti promessa da vent’anni che la riduca a impotente simulacro del ruolo che la Costituzione le affida, si deve guardare con un qualche ottimismo e coraggio al voto con cui la Camera si prepara a licenziare le modifiche del processo penale. Sono figlie del compromesso raggiunto giovedì scorso dalla maggioranza di governo (accogliamo l’invito della ministra Cartabia a non intestarle più ciò che, con tutta evidenza, è la risultante di una mediazione tra i molti attori, politici e non, di questo percorso). Come ogni riforma, è perfettibile. Non fosse altro perché nessuna norma è incisa nella pietra, a meno di non coltivare un’idea primitiva del diritto. E il tempo, la sua applicazione, aiuterà a renderla tale. Magari e innanzitutto con il contributo resiliente (e non estemporaneo) della magistratura, del suo organo di autogoverno, il Csm, e associativo, l’Anm. Ma l’argomento per cui con questo intervento su alcuni istituti del processo penale (non la sola prescrizione) si stia recuperando la stagione delle leggi ad personam, o, peggio, disapplicando i principi costituzionali a presidio della funzione giurisdizionale, garantendo impunità ai forti (intendendo tali il potere nelle sue diverse configurazioni e declinazioni) è una mistificazione. E per comprenderlo è sufficiente recuperare un lacerto del dibattito che, un lustro fa, attraversò la magistratura italiana, proprio sul tema ricorrente della riforma della prescrizione (in quel caso, solo su quella). Ebbene, in quel frangente - correva il 2016 - uno dei padri storici della corrente di sinistra e progressista Magistratura Democratica, Nello Rossi - non esattamente un barboncino al guinzaglio dei Poteri forti o un lacchè a gettone - così si esprimeva: “La prescrizione è un istituto di segno liberale che offre una fondamentale garanzia. Fatta eccezione per i reati gravissimi, che sono imprescrittibili, la pretesa dello Stato di sottoporre a processo penale la persona accusata di un reato non può protrarsi all’infinito. Dev’esserci un limite al di là del quale si rinuncia a processare e a punire perché “è passato troppo tempo”. Altrimenti il processo finisce per rassomigliare alla mitica spada di Damocle che pende a tempo indefinito sulla testa dell’imputato, appesa al filo di un potere perennemente minaccioso ma inerte”. “Un potere minaccioso ma inerte”. Ecco il punto. Questa riforma che, lo ripetiamo, il tempo e la sua applicazione aiuteranno a migliorare, scardina l’idea securitaria del potere dello Stato “minaccioso ma inerte”. Capace di violare, in un colpo solo, potenzialmente sine die, i diritti di tutti. Delle vittime a ottenere giustizia, degli imputati a un giusto processo, della collettività a sapere. Naturalmente, questo ha un costo. Perché impegna tutti gli attori a gettare la comoda maschera che ne protegge il cinismo e l’ipocrisia da almeno trent’anni. Lo Stato dovrà non solo mantenere ora, e nel tempo, gli impegni di spesa necessari a portare la durata media dei nostri processi nell’alveo della media europea, ma anche a far somigliare a quelli europei gli organici della nostra magistratura, quelli dei suoi uffici e l’edilizia giudiziaria. La magistratura italiana, ammesso non sia troppo tardi, dovrà misurarsi culturalmente e nei fatti con l’idea che il modello di processo accusatorio abbracciato trent’anni fa dal nostro Paese e deturpato da continui interventi legislativi (non sempre sollecitati dalla politica) non è, né può essere, un’ordalia. Che, in quel modello, una querela per diffamazione non può richiedere sei mesi di indagini preliminari. Che nel tempo dell’immediatezza, una parola di giustizia, quale che sia, non può arrivare dopo 15 anni. Che la cultura dell’inquisizione non è affatto la risultante o peggio il fondamento dell’obbligatorietà dell’azione penale, dell’indipendenza della magistratura. E che pretendere che per scrivere le motivazioni di una sentenza ci si attenda il rispetto di un tempo già ora per legge superiore di un terzo a quello che richiese a Stendhal “La certosa di Parma” (52 giorni) non è un attentato alla autonomia del giudice. L’avvocatura dovrà dimostrare che la richiesta di un processo giusto e dai tempi ragionevoli non sia la consacrazione dell’arte che, oggi, premia agli occhi dei clienti molti professionisti. Quella di tirarla alle lunghe, perché il processo muoia. Che ci si difende nel processo e non dal processo. E che, anche per loro, vale la sfida di un processo compiutamente accusatorio, dove il dibattimento è il luogo di formazione della prova e dove non si può dunque immaginare che ogni stato e grado del procedimento, dall’udienza preliminare, alla fase cautelare, ai giudizi di appello e Cassazione vedano una ricerca costante di celebrazione ex novo del giudizio. È, appunto, una sfida che riguarda tutti. Certamente più faticosa dell’invettiva. Non fosse altro perché richiede una qualche coerenza di comportamenti e resilienza negli sforzi. Non esattamente una specialità del Paese. La cui classe dirigente, per altro, avendo smarrito da tempo l’alfabeto della politica, ne conosce ormai uno soltanto, adottato per pigrizia e irresponsabilità (salvo poi dire che la magistratura fa politica). Il codice penale. Con il risultato di aver schiacciato drammaticamente l’una sull’altra, fino a renderle sinonimi, responsabilità politica e responsabilità penale. Per questo, un’urgente riforma della giustizia è da trent’anni una guerra di religione. La giustizia per Draghi? Una catena di montaggio di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 1 agosto 2021 Ammesso che sia consentito - almeno ogni tanto - scherzare non solo coi fanti ma anche coi santi, provo a dire che Mario Draghi e Marta Cartabia rischiano di sembrare una specie di… appropriazione indebita del mito di Creso. Nel senso che a forza di essere incensati e santificati talora anche “a prescindere”, molti possono essere indotti a pensare che ogni loro intervento sia oro, cioè risolutivo, sempre “a prescindere”. Anche quando i risultati siano soltanto ipotetici. È quel che per certi profili sta succedendo con la riforma della Giustizia. La riforma Draghi-Cartabia è ancora un cantiere aperto e la strada per tradurla in cifra operativa è lunghissima. Al momento, quindi, si possono formulare soltanto valutazioni di massima. Ma per qualche ottimista tutto è già decisamente cambiato e sicuramente in meglio. Tralasciando gli atti di fede, va detto che la Draghi-Cartabia si propone gli stessi obiettivi deflattivi di qualunque altro progetto di riforma: ridurre il carico giudiziario; ridurre il numero dei dibattimenti ampliando l’accesso alle procedure speciali, tipo patteggiamento; ridurre le impugnazioni. Per quanto è dato sapere, a cantiere - ripeto - ancora aperto, il percorso deflattivo non è incisivo come ci si aspetterebbe, ma talora piuttosto cauto e incerto. Al punto che alcune proposte, assai interessanti e innovative, della Commissione di studio istituita ad hoc proprio dalla ministra Cartabia (presidente Giorgio Lattanzi) sono state rifiutate. In ogni caso, c’è una quantità massiccia di fascicoli che letteralmente soffocano gli uffici giudiziari e che sarebbe utile depenalizzare. Se gli omessi versamenti Iva, ad esempio, fossero trasformati in illeciti amministrativi di competenza dell’Agenzia delle Entrate, lo sgravio del settore penale sarebbe automaticamente importante. Per non parlare di quella sorta di Araba fenice che è ormai diventato - a forza di parlarne senza mai nulla concludere - il divieto di reformatio in peius, per cui se andando in Appello o in Cassazione il condannato non rischia nulla, neppure un euro o un giorno in più, ecco che tutti inesorabilmente ricorrono sempre, sperando che le cose possano “aggiustarsi” col trascorrere del tempo: ma così il sistema si ingolfa allungando i tempi. I processi alle intenzioni sono di pessimo gusto, ma può affiorare il dubbio che gira e rigira torni di moda la tecnica, a lungo praticata nel nostro Paese, della “inefficienza efficiente”: una giustizia che non funzionando è funzionale alla tutela di certi interessi che il controllo di legalità lo gradiscono come il fumo negli occhi. Comunque sia, c’è la non allegra prospettiva di disperdere le energie disponibili, proprio oggi che il Recovery fund prevede investimenti sui quali prima la riforma Bonafede e ora la riforma Cartabia possono fare affidamento. Non convincono, poi, le scelte operate in tema di prescrizione con la riforma Cartabia. Bonafede aveva avuto il coraggio e il merito di allineare il nostro Paese agli altri, stabilendo per la prescrizione uno stop definitivo (non più semplici sospensioni) con la sentenza di primo grado. Un robusto argine ai tentativi di allungare il processo all’infinito finché la prescrizione non lo annulli. Questa scelta di buon senso ha scatenato reazioni furibonde incentrate sull’accusa di aver creato un monstrum orrendo relegando i processi in una sorta di limbo senza fine. Ipotesi basata sul presupposto (assurdo) che dopo la sentenza di primo grado i palazzi di giustizia cessassero del tutto di funzionare! Sia come sia, la riforma Cartabia ha ideato un vero “ibrido”: da un lato conferma il blocco della prescrizione voluto da Bonafede, ma nello stesso tempo lo riapre, stabilendo che se entro un certo termine non arriva la sentenza d’appello e poi di cassazione tutto va in fumo come con la prescrizione, che però - oplà - diventa improcedibilità. Dal (supposto) limbo perpetuo, si passa alla mannaia che tutto cancella, lasciando i colpevoli impuniti e gli innocenti senza riconoscimento di tale status, mentre alle vittime sarà comunicato che è stato… uno scherzo. E ciò per un gran numero di processi: per fortuna non quelli per fatti di mafia e simili, grazie a un aggiustamento in extremis che ha accolto l’allarme (prima ignorato se non irriso) di magistrati come il procuratore nazionale Cafiero de Raho. In sostanza, un “ibrido” che nasce dalla singolare concezione che i tempi del processo si possano stabilire con regio decreto, come se la giustizia fosse una catena di montaggio per produrre bulloni… Perpetuando per di più la deleteria spinta che da sempre affligge il nostro sistema: tirarla per le lunghe più che si può. Giustizia, timori sull’ultimo miglio. Conte convoca il M5s ansa.it, 1 agosto 2021 l M5s di Giuseppe Conte è il “sorvegliato speciale” in vista delle prossime ore che dovrebbero dare il via libera alla riforma della Giustizia. L’accordo sul provvedimento che approda in Aula alla Camera dovrebbe essere ormai “blindato” ma nel governo l’attenzione rimane altissima soprattutto nei confronti di possibili strappi dentro il M5s. “Adesso tutti rispettino i patti”, invoca la Guardasigilli, Marta Cartabia, nel corso di un forum con la Repubblica. Il timore è che ci possa essere qualcuno o qualche partito che possa mettere nuovi paletti e aprire nuove questioni. Non è infatti passato inosservato il via libera all’emendamento dell’azzurro Pierantonio Zanettin in cui si chiedono “criteri più stringenti” per la riapertura delle indagini: la previsione potrebbe rischiare di sollevare ulteriori dubbi tra i 5 Stelle che hanno anche dovuto rinunciare ad un esplicito riferimento ad un allungamento dei tempi di prescrizione per i reati contro la Pa e che intanto, ad esempio, si uniscono a Leu per chiedere di dare più tempo ai processi per le catastrofi ambientali. Fonti di governo ritengono “improbabile” che ci possano essere modifiche dell’ultimo minuto ma intanto Giuseppe Conte raduna i 5 Stelle. L’ex premier ha infatti indetto per il pomeriggio una riunione con i deputati e senatori proprio per fare il punto sulla riforma Cartabia. L’assemblea, ci tengono a chiarire i 5 Stelle, era stata richiesta da tempo soprattutto per condividere con i gruppi le decisioni e le trattative che erano state portate avanti da un gruppo ristretto di esponenti. Nonostante arrivino appelli dagli ex “grillini” a non votare la riforma, i 5 Stelle assicurano di essere compatti, che