La pena dell’ergastolo distrugge la giustizia di Carmelo Musumeci pressenza.com, 16 agosto 2021 L’abolizione dell’ergastolo in Italia è una lunga disputa che si trascina ormai da moltissimi anni, ma nulla di concreto viene fatto per eliminarlo. Ritengo l’ergastolo - e non perché ne sia direttamente coinvolto - una pena disumana: una condanna, oltretutto, che palesemente non promuove il recupero e la trasformazione del condannato. L’articolo 27 della Costituzione recita: “La pena deve tendere sempre alla rieducazione del condannato”. Per cui è la stessa Costituzione che mette in discussione la conformità della pena dell’ergastolo riconoscendone la disumanità. L’abrogazione dell’ergastolo sarebbe il primo passo verso un traguardo di civiltà, la qual cosa consentirebbe finalmente la piena rispondenza del diritto penale alla finalità rieducativa della pena. Se noi, e chi amministra la giustizia, intendiamo il processo penale come il motore delle istituzioni, essa deve mostrare, a mio parere, ancora di più il suo volto umano. Ecco la tredicesima testimonianza di un ergastolano: Chi è l’ergastolano: un soggetto alienato privato di tutti i suoi diritti, lesi giorno dopo giorno finché morte sopraggiungerà. Non ha diritto all’amore, alla procreazione, il diritto di esistere, la sua fedele compagna è l’attesa della morte come certezza. Lo stato Italiano da tantissimo è diventato il paladino dei diritti fondamentali delle persone in tutto il pianeta, si batte per l’abolizione della pena di morte ma l’applica ai suoi sudditi “con l’ergastolo”, una morte lenta e silenziosa, l’Italia patria del diritto, dovrebbe andare a lezione di diritto dai paesi europei più evoluti. Ormai il nostro paese è rimasto ancorato al medioevo, allora vigeva la pena di morte, adesso è più letale e dolorosa di prima con l’ergastolo. L’ergastolo resta una pena incostituzionale sotto tutti i suoi aspetti. L’idea dei costituzionalisti di sostituire la pena di morte con l’ergastolo, è servita a rassicurare la società: tanto non uscirà vivo dal carcere. Come potrei chiamare l’ergastolo usando un eufemismo o una metafora? Ne ho sentite tante… la morte bianca, i sepolti vivi, i morti che parlano o meglio 31 e 47 (morto che parla), usando la smorfia napoletana. È provato scientificamente da eminenti luminari delle psichiatrie e della psicologia che dopo 10 o 15 anni di carcere (non ricordo bene gli anni esatti) il detenuto mentalmente ha problemi a vivere per tantissimi anni in un contesto limitato di spazio e di rapporti interpersonali, si diventa come automi. Quale sarebbe la giusta pena per un ergastolano? Penso che l’Italia dovrebbe informarsi ai massimi edittali dei paesi europei più evoluti: Spagna 24 anni, Germania 22 anni, Svezia, Norvegia e Danimarca 18 anni. In questo modo il detenuto, avendo un fine pena, acquista fiducia in se stesso e nel mondo intero, prende consapevolezza che la speranza non è morta, la vita fuori lo aspetta, ma se lo stato uccide anche questo il recluso muore con essa. Io ho lasciato le mie tre figlie che erano meno che adolescenti, la più piccola appena 6 anni. Le ho viste crescere da lontano, si sono laureate con tutti i sacrifici di questo mondo, sacrifici anche per fare i colloqui: quasi 800 km il tragitto totale per venirmi a trovare. Il mio cuore era sempre agitato il giorno del colloquio, per la gioia, nonostante il muro divisorio. Da qualche anno il muro è stato tolto, è stata una sorta di liberazione, adesso posso stringere e baciare tutti i momenti figlie e nipotini. Vi sono state iniziative da parte dei detenuti per avere condizioni di vita decenti nel carcere, ma sono naufragate sul nascere: il recluso non può prendere mai alcuna decisione, tutto gli viene imposto, si è privati di ogni iniziativa. Deve fare unicamente quello che gli viene imposto, vige la sottomissione come regola e in quest’etica il carcere può diventare una scuola di potenziali irresponsabili. Carceri, lo sciopero del cibo da Torino si allarga ad altri penitenziari di Cristina Palazzo La Repubblica, 16 agosto 2021 Lo sciopero del carrello, da ieri in corso nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino, continuerà per giorni e sembra destinato a prendere piede anche in altri istituti. La protesta pacifica contro il “silenzio e l’immobilismo che grava sui problemi nei penitenziari italiani” per sensibilizzare la ministra della Giustizia Marta Cartabia e Bernardo Petralia, capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria “sta ricevendo un’attenzione alta e questo vuol dire che una parte dell’obiettivo delle donne recluse è stato raggiunto. Credo avrà valore la voce dei detenuti, in questo caso delle detenute, nella riforma penitenziaria”. A dirlo è Monica Cristina Gallo, garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale. Nei prossimi giorni andrà in carcere per capire quali siano le ripercussioni dello sciopero per cui i detenuti stanno rifiutando il cibo. Un modo per accendere i riflettori sul sovraffollamento delle strutture, quindi sostenere la proposta di liberazione anticipata speciale per tutta la popolazione, ma anche riflettere sulla situazione delle donne recluse. “Sono state coraggiose, sono riuscite a lavorare in gruppo, scegliendo una strada delicata rispetto al linguaggio e alle forme di protesta, con proposte tecniche. Un approccio strutturato che ha trovato sostegno nelle sezioni maschili”, aggiunge la garante. Sottolinea come “la condizione per le donne è di carenza in tutta Italia perché si ragiona con un approccio maschile. Un esempio? Nel carcere torinese a fronte di otto corsi di formazione maschile dell’ente selezionato dalla Regione, due anni fa con il disavanzo di 200 ore partì uno per le donne di pasticceria che però non rilasciava certificazione. Oltre al classico corso di cucito, certo, nonostante i tempi siano cambiati”. La scelta di rinunciare al cibo del carrello “ci interroga sull’opportunità di un ristoro anche per le persone detenute al tempo del Covid”, sottolinea Bruno Mellano garante regionale dei detenuti. Un ristoro, precisa “in termini di liberazione anticipata per tutti quei detenuti che abbiano vissuto questo periodo di emergenza sanitaria in carcere e siano riusciti a mantenere una buona condotta e magari pure a fare cose eccellenti come concludere un anno scolastico e ottenere un attestato regionale di formazione”. Oppure, dice ancora “che abbiano assicurato l’adesione ai percorsi lavorativi interni o semplicemente siano riusciti, senza lavoro, denaro, sostegno, presenza di operatori e contatti diretti con la