La giustizia riparativa alla prova dei reati di mafia di Luca Cereda vita.it, 18 agosto 2021 Il terzo focus del nostro viaggio sulle esperienze di giustizia riparativa (nelle correlate le prime due uscite). Un mafioso può capire il danno che ha provocato alle vittime e alla società civile e dialogare con loro a partire da valori condivisi? Il dramma di una vittima e il percorso riparativo di un detenuto per reati di criminalità organizzata. A Pizzolungo, vicino a Trapani, il 2 aprile del 1985 “sono stati uccisi dalla mafia mia madre, che aveva 31 anni, i miei fratelli che ne avevano 6 ed erano gemelli, Giuseppe e Salvatore”, racconta Margherita Asta, figlia, sorella: da quel giorno, famigliare di vittime di mafia. In questa storia, però, Margherita stessa ritiene che non sia soltanto lei la vittima, non sono vittime solo Giuseppe e Salvatore Asta e Barbara Rizzo: “È vittima anche Carlo Palermo: il magistrato che non ha perso la vita, ma che comunque e? stato ucciso sia dal punto di vista professionale, perché? dopo quell’attentato fallito nei suoi confronti e? stato costretto a lasciare la magistratura, sia dal punto di vista psicologico. La prima volta che ci siamo incontrati mi disse proprio che quella era una tara che si portava nel cuore e nella mente, quella di aver provocato involontariamente, pero? di aver provocato, la morte di persone innocenti”. E aggiunge: “Secondo me in attentati come quello che mi ha stravolto la vita, una strage di Cosa nostra, vedi due tipi di rei: uno che lo fa per disperazione e l’altro che lo fa soltanto per avere sempre di più”. Più soldi, fama malavitosa, rispetto di quel sostrato culturale mafioso in cui è cresciuto. Dalle stragi ai reati violenti: il marchio mafioso è indelebile nel reo? “Quella mattina, per non fare tardi - continua Margherita Asta - decisi di andare a scuola con una vicina di casa. Quindi passai dal luogo della strage, 5 o 10 minuti prima rispetto a loro, perché? altrimenti a ci sarei stata anch’io nella macchina. Ogni mattina avevo percorso con loro quella strada. La storia di mia madre e dei miei fratelli dimostra che chiunque potrebbe essere colpito dalla mafia. Sono stati uccisi da una autobomba preparata per uccidere un magistrato. Quando la macchina di mia mamma si e? trovata tra la macchina del Giudice Palermo, che la stava per sorpassare, e l’autobomba e? stato pigiato il pulsante, l’autobomba e? esplosa e la macchina di mia mamma e? stata disintegrata”. Questa strage è shoccante, ma ha un presupposto che la accomuna a tutti i reati di mafia: essere originata da una cultura della sopraffazione, della violenza, che a una retorica che parla di uomini d’onore, mette di fronte una realtà in cui donne e bambini vengono trucidati. Partendo da questi presupposti, è possibile con detenuti di reati di mafia intraprendere percorsi riparativi che punto al risanamento dello strappo creato dal reato, attraverso forme di incontro e di dialogo? Perché il dialogo esiste se ci sono punti in comune. L’obiettivo di questo reportage di Vita sulla giustizia riparativa, giunto alla terza puntata, non è quello di descrivere i numeri di quanti mafiosi nelle carceri italiane hanno intrapreso un percorso riparativo: i numeri si è detto, non ci sono e su questo fronte, grazie alla riforma Cartabia, si potrà iniziare presto a lavorare ad un censimento. Si desidera sollecitare riflessioni sulla complessità dell’evento “reato” in tutte le sue molteplici implicazioni: psicologiche, sociologiche, emotive. Implicazioni che riguardano tutti i soggetti coinvolti anche quando si tratta di reati di mafia. Trasgredire e riparare Lo psicologo Angelo Aparo nelle carceri milanesi ha fondato nel 1997 il “Gruppo della trasgressione” con cui realizza percorsi di giustizia riparativa con anche detenuti per reati di mafia. Prima che si arrivi al punto di far incontrare rei con la società civile, che entra in carcere per far sentire chi è dentro, parte della società che sta fuori, il Gruppo lavora sull’auto-percezione di quello che è il danno che il reato ha inflitto allo stesso autore. “In carcere bisogna innanzitutto promuovere nel detenuto quella riflessione che non c’era al momento del reato, per recuperare la coscienza della parentela fra il reo e la vittima, l’appartenenza alla stessa comunità anche quando in mezzo c’è l’esplosione drammatica e insanguinata di un’auto che spazza via due bambini e una madre in una strage premeditata che segna anche il destinatario di quell’autobomba, un uomo dello Stato, il magistrato Palermo. E come questa tante altre sono state ordite da uomini di mafia. Queste persone possono riuscire a vedere che dietro quel pulsante premuto, le vite spazzate via erano quelle di persone, donne, uomini e bambini come lo sono stati loro, famiglie intere cancellate, o segnate per sempre da quella striscia di sangue? Gli “strappi” dei reati di mafia Un lembo dello strappo che la giustizia riparativa prova a ricucire è costituito dai rei, anche di crimini legati alla criminalità organizzata. Tra loro c’è Adriano, detenuto da oltre 20 anni per reati di Camorra nel carcere di Opera. Quasi 10 anni fa, ormai, entra nel Gruppo della trasgressione e da quel momento inizia a muovere i primi passi di presa di coscienza del suo passato e dei valori che lo hanno caratterizzato. “Sono entrato in carcere da colpevole ma mi sentivo una vittima. Ora che ho preso coscienza che anche se ho ammazzato altri camorristi, ho commesso strappi irreparabili, mi rendo conto che il colpevole sono io. Ora che sono sottoposto all’articolo 21 della norma penitenziaria, sto lavorando anche fuori dal carcere dove compro frutta all’ortomercato di Milano per poi rivenderla nei ristoranti con la cooperativa che abbiamo creato. Così facendo tento di ricucire lo strappo, non tanto con le vittime dirette dei miei crimini, ma con la società, anch’essa strappata dalle mie azioni”. Un percorso riparativo che parte da dentro: dentro la testa del detenuto di reati di mafia, con un cambio dei suoi valori di riferimento, dentro il carcere, grazie ai percorsi di giustizia riparativa, e dentro la società, di cui gli istituti di pena fanno parte. Quando la giustizia è rigenerativa Anche Alessandro, detenuto come Adriano per reati di criminalità organizzata, racconta che non bisogna pensare che l’ambiente “difficile” sia una scusa: è solo uno degli elementi che porta a compiere certe azioni. “Una volta in carcere e fatti certi percorsi di riflessione e pensiero, sono finalmente riuscito, per la prima volta, ad immedesimarmi nell’altro. E da quel momento ho capito che la bellezza della vita sono i rapporti, liberi: così ho deciso di investire la mia vita per raccontare ai giovani e a tutti la mia esperienza così che loro potessero ricevere da me ma che io possa ricevere esperienze e valori da loro”. Queste storie sono paradigma del fatto che il cambiamento dopo un percorso riparativo è possibile anche in chi è cresciuto nell’orizzonte della cultura mafiosa, è necessario di eliminare le categorie che separano chi sta fuori da chi sta dentro al carcere: ai detenuti va ridata fiducia, perché possano riconoscere il male fatto anche attraverso il dialogo diretto con la vittima e con la società che hanno lacerato per tornare a farne parte con attori di quel cambiamento. Nell’immaginario collettivo, per una questione di scarsa informazione e di slogan politici come “buttiamo via la chiave”, non c’è nessuna idea del fatto che in carcere si possa fare anche con detenuti di questo tipo un percorso di riparazione del danno sociale: né che questo percorso lo si debba fare perché è ciò che chiede la Costituzione. Perché la pena è questo. Con la speranza che la “messa a sistema” delle pratiche riparative ovunque, non solo laddove ci siano fuori dal carcere realtà auto-organizzate, possano rendere la pena rieducativa e riparativa sempre. L’inferno estivo nelle carceri: ore d’aria bollenti e celle strapiene di Riccardo Polidoro Il Riformista, 18 agosto 2021 Lucifero non ha fermato le Camere Penali che hanno visitato e stanno visitando gli istituti di pena nel mese di agosto. L’iniziativa Ferragosto in carcere, voluta anni fa dai Radicali, ha sempre visto la partecipazione dei penalisti che, nel corso dell’intero anno, programmano costantemente visite nelle prigioni. Ma andarci ad agosto ha un forte valore simbolico. Da un lato è un segnale di vicinanza a chi, nella maggior parte dei casi, subisce ingiustamente un trattamento che va oltre la privazione della libertà; dall’altro vuole essere un momento di denuncia delle condizioni di vita all’interno dei penitenziari affinché vengano presi i dovuti provvedimenti. Nonostante il caldo feroce che sta attraversando il nostro Paese, gli avvocati di Bologna, Firenze, Torino, Prato, Palermo, Siena, Sassari, Taranto, Roma, Tempio Pausania, Cagliari, Reggio Calabria, Avellino, Cosenza, Verona, Paola, Catanzaro, Fermo, Milano e Udine hanno già visitato gli istituti che rientrano nel territorio di competenza delle rispettive Camere Penali. Subito dopo Ferragosto, gli avvocati di Santa Maria Capua Vetere, Nola, Napoli Nord (Aversa), Latina, Siena, Rimini, Parma, Pisa, Trieste, Reggio Emilia, Alessandria, Ferrara e della Basilicata effettueranno le loro visite. Sono giunte all’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali le prime relazioni che confermano l’inadeguatezza delle strutture ad affrontare non solo il caldo infernale di questi giorni, ma anche a garantire quel minimo d’igiene necessaria per scongiurare malattie infettive. In moltissimi casi non è prevista la presenza di ventilatori né di frigoriferi. Le docce, poste fuori dalle stanze e di uso comune, possono essere utilizzate solo una volta al giorno, ma l’assenza di manutenzione e il frequente intasamento degli scarichi le rendono spesso inservibili. L’ora d’aria, prevista a partire dalle 13, non è praticabile per il sole rovente che colpisce i cortili privi di zone d’ombra. Manca il personale e sotto organico sono tutte le figure necessarie per avviare un serio recupero sociale, come i funzionari pedagogici. Quando le visite saranno terminate, l’Osservatorio dell’Unione Camere Penali Italiane elaborerà un documento che sarà inviato alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che conterrà non solo la descrizione di quanto visto, ma indicherà anche i provvedimenti urgenti da adottare. Tra questi figurerà certamente l’assegnazione di maggiori risorse economiche e umane da destinare agli istituti penitenziari. Ciò che occorre, però, è un nuovo approccio culturale nei confronti dell’esecuzione penale, finalmente orientato sui principi della nostra Costituzione. Le recenti dichiarazioni della guardasigilli e la sua storia possono aprire un raggio di luce in un mondo da troppo tempo, o forse da sempre, al buio. Suicidio in carcere, il Garante: “Tema dell’esecuzione penale non rinviabile” redattoresociale.it, 18 agosto 2021 Sono 34 (in 33 settimane) i detenuti suicidi nel 2021, il precedente in un altro istituto solo 36 ore fa. “Stato responsabile della privazione della libertà, ma anche della tutela dei diritti. L’interrogativo su come si adempia a tale compito diventa ineludibile”. “La cronaca di oggi ci informa del trentaquattresimo suicidio in carcere del 2021: siamo alla trentatreesima settimana dall’inizio dell’anno. Questa volta il decesso è avvenuto a Vicenza. Il precedente suicidio era avvenuto in un altro istituto solo 36 ore fa. Le ragioni di un suicidio sono sempre imperscrutabili e nessuno vuole richiamare una responsabilità individuale di chi ha il compito di controllare una persona detenuta”. Lo afferma, in una nota, il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. “Resta il fatto che la persona che questa notte si è suicidata, oggetto di una misura cautelare iniziale - ricorda la nota - era entrata in carcere a mezzanotte e si è suicidata solo quattro ore dopo. Di lui la scheda non riporta quale fosse il reato che aveva determinato il fermo e l’arresto, e neppure i suoi precedenti. Come detto, il tema che in questo caso preme sottolineare non è la responsabilità individuale di chi sorvegliava questa persona, tuttavia la responsabilità collettiva esiste ed è pesante. Quando, infatti, una persona viene affidata allo Stato, esso diventa non solo responsabile della privazione della sua libertà ma anche della tutela dei suoi diritti. Allora, l’interrogativo su come collettivamente si adempia a tale compito diventa ineludibile. È per questo che si impone come non più rinviabile - conclude il Garante - per tutti noi una diversa attenzione e azione sul tema dell’esecuzione penale e del carcere”. Il carcere italiano: morte, suicidi e buio di Gioacchino Criaco Il Riformista, 18 agosto 2021 Ieri si è tolto la vita il trentaquattresimo detenuto, uno alla settimana da inizio anno. Da mezzanotte alle quattro. Dal buio al buio. Come fosse la luce di prima lo sapremo quando arriveranno altre notizie. Come sarebbe stata la luce prossima non lo sapremo mai. È un detenuto che se ne è andato. Suicidio. Il carcere è quello di Vicenza. Un comunicato scarno del Garante nazionale dei detenuti. Un uomo si è suicidato a quattro ore dalla sua entrata nell’istituto detentivo veneto. La fase iniziale di un’ordinanza di custodia cautelare. Gli attimi, le ore più dure per chi s’incontra con le manette. Un trauma che comunque segnerà la vita per chi lo subisce. A volte l’esistenza la spezzano proprio gli esordi carcerari. L’ultimo detenuto suicidatosi è il trentaquattresimo della trentatreesima settimana dell’anno. Un morto la settimana, con cadenza in aumento. Un essere umano che, forzatamente, affida la propria vita nelle mani dello Stato. Lo Stato, il Custode più prezioso della collettività. Un custode distratto, che almeno una volta alla settimana si dimentica del proprio ruolo. Che spesso, dentro la galera, il molo lo svolge male. Così, un affidato nelle mani dello Stato, ritorna alla famiglia giusto il tempo per salutarsi in chiesa e poi rilasciare una tempesta di lacrime al cimitero. Quasi nessuno lo sa, ma una famiglia, ogni settimana, per tutte le settimane dell’anno, scopre che lo Stato è un padre