Il Ferragosto dei detenuti che nemmeno esiste più di Maria Bertone cronachedi.it, 17 agosto 2021 C’è stato un periodo, otto-dieci anni fa, in cui a Ferragosto nelle carceri c’era folla. Folla di politici di ogni livello, intendo dire, dall’attivista comunale al parlamentare al ministro, che ritenevano doveroso informare la stampa della loro visita istituzionale nelle patrie galere. Poi, piano piano, l’interesse della nostra classe dirigente nei confronti delle condizioni dei detenuti ha cominciato a scemare, tant’è che oggi, esattamente come prima che scoppiasse la ‘moda’, sono rimasti solo i Radicali a mantenere la tradizione. E pensare che nel 2009, per la prima edizione di ‘Ferragosto in carcere’, ben 150 politici risposero all’appello di Rita Bernardini allo scopo di effettuare “una ricognizione approfondita della difficilissima situazione delle carceri italiane”. Oggi, 12 anni dopo, giusto Roberto Giachetti sarà a Roma, a Regina Coeli; tutti gli altri sono rimasti in spiaggia, a casa o al ristorante con le loro famiglie, alla faccia della ‘giustizia giusta’ che continua a restare un miraggio. Sarà che nel frattempo le carceri italiane sono diventate come quelle della Svezia? Ma neanche per sogno. I dati, e i fatti, dicono il contrario, e il caso Santa Maria Capua Vetere (il pestaggio di massa dei detenuti per il quale sono sotto inchiesta una 90ina tra dirigenti e agenti penitenziari), l’ultimo in ordine di tempo, è solo la punta dell’iceberg di un sistema assolutamente da riformare. Nonostante i continui appelli, i nostri istituti di pena devono fare i conti con situazioni a dir poco complicate: dal dramma del sovraffollamento passando per la cronica carenza di organico della polizia penitenziaria, fino allo stato di fatiscenza di molte strutture. Il lavoro che stanno svolgendo i Garanti è senza precedenti: un’opera meritoria che è l’anello di congiunzione tra le realtà di privazione della libertà e l’esterno, che assicura che non venga mai meno la dignità della persona né il rispetto del dettato costituzionale. Ma il tema è troppo complesso per poter essere lasciato a un solo uomo per regione, tutt’al più per struttura penitenziaria. Serve il sostegno della Politica, nella sua accezione più ampia, serve una riforma seria, serve un’attenzione capillare. Servono le visite ispettive - e non le passerelle di Ferragosto, certo - perché è fondamentale sapere cosa accade realmente dietro le sbarre. Il carcere non è un mondo a sé. È una parte del nostro mondo. E se è vero come è vero che “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”, come scriveva Dostoevskij, sarebbe il caso di dedicarci più di una mattinata a favore di flash. Green pass nelle mense delle carceri, la protesta del Sappe: “Scelta illogica e contraddittoria” ansa.it, 17 agosto 2021 Crescono anche nella file della Polizia Penitenziaria le proteste per la decisione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di consentire l’accesso alle mense solamente al personale in possesso di green-pass. “Una scelta illogica e contraddittoria”, denuncia il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, “che ha evidenziato una volta di più l’inadeguatezza dell’Amministrazione ad assumere provvedimenti con un minimo di buon senso: pensate che a Pordenone, per consentire i pasti al personale che non ha il green-pass ma che comunque è potenzialmente vaccinato e quindi fruisce del take-away (spesso un panino, una scatoletta di tonno o di carne in scatola, un minimo di frutta…), hanno messo un banco alla bene e meglio tra i mezzi parcheggiati ed i bidoni della spazzatura mentre a Padova, nella Casa circondariale, hanno messo due tavole in un’area verde dove di solito mangiano i gatti randagi…”. “L’assurdo”, sottolinea ancora il leader del Sappe, “è che poi queste colleghe e questi colleghi fanno servizio sugli automezzi per il trasporto dei detenuti e nelle sezioni detentive fianco a fianco. Le mense di servizio, poiché “obbligatorie”, sono come fare servizio e gli ambienti sono interni al carcere proprio come dove si fa servizio. Se serve il green pass per entravi, allora deve servire anche per fare servizio e anche a tutti per entrare in istituto, compresi familiari volontari garanti avvocati e magistrati. Non è possibile fare servizio nelle sezioni detentive a fianco al collega mentre alla mensa di servizio si consuma il pasto in luoghi diversi!”. Capece sottolinea che “la disposizione del Dap - che non è firmata dal Capo Dipartimento Bernardo Petralia o dal suo vice Roberto Tartaglia ma è stata diramata a firma del Direttore generale facente funzioni Gianfranco De Gesu, responsabile della Direzione Generale dei Detenuti - “suggerisce” anche l’eliminazione di tavoli e sedie all’interno delle Sale bar e convegno del personale nei penitenziari e limita l’accesso alle palestre all’interno solamente per “addestramento e tecniche operative” e non già per attività sportiva al di fuori del servizio. Praticamente, i colleghi originari del Centro-Sud Italia che fanno servizio nelle decine e decine di carceri del Nord sono isolati da tutto e penalizzati gravemente: è inaccettabile”. Capece fa dunque appello al Ministro della Giustizia Marta Cartabia “affinché disponga la revoca delle disposizioni emanate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria almeno fino a quando non sono state predisposte adeguate soluzioni organizzative, disponendo come alternativa alla mensa di servizio la corresponsione del buono pasto”. Sicurezza: nessuna emergenza, ma non rallenta la violenza di genere di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 17 agosto 2021 I dati del Viminale. Nell’ultimo anno (l’arco di tempo prescelto è 1 agosto 2020-31 luglio 2021), rispetto all’analogo periodo precedente, gli omicidi sono calati di circa il 6%, nonostante le donne assassinate. L’Italia è un Paese che non ha un’emergenza criminalità. I dati statistici di agosto lo confermano in modo inequivoco. In base ai numeri forniti dal ministero degli Interni, nell’ultimo anno (l’arco di tempo prescelto è 1 agosto 2020-31 luglio 2021), rispetto all’analogo periodo precedente, gli omicidi sono calati da 295 a 276, ossia di circa il 6%. Siamo a un tasso di omicidi pari allo 0,46 ogni 100 mila abitanti, una dei più bassi in Europa. E gli omicidi calano nonostante sia ancora troppo alta la quota di donne assassinate, ben 105. Guardando le statistiche criminali, dunque, possiamo osservare che sono diminuiti significativamente negli ultimi vent’anni gli omicidi riconducibili alla criminalità organizzata, alla criminalità comune, o quelli avvenuti a seguito di furti o rapine. Mentre non è rallentata la violenza di genere. Sempre nell’ultimo anno sono decresciuti i furti (-12,8%) e le rapine (-3,8%), nonostante l’anno precedente era stato quello del lockdown con almeno due mesi di criminalità anestetizzata. Il leit-motiv della sicurezza ha caratterizzato le ultime campagne elettorali. Il fronte progressista e democratico non è mai riuscito ad emanciparsi da quella visione securitaria e populista che ha cercato di sfruttare ogni episodio di cronaca nera, alimentando paure ancestrali e cavalcandole opportunisticamente. Abbiamo un codice penale (quello Rocco del 1930) di evidente impronta autoritaria e non riusciamo a modificarlo in sintonia con i principi costituzionali dell’offensività e della ragionevolezza. Continuiamo ad alzare le pene per i reati contro il patrimonio fino a prevedere pene per il furto in appartamento pari a quelle previste per reati contro la persona, trasformiamo i consumatori di droghe in pericolosi criminali, legittimiamo il ricorso alle armi per difendersi da nemici inesistenti. Andrebbe verificato, tra gli autori di femminicidi, quanti sono quelli che ammazzano con un’arma legalmente posseduta. Questi numeri ci dicono almeno tre cose. In primo luogo non esiste un’emergenza sicurezza nel nostro Paese e chiunque la evochi è in evidente malafede. Non avrebbe giustificazione razionale impostare la prossima campagna elettorale municipale su questo terreno. In secondo luogo bisognerebbe finalmente aprire un cantiere di riforma del codice penale, epurandolo dagli eccessi punitivi e dalle concessioni all’autoritarismo dell’epoca in cui fu approvato. Infine bisognerebbe affrontare la questione criminale insieme a quella sociale e culturale. Penso che sarebbe buona cosa, ad esempio, indagare statisticamente se il calo dei furti negli ultimi anni sia legato all’introduzione del reddito di cittadinanza che ha tolto dalla povertà quote di popolazione. Le statistiche criminali del Ministero degli Interni ci dicono che è arrivato il momento di fare marcia indietro e tornare dallo stato penale allo stato sociale, ripulendosi dalla retorica della tolleranza zero e di tutti i seguaci, sconfitti dalla storia e dal buon senso, di Rudolph Giuliani. Intercettazioni, dal Csm allarme sulla riservatezza di Giovani Negri Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2021 A un anno dal debutto della riforma ancora molte le criticità attuative rilevate dal Consiglio superiore, che denuncia anche una scarsa omogeneità applicativa. Problemi di riservatezza dei dati, di tenuta dei server, di omogeneità applicativa. È ancora significativamente complessa la fase di attuazione della riforma delle intercettazioni a un anno dal debutto. A fare il punto della situazione è il Csm, con una delibera approvata nell’ultimo plenum prima della pausa estiva ed esito di una prima fase di monitoraggio su quanto sta accadendo negli uffici giudiziari, in particolare nelle Procure, dopo l’entrata in vigore lo scorso primo settembre della nuova disciplina. In particolare, tra le novità, a rilevare, sono la nuova disposizione sul registro riservato (destinato alla catalogazione, in ordine cronologico, dei dati esteriori degli atti presupposto delle attività di intercettazione e alla rilevazione della estensione temporale delle operazioni) e l’introduzione dell’archivio delle intercettazioni, tenuto e gestito sotto la direzione e la sorveglianza del Procuratore della Repubblica e relativo a tutte le intercettazioni disposte dall’ufficio. E su questo punto la sottolineatura del Csm è di una certa preoccupazione sulla conservazione di adeguati standard di sicurezza, visto che “merita di essere evidenziato che, in un quadro in cui l’archivio riservato è custodito sotto la direzione e la sorveglianza del Procuratore della Repubblica, opera sul mercato una moltitudine di società private, ciascuna con le proprie regole nella gestione del servizio. Non sempre eventuali anomalie tecniche sono oggetto di tempestiva acquisizione da parte del Procuratore e di successiva tempestiva contestazione al fornitore del servizio, anche ai fini, ad esempio, della risoluzione del rapporto o di successivi affidamenti”. Per il Csm così, va valutato con attenzione se ricorrere ai modelli internazionali di valutazione della sicurezza informatica, in cui le esigenze della sicurezza dominano la scelta delle migliori prassi o soluzioni da applicare. In questo modo, osserva la delibera, a venire raggiunti sarebbero 3 obiettivi: - garanzia per il cittadino che l’intero processo delle attività di intercettazione sia presidiato da strutture tecniche - validate e costantemente monitorate - adeguate ad assicurare l’integrità, la continuità, la non manipolabilità, la non replicabilità, la confidenzialità delle comunicazioni; - garanzia per il Procuratore della Repubblica di disporre di elementi valutativi affidabili nella scelta della società cui affidare le attività tecniche; - garanzia per l’operatore di polizia di avere un qualificato e competente interlocutore, con il quale confrontarsi in maniera permanente, ogni volta che devono essere risolte criticità tecnologiche o essere prese decisioni in questo contesto. La concreta individuazione dei soggetti certificatori, da abilitare a questa funzione in materia di intercettazioni, dovrebbe poi essere rimessa alla discrezionalità dei singoli Procuratori, con riferimento però ad elenchi validati dal Ministero. I tempi di conferimento (il periodo necessario per caricare i file dai supporti esterni delle ditte al server ministeriale) variano poi in modo significativo sul territorio nazionale con uffici che lamentano tempistiche particolarmente lunghe. Ricordato