famiglia, a resistere”. Calano i reati ma esplode il cybercrime. I dati del Viminale Il Dubbio, 16 agosto 2021 Nell'ultimo anno i delitti informatici sono aumentati del 27,3%. Da agosto 2020 il numero di femminicidi sale a 105. In aumento le minacce a giornalisti e sindaci. Calano del 6,4% gli omicidi nell’ultimo anno, che passano da 295 (1 agosto 2019- 31 luglio 2020) a 276 (1 agosto 2020-31 luglio 2021), i furti (-12,8%) e le rapine (-3,8%) ma aumentano le truffe (+16,2%) e i delitti informatici (+27,3%). Sono i dati contenuti nel dossier del Viminale, pubblicato ogni anno in occasione della tradizionale riunione del 15 agosto del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica. La rilevazione è comprensiva degli attacchi registrati dalle articolazioni territoriali della Polizia Postale e delle Comunicazioni grazie alla progressiva attivazione dei Nuclei Operativi di Sicurezza Cibernetica (Nosc). Sempre in tema di sicurezza informatica sono aumentano del 21,2% gli alert diramati che sono stati 102.517 contro gli 84.606 dell’anno precedente. Nell’attività di prevenzione antiterrorismo sono stati 61.033 i contenuti web monitorati, il 54% in più rispetto ai 39.626 dell’anno precedente. I contenuti web oscurati sono invece l’88,7% in meno. Quanto alla pedopornografia on-line sono 2.490 i siti presenti in black list, il 3,7% in più rispetto all’anno precedente. Aumentano del 107,1% le perquisizioni, del 234,9% gli arrestati e dell’86,1% i denunciati. Reati in calo del 7% nell’ultimo anno - Sono 13 invece gli omicidi attribuibili alla criminalità organizzata (-40,9%) e 144 quelli maturati in ambito familiare/affettivo. In particolare delle 155.242 truffe messe a segno sono 98.791 le frodi informatiche (+10,7%) e 22.354 quelle che hanno come vittime gli over 65 (+15,7%). I delitti informatici, che hanno fatto registrare un’impennata nell’ultimo anno, sono 202.183 contro i 58.832 rilevati nell’anno precedente. Violenza di genere: 105 donne uccise in un anno - Poco confortanti i dati sulla violenza di genere. Sono 105 le donne uccise dal 1 agosto 2020 al 31 luglio 2021, il 13,9% in meno dell’anno precedente: 88 omicidi sono maturati in ambito familiare o affettivo e 62 donne sono state uccise dal partner o all’ex partner. I femminicidi sono il 38% del totale degli omicidi volontari commessi nell’ultimo anno. Aumentano dello 0,2% le denunce per stalking che sono 15.989 nell’ultimo anno. Nell’ambito dei provvedimenti assunti sono 2.480 gli ammonimenti del questore (+5,5%) e 403 gli allontanamenti (-1%). Giornalisti e amministratori nel mirino - Sono 110 i giornalisti minacciati nel primo semestre 2021, di cui 55 tramite web, il 11,1% in più rispetto al primo semestre del 2020. La maggior parte degli atti intimidatori a giornalisti è stata rilevata ne Lazio (23,6 %), seguito dalla Sicilia (14,5%), dalla Lombardia (11,8%), dalla Campania (9,1%) e dalla Calabria (6,4%). gGli amministratori locali minacciati nel primo semestre 2021 sono 369, di questi 189 sono sindaci. Gli atti intimidatori sono il 15,3% in più rispetto al primo semestre del 2020. Il maggior numero di intimidazioni ad amministratori locali, il 14,1%, è stato registrato in Lombardia. Seguono la Campania (11,1 %), la Sicilia (10,3%), la Puglia (9,5%) e la Calabria (8,1%). Misure anticovid: 720.918 sanzioni da inizio pandemia - Sono oltre 49 milioni (49.590.468) le persone controllate dalle forze dell’ordine nell’ambito dei controlli per il contenimento della diffusione del virus covid-19 dall’11 marzo 2020, quando è scoppiata la pandemia da coronavirus. In particolare dall’11 marzo al 31 dicembre 2020 sono state sottoposte a verifica 30.638.620 persone mentre dal 1 gennaio al 31 luglio 2021 le persone controllate sono state 18.951.848. In totale le sanzioni comminate per violazioni delle norme anti-covid19 sono state 720.918 (526.893 fino al 31 dicembre 2020 e 194.025 fino al 31 luglio 2021). Sono 5.684 i denunciati per false attestazioni e 5.833 i denunciati per violazione della quarantena. Quanto agli esercizi commerciali controllati sono 11.072.647, 26.374 i titolari sanzionati e 7.480 i provvedimenti di chiusura. Santa Maria Capua Vetere. Detenuto morto dopo i pestaggi in cella, la salma non si trova di Attilio Nettuno casertanews.it, 16 agosto 2021 Interrogazione al Ministro. Il deputato Magi evidenzia il giallo in una richiesta a Cartabia: autopsia senza consulente della persona offesa. Che fine ha fatto il corpo di Lamine Hakimi, il detenuto vittima dei pestaggi del 6 aprile del 2020 e poi morto il 4 maggio al carcere di Santa Maria Capua Vetere? È questa la domanda che pone il deputato Riccardo Magi, del gruppo +Europa, in un'interrogazione a risposta scritta alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia. Magi ricorda come Lamine fu uno dei detenuti che il 6 aprile venne "prelevato dalla cella e picchiato da diversi agenti lungo il percorso verso il reparto Danubio. Stando alle testimonianze dei detenuti che hanno assistito alle violenze, Hakimi avrebbe subito dagli agenti calci in bocca, pugni, bastonate e manganellate, e l'aggressione sarebbe continuata anche nell'area passeggio denominata: “Il fosso". Dopo i pestaggi Lamine venne messo in una cella d'isolamento, prima condivisa con un altro detenuto e poi presso la cella 19 del Reparto Danubio. Durante il periodo, dal 6 aprile al 4 maggio, Lamine Hakimi "avrebbe richiesto più volte la presenza fissa di un piantone e lamentato forti dolori alla nuca", evidenzia Magi. Il 4 maggio il giovane algerino morì. Aveva appena 28 anni. Venne disposta l'autopsia ma non risulta se alla stessa abbia partecipato un difensore della persona offesa. Inoltre, dopo gli accertamenti la salma è stata rimpatriata. Con quali modalità? A chi? Interrogativi per i quali si attende la replica del Ministero. Avellino. Emergenza Carceri, sos di Osservatorio e Camera Penale ottopagine.it, 16 agosto 2021 Nonostante la pandemia e il momento delicato, l’Osservatorio Carceri riprende il tour negli istituti di pena. L’iniziativa nazionale “Ferragosto in Carcere” ha toccato anche l’Irpinia. Stamattina la responsabile regionale dell’osservatorio Giovanna Perna e gli avvocati della Camera penale Gerardo Di Martino e Generoso Pagliarulo sono stati in visita nel penitenziario di Bellizzi Irpino riscontrando grande disponibilità da parte del Direttore e del Commissario della struttura ma evidenziando, nel lungo sopralluogo, anche diversi aspetti che andrebbero migliorati come l’assistenza sanitaria psichiatrica e quella trattamentale, senza dimenticare il cronico