i dubbiosi sarebbero pochissimi, ma siccome a metterci la faccia è Giuseppe Conte, l’ex premier chiederà alla sua pattuglia di sostenerlo. Per lui sono infatti giorni caldissimi. Lunedì e martedì il nuovo M5S di Conte con il suo nuovo Statuto sarà sottoposto al voto della base: passerà solo se avrà raggiunto la maggioranza assoluta degli iscritti, altrimenti si dovrà andare in seconda convocazione, il 5 e 6 agosto, dove il quorum sarà la maggioranza dei votanti. Per Conte la sfida non sarà tanto quella di ottenere una larga maggioranza, quanto quella di portare alle “urne” un numero consistente di iscritti. E questo sarà il vero nodo della votazione. Perché molti degli iscritti al M5s rimasti “in sonno” sulla vecchia piattaforma Rousseau non avranno ricevuto l’invito a votare ma anche perché altri deliberatamente non voteranno. O voteranno No. Un meet-up di Catania lo ha scritto nero su bianco: “Noi voteremo NO al nuovo Statuto che pone un uomo solo al comando, in spregio ai valori fondanti del nostro Movimento”. E’ un granellino di sabbia nella prateria 5 Stelle ma è la spia di un sentimento che si va diffondendo nella base pentastellata e che nei prossimi giorni potrebbe concretizzarsi in azioni di aperto contrasto con la linea del futuro leader Giuseppe Conte. L’ex candidato sindaco M5s di Napoli, Matteo Brambilla, annuncia: “Io non voterò proprio. Non legittimerò questa votazione con il mio voto. E non aderirò neppure al nuovo Movimento 2050”. Anzi, lui si metterà alla testa di una lista alternativa al M5s, composta da ex “grillini”, che correrà a Napoli. E mentre il M5s avvia la selezione dei candidati da inserire nelle liste M5s da “certificare”, iniziative analoghe a quella di Napoli spunteranno un po’ in tutta Italia, in Emilia Romagna, Veneto, Lombardia e Puglia, passando per Bologna ed anche per Roma e il Lazio. Ci saranno tra le 50 e le 100 liste locali alternative al M5s, disposte, si spiega, ad interloquire con Alessandro Di Battista, Nicola Morra (“Io moderato e liberale non ci voglio morire”, dice quest’ultimo) e Barbara Lezzi e a fare “rete” tramite una piattaforma. Quella di Davide Casaleggio potrebbe essere a disposizione. Così l’opa giustizialista continua a pesare sul processo penale di Errico Novi Il Dubbio, 1 agosto 2021 Lattanzi aveva proposto il ritorno alla legge Orlando, si è scelto un ibrido pieno d’insidie per attenuare l’irritazione grillina. Flick: “Nelle nuove norme rischi di incostituzionalità”. Alcuni punti fermi. La “irragionevole riforma Bonafede”, come l’ha definita giovedì sera un moderato qual è Andrea Orlando, è in archivio. Non c’è più l’assurdo di un processo che può durare all’infinito senza alcuna barriera temporale, una volta emessa la sentenza di primo grado. Persino per i reati di mafia, terrorismo, violenza sessuale e narcotraffico, ci possono essere sì proroghe infinite, di un anno in appello e 6 mesi in Cassazione, da parte del giudice, ma dovranno essere motivate e resteranno comunque impugnabili dinanzi alla Suprema Corte. Dovranno richiamarsi a una “complessità” del giudizio, legata al “numero degli imputati” o alle “questioni di diritto”, e non alla sonnolenza fisiologica del sistema giudiziario. C’è da credere che se un giudice scrivesse, nell’ordinanza di proroga, che serve un altro anno perché la sua Corte d’appello è travolta dall’arretrato, la Cassazione annullerebbe l’overtime. È un ulteriore passo avanti, rispetto alla prescrizione, che va riconosciuto persino al “regime speciale” correttivo della “improcedibilità”, rivelatosi decisivo per l’intesa di maggioranza. Persino per i reati gravi non c’è più una scorrevole autostrada verso l’infinito. Tutto vero. Eppure, come ripetono nelle ultime ore autorevoli giuristi, a cui questo giornale continua a dare voce, ripristinare un limite temporale al processo non attraverso la “prescrizione del reato”, che è istituto sostanziale, ma con la “improcedibilità”, norma di diritto processuale, è nella migliore delle ipotesi un salto nel buio. Marta Cartabia ha dovuto far ricorso a una soluzione del genere perché l’intricato marchingegno poteva attenuare il disdoro del Movimento 5 Stelle. Punto. Non c’è un’altra ragione. I suoi esperti avevano pensato ad altro. Al ripristino della riforma Orlando, solo appena ritoccata: due anni di sospensione dopo la sola condanna in primo grado e un altro anno dopo l’eventuale condanna in secondo grado. In modo che tutti i giudizi d’appello e in Cassazione potessero disporre di un margine supplementare per concludersi. È ormai noto come il presidente della commissione ministeriale istituita dalla guardasigilli, Giorgio Lattanzi, fosse assolutamente convinto che la strada maestra per mandare in soffitta la norma Bonafede consistesse nel regime della doppia sospensione, a cui ovviamente sarebbe rimasta come presidio la cerniera dei reati più gravi, come l’omicidio, comunque imprescrittibili o con tempi di estinzione anche pluridecennali. Ma prima ancora che Lattanzi concludesse i propri lavori, già la forza politica più attenta alla mediazione coi 5 stelle, il Pd, aveva depositato in commissione Giustizia un emendamento da considerare, di fatto, l’archetipo della soluzione approvata giovedì in Consiglio dei ministri, e ieri in commissione Giustizia. L’ipotesi dem era assai vicina al testo finale di Cartabia, seppur priva delle eccezioni per i reati più gravi, solo distingueva tra assolti e condannati in primo grado. In appello, e in Cassazione, sarebbe scattata appunto l’improcedibilità dopo un tempo limite. Di fatto il “lodo Draghi- Conte” viene da lì, più che da via Arenula. È vero che Lattanzi, nella propria relazione finale, ha aggiunto, al ripristino della prescrizione targata Orlando, una “ipotesi B” pure imperniata sull’improcedibilità. Ma si trattava di uno schema diverso, con una propria coerenza, giacché la prescrizione del reato usciva del tutto di scena nel momento in cui si passava dalla fase preliminare delle indagini a quella del processo vero e proprio, e soprattutto prevedeva tempi limite anche per il primo grado. Un’ipotesi che comunque i tecnici hanno messo sul tavolo della ministra più per evidente necessità politica che per effettiva convinzione scientifica. Alla fine, l’ipotesi B di Lattanzi si è dissolta in un ibrido più vicino, appunto, all’emendamento del Pd che al già dibattuto, in passato, schema della “prescrizione processuale”. E l’ibrido si spiega solo con ragioni politiche. Cosa vuol dire? Che il pregiudizio imposto dalle distorsioni populiste continua a lasciare il segno sull’ordinamento penale. Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta, in una dichiarazione all’Adnkronos parla di “problemi di interpretazione e di costituzionalità” legati alle nuove norme sull’estinzione del processo. Un pm particolarmente schietto come Alfonso Sabella aggiunge: “Il problema è che le riforme in materia di giustizia non si fanno sulla base di una visione organica ma di accordi pasticciati e ispirati logiche di compromesso”, perciò ci troviamo con “un sistema che, per come è strutturato, se lo vedesse un giurista dell’antica Roma, inorridirebbe”. Ce lo porteremo per anni. E quando magari, in una maggioranza libera da forze come i 5 Stelle, qualcuno osasse far notare che non è possibile andare avanti col doppio binario per qualsiasi reato anche minore collegato alla mafia, le urla dell’indignazione populista continueranno a impedirgli di finire la frase. Cambia il processo civile: chi sceglie riti alternativi otterrà incentivi fiscali di Francesco Grignetti La Stampa, 1 agosto 2021 La riforma in Senato: previste assunzioni e nuovi software. Addio alla prima udienza lampo: si entrerà subito nel merito. C’è un’altra riforma della giustizia che marcia, al Senato, silenziosamente: quella del processo civile. Non c’è l’animosità che si è scatenata per il penale. E quindi è passato un po’ in sordina il fatto che ci siano stati molti passi in avanti, dopo che a inizio maggio il governo ha depositato la nuova architettura del processo civile. Naturalmente anche qui le discussioni sono andate avanti, non solo con i partiti di maggioranza, ma anche con avvocati e magistrati. E adesso ci si attende che nei prossimi giorni il testo sarà chiuso, per iniziare le votazioni alla ripresa dei lavori dopo la pausa estiva. A settembre, insomma, ci sarà il via libera del Senato per la nuova giustizia civile. E così farà uno scatto in avanti una tra le riforme più essenziali tra quelle concordate dal governo con l’Europa. Come ricorda sempre la ministra Marta Cartabia: “Ci siamo impegnati a ridurre i tempi del processo civile del 40%”. Una meta non facile. La rivoluzione targata Cartabia si articola essenzialmente in tre capitoli: investimenti, strumenti alternativi, concentrazione delle udienze a cominciare dalla prima. Sugli investimenti, si fa affidamento innanzitutto sui miliardi del Recovery Plan. Si annunciano grandi spese per rinnovare l’infrastruttura digitale, che, pur nata d’avanguardia, già mostra l’usura dei primi anni. Pochi sanno, forse, che il processo civile è già telematico: gli atti corrono attraverso la Rete; il giudice e la parte avversa legge tutto online. Questa infrastruttura digitale troppo spesso si blocca, però. “Ho scoperto anch’io - ha detto la ministra al recente congresso degli avvocati - che nel fine-settimana i sistemi si bloccano per manutenzione. Ciò è inaccettabile e ci stiamo lavorando”. Quanto al personale, per la giustizia sono in arrivo 5.000 unità di personale amministrativo a tempo indeterminato più 16.500 giovani laureati in diritto o in economia per gli Uffici del processo, con assunzione triennale. È proprio di ieri un decreto, relativo a primi 8.050 neoassunti, che ne stabilisce la ripartizione provincia per provincia. A Milano, per dire, arriveranno in 680. A Roma, 843. A Torino, 401. E così via. Successivamente si vedrà quanti per il civile e quanti per il penale. Il decreto stabilisce anche le materie della prova scritta: diritto pubblico, ordinamento giudiziario, lingua inglese. Secondo capitolo fondamentale della riforma Cartabia, gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, nel tentativo di deflazionare i numeri dei processi. Per favorire il ricorso a conciliazione, negoziazione assistita e arbitrato arriveranno più incentivi fiscali: sull’imposta di registro, le spese di avvio della procedura di mediazione, le indennità spettanti ai vari organismi, la procedura di riconoscimento del credito d’imposta. Terzo caposaldo, la concentrazione delle udienze. La prima udienza diventerà cruciale, mentre oggi è solo l’occasione per rinviare di qualche anno. Si prevede che l’atto di citazione debba già contenere l’indicazione dei mezzi di prova di cui l’attore intende valersi e dei documenti che offre in comunicazione, sui quali il convenuto è chiamato a prendere posizione. I legali dovranno insomma scoprire le loro carte fin dall’inizio. “Le nostre priorità - dice la senatrice Anna Rossomando, relatrice della riforma, e responsabile Giustizia del Pd - sono gli incentivi fiscali per la mediazione e la negoziazione assistita, misure per contenere i costi dell’arbitrato affinché non sia strumento per pochi, l’innovazione e la riorganizzazione a cominciare dall’Ufficio del processo”. Ermini: “Sui princìpi della riforma d’accordo con Cartabia. Ora più investimenti” di Liana Milella La Repubblica, 1 agosto 2021 Il vice presidente del Csm: “I processi che non finiscono sono una forma di impunità. Perciò vorrei termini certi sul passaggio dei fascicoli. Occorrono magistrati e altro personale. Giusto sottolineare che nella Costituzione c’è scritto pena e non carcere”. A Repubblica la ministra Cartabia ha assicurato che “la nuova legge sul processo penale non produrrà zone di impunità”. Per lei, David Ermini, vice presidente del Csm, è possibile? “In linea di principio sono d’accordo. E condivido i principi contenuti nella riforma. Però, perché possa raggiungere gli obiettivi, garantendo