che l’archivio riservato digitale riguarda i nuovi procedimenti, successivi al 1° settembre 2020, e che, avverte il Csm le intercettazioni sono ormai operazioni ampiamente multimediali, resta un punto interrogativo sulla possibilità per i server del ministero della Giustizia di gestire flussi consistenti di dati una volta che il sistema sarà andato a regime. Tanto è vero che, per quanto riguarda le riprese video, le Procure si muovono in ordine sparso, con uffici che le fanno confluire sempre nell’archivio riservato, altre che non le inseriscono mai, altre infine solo quando è evidente il loro valore probatorio. “Se soffiate sul fuoco vi scottate pure voi” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 17 agosto 2021 Polemica per la frase del pm Salvati dopo il tweet garantista di Costa. Il magistrato ha chiarito che si trattava di una metafora, ma il deputato di Azione non è del tutto convinto. Tutto è partito da un tweet di Enrico Costa, deputato di Azione, sulla vicenda di Marco Sorbara, ex consigliere regionale della Valle d’Aosta assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa perché il fatto non sussiste, dopo essere stato per oltre 900 giorni in custodia cautelare. “Sono andati a prenderlo di notte alle 3.15, 45 giorni in isolamento, per 33 non ha visto nessuno. Fiumi di pagine sull’inchiesta. Poche righe dopo l’assoluzione”, ha scritto Costa. Nemmeno il tempo di inviare il cinguettio garantista, che arriva una pioggia di commenti a favore e contro Costa, tra i quali tuttavia spicca quello di Antonio Salvati, giudice del lavoro presso il Tribunale di Reggio Calabria, che dopo una discussione con altri utenti scrive: “Io continuo a dirglielo, caro Costa: se soffiate sul fuoco vi scottate pure voi”. Ma Costa rincara la dose, chiedendo se è normale che un magistrato, proprio sotto al post garantista in difesa di Sorbara, utilizzi espressioni del genere. Salvati non fa in tempo a rispondere che della sua frase chiede conto anche Carlo Calenda, leader di Azione e candidato sindaco a Roma. Gentile dottor Salvati, in che modo dovremmo “scottarci pure noi” - scrive Calenda - Enrico Costa è un parlamentare che ha commentato un caso di malagiustizia. Mi può spiegare meglio? Perché a una prima occhiata quanto da lei scritto assomiglia a una minaccia. Immagino sia un errore…”. E la spiegazione di Salvati, nemmeno a dirlo, non si fa attendere. “Lo spiego in poche parole, e sono certo, stimandola, che sarà tutto chiarito - commenta il magistrato - Io credo che in questo momento, nella nostra comunità Italia, uno dei problemi maggiori sia la totale sfiducia verso le istituzioni e i corpi intermedi: politici, magistrati, giornalisti, avvocati, carabinieri, polizia, insegnanti, professori, persino Chiesa e ONG. Tutti corrotti o corruttibili. A me non piace questo modo di pensare. Non sopporto frasi come “i politici sono tutti corrotti”. Ecco perché mi spiace vedere un parlamentare che si limita, di sicuro in buona fede e con riferimento a un caso gravissimo, ad alimentare sfiducia e malcontento. Il tutto, con ricadute negative che riguardano tutte le istituzioni, parlamento e parlamentari”. Un tentativo maldestro di rifugiarsi in calcio d’angolo, con il risultato che, almeno agli occhi di Costa, la toppa è peggiore del buco. “Alimentare sfiducia e malcontento? - chiede il deputato - Si informi sui temi che affronto (con qualche risultato): spese legali assolti, presunzione innocenza, diritto all’oblio, regolamentazione conferenze stampa, ingiusta detenzione, prescrizione, intercettazioni, abuso custodia cautelare”. Un botta e risposta alimentato certamente dalla disintermediazione dei social ma che, secondo l’esponente di Azione, denota un certo modo di pensare di alcuni magistrati. “Finché si tratta di opinioni ci intendiamo, se si lanciano slogan come quelli contenuti nelle parole di Salvati allora è tutto più difficile - racconta Costa al Dubbio - I magistrati dispongono di armi non convenzionali, ricordo quando ci furono frasi di un presidente dell’Anm che invitò addirittura alla mobilitazione. Forse bisognerebbe rimanere nell’ambito della critica, che è sempre costruttiva”. Nel corso della giornata il magistrato ha poi chiarito la posizione, dando la colpa alla “troppa sintesi”, alle “troppe certezze” e alle “troppe idee preconcette” dei social. Ha spiegato di essere garantista “fino alla radice dei capelli” e ritenendo che il concetto di bruciare le istituzioni a forza di soffiare sul fuoco del malcontento civile fosse in realtà una metafora. Parole che, a fine giornata, convincono Costa solo a metà. “Prendo atto dei chiarimenti ma non è accettabile è che si faccia passare la battaglia garantista che conduco assieme a tanti altri esponenti come qualcosa che possa alimentare il malcontento”. Toscana. Orti sociali, riapre i termini l’avviso per progetti di formazione dei detenuti toscananews.net, 17 agosto 2021 Riapre i termini l’avviso pubblico di Regione Toscana per progetti di formazione professionale in orticoltura e agricoltura sociale finalizzati all’inserimento lavorativo dei detenuti degli istituti penitenziari di Livorno, Massa Marittima e Prato. Come stabilisce un decreto dirigenziale della Regione, ora c’è tempo fino al 1° ottobre prossimo. L’avviso mette a disposizione 93.500 euro stanziati dalla Cassa delle Ammende per avviare percorsi di formazione interna ed esterna ai tre istituti toscani, dove sono in fase di attivazione spazi per la coltivazione di orti sociali: 56.322 riservati alla formazione interna e i restanti 37.178 euro alla formazione esterna. Saranno coinvolte complessivamente duecento persone in esecuzione penale per la formazione interna; quindici - cinque per ogni istituto - saranno quelle coinvolte nelle attività di formazione esterna. Sono previsti inoltre 137.822 euro, che potranno essere stanziati dalla Regione Toscana in base alle disponibilità di bilancio e ai vincoli previsti dalla legislazione vigente, per sostenere ulteriori interventi di formazione interna ed esterna che il progetto finanziato intenderà realizzare. L’avviso conserva un legame con i “Centomila orti in Toscana”, uno dei progetti regionali maggiormente capaci di coinvolgere nel corso del tempo cittadine e cittadini, numerose amministrazioni locali e istituzioni presenti sul territorio regionale. La formazione dovrà infatti essere ispirata alle indicazioni e ai consigli della “Guida per una orticoltura pratica”, lo strumento di lavoro nato in seno al progetto e redatto dalla Regione con il sostegno dell’Accademia dei Georgofili per offrire un supporto ai soggetti e agli enti locali che hanno avviato esperienze di orticoltura sociale. La formazione interna si svilupperà in due distinti momenti. Il primo di tipo teorico e avrà come manuale la “Guida per una orticoltura pratica” del progetto Centomila orti in Toscana. Il secondo consisterà nella parte pratica che verrà svolta nelle strutture dell’orto all’interno degli istituti penitenziari. Il programma di formazione esterna prevedrà invece percorsi formativi finalizzati al conseguimento di un certificato di competenze, in riferimento unicamente a mansioni, conoscenze e capacità afferenti alle Figure Professionali del Repertorio Regionale delle Figure Professionali. L’eventuale seconda fase del progetto integrato, vincolata alle eventuali risorse aggiuntive, prevederà percorsi di formazione obbligatoria - non finalizzati all’acquisizione di una specifica qualifica professionale - la cui frequenza e, in alcuni casi, anche il superamento di una prova finale, costituiscono uno dei requisiti per lo svolgimento di particolari attività lavorative inserite nel Repertorio Regionale della Formazione Regolamentata. Chi può partecipare all’avviso - I progetti possono essere presentati da partenariati composti da almeno un organismo formativo accreditato ai sensi della DGR 1407/2016 e successive modifiche e integrazioni (o che si impegna ad accreditarsi entro la data di avvio delle attività), in qualità di capofila, e da un’impresa senza finalità formative, con una propria unità produttiva attiva nel territorio di almeno una delle province nelle quali si trovano gli istituti penitenziari e il cui ambito di operatività sia coerente con gli interventi richiesti dall’avviso. Ogni partenariato di progetto - per un massimo di sette soggetti attuatori - può essere integrato da organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, associazioni di categoria, ulteriori organismi formativi accreditati e ulteriori imprese. L’avviso è disponibile on-line al seguente link: https://www.regione.toscana.it/por-fse-2014-2020/bandi. Per ulteriori informazioni è possibile scrivere all’indirizzo formazionestrategica@regione.toscana.it. Vicenza. Omicidio di Marano, il presunto assassino si è tolto la vita in carcere Giornale di Vicenza, 17 agosto 2021 Si è tolto la vita in cella Gelindo Renato Grisotto, imputato per l’omicidio del vicino di casa Mario Valter Testolin, 67 anni, ucciso con due colpi di fucile durante una lite, ieri mattina in via Molinetta a Marano Vicentino. L’allarme in carcere è scattato questa mattina. Gelindo Renato Grisotto, 49 anni, muratore, era in cella da ieri, dopo un interrogatorio durato ore durante il quale si era arrivati a ricostruire il delitto e ad avere una prima conferma del movente. Il muratore avrebbe confermato al sostituto procuratore di avere agito in preda all’astio nei confronti del vicino, che da anni lo stava logorando. Fermo. I detenuti sono tutti vaccinati, ma le attività sono bloccate Il Resto del Carlino, 17 agosto 2021 La visita degli avvocati penalisti: “Difficoltà ad avere colloqui, totale assenza di percorsi formativi e lavorativi. I danni sono psicologici e fisici”. Una visita in carcere il giorno di Ferragosto, per raccontare di giorni vuoti e di spazi ristretti in tutti i sensi. È l’iniziativa a cui ha aderito la Camera penale di Fermo, su impulso dell’osservatorio carceri dell’Ucpi, proprio per sottolineare quanto il tema della detenzione sia di straordinaria attualità e urgenza. Il presidente della camera penale, l’avvocato Andrea Albanesi, insieme con i colleghi Simone Mancini, Renzo Interlenghi, Michelangelo Giugni e Maria Rita Minnucci sono stati nella casa di reclusione fermana, guidati dal sostituto commissario Nicola Quadraroli. Tante le criticità emerse, rese ancora più complicate per le misure stringenti di contenimento del Covid. tutti i detenuti che potevano essere vaccinati hanno ricevuto entrambe le dosi e così gli agenti e il personale del carcere, resta la prudenza nel riaprire la struttura alle attività dall’esterno, oltre alla carenza di personale e alla mancanza, ormai da oltre un anno, di un educatore dedicato, dopo il pensionamento di Nicola Arbusti: “Abbiamo incontrato la popolazione detenuta, spiega Albanesi, lamentano le difficoltà nell’ottenere colloqui coi familiari, la vetustà degli arredi interni alle celle, la scarsità di spazi comuni e soprattutto l’assenza totale di occasioni di formazione professionale e di acquisizione di competenze lavorative. Su questo anche il personale della polizia penitenziaria ha concordato pienamente”. Attività che si sono interrotte già alla prima ondata del Covid, impossibile far entrare personale dall’esterno, fermi tutti i percorsi di recupero, di rieducazione, di incontro. Per fortuna nessun caso si è registrato tra i detenuti, il malcontento invece si è diffuso in fretta e da mesi ormai si sta in attesa della ripresa di qualche attività. Sono lunqhe le ore di vuoto, l’inattività lascia nei detenuti conseguenze nefaste, l’umore ne risente: “I danni sono fisici e psicologici, la possibilità di percorsi lavorativi e formativi, anche extra-murari, è sentita come una esigenza imprescindibile da tutti, una opportunità unica per la riabilitazione del detenuto e per abbattere il rischio di recidiva di nuovi reati, a vantaggio di tutta la società civile. Solo così si dà forma concreta alla Costituzione italiana che parla di funzione rieducativa della pena”. Avezzano (Aq). Detenuti protestano contro il sovraffollamento di Francesco Proia marsicalive.it, 17 agosto 2021 La protesta che sta animando il mondo delle carceri, da nord a sud della nostra penisola, ieri sera è arrivata anche ad Avezzano. Sul posto ci sono gli uomini dei Carabinieri e