problema della carenza di personale. E la prossima settimana toccherà al carcere di Ariano irpino e a quello di Sant’Angelo dei Lombardi con l'obiettivo di sensibilizzare la società civile. Uno stato civile e moderno si misura sui servizi che riesce ad erogare nell'universo carcerario". Fermo. Ferragosto in carcere, gli avvocati incontrano i detenuti cronachefermane.it, 16 agosto 2021 I legali Albanesi, Mancini, Interlenghi, Giugni e Minnucci quest'oggi in vista presso la casa circondariale fermana. "Le criticità maggiori si riscontrano nei colloqui con i familiari, limitati per il Covid, nella vetustà degli arredi interni alle celle, nella scarsità di spazi comuni e soprattutto nella 'assenza di occasioni di formazione professionale o di acquisizione competenze lavorative in carcere", il commento al termine della visita. “Ferragosto in Carcere è una iniziativa dal forte valore simbolico - spiega l’avvocato Andrea Albanesi, presidente della Camera Penale di Fermo, promossa anche dall’Osservatorio Carceri dell’Ucpi, a cui abbiamo aderito con slancio”. “Con questa visita all’interno della struttura proprio oggi, 15 agosto, ci proponiamo di evidenziare l’importanza che deve avere nell’agenda politica il tema della detenzione. Vorremmo che l’incontro coi detenuti e con le forze di Polizia Penitenziaria diventi occasione per un riscontro visivo ed oggettivo delle condizioni di vita nel carcere di Fermo, delle criticità che possono insorgere e che talvolta spingono i detenuti ad assumere condotte disperate. Anche un segnale di vicinanza al personale di Polizia Penitenziaria che affronta un lavoro sempre più complesso e delicato”. La delegazione degli avvocati del foro di Fermo, composta dall’avvocato Andrea Albanesi, unitamente all’avvocato Simone Mancini, responsabile regionale dell’Osservatorio Carceri, e dagli avvocati Renzo Interlenghi, Michelangelo Giugni e Maria Rita Minnucci (tutti nella foto), è stata accolta dal sostituto commissario Nicola Quadraroli, che ha guidato la delegazione all’interno delle sezioni. Qui è anche avvenuto l’incontro con la popolazione detenuta. “Le criticità maggiori si riscontrano nei colloqui con i familiari (limitati per il Covid), nella vetustà degli arredi interni alle celle, nella scarsità di spazi comuni, soprattutto nella assenza di occasioni di formazione professionale e/o di acquisizione competenze lavorative in carcere. Su questo ultimo fondamentale elemento, concorda pienamente anche il personale degli agenti di custodia”, commenta la delegazione al termine della visita. “La privazione della libertà, e le lunghe ore di vuoto e di inedia, lasciano conseguenze nefaste sul corpo e sulla psiche delle persone. La possibilità di percorsi lavorativi, anche extra-murari, formativi e professionali, è sentita come un’esigenza imprescindibile da tutti, una opportunità unica per la riabilitazione del detenuto, per abbattere il rischio recidiva di nuovi reati a vantaggio di tutta la società civile, e dare una forma concreta alle parole della Costituzione italiana sulla funzione rieducativa della pena”, le relative conclusioni. Fermo. I detenuti chiedono percorsi formativi per poter tornare a vivere laprovinciadifermo.com, 16 agosto 2021 Non solo Palio nel Ferragosto di Fermo. C’è anche chi ha rinunciato a ore di mare per dedicarsi a una questione da sempre delicata: la salute dei detenuti. Una delegazione di avvocati, guidata dal presidente delle camere penali di Fermo, Andrea Albanesi, ha visitato il carcere idi Fermo. “Una iniziativa nazionale - spiega il presidente - che vuole portare all’attenzione della politica il tema delle carceri. Promossa dall'Osservatorio Carceri dell'UCPI, ci proponiamo di riflettere su quelle criticità che evidenziare i nodi che portano a volte delle criticità che possono insorgere e che talvolta spingono i detenuti ad assumere condotte disperate. Ma il nostro è anche un segnale di vicinanza al personale di Polizia Penitenziaria che affronta un lavoro sempre più complesso e delicato". In visita l’avvocato Albanesi insieme con i colleghi Simone Mancini, responsabile regionale dell'Osservatorio Carceri, Renzo Interlenghi, Michelangelo Giugni e Maria Rita Minnucci. Ad accoglierli il sotto Commissario Nicola Quadraroli che ha guidato la delegazione all'interno delle sezioni. Uno dei temi emersi è la difficoltà nei colloqui con i familiari (limitati per il Covid), nella vetustà degli arredi interni alle celle, nella scarsità di spazi comuni, soprattutto nella assenza di occasioni di formazione professionale e/o di acquisizione competenze lavorative in carcere. “Su questo ultimo fondamentale elemento, concorda pienamente anche il personale degli agenti di custodia” ribadisce Albanesi. Non è facile vivere in pochi metri privati della libertà. “Per questo - proseguono gli avvocati - la possibilità di percorsi lavorativi, anche extra murari, formativi e professionali, è sentita come un'esigenza imprescindibile da tutti, una opportunità unica per la riabilitazione del detenuto per abbattere il rischio recidiva di nuovi reati a vantaggio di tutta la società civile e dare una forma concreta alle parole della Costituzione italiana sulla funzione rieducativa della pena”. Catanzaro. Ferragosto in carcere, visita della Camera penale al penitenziario Gazzetta del Sud, 16 agosto 2021 Anche la camera penale "A. Cantafora" di Catanzaro, nelle persone del presidente, Valerio Murgano, del vice presidente, Dario Gareri, del consigliere Salvatore Sacco Faragò, dei probiviri Gioconda Soluri e Nicola Tavano, del responsabile dell’Osservatorio carcere, Orlando Sapia nonché dei soci Antonio Migliaccio e Agostino Mazzeo, ha partecipato oggi alla manifestazione dell’Ucpi (Unione camere penali italiane) denominata “Ferragosto in Carcere”. La visita, durata circa 3 ore, ha dato modo alla delegazione di visitare la struttura e di colloquiare con i detenuti. I temi toccati, di stretta attualità, hanno riguardato purtroppo anche l’emergenza che la struttura penitenziaria si è trovata ad affrontare a causa del rogo che ha interessato il quartiere di Siano. Molti gli spunti di riflessione e di interesse da cui originerà una dettagliata relazione scritta che verrà inviata ai competenti uffici e che sarà sicuramente alla base di futuri incontri sul tema dell’esecuzione penale. Olbia. Camera penale e Ucpi in visita al carcere di Nuchis La Nuova Sardegna, 16 agosto 2021 Nell’ambito dell’iniziativa nazionale organizzata dall’Unione camere penali e dal suo osservatorio Carcere, una rappresentanza della Camera penale della Gallura, composta