la non impunità per tutti i reati e mettendo al sicuro tutti i processi in corso, non sarà sufficiente la sola legge, ma occorrerà tutta una serie di investimenti sulle persone e sulle strutture che impegneranno non solo questo governo, ma anche quelli a venire. È necessario che dall’astrattezza delle norme si passi a concreti investimenti e misure organizzative”. E non possono bastare i fondi del Recovery su cui puntano tutto Draghi e Cartabia? “Possono bastare per il periodo contingente, ma è evidente che una riforma di questo genere ha bisogno di una condivisione nazionale per cui - indipendentemente dalle future maggioranze - tutti devono mantenere l’impegno di investire non solo i soldi del Recovery, ma destinare una parte significativa del Pil per la giustizia”. Giusto quello che per 50 anni non s’è mai fatto... “Abbiamo imparato che le riforme a costo zero non servono a dare un miglior servizio ai cittadini. E dico subito che se le cose dovessero andare male non si potrà gettare la responsabilità sulla magistratura”. Ecco, lei tocca un punto chiave della riforma. A gestirla saranno i magistrati. Cartabia assicura di aver sentito giudizi positivi, a fronte delle toghe preoccupate anche delle possibili ritorsioni per un processo che dura di più perché un giudice lo ha deciso. “La storia della magistratura italiana è piena di esempi di grandi magistrati che non hanno mai avuto paura delle ritorsioni. E questo avviene tuttora con tanti giudici in prima linea, che svolgono il loro lavoro quotidiano senza neppure che si conosca il loro nome”. Però con la riforma si passa da una prescrizione che stabilisce tempi certi per ogni reato, alla possibilità per il giudice di allungare il tempo di un processo... “Infatti ritengo che nelle norme sia indispensabile indicare dei termini perentori di natura organizzativa. Come quello relativo al trasferimento del fascicolo dal giudice che ha emesso la sentenza a quello dell’impugnazione. Altrimenti il rischio è che il personale amministrativo, da anni gravemente sottodimensionato, e che svolge mansioni tra cui quella del trasporto dei fascicoli, diventi il protagonista del tempo del processo. Da avvocato conosco bene gli incredibili tempi che può impiegare un fascicolo per passare pure da un piano a un altro”. Per Cartabia “la prima forma di impunità sono i processi che non finiscono mai”... “Condivido in pieno, e per questo servono tempi certi anche nei passaggi che non sono sotto i riflettori dei media, ma che possono incidere in modo determinante sui tempi del processo. La possibilità di ricorrere subito in Cassazione contro la decisione del giudice di prolungare i termini del processo rischia di portare un nuovo e pesante carico alla Suprema corte”. Ci sono alcune corti in regola e sei-sette con un arretrato disastroso... “Innanzitutto occorrono più magistrati, perché dall’osservatorio del Csm posso dire che per una corte di Appello ingolfata di processi a volte non si riesce a garantire la copertura dei posti. Se ci fossero piante organiche più ampie e un numero maggiore di magistrati, la situazione potrebbe migliorare”. Per Cartabia è il Csm che non manda i magistrati richiesti... “I bandi li pubblichiamo regolarmente, il Consiglio fa la sua parte nel coprire i posti negli uffici in maggiore difficoltà. Penso alla Procura generale di Bologna che è in sofferenza, di cui ci siamo fatti carico con l’ultimo bando e che sarà ancora al centro della nostra attenzione”. L’ufficio del processo, finanziato per tre anni, deve andare a regime? “Assolutamente sì. È un’ottima innovazione ma deve diventare stabile. Tutti i governi dovranno seguire, sulla giustizia, il lavoro iniziato da Draghi e Cartabia”. Il suo Csm critica le priorità dell’azione penale decise dal Parlamento. “In una Repubblica parlamentare le Camere sono sovrane. Esiste il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale che la riforma lascia intatto. Non c’è da scandalizzarsi sul principio in sé. Mi chiedo se, in un Paese così diversificato dal punto di vista criminale e giudiziario, si possa pensare di avere linee omogenee per tutti i territori. Il parere del Csm è critico su questo punto”. Come vede il passaggio dalla prescrizione all’improcedibilità? “È una rivoluzione perché si passa da una norma che ha incidenza sostanziale sull’estinzione del reato a una che incide sui tempi del processo. Se lo scopo è quello di arrivare a una ragionevole durata del processo allora, se si metterà la macchina della giustizia veramente in grado di raggiungerlo, sarà una rivoluzione positiva”. Cartabia richiama questo principio... “È scritto con chiarezza all’articolo 111 della Costituzione e dev’essere perseguito e rispettato”. Nella Carta “c’è scritto pena, e non carcere” dice la ministra. La riforma insiste sulle pene alternative. Torna il “diritto mite” della riforma Orlando sulle carceri? “È stato un errore non approvarla. Il sistema “carcerocentrico” ci ha insegnato che le recidive aumentano quando la pena è scontata in carcere anziché con modalità alternative e che il principio costituzionale della rieducazione del condannato non sempre viene rispettato. Ci siamo presi condanne dall’Europa. Il sistema delle pene alternative è opportuno perché può contribuire al calo delle recidive”. Il suo Csm è ancora credibile dopo i casi Palamara e Storari? “Senta, questo Csm ha la sola colpa di aver visto scoppiare una bomba la cui miccia era accesa da tempo. Sotto la vigilanza del presidente Mattarella continuerà a tenere la schiena dritta. Consegneremo ai nostri successori una magistratura più consapevole che ha affrontato senza remore e senza nascondersi i problemi sul tavolo. Nella consapevolezza che l’autonomia e l’indipendenza sono essenziali per la salvaguardia della libertà dei cittadini. Gli esempi drammatici di altri Stati europei ci insegnano che è così”. E il caso Storari-Davigo? “C’è un’indagine in corso, in cui sono stato sentito come persona informata sui fatti, e va da sé che non posso parlare”. Il caso procura Roma è ancora aperto, e si sta per aprire quello di Milano. Come ne uscirete? “Rispettando le circolari e le norme, ed esercitando nel miglior interesse dei cittadini e degli uffici, la discrezionalità che spetta al Consiglio. Tutto qui”. Bazoli: “È il miglior testo possibile. Ed è coraggioso e innovativo” di Valentina Stella Il Dubbio, 1 agosto 2021 Parla il capogruppo Pd in commissione Giustizia alla Camera: “Se noi giudichiamo la riforma della giustizia solo dal punto di vista dell’accordo sulla prescrizione commettiamo un grande errore. Questa riforma è molto altro e molto di più”. Per l’onorevole Alfredo Bazoli, capogruppo Pd in commissione Giustizia alla Camera, “se noi giudichiamo la riforma della giustizia solo dal punto di vista dell’accordo sulla prescrizione commettiamo un grande errore di valutazione. Questa riforma è molto altro e molto di più”. Era il miglior compromesso possibile quello a cui si è giunti? Nelle condizioni date, evidentemente sì. Era l’unico e migliore possibile. Comunque va accolto positivamente il fatto che la riforma Cartabia è stata finalmente approvata, con alcune modifiche ma senza stravolgimenti. Dopo essere riusciti a scongiurare lo scellerato rinvio sine die che volevano Forza Italia e Lega, è stato confermato l’impianto di una riforma coraggiosa e innovativa, che può consentire una rilevante contrazione dei tempi dei processi, nella salvaguardia delle garanzie. Con la rilevante novità, richiesta e ottenuta dal Partito Democratico, di una norma transitoria che consentirà agli uffici giudiziari di adeguarsi alle nuove disposizioni, in attesa che la riforma e l’ingresso di nuovo personale producano i loro effetti. Tuttavia dall’Accademia stanno sostenendo che il diritto si sia snaturato sull’altare del compromesso politico, se solo pensiamo a tutti i binari creati per tipo di reato. Che ne pensa? Sono parzialmente d’accordo ma il discorso è complesso. Se vogliamo discutere solo di prescrizione, capisco che l’accordo raggiunto possa far alzare il sopracciglio ai giuristi. Anche io sono d’accordo, ad esempio, sul fatto che ogni imputato abbia diritto ad un processo di ragionevole durata. Dopo di che si è scelto di prevedere questi doppi, tripli binari chiaramente frutto di un compromesso politico. Imprescrittibili rimangono solo i reati puniti con l’ergastolo, per altri - come associazione di stampo mafioso, terrorismo, violenza sessuale - non c’è limite al numero di proroghe che però dovranno essere motivate dal giudice, quindi non si tratta di una discrezionalità pura. Tuttavia se noi giudichiamo questa riforma solo dal punto di vista dell’accordo sulla prescrizione commettiamo un grande errore di valutazione. Questa riforma è molto altro e molto di più: mi verrebbe da dire che le altre questioni sono molto più rilevanti. Quali? Altri aspetti molto importanti sono rappresentati dal controllo sulla durata delle indagini preliminari e dalla modifica della regola di giudizio per il pubblico ministero e il gup che andrà a ridurre quella differenza così marcata che c’è nel nostro ordinamento, rispetto agli altri con cui ci confrontiamo, relativamente alla percentuale di proscioglimenti. Potremmo così evitare quei rinvii a giudizio che spesso hanno solo carattere esplorativo e che si concludono quindi con un nulla di fatto. Il suo partito cosa avrebbe voluto che invece non è stato contemplato? Dal mio punto di vista considero molto più grave che sull’altare del compromesso siano state sacrificate le misure previste dalla Commissione Lattanzi sugli incentivi ai riti alternativi. Noi abbiamo insistito molto fino all’ultimo su questo punto, per ampliare la messa alla prova e ottenere il ripristino dell’archiviazione meritata, strumenti deflattivi utilissimi nell’ottica generale della riforma. Però su questo ci siamo scontrati contro il muro della Lega. Come completare ora la riforma della giustizia? Dobbiamo assolutamente concludere l’iter della riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. E poi riprendere in mano i lavori degli Stati Generali dell’Esecuzione penale per una riforma strutturale del sistema penitenziario. Annibali: “Oggi possiamo fermare gli stalker, sulla mia pelle ho vissuto l’orrore della violenza” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 1 agosto 2021 La deputata di Italia Viva che nel 2013 fu sfregiata dall’ex fidanzato, spiega l’emendamento alla riforma della Giustizia che prevede l’arresto in flagranza per chi viola il divieto di avvicinamento disposto dal giudice. “Ora il Codice Rosso è completo ma la battaglia è culturale”. Adesso potranno essere arrestati in flagranza di reato. I violenti, gli stalker, gli ex che nonostante il divieto di avvicinamento continuano a perseguitare le loro vittime, potranno essere fermati, sul fatto, dalle forze dell’ordine. È uno dei passaggi chiave, per quanto riguarda la violenza contro le donne, contenuto nel testo di riforma della giustizia penale, approvato dal Consiglio dei ministri. L’emendamento, presentato dalla deputata di Italia Viva Lucia Annibali, (già soprannominato “emendamento Annibali), completa così una parte carente del Codice Rosso, che già aveva definito reato a sé la violazione del divieto di avvicinamento che viene imposta ai violenti. Era il 2013 quando l’avvocata di Pesaro Lucia Annibali venne sfregiata con l’acido da due sicari mandati dal suo ex fidanzato Luca Varani, anche lui avvocato, condannato a vent’anni. Dopo un calvario di operazioni e anni di ospedali, Lucia Annibali ha deciso di dedicare la sua vita alla battaglia contro la violenza sulle donne, persecuzione che così drammaticamente ha provato su di sé. Deputata prima del Pd poi di Italia Viva, Annibali nel fare riferimento alla sua storia, dice semplicemente: “Oggi sono una donna consapevole di cosa è la violenza, oggi so riconoscerla, non ero così nel 2013 e l’ho provato sulla mia pelle. Per questo sono convinta che al di là delle norme sempre più