della Polizia di Stato, per controllare che la situazione non degeneri. I detenuti della casa circondariale di Avezzano hanno sbattuto i più disparati oggetti alle sbarre delle celle, intonando slogan e urla contro il sovraffollamento delle carceri, ed esponendo degli striscioni visibili anche da fuori. Sembra che i detenuti si siano accodati alla protesta nazionale contro il sovraffollamento delle carceri, che negli ultimi giorni ha interessato le case circondariali di mezza Italia, da Torino a Caltanissetta. Lo scopo è quello di sollevare il problema del sovraffollamento delle carceri e farlo arrivare fino alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia, affinché prenda in considerazione una riforma strutturale del sistema penitenziario. Monza. “Violenze in carcere, Sindaco nomini il Garante dei detenuti” monzatoday.it, 17 agosto 2021 “Violenze nel carcere di Monza: venga subito nominato il garante dei detenuti”. A chiederlo è il gruppo politico LabMonza che già in passato aveva avanzato la proposta. Una richiesta che torna alla ribalta delle cronache dopo che nei giorni scorsi il Tg1 ha trasmesso un servizio dove venivano ripresi dalle telecamere di sorveglianza interne alla casa circondariale monzese alcuni agenti che avrebbero usato violenza nei confronti di un detenuto prima di trasferirlo in cella. Una vicenda che risale ad alcuni anni fa. “Il grado di civiltà di un paese si misura osservando le condizioni delle sue carceri, diceva Voltaire - si legge sulla pagina Facebook di LabMonza. Sulla responsabilità penale dei cinque agenti rinviati a giudizio si pronuncerà la magistratura. Tuttavia, la politica ha il compito di mantenere alta l’attenzione su un luogo altrimenti dimenticato dalla società ed agire concretamente perché l’obiettivo rieducativo e riabilitativo del carcere si realizzi”. “Il silenzio della direttrice del carcere e del Sindaco di Monza dopo la diffusione del video con i pestaggi sono indicatori della totale indifferenza della società verso il carcere ed i detenuti, che stanno scontando le proprie colpe ma dovrebbero essere aiutati dalla società a riabilitarsi, non venire picchiati - dichiara Arianna Bettin, portavoce di LabMonza. Ma la politica non dovrebbe limitarsi a parlare, può e dovrebbe agire: a seguito di questi fatti chiediamo al sindaco Dario Allevi di nominare al più presto un Garante dei detenuti di Monza, di cui dopo tanti proclami pubblici non c’è ancora traccia, e di mantenere alta l’attenzione e la vigilanza sul tema”. Catanzaro. Rita Bernardini: “Il sistema carcerario non funziona a livello centrale” Corriere della Calabria, 17 agosto 2021 La delegazione dell’associazione Nessuno Tocchi Caino ha fatto visita al carcere di Catanzaro. D’Elia: “Struttura fuori dal tempo”. La presidente e il segretario dell’Associazione Nessuno Tocchi Caino e Consigliere generale del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito, Rita Bernardini e Sergio D’Elia, nella giornata di ieri ganno fatto visita al carcere di Catanzaro. La delegazione era composta anche da Giovanna Canigiula, Sabrina Renna, Gianmarco Ciccarelli, Giuseppe Candido, Antonio Coniglio, Antonio Giglio. Bernardini: “Il sistema carcerario non funziona a livello centrale” Rita Bernardini - “Qui ci sono grandi eccellenze come un centro clinico di 7 posti - ha dichiarato a margine della visita Rita Bernardini - dove arrivano da altri istituti in quantità però dieci volte maggiore, ed una piscina per idroterapia dove arrivano detenuti bisognosi che però non la trovano funzionante. Purtroppo il sistema non funziona a livello centrale, abbiamo incontrato tantissimi detenuti incompatibili col sistema carcerario. La magistratura di sorveglianza non è capace di gestire il trattamento del singolo detenuto e si limita a respingere tutto. Nonostante il quadro poco buono mi sento di poter elogiare la direttrice Paravati e la Polizia penitenziaria per come riescono a gestire con tante lacune oggettive questo istituto dove c’è per esempio una pasticceria eccezionale guidata da uno chef vero che si dovrebbe implementare”. D’Elia: “Struttura archeologica e fuori dal tempo” - “È un reperto archeologico - ha aggiunto D’Elia - siamo in una dimensione fuori dal tempo: a questo punto della storia dei diritti umani questa struttura nulla hanno a che fare con la vita, con la sicurezza. Va trovato qualcosa di meglio e nutro fiducia nella Ministra Cartabia che quanto meno culturalmente parla di una dimensione diversa, quella di una giustizia riparativa: qui però non si ripara nulla, qui si distrugge”. Canino: “Elogio al lavoro della direttrice Paravati” - “Ringrazio ed elogio il lavoro svolto giornalmente dalla direttrice Angela Paravati e dalla Polizia penitenziaria tutta. La nostra presenza come Associazione Nazionale Anpvu, oltre a segnare un punto di vicinanza con le priorità di Bernardini e D’Elia a sostegno dei più deboli - ha dichiarato ha detto il presidente dell’associazione di consumatori e-cig, Carmine Canino - è dovuta anche per rispolverare una circolare di dicembre 2016 firmata dall’ex Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), l’avvocato Santi Consolo, con cui si autorizzava il via libera alla diffusione delle sigarette elettroniche, con e senza nicotina, negli istituti penitenziari, sia nei locali pubblici o aperti al pubblico che nei pubblici uffici. Le difficoltà però sono insorte nel momento in cui si non si è riusciti a trovare un modello idoneo con le misure di sicurezza delle carceri. Oggi, però, il mercato offre varie tipologie di device, che potrebbero essere idonei con le misure di sicurezza degli istituti penitenziari. Progetti analoghi sono già stati avviati con successo in Francia e Regno Unito ed auspichiamo e ci mobiliteremo affinché anche in Italia la situazione possa sbloccarsi al più presto in quanto la sigaretta elettronica allevierebbe i danni per la salute sia dei detenuti ex fumatori che dei loro compagni di cella, costretti fino ad oggi ad intossicarsi respirando il fumo da combustione, sia del personale amministrativo”. Reggio Calabria. I Radicali in visita nelle carceri: “Si violano i diritti umani fondamentali” di Anna Foti lacnews24.it, 17 agosto 2021 Dopo lo stop dello scorso anno per via del Covid, riprende il tradizionale giro del partito con l’osservatorio delle Camere Penali per fare il punto sulle condizioni di detenzione in Italia. Nella città dello Stretto rilevate carenze di servizi e di personale. “Siamo stati nel carcere di San Pietro a Reggio e abbiamo toccato con mano le condizioni intollerabili in cui vivono i detenuti e in cui operano gli agenti di polizia penitenziaria a causa delle altissime temperature. È evidente che queste sono carceri in cui si violano apertamente i diritti umani fondamentali. Faremo presente queste condizioni alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, al momento di presentare la nostra relazione sulle condizioni di detenzione nelle carceri italiane”. Così il segretario nazionale del partito dei Radicali, Maurizio Turco, dopo la visita presso la casa circondariale Giuseppe Panzera di Reggio Calabria, accompagnato dall’avvocato reggino Gianpaolo Catanzariti, responsabile nazionale dell’osservatorio Carceri dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Caldo e carenze - Un clima torrido e l’assenza di climatizzazione e di ventilatori, servizi sanitari da potenziare, specie per detenuti che richiedono trattamenti psichiatrici e fisioterapici, e personale non solo di sorveglianza da incrementare per garantire sicurezza e la piena funzione rieducativa della pena. Questo, in sintesi l’esito preoccupante della visita che ieri ha riguardato anche il carcere di Arghillà. “Abbiamo verificato anche ad Arghillà un caldo insopportabile visti l’assenza di condizionatori e ventilatori e il clima rovente di questi giorni. La stessa situazione è stata registrata presso la casa circondariale Panzera di Reggio dove le grate a maglia fitta rendono l’aria irrespirabile e dove, nella sezione femminile, le stanze di pernottamento a volte ospitano anche fino a quattro persone. Il caldo davvero rende il carcere una tortura. Anche ad Arghillà, inoltre, serie sono la situazione dei servizi, specie quelli sanitari con una guardia medica per la sola mezza giornata, e la carenza cronica di personale che inevitabilmente incide anche sulla qualità del trattamento e delle attività di rieducazione alle quali deve tendere la pena. Altro fattore negativo, in questa ottica, è rappresentato anche dall’assenza di strutture per le attività comuni ai fini trattamentali come teatro e campo da calcio che ancora si stanno realizzando”, ha sottolineato Gianpaolo Catanzariti, responsabile nazionale dell’osservatorio Carceri dell’Unione delle Camere Penali Italiane. A Reggio, dunque, a preoccupare, in questa stagione calda e in questo frangente storico emergenziale, non sono il sovraffollamento, la gestione della pandemia e la vaccinazione che prosegue e che al momento copre l’80% della popolazione carceraria complessiva, ma altre situazioni non meno rilevanti. Ferragosto in carcere e “Giustizia giusta” - Riprende così, dopo un anno di stop causa Covid, il tradizionale giro nelle carceri per fare il punto sulle condizioni di detenzione in Italia. Con il partito Radicale anche l’osservatorio dell’Unione delle Camere Penali. Tante le tappe anche in Calabria (Paola, Catanzaro, Cosenza e Vibo). Nella città dello Stretto il segretario nazionale Turco e il responsabile dell’osservatorio delle Camere Penali Catanzariti. Un impegno comune anche sul fronte della raccolta firme per i sei quesiti referendari per una “Giustizia giusta” (responsabilità civile dei giudici; separazione delle carriere dei magistrati sulla base della distinzione tra funzioni giudicanti e requirenti; custodia cautelare; abrogazione del testo unico in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo noto come legge Severino; abolizione raccolta firme lista magistrati; voto per i membri non togati dei consigli giudiziari). Tra questi, uno si propone proprio di incidere sul ricorso eccessivo alle misure cautelari in carcere. “Ad oggi in Italia ci sono circa ventiduemila cittadini soggetti a carcerazione preventiva e dunque senza alcun processo e senza alcuna condanna. Di questi molti saranno assolti. Un’ingiustizia reiterata alla quale bisogna porre fine”, ha sottolineato ancora il segretario nazionale del partito dei Radicali, Maurizio Turco. Sanremo (Im). Visita dei Radicali in carcere: sul tavolo i problemi della capienza di Carlo Alessi sanremonews.it, 17 agosto 2021 “Siamo tornati a visitare dopo due anni la Casa di Reclusione di Sanremo Valle Armea in una arroventata antivigilia di Ferragosto, come delegazione del Partito Radicale (di cui facevano parte insieme a me Angelo Chiavarini, Claudia Bornico e l’avvocato Luca Robustelli), ci hanno cortesemente ricevuti e accompagnato per diverse ore la Comandante Nadia Giordano, la dirigente medica e alcuni loro colleghi”. Intervengono in questo modo gli esponenti liguri del partito radicale, dopo la visita di venerdì scorso al carcere di Valle Armea a Sanremo. “242 i detenuti presenti su un capienza che il DAP indicava fino a poco tempo fa di 219 posti - proseguono - e adesso invita a considerare (secondo quali parametri?) di 234 posti, mentre la Comandante la stima di 206 posti e altre fonti (la UIL Penitenziaria) di 191 posti regolamentari: una incertezza comune ad altri istituti (Marassi ad esempio) e dice ben più di qualcosa riguardo alla situazione nazionale dove ai 50.000 posti dichiarati ne corrispondono (al netto di strutture e riparti chiusi, inagibili, in ristrutturazione o non ancora inaugurati) diverse migliaia di meno. Più certi ma non rassicuranti quelli relativi al personale di custodia che la pianta organica fissa a 201, ma gli assegnati sono 174 e al netto dei distacchi gli effettivamente presenti sono 155 e quindi mancano all’appello ben 45 agenti; piuttosto rilevante la carenza di ruoli intermedi, mancano ispettori e sovrintendenti”. “Tranquilla la situazione Covid con un solo incerto caso tra i detenuti dall’inizio della pandemia, ma nessuno attualmente; tra il personale sono stati 22 i casi riscontrati e si registra attualmente un positivo; all’isolamento fiduciario dei nuovi ingressi e le eventuali