distratto, un cattivo padre. E ogni sette giorni un detenuto entra in carcere col buio, se ne va col buio, si perde nel buio. Chi si toglie la vita non scrive mai un trattato sul proprio dramma esistenziale. Al massimo lascia qualche riga, sulla quale si esercitano le interpretazioni. Il suicidio è sempre un enigma, dovunque avvenga. Quando si realizza fra mura che per quanto buie dovrebbero essere sicure, una parte del giallo si scioglie, perché il carcere italiano può pure essere morte, lo abbiamo visto tante volte. E lo sappiamo: il morto di Vicenza è il trentaquattresimo. La prossima settimana un altro si perderà nel buio. Figli detenuti con le madri: è possibile una svolta? di Giusy Santella mardeisargassi.it, 18 agosto 2021 Dopo sei mesi dall’approvazione della Legge 178 del 2020, si è data finalmente attuazione alle disposizioni riguardanti l’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito in case-famiglia protette e case-alloggio per l’accoglienza residenziale dei nuclei mamma-bambino. Si è prevista, infatti, la ripartizione tra le regioni e province autonome del fondo di 1.5 milioni di euro per l’anno 2021 stanziati a tal fine. La ripartizione sarebbe dovuta avvenire sulla base di dati trasmessi al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria concernenti l’attivazione di suddette misure extracarcerarie. Tuttavia, poiché al momento non risultano dati attendibili in merito e le uniche convenzioni stipulate hanno portato all’apertura di case-famiglia protette nei soli territori di Roma e Milano, per l’anno corrente i fondi sono stati distribuiti sulla base del numero di donne detenute per ciascun territorio, presupponendo quindi che a un maggiore tasso di presenza della popolazione detenuta femminile corrisponda una maggiore domanda di luoghi ove madri, con figli al seguito, possano essere collocate in regime di arresti domiciliari o detenzione domiciliare. Per gli anni 2022 e 2023 - per cui è stato stanziato lo stesso fondo - la ripartizione avverrà sulla base dell’effettivo impiego delle risorse che si è fatto e/o intende farsi, del numero dei minori ospitati da ciascuna regione e in misura proporzionale ai giorni di accoglienza. Al momento, alla Campania sono stati destinati euro 200mila 374.53 euro, per un numero medio di detenute pari a 321. La regione è al terzo posto per numero di recluse e segue la Lombardia e il Lazio (che ne contano mediamente 397 e 388). Tali previsioni potrebbero rappresentare una vera e propria svolta nel modo di concepire la pena per chi è detenuto con i propri figli o è genitore con figli minori al di fuori dell’istituto, poiché quelle cui si tende sono assolutamente diverse dalle strutture detentive di pertinenza dell’Amministrazione penitenziaria (I.C.A.M.), essendo strutture di accoglienza extra-carceraria, assimilate ai luoghi pubblici di cura e assistenza. In particolare, per quanto riguarda le case-alloggio, non si rinviene alcuna definizione normativa, dunque nella relazione illustrativa che accompagna il provvedimento attuativo si presuppone che esse siano strutture rispondenti all’esigenza di agevolare il mantenimento delle relazioni familiari, ad esempio permettendo a detenuti con bambini ristretti negli istituti penitenziari o negli I.C.A.M, di fruire di spazi extra-carcerari per riunirsi con altri componenti della famiglia, magari in occasione di permessi premio. Le case-famiglia protette sono invece luoghi, alternativi all’abitazione o ad altro luogo di privata dimora o a luogo pubblico di cura e assistenza, dove può essere disposta la misura cautelare degli arresti domiciliari. L’attuale ordinamento penitenziario prevede dal 2018 la possibilità per le madri di tenere con sé nell’espiazione della propria pena i bambini fino a 3 anni, disponendo degli appositi asilo nido e degli istituti a custodia attenuata che salvaguardino la crescita fisica e psichica del minore. In base agli ultimi dati diffusi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sono 23 le donne detenute con 25 figli al seguito. Bambini condannati a scontare una pena pur non avendo compiuto alcun reato, le cui infanzia e formazione saranno per sempre segnate dall’aver trascorso anni fondamentali della crescita in un luogo inumano come il carcere. In questi casi, infatti, il differimento della pena è solo facoltativo e disposto a discrezione del giudice, mentre è obbligatorio per le sole madri di infanti di età inferiore a un anno, in base all’articolo 146 del Codice Penale. Essere genitori mentre si sconta una pena detentiva è sempre difficile poiché il diritto all’affettività, nonostante sia ritenuto fondamentale dai dettami di legge al fine di preservare l’umanità della condanna, è uno dei più sacrificati. La famiglia del recluso sconta essa stessa una pena, non solo perché le possibilità di contatto con la persona cara sono pochissime, ma anche perché i modi attraverso cui si garantisce il diritto all’affettività sono spesso inumani, in particolare per i minori. E così molto spesso i bambini - quando sia stato rispettato il principio di territorialità della pena e questa venga scontata vicino alla propria famiglia - sono costretti a incontrare i loro genitori in luoghi poco accoglienti, fatiscenti e nei quali non viene garantita alcuna riservatezza. Quelli prospettati potrebbero essere quindi davvero degli strumenti fondamentali per ridare nuova vita al modo di scontare la pena, senza mortificare diritti fondamentali ulteriori rispetto a quello alla libertà. Anche stavolta, però, bisognerà vedere quale sarà l’effettivo utilizzo delle risorse per cui è necessario uno slancio in avanti in termini di civiltà, abbandonando l’idea che la pena debba essere punizione e tenendo bene a mente che chi è recluso è innanzitutto un uomo. Un Paese mai così sicuro, ma non per le donne di Giorgio Beretta* Il Manifesto, 18 agosto 2021 Dossier Viminale. La pericolosità per le donne della sfera familiare si riscontra anche negli ammonimenti dei Questori: quelli per violenza domestica sono saliti a 1.160 (tre anni fa erano 667) mentre è rimasto costante il numero di allontanamenti (403). Risultano invariate anche le denunce per stalking (quasi 16mila) di cui, in tre casi su quattro, sono vittime le donne. Un Paese mai stato così sicuro, ma non per le donne, i giornalisti e gli amministratori locali. È la realtà che emerge dal “Dossier Viminale” pubblicato come ogni anno a Ferragosto in occasione della riunione del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica. A catalizzare l’interesse di politici e opinionisti è stato soprattutto l’incremento del numero di migranti sbarcati sulle nostre coste (49.280 di cui 40.727 per “sbarchi autonomi”). Ma sono altre le informazioni del Dossier a cui andrebbe posta attenzione: sono dati che sconfessano “l’emergenza sicurezza” agitata per anni dalle destre e sollevano interrogativi su problemi poco dibattuti. Innanzitutto il dossier riporta il calo generale dei crimini (-7,1%) ed in particolare dei furti (-12,8%) e delle rapine (-3,8%) mentre, complice anche l’emergenza Covid, ad aumentare sono stati i reati informatici (+27,3%) e le truffe (+16,2%). Ma soprattutto è da notare la diminuzione degli omicidi volontari (da 295 dell’anno precedente a 276, con un decremento del 6,4%), che toccano così il minimo storico e fanno dell’Italia di oggi uno dei Paesi più sicuri nel mondo. Sono diminuiti anche gli omicidi nell’ambito familiare-affettivo (-8,3%), ma i 144 omicidi rilevati in questa sfera rappresentano più della metà (il 52,2%) del totale nazionale e confermano una tendenza degli ultimi anni: la crescente pericolosità del contesto familiare-affettivo. Soprattutto per le donne: gli 88 omicidi di donne in quest’ambito mostrano che tre omicidi su cinque (il 61,1%) hanno come vittima proprio una donna. Più in generale, i 105 omicidi di donne registrati nell’ultimo anno rappresentano il 38% di tutti gli omicidi volontari in Italia: sebbene siano in calo (l’anno precedente erano 122) indicano un problema che non può essere sottovalutato. La pericolosità per le donne della sfera familiare si riscontra anche negli ammonimenti dei Questori: quelli per violenza domestica sono saliti a 1.160 (tre anni fa erano 667) mentre è rimasto costante il numero di allontanamenti (403). Risultano invariate anche le denunce per stalking (quasi 16mila) di cui, in tre casi su quattro, sono vittime le donne. Un altro minimo storico è rappresentato dai 13 omicidi attribuibili alla criminalità organizzata (erano stati 22 l’anno precedente). In proposito è rilevante ed inquietante il raffronto col numero di omicidi commessi da legali detentori di armi: il Viminale non riporta dati, ma quelli reperibili nel database dell’Osservatorio OPAL di Brescia indicano che nel periodo agosto 2020-luglio 2021 vi sono stati 30 omicidi con armi regolarmente detenute. Questo significa che i legali detentori di armi sono responsabili di più del doppio degli omicidi commessi dalla criminalità organizzata: in altre parole, oggi in Italia è maggiore il rischio di essere uccisi da un legale detentore di armi che dalla mafia o da un rapinatore. È un fenomeno persistente negli ultimi anni che dovrebbe indurre ad una specifica attenzione da parte del Viminale e delle forze politiche: i fatti recenti, tra cui lo sterminio a Rivarolo Canavese di quatto persone (la moglie, il figlio disabile e una coppia di anziani vicini di casa) da parte di un anziano che a 83 anni deteneva armi con una licenza di tiro sportivo e la strage di Ardea in cui un anziano e due fratellini sono stati uccisi con un’arma ereditata dovrebbero portare ad una revisione in senso più restrittivo delle norme sulle licenze e a maggiori controlli sui legali detentori di armi. La questione riguarda anche altri due fenomeni preoccupanti che il Dossier segnala: l’aumento degli atti intimidatori nei confronti degli amministratori locali (nel primo semestre 2021 sono stati 369 gli amministratori minacciati, tra cui 189 sindaci) e verso i giornalisti (110 giornalisti minacciati, in buona parte per attività socio-politica). Norme troppo blande come quelle attuali sulla detenzione di armi possono favorire - come rilevava un rapporto Censis del 2018 - “una formidabile tentazione ad usarle” considerato che “molti assassini sono in possesso di regolare licenza”. Anche per questo è urgente aprire una seria riflessione sulle armi in Italia. *Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa - OPAL Appello per una riforma strutturale della giustizia tributaria di Giorgio Infranea e Pietro Semeraro* Il Foglio, 18 agosto 2021 Il tema della riforma della giustizia tributaria impegna da lungo tempo gli operatori del settore e trova sponda in diversi progetti di legge attualmente depositati in Parlamento. Nell’ambito del Pnrr, inoltre, tale esigenza di riforma viene specificamente richiamata, ponendo il focus sull’aumento della qualità delle sentenze delle Commissioni tributarie e conseguente alleggerimento del carico pendente in Cassazione, Sul punto, occorre premettere che la magistratura tributaria è attualmente composta da un mix di magistrati togati “prestati” alle Commissioni tributarie da altre magistrature (ordinaria, civile e penale, amministrativa e contabile) e da giudici onorari estranei al corpus della magistratura. Tale composito corpo di giudici si caratterizza, evidentemente, per un basso livello di specializzazione e di preparazione tecnica, peraltro proprio in una materia, quella tributaria, in cui specializzazione e aggiornamento constante sono invece assolutamente necessari, con l’effetto di aver reso la giustizia tributaria una sorta di roulette, caratterizzata da indirizzi mutevoli e da un tasso di annullamento delle decisioni in Cassazione pari a circa il 50%. In questo scenario, al fine di assicurare una riforma efficace, è stata istituita una commissione di esperti, nominata dal ministero della Giustizia, di concerto con il Met; che ha elaborato un piano di azione, purtroppo, non unitario (la relazione finale della Commissione è stata licenziata lo scorso 30.6.2021). Difatti, alla proposta riformatrice della maggioranza dei membri della Commissione, di estrazione “laica” (accademica, professionale e interna all’amministrazione finanziaria), si è contrapposta una proposta conservatrice da parte della componente “togata”, desiderosa di mantenere invariato l’impianto esistente. Brevemente, la proposta conservatrice prevede di mantenere la funzione onoraria dei giudici tributari, disponendo solamente di assegnare alle Commissioni regionali (di 2° grado) taluni giudici togati (provenienti dalle altre magistrature) in via esclusiva, ma per un tempo limitato (massimo 6 anni). Viceversa, la proposta riformatrice, in linea con le esigenze da anni manifestate dagli operatori e ribadite sul Foglio dal prof. Andrea Giovanardi (membro della citata Commissione ministeriale), mira alla creazione di una vera magistratura tributaria, specializzata e scelta per concorso, chiamata a dirimere le controversie in forza di un bagaglio tecnico-specialistico adeguato alle esigenze, destinando gli attuali giudici onorari alle controversie bagatellari, alla stregua di quanto avviene nel civile con le questioni rimesse ai giudici di pace. Inutile sottolineare quale sia la posizione e l’auspicio di chi vi scrive; il Pnrr rappresenta un’occasione unica per mettere finalmente mano alla magistratura tributaria. rispondendo a un bisogno manifestato, da anni, da tutte le parti (contribuenti e amministrazione), affidando una volta per tutte il ruolo di garante ultimo di cittadini, imprese ed erario a un soggetto tecnicamente preparato per la risoluzione delle controversie tributarie, sollevando da questo compito i giudici ordinari, sicuramente depositari di ampia conoscenza in campo giuridico, ma sostanzialmente scevri dei tecnicismi del diritto tributario sostanziale. Al fine di sensibilizzare la politica su questa improcrastinabile esigenza di riforma della magistratura tributaria è stata anche lanciata una petizione sul sito change.org, nella speranza che il decisore politico possa rispondere all’accorato appello degli