dagli Avvocati Rosa Maria Cocco, Giorgina Azara e Giuseppe Corda, insieme al componente della Giunta Ucpi, Domenico Putzolu ed alla rappresentante dell’osservatorio Carcere Edvige Baldino, si è recata in visita al penitenziario di Nuchis. Sono state esaminati i quattro settori dedicati ai detenuti e gli spazi di socializzazione e istruzione. “Attualmente il penitenziario non presenta problemi di sovraffollamento essendo la popolazione carceraria sebbene dì poco al di sotto della capienza massima - fa sapere la delegazione - Gravi sono invece le scoperture nell’organico della polizia penitenziaria, in particolare nei quadri intermedi, nel personale amministrativo e degli educatori: ne è presente solo uno sui quattro in organico”. È stata riscontrata un’alta frequenza alla scuola superiore e ai corsi universitari. Complessivamente il giudizio sulla struttura è stata ritenuto positivo. “Si è rilevato l’ottimo rapporto tra personale e detenuti, le celle sono al di sopra degli standard essendo luminose e arieggiate tutte dotate di angolo cottura e bagno singolo. Ampi gli spazi e i servizi comuni”, conclude la delegazione. Milano. Fuori i cavalli dal carcere di Bollate di Marialucia Galli cavallo2000.it, 16 agosto 2021 Per quattordici anni, lì dentro, nel penitenziario di Bollate, carcerati e cavalli si sono presi cura gli uni degli altri. Gli uni occupandosi, forse per la prima volta in vita loro, del benessere di qualcuno. Gli altri trasmettendo l’immediatezza della loro naturalità animale. Il tutto sotto il controllo e il coordinamento, più che vigile, di un operatore esperto come Claudio Villa. Un modo come un altro per contrastare l’immobilità del tempo dietro le sbarre? Certo. Ma, forse, anche qualcos’altro. Pare che più di qualche detenuto debba proprio a questa esperienza l’aver trovato, finalmente, un modo di stare al mondo accettabile e accettato. Tutto bene, dunque? Niente affatto: tutto male, invece. Perché i cavalli lì dentro, nel carcere di Bollate non ci sono più. La notizia scuote, e preoccupa, non poco. Almeno chi, come noi, continua ostinatamente a credere che la reclusione debba essere gestita dalle istituzioni preposte in modo da perseguire il recupero sia morale che psicologico dei detenuti. Qui il discorso ci porterebbe lontano, e non è questo né il momento né la sede. Veniamo ai fatti. Il progetto “Cavalli in carcere” è nato 14 anni fa per volontà di Lucia Castellano, allora direttrice dell’istituto di pena, e dell’allora provveditore Luigi Pagano. La finalità non era tanto quella di fornire corsi di formazione legati al mondo ippico ed equestre, quanto di favorire l’avvicinamento dei carcerati al mondo animale e alla natura in generale. Come ha spesso ricordato Claudio Villa, che di quel progetto è stato ed è tuttora l’animatore, “Il fatto che ci fosse una struttura in grado di ospitare fino a quaranta cavalli e che si potesse vederli aggirarsi nei prati che circondavano i vari edifici, stemperava l’eventuale tensione che si respirava nell’aria. Spesso abbiamo portato i cavalli durante gli incontri tra i detenuti ed i loro famigliari per fare una foto e per consentire a tutti di trarre beneficio dalla presenza dei cavalli”. Insomma fin dall’inizio il Progetto Bollate ha assunto un punto di vista particolare: il riconoscimento del ruolo positivo che la presenza e l’interazione con i cavalli poteva avere sulle condizioni psicologiche dei detenuti. Presenza, appunto, non in funzione di una attività sportiva o di una eventuale formazione lavorativa, ma un semplice “esserci” che, però, riusciva ad emanare e a trasmettere un grande senso di serenità. Eppure si trattava in larga misura di animali che avevano sofferto, che erano stati sottratti a corse clandestine e ad altre modalità di maltrattamento. Animali feriti, quindi, nel corpo e soprattutto nella psiche, che avevano saputo ridare fiducia alla vita, trovare il coraggio di aprire ancora una volta uno spiraglio di credito nei confronti degli uomini. Quale esempio migliore per quanti, in quelle mura, cercavano, forse una nuova modalità di esistenza? Nel tempo poi sono arrivate le conferme di questa intuizione originaria, attraverso convegni, corsi di formazione per gli operatori degli interventi assistiti, collaborazione e studi di ricerca con le Università Statale e Cattolica di Milano e via elencando. Tutto questo è finito. I cavalli sono stati trasferiti a Zanica presso il Centro Ippico La Rosa Bianca di Giuseppe Sanna. Lì potranno continuare a svolgere la loro opera lavorando sul disagio delle persone, soprattutto giovani. Un’opera di prevenzione perché, ne siamo tutti consapevoli, dietro alcuni atti delinquenziali c’è un profondo disagio mentale o una totale mancanza di empatia. A settembre quindi si riparte, ma inutile negarlo, non sarà più la stessa cosa. Quanto però è accaduto a Bollate non può andare disperso. Per questo la redazione di Cavallo2000 ha chiesto a Claudio Villa di raccontarci fatti e storie di uomini e cavalli che in questi 14 anni si sono incontrati all’interno delle mura del carcere. Qualcuno ha detto che Il passato è come una lampada posta all’ingresso del futuro: conoscerlo è fondamentale perché è di quel progetto di speranza che uomini è cavalli hanno bisogno. Gino Strada, il cordoglio ipocrita della politica: omaggiare i morti dopo averli osteggiati da vivi di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 16 agosto 2021 Trascorse 24 ore da quando si è diffusa la drammatica notizia della morte di Gino Strada, inizia a sorgere una domanda: quel cordoglio unanime espresso dalla politica italiana era davvero tutto sincero? Il ritratto di Strada che si è andato via via componendo nel pomeriggio e nella sera di ieri ha prodotto l’immagine di un filantropo buono che per decenni, con l’organizzazione non governativa da lui fondata, Emergency, ha perseguito imparzialmente una nobile missione: salvare vite umane. Strada è stato questo ma non solo questo. Togliere dal ritratto il resto, ha consentito un’operazione tipica di parte della politica: omaggiare i morti dopo averli osteggiati quando erano vivi. Cos’è quel resto che manca a quel ritratto? L’ammissione che se Emergency, Amnesty e altre organizzazioni non governative esistono è anche e soprattutto per rimettere insieme cocci, corpi e anime fatti a pezzi da politiche scellerate, basate sul diniego dei diritti umani, su alleanze irresponsabili e spregiudicate, su forniture di armi e sulla guerra. Manca proprio quel “no alla guerra”, che Strada ha sempre indicato come pre-condizione per il rispetto dei