Ora d’aria nella canicola: così il carcere si trasforma in una tortura di Samuele Ciambriello Il Dubbio, 15 agosto 2021 Nel corso degli anni, in questo periodo, associazioni, garanti dei detenuti, cappellani hanno sollecitato il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel rispetto dell’ordinamento penitenziario, ad adottare misure operative, interventi volti a rendere meno afflittiva la detenzione: docce più frequenti, intensificazione dei colloqui e delle telefonate con i familiari, apertura dei blindati anche nelle ore notturne, disponibilità di borse termiche o di ghiaccio, acquisto di ventilatori a batteria di piccole dimensioni. Interventi che non devono essere limitati alla sola emergenza estiva ma, alla luce del sovraffollamento e della mancanza di spazi di socialità, vanno applicati in maniera stabile e organica. Uno di questi interventi, previsti dalla circolare di giugno del direttore generale del Dap Gianfranco De Gesu recita testualmente: “Si invitano i direttori ad adottare le necessarie misure affinché la permanenza dei detenuti all’aria aperta sia anticipata o posticipata, se del caso, in orari mattinali e pomeridiani non coincidenti con le fasce orarie nelle quali è sconsigliata per la popolazione l’esposizione al sole diretto”. Tradotto in sano realismo: a tutti i detenuti sono consentite due ore d’aria di mattina, dalle 9 alle 11, e altre due nel tardo pomeriggio, quindi non sotto il sole dalle 13 alle 15! Mi chiedo sommessamente: si applica questa disposizione a Poggioreale, Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere e in tutti gli altri istituti penitenziari campani? Dalla finestra del mio ufficio al Centro direzionale vedo Poggioreale, per esempio, e non è così! E così in tante altre carceri. Lo so, il mio ritmo è incalzante, la mia è una voce ostinata, un urlo contro il silenzio. Lo so che tanti populisti e giustizialisti mi vorrebbero con loro, con i detenuti, sulla graticola. Una destra pistolera, fascistoide e antidemocratica non vuole rispettare la Costituzione né l’ordinamento penitenziario. Ma gli altri che tacciono e omettono, dimostrando tutta la loro pavidità, mi preoccupano allo stesso modo. Nel carcere, in questo luogo senza tempo, il dettato costituzionale assegna alla pena una funzione rieducativa, non afflittiva o vendicativa. Il carcere è un luogo in cui i sentimenti, le emozioni, le passioni di una persona sono messe a dura prova. Qui gli spazi ricavati tra edifici impersonali, le dotazioni igienico-sanitarie insufficienti nelle celle, i colloqui con familiari e figli non tutelano dignità e affettività dei reclusi. Perché allora, nelle carceri, non si applicano almeno le circolari del Dap che chiedono di adottare alcune misure per migliorare le condizioni detentive nella stagione estiva? Riforma penitenziaria: a Torino “sciopero del carrello” delle detenute di Mauro Ravarino Il Manifesto, 15 agosto 2021 Nel carcere Lorusso-Cutugno. “Stiamo portando avanti la richiesta per il riconoscimento dei nostri diritti”. Una protesta che parla a tutte le carceri e chiede una riforma non rinviabile del sistema penitenziario. È quella partita da un gruppo di donne della sezione femminile del carcere di Torino Lorusso-Cutugno, che da ieri ha iniziato lo “sciopero del carrello”. Rifiuteranno il vitto fornito dall’amministrazione “come dimostrazione pacifica contro l’immobilismo e il silenzio che gravano sui penitenziari italiani”, segnati più che altrove dalle conseguenze della pandemia di Covid-19. Le detenute proseguiranno lo sciopero fino al 21 agosto. E per motivarlo hanno scritto una lettera: “Stiamo portando avanti la richiesta per il riconoscimento dei nostri diritti - si legge - senza violenza e con rispetto, in primis per noi stessi, che oltre ad essere stati soggetti devianti siamo sempre cittadini, aventi diritti e doveri come coloro che vivono in libertà”. Al 31 luglio i detenuti presenti nella casa circondariale di Torino, situata nel quartiere delle Vallette, sono 1.332, di cui 608 stranieri (il numero più alto in termini assoluti tra gli istituti italiani), su una capienza di 1.098. Le donne sono 113 quando i posti dovrebbero essere circa 80. Il sovraffollamento è dunque uno dei problemi e lo è a livello italiano, a Nord come a Sud, visto che a Taranto, secondo l’ultimo rapporto di Antigone, il tasso di affollamento è del 196,4% (603 detenuti per 307 posti) e a Brescia del 191,9% (357 