quarantene dei casi sospetti è stata destinata la sezione di isolamento, ancora purtroppo ridotti a 3 al mese i colloqui in presenza, mantenute le telefonate (una al giorno) e i WhatsApp (2 a settimana); 306 detenuti hanno ricevuto la prima dose del vaccino, 141 quelli che le hanno ricevute entrambe e avrebbero diritto al green pass; diversi dei (pochi) volontari presenti fino al 2020 non sono più tornati a svolgere il loro servizio. La situazione medica è migliore di quella di altri istituti disponendo di copertura medica h24 e di 8 medici in organico, gravemente carente risulta però quella dell’assistenza psichiatrica con un unico specialista (richiamato dalla pensione) che si divide tra Imperia e Sanremo garantendo una presenza di una decina di ore a settimana in istituto: sarebbe necessaria la presenza stabile di uno psichiatra e la Regione e l’ASL 1 dovrebbero farsene carico, occorre inoltre arrivare all’apertura della prevista REMS di Calice al Cornoviglio”. “Siamo stati informati dei progetti futuri che riguardano la riapertura della scuola di agraria, il ritorno alla didattica in presenza, un progetto di piccolo polo universitario, la possibile riapertura del laboratorio teatrale, il possibile impianto di attività di una ditta che si occupa di verde ornamentale e l’ampliamento della Cooperativa Articolo 27 che produce finestre e serramenti di ottima qualità e potrebbe passare da 4 a 7 detenuti lavoranti a posto fisso, pare sfumata invece la possibilità di installarvi una lavanderia industriale. Sono buoni propositi, ma la realtà attuale è di soli 4 posti di lavoro disponibili in tutto l’istituto. Al Padiglione C (destinato a protetti e sex offenders e teatro purtroppo di un recente suicidio) i detenuti lamentano con ragione la situazione di abbandono in cui si trovano, con il regime a cella aperta a cui non corrisponde nessuna attività a loro dedicata, difficoltà di accedere ai (pochi) posti di lavoro e ai corsi di studio, scarsa e quasi inesistente presenza degli educatori e degli stessi agenti, la penitenziaria in effetti controlla la sezione dal piano terra con la videosorveglianza, senza la presenza di un agente per piano ; l’ascensore - importante quando si tratta di spostare qualcuno verso la lontana area medica - rimasto fuori uso per circa un anno è stato riparato da poco, ma è nuovamente guasto e inutilizzabile”. “L’apertura di almeno 8 ore delle celle prevista dalla sorveglianza dinamica a detta dell’istituto è attuata, ma di fatto alle 4 ore d’aria si assommano le possibilità (a turno) di accedere alla palestra, al campo di calcio e alle salette socialità con qualche calciobalilla (dove si viene chiusi), tutti i detenuti con cui abbiamo parlato si lamentano di questa chiusura, in particolare quelli che vengono da istituti di altre regioni dove non esiste. Un fatto grave considerato che gran parte dei detenuti presenti sono definitivi spesso con pene da scontare di considerevole durata (in qualche caso l’ergastolo) e avrebbero diritto al regime di maggior apertura previsto dalla legge e a possibilità di accesso ad attività di studio e lavorativa superiori a quelle che l’istituto offre; la promessa di automatizzare gli ingressi ai piani e garantire la sicurezza necessaria all’apertura delle celle con la video sorveglianza non è stata attuata. Fanno eccezione la quarta sezione (a custodia attenuata) a regime aperto e il Padiglione C dove tuttavia il primo piano da circa un mese per ragioni disciplinari è stata temporaneamente chiuso. Non contribuisce a migliorare la situazione l’incertezza sulla classificazione dell’istituto, che da qualche tempo è tornato ad ospitare anche parte degli arrestati del Ponente. Uno spazio importante e finora poco utilizzato è la sala cinema teatro, in buone condizioni ci sono sembrate le palestre e la biblioteca, in stato assai precario in termini di igiene e di pulizia si presentavano le cucine”. “Di chi sono le responsabilità di quanto abbiamo visto e in parte conoscevamo? Probabilmente anche della città, ma a nostro avviso della politica locale e regionale che da anni si disinteressa di Valle Armea e non lo visita quasi mai, in particolare non lofa Franco Vazio che nei mesi scorsi si è ritagliato il discutibile ruolo di promotore del tavolo tecnico che sta cercando di far passare il progetto di realizzare il nuovo Carcere di Savona in Valbormida chiudendo non uno ma tutti e due gli occhi sull’isolamento dalla città che comporterebbe e su quanto c’è di azzardato nell’includere tra le aree possibili l’ex-Acna di Cengio con i suoi 27 ettari destinati a cimitero permanente di rifiuti tossici non stoccati e smaltiti altrove. Franco Vazio invocava nella perorazione di questa scelta la disponibilità di ampi spazi dedicati ad attività lavorativa e trattamentale, lo invitiamo insieme agli altri che hanno partecipato a quel tavolo a visitare Sanremo che ne è dotato, ma quasi del tutto sprovvisto di queste attività e a fare qualcosa per favorirne l’insediamento e l’installazione”. “Tra i possibili strumenti utili a migliorarla - terminano i radicali - il maggior ricorso alle misure alternative fin dall’inizio dell’esecuzione pena che il Ministro Cartabia sta proponendo e l’attesa nomina del Garante dei Detenuti da parte del Consiglio Regionale insieme a quella di Garanti Comunali o Provinciali, se anche Sanremo decidesse di dotarsene la distanza che separa il carcere dalla città e anche in questa occasione abbiamo riscontrato potrebbe cominciare a diminuire”. Vibo. Condizioni dei detenuti e non solo: sopralluogo di “Nessuno tocchi Caino” in carcere zoom24.it, 17 agosto 2021 La delegazione è impegnata a visitare diverse strutture penitenziarie del Sud Italia. Incontro anche con il rettore dell’Università di Criminologia. Rita Bernardini (consigliera generale del Partito Radicale e presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”), insieme a Sergio D’ Elia (segretario di “Nessuno tocchi Caino”), hanno guidato la delegazione del partito fondato da Marco Pannella che ha visitato, domenica 15 agosto, il carcere di Vibo Valentia per verificare le condizioni di chi vive nel penitenziario e anche di chi vi lavora. Il giorno dopo, inoltre, ha incontrato il rettore dell’Istituto Italiano di Criminologia Saverio Fortunato. La Bernardini ha riferito al rettore delle condizioni del carcere di Vibo e il confronto è stato, più in generale, sul ruolo del carcere nella società moderna, considerato che la delegazione è impegnata a visitare diverse strutture penitenziarie del Sud Italia. Un detenuto costa circa 137 euro al giorno, che moltiplicato per le 60.000 persone recluse fanno raggiungere una spesa di circa 8 milioni di euro al giorno. Complessivamente quindi lo Stato italiano stanzia l’enorme cifra di 3 miliardi di euro all’anno per il mantenimento del sistema penitenziario. Lodi. Black-out in carcere, “Si rischia un incidente” di Carlo D’Elia Il Giorno, 17 agosto 2021 “Saltata la videosorveglianza”. L’allarme del sindacato. della penitenziaria. sulla situazione della struttura. Sbalzi di tensione e continui black-out. Questa la situazione nel carcere di Lodi nelle ultime settimane. Con l’ondata di caldo si sono registrati enormi disagi per gli agenti e tutta la popolazione detenuta all’interno della casa circondariale di via Cagnola. Le conseguenze, secondo quanto riferito dal sindacato Sappe, hanno interessato gli uffici per l’assenza della aria condizionata e soprattutto il sistema di videosorveglianza che controlla i detenuti e l’intera struttura penitenziaria interna ed esterna. Quest’ultimo problema è stato risolto, momentaneamente, solo ieri dopo un fine settimana di difficoltà. Una situazione esasperata che secondo il sindacato Sappe continua da anni. “Sono diversi anni che al carcere di Lodi si interrompe improvvisamente l’energia elettrica e sistematicamente crea disagio e spavento al personale - spiega Dario Lemmo, dirigente sindacale di Lodi del Sappe. Nessun direttore è stato capace di risolvere il problema. Appena dopo la sistemazione del sistema di videosorveglianza si sono verificato altri cinque blackout. È un problema per una struttura come la nostra che deve sempre lavorare con la massima sicurezza”. L’energia elettrica si interrompe improvvisamente principalmente nelle ore diurne e capita circa 45 volte al giorno e puntualmente in quelle occasioni si fermano tutte le attività e con forti ripercussioni sulle attrezzature elettriche. Questa volta a rimetterci è stato il sistema di videosorveglianza che da sabato 14 agosto fino a ieri non è stato più funzionante proprio a causa della continua interruzione di energia elettrica e sbalzi di tensione. L’anno scorso sono rimasti bloccati nel montacarichi delle persone ed è stato un panico totale tra tutto il personale presente che assisteva inerme. Secondo il sindacato “lavorando in queste condizioni prima o poi accadrà qualche serio incidente”. È già dall’anno scorso che il Sappe ha segnalato questa criticità e lo ha fatto anche il 30 luglio e 13 agosto scorsi chiedendo un intervento non solo il direttore della casa circondariale di Lodi Gianfranco Mongelli ma anche il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Pietro Buffa. Napoli. Donati 50 ventilatori al carcere di Poggioreale di Ilaria Urbani La Repubblica, 17 agosto 2021 Il Garante Ciambriello: “Segno di aria di solidarietà. Servono più spazi e più dignità”. Arrivano i ventilatori al carcere di Poggioreale. Cinquanta di grande formato ne sono stati donati questa mattina per affrontare le temperature torride di questi giorni. Il garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello ha portato i ventilatori nelle celle più affollate, dai sei agli otto detenuti. Il garante ha ringraziato sui social i cinque benefattori: Rosa Ciccone, Angela Maffei, Amalia Sarappa, Giuseppe Perrella e Michele Mosca. L’anno scorso ne furono acquistati 300 con un finanziamento della giunta regionale. “In questo luogo senza tempo che è il carcere - dice il garante campano dei detenuti Ciambriello - e in particolare Poggioreale, anche la riflessione sullo spazio fisico, in termini anche di edilizia, di spazi sensibili e significativi, di carenza di spazio vitale, di vuoti comunicativi e relazionali con la famiglia, di mancanza di igiene e dignità è utile e significativa. Spazi per praticare attività sportive, ricreative, scolastiche, formative e spazi verdi per colloqui più dignitosi e umani. Un ventilatore in cella come aria e solidarietà”. Ciambriello fa anche visita al padiglione Livorno di Poggioreale e denuncia le urgenze per i più fragili: “Lato sinistro 25 presenti, lato destro 281 presenti. Molti con disturbi psichici, borderline, bipolarismo, sindrome psicotica e disturbi di personalità. Più psicologi e meno farmaci e carcere”. Carcere di Santo Stefano, cella numero 36: detenuto Sandro Pertini di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 agosto 2021 “La sveglia suona: è l’alba. Dal mare giunge un canto d’amore, da lontano il suono delle campane di Ventotene. Dalla “bocca di lupo” guardo il cielo, azzurro come non mai, senza una nuvola, e d’improvviso un soffio di vento mi investe, denso di profumo dei fiori sbocciati durante la notte. Ricado sul mio giaciglio. Acuto, doloroso, mi batte nelle vene il rimpianto della mia giovinezza che giorno per giorno, tra queste mura, si spegne. La volontà lotta contro il doloroso smarrimento. È un attimo: mi rialzo, mi getto l’acqua gelida sul viso. Lo smarrimento è vinto, la solita vita riprende: rifare il letto, pulire la cella, far ginnastica, leggere, studiare”. È un passaggio di Sandro Pertini quando descrive la sua reclusione al carcere di Santo Stefano. Il futuro presidente della Repubblica italiana, fu ospite, suo malgrado, della cella n. 36, dal dicembre 1929 al dicembre 1930. A perenne memoria, all’ingresso principale del carcere, è stata affissa una lapide in marmo. Le date di ingresso di Pertini si rilevano da due missive. La prima redatta sul treno Roma- Napoli 23 dicembre 1929 è scritta dallo stesso Pertini alla madre per comunicarle il suo trasferimento sull’isola. Da questa lettera si rilevano il genuino amore di un figlio per la propria madre, la tenacia di un ribelle, e la forza di un uomo indomito che ha creduto, combattuto e pagato caramente per i suoi ideali: “Mia