diritti. Manca infine un doveroso riconoscimento: che Strada aveva capito bene e da tempo che il diritto alla salute era minacciato e reso fragile non solo in Afghanistan ma anche in Italia, che anche nel nostro paese sarebbe stato necessario rimettere insieme i cocci di una sanità pubblica smantellata senza pietà da politiche di privatizzazione che avevano trasformato il “paziente” in “cliente”. Ha salvato innumerevoli vite umane, Strada. Questo è stato giustamente ricordato. Ma, salvo poche eccezioni, sono state rimosse le sue sacrosante accuse alle politiche locali, regionali e globali che di vite altrettanto innumerevoli fanno strage quotidiana: un esempio tra tutte, le dure parole pronunciate da Strada sugli accordi Italia-Libia nel 2017. *Portavoce di Amnesty International Italia Gino Strada, l’Afghanistan e le tragiche ironie della storia di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 16 agosto 2021 Il chirurgo non aveva un buon carattere, come molte persone di carattere. Ma non si poteva non ammirare. In un bagno di casa - luogo nobile di letture, meditazioni e ricordi - ho appeso, da diciannove anni, un poster. Di fianco alla scritta “Non mollare mai” dieci scalmanati interisti tirano una fune. Il primo è Enrico Bertolino, in mezzo sta Paolo Bonolis, poco dopo sbuco io. Gino Strada chiude la fila. Era un tentativo di sostenere la nostra squadra che, pochi mesi prima, era incappata in una delle sue periodiche follie, buttando uno scudetto già vinto. Ultimo pilastro, la faccia tesa nello sforzo, deciso a non cedere: Gino Strada era così, qualunque cosa facesse. Sono state scritte e dette parole belle e importanti, in occasione della scomparsa, da parte di chi lo ha conosciuto bene. Non aveva un buon carattere, come molte persone di carattere. Ricordo un’intervista su 7-Corriere, tre anni fa, a bordo di un treno. Gino Strada, rispondendo a Vittorio Zincone, è quasi brutale. Con la sanità privata, con Salvini e con la sinistra, con gli ignoranti del mondo, con i governi italiani che autorizzano le missioni all’estero. Un pacifista estremista, con cui era difficile essere sempre d’accordo. Ma non si poteva non ammirare. Gino Strada era più di galantuomo. È stato un pianificatore generoso e incosciente, qualità indispensabile agli eroi. Conosceva i luoghi e le popolazioni che aiutava con Emergency: ci aveva vissuto in mezzo. Proprio perché lo stimavo, ricordo di averlo sfidato, una volta. Ventimila uomini donne e bambini yazidi, nell’estate 2014, erano asserragliati su una collina in territorio iracheno e rischiavano di essere massacrati dall’Isis. È vero, ho scritto, la guerra fa schifo, ma davanti a un eccidio imminente, cosa si fa? Assistiamo al martirio oppure usiamo la forza? Poiché la storia ha un perverso senso dell’umorismo, mentre salutiamo Gino Strada ci troviamo di fronte a un dilemma simile, in Afghanistan. Vent’anni fa l’Occidente, traumatizzato dagli attentati dell’11 settembre, ha scelto le armi per fermare la crudeltà dei talebani: e non è servito. I talebani ritornano. Kabul sta per cadere. Cosa succederà alle donne e a chi ha collaborato con americani ed europei? Cosa accadrà all’ospedale di Emergency? Centro chirurgico per le vittime di guerra, tre sale operatorie, 149 mila pazienti, 81 mila interventi. Ricordo - era il 2008 - un’oasi di affidabilità in una città sfuggente, muri colorati e giovani infermieri concentrati. Cosa sarà di loro? Non sottoscrivo mai le petizioni (noi giornalisti abbiamo altri modi per farci sentire). Ma, appena ho saputo che su change.org si raccolgono le firme per trasformare piazzale Cadorna a Milano in piazzale Gino Strada, ho subito aggiunto la mia. Con l’indicazione della tessera Emergency, che tengo nel portafoglio con orgoglio, da molti anni. Afghanistan. Caos all’aeroporto di Kabul, “sull’aereo sale il più forte, chi corre di più” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 16 agosto 2021 “Non hanno visto o addirittura passaporto. Sull’aereo sale il più forte, chi corre di più”, dicono in Dari, la lingua persiana dell’Afghanistan. Il Paese è nelle mani dei talebani e chi non cerca di fuggire in aereo rimane chiuso in casa, senza uscire. Il video girato nel pomeriggio del 15 agosto di migliaia di disperati che assaltano gli aerei parcheggiati sulla pista dell’aeroporto di Kabul per scappare all’estero è oggi il più popolare nel Paese. È la sintesi del caos terribile dominante. “Non hanno visto o addirittura passaporto. Sull’aereo sale il più forte, chi corre di più”, si ode in Dari, la lingua persiana dell’Afghanistan (qui gli aggiornamenti di oggi, lunedì 16 agosto). L’Afghanistan è nel caos. I talebani promettono che presto restaureranno ordine e normalità, ma intanto aprono le carceri. I circa 12.000 prigionieri di Pol i Charki, il più grande nella zona della capitale, è stato svuotato il 15 agosto. Tra i tornati liberi non solo 5.000 talebani, militanti di Isis e Al Qaeda catturati negli anni, ma anche migliaia di criminali comuni, banditi, assassini. Probabilmente si sono già uniti alla folla che svaligia negozi, attacca gli edifici pubblici, ruba nei supermercati, ma anche nelle case private e la gente per la strada. Come sempre dove l’autorità pubblica perde il controllo, saccheggio e violenza diffusa dominano le strade. L’aeroporto è chiuso dalla mattina del 15 agosto per i voli commerciali. Viaggiano soltanto gli aerei americani e dei Paesi che portano in salvo il loro personale diplomatico assieme a concittadini e gli afghani che hanno lavorato per loro. Nella paura che la folla possa bloccare le piste, a più riprese i soldati americani hanno sparato per fermarli dietro i fili spinati. Un motivo in più per gli afghani per detestare la coalizione occidentale, che oggi li ha traditi e impedisce adesso le partenze riservando per sé l’aeroporto, unica via di uscita dal Paese. In questo scenario da incubo, i talebani giustificano la loro veloce entrata nella capitale ieri pomeriggio per evitare il peggio. Appellano la polizia a tornare a lavorare e promettono che si occuperanno di fermare i criminali. La gente non sa, molti non si fidano. Chi può resta a casa o esce soltanto per comprare cibo, che inizia a scarseggiare. Gli uffici sono chiusi. Non lo saranno per molto. A Kunduz, caduta nelle loro mani la settimana scorsa, prima hanno appellato i dipendenti della municipalità a tornare a lavorare in toni collaborativi. Ma, quando hanno realizzato che nessuno tornava in ufficio, sono passati nelle case private con il mitra in mano per obbligarli. Dall’ufficio dell’ex presidente