operatori del settore, assicurando finalmente ai contribuenti, ma anche all’erario, che le decisioni assunte dai giudici tributari siano connotate dalla tecnicalità necessaria, oltre che ponderate e ragionevoli. Con la petizione, si chiede che il governo, in linea con la propria anima riformatrice, intraprenda scelte strutturali e coraggiose e non si limiti a interventi temporanei, di contorno e poco rispondenti alle effettive necessità di giustizia invocate da anni. *Avvocati tributaristi Vicenza. Suicida in carcere l’uomo accusato dell’omicidio del vicino di casa La Repubblica, 18 agosto 2021 L’assassinio del pensionato lunedì mattina. L’uomo, che soffriva di depressione, si è impiccato in cella poche ore dopo essere stato fermato. Ora indaga la procura che aveva detto ai carabinieri di avvisare le guardie carcerarie della fragilità psicologica del 52enne. Si è ucciso nella notte nel carcere di Vicenza l’uomo che aveva confessato di aver ucciso il 67enne Mario Valter Testolin. Gelindo Renato Grisotto, 52 anni, muratore, si è impiccato con i pantaloni a una trave del vano doccia, nella cella in cui era detenuto. A trovarlo, di mattina alle 5, gli agenti della Polizia penitenziaria che hanno subito chiamato il medico di guardia. L’omicidio e la confessione - Grisotto era stato portato in carcere poco dopo la mezzanotte di lunedì in seguito al provvedimento di fermo emesso dalla procura. Era accusato dell’omicidio premeditato avvenuto in mattinata nelle vicinanze della casa della vittima, in via Molinetta a Marano Vicentino. Testolin era stato colpito alla schiena e al torace da due fucilate esplose da Grisotto. L’uomo, durante l’interrogatorio, ha confessato il delitto e ha spiegato di aver agito per contrasti connessi alla vendita di un terreno agricolo a cui era seguita una controversia giudiziaria in sede civile. I carabinieri hanno sentito anche il medico del 52enne: ha riferito che l’uomo alcuni anni fa aveva lamentato disturbi depressivi. La fragilità psicologica richiedeva misure di sorveglianza - Al momento di disporre il fermo, il magistrato, spiega in un comunicato la procura di Vicenza, “aveva dato disposizione ai militari dell’Arma di rappresentare al personale della struttura carceraria la situazione di fragilità psicologica di Grisotto e l’esigenza di sottoporre a sorveglianza il detenuto. E nel biglietto di carcerazione della compagnia carabinieri di Thiene era indicata espressamente tale necessità”. Ora la procura sta svolgendo gli accertamenti, con acquisizione di rilievi fotografici, documenti e assunzione di informazioni, per ricostruire le ultime ore di vita dell’uomo dopo l’ingresso nella casa circondariale. E per accertare eventuali omissioni e, oppure, negligenze. L’allarme del Garante dei detenuti - “È il trentaquattresimo suicidio in carcere del 2021: siamo alla trentatreesima settimana dall’inizio dell’anno. Il precedente suicidio era avvenuto in un altro istituto solo 36 ore fa”, si legge nella nota del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. “Quando una persona viene affidata allo Stato, esso diventa non solo responsabile della privazione della sua libertà ma anche della tutela dei suoi diritti. Allora, l’interrogativo su come collettivamente si adempia a tale compito diventa ineludibile. È per questo che si impone come non più rinviabile - conclude il Garante - per tutti noi una diversa attenzione e azione sul tema dell’esecuzione penale e del carcere”. Roma. L’Ucpi denuncia il caos nelle celle di Regina Coeli di Vincenzo Comi Il Dubbio, 18 agosto 2021 Ferragosto in carcere iniziativa tradizionale dell’Ucpi - a Roma ha coinvolto quest’anno una rappresentanza dei penalisti a Regina Coeli. La delegazione ha prima incontrato la direttrice, Silvana Sergi, poi si è addentrata nell’istituto. “Le limitazioni dovute all’emergenza sanitaria aggravano le condizioni dei reclusi - spiega la rappresentanza - e il tribunale di sorveglianza non ha le dimensioni e le strutture idonee a soddisfare le richieste dei detenuti”. Sottolineata l’allarmante situazione dei detenuti con problemi sanitari, dopo l’ennesimo suicidio di un uomo detenuto nel carcere di Rebibbia con problemi psichiatrici che si è tolto la vita dopo essersi coperto la testa con una busta e aver inalato del gas, proprio nel giorno del suo compleanno. “Le strutture sono insufficienti a tutelare le persone malate che vengono abbandonate nelle celle in attesa di quel miraggio delle Rems continua la Camera penale e sono numerosi e costanti gli episodi di ritardo nelle iniziative a tutela della salute dei detenuti”. Ma le problematiche arrivano da lontano e la Camera penale è pronta a denunciarle. “Oggi si sconta una situazione già critica per il sovraffollamento e soprattutto per la dominanza di una cultura diffusa nella politica e nella magistratura che identifica il carcere come unico modo di esecuzione della pena (così detta carcero-centrica) ancora più incomprensibile nei casi di detenuti affetti da malattie fisiche o psichiche conclude la delegazione - Si può privare una persona della propria libertà ma mai della propria dignità e per questo è necessario ripristinare la legalità della pena e garantire la dignità delle condizioni dei detenuti con misure urgenti e coraggiose come l’indulto, che avrebbe anche la funzione di consentire una ripartenza della giustizia penale riducendo quel carico di arretrato di fatto già defunto ma che burocraticamente pesa sulla celebrazione dei processi”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). “Detenuti senz’acqua, la tutela della salute è un miraggio” di Anna Grippo casertanews.it, 18 agosto 2021 La visita delle Camere Penali di Santa Maria Capua Vetere, Napoli Nord e Nola al carcere “Francesco Uccella”. Disagi nell’approvvigionamento idrico, mancata socialità tra i detenuti per la quale è determinante la carenza di personale, scarsa tutela della salute dei reclusi dovuta ad una farraginosa trafila di richieste di assistenza sanitaria che giunge dall’esterno, assenza della politica sui temi concernenti i detenuti. Sono stati questi i riscontri dei delegati delle Camere Penali di Santa Maria Capua Vetere, Napoli Nord e Nola nell’ambito dell’iniziativa “Ferragosto in carcere” patrocinata dall’Osservatorio Nazionale dell’Unione Camere Penali a seguito della visita tenutasi stamane (17 agosto) presso la casa circondariale “Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere”. Grazie alla visita ispettiva i Presidenti della Camere Penali Francesco Petrillo (Camera Penale di Santa Maria Capua Vetere), Felice Belluomo (Camera Penale di Napoli Nord) insieme ai consiglieri Raffaele Carfora (vicepresidente Camera Penale Santa Maria Capua Vetere), Luca Viggiano(Camera Penale Santa Maria Capua Vetere), Fabio Della Corte (Camera Penale Napoli Nord), Maria Lampitella (Camera Penale Napoli Nord), Sergio Aruta (Camera Penale Napoli Nord) e Consiglia Fabbrocini (Camera Penale di Nola) hanno potuto constatare la condizione dei detenuti dell’istituto di reclusione sammaritano e le relative problematiche. “Scelta non casuale ma sentita anche alla luce di quelli che sono stati i fatti che l’hanno fatta assurgere agli onori della cronaca con la visita del Presidente del Consiglio Mario Draghi ed il Ministro della Giustizia Marta Cartabia ma nonostante ciò le nostre rappresentanze hanno voluto toccare con mano quelle che sono le condizioni ed i temi della carcerazione, cioè come si vive e soprattutto la finalità rieducativa e risocializzante dei detenuti cercando di capire dagli stessi operatori quali sono le condizioni nelle quali i medesimi lavorano”, ha spiegato a Caserta News il Presidente della Camera Penale di Napoli Nord Felice Belluomo. “Abbiamo visitato molti reparti passando da quelli femminili ai maschili riscontrando varie problematiche - aggiunge il Presidente della Camera Penale di Santa Maria Capua Vetere Francesco Petrillo - una problematica già denunciata da anni è la mancanza d’acqua poiché il carcere di Santa Maria Capua Vetere non è legato alla rete idrica comunale. Ciò crea disagio negli approvvigionamenti idrici seppur garantiti da pozzi e cisterne, insufficienti alla stregua del caldo torrido e dell’emergenza Covid”. Ulteriori crepe riscontrate nella condizione carceraria sono legate anche ad una mancata socialità (celle chiuse) spesso connessa con una carenza di agenti della polizia penitenziaria. “C’è la necessità di chiedere a livello centrale che la socialità dei detenuti venga privilegiata - afferma Luca Viggiano delegato della camera penale sammaritana e membro di un tavolo tecnico tra le Camere Penali di tutto il territorio del Distretto di Corte d’Appello di Napoli nonché Samuele Ciambriello Garante dei Detenuti della Regione Campania - ci sono reparti che non possono permettersi di essere aperti così come previsto poiché manca il personale della polizia penitenziaria. Allo stesso tempo i detenuti ci hanno segnalato problematiche rispetto alla tutela della propria salute. Per arrivare ad esser visitati c’è da fare una trafila farraginosa dovuta al fatto che l’assistenza sanitaria è esterna e quindi deve giungere dall’esterno perché poi possa esser a beneficio del detenuto”. Doglianze quelle raccolte dalle camere penali di Santa Maria Capua Vetere, Napoli Nord e Nola che saranno segnalate all’Osservatorio Nazionale Unione Camere Penali nonché al tavolo tecnico congiunto tra Garante dei Detenuti della Regione Campania e Camere Penali della Campania. “C’è sempre stata da parte di noi penalisti una grande vicinanza ai temi caldi della condizione carceraria”, sostiene il vicepresidente della Camera Penale di Santa Maria Capua Vetere Raffaele Carfora. “Siamo però sempre solo noi avvocati e siamo orgogliosi di avere questa sensibilità perché è qualcosa di raro - chiosa il Presidente Petrillo - sui temi dei detenuti noi penalisti siamo sempre soli e questo è un aspetto grave perché la politica si dovrebbe interessare anche di questo. Evidentemente pare che interessarsi della condizione dei detenuti non ha riscontro elettorale. Queste iniziative sono aperte non solo agli avvocati ma anche ai politici. Sarebbe stato bello che qualche politico del territorio avesse avuto una attenzione a partecipare a tale iniziativa. Sono poche le persone che si interessano ai detenuti. Si ritiene ancora che il detenuto debba marcire in carcere e questa purtroppo è anche l’opinione che molti politici hanno. Nessuno però capisce che se il carcere veramente ha una funzione rieducativa come le statistiche hanno dimostrato, il rischio di recidiva è minimo. Il carcere deve essere considerato davvero una extrema ratio poiché la legge lo prevede e fare in modo che tale normativa venga applicata anche se oggi è un qualcosa di molto complicato”. Catanzaro. Nel penitenziario detenuti incompatibili con il regime detentivo calabria7.it, 18 agosto 2021 Delegazione in visita al carcere di Catanzaro, ieri lunedì 16 agosto. I parlamentari Rita Bernardini (presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino e consigliere generale del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito) e Sergio D’Elia (segretario dell’associazione Nessuno Tocchi Caino e consigliere generale del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito) insieme agli attivisti Giovanna Canigiula, Sabrina Renna, Gianmarco Ciccarelli, Giuseppe Candido, Antonio Coniglio, Antonio Giglio e a Carmine Canino presidente dell’associazione Anpvu (Associazione Consumatori di e-cig) hanno incontrato alcuni detenuti della casa circondariale di Siano. “Qui ci sono grandi eccellenze - ha affermato Bernardini - come un centro clinico di 7 posti dove arrivano da altri istituti penitenziari in quantità dieci volte maggiore ed una piscina per idroterapia dove arrivano detenuti bisognosi che però non la trovano funzionante. Purtroppo il sistema non funziona a livello centrale, abbiamo incontrato tantissimi detenuti incompatibili col sistema carcerario. La magistratura di sorveglianza non è capace di gestire il trattamento del singolo detenuto e si limita a respingere tutto. Nonostante il quadro poco buono mi sento di poter elogiare la direttrice Paravati e la Polizia penitenziaria per come riescono a gestire con tante lacune oggettive questo istituto dove c’è per esempio una pasticceria eccezionale guidata da uno chef vero che si dovrebbe implementare”. Sollecitata l’introduzione della sigaretta elettronica - “La nostra presenza come Associazione Nazionale Anpvu - spiega Canino - è volta a rispolverare una circolare di dicembre 2016 firmata dall’ex Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), Santi Consolo, con cui si autorizzava il via libera alla diffusione delle sigarette elettroniche, con e senza nicotina, negli istituti penitenziari, sia nei locali pubblici o aperti al pubblico che nei pubblici uffici. Le difficoltà però sono insorte nel momento in cui si non si è riusciti a trovare un modello idoneo con le misure di sicurezza delle carceri. Oggi, però, il mercato offre varie tipologie di device, che potrebbero essere idonei con le misure di sicurezza degli istituti penitenziari. Progetti analoghi sono già stati avviati con successo in Francia e Regno Unito ed auspichiamo e ci mobiliteremo affinché anche in Italia la situazione possa sbloccarsi al più presto in quanto la sigaretta elettronica allevierebbe i danni per la salute sia dei detenuti ex fumatori che dei loro compagni di cella, costretti fino ad oggi ad intossicarsi respirando il fumo da combustione, sia del personale amministrativo”. La mafia, Falcone, Sciascia. L’Italia di Marcelle Padovani di Concetto Vecchio La Repubblica, 18 agosto 2021 “Siete un grande laboratorio e non lo sapete”. Trastevere e Trentin, il Pci e l’amore per la Sicilia. La giornalista francese racconta il rapporto lungo quasi 50 anni con il nostro Paese: “Draghi deve restare a palazzo Chigi”. Marcelle Padovani, cosa ricorda del suo impatto con Roma? “Erano i primi anni Settanta ma il modo di vivere era, per molti versi, ancora simile a quello di fine Ottocento: nelle sere d’estate gli abitanti di Trastevere piazzavano i tavolini davanti agli usci per cenare al fresco”. E l’Italia, che impressione le fece? “Presi il treno per raggiungere la sede del mio primo servizio e mi ritrovai a viaggiare con un gruppo di operai che andavano a Taranto a non so più quale manifestazione. Discutevano della loro condizione con coscienza di classe: sapevano tutto di salari, produzione, sistemi industriali. “Uao, che Paese!”, pensai”. Quale fu il primo servizio? “Intervistare il leader sindacale Bruno Trentin”. L’uomo che sarebbe diventato suo marito? “È la vita”. Quanti anni aveva? “Ventotto”. E lui? “Quarantaquattro. Andammo a cena e rimasi ipnotizzata dal suo sguardo” Era sposato? “Separato. Lasciò la sua compagna di allora. Ci sposammo nel 1975”. Perché scelse di fare la corrispondente di Nouvel Observateur proprio in Italia? “Sono corsa e l’italiano ce lo insegnavano sin dalle elementari. Quando mi sono iscritta alla Sorbona per studiare scienze politiche ho continuato a studiare la vostra lingua. Mi sono laureata con una tesi sulle sinistre francesi e italiane negli anni 1944-47. Poi per il giornale ho cominciato a seguire Mitterrand. Il Pci rappresentava un mondo che interessava i lettori francesi. Fu naturale occuparsene”. Quando iniziò come corrispondente? “Nel 1974. Volevo vivere con Bruno e chiesi di essere trasferita a Roma. Il giornale non era interessato. Solo dopo le mie insistenze mi accontentò riducendomi però lo stipendio a 50mila lire al mese: era un ventesimo della mia retribuzione di allora. Accettai. Lavorai instancabilmente e soltanto l’anno dopo tornai al mio stipendio originario”. Dove andaste a vivere? “A Trastevere. E qui accadde un episodio incredibile. Un giorno, dopo pranzo, Bruno uscì per andare in ufficio e subito rientrò: “Mi hanno rubato il borsello dalla macchina!”