dure e stringenti contro gli aggressori, sia fondamentale aiutare le donne a riconoscere la violenza. E lavorare affinché fin dalla prima denuncia le loro parole vengano credute”. Annibali, finora cosa accadeva quando un uomo violava il divieto di avvicinamento alla moglie, alla compagna, ai figli, imposto dal giudice? “Veniva naturalmente sanzionato ma non poteva essere arrestato in flagranza. In pratica anche se la polizia riusciva a coglierlo sul fatto, cioè mentre cercava di sfondare una porta o fare stalking alla sua ex, ai suoi figli, non poteva arrestarlo. Adesso invece sì”. Era un punto carente del Codice Rosso? “Sì, perché è quasi sempre dopo la denuncia, quando vengono emessi i primi provvedimenti contro i persecutori che le donne rischiano di più. Sono tante le donne uccise perché non si è riusciti a fermare gli ex, nonostante i divieti di avvicinamento”. Può accadere, però, lo sappiamo, che l’aguzzino riesca a scappare prima che arrivi la polizia. Non sarebbe stato utile, così come è stato proposto in diversi disegni di legge e suggerito dalla commissione sul femminicidio, prevedere anche lo stato di fermo per gli stalker non arrestati in flagranza? “Certo, ma non siamo riusciti, per ora, ad inserirlo nel testo della riforma. Ma sarebbe indispensabile”. I centri antiviolenza avevano in una prima fase criticato la riforma Cartabia... “Le loro critiche sono state giustamente accolte e non è stata toccata l’irrevocabilità della querela per i reati di violenza sessuale e stalking”. Lei ha vissuto sulla sua pelle l’orrore della violenza e della persecuzione maschile. Stiamo facendo abbastanza per rimuovere le cause di questa piaga? “Sul fronte delle leggi e della repressione sì. Sul fronte delle radici culturali no, non è abbastanza, la violenza maschile ha fondamenta antiche, profonde difficilissime da abbattere”. Per anni lei è andata nelle scuole di ogni grado per raccontare ciò che le era accaduto, la sua tragedia di “non amore”, per sensibilizzare ragazze e ragazzi, “affinché non accadesse più”. “Oggi con l’associazione “Ristretti orizzonti” racconto la mia storia nelle scuole organizzando incontri tra ex detenuti, figli dei detenuti e la persona offesa, cioè io, Lucia. Dobbiamo continuare, non possiamo sottrarci, è così che si scardinano gli stereotipi violenti”. Ecoreati, la giustizia ambientale non è un gioco di bandierine di Enrico Fontana* Il Manifesto, 1 agosto 2021 Giustizia. La riforma Cartabia non contempla i delitti contro l’ambiente tra i reati gravi. A rischio prescrizione centinaia di processi. A nulla sono serviti finora gli appelli lanciati insieme da Legambiente, Wwf, Greenpeace, Libera e Gruppo Abele perché ai delitti ambientali venga riconosciuta quella gravità e complessità dei fatti da accertare che garantisce, con l’ultimo accordo raggiunto in Consiglio dei ministri sulla riforma della giustizia, un regime speciale ai reati di terrorismo, mafia, violenza sessuale aggravata e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Alle 14 di oggi inizia l’esame da parte della Camera di questa tormentata riforma della giustizia. E arriverà nei prossimi giorni il momento di discutere gli emendamenti, prima firmataria l’on. Rossella Muroni, che possono consentire quel “ravvedimento operoso” sui delitti ambientali evocato finora invano dalla società civile, sempre che il governo mantenga l’impegno, dopo l’accordo raggiunto, di non mettere la fiducia. È sempre sgradevole fare una “classifica” della maggiore o minore pericolosità di un delitto, soprattutto quando sono in gioco le sensibilità delle vittime. Ma davvero non si comprende secondo quale valutazione di merito la larghissima maggioranza di governo, insieme alla ministra della Giustizia Marta Cartabia e al premier Mario Draghi, ritenga più meritevoli di maggiori tutele i processi istruiti per chi è accusato di traffico di stupefacenti rispetto a quelli che vedono alla sbarra persone e società a cui viene contestato il delitto di disastro ambientale. Oppure se, come la stessa ministra Cartabia racconta in un’intervista a la Repubblica, è stato solo un “gioco di bandierine” tra le diverse forze politiche. E nessuno, nemmeno lei a dire la verità, ha “alzato” e difeso fino in fondo quella dei delitti ambientali. I fatti che regalano le cronache quotidiane e i numeri del lavoro svolto dal 2015 ad oggi da forze dell’ordine e magistratura basterebbero da soli per giustificare un “ravvedimento operoso” da parte del governo e di chi lo sostiene. Solo nel 2020, secondo i dati del monitoraggio svolto dal ministero della Giustizia, sono stati 883 i procedimenti penali avviati per delitti contro l’ambiente, con 2.314 persone denunciate e 824 ordinanze di custodia cautelare eseguite. Dal 2015 le inchieste sviluppate dalle procure sono state ben 4.636, le persone denunciate 12.733, quelle raggiunte da ordinanze di custodia 3.989. Solo per il delitto di disastro ambientale, i procedimenti che hanno visto impegnati in indagini complesse, anche dal punto di vista scientifico, magistrati, tecnici e ricercatori, ufficiali di polizia giudiziaria e personale delle forze dell’ordine sono stati 249. Che fine faranno, senza ripensamenti durante il dibattito e il voto in aula, tutte queste inchieste e le aspettative di chi chiede verità e giustizia? Quale sarà il destino di processi come quello per lo sversamento in mare di milioni di dischetti di plastica dopo il “collasso” del depuratore di Capaccio Paestum? E quali speranze ha di concludersi nei tempi previsti quello frutto delle indagini per disastro ambientale sulle devastazioni causate alle scogliere e alla parte sommersa dei Faraglioni di Capri dalla pesca illegale dei datteri di mare? E perché chi quei delitti li ha denunciati, come hanno fatto i circoli di Legambiente che hanno raccolto centinaia di migliaia di dischetti finiti lungo le spiagge, deve attendere l’esito dei processi con l’ansia della scadenza dei termini previsti dal nuovo “cronometro giudiziario”? C’è una qualsiasi ragione di merito comprensibile oppure è solo il frutto del “gioco delle bandierine” in cui le ragioni della tutela dell’ambiente sono state sacrificate, ancora una volta, ad altre “priorità”? Era ben altro il clima politico quando, il 19 maggio del 2015, il Senato, con un’ampia maggioranza, diede il via libera alla legge 68 che introduceva, dopo 21 anni di denunce dell’ecomafia, promesse e aspettative tradite, i delitti contro l’ambiente nel nostro Codice penale. Un voto salutato dall’applauso dell’aula e dalle dichiarazioni entusiastiche di ministri e leader delle forze politiche che avevano sostenuto quella riforma di civiltà. Allora Partito democratico e Movimento 5stelle erano su fronti opposti, il primo al governo, il secondo all’opposizione. Adesso che fanno parte della stessa maggioranza, non hanno ancora trovato la forza e la volontà politica condivisa di mettere al riparo gli ecoreati, anche quelli più gravi come il disastro ambientale, dai rischi della improcedibilità. La Ministra Cartabia invoca il rispetto dei patti da parte di chi li ha sottoscritti dopo una lunga trattativa. È la stessa richiesta fatta dalle associazioni alle forze politiche che hanno votato nel 2015 la legge con cui sono stati introdotti i delitti contro l’ambiente nel Codice penale: rispettare il patto con cui è stato garantito al Paese che sarebbe finalmente arrivato il tempo della giustizia anche in nome del popolo inquinato. *Responsabile dell’Osservatorio nazionale Ambiente e legalità di Legambiente L’esperienza in carcere di Ambrogio Crespi: “Ai miei figli ho detto vado in missione segreta” di Giovanni Terzi Il Tempo, 1 agosto 2021 “Ciao amori miei vi saluto e vado in missione segreta”. Queste le parole di Ambrogio Crespi a casa a Roma ai suoi due figli il 10 marzo di quest’anno. Un saluto che rappresenta in pochissime parole l’indole profonda di un uomo. Ambrogio era stato condannato a sei anni di carcere ed il suo reato prevedeva l’impossibilità per un po’ di mesi di poterli rivedere. Ed allora cosa dire ai suoi amori, cosa inventarsi per essere rispettosi nei confronti dello Stato e non costruire traumi verso Luca e Andrea? “Papà è un agente segreto chiamato a far fare pace a due popoli” racconta Helene ai loro figli “ma cercherà di videochiamare almeno due volte a settimana”. Per fortuna, infatti, il periodo Covid ha inserito le videochiamate per cui, i bambini sanno che papà fa due brevi videochiamate a settimana durante la sua missione segreta. Quel 9 marzo 2021 la Corte di Cassazione emette una sentenza terribile che conferma ciò che già l’appello aveva dichiarato: Ambrogio Crespi è colpevole di concorso esterno in associazione mafiosa e dovrà scontare i suoi sei anni di detenzione in massima sicurezza In regime di 416 bis. Ma la cosa che più lascia di stucco tutti e che Ambrogio i correi mafiosi non li ha mai visti nella sua vita. Avrebbe potuto gridare, urlare e lamentarsi Ambrogio Crespi ed invece con grande dignità si costituisce nel carcere di Opera, prima ancora di ricevere l’ordine di esecuzione per evitare che venissero le forze dell’ordine a prelevarlo a casa davanti ai bambini. Luca e Andrea, “la mia cozza ed il mio Koala”, così chiama Ambrogio i suoi bambini. Il più grande è unito a lui da un filo di vita della rinascita, un amore immenso, il piccolo è l’espressione dell’amore puro e profondo, attaccatissimo al suo papà. Hanno 8 e 5 anni, nel momento della sentenza, e sono cresciuti in una famiglia che vive all’insegna della legalità. Questo spinge Ambrogio, totalmente innocente ed estraneo ai fatti contestati a scegliere di costituirsi affinché i bambini non potessero mai pensare che carabinieri o polizia siano persone “cattive”. Io ho la fortuna di conoscere Ambrogio da più di vent’anni e so chi è; lo so perché la sua vita, non semplicemente quella umana ma anche quella professionale si è sempre strutturata su un principio di lealtà e legalità. Ambrogio Crespi è il regista che ha voluto sempre combattere le mafie con Docu-film di denuncia, rischiando in prima persona di essere ucciso dalla malavita organizzata. E così proprio lui dovrà trascorrere sei anni insieme a coloro che per una vita ha combattuto. Ambrogio ti sei costituito nel carcere dove hai girato parte di un tuo docu-film cosa hai provato? “Quando mi sono consegnato nel carcere di Opera, dopo qualche giorno di isolamento preventivo sono risultato positivo al Covid19. Non nego che a quel punto pensavo di aver oltrepassato anche il limite della mia resistenza e ho iniziato a lasciarmi andare. Sono stato trasferito a San Vittore, ma non reagivo, non mangiavo, bevevo poco, ero distrutto. Poi dopo avermi fatto alcuni esami riscontrarono una saturazione troppo bassa e disposero il mio trasferimento all’ospedale Niguarda”. Sei anni da scontare, l’entrata in carcere e poi la positività a Covid. Una vita distrutta in pochi giorni? “Guarda per me l’importante era resistere e reagire a quella sequela di avvenimenti infausti che stavano segnando la mia vita. Niguarda, inoltre, è il luogo dove è morta la mia mamma, io ero “piccolo” avevo appena 21 anni e lei ne aveva solamente 47, due operazioni al cuore e poi è andata via e così per me è stato un fare a pugni con me stesso, con i miei ricordi, con quel senso di angoscia. Ma d’un tratto, Luca mi ha salvato la vita”. Parli di Luca tuo figlio? “Certamente. Era agosto del 2016 ed eravamo in vacanza in Spagna, a Palma di Maiorca, avevamo preso in affitto una casa con la piscina. Una sera dopo cena eravamo tutti dentro a fare qualcosa, Helene, mia moglie, stava in cucina, Luca gli girava intorno ed Andrea, che aveva un anno, era nel passeggino a bere il suo biberon di latte. Ad un certo punto Luca disse “vado a fare la pipì” il bagno era vicino alla cucina e nessuno poteva immaginare che in realtà avrebbe cambiato il suo percorso uscendo in giardino. Dopo pochissimi attimi, Helene iniziò a gridare “Luca, Luca, dove sei?” e mi disse di aver sentito un freddo trapassarle