Ashraf Ghani, fuggito ieri all’estero, hanno dichiarato all’emittente nazionale Tolo Tv, che presto sarà resa nota la formazione del loro governo. Sono loro a dettare le regole del gioco, grazie all’utilizzo brutale della forza oggi hanno il monopolio del potere. Difficilmente saranno disposti a condividerlo in modo sostanziale. Cresce tra l’altro l’incognita della presenza di elementi qaedisti e di Isis al loro fianco. Nei negoziati con gli americani a Doha avevano promesso che non ci sarebbe stato spazio per organizzazioni terroristiche internazionali sul loro territorio. Ma la realtà sembra diversa. I talebani stessi potrebbero essere divisi al loro interno, come è sempre stato, tra nazionalisti afghani e correnti più legate al movimento pan-islamico internazionale. “Cerchiamo il dialogo con la comunità internazionale. Non vogliamo vivere in isolamento”, ha dichiarato ad Al Jazeera il portavoce dell’ufficio politico talebano, Mohammad Naeem. Ma le notizie che giungono dai territori sotto il loro controllo sono tutt’altro che rassicuranti. I social media locali raccontano che le donne sono costrette a indossare il burqa, gli uomini fanno crescere la barba e vestono abiti tradizionali, quasi tutte le radio e televisioni locali hanno smesso di trasmettere. Un ruolo centrale l’assume adesso il Pakistan, che è da sempre è il maggiore sostenitore dei talebani, sin dalla loro nascita dopo la sconfitta sovietica nei primi trent’anni fa. L’ambasciata pakistana a Kabul diventa il cuore delle attività diplomatiche. Anche la Cina ha già avviato contatti diretti con i talebani. L’asse tra Pechino e Islamabad in chiave anti-indiana è di lunga data. La Russia annuncia che per ora non intende chiudere la propria ambasciata. Afghanistan. "Noi interpreti traditi dagli occidentali e lasciati ad aspettare la morte" di Francesca Mannocchi Corriere della Sera, 16 agosto 2021 La storia di Hamdullah Hamdard. Aveva lavorato come traduttore per tre anni con le forze Nato: è stato ucciso per questo. Ora suo fratello teme di fare la stessa fine. Il vicolo è stretto, i bambini agli angoli delle strade giocano con dei pezzi di legno muovendoli come spade. Non ci sono vincitori nella loro sfida, come non ci sono vincitori, oggi, in Afghanistan. Solo vittime che si contano, una dietro l'altra: civili intrappolati nelle battaglie, attivisti, giornalisti, e interpreti. Chiunque rappresenti la collaborazione con forze considerate occupanti o nemiche, chiunque rappresenti un diritto che contraddice l'interpretazione dell'Islam dei talebani. A Jalalabad sono le prime ore del pomeriggio, l'aria è rarefatta, le strade quando si trasformano in vicoli sembrano tacere, ma rumoreggiano. Tutti vedono tutti. Tutti possono tradire tutti. E tutti possono essere traditi. È in uno di questi vicoli che il due agosto è stato ucciso Hamdullah Hamdard. Aveva lavorato come interprete per tre anni con le forze Nato in Afghanistan, dal 2008 al 2011. Da tempo provava a chiedere il visto per gli Stati Uniti ma le sue richieste sono state sempre respinte. Due settimane fa è stato ucciso davanti casa sua, di fronte alla sua famiglia, la moglie e i tre figli. Il giorno dopo l'assassinio, gli uomini del quartiere entravano alla spicciolata in casa sua. Tra di loro anche i fratelli di Hamdullah Hamdard. "Hamdullah era fiero del suo lavoro, parlava sempre dell'addestramento a cui aveva partecipato a Logar, dei combattimenti contro i talebani, delle missioni per addestrare le forze afgane, l'ANP e l'ANA - la polizia e l'esercito. Viaggiava con le truppe, incontrava governatori di provincia, governatori dei distretti, la popolazione locale. Mi diceva: ho imparato più sul nostro Paese lavorando con gli americani che attraversandolo da solo". A parlare è Wesequllah Hamdard, il fratello più giovane di Hamdullah. L'ultima cosa che ricorda di suo fratello è un'immagine del giorno che ha preceduto la sua morte. Hamdullah l'aveva svegliato, voleva passeggiare, gli ha chiesto di andare insieme in città. Hanno camminato venticinque minuti fianco a fianco. Uno diretto in ufficio e uno all'università. Hanno parlato della situazione nel Paese, dei civili sfollati dalle battaglie, eppure nessuno dei due ha osato nominare le minacce che gravavano sulle loro vite. Il timore di essere considerati collaborazionisti degli infedeli. Poi in piazza si sono divisi, dandosi appuntamento per la cena con le famiglie, quella sera. Poche ore dopo Wesequllah si stava vestendo per andare alla bottega a comprare il pane quando ha sentito uno sparo, uno dei nipoti ha cominciato a urlare: hanno ucciso papà. Wesequllah è corso e ha visto il fratello sulla strada che porta alla moschea, morto. Ha preso la pistola, è andato tra i vicoli cercando i suoi assassini. Invano. La voce è rotta dal pianto del giorno prima. Anche Wesequllah è stato un interprete, per lui la morte del fratello rappresenta più di un lutto. È un avvertimento. Significa: sappiamo dove siete e possiamo uccidervi quando vogliamo. Per questo ora Wesequllah non fa un passo senza il suo fucile. Ha lavorato nella provincia di Helmand per tre anni, dal 2011 al 2014. Ora studia scienze politiche all'università al-Falah. Il giorno del funerale di suo fratello avrebbe dovuto recarsi all'università per sostenere un esame. Ma non si muove più di casa. Gli Stati Uniti hanno promesso asilo ai propri collaboratori, compresi traduttori e interpreti ma l'iter amministrativo del programma SIV è lunghissimo. Finora sono stati rilasciati sono 2500 visti e sono circa 18 mila gli afghani e le loro famiglie in attesa di una risposta. I talebani lo scorso giugno avevano invitato gli interpreti afgani che hanno collaborato con le forze internazionali a "pentirsi" e a restare nel Paese, assicurando che non avrebbero corso alcun pericolo: "Un numero significativo di afgani si è smarrito negli ultimi 20 anni di occupazione e ha lavorato con le forze straniere come interpreti, guardie o altro, e ora che le forze straniere si stanno ritirando, hanno paura e cercano di lasciare il paese. L'Emirato islamico vuole dire loro che dovrebbero esprimere rimorso per le loro azioni passate e non impegnarsi più in tali attività in futuro, che equivalgono a un tradimento contro l'Islam e il loro Paese. L'Emirato Islamico li chiama a tornare a una vita normale e a servire il loro Paese". Invece negli ultimi mesi gli omicidi mirati a danno di collaboratori delle forze straniere sono all'ordine del giorno, come quello di Sohail Pardis, anche lui era un ex interprete delle truppe statunitensi. Lo scorso luglio mentre guidava