buona mamma - scrive Pertini - sono riuscito a procurarmi un pezzo di lapis e un po’ di carta e tento di scriverti nonostante questi maledetti ferri che mi stringono i polsi. Voglio che ti giungano i miei auguri per il nuovo anno, mamma, e farò di tutto perché a Napoli questa mia lettera sia imbucata. Sono qui solo in una piccola cella del vagone cellulare. Mi portano a Napoli e verso il 27 mi porteranno al reclusorio di S. Stefano. Mamma buona e santa, non ti rattristare per questa mia nuova sorte. Pensa, mamma, che lotto per un ideale sublime, tutta luce. Se tu sapessi con quale gioia, e con quanta fierezza io alzai dalla gabbia dopo la lettura della sentenza il grido della mia fede “Viva il Socialismo”, “Abbasso il fascismo”. E allora mi saltarono addosso furenti, turandomi la bocca quasi a soffocarmi, ma io nulla sentivo”. La seconda lettera, scritta da Andreina Costa Gavazzi, figlia di Anna Kuliscioff, a Filippo Turati, datata 23 dicembre 1930, riporta il trasferimento di Pertini a Turi, dove è testualmente detto: “… la presente per informarla, d’urgenza, che ricevo proprio ora dalla fidanzata del nostro Sandro la notizia che fino dal 10 corrente egli è stato trasferito alla Casa di pena di Turi (provincia di Bari). È un reclusorio meno duro di Santo Stefano? Non ne so nulla…”. Anche Sandro Pertini, in un suo scritto, ha lasciato testimonianza della sua permanenza in Santo Stefano: “Non sapevo a cosa andavo incontro. S. Stefano era rimasto il vecchio carcere dei Borboni, con celle umide e malsane, e quando la guardia aprì la mia cella, con accento meridionale disse: “Qui dentro c’è stato Luigi Settembrini”. All’alba ci portavano un caffè acquoso e alle dieci il rancio che era una minestra di pasta e ceci o pasta e fagioli, che doveva bastare tutto il giorno”. Il carcere di Santo Stefano venne realizzato nell’età dell’illuminismo, quando si era passati alla concezione dell’istituzione carceraria come centro del sistema penale. Un carcere adibito per gli ergastolani, dove, nonostante il secolo dei lumi, non si risparmiavano le pene corporali. Lo svolgersi delle interminabili giornate spesso era rotto dal crudele spettacolo delle punizioni a cui i condannati assistevano dalle grate delle finestre o dallo spioncino delle porte. In effetti, il regolamento interno, così come di qualsiasi altra prigione, prevedeva, oltre a piccoli premi per i condannati modello, anche dure punizioni per coloro i quali non si attenevano alle regole di condotta disciplinanti l’andamento della giornata. Accanto alle punizioni di carattere più leggero vigevano punizioni corporali che per la loro brutalità potevano anche portare alla tomba: cella oscura a pane e acqua, raddoppio delle catene alle caviglie e ai polsi, incatenamento al puntale (anello murato nel pavimento), battiture in cella o all’aperto in presenza degli altri detenuti. L’ergastolo di Santo Stefano, inquadrabile sicuramente tra quelli a sistema durissimo, era un carcere senza speranze, dove l’ozio ed i vizi spadroneggiavano e dove la quotidianità dei reclusi era scandita dalla battitura delle grate alle finestre, dallo stridere dei cancelli, dalle bestemmie e maledizioni dei forzati rivolte nel nulla e dai lamenti di coloro i quali, insubordinati alle regole interne, erano bastonati al centro del cortile, quale monito per i compagni obbligati ad assistere al triste spettacolo come accennato, da dietro gli sportellini delle porte delle celle. Da quell’inferno gli ergastolani con fine pena mai, potevano uscire solamente in due modi: o da morti, oppure con una evasione. In realtà nemmeno da morti: le spoglie dei reclusi morti durante l’esecuzione della pena, venivano tumulate nel piccolo cimitero dell’isola. La prima grossa evasione in massa fu attuata nel 1806 dal brigante “Fra Diavolo” di Itri (il cui vero nome era Michele Pezza), che dopo l’evasione arruolò i detenuti tra le fila della sua banda per combattere a fianco dei Borboni, contro i Francesi. Questo episodio determinò la chiusura della prigione per undici anni. Solo nel 1817, per volontà del ministro Medici, i cancelli di Santo Stefano furono riaperti per ospitarvi sempre più detenuti politici e meno criminali. Altra evasione, solo programmata ma fallita nella sua realizzazione, fu quella ideata dal patriota Luigi Settembrini ed appoggiata all’esterno da Giuseppe Garibaldi, che sarebbe dovuta avvenire tra il 1855 ed il 1857. Settembrini fu recluso nel carcere di Santo Stefano agli inizi del 1851 e ne uscì agli inizi del 1859. Nella primavera del 1855 iniziò a programmare il proprio piano di fuga, da mettere in atto verso la fine dell’estate. Da un copioso scambio epistolare clandestino con sua moglie Raffaella, si apprende che lui stesso chiese collaborazione all’esterno per sé e per altri cinque compagni di cella, stabilendo man mano le modalità del piano di fuga, preparando addirittura delle piantine con i disegni dei luoghi e le rotte marinare da seguire. Dall’esterno Giuseppe Garibaldi partecipò attivamente al piano, tracciando su apposite carte nautiche la rotta che l’imbarcazione (The Isle of Thanet), acquistata in Inghilterra dal rivoluzionario Antonio Panizzi con una sottoscrizione fra amici, avrebbe dovuto seguire per la riuscita dell’evasione. Il piano fallì in quanto l’imbarcazione naufragò ancora prima di giungere nel golfo di Gaeta. Fallì anche un secondo tentativo. Settembrini sarà infine liberato con un altro stratagemma messo in atto a bordo del piroscafo David Stewart nel mese di febbraio del 1859 durante il trasferimento, per il decretato esilio, suo e di altri sessantasei detenuti politici in Nord- America. Il comandante della nave, per paura di ventilati fastidi diplomatici internazionali, anziché dirigersi a New York, come concordato con le autorità, fece rotta verso l’Inghilterra dove sbarcarono liberi dopo qualche giorno. Rinunciare ai privilegi per fermare la schiavitù di Donatella Di Cesare La Stampa, 17 agosto 2021 Da un capo della filiera i lavoratori, condannati allo sfruttamento spietato e all’invisibilità, dall’altro uno scrittore che nelle sue pagine ha dato voce ai vinti della storia e, insieme alla libertà, ha guardato sempre anche all’uguaglianza. La denuncia di Maurizio Maggiani squarcia la coltre di silenzio che circonda la schiavitù degli immigrati, senza diritti e senza dignità, e richiama l’opinione pubblica, distratta spesso da pseudo-problemi o ripiegata su di sé, alle questioni che dovrebbero essere in cima all’agenda pubblica. Ecco perché sono lieta di prendere parte a questo importante dibattito inaugurato dalla sua lettera e dalla risposta di Papa Francesco. Mi riconosco nelle parole di entrambi, nei loro sentimenti, nelle loro fondate preoccupazioni. Vorrei solo tentare di mettere in luce tre aspetti su cui è forse opportuno insistere. Il primo riguarda quel che chiamerei la frantumazione della responsabilità, un fenomeno che caratterizza il mondo globalizzato in cui viviamo. Un tempo non era difficile risalire al sarto che aveva cucito i vestiti, al fornaio che aveva preparato il pane, al contadino che aveva coltivato le verdure. Oggi tutto questo ci sfugge. Consumiamo i prodotti senza conoscerne le modalità della produzione e gli artefici. Ci basta valutare se sono convenienti per noi. Tutto qui. Perciò possiamo a cuor leggero usufruire di beni a basso prezzo che sono costati lo sfruttamento disumano, se non la vita altrui. Penso al lavoro di tante donne senza difese, di minori asserviti e vessati. Noi non ne scorgiamo le sofferenze, non riusciamo a immaginarne l’angoscia, non proviamo pietà e compassione, non sentiamo alcuna responsabilità. Cadiamo nell’indifferenza e diventiamo analfabeti emotivi - perché la responsabilità ha a che fare con l’immaginazione. Più la serie di cause concatenanti si allunga e più impedisce di vedere gli effetti delle proprie azioni. Così possiamo dire, a noi stessi e agli altri, che noi non c’entriamo, anche quando i vantaggi di cui disponiamo qui sono all’origine del malessere, dell’agonia, della morte dall’altra parte del mondo. E, come si sa, l’altra parte del mondo può essere oggi nascosta nelle nostre campagne, occultata nelle nostre fabbriche - perfino in un’azienda grafica che subappalta il lavoro. Ma non vedere non è un alibi e non significa essere innocenti. Tutto ciò richiederebbe invece un sovrappiù di responsabilità. Siamo sempre più attenti al cibo che arriva sui nostri piatti. Vogliamo conoscerne provenienza, autenticità, genuinità; vogliamo avere informazioni e certificazioni. Perché riguarda noi e la nostra salute. La filiera si limita a questo e quasi mai dalle etichette dei prodotti affiora la storia del lavoro, lo sfruttamento, se non addirittura la schiavitù. Diventa allora facile sorvolare spensieratamente. Non sappiamo e non vogliamo sapere nulla di quei braccianti senza diritti che la filiera priva di dignità. Certo, questo avviene un po’ ovunque, in quasi ogni settore produttivo. Ma nell’editoria assume tutt’altro senso per via del contrasto stridente, del “paradosso” - come scrive Papa Francesco. Il “pane delle anime” non può alimentarsi del pane degli ultimi. La letteratura, permeata dalla bellezza della giustizia, non può essere basata sulle ingiustizie perpetrate a danno dei nuovi schiavi, degli invisibili. Che i libri di Maggiani siano stati prodotti dal lavoro di immigrati pakistani brutalizzati, obbligati a lavorare fino a 12 ore al giorno, costretti a vivere in condizioni impossibili, costituisce perciò una contraddizione in termini che non deve essere elusa. Di qui il rilievo e l’urgenza del problema sollevato. Che cosa può fare chi scrive? Qual è il compito oggi degli intellettuali? La risposta di Papa Francesco si riassume in questi due verbi: denunciare e rinunciare. Non voltarsi dall’altra parte, non accontentarsi di dire che tanto tutto funziona così, ma parlare della propria “vergogna”, come ha fatto Maggiani, dando in quelle parole voce a chi non la ha. Non basta, però, la denuncia. Occorre la rinuncia ai propri vantaggi, ai privilegi basati sul malessere altrui. “Dire un no per un sì più grande”. E il messaggio qui è per tutti: solo la nostra rinuncia interrompe la filiera, spezza la catena a cui sono legati i nuovi schiavi. Il cambiamento può essere qui e ora - senza attendere passivamente un futuro incerto di là da venire. Sta a noi, alle nostre risposte, alla nostra responsabilità. Non mi ha stupito che Maggiani si sia rivolto a Papa Francesco riconoscendone “l’autorità morale”. Forse avrei fatto lo stesso considerando la sua sensibilità per questi temi e il suo quotidiano impegno per i poveri. Questa scelta, però, dice molto della politica attuale, ridotta a governance amministrativa, priva di un afflato etico e soprattutto di una visione. Avverto anch’io ogni giorno questa mancanza, che con il tempo assume le dimensioni di una vera e propria perdita. Qualcuno ha parlato di malinconia di sinistra. Mi piace tuttavia pensare che, attraverso le nostre denunce e le nostre rinunce, ci sia ancora spazio per le lotte degli ultimi. “Senza paura e per giustizia”, la ribellione contro il racket delle braccia di Marco Omizzolo Il Domani, 17 agosto 2021 Gill fa nomi e cognomi, racconta i fatti, mostra la placca di metallo che ha nel braccio e che, peraltro, gli impedisce di lavorare. “L’ho fatto senza paura, per giustizia. I soldi sono importanti. Non posso vivere senza soldi e non posso far crescere bene i miei figli. Ma se ho denunciato è perché non voglio che quanto capitato a me capiti anche ad altri” dice ancora Gill. La Polizia, su invito della Procura, esegue il 18 maggio del 2020 due misure cautelari nei riguardi dei due aggressori. Poi il 23 maggio del 2020 il G.I.P. decide di revocare le misure cautelari ai due padroni italiani, salvo ovviamente proseguire con il relativo iter procedurale che prevede lo svolgimento di un regolare processo presso il tribunale di Latina. Confondendo strumentalmente la revoca dell’arresto con una sentenza di innocenza, interviene la politica. Soprattutto quella che invoca il blocco navale sul Mediterraneo contro le barche di profughi che tentano di arrivare in Italia, che accusa le navi delle Ong di essere in combutta coi trafficanti e che ha definito le carceri libiche degli hotel a quattro stelle. L’europarlamentare di Fratelli