. Mentre stavamo cercando di capire cosa esattamente gli avevano portato via squillò il telefono: era il segretario della sezione del Pci di vicolo del Cinque. “Compagno Trentin, i ladri si scusano per averti sottratto il portafogli. Le pipe però le hanno già vendute”. Cosa rivela questo episodio? “Che il Pci era un partito votato da più di un terzo degli italiani, vicino al popolo, finanche al popolino dei furtarelli”. Cosa l’affascinava dell’Italia degli anni Settanta? “Il fatto che fosse un laboratorio. Nel senso che qui le cose avvenivano prima che nel resto d’Europa, dal terrorismo alla mafia. Lo Stato era alle prese con fenomeni senza eguali e doveva capire come venirne a capo. Tutto questo era terribile, ma anche affascinante per un giornalista. Gli italiani dimenticano troppo in fretta questa loro natura di laboratorio: un luogo cioè dove si mescolano elementi raffinati e complessi che esigono risposte altrettanto raffinate e complesse. Nella lotta contro la mafia e il terrorismo lo Stato alla fine ha vinto nella sorpresa generale. Lo stesso sta avvenendo col populismo”. Il populismo è sconfitto? “Lo sarà. Per populismo mi riferisco a quello dei Cinquestelle, perché Matteo Salvini è un soltanto demagogo opportunista che ricorre al populismo quando gli serve”. Che populismo è quello del M5S? “Originale e creativo, che una volta al governo è stato capace di evolversi, di affrancarsi dalla demagogia, perché al potere la demagogia rende impotenti. In Francia è accaduto esattamente il contrario: il populismo ha finito per pervadere i partiti al governo, con istinti diversissimi tra loro, che arrivano fino ai no vax e all’antisemitismo”. I no vax sono rumorosi pure in Italia... “Sì, ma nel complesso gli italiani si sono vaccinati con più disciplina. In Francia ai vaccinati hanno dato un braccialetto rosso per renderli subito riconoscibili nei locali pubblici. Può essere una buona idea, ma è anche la riprova che lo Stato deve controllare di più”. Come nacque “La Sicilia come metafora”, il libro intervista di Leonardo Sciascia? “In Francia i suoi libri suscitavano sempre un grande interesse e lo intervistai lungamente per il giornale. Un editore mi propose di farne un libro. Fino a quel momento Sciascia aveva detto di no a tutti”. Che tipo era Sciascia? “Piccolo di statura, aveva un’espressione scettica e ironica che affascinava. Andai a trovarlo Racalmuto e sua moglie Maria ci preparò la pasta con le sarde. Sciascia parlava della Sicilia, di Parigi, della mafia e di Racalmuto. Non parlava mai dell’Italia. Una cosa che mi colpì moltissimo”. Come lo spiega? “Non gli interessava. Lo avvertiva come un mondo ostile. Alla fine di ogni estate andava a Parigi in treno, alloggiando sempre nello stesso albergo, l’Hotel du Pont Royal in rue de Montalembert: faceva tappa a Roma, scendeva dal treno, dormiva una notte in albergo e ripartiva subito”. Cosa l’affascina della Sicilia? “L’essere un’isola. Ha una sua aspirazione all’illuminismo, come metodo e meta per rispondere al disordine. È un mondo complesso. Sciascia mi spiegò subito che il vero siciliano non ama il mare, perché dal mare, da sempre, sono giunti gli invasori. E infatti, in molti paesi siciliani, le case danno le spalle al mare. In Corsica è lo stesso”. Quando ha conosciuto Giovanni Falcone? “Nell’autunno del 1983 si cominciò a parlare di un capomafia, che detenuto in Brasile aveva deciso di collaborare con Falcone. Il suo numero me lo diede Luciano Violante. Era novembre e volai a Palermo. Le sette di sera. Buio pesto, poca gente per le strade. La Procura deserta. Salii al secondo piano, e superai due porte blindate, davanti alla seconda Falcone aveva fatto piazzare una telecamera. Entrai e mi gelò: “Il nostro incontro salta, devo correre con urgenza all’Ucciardone”. “Possiamo cenare insieme?”, obiettai. “Non mi sembra molto igienico”, rispose”. E lei? “Bel cafone”, pensai. Disse: “Domani mattina alle sette vado a Roma, si faccia trovare a Punta Raisi, così viaggiamo insieme e facciamo l’intervista in volo”. Trovai in fretta e furia un biglietto e mi presentai in aeroporto. Sull’aereo ci misero accanto, ma sfortuna volle che vicino a noi era seduto anche Marco Pannella, che, mi disse Falcone, era venuto a consegnare la tessera radicale al boss Michele Greco. “Non mi sembra il caso di farla qui”, tagliò corto Falcone”. Rido... “Arrivati a Roma Falcone mi disse: “Vada a casa, che all’ora di pranzo la mando a prendere”. Ero definitivamente furibonda. Intorno alle tredici arrivò davvero un ufficiale della Guardia di Finanza, che mi condusse in una caserma di periferia. Entrai e trovai la tavola imbandita e il fuoco del camino acceso. Parlammo per due ore. L’intervista uscì il 30 dicembre col titolo: “Il piccolo giudice e la mafia”. Che uomo era Falcone? “Parlava solo di mafia. Non mostrò mai il minimo interesse per la mia vita. Non mi chiese mai da dove venissi, che studi avessi fatto, niente di niente. Era monotematico, da cui è derivata la sua proverbiale efficienza, il suo professionismo. Come tutti i siciliani colti aveva il gusto per il racconto, era pieno di dettagli, ma inseriti dentro concetti più vasti. Per scrivere Cose di cosa nostra ci vedevamo in un ristorante a Roma, lui mangiava con gusto e io prendevo appunti, perché mi chiese di non registrare. Alla fine ero distrutta, e Falcone ordinava, anche col caldo, una vodka”. Che anno era? “La primavera del 1991. Quando terminai di scriverlo, a luglio, gli telefonai da San Candido dove mi trovavo in ferie con Bruno, per chiedergli come procedere. “Vengo io”, disse. Arrivò all’indomani a Sesto di Pusteria, ritirò il dattiloscritto in francese, lingua che Falcone padroneggiava perfettamente, e me lo restituì con pochissime correzioni”. E ripartì subito? “Bruno mi disse: “Invitiamo Giovanni a cena, dobbiamo festeggiare”. Accettò. Parlammo dell’attualità politica, dell’irredentismo altoatesino, di Mahler che aveva avuto lì una casa, e la figura di Giovanni si rimpiccioliva nella sedia: si annoiava. A un certo punto feci riferimento a una notizia di cronaca che riguardava il figlio di Stefano Bontate e in quel momento si ridestò di colpo, raddrizzandosi sulla sedia”. Era già al ministero, e la sinistra lo criticava per la sua collaborazione con il ministro Martelli. È stato un grave errore contestarlo? “L’errore è doppio. Nel non avere capito l’importanza decisiva del suo codice antimafia e nel non avere mai fatto autocritica. Falcone viene incensato, senza essere studiato. Chiunque parli di mafia lo cita, spesso a sproposito. Da vivo fu molto solo, si contavano sulle dite di una mano i magistrati che lo sostenevano, i più lo criticavano per il suo presunto protagonismo mediatico”. Non era vero? “Per niente. Falcone non amava i giornalisti. In vita sua rilasciò pochissime interviste”. Cosa pensa del sottosegretario Durigon che ha chiesto di intitolare al fratello di Mussolini invece che a Falcone e Borsellino il parco di Latina? “È la conferma che i cattivi a volte riposano, gli imbecilli no”. Perché sostiene che la mafia è stata sconfitta? “L’Europa dovrebbe prendere esempio dall’Italia per come ha saputo reprimere Cosa nostra, che ormai da vent’anni non riesce a eleggere un nuovo capo, e che si è tramutata in una mafia economica che ha deciso di partecipare al capitalismo. È la conferma che la criminalità organizzata non è retrograda, ma un’avanguardia, purtroppo”. E non è una minaccia altrettanto grave per una società? “Oggi l’impresa mafiosa, come la non mafiosa, finiscono col praticare gli stessi metodi di sviluppo, che vanno dall’evasione fiscale all’offerta di servizi illegali, dalla proposta di costi di produzione astutamente ridotti alle scorciatoie amministrative a colpi di tangenti. Bisognerebbe rivedere tutti i meccanismi di finanziamento dell’impresa così come gli articoli del codice penale destinati a combattere i metodi illegali”. La destra vincerà le prossime elezioni? “La trovo grottesca e pericolosa allo stesso tempo. Cosa vogliono veramente? Quali sono i programmi? Il populismo l’ha svuotata e intrisa di demagogia. Infatti la più popolare è Giorgia Meloni, anche perché serba un minimo ricordo di ideologia”. Il suo libro, La lunga marcia del Pci, uscito nel 1979, si apre con un capitolo sulla scuola delle Frattocchie, frequentata da giovani operai. Oggi cos’è diventata la sinistra italiana? “La sinistra come bisogno, e come scelta di campo, esiste ancora. Ma i partiti esistenti non sono all’altezza né delle tradizioni né del bisogno di eguaglianza e giustizia sociale. Però sono ottimista, a lungo andare, il laboratorio italiano riuscirà ad esprimere una forza che sappia parlare di nuovo alle masse”. Draghi l’ha convinta? “In Italia lo considerate un grande tecnico. Invece è un grande politico. È riuscito a tenere tutti buoni facendo passare provvedimenti anche drastici. È il prossimo leader dell’Europa, e come tale è visto dalle cancellerie”. Deve restare a palazzo Chigi o farsi eleggere al Quirinale? “Non ho dubbi: rimanere a Palazzo Chigi. Perché essendo il più competente in materia economico-finanziaria deve gestire lui i soldi del Recovery Fund. Ne va della credibilità dell’Italia a livello europeo. Sarebbe auspicabile che Mattarella accettasse un secondo mandato.” Cosa ha capito di noi italiani? “Siete un popolo che si sottovaluta, al contrario di noi francesi che ci sopravvalutiamo. L’Italia è un Paese di enorme interesse e vitalità. Anche se a volte sorrido della vostra capacità di autoesaltazione. Alle Olimpiadi avete conquistato dieci medaglie d’oro, come Germania, Francia, Olanda, arrivando decimi nel medagliere, ma avete esultato come se foste arrivati primi”. Lavora ancora? “Continuo a scrivere per Nouvel Observateur, purtroppo più per il web che per il magazine. E cerco anche di mettere in piedi un libro: il mio decimo dedicato all’Italia”. Si sente ormai italiana? “Né italiana, né francese. Sono una corso-trasteverina”. Nella cella di Sante: il bandito “tradito” dalla passione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 agosto 2021 Nel carcere di Santo Stefano fu recluso anche Sante Pollastri. Quest’ultimo, insieme a Costante Girardengo, è protagonista della famosa canzone di Francesco De Gregori “Il bandito e il campione”. Canzone che peraltro secondo molte ricostruzioni storiche enfatizza il reale rapporto che i due abitanti di Novi Ligure ebbero. Cespugli alti mezzo metro, ruggine che sta finendo di divorare le porte delle celle. Tutto intorno, palazzine diventate ormai dei ruderi e segnali di pericolo. Insomma se il governo non interviene, con i soldi già stanziati, sta letteralmente crollando un pezzo di memoria del Paese. Parliamo dell’ex carcere nell’isola di Santo Stefano - territorio di Ventotene, provincia di Latina - dove venivano reclusi banditi e dissidenti politici fin dall’epoca borbonica. Tanti i detenuti eccellenti a Santo Stefano. Dall’anarchico Gaetano Bresci che non ne uscì vivo perché si suicidò, a Sandro Pertini che fortunatamente se ne andò dopo 14 mesi solo perché ebbe la fortuna di ammalarsi. In quel carcere, per ben 36 anni, fu recluso anche Sante Pollastri. Quest’ultimo, insieme a Costante Girardengo, è protagonista della famosa canzone di Francesco De Gregori Il bandito e il campione. Canzone che peraltro secondo molte ricostruzioni storiche enfatizza il reale rapporto che i due abitanti di Novi Ligure ebbero. Oggi, se De Gregori non avesse scritto quella canzone, Sante Pollastri sarebbe quasi dimenticato. Negli anni venti avrebbe infiammato le cronache dei giornali se il regime fascista non avesse imposto più di una censura sulle sue gesta. Figura in bilico tra mito e realtà, Sante, secondo racconti popolari, divenne bandito per vendicare l’onta subita dalla sorella, stuprata da un carabiniere, e per sfamare la famiglia poverissima. Sante Pollastri, durante il fascismo, era anche un anarchico. D’altronde aveva soltanto 14 anni quando a Novi Ligure cominciava a circolare il giornale anarchico Gli Scamiciati: la cittadina piemontese divenne uno dei centri più attivi di tutta Italia nella lotta antimilitarista contro la prima guerra mondiale. Sante, cresciuto in un ambiente fortemente libertario, anche se militante anarchico non era, ebbe comunque già in odio l’autorità e lo Stato. Ed è per questo che preferirà disertare quando sarà chiamato al fronte. Non è ben chiaro quando si sia avvicinato