la schiena, una brutta sensazione che l’ha allarmata”. Ma dove era andato tuo figlio? “Luca continuava a non rispondere e ci assalì la disperazione e d’istinto, insieme a mio nipote Niccolò, corremmo in giardino, verso la piscina e lì trovammo Luca che galleggiava a testa in giù. Lo tirammo fuori ma Luca non c’era più, gli occhi sbarrati verso il nulla il corpo bianco e gelido e le vene blu. Quella immagine non la dimenticherò mai”. E poi Ambrogio cosa accadde? “Mia moglie urlava senza sosta avevamo la certezza che Luca era morto. A quel punto iniziai con tutto il mio amore, con tutta la mia forza, guidato dai miei angeli a praticargli un massaggio cardiaco e subito accanto a me mio fratello Luigi che gli faceva la respirazione bocca a bocca ma non c’era verso di rianimarlo, Luca non reagiva. Il tempo scorreva e nulla cambiava. Mi travolse la disperazione, quella di un padre che vede suo figlio senza segni di vita. Mi fermai. Mio fratello, con una forza antica, diede un pugno al bordo piscina e gridò con una forza e così insieme ricominciammo a fare tutto da capo. Dopo poco Luca ha iniziato a muovere le labbra, poi a tossire. Luca il 17 agosto del 2016 è rinato”. E così quando eri a Niguarda per il Covid hai rivissuto questi momenti? “Ho percepito che stavo vivendo lo stesso vissuto del mio piccolo eroe perché mi hanno attaccato all’ossigeno ed accanto a me c’era la stessa macchina che emanava gli stessi rumori di quella lontana notte. Allora ho iniziato a reagire, mi sono detto che dovevo tornare a casa dai miei bambini, non dovevo mollare, per Luca e per Andrea, per Helene, per tutta la mia famiglia. Lo dovevo alle persone che amo. La vita è bella e dopo aver ricevuto questo dono non sono quindi autorizzato a non amarla, nonostante tutto”. Ambrogio Crespi oggi è un uomo libero in attesa della grazia del Presidente della Repubblica. Una delle frasi di Crespi è “se vuoi combattere un fenomeno che ha radici storiche così consolidate nella cultura di un paese, non puoi pensare di vincere la guerra solo con la repressione, devi educare, devi minare geneticamente i presupposti culturali in cui la subcultura mafiosa, nasce e si sviluppa”. Ambrogio Crespi non può interrompere il suo lavoro di regista contro le mafie è diventato ormai un simbolo ed anche nelle proiezioni nelle piazze d’Italia del film “Terra mia”, da lui diretto, si sente forte la personalità di un uomo probo ed utile alla comunità. L’arte non si può fermare ed anche saper comunicare è un’arte indispensabile che collabora a combattere la cultura mafiosa. Melfi (Pz). 44 ordinanze di custodia cautelare per i detenuti autori della rivolta del 2020 Quotidiano del Sud, 1 agosto 2021 Accolto l’appello dei pm contro i detenuti accusati di danneggiamenti e sequestro di persona. Conseguenze penali per i detenuti che a marzo dell’anno scorso hanno partecipato alla rivolta esplosa nel carcere di Alta sicurezza di Melfi, in seguito all’imposizione di una serie restrizioni ai contatti con l’esterno per prevenire contagi da Covid-19. Nei giorni scorsi, infatti, il Tribunale del riesame di Potenza ha spiccato nei confronti di 44 di loro, inclusi un paio a cui nel frattempo sono stati concessi gli arresti domiciliari, altrettante ordinanze di custodia cautelare in carcere per i danni inferti a strutture e suppellettili dell’istituto, più il sequestro di alcuni agenti della polizia penitenziaria, e operatori sanitari. I giudici hanno accolto, in particolare, l’appello presentato dal pm Gerardo Salvia del capoluogo lucano. Lo stesso pm che a settembre, invece, aveva chiesto l’archiviazione per le accuse dei detenuti sui pestaggi subiti dalla polizia penitenziaria una settimana dopo la rivolta. Durante il trasferimento dei presunti responsabili in altri istituti sparsi in mezza Italia. Nel mirino è finita l’ordinanza con cui a febbraio il gip Teresa Reggio aveva respinto la richiesta di arresti dei rivoltosi. Liquidando l’accaduto come un fatto episodico, scatenato dalle restrizioni anti-contagio, e allontanando i sospetti di una manovra orchestrata da una non meglio precisata organizzazione criminale per imporre le sue regole a uno Stato in ginocchio per l’infuriare della pandemia. “La violenza e l’aggressività dimostrata - è spiegato in un passaggio cruciale del provvedimento del Riesame - ben potrebbero essere nuovamente espresse, anche in relazione a provvedimenti genericamente sfavorevoli alla condizione dei detenuti e afferenti diversi ambiti, quali ad esempio quello della generale gestione e della disciplina (si pensi all’adozione di provvedimenti disciplinari ritenuti ingiusti)”. Poco più avanti, inoltre, i magistrati si soffermano sul “papello” con le richieste avanzate dai detenuti melfitani alla direzione del carcere durante quelle ore di autogestione dell’istituto. Richieste che in parte sono risultate connesse “all’applicazione di misure di neutralizzazione del contagio”, ma in parte anche rivolte in maniera generica “a ottenere una condizione penitenziaria più favorevole”. Come le celle aperte dalle 8:30 alle 15:45 senza poliziotti in circolazione. Di qui il sospetto che “possano essere nuovamente veicolate, anche attraverso nuove e diverse azioni di violenza”. Il Riesame ha accreditato anche la possibilità che il fine della rivolta fosse un’evasione di massa dal carcere, come avvenuto a Foggia proprio in quei giorni. In questo senso ha valorizzato persino il coro “libertà, libertà” intonato da alcuni detenuti che erano saliti sul terrazzo del carcere di Melfi. Un coro considerato un’”inequivocabile indizio del fatto che le restrizioni legate al covid 19 abbia costituito un pretesto, o quanto meno lo stimolo, per concretizzare un tentativo di evasione dal carcere”. Di qui l’esigenza della custodia cautelare per impedire che la concessione di un permesso premio, o un’attenuazione del regime di detenzione, possa diventare l’occasione per portare a compimento quei propositi di fuga. I dubbi dell’associazione Antigone - Dubbiosa per quest’ultimo l’ultimo risvolto della vicenda giudiziaria innescata dalla rivolta melfitana l’avvocato Simona Filippi, dell’Associazione Antigone, che si sta opponendo all’archiviazione delle denunce dei detenuti per le violenze subite durante il trasferimento dei presunti facinorosi. “Questo approccio degli inquirenti rispetto ai fatti avvenuti nel corso della rivolta sinceramente non lo vedo nel procedimento che vede i detenuti come persone offese ed si vorrebbe chiudere dicendo che non è stato possibile individuare i responsabili”. Ha dichiarato Filippi al Quotidiano del Sud. “Credo quindi che adesso sia il momento di profondere lo stesso sforzo non solo per individuare almeno alcuni degli autori delle violenze, ma anche per capire i motivi per cui sono avvenute. Chi le ha organizzate. Proprio come è stato fatto nell’indagine su Santa Maria Capua Vetere”. Bologna. Bimbo di 7 mesi in carcere con la mamma che deve scontare 20 giorni di Maurizio Costanzo Il Resto del Carlino, 1 agosto 2021 Sempre in Emilia Romagna un bimbo di 17 mesi ha varcato le porte del carcere essendo figlio di una donna sottoposta al carcere per un provvedimento di custodia cautelare. Continuano i casi di innocenti dietro le sbarre insieme alle loro madri. Gli ultimi due casi riguardano l’Emilia Romagna dove sono entrati in carcere due bambini piccolissimi, uno dei quali ha appena 7 mesi e la madre doveva scontare solo venti giorni di pena. L’altro bimbo ha 17 mesi ed è figlio di una donna sottoposta al carcere per un provvedimento di custodia cautelare. È la mamma che può chiedere di portarli con sé quando hanno meno di tre anni, anche perché spesso non ci sono familiari disposti ad accogliere e prendersi cura di questi bambini. E proprio per evitare che bimbi varcano le porte del carcere, la legge 62 del 21 aprile 2011 ha previsto che in tutta Italia vengano istituite case famiglia protette. Ma nonostante quest’obbligo, solamente Roma e Milano hanno strutture di questo tipo. E così i bambini continuano ad entrare in carcere insieme alle mamme detenute e a vivere in situazioni al limite, in celle piccole e malridotte che non tengono conto delle esigenze specifiche connesse alla crescita dei bambini. Napoli. Il dramma di Davide e Tullio, in carcere per poche settimane per un residuo di pena di Viviana Lanza Il Dubbio, 1 agosto 2021 Davide ha 22 anni ed è alla sua unica vicenda giudiziaria. Ha sbagliato a partecipare alla rapina, seppure con un ruolo di supporto ai veri esecutori. Ha risarcito il danno e affrontato il processo, ricorrendo in Appello al concordato: tre anni di reclusione. Questa condanna l’ha scontata quasi interamente agli arresti domiciliari, senza violare alcun obbligo. Ma quando mancavano circa quattro mesi alla fine della condanna, Davide è stato portato in carcere. Perché? Perché la sentenza era diventata definitiva. Insomma, pura questione di burocrazia giudiziaria, nulla di più. Tullio, invece, ha più di 70 anni, una condanna per contrabbando di sigarette e un cuore che funziona con il supporto di due bypass. Da alcuni mesi è in carcere, a Poggioreale, perché la condanna è divenuta definitiva ma a causa di disfunzioni burocratiche ha ricevuto le cure e i farmaci salvavita di cui ha bisogno solo dopo che il suo difensore ha chiesto l’intervento del garante regionale. Le storie di Tullio e Davide arrivano da Napoli a sollevare una riflessione sulla norma che prevede di sbattere in galera chiunque abbia un residuo di pena da scontare una volta che la condanna è divenuta definitiva, lasciando poi ai giudici della Sorveglianza la rivalutazione del singolo caso. Ma visto che il Tribunale di Sorveglianza non funziona con ritmi e tempi ragionevoli, perché è ormai storia nota che il settore della Sorveglianza sia tra quelli più in affanno nell’ambito della giustizia e a Napoli più che mai a causa di vuoti negli organici di personale amministrativo e di magistratura che di anno in anno si allargano come voragine senza che vi sia stato nel recente passato un intervento realmente risolutivo, l’applicazione di questa norma genera storture giudiziarie. Il fenomeno della cosiddetta porta girevole, quella che quando conclude il suo giro lascia sulla soglia del carcere decine, centinaia, migliaia di individui che vanno ad affollare le celle pur avendo da scontare un residuo di pena minimo. Ieri il Riformista ha raccontato la storia di un bambino di sette mesi finito in carcere, in Emilia Romagna, perché sua madre deve scontare un residuo di pena di venti giorni. Da Napoli arriva ora la storia di Davide, finito in cella per un residuo di pena di pochi mesi. “Il mio assistito - spiega l’avvocato Paolo Cerruti - non ha ritenuto di proporre un “inammissibile” ricorso per Cassazione diversamente dai coimputati che, pur condannati con gravi precedenti penali e con pene ancor più gravi, pendendo il ricorso per settembre dinanzi alla settima sezione, sono attualmente in regime di arresti domiciliari”. Davide, come i suoi coimputati, in Appello aveva fatto ricorso al concordato. “Tale leale comportamento si è riverberato negativamente nei confronti del mio assistito incensurato”. Il giudice a cui è stata assegnata la procedura ha concesso al detenuto la liberazione anticipata, ma “per un ingiustificabile disguido delle cancellerie” non sono state trasmesse tutte le richieste. “A tutt’oggi dal 21 maggio nulla è stato fatto”. Sicché Davide è ancora in cella. “L’intelligente scelta di politica criminale adottata dal gup e finalizzata a non criminalizzare un incensurato è stata vanificata proprio da quell’ufficio preposto a verificare la personalità del detenuto - commenta l’avocato Cerruti - È paradossale - conclude - che un soggetto come Davide, che finirebbe la pena a metà settembre, debba ancora essere detenuto in carcere”. San Gimignano (Si). Violenze nel carcere di Ranza: 11 agenti sospesi di Romano Francardelli La Nazione, 1 agosto 2021 Un nuovo provvedimento a distanza di quasi tre anni dai fatti e dopo