d’Italia, Nicola Procaccini, già ex compagno della Meloni ed ex Sindaco di Terracina, afferma pubblicamente che sarebbe in atto una campagna denigratoria contro la buona imprenditoria locale, scatenando i leoni da tastiera con minacce di morte e insulti, offese e il tentativo di denigrare il lavoro di chi cerca di ascoltare la voce degli sfruttati e degli imprenditori onesti, contro i padroni e i padrini delle agromafie. In un articolo pubblicato da Graziella Di Mambro su Articolo21 si legge: “parlare di sfruttamento del lavoro e di schiavi nell’agro pontino danneggia l’immagine turistica ed economica di quel territorio. È la medesima argomentazione utilizzata per la presenza della mafia in quello stesso territorio. E purtroppo mafia e agricoltura a Latina stanno lungo un confine labile, che talvolta scompare. Alcuni latifondi e grandi coop sono una delle vie del riciclaggio. Un’inchiesta recente ha portato alla luce la commistione tra organizzazioni senza scrupoli, rifiuti e agricoltura: intere distese coltivate venivano utilizzate per sotterrare rifiuti speciali spacciati per concime. La terra, ad un certo punto ha iniziato ad emettere strani fumi ed è scattata un’inchiesta per inquinamento ambientale. Pur volendo solo restare allo sfruttamento dei braccianti, va necessariamente ricordato che le inchieste su caporalato e maltrattamenti sono state sei in un anno e che in due mesi gli arresti sono stati cinque (incluse le misure ultime di Terracina). Per non contare le denunce senza provvedimenti restrittivi ma non per questo meno gravi. Le organizzazioni di categoria delle imprese, pur avendo avviato un percorso di risanamento con protocolli d’intesa e corsi di formazione, non si sono mai (finora) costituite parte civile nei processi e nemmeno i Comuni nei quali insiste la sede legale delle aziende. La Prefettura di Latina, nel frattempo, ha emesso nuove interdittive antimafia per aziende legate alla filiera dell’agricoltura, ossia nella mediazione e nel trasporto di ortofrutta da e per il Mof di Fondi”. Il 15 febbraio del 2021 il sostituto procuratore De Lazzaro, in seguito ad ulteriori indagini, ha riottenuto le misure cautelari per i due padroni, decisione confermata dalla Suprema Corte di Cassazione. Ora ovviamente quella politica così tanto loquace, tace. Anche la stampa nazionale si occupa del caso. PropagandaLive, con Diego Bianchi, ad esempio dà la notizia dell’aggressione di Gill quasi in diretta e il 1 maggio del 2021 ancora Bianchi intervista Gill che conferma tutto. Il giorno dopo alcuni consiglieri comunali di Terracina di Fratelli d’Italia affermano che è tutto il frutto di un’infamante campagna stampa di denigrazione del territorio. Intanto Gill si è costituito parte civile nel relativo processo grazie all’avvocato Salerni ed è assistito da Tempi Moderni e Progetto Diritti. Il suo scopo è “avere giustizia”, dice, “il resto non mi interessa”. La storia di Gill è emblematica e merita una particolare menzione. È peraltro in perfetta linea con quanto afferma Giuseppe Pontecorvo, capo della Mobile di Latina, che intervistato su eventuali forme di racket compiute da criminali o da organizzazioni mafiose nei confronti di imprenditori agricoli pontini afferma di non avere “evidenze investigative in questa direzione, ma qualunque interpretazione minimalista rischia di essere fuorviante e pericolosa.” Proprio per questa ragione Pontecorvo esplicitamente invita “tutti a denunciare ogni forma di illegalità: la denuncia è lo strumento più potente che abbiamo, la sola “arma” che può, insieme alla magistratura e alle forze dell’ordine, debellare le mafie. Certo, le mafie si sconfiggono con condanne severe e pene certe, ma è anche vero che senza la denuncia dei cittadini onesti i mafiosi non si arrenderanno mai, perché sono coscienti della paura e del terrore che riescono a incutere e le utilizzano come pistole. Troppo spesso ci rifugiamo in quegli inutili modi di dire: “tutto è inutile!”, “tanto lo Stato non c’è!”. Invece, lo Stato, anche in questo territorio, ha dimostrato di esserci. Mai come in questo momento a Latina chi denuncia può scegliere di farlo, ha la possibilità di vincere la paura e sentirsi veramente libero, senza il timore di restare solo”. Un invito che Gill e decine di lavoratori e lavoratrici come lui hanno ben compreso, assicurando alla giustizia i responsabili di violenze, sfruttamento e comportamenti criminali che ora i vari processi in corso si assicureranno di provare e infine auspicabilmente condannare. Eutanasia, i promotori del referendum: “Superate le 500mila firme” La Stampa, 17 agosto 2021 La nota dell’associazione Luca Coscioni, guidata da Marco Cappato: “Andiamo avanti, obiettivo 750.000 adesioni per mettere il risultato al sicuro da errori e ostacoli”. “Siamo felici di poter comunicare che ad oggi sono più di 500.000 le persone che hanno firmato il referendum per la legalizzazione dell’eutanasia, stando alle cifre comunicate al Comitato promotore da parte dei gruppi di raccolta firme ai tavoli (430.000 firme), alle quali si aggiungono oltre 70.000 firme raccolte online e un numero ancora imprecisato di firme raccolte nei Comuni”. Lo affermano in una nota i promotori del referendum. A 37 anni dal deposito della prima proposta di legge sull’eutanasia, a prima firma Loris Fortuna, “il referendum è lo strumento per abrogare la criminalizzazione del cosiddetto ‘omicidio del consenziente’ (articolo 579 del codice penale) e rimuovere così gli ostacoli alla legalizzazione dell’eutanasia anche con intervento attivo da parte del medico su richiesta del paziente, sul modello di Olanda, Belgio, Lussemburgo e Spagna, seguendo i principi già stabiliti anche dalla Corte costituzionale tedesca”. Se nel frattempo, prosegue la nota, “il Parlamento avrà la forza di approvare una legge (come quella ora ferma in Commissione alla Camera) che depenalizzi il cosiddetto ‘aiuto al suicidio’ (articolo 580 del codice penale), ricalcando la sentenza della Consulta, certamente si tratterà di un passo avanti positivo per impedire ostruzionismi, ma non si supererà l’utilità del referendum sull’art. 579”. “Parallelamente alla strada referendaria, che continua con la raccolta di altre centinaia di migliaia di firme”, si chiude la nota, “come Associazione Luca Coscioni proseguiamo anche con l’aiuto diretto alle persone che si rivolgono a noi attraverso il ‘numero bianco sul fine vita’ (06 9931 3409, numero gratuito attivo dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 17). Nei casi in cui sarà necessario con Mina Welby e Gustavo Fraticelli siamo pronti a ricorrere alla disobbedienza civile per affermare il diritto fondamentale all’autodeterminazione dei malati in condizione di sofferenza insopportabile e malattia irreversibile”. Monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, prendendo la parola ha parlato di “eugenetica” e “pericolo che avvelena la cultura”. Per il Vaticano “Monsignor Paglia, si dice “profondamente preoccupato” per la “concezione vitalistica della vita. Una concezione - dice a Vatican News - giovanilistica e salutistica in base alla quale tutto ciò che non corrisponde a un certo benessere e a una certa concezione di salute viene espulso”. Cita una “nuova forma di eugenetica: chi non nasce sano non deve nascere. Chi è nato e non è sano, deve morire. È l’eutanasia - aggiunge - Questa è una pericolosa insinuazione che avvelena la cultura”. Fine vita, adesso il referendum di Francesca Schianchi La Stampa, 17 agosto 2021 Oltre cinquecentomila firme in un mese e mezzo di raccolta. Una slavina di nomi e cognomi, depositati nei banchetti sotto il sole, nel cuore di un agosto cocente, file di giovani e anziani, da Nord a Sud, per la prima volta anche on line, basta avere lo Spid e ci si unisce al coro di chi chiede un referendum per l’eutanasia legale. Un plebiscito ha travolto l’iniziativa dell’Associazione Luca Coscioni, una sorpresa vedere farsi strada tra le quotidiane polemiche di bassa lega la volontà di partecipare di tante persone. Determinate a parlare di diritti e autodeterminazione, come i molti giovani impegnati nella raccolta firme, ragazze e ragazzi che hanno sacrificato parte dell’estate perché, come raccontiamo a pagina 19, “decidere cosa fare della propria vita è più importante di una settimana a Mykonos”. Un’onda d’urto che sottolinea l’inadempienza del Parlamento, vanamente invitato a intervenire sul tema dalla Corte costituzionale quasi due anni fa, paralizzato sui temi etici - campione assoluto nell’arte del rinvio, come si è visto con il ddl Zan - da troppo tempo insensibile a storie di sofferenza come quella di Piergiorgio Welby, di Dj Fabo, di Mario, il 43enne tetraplegico che abbiamo ospitato su queste pagine. Che chiede solo di morire con dignità, vedendo applicata una sentenza: a lui il ministro Speranza ha risposto, certo, ma richiamandosi alle tecnicalità, mentre su un tema simile, e sull’incapacità di dare seguito a una sentenza, anche il governo dovrebbe saper prendere posizione e responsabilità. A 37 anni dalla prima proposta di legge, sarà forse la volontà popolare a intervenire sul fine vita. E pazienza se il Vaticano si mostra preoccupato. Siamo uno Stato laico, come ha avuto modo di recente di ricordare - ma speriamo ardentemente non ce ne sia bisogno - il premier Draghi. Nel 2006, dinanzi a un accorato appello di Welby, l’allora capo dello Stato Napolitano auspicò un dibattito sul tema: “L’unico atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento”. Sono passati 15 anni. Allora era ingiustificabile, oggi inaccettabile. Afghanistan, senza via di fuga di Giuliano Battiston Il Manifesto, 17 agosto 2021 Si salva chi può. Gli occidentali se ne vanno mentre il potere torna nelle mani dei Talebani. Scena di caos e disperazione nell’aeroporto della capitale. Tra i civili c’è chi si è aggrappato agli aerei in decollo. Si è schiantato al suolo, come le istituzioni. I Talebani tornano al potere in Afghanistan, i diplomatici occidentali vengono fatti evacuare, la popolazione assiste incredula alla capitolazione delle istituzioni degli ultimi venti anni. Sono drammatiche le scene viste in queste ore dall’aeroporto di Kabul: migliaia di afghani e afghane cercano una via di fuga, prendono d’assalto gli aerei, sperano che la comunità internazionale mantenga le promesse: non vi abbandoneremo. Gli stranieri però vanno via. I pochi rimasti hanno già le valigie pronte. Ne hanno poche gli afghani che si sono riversati ieri all’aeroporto, dopo che si erano diffuse false voci sulla possibilità di essere evacuati insieme agli stranieri, anche senza un invito, anche senza un visto. Qualcuno ha pensato di aggrapparsi alle ali e alle parti esterne degli aerei che decollavano. È finito schiantato al suolo, come la Repubblica islamica d’Afghanistan sorta sulle ceneri dell’Emirato dei Talebani, rovesciato nel 2001. Sono almeno 7 i morti causati dalla calca. L’aeroporto, sulla cui sicurezza Washington ha negoziato per mesi con Ankara senza arrivare a una soluzione, è intitolato ad Hamid Karzai, l’ex presidente che due giorni fa - dopo che i Talebani erano arrivati a Kabul - si è autoproclamato membro di un “Consiglio di transizione” insieme ad Abdullah Abdullah e al leader dell’Hezb-e-Islami, Gulbuddin Hekmatyar, artefice della distruzione di Kabul negli anni Novanta, poi attore anti-governativo, infine rientrato nell’agone politico istituzionale. Non si sa chi abbia nominato il triumvirato. Sappiamo però che i tre politici sono ancora in Afghanistan, a differenza dell’ormai ex presidente, Ashraf Ghani, il tecnocrate-accademico che voleva salvare “un Failed State” - come recita un suo libro - e che è scappato. Con un bel malloppo di soldi, sostengono alcuni funzionari di Mosca, una delle capitali regionali che non ha mai avuto buoni rapporti con Ghani e che da anni ha aperto canali di comunicazione con i Talebani. Nell’aeroporto della capitale campeggia da anni una foto del “Leone del Panjshir”, il comandante Masud, tra i protagonisti dell’Alleanza del Nord, fiero anti-talebano, ucciso due giorni prima dell’11 settembre 2001, la data-evento che ha portato al rovesciamento dell’Emirato dei Talebani, colpevoli di ospitare Osama bin Laden. Fuori dal controllo degli studenti coranici, oggi, c’è solo la valle del Panjshir. Se le foto che circolano