all’anarchia, tuttavia - secondo una versione diffusa - l’appellativo di anarchico se lo sarebbe guadagnato quando, uscendo da un bar, una sera del 1922, avrebbe sputato una caramella amara al rabarbaro. Questa sarebbe caduta vicino agli stivali di due carabinieri, i quali, interpretandola come una sfida, l’avrebbero selvaggiamente aggredito. Resta il fatto che, come alcuni anarchici di allora, coltivava la sua idea con una pratica fuori legge: compiendo rapine. Sì, Sante era un bandito. Per il fascismo divenne una vera e propria spina nel fianco, tanto da definirlo il nemico pubblico numero uno. Più volte gli uomini del regime, servizi segreti compresi, arrivarono a un soffio dal catturarlo, ma Sante sembrava imprendibile, così scaltro da farsi credere morto, salvo poi ricomparire Oltralpe e riprendere la sua attività a mani basse. Nello stesso tempo aveva la passione per il ciclismo ed era fan del campione Costante Girardengo, suo compaesano e più grande di nove anni. Quest’ultimo vinse tantissime gare in Italia. Nel 1923, l’ideatore e organizzatore del Tour de France, Henri Desgrange, dichiarò che per essere davvero il più forte, Girardengo avrebbe dovuto vincere anche all’estero. Il campione italiano rispose con una lettera alla Gazzetta dello Sport: “Invito tutti i corridori del mondo a incontrarsi con me in una corsa a cronometro di 300 chilometri. Ad esempio sul percorso Milano- Sanremo. Se si ritiene che le strade italiane mi siano favorevoli, accetto anche di correre su strade in suolo neutro”. All’inizio nessuno accettò, poi si organizzò per il Natale del 1923 una gara, al velodromo d’inverno di Parigi, tra lui e Henri Pélissier, il francese più forte di quegli anni. E fu lì che Sante il bandito, ricercato dalle autorità fasciste, ebbe la possibilità di incontrare Girardengo mentre stava per apprestarsi a partecipare alla gara. In quella gara Girardengo vinse. Si narra che Sante venne riconosciuto prima di tutti dal massaggiatore Biagio Cavanna, quello che sarà insieme a Fausto Coppi in tutta la sua incredibile carriera, anche lui di Novi Ligure. Lo riconobbe da un fischio. Di sentire qualcuno fischiare, in un velodromo, capita talmente spesso che non c’è neanche da farci caso. Però quel fischio Cavanna lo conosceva. Perché? Era particolare. Quel fischio si chiamava “cifulò”, ed era prerogativa dei novesi. A quei tempi, se uno di Novi voleva farsi riconoscere da un compaesano in “terra straniera”, faceva appunto il “cifulò”. Il massaggiatore non ci mise molto a capire chi era il novese a Parigi. Sante e Girardengo pare che si fossero incontrati proprio lì, ma un incontro fugace, giusto un saluto. D’altronde come dice la canzone di De Gregori, parliamo di “una storia d’altri tempi, di prima del motore. Quando si correva per rabbia o per amore. Ma fra rabbia ed amore, il distacco già cresce”. E proprio lì, a Parigi, Pollastri venne preso dai gendarmi mentre era alla stazione metropolitana parigina della Nation. Estradato in Italia venne rinchiuso nel famigerato carcere di Santo Stefano per scontare l’ergastolo. Per Sante sarebbero seguiti decenni di giorni identici l’uno all’altro e sempre con la percezione di essere visto perennemente dal secondino. D’altronde quella è la funzione della struttura carceraria che si rifaceva al Panopticon ideato dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. Come se non bastasse, Sante doveva vivere come ulteriore punizione cinque anni di “segregazione cellulare” in un cubicolo sotterraneo provvisto di lettino da contenzione e un buco per urinare e defecare. Rimase in quel carcere per decenni, perfino quando sbarcarono gli americani e raggiunsero anche il penitenziario di Santo Stefano liberando diversi detenuti politici, comunisti compresi. Sante era un anarchico, ma anche un bandito: quindi era considerato un delinquente comune e non un detenuto politico. Rimase lì. Poi fu trasferito nel carcere di Parma. A sua insaputa, una suora inoltrò la richiesta di grazia per lui. Se ne occupò anche un giurista francese che inviò diversi rapporti, raccontando di come Sante si fosse comportato bene durante la prigionia, tanto da aver salvato un agente penitenziario durante una rivolta dei detenuti. Ma fondamentale fu la testimonianza a suo favore del campione di ciclismo Costante Girardengo. Alla fine Sante Pollastri venne graziato nel 1959 dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Quando uscì dal carcere di Parma, era provatissimo e invecchiato visto che aveva trascorso metà della vita in un indicibile penitenziario. Aveva comunque voglia di lavorare per rifarsi una vita, “anche se alla mia età e col mio passato non sarà facile”, come dichiarò all’unico giornalista che lo aspettava fuori dal portone. Alla fine il lavorò lo trovò. Assieme al fratello Luciano si dedicò alla vendita di articoli di merceria. Si ricostruì una vita facendo l’ambulante. Girava, naturalmente in bicicletta, con il cestino pieno di cianfrusaglie, e la gente gliele comprava perché in quel modo poteva dargli una mano e perché tutti, in paese, hanno sempre pensato che diventò un bandito per vendicarsi di un carabiniere che stuprò la sorella. Sante visse così gli ultimi anni della sua vita nel suo paese di origine, a Novi Ligure. Muore nel 1979, un anno dopo la morte della sua compagna più giovane. Ma anche un anno dopo la morte del campione Costante Girardengo. Ferragosto, Gino Strada e il Green Pass di Riccardo De Vito Il Manifesto, 18 agosto 2021 La fine dell’estate è il vero momento per i bilanci annuali, individuali e collettivi. L’estate sta finendo e un anno se ne va. Era l’incalzante mantra di un successo estivo di molti anni fa. Siccome non sono mai solo canzonette (tanto per rimanere in tema di musica leggera), va detto che una cosa vera quel brano l’aveva messa a fuoco: il capodanno esistenziale, il momento dei bilanci e dei progetti, non cade a cavallo tra il 31 dicembre e il 1° gennaio, ma nel cuore rovente dell’estate, a Ferragosto e giù di lì. Vale per i progetti individuali, le microstorie di ognuno di noi, e per le grandi ambizioni sociali e politiche. Chissà se incendi, temperature africane in Canada e pianura padana, pandemia hanno fatto davvero capire che siamo tutti su una stessa barca e che si può sopravvivere soltanto se si ci si prende seriamente cura delle periferie esistenziali, come le chiama Papa Francesco. Temo di no, e alla constatazione amara si aggiunge la tristezza - da unire rigorosamente alla lotta per continuare le sue pratiche - per la scomparsa di un monumento come Gino Strada. In periodo di meditazioni estive, mi vengono alla mente le volte che ho incontrato Emergency. Sulle pagine dei giornali, certo, leggendo di Kabul e di tutti gli scenari di guerra. Ma anche nella città di Sassari, in quel lavoro di magistrato di sorveglianza che ti mette in quotidiano contatto con i margini del Paese. Se non fosse per i volontari di Emergency nel Palazzo Rosa - l’edificio che ospita l’azienda ospedaliera - detenuti, migranti, tossicodipendenti, persone senza fissa dimora (residenti in via dell’Anagrafe 1, secondo la versione burocratica che compare sui fascicoli), “poveri matti” non avrebbero diagnosi, cure per le patologie più semplici, medicine, spiegazioni, dentiere. E ora neppure il vaccino. Qui la memoria si fa subito cronaca. A fronte di chi “si permette di rinunciare alla propria dose vaccinale, ipotizzando assurde controindicazioni” (così Gino Strada a Dorella Cianci, Avvenire, 13 agosto 2021), c’è chi il vaccino vorrebbe farlo, ma non può. Stesso elenco di persone di prima, del tutto scomparse dai radar del dibattito sul Green pass proprio perché fuori dal perimetro delle garanzie. Se le mense Caritas non gli chiedono la certificazione verde per sedersi a tavola è soltanto perché da più di un anno non si mangia in mensa ma si dà il pacco da asporto. Le stesse regole, però, non valgono per ostelli, mense sociali e tutta una serie di servizi per i quali o sei vaccinato o devi esibire i risultati di un tampone molecolare. Il fatto è che per accedere a quel benedetto vaccino devi essere inserito in un circuito di protezione sociale di cui molti (troppi) non possono beneficiare. E così, quelle persone vivono un triplice livello di discriminazione: senza vaccino, senza prestazioni essenziali (a partire da cibo e tetto), ma con lo stigma dell’untore che si aggiunge a un già ricco e negativo etichettamento. A loro si dedicano esclusivamente i volontari - compresa una chiesa che in periferia sa ancora essere realmente dei poveri - magari accettando di dover fare i conti con un’autorità giudiziaria che troppo spesso spezza le catene della solidarietà in nome di leggi (favoreggiamento degli ingressi) che fanno a pugni con la Costituzione. In alternativa c’è sempre il carcere. Quante volte siamo costretti a vedere persone che tra le mura ritrovano qualcosa da mangiare, cure e ora il vaccino, sempre che uno abbia la fortuna di essere arrestato al momento giusto. Non sembra che questi esseri umani siano ricompresi nel dibattito pubblico sul Green pass, tanto meno sul Recovery (anche se il nome sembra cucito su di loro). È una colpa madornale, alla quale occorre opporsi con tutte le risorse culturali e professionali di cui si dispone. Per cambiare verso. Come diceva Eduardo Galeano, “dopo tutto, siamo ciò che facciamo per cambiare ciò che siamo”. Lavoro, la caduta dei diritti di Enrico Franco Corriere del Trentino, 18 agosto 2021 Viviamo un tempo affogato nel presente, privo di memoria e cieco di futuro. L’individualismo dilagante mina gli anticorpi sociali, perché spesso i “social” offuscano la socialità autentica. È una visione pessimistica che per fortuna trova ancora smentite importanti ma, per onestà, occorre ammettere come pure le conferme siano numerose. Prendiamo il mondo del lavoro, ad esempio. Al di là della retorica e dei nobili tentativi di lotta in difesa delle conquiste faticosamente ottenute nel corso dei secoli, l’arretramento dei diritti dei dipendenti è una triste realtà dovuta sia alla violazione della legge nei casi più lampanti (per quanto frequentemente ignorati), sia a norme volutamente opache, con l’aggravante di interpretazioni assai elastiche. A una rigidità eccessiva si è risposto non attraverso la via maestra di una riforma complessiva, ma con finte soluzioni che intendevano consentire una giusta flessibilità adatta a un mondo liquido, ripristinando però nei fatti angoli di Far West. La mancanza di coraggio ha impedito di aggiustare realmente la diga, accontentandosi di allentare la pressione attraverso piccole fessure, diventate in fretta varchi pressoché illimitati. I braccianti agricoli confinati in baraccopoli illegali nel Mezzogiorno, che per pochi euro chinano la schiena sui campi, fanno notizia solo quando muoiono sotto il sole infernale. Ma già nessuno ricorda il nome di Camara Fantamadi stroncato in giugno ad appena 27 anni. Almeno a Paola Clemente, uccisa sei anni fa dalla fatica ad Andria, hanno intitolato una sala della Cgil pugliese. Il punto è che l’idea di consentire a un’azienda di trovare la manodopera necessaria per esigenze particolari “affittandola” da società specializzate, anziché rendere tutto regolare e trasparente, ha creato un labirinto intricato in cui i diritti dei lavoratori in genere si affievoliscono o addirittura spariscono. Il flagello si è diffuso ovunque, perfino nel settore pubblico, un tempo baluardo del rispetto talmente certosino da trasformarsi non di rado in privilegio. Nella nostra regione il fenomeno è sicuramente contenuto, ma meno di quanto si ritenga. Lo testimonia l’indagine della Cgia di Mestre di cui abbiamo riferito ieri. Elaborando i dati Istat del 2019, sono stati stimati 26.800 occupati non regolari in provincia di Bolzano e 26.700 in quella di Trento, pari rispettivamente a tassi di irregolarità dell’8,8% e del 10% (12,8% la media italiana). Mi è capitato recentemente di parlare con due giovani ex detenuti (i nomi sono di fantasia, le storie sono reali). Luigi è altoatesino, consegnava i pacchi per conto di una piccola impresa: “Guidavo il furgone dalle 7 del mattino fino a tarda sera racconta - Se non ero abbastanza veloce il padrone, che mi controllava attraverso il Gps, telefonava per dirmi di correre. Un mese non mi ha pagato, spiegando che aveva delle difficoltà. Quando le mensilità arretrate sono diventate quattro, mi sono licenziato. Lui gira in Mercedes, se avesse sul serio dei problemi lo aiuterei, però non mi faccio prendere in giro”. Hanifa è venuto dal Maghreb quand’era bambino, abita in Trentino e parla l’italiano senza inflessioni: “Ero dipendente di un’azienda finita sotto inchiesta - mi dice. Ci mandavano anche in fabbriche importanti, ma lo stipendio era sempre uguale, poche centinaia di euro perché veniva detratto il costo del pernottamento. I nostri letti, ammassati in un capannone, avevano il prezzo di una suite...”