le sentenze. Un nuovo colpo di scena a quasi tre anni di distanza dalla violenza nel carcere di Ranza a San Gimignano di alcuni agenti nei confronti di un detenuto. Un brutto episodio che ovviamente ha avuto strascichi giudiziari con dieci agenti di polizia penitenziaria condannati con pene da 2 anni e 3 mesi a 2 anni e 8 mesi per il reato di tortura e lesioni aggravate nel febbraio scorso dal Gup di Siena Jacopo Rocchi, dopo quasi 3 ore di camera di consiglio. I legali Manfredi Biotti e Stefano Cipriani, all’epoca, avevano scelto la strada del rito abbreviato dopo che i loro assistiti erano stati accusati del pestaggio di un detenuto durante un trasferimento coatto di cella avvenuto a ottobre 2018. Il pm Valentina Magnini aveva chiesto condanne a 3 anni per 8 agenti, 2 per un altro e 22 mesi per il decimo imputato. “La novità è che tra ieri e oggi - come fa sapere Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria - è che la direzione dell’Istituto di San Gimignano ha notificato undici provvedimenti di sospensione, emanati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ad altrettanti colleghi imputati nel processo per asserite torture risalente a due anni fa”. “Quel che ci lascia perplessi di questi provvedimenti - spiega sempre il segretario Beneduci - è che, avvengono, a distanza di due anni dagli avvisi di garanzia e dopo sette mesi dalla sentenza di primo grado dell’autorità giudiziaria, tra l’altro nei confronti di undici poliziotti penitenziari ancora in attesa della sentenza definitiva di condanna o di assoluzione”. “Evidentemente il principio di innocenza costituzionalmente previsto - dice il segretario generale dell’Osapp - ancora può riguardare soltanto coloro che sono delinquenti abituali. Esprimiamo la nostra vicinanza e solidarietà ai colleghi sospesi - conclude l’esponente sindacale - garantendo loro che l’Osapp, per ciò che sarà possibile fare, sarà sempre loro vicino”. Pistoia. Teatro Electra, sul palco i detenuti “Diamo voce a chi non ce l’ha” di Gianluca Barni La Nazione, 1 agosto 2021 L’associazione culturale ha realizzato un cortometraggio nel carcere pistoiese proiettato anche in Senato. Un nuovo consiglio per proseguire a dare voce a chi voce non ha. L’assemblea dei soci dell’associazione culturale Teatro Electra di Pistoia, tenutasi nei locali de La Corte degli Olivi, ha nominato presidente il dottor Sandro Castagnoli, consiglieri l’avvocato Stefania Boccaccini e la dottoressa Martina Novelli, confermando regista Giuseppe Tesi. Scopo rinnovato, appunto, dare voce a chi voce non ha, come nel progetto teatrale svoltosi nella casa circondariale Santa Caterina in Brana, a Pistoia. L’ormai popolare cortometraggio “Stabat Mater”, tratto dalla raccolta “Madri” di Grazia Frisina, ha avuto fra i suoi interpreti dodici detenuti della struttura carceraria pistoiese, affiancati dai talentuosi attori professionisti Melania Giglio e Giuseppe Sartori. “Realizzare un cortometraggio all’interno di un carcere ha rappresentato un’esperienza affascinante e permesso di entrare a diretto contatto con una realtà spesso trascurata o dimenticata - sottolinea Giuseppe Tesi -. Attraverso il linguaggio poetico della letteratura teatrale, questo progetto ha aperto nuovi orizzonti all’interno e fuori dalle mura della struttura detentiva. Teatro Electra, con il presidente Sandro Castagnoli, Stefania Boccaccini, Martina Novelli e me medesimo è impegnato, infatti, nella divulgazione del corto, già approdato a Palazzo Madama a Roma, dove si è tenuta una proiezione alla presenza, tra gli altri, della senatrice Paola Binetti e di monsignor Carlo Maria Viganò, e a Ventotene nella cornice del Ventotene Film Festival, riscuotendo in entrambi i casi un ottimo successo di critica e pubblico. Ora altre occasioni per sensibilizzare una platea sempre più vasta e offrire un palcoscenico ampio non solo a un’opera, ma a un lavoro volutamente corale”. Bari. Le poesie dei detenuti per il Premio Letterario “Fumarulo” borderline24.com, 1 agosto 2021 Il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano ha partecipato nella Casa Circondariale di Bari alla premiazione dei vincitori del Premio Letterario “Fumarulo”, dedicato alla memoria del dirigente regionale scomparso prematuramente nell’aprile del 2017. I detenuti hanno partecipato attivamente al concorso presentando componimenti poetici e narrativi che sono stati valutati da una commissione. Un Premio speciale è stato consegnato a chi ha saputo esprimere al meglio, attraverso lo strumento della parola, i valori e le idee di cui lo stesso Stefano Fumarulo si è fatto portavoce. “Erano diversi anni che non venivo qui - ha detto Emiliano al termine della visita e dopo aver incontrato i detenuti - questo era uno dei luoghi dove ho lavorato per tanto tempo, e oggi abbiamo consegnato i premi per le poesie e i componimenti che i detenuti hanno scritto”. Stefano Fumarulo ha dedicato la sua vita alla lotta alla criminalità, oltre ad aver lottato al fianco delle persone più deboli contro il caporalato e ogni tipo di mafia, sia personalmente che in qualità di dirigente regionale, unendo professionalità e rigore tecnico. Proprio per questo motivo si è imposto come modello di virtù etica e sociale, di legalità e solidarietà, e soprattutto come modello per le nuove generazioni e per chi vuole cambiare la rotta della propria vita. Di seguito i tre componimenti vincitori per le singole categorie (i nomi dei vincitori sono tutelati da privacy): “Colpa” Colpa indossa le mie scarpe e prova a non cadere Io cado, sì cado!!! Ma poi penso, sospiro e ci ripenso. Mi trovo scalzo, ma il buio si è ripresentato come ogni volta sulla mia vita. Un destino, meschino: dettato da un libro scritto apposta per me… Pensando al buio che mi sono lasciato alle spalle: cammino a testa alta, guardando la luce che finalmente ho trovato. Per questo alla vita sono grato. Colpa… indossa le mie scarpe e provaci anche tu… “Io non valgo il mio errore” Il mio percorso di vita è uguale a quello di tante altre persone: lavoro, famiglia, modellismo. I valori che la mia famiglia mi ha trasmesso erano fondati sul lavoro e sull’onestà. Pensavo che, anche nelle situazioni più difficili che avevo dovuto affrontare, non mi ero mai allontanato dai principi di correttezza e di legalità in cui ho sempre creduto. Anzi, ero soddisfatto di ciò che avevo realizzato con i miei sforzi e i miei sacrifici. E ora mi ritrovavo in carcere per un evento non voluto. Per lunghi periodi trascorrevo insonne le notti, pensando a tutto quello che avevo costruito e perso. Nelle carceri ci sono persone messe sotto chiave per impedire loro di far del male al prossimo e alla società. Una risposta tanto ovvia quanto rara, perché si preferisce abbellire la cosa con frasi sulla rieducazione. Invece, esistono persone che devono essere recluse fisicamente per garantirsi dalla loro persistente minaccia criminale. Nella mia lunga carcerazione ho conosciuto molti detenuti e certi di loro erano diversi ed era evidente che non avevano nessuna speranza di riscatto. Erano dei perdenti. Nelle galere incontri certi giovani che hanno sogni da gangster… ma non capiscono che quei sogni possono trasformarsi in incubi. Certi giovani pensano di essere dei dritti con le idee chiare, e che il crimine sia l’unico mezzo per accorciare la strada per il successo e la ricchezza: è una filosofia errata… Forse non capiscono o non vogliono capire che quando hai una condanna lunga da scontare, aspetti l’infinito e vivi di illusioni, ma fai la conoscenza con un nuovo stato d’animo: la malinconia; e così capisci cosa significa scontare una pena, vivere in un mondo e in un tempo sospesi, dove nulla ha senso se non la propria sofferenza. Si vive nella miseria creata dalle debolezze umane e dagli sbagli da lei provocati, debolezze che languiscono solo quando l’uomo scopre la fede e la speranza. La società di oggi ci “costringe” a vivere in un modo frenetico, registrando così un forte impoverimento delle relazioni. Anche i linguaggi sembrano essere diventati volgari e scadenti, non essendo più in linea con la cultura rappresentano una società ormai allo sbando, depauperata dei suoi antichi tesori e pilastri valoriali. Cerchiamo sempre di ferire chi sentiamo più debole, a volte ci sembrano delle minacce alla nostra vita, senza riuscire a metterci nei panni altrui per capire i loro bisogni. È bello scoprirsi, capire che non ci siamo solo noi e che il rispetto è il primo passo importante verso l’altro. Tutti siamo uguali in questo mondo… a volte c’è bisogno di riscoprire e riconoscere che non sempre la nostra condizione sociale conta. E vedrete che migliorerà e ricostruirete una vostra nuova identità reale, integra, dalla quale non saprete più tornare indietro né farne a meno. Ma quanto tempo ancora dovremo aspettare perché questo concetto entri nella testa di tutti: verrà il giorno in cui riusciremo a vederci con gli occhi di un bambino? A vedere gli altri per quel che sono realmente? Tutto questo può sembrare un’utopia, ma a nulla potrebbero quei muri se solo riuscissimo ad abbattere quelli più importanti, i muri dei pregiudizi, delle intolleranze, quelli che ciascuno di noi si porta dentro. Tutto si può fare se lo si desidera veramente… anche abbattere questi muri. “Poesia” Se l’universo non ha un centro un solo uomo può essere al centro dell’universo. Essere ricordati per le gesta compiute è privilegio di grandi uomini e cosa importa se il destino ha spezzato la tua giovane vita troppo presto non sono gli anni della vita che contano ma la vita che metti in quegli anni. Se poi ci metti l’anima intera per ogni brandello di energia che possiedi per il prossimo tuo con abilità naturale ecco che diventi unico e speciale. Governo Draghi, l’immigrazione è il tallone d’Achille di Maurizio Molinari La Repubblica, 1 agosto 2021 Il motivo è triplice: le differenze fra i partner della coalizione sono vistose, l’Ue non sostiene i Paesi più esposti ai flussi, e la simultaneità delle crisi in Tunisia e Libia va a vantaggio dei trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo. A quasi sei mesi dalla nascita, il governo Draghi è riuscito ad accelerare il programma di vaccinazione e ad avviare il piano di ricostruzione, d’intesa con Bruxelles, varando anche riforme importanti come su Semplificazione e Giustizia. Per non parlare della ritrovata credibilità internazionale con partner europei ed alleati atlantici. Ma lo stesso governo ha anche un vistoso tallone d’Achille: l’immigrazione. Il motivo è triplice: su questo tema le differenze fra i partner della coalizione sono vistose e l’Ue esita a varare politiche di reale sostegno ai Paesi più esposti ai flussi mentre in Nordafrica la simultaneità delle crisi in Tunisia e Libia paventa il rischio di un’estensione delle aree prive di sufficienti controlli di sicurezza locali, ad evidente vantaggio dei trafficanti di esseri umani attraverso il Mediterraneo. E poiché è difficile prevedere un avvicinamento di posizioni sui migranti fra Lega, Pd e M5S, così come appare proibitivo immaginare rivoluzionarie aperture da parte dell’Ue in ragione delle non troppo lontane scadenze politiche elettorali a Berlino e Parigi, l’unica strada per scongiurare un massiccio arrivo di profughi durante il periodo agosto-ottobre - quando il mare è più calmo e la navigazione diventa più facile - sembra essere un impegno strategico per stabilizzare il Nordafrica inquieto perché al centro di un aperto scontro interno all’Islam sunnita. Tale scontro si svolge in Tunisia e Libia con modalità simili se non convergenti. In Tunisia il presidente Kais Saied ha allontanato il premier Hichem Mechichi facendo uso delle forze armate che hanno imposto il coprifuoco e appaiono determinate ad emarginare il partito islamico Ennahda, espressione dei Fratelli musulmani, il tutto con l’aperto sostegno di Egitto ed Emirati Arabi Uniti a fronte delle vibranti proteste di Turchia e Qatar. Perché ci sono proprio questi Paesi al cuore del duello