per andare a prendere sua sorella nella provincia di Khost per le celebrazioni dell'Eid che segnano la fine del Ramadan, è stato fermato ad un posto di blocco da un gruppo di talebani lungo la strada del Kabul. I talebani l'hanno trascinato fuori dal veicolo e l'hanno decapitato. Il giorno del funerale di Hamdullah Hamdard i suoi fratelli si sono seduti in una stanza per pregare insieme, uno di loro è un imam. L'unico a non imbracciare un'arma. Wesequllah invece dall'arma non si separa più. Ha smesso di dormire quando le truppe americane hanno annunciato il loro ritiro e i combattimenti sono ripresi: "Le truppe occidentali sono arrivate qui promettendoci stabilità e ci hanno lasciato nelle mani degli assassini e dei terroristi che avevano dichiarato di combattere. Questo è un tradimento. E allo stesso tempo una condanna a morte per noi. Il nostro governo non ha modo di resistere all'offensiva talebana, e non vincerà questa guerra, solo loro possono salvarci, evacuandoci, ce lo devono". Prima di uscire dalla stanza afferra il suo fucile, lo sistema sulla spalla dicendo: "Non credo che ci rivedremo, sono un prigioniero, o peggio, un condannato a morte". Afghanistan, se rinasce il santuario della Jihad di Maurizio Molinari La Repubblica, 16 agosto 2021 L'avanzata dei talebani restituisce al fondamentalismo sunnita più estremo il territorio di una nazione dove edificare il proprio modello di Emirato basato sulla versione più oscurantista della Sharia, la legge islamica. È bene tenere a mente la feroce lezione di Kabul. A quattro anni dalla dissoluzione dello Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi la riconquista dei talebani di gran parte dell'Afghanistan - sono entrati a Kabul - è una vittoria della Jihad globale perché restituisce al fondamentalismo sunnita più estremo il territorio di una nazione dove edificare il proprio modello di Emirato basato sulla versione più oscurantista della Sharia, la legge islamica. Nella sfida jihadista "agli apostati ed agli infedeli", iniziata con il patto fra Jihad egiziana di Ayman al-Zawahiri e Al Qaeda di Osama bin Laden del febbraio 1998, il possesso di un territorio nazionale è stato sin dall'inizio una priorità. Per tre ragioni convergenti: la prima è militare perché significa disporre di una base sicura da dove attaccare i propri nemici; la seconda è economica perché il controllo di risorse e trasporti consente di finanziarsi; la terza è ideologica perché sottomettere un'intera collettività permette di evidenziare la superiorità del modello jihadista sui governi musulmani "corrotti", per non parlare delle "depravate" democrazie occidentali. Al-Zawahiri e Bin Laden trovarono questo santuario jihadista nell'Afghanistan dei talebani del Mullah Omar - che li ospitò, sostenne e finanziò fino a consentirgli di organizzare l'attacco agli Stati Uniti dell'11 settembre 2001 - ma dopo l'intervento americano la base territoriale svanì, obbligando ciò che restava dei gruppi jihadisti a cercare rifugio dall'Iraq alla Somalia. Fino al giugno del 2014 quando Abu Bakr al-Baghdadi dichiarò nella moschea di Mosul la nascita dello Stato Islamico su vasti territori catturati in Siria e Iraq, e rimasti sotto il suo controllo per poco più di tre anni fino a quando una imponente coalizione militare internazionale - guidata da Usa, Russia e Paesi arabi - portò alla caduta della capitale Raqqa. Ancora una volta, dopo quella sconfitta militare, i gruppi jihadisti sono tornati a disperdersi, tentando ovunque - dal Sahel al Corno d'Africa, dalla Libia al Nord della Siria - di arrivare a controllare propri territori, richiamandosi sempre in varia forma al progetto di Emirato islamico o Califfato basato sull'interpretazione più rigida della Sharia. Ora i talebani riescono nell'impresa, riproponendo l'Afghanistan come epicentro della Jihad globale a dispetto di rivalità di leadership, differenze teologiche e ostilità tribali-militari fra le diverse anime di una galassia di fondamentalisti violenti che in comune ha solo il rifiuto della modernità teorizzato dal teologo egiziano Hassan el-Banna nel 1924 per rigettare l'allora decisione di Ataturk di abolire in Turchia l'istituto del Califfato risalente alle origini stesse dell'Islam. A rendere il ritorno dei talebani un pericoloso modello di affermazione jihadista sono le sue caratteristiche: avviene dopo 20 anni di guerriglia e dunque dimostra la resilienza dei mujaheddin; è la conseguenza del ritiro delle truppe Usa e Nato e così evidenzia la debolezza strategica dell'Occidente; è reso possibile dalla diserzione in massa di militari e poliziotti e quindi nasce dalla inaffidabilità del governo nazionale. Tutto ciò è destinato a rafforzare identità, motivazione e reclutamento dei gruppi jihadisti che operano in più Continenti - Europa inclusa - riproponendo la minaccia del terrorismo più feroce. Bisogna chiedersi dunque che cosa c'è all'origine della riconquista talebana ovvero che cosa è andato storto in Afghanistan. Non c'è dubbio che la scelta degli Stati Uniti - presa dal presidente Donald Trump e confermata dal successore Joe Biden - di ritirare le truppe sia stata il detonatore dell'attuale escalation, comportando l'abbandono a se stessa della debole nazione afghana, così come la Nato è di fronte all'evidente fallimento della transizione dei poteri alle leadership locali a cui ha dedicato imponenti risorse. Ma gli errori lampanti e gravi commessi dagli alleati occidentali non bastano a spiegare perché gli afghani non si battono per evitare il ritorno dei talebani, il cui terrore ricordano bene. Nessuno più della popolazione afghana ha patito per il regime medioevale che i talebani hanno imposto dal 1996 al 2001, come nessuno più delle famiglie afghane sa cosa significa per ogni donna tornare nella prigione del burqa. Dunque perché soldati e poliziotti non combattono? La risposta più evidente viene dalle cronache di Kabul: gli afghani non hanno alcuna fiducia nel loro governo e ciò significa che non sono bastati venti anni di imponenti aiuti stranieri per far germogliare il rifiuto della Jihad nelle viscere del Paese. E se non sono gli afghani a battersi per loro stessi e per le loro libertà, nessun altro potrà farlo con garanzia di pieno successo. Poiché il conflitto con la Jihad appare destinato a continuare e poiché le minacce per le democrazie sono destinate a crescere proprio a causa della ricostruzione del santuario dei talebani, è bene dunque tenere a mente la feroce lezione che viene da quanto sta avvenendo a Kabul: il jihadismo si può sradicare solo se i musulmani