. Mi colpisce che entrambi, senza cercare scuse per gli errori a causa dei quali sono finiti in carcere, commentino nello stesso modo: “Ho fatto degli sbagli ed è giusto che paghi, ma così è troppo”. Quando replico che lo sfruttamento non può mai essere una pena da scontare, capisco dal loro sguardo di non essere convincente. I sindacati regionali chiedono di investire su ispettori del lavoro e collocamento. È significativo che l’ultima statistica venga dal mondo imprenditoriale, ossia dagli artigiani della Cgia. Dopo il Covid bisogna far ripartire l’economia, non c’è dubbio, tuttavia l’osservanza della legge non può essere considerato un ostacolo. Anzi, sarebbe un aiuto alla maggioranza che usa la definizione “risorse umane” con cognizione di causa. L’eutanasia come la giustizia, “corse” parallele fra referendum e Parlamento di Federica Fantozzi huffingtonpost.it, 18 agosto 2021 Difficile convergenza tra il testo che (da anni) discute in Parlamento e quesito referendario. Mentre il Vaticano alza barricate. Nella sorpresa generale, la raccolta firme per il referendum sulla legalizzazione dell’eutanasia - 3.500 banchetti sparsi per l’Italia dal 30 giugno - ha superato in un mese e mezzo la soglia simbolo del mezzo milione di firme e procede verso l’obiettivo di 750mila entro fine settembre. Sottoscrizioni raccolte in piena estate, molte di ventenni in vacanza e anagraficamente lontanissimi dei temi del fine vita, che provocano la dura reazione del Vaticano: “È una forma di eugenetica”. E il Parlamento, sia pure in clamoroso ritardo, prova a riprendersi la scena: il 7 luglio, dopo tre anni di gestazione, le commissioni congiunte Affari Sociali e Giustizia della Camera hanno approvato come testo base la proposta di legge 3101 su “disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”. Come sulla riforma della giustizia, consultazione popolare e iter legislativo marciano su binari separati. E convergere non appare semplice. Alla base ci sono due norme diverse, due fattispecie giuridiche diverse, due principi ispiratori diversi (da entrambi sono esclusi i minorenni). Il referendum lanciato dall’associazione Luca Coscioni si propone di abrogare la prima parte dell’articolo 579 del codice penale che disciplina l’omicidio del consenziente (ovvero l’eutanasia), la proposta di legge mira all’articolo successivo che regola l’aiuto o l’istigazione al suicidio. E neppure i tempi - stretti - coincidono. Il testo, a prima firma del deputato Trizzino - ex 5 stelle, ora al gruppo Misto - è modellato sui paletti della sentenza 242 della Corte Costituzionale del 22 novembre 2019 - relativa al processo a carico di Marco Cappato per aver accompagnato a morire in Svizzera Dj Fabo - che ha sostanzialmente individuato a quali condizioni il suicidio assistito non può essere considerato reato. E sono quattro: 1) una volontà ferma, lucida e consapevole; 2) una patologia irreversibile; 3) uno stato di sofferenza fisica e psichica insopportabile; 4) l’essere mantenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale (macchinari o farmaci). A cui si aggiunge l’aver sperimentato (o rifiutato) un percorso di cure palliative. Ma nel dichiarare parzialmente illegittimo l’articolo 580 del codice penale, la Consulta ha ammonito il legislatore a superare l’”inerzia”, cosa che il testo base si propone di fare. Laddove il quesito referendario per cui si stanno battendo i promotori - al comitato hanno aderito molte sigle, dai Radicali a +Europa a Sinistra Italiana - chiede l’abrogazione parziale dell’articolo 579 del codice penale. Spiega Alfredo Bazoli, cattolico, capogruppo Dem in commissione Giustizia che con il presidente Perantoni si è molto battuto per il testo base: “È un ottimo punto di partenza, equilibrato e razionale”. La differenza tra suicidio assistito ed eutanasia - spiega - è sul piano dei valori. Nel primo caso ci si toglie la vita con atto autonomo ma in un contesto medicalizzato - ingerendo una sostanza letale o praticandosi da soli un’iniezione - mentre nel secondo caso è un atto compiuto da terzi. Prosegue Bazoli: “Alla luce della sentenza della Consulta serve una legge che regoli il suicidio assistito evitando singole ed eterogenee decisioni dei giudici, ma anche impedendo una “liberalizzazione” totale in un ambito delicato”. La conclusione è un appello al centrodestra che - nel pieno del clima di contrapposizione sul ddl Zan - non ha votato il testo base (sì da Pd, M5S, Iv, Leu): “Se approveremo questa legge il questo referendario sarà superato giuridicamente e depotenziato. Altrimenti, finiremo travolti da scelte più radicali”. Di avviso opposto è Marco Cappato, da anni in prima linea su queste battaglie: “Se il testo base passasse così, il referendum si terrebbe lo stesso perché insistono su due norme diverse”. E non è casuale: “C’è una diversa responsabilità tra azione e omissione? Per noi no. È questo il cuore del problema. Bisogna depenalizzare l’omicidio del consenziente. A quel punto, rimosso l’ostacolo giuridico, il referendum spianerà la strada a una legge fatta bene”. Ma non c’è il rischio che si finisca con l’eutanasia barbaramente praticata a colpi di pistola o pugnale? “In linea totalmente astratta, essendo il referendum solo abrogativo, la depenalizzazione non individua una modalità medica per porre fine alla propria vita - ammette Cappato - Ma in pratica, in assenza di contesto e testimoni, si rischierebbe l’imputazione di omicidio volontario”. Prospettive distanti. Acuite dalle preoccupazioni del mondo cattolico. E il timing non facilita la mediazione. Il comitato promotore punta a “mettere in sicurezza” le 500mila firme, evitando la trappola di errori o irregolarità, per depositarle entro fine ottobre e far svolgere il referendum nella primavera 2022. In Parlamento, il termine per il deposito degli emendamenti al testo base scade il 6 settembre. Poi però, in assenza di accordo politico, si riapriranno i giochi, proprio come sulla legge contro l’omotransfobia. Con il rischio aggiuntivo di trovarsi a legiferare di corsa in risposta ad un’inequivocabile volontà popolare. “500 mila firme? La spinta è arrivata dai giovani sui social. Puntiamo al milione” di Concetto Vecchio La Repubblica, 18 agosto 2021 Referendum eutanasia, Cappato esulta. Il tesoriere dell’Associazione Coscioni e promotore della campagna sull’eutanasia legale: “Su Instagram c’era un’esplosione di pagine gestite da ragazzi di provincia. I ventenni sono stati decisivi anche nei banchetti”. Marco Cappato, promotore della campagna sull’eutanasia legale, quando ha capito che era fatta? “Su Instagram c’era un’esplosione di pagine gestite da giovani. Ed erano ragazzi di provincia, di centri che io, che ho girato l’Italia, spesso non avevo mai sentito nominare”. È merito dei millennials se avete già sfondato il muro delle 500mila firme? “In buona parte sì. Due fasce sono state decisive: quelle dei giovanissimi, e quella degli anziani. I primi hanno davanti gli occhi la sofferenza di un nonno, gli anziani invece temono una morte atroce. In breve sul sito si sono registrati 1300 volontari under venti, ragazzi che in breve hanno coinvolto i loro amici”. Se l’aspettava? “Non così. Come Associazione Coscioni abbiamo presentato il quesito ad aprile. Eravamo ancora nel cuore della pandemia e prevaleva in alcuni di noi la paura che un referendum, che ha per oggetto la morte, potesse spaventare. In effetti nei talk nessuno ne ha mai parlato, si parla solo di green pass, i giovani non li guardano i talk”. In quanto tempo avete raccolto le firme necessarie? “In un mese e mezzo. Il primo banchetto, a Moscova, a Milano, è stato allestito l’11 giugno, il grosso, in tutta Italia, è partito ai primi di luglio”. Cosa vi dicevano ai banchetti? “Ogni volta che ci sono andato io si è sempre presentato un cittadino, giovane o vecchio, che mi ha raccontato di avere, o di avere avuto, un parente ammalato di Sla o di tumore. E di avere provato pena per quella sofferenza. È un’esperienza molto comune in tantissime famiglie. Mi guardano negli occhi e mi dicono: ‘Grazie!’“. I giovani si offrivano anche di realizzare un banchetto? “Sì, e io sulle prime ero scettico sulla loro tenuta. Pensavo che si sarebbero rotti le scatole a rimediare un autenticatore, a chiedere l’autorizzazione all’uso del suolo pubblico, a fare domanda per tutta la burocrazia che purtroppo occorre in casi del genere. Invece non si sono fatti spaventare. È una generazione sorprendente, che vede questo referendum come un gesto politico, di libertà”. Quindi è una battaglia sentita anche nell’Italia profonda? “I ragazzi ai banchetti li ho visti anche a Camaiore, in Toscana, ad Acquaviva delle Fonti, nel Barese, a Lamezia Terme, a Marina di Ragusa”. Come lo spiega? Col fatto che la malattia sia più visibile di un tempo? “Non c’è dubbio. Nel 1930, quando venne varata la legge che noi vogliamo abolire, non c’erano le terapie intensive. Dj Fabo sarebbe morto sul colpo. Un malato di Sla non poteva sopravvivere per anni, come invece avviene adesso. Quando conobbi Luca Coscioni io non avevo mai sentito parlare della sclerosi laterale amiotrofica. Oggi non è più così. I casi di Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, Fabo sono ben noti nell’immaginario collettivo. Le loro storie fanno impressione, specie a un ragazzo di 18 anni”. Cosa chiedete esattamente col referendum? “Di abolire la parte dell’articolo 579 del codice penale che prevede quindici anni di carcere per il reato di omicidio del consenziente. Mentre vogliamo mantenere la parte che sanziona chi aiuta a morire un minore o una persona con una deficienza psichica”. È un tema divisivo? “Nel Palazzo più che nella società. Vengono a firmare anche i cattolici. La stessa Mina Welby è molto credente. Non ci sono sostanziali differenze tra chi è di destra o di sinistra. Hanno firmato sindaci e parlamentari leghisti e di centrodestra. È un tema trasversale. E questo spiega il successo della raccolta di firme”. E questa trasversalità invece come nasce? “Il vissuto delle persone viene prima delle appartenenze e delle ideologie”. La Chiesa però vi accusa di eugenetica... “Parla anche di salutismo giovanile, con riferimento alla mobilitazione dei ragazzi come se fossero scelte superficiali. Ora parlare di eugenetica significa fare riferimento a fenomeni storici che non c’entrano nulla. L’eutanasia legale è fondata sulla volontà libera della persona”. La vita non è sacra sempre, fino alla fine? “Imporre una scelta a un malato che passa attraverso sofferenze indicibili non è una forma di tortura? Che strade ha oggi, un malato, di fronte a questo dolore senza speranza? Buttarsi dalla finestra, come Monicelli. O andare in Svizzera, in qualche clinica”. Ma il testamento biologico non è già uno strumento sufficiente? “Il testamento biologico è lo strumento con il quale il malato può sospendere le terapie per quando non sarà più in grado d’intendere e volere. L’eutanasia invece è una scelta per un malato perfettamente lucido che chiede di essere aiutato a morire”. E il suicidio assistito? “È possibile, secondo la Consulta. Le persone affette da malattie incurabili e tenute in vita da terapie possono farvi ricorso. Ma finora mai nessun servizio sanitario italiano ha fatto rispettare la volontà di un malato”. Perché? “In assenza di una legge che definisca procedure precise la struttura sanitaria non si sente obbligata, pur essendolo”. Cosa potrà fare un malato terminale se vincete il referendum? “Potrà chiedere a un medico di somministrargli la sostanza letale, come accade già in Olanda, Belgio, Lussemburgo, e da pochi mesi anche in Spagna”. Quando si voterà? “La prossima primavera, tra il 15 aprile e il 15 giugno”. A quante firme puntate? “Settecentocinquantamila è la soglia di sicurezza, ma possiamo arrivare a un milione”. L’insostenibile solitudine dell’eutanasia di Lucetta Scaraffia La Stampa, 18 agosto 2021 Un dibattito che richiede profonda riflessione ma in Italia è fossilizzato nello scontro tra fazioni. Sono facilmente condivisibili alcune ragioni di chi sostiene il referendum per una legge che permetta il suicidio assistito e in un senso più largo l’eutanasia: tutti sappiamo che l’incredibile avanzamento della ricerca scientifica in campo medico ha anche un risvolto negativo. Le tecnologie che consentono di strappare alla morte esseri umani che fino a qualche anno fa non avrebbero avuto speranze possono anche costringere alla sopravvivenza in condizioni terribili, sospesi tra la vita e la morte. In sostanza, spesso si può rianimare una persona gravemente compromessa, ma non si sa se tornerà a vivere in uno stato accettabile. A questo timore si aggiunge quello dell’accanimento terapeutico, condannato a parole ma nella realtà praticato negli ospedali come forma di autodifesa contro possibili denunce legali. Si tratta di situazioni nuove, che un tempo non si verificavano e che fanno nascere nuove paure. Possiamo ben capire come in questi casi il rifiuto delle cure, anche di quelle vitali, sotto attento controllo di una commissione bioetica, possa venire invocato e accolto. Ma questa possibilità è già consentita dalla legge italiana, e confermata da alcune sentenze, tra cui l’assoluzione dell’anestesista che ha staccato Piergiorgio Welby dalla macchina respiratoria. La legge invocata dal referendum va però molto al di là, e questa propaganda per legalizzare il suicidio assistito - o l’eutanasia - si fonda, come avviene da decenni, su drammatici casi che suscitano angoscia e solidarietà più che riflessione. Ma questo non è un bene, perché si tratta di questioni che richiedono profonda riflessione. Il tema del fine vita non riguarda infatti solo singoli individui, e non si tratta soltanto di stabilire se un essere umano abbia il diritto di disporre della sua vita o no. Riguarda la cultura condivisa di un’intera società, e non perché le gerarchie ecclesiastiche e i credenti obbedienti vogliano imporre agli altri la loro volontà in proposito, ma perché è un problema collettivo, da discutersi in comune. Non si tratta di diritti individuali e di libertà, ma di molto di più, perché la morte è la chiave di volta di una civiltà, di una cultura condivisa. Il dibattito nel nostro Paese è fossilizzato invece in uno scontro tra credenti e non credenti, mentre altrove, come in Francia o Germania, ha coinvolto il mondo laico, una parte del quale sostiene che l’insistenza sulla libertà individuale nasconde una realtà inquietante: legalizzare l’eutanasia è un passo che una società compie verso la cancellazione del divieto di omicidio, mentre con l’abolizione della pena di morte le società contemporanee, in nome dei diritti dell’uomo, hanno fatto la scelta opposta. La possibilità di ammettere l’eutanasia, scrive Jean Leonetti, il deputato socialista francese estensore di un’ottima legge sul fine vita, “farà cadere la proibizione più importante di una società democratica”. La legalità di una decisione per l’eutanasia si basa sul mito della libertà del consenso individuale, come se un essere umano potesse essere veramente libero dai condizionamenti del contesto in cui vive, specie se fragile e bisognoso di continue cure. Lasciare tutto alla scelta individuale del paziente è un modo per sfuggire alla responsabilità del medico e del giudice, per addossare tutto sulle spalle del malato. I legami di solidarietà continuano a degradarsi in nome dell’autonomia totale della persona. Insistere