inter-sunnita: Il Cairo ed Abu Dhabi accusano i Fratelli Musulmani di voler “rovesciare e abbattere tutti gli Stati arabi” mentre Ankara e Doha li difendono come la più pura espressione “dell’Islam politico”. La sfida in corso in Tunisia è dunque solo il tassello di uno scontro strategico più vasto per la guida dell’Islam sunnita che contrappone la Turchia di Recep Tayyip Erdogan - leader del proprio fronte - all’Arabia Saudita dell’anziano re Salman, che egiziani ed emiratini sostengono. Tale confronto si ripete, con una dinamica assai simile, in Libia, dove Ankara e Doha appoggiano con armamenti e finanze le milizie di Tripoli mentre Il Cairo e Abu Dhabi - assieme a Riad - fanno altrettanto con quelle della Cirenaica, dove fra l’altro operano i reparti dei mercenari russi della Brigata Wagner. Ovvero, se oggi la costa lunga quasi 1800 km da Tunisi a Bengasi offre più possibilità di operare ai trafficanti di uomini è perché si tratta di un’area resa instabile da uno scontro duro fra potenze sunnite rivali. A ben vedere l’unica opzione che l’Italia - e anche l’Ue - ha per scongiurare il peggio è rafforzare le deboli e precarie strutture degli Stati-nazione in Tunisia e Libia. Nel primo caso significa dialogare con il presidente Saied per aiutarlo a scongiurare l’implosione definitiva del Paese mentre nel secondo l’opzione sul tavolo è contribuire a far svolgere entro fine dicembre le previste elezioni politiche - parlamentari e presidenziali - come auspicato da Nazioni Unite, Conferenza Ue di Berlino, summit Nato e amministrazione Biden. Ma anche qui può rivelarsi una strada minata perché sul terreno, in Tripolitania e Cirenaica, ci sono rispettivamente reparti militari turchi e russi che vedono nel voto politico un evidente pericolo perché chiunque sarà legittimato a guidare la Libia potrebbe chiedergli di allontanarsi senza troppi indugi. Per il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in arrivo a Tripoli all’inizio della settimana, si annuncia dunque una visita assai delicata perché gli strumenti che l’Italia ha in tale cornice per tutelare i propri interessi nazionali - ovvero bloccare o almeno regolare gli arrivi di migranti - sono assai esigui. Senza contare che sulle unità della Guardia Costiera libica vi sono oramai da molti mesi ufficiali turchi, divenuti di fatto i vigili urbani del traffico dei migranti nel bel mezzo del Mediterraneo centrale. Solo tenendo presente la frantumazione geopolitica del Nordafrica si arriva dunque a comprendere quanto l’immigrazione è un terreno dove la risposta italiana può nascere andando ben oltre le polemiche ideologiche di parte fra i partiti politici sugli arrivi dei migranti, definendo una dimensione mediterranea della sicurezza nazionale da condividere poi con Ue e Nato. Poiché non è possibile stabilizzare il Nordafrica in presenza di Stati falliti o destinati a fallire, il governo Draghi ha anzitutto bisogno di una strategia di sicurezza per difendere i nostri interessi - a cominciare dall’immigrazione - in un Mediterraneo conteso. L’Europa debole con i dittatori di Andrea Bonanni La Repubblica, 1 agosto 2021 L’inadeguatezza delle reazioni dell’Ue costituisce un incoraggiamento a continuare le provocazioni. Turchia, Egitto e Bielorussia non si fermeranno certo per i comunicati di Borrell. In Tunisia la Ue sta cercando, finora senza molto successo, di impedire il collasso dell’unica democrazia araba alle porte di casa, dopo averla di fatto lasciata sola a combattere una spaventosa crisi economica e una epidemia di Covid dilagante. Ancora una volta, come già in Libia, Egitto ed Emirati hanno agito con maggiore prontezza ed efficacia mandando a gambe all’aria gli interessi europei. Un tempo, la crisi tunisina sarebbe stata considerata di pertinenza della Francia e magari dell’Italia. Oggi è manifestamente un problema europeo, anche perché l’incendio rischia di estendersi alla vicina Algeria e le ricadute non si misurano solo nel danno politico, ma anche nella possibilità di un nuovo esodo di boat people attraverso il Mediterraneo. Sul fronte opposto dei confini europei, il dittatore bielorusso Lukashenko sta inondando la piccola Lituania con migliaia di rifugiati fatti venire espressamente dall’Africa e dall’Iraq per poi essere spediti a chiedere asilo in Europa. Lukashenko mesi fa si rese colpevole di un autentico atto di guerra nei confronti della Ue sequestrando un aereo europeo in volo da Atene a Vilnius per catturare un dissidente bielorusso che era a bordo. La risposta di Bruxelles fu di imporre sanzioni contro Minsk. L’efficacia di quel provvedimento si può misurare nel successivo vertiginoso aumento della repressione da parte di Lukashenko, forte dell’appoggio di Putin, e adesso nella sfida dei migranti lanciata contro la Lituania. Anche questa, un tempo, sarebbe stata considerata una crisi di competenza della Polonia, dei Baltici, al limite della Germania, mentre oggi è evidente che la sfida del nipotino di Stalin è diretta contro tutta l’Europa. Saltando ancora di molte migliaia di chilometri, a Cipro il presidente turco Erdogan, dopo aver incassato il rinnovo dei finanziamenti Ue per i rifugiati siriani, si è presentato per una visita nella parte Nord dell’isola illegalmente occupata dai turchi nel 1974. E qui ha riacceso le braci di un conflitto che si stava raffreddando. Ha minacciato di ripopolare con immigrati anatolici il quartiere di Varosha, una città fantasma alla periferia di Famagosta dopo la fuga dei greco-ciprioti in seguito all’invasione. Un simile passo sarebbe una ulteriore violazione della risoluzione 5500 delle Nazioni unite che chiede, inutilmente, di trasferire l’area sotto controllo Onu. Erdogan, inoltre, ha rilanciato le pretese turche per ostacolare una riunificazione negoziata dell’Isola. Anche questa, un tempo, sarebbe stata considerata una questione di competenza greca e magari britannica. Ma oggi la sfida all’Europa è evidente, se non altro per le dichiarazioni del ministro degli Esteri turco secondo cui “su Cipro la Ue ha perso ogni credibilità”. La reazione europea all’ennesima provocazione turca è stata l’ennesimo comunicato di condanna da parte dell’Alto rappresentante Josep Borrell. Borrell, beninteso, ha anche emesso un comunicato per condannare il traffico di migranti di Lukashenko contro le frontiere lituane, che dovrebbero essere presidiate dalla Ue. Né è mancato un comunicato per esortare a una soluzione democratica della crisi in Tunisia assieme all’invio, assai tardivo, di dosi di vaccino. È ormai evidente che la debolezza e l’inadeguatezza delle reazioni dell’Europa costituiscono un evidente incoraggiamento per i bulletti che la assediano a continuare l’escalation delle provocazioni. Erdogan, al-Sisi, Lukashenko non si fermeranno certo per i comunicati di Borrell. Meno la Ue si dimostra in grado di reagire, più la loro arroganza aumenta. Sarebbe ormai tempo di capire che, per la Ue, essere una potenza globale implica anche darsi una strategia di politica estera all’altezza delle sfide che questo comporta. Da anni Bruxelles annuncia passi avanti nella creazione di una difesa comune, ma non è stata in grado neppure di mandare due fregate per impedire le trivellazioni illegali della Turchia nelle acque cipriote. Non possiede servizi segreti in grado di contrastare adeguatamente le azioni dei nostri nemici. Né, finora, con la lodevole eccezione di Mario Draghi che ha definito Erdogan un dittatore, ha dimostrato di saper usare la necessaria durezza, anche verbale, per rintuzzare le provocazioni altrui. Quando scoppiano incendi alle porte di casa, occorre poter disporre di pompieri efficienti, altrimenti le fiamme dilagano. I comunicati di Borrell sono solo carta gettata nel fuoco. Albania migrante, tutti sognano la fuga di Mirta Da Pra Pocchiesa Il Manifesto, 1 agosto 2021 Per tanti rifugiati il Paese resta punto di transito inevitabile sulla rotta balcanica, una tappa senza servizi né centri di accoglienza. Ma è anche Paese di partenza: gli albanesi continuano ad andarsene, sperando in una vita migliore in Europa. Avvocati e operatori di associazioni come Asgi, Associazione Studi Giuridici sull’immigrazione, Lungo la rotta Balcanica e SOS Diritti di Venezia, tutti parte della rete Network Porti Adriatici, sono partiti per vedere con i loro occhi, per sentire con le loro orecchie e soprattutto per percepire, direttamente, quello che avviene in Albania rispetto alle rotte migratorie e ai respingimenti attuati sia dalle varie polizie nazionali sia da Frontex, l’agenzia europea della Guardia di frontiera e costiera. “Nel corso del 2020-2021, nell’ambito delle attività di approfondimento e di monitoraggio che portiamo avanti ai confini interni, ai porti adriatici e lungo la rotta balcanica - raccontano Anna Brambilla e Erminia Rizzi, di Asgi - abbiamo avuto la percezione, dalle testimonianze di molti migranti arrivati in Italia dall’Albania e da altri Paesi dell’area balcanica, che i transiti da questo Paese stessero aumentando. Questa percezione sembrava confermata anche dalle notizie dell’arrivo di migranti con piccole imbarcazioni sulla costa pugliese. L’Albania è inoltre stato il primo Paese terzo in cui Frontex ha avviato operazioni finalizzate anche al controllo dei confini. Da cui il nostro viaggio, ai confini e nei porti: Tirana, Durazzo, Valona ma anche Korce, Girocastro, l’Albania del Nord, Scutari e ai confini con il Montenegno”. La delegazione ha incontrato referenti istituzionali e rappresentanti di ong locali. I migranti ci sono ma si vedono poco, perché sono per lo più in transito. È il primo aspetto che colpisce: in Albania (a parte Durazzo e il confine con il Montenegro) non si ha la percezione della presenza di migranti come avviene invece in Bosnia, a Ventimiglia o in altri luoghi dove le persone si vedono, tante, e hanno luoghi specifici dove sostare. In Albania i migranti sono per lo più in transito, arrivano ma mirano ad andare altrove. In fretta. “Il transito è rapido e sotto traccia perché sia la polizia albanese che Frontex intervengono, nei confronti dei migranti, come si addice a un Paese filtro, che mira a entrare in Europa attraverso una procedura di pre-screening abbastanza simile a quella che viene svolta in altri punti di frontiera - racconta l’avvocata Anna Brambilla - Si valuta la posizione della persona e la si fa accedere se presenta la volontà e i requisiti per chiedere la protezione internazionale. Altrimenti riceve l’ordine di lasciare il territorio o viene respinta verso la Grecia”. “I numeri riportano dati maggiori della percezione che si ha alle frontiere e ai porti e mostrano una tendenziale trasformazione del fenomeno - precisa Erminia Rizzi, operatrice legale in diritto dell’immigrazione e asilo - Seimila persone nel 2020 secondo l’Unhcr, 11mila secondo le ong. Sempre l’Unhcr, dal primo gennaio 2021 a maggio, ha registrato 2.542 arrivi ma solo 40 domande di asilo, con un tendenziale aumento del divario tra arrivi e domande registrate”. Il compito delle associazioni e delle realtà che possono intervenire nella fase di pre-screening della polizia appare essere prettamente di tipo umanitario: offrono beni di prima necessità e sostegno sociale ai migranti in transito. Nulla più. Anche perché, da quanto verificato con le ong del territorio, “mancano i servizi, i luoghi per accogliere eventuali soggetti vulnerabili come i minori non accompagnati (sono quasi inesistenti le strutture per poterli tenere separati dagli adulti) e le vittime di tratta”. I fondi in generale sono pochi e gestiti principalmente attraverso Oim e Unhcr. A complicare il tutto una legge che, pur essendo finalizzata a contrastare il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, colpisce coloro che portano solidarietà ai migranti. L’Albania è, di fatto, una terra di migranti che partono e tornano, perché respinti o perché arrivano nel Paese, in un modo o nell’altro, alla fine del loro progetto migratorio. Questo aspetto viene rimarcato nel racconto