trovano, nei singoli Paesi, la forza ed il coraggio di rigettarlo per loro scelta e convinzione. È una forza, morale e politica, che deve nascere da loro stessi e che neanche il più potente degli eserciti potrà mai riuscire a rimpiazzare. Il rischio di un effetto domino dopo l’Afghanistan di Matteo Bressan Il Domani, 16 agosto 2021 L’avanzata dei Talebani segna per l’Occidente l’epilogo di una fase del conflitto afghano durata vent’anni, con un costo, per le forze di sicurezza internazionali, di più di tremila uomini (di questi circa 2.300 statunitensi) e, nel nostro caso, cinquantatré soldati italiani. Il prezzo pagato dalla popolazione afghana, in termini di vite umane è altissimo, più di 45.000 le vittime, a cui si aggiungono gli oltre 100.000 uomini delle forze di sicurezza afghane. Per il popolo e le generazioni afghane la guerra è iniziata ancor prima, il 24 dicembre del 1979, quando i reparti dell’Armata Rossa oltrepassarono il confine settentrionale dell’Afghanistan. Da allora il paese ha conosciuto più di 40 anni di varie forme di conflittualità e, in queste ore, le lancette della storia sembrano tornare indietro al 1996, anno in cui i Talebani presero il potere e istituirono l’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Il regime talebano veniva abbattuto, come risposta agli attacchi dell’11 settembre del 2001 e in virtù del sostegno e della copertura offerta dai Talebani al Al - Qaeda, già nel novembre del 2001, in appena due mesi. L’intervento statunitense nell’ambito dell’Operazione Enduring Freedom, il primo atto della Global War on Terrorism (Gwot), attraverso l’impiego combinato di forze speciali, armi di precisione, insieme alle forze locali, diede risultati iniziali eccellenti. Il paragone, in termini di efficacia, con la prima fase dell’Operazione Iraqi Freedom condotta contro le forze di Saddam Hussein tra il 19 marzo e il 9 aprile del 2003, risulta ancora oggi paradigmatico per la condotta delle operazioni militari. Seppur con attori e contesti differenti, le immagini dell’avanzata talebana non possono non ricordare, sotto molteplici aspetti, l’offensiva che portò i miliziani del sedicente Stato Islamico a ridosso di Baghdad nel giugno del 2014. Oggi, in Afghanistan, una dopo l’altra, cadono le capitali provinciali e poco possono fare le forze di sicurezza afghane che, seppure addestrate e capaci di combattere, fintanto che sono state affiancate da forze statunitensi e Nato, vengono abbandonate da autorità politiche inadeguate e corrotte. L’Afghanistan rischia così di tornare ad esser quello stato fallito e quel santuario del terrore capace di produrre gli attacchi dell’11 settembre se non addirittura l’incubatore di una moltitudine di sigle, tra cui lo Stato Islamico del Khorasan e la rete Haqqani, potenzialmente pronte a compiere, anche grazie all’impiego di nuove tecnologie, molteplici attacchi. In queste ore si discute sulle reali possibilità di successo di quella che è stata definita una “guerra senza fine”. Appare evidente che non si potesse conseguire un’effettiva stabilizzazione del paese nel momento in cui, nel 2019, le forze statunitensi e della NATO si attestavano a 20.000 unità, a fronte delle 140.000 del 2012. Numeri limitati per un effettivo controllo di un territorio così vasto dove il Pakistan ha potuto proseguire, in assenza di un effettivo controllo della frontiera, la sua guerra per procura e sostenere i Talebani per destabilizzare il precario ordine costituzionale post 2001. Seppure nella fase iniziale furono conseguiti gli obiettivi strategici di negare libertà di manovra e retroterra alle reti del terrorismo globale, restava il problema di riuscire a consolidare il successo, separando i Talebani dal supporto della gente. L’Afghanistan, ma prima ancora l’Iraq, impongono una riflessione sulla capacità di supportare dei processi di stabilizzazione e ricostruzione in aree di crisi dove spesso, le istituzioni informali, i signori della guerra e gli attori esterni rappresentano il potere reale con il quale dover trattare. Se da un lato l’amministrazione Trump dichiarava nel 2019 che le “guerre senza fine devono finire”, individuando nel tempo e nella durata un limite alla proiezione all’estero delle forze armate americane, dall’altro le condizioni reali sul terreno e la capacità delle forze di sicurezza e della polizia afghana sono state sovrastimate dall’amministrazione Biden che, a fronte di 83 miliardi di dollari spesi in vent’anni per addestrare 300.000 uomini delle forze di sicurezza afghane, ha confermato il ritiro delle forze statunitensi, dando così ulteriore slancio ai Talebani.Con i Talebani a pochi chilometri da Kabul l’aforisma rivolto alle forze occidentali ed attribuito ad un combattente talebano fatto prigioniero un decennio fa “voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo sembra risuonare in modo sempre più profetico e sinistro, con il rischio di produrre un effetto domino e dar forza a gruppi e milizie armate in altre aree di crisi. Hong Kong. Pechino piega l’opposizione: si scioglie il Fronte per i diritti umani Il Dubbio, 16 agosto 2021 Il Civil Human Rights Front ha annunciato il proprio scioglimento: il gruppo di attivisti era stato protagonista delle marce per la democrazia che da due anni attraversano Hong Kong. La repressione cinese a Hong Kong ha piegato uno dei più fieri oppositori di Pechino: la coalizione che si riconosce nel “Fronte civile per i diritti umani” ha annunciato il proprio scioglimento perché nessun membro ha accettato la carica di segretario. “La società civile - si legge in una nota - sta affrontando una sfida senza precedenti”. Si tratta di uno dei più importanti gruppi di attivisti di Hong Kong, il Civil Human Rights Front: la coalizione era stata protagonista delle marce per la democrazia che da due anni attraversano Hong Kong. “Il gruppo inizialmente sperava di continuare ad affrontare le sfide, ma, poiché il coordinatore Figo Chan è in carcere e senza alcun membro nella posizione di segretario, abbiamo deciso a malincuore di scioglierci”, ha spiegato in una dichiarazione a Hong Kong Free Press. “Per più di un anno, il governo ha continuamente utilizzato la pandemia come motivo per respingere le richieste di protesta e ogni membro del gruppo è oppresso”, ha denunciato il gruppo di attività. Il Civil Human Rights Front è stato costituito nel 2002. È stato tra i gruppi che hanno organizzato le manifestazioni nell’estate del 2019 contro la legge di estradizione in Cina che, secondo loro, era un attacco contro l’indipendenza giudiziaria del territorio.