sono vere, lì sono riuniti l’ormai ex vice-presidente, Amrullah Saleh, con il figlio di Masud. Si dicono pronti a organizzare la resistenza. Ma solo due giorni fa Amhad Masud in un’intervista si diceva pronto a negoziare con i Talebani, che certo non temono i “panjshirì”, così isolati, dopo aver fatto scappare anche il maresciallo Abdul Rashid Dostum e Atta Mohammad Noor, i due uomini a cui Ghani aveva disperatamente affidato l’ultima resistenza. Sconfitti, anche perché imbolsiti dal potere accumulato illegalmente in questi anni, entrambi sostengono che c’è stato un piano per consegnare il Paese nelle mani dei Talebani. Anche il presidente Ghani di recente ha voluto che la sua foto campeggiasse all’aeroporto. Lo stesso da cui è fuggito, pare. Fino a pochi giorni fa arringava la folla, assicurando che lui - al contrario di re Amanullah Khan - non è tipo da scappare. Amanullah Khan, il re che a soli 27 anni, nel 1919, ha ottenuto l’indipendenza dagli inglesi, è finito in esilio in Italia, a Roma, ma oggi è ricordato con commozione e rispetto da tutti gli afghani. Ashraf Ghani, sulle cui spalle gravano molti errori, è il capro espiatorio di un fallimento colossale, storico. Così repentino da lasciare tutti interdetti. Il fallimento non è solo suo - di chi ha testardamente pensato di poter dirigere un gioco da cui è rimasto schiacciato - ma dell’intera classe politica. Del governo, delle istituzioni, fragili perché prive di legittimità, ma sempre sostenute dalla comunità internazionale in nome di quella democratizzazione che oggi appare per quel che era: un castello di carte. Kabul è caduta nelle mani dei Talebani dopo vent’anni di jihad ma dopo un’offensiva militare durata meno di due settimane. Mullah Abdul Ghani Baradar, uomo della vecchia guardia, già braccio destro di mullah Omar, poi catturato in Pakistan dai servizi locali e della Cia, imprigionato per otto anni, liberato per favorire il negoziato con gli Usa, infine volto diplomatico dei Talebani a Doha, ha guardato in diretta su al-Jazeera la conquista dell’Arg, il palazzo presidenziale, da parte dei suoi militanti. È l’uomo che ha condotto i negoziati con gli Stati uniti, conclusi con l’accordo di Doha del febbraio 2020. Accordo voluto dal presidente Donald Trump e confermato a metà aprile dal successore, Joe Biden. Che fin qui ha difeso la sua scelta. Non c’era alternativa, continua a dire. La sconfitta degli Stati Uniti e della Nato è netta quanto la vittoria dei Talebani, a dispetto delle dichiarazioni di Biden, ultimo presidente in ordine di tempo a gestire una guerra che non andava fatta. E che ha inaugurato il più importante paradigma della politica estera statunitense dai tempi della Guerra fredda: la war on terror. Si conclude con il ritorno al potere dei nemici, poi interlocutori diplomatici, capaci di manipolare l’inviato americano, Zalmay Khalilzad. È stata tra quelli che erano convinti di poter trattenere le spinte egemoniche dei Talebani, imbrigliandoli in un negoziato che loro hanno usato invece per ottenere i due obiettivi a lungo coltivati: il ritiro delle truppe straniere e la nascita di un vero “Stato islamico”. Come sarà fatto non lo sa nessuno. Gli afghani sanno però che non possono fidarsi. E che nel Paese è già in corso una crisi umanitaria senza precedenti, celata dal conflitto in corso, fin qui. La resa di Ghani ha scongiurato che il conflitto venisse portato dentro una città così densamente popolata come Kabul. Ma non scongiura i pericoli e le incognite per gli afghani, che vivono ore di profonda incertezza e inquietudine. Afghanistan, l’Europa divisa su come gestire la crisi dei migranti di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 17 agosto 2021 Oggi vertice dei ministri degli Esteri a Bruxelles. Merkel ipotizza un Consiglio Ue straordinario Ma i “falchi” pensano ai rimpatri dei profughi. Domenica sera Angela Merkel aveva ancora annunciato riservatamente ai capigruppo che la Germania avrebbe evacuato 10mila persone da Kabul. La cancelliera non aveva nascosto la sua irritazione per il frettoloso ritiro Usa e la preoccupazione che la rapida riconquista talebana scateni una nuova emergenza profughi. In conferenza stampa Merkel si è limitata ieri a dire che gli aerei militari A400 porteranno in Germania “e in Paesi terzi sicuri” anche “più persone possibili” tra gli esponenti delle Ong che rischiano di diventare facili bersagli delle rappresaglie dei talebani. Parlando di “sviluppi drammatici e terribili”, Merkel ha precisato che “1900 collaboratori locali su 2500 sono stati già evacuati”, e che di 1500 dipendenti delle Ong presenti in Afghanistan circa 600 hanno chiesto aiuto e saranno soccorsi. Il clima a Berlino è incandescente; fino a ieri volavano stracci tra il ministero della Difesa e quello degli Esteri, riporta una fonte governativa. Ma la data alla quale si guarda è quella del 26 settembre, delle elezioni politiche. Il candidato della Cdu/Csu alla cancelleria, Armin Laschet ha sottolineato che “l’errore del 2015 non si deve ripetere”. La preoccupazione è che la crisi afghana possa spostare voti verso l’ultradestra Afd. La verità è che nessuno in Europa si aspettava un’avanzata dei talebani così travolgente. Merkel ieri si è associata al ministro degli Esteri Heiko Maas nell’ammettere che “abbiamo sbagliato tutti a valutare la situazione”. Dopo le scene di panico all’aeroporto di Kabul, ieri pomeriggio le operazioni di evacuazione sono state bloccate per consentire agli americani di ripristinare minime condizioni di sicurezza. I ministri degli Esteri Ue si riuniranno oggi e i loro colleghi degli Interni domani per stabilire una linea comune. La cancelliera non ha escluso un Consiglio Ue straordinario. Ma i “falchi” come l’Austria hanno fatto sapere di non voler rinunciare ai rimpatri dei profughi, eventualmente nei Paesi vicini. E l’Ungheria ha segnalato zero disponibilità alla solidarietà. Lo shock per il blitzkrieg dei talebani è generale: l’Italia aveva programmato di evacuare entro fine agosto un migliaio di persone, inclusi i collaboratori afghani dei ministeri di Esteri e Difesa, dopo un’attenta analisi delle loro biografie, insomma dopo essersi accertata di non importare jihadisti. Dalla Farnesina fanno sapere che Roma potrebbe accogliere altri due-tremila collaboratori afghani. Ma fonti diplomatiche europee esprimono preoccupazione per la fuga in avanti di Macedonia, Albania e Kosovo, che hanno espresso la loro disponibilità ad accogliere profughi. A Roma, intanto, sono arrivati i primi 70 evacuati. Anche Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia procedono alle evacuazioni del loro personale diplomatico e dei connazionali. Idem la Francia. E il presidente Emmanuel Macron, dopo aver parlato con Merkel ha sottolineato che l’Europa “non si può assumere da sola in compito” di affrontare una prevedibile nuova crisi dei profughi. Parigi annuncia un’iniziativa con il Regno Unito, per discutere la crisi. Afghanistan. Paura dei profughi, l’Ue punta su Pakistan e Iran di Carlo Lania Il Manifesto, 17 agosto 2021 Ora che anche Kabul è caduta gli occhi dell’Europa sono fissi su Pakistan e Iran. È su questi due Paesi confinanti con l’Afghanistan, infatti, che l’Unione europea conta per arginare un nuovo flusso di profughi che, in fuga dai talebani, punterebbe diretto verso l’Europa alla ricerca di salvezza. Uno scenario che spaventa i leader europei da quando è stato chiaro a tutti che l’avanzata degli studenti coranici non si sarebbe fermata. E allora è a Teheran e a Islamabad che l’Ue chiederà di trasformarsi nell’ennesimo muro destinato a impedire che si ripetano le scene viste del 2015, quando un milione di profughi siriani riuscì a raggiungere il cuore dell’Europa. E i modi per evitare che questo accada sono due: Pakistan e Iran devono essere aiutati perché accolgano e trattengano i profughi afghani. Ma si vorrebbe anche, come ha proposto ieri l’Austria, che permettessero l’apertura all’interno dei propri confini di “centri di espulsione” dove rimpatriare gli afghani che si trovano illegalmente in Europa e che il precipitare della situazione impedisce ora di riportare direttamente nel Paese asiatico. Insomma: la stagione delle “porte aperte” vista sei anni fa si è chiusa e “per noi è chiaro che il 2015 non deve ripetersi”, ha sottolineato ieri in Germania il segretario generale della Cdu, Paul Ziemaiak, mentre la stessa cancelliera Merkel ha chiesto di “fare di tutto” per aiutare i Paesi confinanti con l’Afghanistan “a sostenere i rifugiati”. In attesa che qualche decisione venga presa, da Nord a Sud è tutto un susseguirsi di vertici internazionali o incontri bilaterali per capire come far fronte alla crisi afghana. Oggi i ministri degli Esteri dei 27 si riuniranno in videoconferenza convocati da Josep Borrell: “L’Afghanistan è a un bivio. Sono in gioco la sicurezza e il benessere dei suoi cittadini, così come la sicurezza internazionale”, ha spiegato l’Alto rappresentante della politica estera dell’Unione. Per domani, invece, è previsto il vertice dei ministri dell’Interno. Inizialmente era stato convocato per discutere delle tensioni esistenti al confine tra Lituania e Bielorussia, che però passano adesso in secondo piano di fonte alla caduta di Kabul. “L’asilo deve essere concesso a chi è in pericolo di persecuzione”, ha chiesto ieri David Sassoli. Ma quella del presidente del parlamento europeo rischia di rimanere una voce isolata. Dall’Ungheria all’Austria, i Paesi fautori della linea dura contro profughi e migranti si sono già fatti sentire. Il ministro degli Esteri ungherese, solo per fare un esempio, ha infatti comunicato che Budapest non approva l’idea di un’accoglienza indiscriminata di chiunque desideri lasciare l’Afghanistan. Gli Stati, però, si muovono anche indipendentemente, soprattutto se si trovano lungo le rotte battute dai migranti. Così il premier della Croazia Andrej Plenkovic ha incontrato quello della Slovenia Janez Jansa, che fino a dicembre è anche presidente di turno dell’Ue, con il quale ha discusso della situazione in Afghanistan e di un’eventuale emergenza migranti. Il presidente bulgaro Rumen Radev ha invece convocato il Consiglio di sicurezza per decidere come contrastare l’aumento della pressione migratoria lungo il confine con la Turchia. Proprio la Turchia rischia di essere un’incognita in più in una situazione di per sé già incerta. “Se gli afghani potranno lasciare il Paese dipende dai talebani e dalla situazione ai confini”, ha affermato ieri la Merkel. La cancelliera, vera artefice dell’accorso del 2016 con Ankara per fermare i migranti, ha subito aggiunto che “ora è necessario lavorare a stretto contatto con la Turchia”. Al contrario però di quanto accadde sei anni fa, quando accolse i profughi siriani e afghani (quest’ultimi nel Paese sono almeno centomila), oggi il presidente Recep Tayyip Erdogan è meno disponibile ad accogliere una nuova ondata di rifugiati. Complice la crisi economica, si fanno sempre più numerose le voci di quanti criticano la scelta di permettere a quattro milioni di profughi di vivere nel Paese al punto che Erdogan, anche in vista delle elezioni del 2023, ha già fatto costruire un muro al confine con Iran e Iraq e schierato l’esercito per fermare nuovi ingressi di afghani. E se la situazione dovesse precipitare c’è da scommettere che non si farebbe scrupoli ad aprire i confini con Bulgaria e Grecia permettendo così ai rifugiati di arrivare in Europa. Afghanistan. Il futuro sospeso delle donne: “Lottavo contro il burqa ora dovrò indossarlo” Marta Serafini Corriere della Sera, 17 agosto 2021 “I talebani hanno detto che lasceranno lavorare e studiare le donne. Ci credo? Non lo so. So solo che un gruppo di ragazze di Herat che conosco, una volta caduta la città, sono andate dal rappresentante locale degli studenti coranici e gli hanno chiesto rassicurazioni. Ma lui ha negato loro il permesso di fare qualunque cosa. Compreso andare all’università o a lavorare”. Mahbouba Seraj è una delle attiviste più note in Afghanistan. Ha 73 anni e ne ha viste tante. “Sono angosciata ma non dimentichiamoci che queste donne oggi sono lasciate sole da coloro che dicevano di volerle liberare”, spiega al Corriere. Intanto restano nascoste in un luogo segreto le due sorelle di Kabul che hanno raccontato al Corriere nelle scorse ore il timore di essere inserite nelle liste delle donne single che, si vocifera, i talebani stiano stilando andando porta per porta. Aspettano che qualcuno le aiuti. E mentre la catena di solidarietà prova ad attivarsi cercando di farle uscire dal Paese una studentessa dell’Università di Kabul - la stessa su cui i talebani hanno issato la bandiera bianca - scrive sul Guardian: “Oggi, mentre tornavo a casa, ho dato un’occhiata al salone di bellezza dove andavo per la manicure. La facciata del negozio, che era decorata con bellissime foto di ragazze, era stata imbiancata durante la notte”. E ancora: “Per tutta la vita ho combattuto contro l’immagine della donna afghana come una figura senza volto ricoperta da un panno blu. Non avrei mai pensato di indossarne uno”, spiega mentre la fila a Kabul e Herat per comprare il burqa si allunga. A fronte di chi resta c’è anche chi va. “Sono in aeroporto, in attesa di prendere un volo ma non so per dove”, spiega all’Ap Tajik, un’analista di 22 anni che lavora per un appaltatore statunitense che aiuta le imprese afghane. “Come trascorrerò le mie giornate? Chi sosterrà la mia famiglia?”