sull’assoluta libertà di scelta nel morire non fa che sottolineare la solitudine del morente che caratterizza la società contemporanea: nelle società democratiche il morente è la figura estrema dell’individuo, staccato da ogni affiliazione collettiva. Norbert Elias sostiene che questa desocializzazione della morte lascia l’agonizzante completamente da solo con la sua responsabilità, privo di conforto e di condivisione. La situazione reale poi è ben lontana da quella morte facile, indolore, invocata come rimedio alle sofferenze: non c’è una morte felice, sottolinea Leonetti, quali che siano le cure mediche, spirituali o religiose messe in atto; e quali che siano la fede o la forza di carattere di ciascuno, la morte è sempre una frattura dolorosa: “I medici sanno anch’essi che il fine vita senza sofferenza e senza sintomi sono rari malgrado tutte le possibilità mediche attuali. Questa ricerca della morte “senza fastidi” è una illusione e la medicina si trova una volta ancora impreparata davanti alla missione impossibile che gli è stata assegnata: sopprimere la tragicità della morte”. Le richieste di suicidio assistito e di eutanasia nascono spesso in un contesto d’impazienza: se la malattia è mortale, se una persona è destinata a morire a breve, è meglio provvedere subito. Niente inquieta di più dell’attesa della morte, che mette a nudo la nostra ignoranza, la povertà della nostra secolarizzazione, la nostra paura davanti al mistero. Scrive Jean Baudrillard che “la nostra idea moderna della morte è governata da un sistema di rappresentazione del tutto diverso: quello della macchina e del funzionamento. Una macchina funziona o non funziona. Così la macchina biologica è morta o viva”. Le facce opposte dell’accanimento terapeutico e dell’eutanasia nascondono lo stesso disagio davanti al tempo necessario per morire: nel primo caso s’insiste a curare fingendo di poter intervenire per salvare fino all’ultimo, nel secondo si nega l’attesa, e in questo modo si pensa di poter negare la morte. In sostanza, non vogliamo ammettere che della morte, anche dal punto di vista biologico, sappiamo ancora ben poco, come dimostrano le polemiche sempre aperte sulla definizione di morte cerebrale. Come osserva Louis-Vincent Thomas, “fra l’interruzione dell’esistenza per il venir meno di determinate funzioni vitali e la morte organica per deterioramento dei tessuti, si inseriscono alcuni stadi poco conosciuti, che sono forse di importanza capitale per comprendere l’attività psichica del morente. Il tempo della morte non è scientificamente definito”. Invece noi vorremmo che il passaggio dalla vita alla morte avvenisse come attraverso un interruttore, un rapido clic, dimenticando che si tratta dell’incontro tra due mondi incommensurabili, tra il finito della vita umana e l’infinito dell’immortalità. Anche per chi pensa che vi sia il nulla, cioè un vuoto infinito. La morte fa da collegamento ma anche da barriera - in sostanza è una soglia - tra tempo e eternità. Non si può considerare una scelta come tante altre prese nella vita. Crediamo di poter controllare anche la morte, di sapere cos’è, senza renderci conto che stiamo giocando con un fuoco che può distruggere il rispetto di ogni essere umano, quel rispetto da poco condiviso - almeno in teoria - da gran parte dell’umanità. L’Italia, l’Europa e la realpolitik di Giampiero Massolo La Stampa, 18 agosto 2021 Quello che sta avvenendo in Afghanistan non sorprende. Indigna sul piano umanitario e dei diritti, porta ad interrogarsi sul ruolo e l’affidabilità dell’Occidente, ma risponde a logiche mutate di cui va comunque preso atto. Restare ancora - ha detto lunedì il Presidente Biden - non avrebbe cambiato la situazione. La prima circostanza nuova riguarda appunto gli Stati Uniti e i loro interessi evoluti nel tempo. L’intervento in Afghanistan è figlio di un’altra epoca: dopo l’11 settembre bisognava eliminare i santuari jihadisti e sostituire il regime talebano. Più in generale, nella regione mediorientale allargata, si trattava di imporre la democrazia liberale, mettere in sicurezza le risorse energetiche e sconfiggere il terrorismo. Oggi, svaniti i sogni di salvifici cambi di regime e le ambizioni di ‘nation building’, ridotta la dipendenza americana dal petrolio del Golfo, attenuata la percezione della minaccia jihadista di un’America che si ritiene protetta dalla sua ‘insularità’, le esigenze di sicurezza degli Stati Uniti sono altrove. Riguardano la competizione con la Cina. Nel Medioriente allargato, per Washington l’equilibrio strategico deve reggersi da solo, con gli americani tutt’al più a supporto. Se a questo si aggiungono i rischi del suprematismo domestico e l’entropia crescente dell’opinione pubblica americana, le determinazioni di Joe Biden sull’Afghanistan, analoghe a quelle di Barack Obama e Donald Trump, risultano abbastanza scontate. Di fatto, un’America che nel bene e nel male decide sulla base dei propri interessi. Anche quando ci coinvolge tutti. Una seconda circostanza concerne la Cina e il contesto geopolitico regionale. È possibile che l’uscita dell’Occidente dall’Afghanistan crei un vuoto a favore dei nostri avversari e comporti il rischio di un nuovo Stato jihadista. In primis Cina e Russia sono interessate ad aumentare la propria influenza. Anche se la scarsità dei mezzi a disposizione di Mosca, così come la difficoltà per Pechino di trattare con un regime talebano sensibile alle istanze islamiste degli Uiguri nello Xinjiang cinese, potrebbero complicare alleanze organiche con Kabul. I cinesi temono l’instabilità ai loro confini. Proveranno ad attenuarla bilateralmente con il soft power e gli investimenti strutturali, ma cercheranno anche nuovi equilibri di potenza con gli altri attori regionali: a nostro danno, certo, ma non senza difficoltà e scontri di interessi. Quanto al terrorismo jihadista, poi, il rischio di nuovi santuari è concreto: per affinità ideologica e interesse a destabilizzare, i talebani potrebbero tollerarli o addirittura favorirli. Ma non è impossibile che, edotti dalle esperienze post 2001, possano usarli come carta negoziale, persino nella prospettiva di un riconoscimento internazionale del loro Stato teocratico a patto che dia segnali di moderazione anche sui diritti e le donne (e verso chi ha collaborato con gli occidentali). La convinzione americana di poter trattare con i talebani (come finora in Qatar) giustifica forse l’accelerazione - pur disastrosa nell’organizzazione - del ritiro. Vedremo presto quanto sarà fondata. Una terza circostanza, infine, sta nella necessità strategica - per non fare altri regali a competitors e integralisti - di conservare un ruolo per l’Occidente in Afghanistan. Può spettare all’Europa prendere l’iniziativa. Stati Uniti, Cina, Russia, UE, alcuni attori regionali (India, Pakistan, Iran, Turchia, Paesi centro-asiatici) condividono dopotutto l’interesse ad evitare la destabilizzazione afghana, garantirsi contro il rischio jihadista, gestire il flusso incontrollato dei rifugiati, contenere il traffico di droga, avviare la ricostruzione: può essere un’agenda realistica per l’Afghanistan. Per realizzarla, l’Unione Europea potrebbe attivarsi per promuovere un ‘gruppo di lavoro’ internazionale comprendente gli Stati interessati. Servirebbe per relazionarsi più compattamente con la Kabul talebana e per cercare di contenere fughe in avanti regionali e egemonismi. Aiuterebbe a non lasciare alla Cina l’emergenza umanitaria. L’Italia - leader del G20 e credibile sul terreno per la sua gestione esemplare del territorio di Herat - avrebbe delle carte da giocare. Afghanistan. Pur di fermare i profughi l’Europa tratta con i talebani di Carlo Lania Il Manifesto, 18 agosto 2021 Si salva chi può. Borrell: “Hanno vinto loro, dobbiamo discutere per evitare un disastro migratorio”. L’Unione europea si prepara a trattare con i talebani. “Dovremo metterci in contatto con le autorità a Kabul, chiunque ci sia”, ha annunciato ieri il rappresentante della politica estera dell’Ue, Josep Borrell. “I talebani hanno vinto la guerra e quindi dobbiamo parlarci per discutere ed evitare un disastro migratorio e una crisi umanitaria” oltre che “evitare che torni il terrorismo”. Borrell parla al temine del vertice straordinario dei ministri degli Esteri dei 27 convocato proprio per discutere la definitiva caduta del Paese asiatico nelle mani degli studenti coranici. Chi si aspettava una presa di posizione dura dell’Europa verso i nuovi padroni dell’Afghanistan è però rimasto deluso. Un paio d’ore di vertice in videoconferenza sono state sufficienti ai ministri per raggiungere un accordo almeno su un paio di punti. Il primo riguarda la necessità, doverosa, di portare in salvo non solo il personale diplomatico di ogni singolo Stato e i collaboratori afghani - compreso lo staff che ha lavorato con le istituzioni europee, 400 persone circa. Ma anche giornalisti, esponenti delle ong, artisti, tutte persone che in queste ore rischiano la vita se individuati dai talebani. Il secondo punto riguarda invece come evitare che un fiume di uomini, donne e bambini in fuga dall’Afghanistan si diriga verso l’Europa come avvenne nel 2015. Ed è soprattutto su questo che, per Bruxelles, il dialogo con i talebani diventa fondamentale. Per quanto riguarda il personale diplomatico e i collaboratori afghani il loro rientro dovrebbe essere garantito da una serie di voli coordinati a livello europee. Il resto è tutto da vedere anche se, ovviamente, non sono mancati impegni a fare in modo che nell’Afghanistan ripiombato in pochi giorni nel passato, venga garantito il rispetto dei diritti umani e delle libertà civili, delle donne e il contrasto al terrorismo, come spiega il ministro Luigi Di Maio elencando quelle che definisce le priorità europee. Dimenticando di spiegare, però, come l’Ue intende farle rispettare. Eppure alla vigilia dell’incontro sembrava che per una volta l’Unione europea avesse trovato il coraggio di farsi sentire. Era infatti ventilata la possibilità di bloccare i finanziamenti stanziati per l’Afghanistan alla fine del 2020 nella Conferenza di Ginevra, 1.200 miliardi di euro per il periodo 2021-2025 sotto forma di aiuti allo sviluppo. L’argomento ieri non sarebbe stato affrontato, anche se la Germania ha invece annunciato la sospensione dei 200 milioni di euro stanziati ma ancora non erogati da Berlino. E niente si sarebbe detto anche per quanto riguarda la possibilità di una riclassificazione dell’Afghanistan, considerato oggi come “Paese sicuro” dall’Ue. Cosa che avrebbe consentito di rivedere la posizione di migliaia di afghani già presenti in Europa che si sono visti respingere la richiesta di asilo. “Un punto debole della nostra Ue è che non abbiamo costruito una politica di asilo comune”, ha ammesso ieri la cancelliera tedesca Merkel. E così mentre il Canada annuncia di essere pronto ad accogliere 20 mila profughi e persino Kosovo, Albania e Macedonia del Nord si dicono disponibili a riceverne, seppure temporaneamente un migliaio, l’Unione europea si prepara a confrontarsi con i talebani senza neanche aspettare di vedere se le promesse che stanno facendo in queste ore di non effettuare vendette, verranno mantenute. Lavorando nel frattempo per fare in modo che quanti fuggiranno dall’Afghanistan vengano accolti dai Paesi confinanti. A indicare all’Europa come comportarsi è stata come al solito la cancelliera tedesca: “Prima di parlare di quote di ripartizione (dei profughi, ndr), dobbiamo parlare di opzioni sicure per i rifugiati nei pressi dell’Afghanistan”, ha spiegato. Oggi nuovo vertice, questa volta con i ministri dell’Interno che discuteranno come fronteggiare eventuali arrivi. Da parte sua la Grecia ha già fatto sapere che non permetterà ai profughi afghani che dovessero arrivare dalla Turchia di attraversare i propri confini. Afghanistan. Quando i pacifisti dicevano che i patti si fanno con i nemici di Luciana Castellina Il Manifesto, 18 agosto 2021 Due obiettivi sono ora importanti: trattare con i Talebani per ottenere canali per l’espatrio e dialogare con Teheran per far passare ai profughi di Kabul la lunga frontiera. Vi ricordate uno degli slogan che esprimeva una delle più importanti verità che il movimento ci aveva fatto capire nell’epoca gloriosa del pacifismo, il solo, grande movimento realmente europeo che si sia sviluppato, quello degli anni Ottanta, quello che recitava: “I patti non si fanno con gli amici ma con i nemici”? Voleva dire no ad Alleanze Atlantiche e invece ricerca di un accordo, o almeno di un compromesso, di un dialogo, con quelli che stiamo combattendo. Ed era il corollario di un’altra verità: “La guerra è un retaggio medioevale, la politica estera non può più affidarsi alla rozza semplificazione militare”. So bene che poi nel concreto spesso non è facile applicare queste indicazioni; e infatti in questo stesso scorcio di tempo sono state calpestate. Con i risultati che abbiamo sotto gli occhi, non solo in Afganistan, ma anche in Irak e altrove. Ripenso a questi slogan in questo momento terribile in cui le conseguenze dell’averli ignorati scorrono drammaticamente sugli schermi televisivi: se si è arrivati a questo è perché si è scelto di dar peso alla Nato a - i nostri “amici” - (e alla loro guerra) e di non tentare neppure di dialogare con chi in Afganistan stava dalla parte dei Talebani. Quello che invece hanno fatto le Ong che si sono impegnate ad aiutare con scuole e ospedali la società civile del paese anziché ad armare le bande di altre fazioni (quella ufficialmente al governo a Kabul, del presidente fuggitivo Ghani, non era molto di più di una fazione, ma una fazione alleata della Nato; e infatti si è dissolta in pochi giorni). Non vorrei che oggi ci dimenticassimo di quanto abbiamo predicato, e invocassimo il “Mai riconoscere i Talebani” in nome di una radicalità che non è tale, perché è solo una assenza di riflessione. Dire “accordi” coi nemici, non vuol dire riconoscere il governo dei talebani (non l’hanno del resto fatto nemmeno Russia e Cina). Vuol dire cercare di trattare e strappare qualche possibilità di salvare chi ora rischia la vita. In molti casi significa accordarsi per ottenere vie d’uscita dal paese. Se non otteniamo questo non vedo cosa potrebbe servirci, di per sé, l’impegno dei nostri paesi ad accogliere i fuggitivi. Prima, ora, subito, bisogna ottenere canali per l’espatrio. Qualche spazio di trattativa, ancorché limitato, sembra esserci, bisogna profittarne e allargarlo, non chiudersi nella demagogica invocazione “con i talebani non si tratta”. Se non si tratta, vuol dire che si continua la guerra. E cioè che chiediamo alla Nato di non partire dal paese e di riprendere i combattimenti. A Doha, nel negoziato promosso da Trump e poi proseguito da tutta la Nato, non c’è stata una trattativa sull’Afganistan, ma solo sulle garanzie a favore dei militari Nato che se ne volevano andare, i soli per i quali è stata espressa preoccupazione dal presidente Biden: “Riportare a casa i nostri ragazzi!”