delle istituzioni e delle ong locali incontrate: l’Albania è ancora una terra di emigrazione, soprattutto dal nord (ma non solo) tanto che sono in atto diverse campagne di informazione per i giovani e le famiglie per contrastare la tratta dei minori. Brambilla e Rizzi raccontano di emigranti albanesi di ritorno, di interi nuclei familiari rimpatriati da Francia, Germania e Olanda e di minori che partono per cercare di migliorare le condizioni di vita anche della loro famiglia. “C’è poi una nuova legge sull’asilo che riprende in alcune parti le procedure di accesso delle leggi europee ma la distanza tra il formale e il reale è tanta. Tutto è molto acerbo e soprattutto misto. Coesistono migranti di passaggio, fenomeni di tratta, emigrazione, rimpatrio di albanesi da paesi dell’Unione europea”. Il tutto in un Paese cosparso di bunker, costruiti per difendersi da attacchi via mare e terra. Dove si fatica ancora a raccontare tutto quello che si vede, e si vive. Un Paese dove non ci sono quasi attivisti che difendono i diritti delle persone, residenti e non. E dove tutto è organizzato per compartimenti stagni. I migranti sono strattonati tra il sogno europeo e la Turchia. Il rapporto con la Turchia è un altro elemento di non poco conto. Un rapporto forte, culturalmente ed economicamente. Basti pensare che la lingua turca è insegnata in molte scuole e diviene la seconda lingua per molti albanesi. E che la Turchia sta finanziando molte moschee nel Nord dell’Albania. “Della tensione, tra queste due spinte contrapposte, non si può non tenere conto”. Intanto nei porti italiani di Ancona e Bari sbarcano - e vengono respinti - siriani, afghani, marocchini, curdi di Turchia, provenienti soprattutto dalla Grecia. A Brindisi, nel 2020, i dati evidenziano invece che si tratta per lo più di cittadini albanesi. Le due rappresentanti di Asgi sono tornate riportando sensazioni contrapposte. “In occasione degli incontri formali non sono state espresse critiche ma in occasione dei momenti informali sono emerse posizioni più sfaccettate. Nessuno sembra opporsi all’uso dei container per alloggiare i migranti fermati nelle aree di frontiera ma dalle chiacchierate con gli anziani sono emersi sentimenti che dimostravano vicinanza ed empatia, dovuti probabilmente alla condivisione di esperienze nemmeno troppo lontane nel tempo e, in alcuni casi, ancora attuali. Lungo le strade e nei villaggi, l’architettura delle case è il primo segnale di distinzione, di cambiamento: il simbolo delle rimesse arrivate nel Paese, di arricchimento”. Ci sono agriturismi a chilometro zero che offrono ottimi prodotti ai turisti che si affacciano a vedere un Paese molto bello e ospitale, con i titolari che sono stati per anni loro stessi migranti e ora assumono connazionali che possono, con loro, scegliere se stare o andare. C’è la popolazione rom che non è mai stata costretta alla logica del campo. Un’Albania, insomma, che, nonostante tutto e sempre di più, può offrire ai suoi cittadini, viaggi di andata, con ritorno. Afghanistan, offensiva talebana. Civili in fuga di Giuliano Battiston Il Manifesto, 1 agosto 2021 Attacchi e rappresaglie contro i parenti dei “collaborazionisti”. Emergency: nel centro chirurgico di Lashkargah non ci sono più posti disponibili. Per i residenti di Herat, Lashkargah e Kandahar, tre delle principali città afghane, sono ore di drammatica incertezza. Negli ultimi due-tre giorni i Talebani hanno infatti sferrato una triplice offensiva, riuscendo a entrare nei distretti periferici di queste importanti città e combattendo duramente contro le forze governative, che per ora sono riuscite a impedire la conquista dei nuclei centrali delle città, ma non a evitare il progressivo accerchiamento da parte del gruppo guidato da mullah Haibatullah Akhundzada. A Kandahar, storica roccaforte del gruppo nel momento della sua nascita e ascesa, in particolare nella metà degli anni Novanta e ancora negli anni successivi, quando ospitava lo storico leader mullah Omar, i Talebani hanno condotto operazioni di rappresaglia, secondo un recente rapporto curato da Human Rights Watch. Sarebbero infatti andati a cercare i parenti più stretti dei “collaborazionisti”, accusati di aver lavorato per il governo di Kabul o per le forze di sicurezza. E li avrebbero uccisi. Secondo l’Afghanistan Independent Human Rights Commission, i Talebani avrebbero condotto rappresaglie anche contro i civili che nelle settimane scorse avevano plaudito alla provvisoria riconquista da parte delle forze governative del distretto di Spin Boldak, al confine con il Pakistan. Mentre proprio ieri il New York Times ha confermato una notizia che già circolava da giorni: il corpo del fotografo indiano Danish Siqqiqui, ucciso mente era embedded con le forze speciali afghane a Spin Boldak, sarebbe stato oltraggiato dai Talebani, una volta che il e premio Pulitzer era già morto. A Lashkargah, nelle scorse ore si è combattuto anche all’interno della città. Eravamo lì esattamente un mese fa: allora i combattimenti erano nella periferia della città, oltre il fiume. Ma tutti i residenti già aspettavano l’arrivo dei Talebani. Che ora sono arrivati. Sono invece arrivati in ritardo - soltanto ieri pomeriggio - gli aiuti militari chiesti dal governatore della provincia per fronteggiare la nuova offensiva dei Talebani, che già lo scorso maggio avevano provato a sferrare un attacco alla città, in quel caso per verificare la prontezza degli americani nell’accorrere in aiuto dell’alleato di Kabul. A testimoniare la gravità della situazione, in particolare per i civili, la dichiarazione di Emergency, che dal 2004 gestisce un ospedale per vittime di guerra a Lashkargah: nel centro chirurgico non ci sono più posti disponibili. A Herat la resistenza all’offensiva talebana passa, oltre che per i bombardamenti degli americani, anche per il vecchio signore della guerra e leader del Jamiat-e-Islami Ismail Khan, che si è fatto riprendere e fotografare mentre combatte, fucile in mano. Ismail Khan, dominus dell’area, non ha risparmiato critico al ministero della Difesa, in ritardo con gli aiuti, e agli americani, colpevoli di aver galvanizzato e legittimato i Talebani con l’accordo bilaterale firmato a Doha nel febbraio 2020. Un accordo fortemente voluto dal presidente Donald Trump, poi confermato dal successore, Joe Biden, il quale ha soltanto posticipato di qualche mese la data finale del ritiro delle truppe americane, dall’1 maggio all’11 settembre 2021. Quella data si avvicina. E i talebani sono entrati in una fase della più generale offensiva militare che ha permesso loro di conquistare più della metà dei circa quattrocento distretti del Paese, con una rapidità e una facilità che ha sorpreso molti, in alcuni casi perfino loro. I Talebani finora avevano evitato di sferrare attacchi simili ai capoluoghi di provincia, in base a un tacito accordo con Washington, corollario dell’intesa formale firmata a Doha. Pochi giorni però gli Usa sono tornati a bombardare le postazioni talebane per ridare fiato alle forze di Kabul. Gli studenti coranici sostengono che si tratta di una rottura palese dell’accordo di Doha, accordo che finora non ha impedito loro di macinare distretti su distretti e in molti casi di tornare a impiegare quei metodi violenti che nelle dichiarazioni ufficiali assicurano di non voler più adottare: in queste ore circolano sui social tra gli altri i video di due presunti criminali, uccisi e impiccati su un alto palo, in un distretto della provincia dell’Helmand. Marocco. Quei 15 minuti che hanno portato Ikram in carcere di Laura Cappon Il Domani, 1 agosto 2021 Il caso di Ikram Nazih è arrivato in parlamento. Ieri pomeriggio, durante la commissione Esteri della Camera, il sottosegretario agli Affari esteri, Manlio Di Stefano, ha risposto a tre interrogazioni parlamentari presentate sul caso dal deputato leghista Massimiliano Capitanino e dalle deputate Yana Ehm e Elisa Siragusa del gruppo misto. L’interrogazione a firma Pd, annunciata dal responsabile della politica estera dem, Emanuele Fiano, proprio sulle pagine di questo giornale, non risulta invece ancora presentata. “La Farnesina segue il caso con la massima attenzione”, ha dichiarato Di Stefano e “sostiene a pieno sia la sua famiglia sia il suo avvocato”. Il processo d’appello - La giovane studentessa italo-marocchina, condannata a tre anni di carcere e a una multa per blasfemia, è rinchiusa in un penitenziario di Marrakesh ormai da un mese. La riposta del sottosegretario conferma quanto già trapelato dalle fonti diplomatiche, ossia che la giovane è seguita regolarmente dalle nostre autorità: il console generale l’ha visitata in carcere due volte, il vice console onorario una, mentre il 23 luglio scorso a incontrare la giovane è stato lo stesso ambasciatore italiano in Marocco, Armando Barucco. La Farnesina rassicura anche che Ikram è in buone condizioni fisiche e psicologiche e che il Consolato generale a Casablanca sta monitorando lo stato di salute della ragazza attraverso il proprio medico di fiducia. Dalla risposta di Di Stefano emergono anche nuovi particolari. Sul piano giudiziario la novità più rilevante è che il processo di secondo grado, atteso inizialmente per la fine di questo mese, potrebbe slittare. La Farnesina non è ancora al corrente della data e prevede che potrebbe celebrarsi “nelle prossime settimane”. Quindici minuti - La giovane è stata fermata il 19 giugno, e non il 20 come risultava in un primo momento, al suo arrivo all’aeroporto di Marrakesh. Sul post Facebook che sta alla base delle accuse di oltraggio all’Islam - un gioco di parole che trasformava la sura del Corano, detta dell’abbondanza, in sura del whisky - Ikram avrebbe affermato “di non averlo scritto e di aver condiviso sul proprio profilo Facebook solo una foto raffigurante una pagina del Corano, il cui contenuto era stato alterato”. Una card, quindi, che, come dichiarato dalla giovane, è stata rimossa dopo 15 minuti “perché avvertita da altri della gravità del suo contenuto”. Quei 15 minuti in cui il post è rimasto nella sua pagina, in ogni caso, sono risultati fatali per Ikram perché le sono valsi una denuncia da parte di un’associazione islamica, presentata al foro di Marrakesh. Negli ultimi giorni le iniziative a favore di Ikram, nata a Vimercate (Monza e Brianza) da genitori marocchini e oggi residente a Marsiglia dove frequenta la facoltà di giurisprudenza, si sono moltiplicate. La petizione per la sua liberazione postata da Domani su Change.org ha raccolto più di 800 firme mentre Riccardo Noury di Amnesty International, organizzazione che segue il caso dall’ufficio regionale di Tunisi, ha pubblicato un video su Twitter. “La condanna per Ikram è ingiustificata e deve essere annullata al più presto”, ha detto Noury. “Sono sempre di più i governi che controllano le attività dei cittadini sui social e aspettano la prima occasione per punirli”. Le reazioni politiche - Anche i parlamentari che hanno portato il caso in Commissione vorrebbero uno sforzo in più da parte della Farnesina. “Abbiamo domandato al ministero un ulteriore impegno nel dialogo con le autorità marocchine, per arrivare almeno alla concessione dei domiciliari alla ragazza”, spiega Capitanio, il primo a sollevare il caso in parlamento. “Chiediamo anche un approfondimento per capire se quello di Ikram sia un caso isolato o se sia in corso un monitoraggio, anche attraverso i social network, dei comportamenti e delle libertà dei cittadini con doppia cittadinanza, perché questa seconda ipotesi sarebbe grave e preoccupante”. Stessi toni dalle deputate Yana Ehm ed Elisa Siragusa, firmatarie delle altre due interrogazioni sull’arresto e la detenzione della ragazza. “Il caso di Ikram rischia di diventare uno Zaki bis, ma non possiamo e non dobbiamo permetterlo”, hanno dichiarato. “Il nostro lavoro proseguirà serrato e senza sosta anche nei prossimi giorni, affinché Ikram possa essere liberata e tornare il prima possibile ad abbracciare i suoi familiari”.