. Tajik ha ricevuto la chiamata domenica pomeriggio, le hanno detto che aveva 10 minuti per partire. Era stata inserita in una lista di evacuazione negli Usa o in Messico. Nemmeno il tempo di salutare i genitori rimasti a Herat. Così ha lasciato l’appartamento che condivideva con un’amica a Kabul, ha preso pochi vestiti, un laptop e il suo telefono. “Ora i miei sogni e i miei progetti sono tutti dentro a questo zaino”. Corre via disperata e posta il video su Facebook, la regista Sahraa Karimi, autrice del film “Hava, Maryam Ayesha”, dedicato agli aspetti controversi della maternità in Afghanistan e arrivato a Venezia nel 2019. Nelle scorse settimane Karimi ha scritto una lettera aperta chiedendo protezione per le registe afghane. “Se i talebani prenderanno il controllo, io e altri artisti potremmo essere i prossimi sulla loro lista nera”. E tremano le giornaliste già da tempo nel mirino e per le quali ora si sono messe al lavoro le Ong come il Committee to Protect Journalists. “Quando è caduta Kabul ho ricevuto una telefonata da mio fratello che mi diceva “Dove sei? Devi venire subito a casa”, racconta al Guardian un’importante anchor della tv afghana. Ma le donne afghane non sono solo quelle di Kabul. Tante non sanno nemmeno scrivere e hanno anche 11 figli a testa. “Qui le donne vengono a lavorare con il burqa”, ha spiegato al Corriere solo un mese fa, quando ancora i talebani sembravano un incubo lontano, Francesca Gigliotti, responsabile dell’ospedale di Khost di Medici Senza Frontiere. “Dunque hanno il permesso di lavorare ma non possono, ad esempio, avere un conto in banca intestato a loro nome”. Per la maggior parte di loro il problema non è tanto chi detiene il potere a Kabul quanto cosa mettere nel piatto a fine giornata. Ma c’è una cosa che tutte le donne incontrate nel Paese in questi anni hanno ripetuto, di qualunque estrazione sociale e in qualunque regione. “Le bambine devono poter studiare”. Un diritto che - sottolinea Seraj - non necessariamente sarà garantito dagli studenti coranici. Iraq. Tre morti di tortura nella prigione di Bassora di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 agosto 2021 Due morti ammessi dall’Alta commissione per i diritti umani, un terzo reso noto da una fonte non ufficiale: sono i casi di tortura avvenuti nella prigione di Bassora, nel sud dell’Iraq, in questo mese di agosto. Poche settimane prima, la Missione delle Nazioni Unite di assistenza in Iraq e la stessa Alta commissione per i diritti umani avevano reso noto un rapporto sulla diffusione della tortura nel paese. Vi si legge che nel 2020 vi sono state 1406 denunce di maltrattamenti o tortura nei centri di detenzione. Solo in 18 casi le indagini, peraltro su fattispecie di reato diverse, si sono concluse con delle condanne, molte altre sono ancora in corso. La tortura è vietata dall’articolo 37 della costituzione irachena ma, sebbene l’Iraq sia tenuto a farlo avendo aderito all’apposita Convenzione delle Nazioni Unite, non esistono leggi né tanto meno direttive su come debba svolgersi l’azione giudiziaria successiva alle denunce. Il rapporto evidenza l’enorme problema delle sparizioni forzate, una delle principali condizioni che favoriscono la tortura e chiede l’adozione di una legge rigorosa che punisca la tortura e soprattutto la prevenga. Secondo dati ufficiali del ministero della Giustizia, nei centri di detenzione posti sotto la sua autorità si trovano 39.518 prigionieri, 11.595 dei quali condannati a morte. Le organizzazioni per i diritti umani hanno più volte denunciato l’irregolarità e la sommarietà dei processi, nei quali vengono usate come prove confessioni estorte mediante tortura. Libano. La crisi del carburante esplode. E fa 28 morti di Pasquale Porciello Il Manifesto, 17 agosto 2021 Strage nella regione di Akkar provocata dall’assenza di benzina. Ormai l’elettricità è disponibile pochissime ore al giorno: sanità prossima al collasso e settore dei trasporti paralizzato, a terra resta anche il cibo. Qui non si fa in tempo a piangerli i morti, che se ne aggiungono altri: un’altra drammatica esplosione a pochi giorni dal primo anniversario di quella al porto che ha causato più di 200 vittime, oltre 6mila feriti e 300mila sfollati. Villaggio di Al-Tleil, Akkar, nord, la regione libanese più povera e abbandonata a se stessa, confine con la Siria con cui si traffica e contrabbanda. Sono le prime ore di domenica 15 agosto quando un deposito illegale di carburante esplode uccidendo 29 persone - accertate al momento - e ferendone una ottantina. Il fatto di per sé drammatico va inserito nel contesto della crisi del petrolio, aggravatasi pesantemente in queste ultime settimane e in quel tessuto socio-economico clientelare e corrotto su cui è incardinato il Libano. Sabato mattina un gruppo di attivisti scopre il deposito di circa 20mila litri di proprietà di un noto imprenditore, George Rachid, con forti legami politici. Interviene l’esercito e ne viene lasciato metà alla popolazione. Nella notte la tragedia, le cui cause sono ancora da definire: scontri per l’approvvigionamento, ma c’è anche l’ipotesi che il figlio di Rachid abbia sparato colpi di pistola per disperdere la folla e che avrebbero provocato l’incendio, secondo alcune testimonianze. Giovedì scorso il discusso governatore della Banca centrale Riad Salameh aveva annunciato che non sarà più in grado di calmierare il prezzo della benzina, già razionata e che aveva già subìto un aumento del triplo nei mesi scorsi. “Nessuno sta governando il paese (…). Siamo pronti a spendere le riserve obbligatorie (della banca): fate una legge, servono cinque minuti”, le sue invettive. Il settore dell’energia totalmente prodotta a diesel era già mal funzionante prima della crisi. La partecipata pubblica-privata Elettricità del Libano non soddisfa il fabbisogno nazionale, per cui una miriade di generatori privati dalla gestione quantomeno dubbia - la gente ne parla come di “mafia dei generatori” - sorgono in ogni dove. Da mesi le ore di buio totale sono in continuo aumento: ora si contano per semplicità le pochissime ore di luce al giorno. La crisi della benzina e dell’elettricità ha paralizzato tutto l’indotto dei trasporti - che in Libano sono solo su gomma - e qualsiasi settore, inclusa la filiera alimentare: si fa la fila pure per il pane. Non c’è benzina nemmeno per le ambulanze e il Centro medico dell’Università americana di Beirut ha denunciato pubblicamente “il governo e le autorità totalmente responsabili della crisi e della conseguente catastrofe umanitaria. (…) L’Aubmc affronta un imminente disastro (…) a causa della mancanza di carburante. Ventilatori e altri apparecchi salvavita smetteranno di funzionare. 40 adulti e 15 bambini moriranno immediatamente. 180 persone che soffrono di scompensi renali moriranno in pochi giorni senza dialisi. Centinaia di pazienti di cancro moriranno nelle prossime settimane per mancanza di cure adeguate”. Da mesi non si trovano più medicinali, anche quelli più essenziali. L’ex-premier designato Hariri ha chiesto le dimissioni del presidente Aoun dopo l’esplosione. Il neo premier incaricato Mikati ha annunciato invece l’imminente formazione del governo, il cui tentativo fallisce da quando un anno fa il premier Diab si è dimesso dopo il disastro al porto. Un nuovo governo sbloccherebbe in teoria fondi internazionali che potrebbero alleviare la crisi, a detta di tutti peggiore di quella della guerra civile (1975-90). Intanto le richieste di passaporti sono passate da 300 a 7mila al giorno per lasciare quello che assomiglia sempre di più a un girone dantesco. Terremoto ad Haiti, il sacerdote-medico: “Tragedia senza fine, è impossibile vivere qui” di Irene Soave Corriere della Sera, 17 agosto 2021 Padre Rick Frechette, americano, opera sull’isola dal 1987. “In trent’anni a Haiti è finita la speranza”. “Più di tutto servono tettoie di lamiera per ripararsi dalla tempesta. Stiamo costruendo baracche minime, chi ha perso il tetto non può stare all’addiaccio. Eppure chi ha vissuto il sisma del 2010 sente che ce la faremo”. Il sacerdote e medico Rick Frechette opera ad Haiti dal 1987. Dirige la Ong Nuestros Pequeños Hermanos, rappresentata in Italia dalla Fondazione Francesca Rava (che al sito nph-italia.org raccoglie donazioni per Haiti) che gestisce ospedali, orfanotrofi e scuole nella capitale. In 34 anni ha visto il Paese soccombere a terremoti, inondazioni, colera e Covid, guerre tra bande, colpi di Stato. “Da questo sisma ci rialzeremo”, dice. “Ma Haiti era già in macerie. Per anni ho rimproverato chi voleva andarsene: se tutti emigrano, dicevo, chi ci resta? Ora insisto perché scappino. Nessun Paese li vuole. Ma vivere qui è impossibile”. Lei è a Port-au-Prince. Com’è la situazione lì? “A parte la pioggia, la sente? non siamo i più colpiti. Qui molti si sono feriti scappando, memori del sisma del 2010. Stiamo offrendo posti letto nei nostri ospedali a chi viene dal Sud. Ma venendo qui rischiano il Covid”. Haiti, 11 milioni di abitanti, ha meno di mille vaccinati. Come gestite l’epidemia? “L’incubo è l’ossigeno. Le bombole passano da quartieri controllati dalle gang, e ogni volta è un negoziato”. Come negoziate con le gang di strada? “Ad Haiti, soprattutto nella capitale, ogni strada è controllata dalle gang. Sono una specie di famiglia sostitutiva, i ragazzi vi si identificano subito, le ragazze si identificano con il bordello, con la prostituzione. Una volta si poteva trattare con loro: offrendo una birra al capo, o coinvolgendo altri capi che persuadessero quello con cui si negoziava. Ce la siamo sempre cavata. Ora invece sono tutti mercenari, un giorno fanno capo a uno, il giorno dopo a un altro che li paga di più. Non guardano in faccia nulla”. Succederà così anche ora, con gli aiuti per il terremoto? “Le città colpite sono centri di provincia, dove qualcuno si atteggia a gangster ma senza riuscirci. Ci siamo stati ieri: l’emergenza è riparare gli abitanti dalla pioggia. Quando ci sono stato dopo il sisma del 2010... allora sì avevamo la sensazione di non poter fare niente. Io ero scampato a quel sisma: mia madre stava morendo in Connecticut ed ero volato a dirle addio. Arrivai quattro giorni dopo e capii che la speranza di Haiti era finita”. Ora ci vive da trent’anni. Cosa è cambiato? “Con le elezioni libere del 2006 sembrava di stare meglio, rientravano persino alcuni emigrati per aprire un negozio, fare famiglia. Poi il terremoto ha cancellato ogni cosa. Da allora Haiti è un Paese in sindrome da stress post-traumatico. Si è disfatto tutto. Le scuole sono quasi sempre chiuse per rivolte in strada o guerre fra gang. Nessuno esce per paura di essere rapito, hanno tentato di rapire anche me due mesi fa, ora non giro più da solo. Mi sono salvato perché guidavano una Polaris, un’auto molto alta, e il mio rapitore non riusciva a aprirne la porta: sono scappato. Nel 1987, quando sono arrivato, in pochi avevano una pistola. Oggi quasi tutti hanno armi da guerra, chi sa chi gliele dà”. Come può ricostruire il nuovo governo? “I ministeri con cui ho a che fare, Salute e Educazione, hanno portafogli inesistenti già da prima. Gli altri non saprei. Ma la mia sensazione è: non può fare niente”.