. E tanto peggio per quelli che vivono in un paese che i nostri ragazzi hanno massacrato in questi 20 anni, in nome della guerra come risolutrice dei conflitti. C’è un altro obiettivo urgente, che sembra dimenticato e invece è importantissimo: il grosso di chi ha bisogno di scappare dal paese premerà inevitabilmente sulla lunga frontiera con l’Iran. È dunque urgente dialogare con il governo di questo paese, che non è nostro amico, per facilitare il passaggio di quella frontiera, non per farci accordi analoghi a quelli con la Turchia, ovviamente. Ma per dialogare bisognerà anche riconoscere le ragioni di Teheran, che patisce un durissimo embargo quando Washington ha deciso che andava punito perché avrebbe violato l’accordo sul nucleare (che non chiede solo ai paesi che non hanno le bombe di non cominciare a farle, ma anche a quelli che le hanno di non continuare a produrle. Come poi è risultato clamorosamente si tratta della stessa pretestuosa bugia che dette il via all’aggressione all’Iraq). Mobilitarsi per “liberare l’Iran”, è la cosa più utile che si possa fare per aiutare ora i profughi afgani. Ogni tempo ha le sue priorità, in questo è prioritario bloccare la ripresa della guerra. Sono consapevole di rischiare un attacco di tanti che sono da sempre miei compagni di lotta perché può sembrare che quanto dico sia simile a quanto, tatticamente, dice il generale Stolzemberg. Ma sono certa che la vecchia guardia pacifista sarà d’accordo sull’importanza di ricordare sempre che si fanno patti con il nemico e non con gli amici. Con questi, se sono veri amici, non è necessario, perché ci si intende lo stesso. Con la Nato ho i miei dubbi. I talebani sono i nuovi narcos: eroina, miliardi e geopolitica di Roberto Saviano Corriere della Sera, 18 agosto 2021 Così la droga che producono finanzia la guerra e viene venduta in Usa e alle mafie mondiali e italiane. Non ha vinto l’islamismo, in queste ore, dopo oltre vent’anni di guerra. Ha vinto l’eroina. Errore è chiamarli miliziani islamisti: i talebani sono narcotrafficanti. Se si leggono i report dell’Unodc, l’ufficio droghe e crimine dell’Onu da almeno vent’anni, troverete sempre lo stesso dato: oltre il 90% dell’eroina mondiale è prodotta in Afghanistan. Questo significa che i talebani, insieme ai narcos sudamericani, sono i narcotrafficanti più potenti del mondo. Negli ultimi dieci anni hanno iniziato ad avere un ruolo importantissimo anche per l’hashish - producono non solo il fumo afgano, ma anche il charas - e la marijuana. Per quanto possa sembrarvi pretestuosa questa affermazione, di Afghanistan sentirete sempre parlare eludendo le dinamiche principali del conflitto, ignorando le fonti prime che finanziano la guerra, e spesso quindi vi sarete trovati a farvi un’idea su questa terra lontana sull’eterno conflitto mancando dell’elemento centrale: l’oppio. La guerra in Afghanistan è una guerra dell’oppio. Prima delle scuole coraniche, dell’obbligo al burqa, prima delle spose bambine, prima, i talebani sono dei narcotrafficanti che portano un assoluto moralismo nel consumo delle droghe e nella coltivazione, che finsero di proibire nel 2001. Qui accade uno dei più gravi errori dell’amministrazione americana: nel 2002 il generale Franks, il primo a coordinare l’invasione in Afghanistan da parte delle truppe di terra americane, dichiarò: “Non siamo una task force antidroga. Questa non è la nostra missione”. Il messaggio era rivolto ai signori dell’oppio, invitandoli a non stare con i talebani, dicendo che gli Stati Uniti avrebbero loro permesso la coltivazione. Lo stesso James Risen, nel 2009, scrisse sul New York Times un articolo dove segnalava che nella lista nera del Pentagono dei trafficanti di eroina da arrestare non venivano inseriti quelli che si erano schierati a favore delle truppe americane. Le cose andranno male comunque, perché con la presenza militare americana gli affari dei contrabbandieri d’oppio che avevano bisogno di movimenti rapidi e veloci si vedono continuamente fermare, ispezionare, devono farsi autorizzare dai militari. I talebani invece riescono a ottenere rapidità di approvvigionamento e movimento, e non solo, iniziano a tassare il doppio i produttori che non lavorano per loro e a coltivare direttamente le proprie piantagioni. Non più quindi racket sulla coltivazione, ma diretta gestione del traffico. Questo l’avevano già iniziato a fare i mujaheddin, sostenuti dall’Occidente nella guerra contro i sovietici. I contadini non hanno alternativa: il Mullah Akhundzada, appena le truppe dell’Armata Rossa nel 1989 si ritirarono, capì che bisognava smettere di prendere il 10% come pizzo dai trafficanti di eroina, per essere direttamente loro, i guerriglieri di Dio, a gestire il traffico. Impose che tutta la valle di Helmand, a Sud dell’Afghanistan, fosse coltivata a oppio, e chiunque si fosse opposto, continuando a coltivare melograni o frumento prendendo sovvenzioni statali, sarebbe stato evirato. Il risultato fu la produzione di 250 tonnellate di eroina. Akhundzada oggi è indicato come il maggiore leader talebano, ed è uno dei trafficanti più importanti al mondo. Scalano le gerarchie interne (anche religiose) sempre di più i dirigenti talebani trafficanti rispetto a quello che accadeva un tempo, ossia dare incarichi e possibilità di comunicare ai dirigenti militarmente più capaci e alle figure religiose. L’eroina talebana fornisce camorra, ‘ndrangheta e Cosa Nostra, fornisce i cartelli russi, e rifornisce Cosa Nostra americana e tutte le organizzazioni di distribuzione in Usa a eccezione dei messicani che cercano di rendersi autonomi dall’oppio afgano (a fatica, perché l’eroina di Sinaloa è più costosa di quella afgana). Tramite la rotta Afghanistan-Pakistan-Mombasa (Kenya) i talebani riforniscono anche i cartelli di Johannesburg in Sudafrica, altro immenso mercato. Forniscono eroina ad Hamas, altra organizzazione che si finanzia (anche) con hashish ed eroina e che ha infatti comunicato: “Ci congratuliamo con il popolo islamico afghano per la sconfitta dell’occupazione americana su tutto il territorio dell’Afghanistan e con i talebani e la loro brava leadership per la vittoria che giunge al culmine di una lunga battaglia durata 20 anni”. Queste sono apparentemente alleanze politico-ideologiche, in realtà patti criminali. L’eroina talebana ha creato un’asse importantissimo con la mafia di Mumbai, la D Company di Dawood Ibrahim, il sovrano dei narcos indiani protetto da Dubai e dal Pakistan e che è il vero distributore dell’oro afgano. Il mercato cinese ancora non è conquistato ma l’ambizione talebana guarda a Est, a prendersi anche il Giappone (la Yakuza si rifornisce in Laos, Vietnam e Birmania) e soprattutto le Filippine, che hanno un mercato florido e da sempre sono in rotta con l’eroina birmana. Quest’ultima come l’eroina cinese è direttamente gestita dai militari e quindi può contare su una produzione veloce ed efficiente che spesso i cartelli costretti alle tangenti e alle mediazioni non riescono ad ottenere. Il massimo storico stimato per la produzione di oppio è stato raggiunto nel 2017, con 9.900 tonnellate, per un valore di circa 1,4 miliardi di dollari ma, come riferisce l’Unodc, se si tiene conto del valore di tutte le droghe - hashish, marijuana ed eroina - l’economia illecita complessiva del paese, quell’anno, sale a 6,6 miliardi di dollari. Gretchen Peters, la reporter che ha seguito da vicino il legame tra eroina e talebani, osserva nel suo libro Semi di Terrore: “Il più grande fallimento nella guerra al terrorismo non è che Al-Qaida si stia riorganizzando nelle aree tribali del Pakistan e probabilmente pianificando nuovi attacchi all’Occidente. Piuttosto, è la spettacolare incapacità delle forze dell’ordine occidentali di interrompere il flusso di denaro che tiene a galla le loro reti”. La guerriglia colombiana delle Farc riuscì a tenere testa all’esercito occupando il 26% del territorio, e la propria forza economica si basava sulla cocaina. Benché le due guerriglie e le due vicende non siano comparabili, è fondamentale capire che le narcoguerre non possono vincersi con interventi di occupazione, e nemmeno con la classica guerra alla droga: bruciare piantagioni, punire coltivatori, arrestare trafficanti. I talebani hanno cambiato lo scacchiere internazionale. Cosa Nostra e i marsigliesi, dagli anni Sessanta agli anni Duemila, importavano l’eroina dal sud-est asiatico; il monopolio dell’oppio era in Indocina, nel triangolo d’oro Birmania-Laos-Tailandia. Ora i talebani hanno preso il loro posto, lasciando un mercato residuale al sud-est asiatico, una fetta di mercato che va dall’1% al 4%. Gli Stati Uniti, rendendosi conto che i signori dell’oppio li stanno tradendo e che i sovrani del traffico sono diventati i talebani, spenderanno 8 miliardi (fonte: Reuters) per sradicare le piantagioni di papavero: errore fatale, perché i contadini afgani non poterono che schierarsi con gli studenti coranici - è bene ricordare che questo significa talebano. È paradossale: gli Stati Uniti combattevano investendo miliardi di dollari contro una guerriglia, che si finanziava vendendo eroina proprio ai suoi cittadini. Il primo e il secondo mercato di eroina in Europa sono Regno Unito e Italia. I governi occidentali ignorano il dibattito sulle droghe ormai da tempo immemore. La droga non è un semplice vizio o una deriva immorale: la qualità del vivere peggiora, la competizione distrugge la serenità. Sia il privilegiato occidentale che il disperato contadino mediorientale accedono alle droghe: senza di esse, l’insostenibilità della vita li schiaccerebbe. Mentre l’anno scorso la pandemia di Covid-19 infuriava, la coltivazione del papavero è aumentata del 37% (fonte: Unodc). Più vivere in questo mondo diventa inumano, più aumenterà la necessità di droga, più i trafficanti ricaveranno profitto. Regola su cui non troverete nessun dibattito in queste ore. Ma i talebani non vendono solo ai cartelli: senza oppio non si possono realizzare farmaci analgesici. Senza oppio, niente morfina né fentanil. Ora, le case farmaceutiche comprano oppio da produttori autorizzati, ma questi ultimi sempre più spesso comprano da società indiane che si approvvigionano direttamente dall’Afghanistan. I talebani decidono anche delle nostre anestesie e dei nostri psicofarmaci. Nel 2005, l’allora presidente Karzai aveva sentenziato: “O l’Afghanistan distrugge l’oppio, o l’oppio distruggerà l’Afghanistan”. È andata esattamente come prevedeva la sua seconda ipotesi. Ma Karzai stesso era uno dei signori dell’oppio, e gran parte dei proclami erano solo una facciata. L’ex presidente è stato uno dei maggiori proprietari di raffinerie di oppio afgano. In realtà, stava dicendo: “Distruggeremo l’oppio gestito dai talebani e terremo il nostro”. Insomma, dal monopolio di questo stupefacente non è possibile prescindere, hanno solo vinto i trafficanti migliori. Le nuove generazioni di talebani sono identiche alle vecchie con una sostanziale differenza: i vecchi talebani vedevano i mujaheddin antisovietici come eroi, i nuovi talebani vedono come riferimento i grandi trafficanti, coloro che hanno cambiato le sorti della guerra (e le proprie) con l’oppio. I talebani utilizzano la legge islamica per creare un regime autoritario, necessario ai loro traffici; vietano la musica e l’ombretto mentre la droga, fino a vent’anni fa, la vendevano solo fuori dai confini: c’è stato un cambio di rotta. Ora vendono anche internamente. La tossicodipendenza in Afghanistan è un’epidemia che nessuno ha preso in considerazione e che cresce di anno in anno, e i talebani ne approfittano: le giovani reclute sono riempite di hashish - e questo è il meno - ma vengono anche date possibilità di accedere all’eroina: entra nei nostri gruppi e potrai farti, è il non detto (impensabile vent’anni fa) dei caporali talebani. Quando ormai si riducono a larve, li gettano come zombie consumati. L’Afghanistan si è trasformato in un narco-Stato, la cui unica possibilità di fuga è provare a consumare pasta base di eroina e taglio. Eroina da vendere ed eroina da distribuire per annichilire qualsiasi alternativa. Guardando l’esercito americano, i suoi blindati e i suoi elicotteri, vi sarà sembrato un’armata ricchissima contro pastori dalle barbe lunghe e dai coltelli arrugginiti. Ebbene, gli Stati Uniti hanno speso 80 miliardi in vent’anni di guerra per addestrare un esercito afgano, creare ufficiali, truppe, poliziotti e giudici locali; i talebani, in vent’anni, hanno guadagnato oltre 120 miliardi dall’oppio. Quale era l’esercito più ricco? Con chi conveniva stare? I talebani vincitori non avranno pace. I prossimi nemici saranno gli iraniani. L’Iran ha bisogno di eroina esattamente come di benzina, e l’eroina consumata a Teheran viene tutta dall’Afghanistan. I trafficanti iraniani vogliono poter controllare l’eroina afgana, poter essere loro e non più i turchi, i libanesi (e i kurdi) a essere i mediatori con l’Europa. Vogliono non avere solo Hezbollah come strumento del traffico di hashish ed eroina, vogliono controllare l’oppio afgano e i talebani a breve saranno nemici da sconfiggere per sostituirli con i loro uomini. L’Iran è un paese divorato dall’epidemia d’eroina ma questa è un’altra storia. Rimane tra me e il mio lettore un patto: chiamare i talebani con il loro nome, narcotrafficanti.