detenuti per 186 posti). L’iniziativa ha ottenuto l’adesione di detenuti appartenenti ad altre sezioni del penitenziario ed è sostenuta dal Partito radicale e dai garanti dei detenuti. Monica Cristina Gallo è la garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino e ci racconta come è nata la protesta: “Ne parlano da tempo e ne abbiamo anche discusso insieme. La pandemia ha acuito i problemi e ha innescato una riflessione più consapevole tra le detenute. L’obiettivo è riportare il carcere a uno stato di diritto e si rivolgono al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La questione è nazionale. Hanno messo in luce diverse problematiche. Dal sovraffollamento, chiedendo anche una riforma della legge sui giorni di libertà anticipata affinché da 45 diventino 65 (retroattivi dal 2015), alle opportunità di studio e lavorative, ridotte anche in conseguenza del Covid. Sono, inoltre, aumentati i problemi psichiatrici. Le detenute lamentano l’assenza di mediatori culturali e la mancanza totale di un’attenzione alle questioni di genere, troppo spesso ignorate”. Una tema sollevato già dal rapporto Antigone. “Le quattro carceri femminili presenti sul territorio italiano (a Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia) ospitano 549 donne, meno di un quarto del totale. L’Istituto a custodia attenuata di Lauro, unico Icam autonomo e non dipendente da un carcere ordinario, ospita 7 madri detenute. Le altre 1.694 donne sono distribuite nelle 46 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili”. Sono ancora poche le donne che lavoravano fuori dal carcere come, invece, previsto dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. “Nel 63,2% degli istituti visitati ospitanti donne - precisa il rapporto - vi era un servizio di ginecologia mentre non vi era per il 15,8%. Nel 42,1% di queste carceri si trovava un servizio di ostetricia mentre mancava nel 26,3%. Non ovunque, nelle carceri ospitanti bambini, era presente un pediatra”. La pandemia ha investito, in particolare nella seconda ondata, il mondo della detenzione femminile, facendo registrare un focolaio nel carcere femminile di Rebibbia nonché il contagio di bambini con la loro madre nell’Icam di Torino. La protesta torinese è stata annunciata, a inizia agosto, da Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino e membro del Partito radicale, a margine di una visita del carcere di Torino insieme ai garanti comunale e regionale Monica Gallo e Bruno Mellano. “Ci hanno chiamato direttamente le detenute - aveva detto Bernardini all’uscita - sono provate, come tutti i detenuti italiani, da un anno e mezzo di detenzione resa durissima e pericolosa sotto un profilo sanitario dal Covid. Farò una relazione dettagliata alla ministra Cartabia, molto sensibile sul tema carcerario”. Descrivendo, infine, “una situazione penitenziaria che ormai rasenta la tortura, deteriorata dalla pandemia che ancora oggi blocca gli incontri fisici senza barriera, l’uso di molte aree verdi e obbliga molti detenuti a comprarsi i farmaci da soli”. Cartabia si impegna: no prescrizione per Genova di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 15 agosto 2021 Riforma del processa penale. La ministra alla cerimonia per la strage del ponte: “Il processo non è mai stato a rischio. non serve essere un giurista per verificare che si tratta di una riforma che si applica ai reati successivi al primo gennaio 2020. bastava guardare con un po’ più di onestà intellettuale alla riforma per non generare un così grande turbamento in chi ha già un dolore così grande”. Soddisfazione del comitato, che però rilancia l’allarme per tutti i reati contro l’incolumità pubblica. L’impegno è pubblico e netto: “Non c’è e non c’è mai stato alcun rischio prescrizione per il processo sul crollo del ponte Morandi”. La ministra della giustizia Marta Cartabia è andata a Genova, nel giorno del terzo anniversario della strage, a dirlo dal palco. Ha difeso la sua riforma del processo penale che, secondo alcuni, avrebbe avuto come effetto collaterale quello di stroncare la ricerca dei colpevoli del crollo del ponte. Ha detto anzi che “bastava guardare con un po’ più di onestà intellettuale alla riforma per non generare un così grande turbamento in chi ha già un dolore così grande”. Poi ha incontrato il comitato dei familiari delle vittime. Che al termine ha espresso soddisfazione: “La ministra ha dimostrato che le sue non erano parole di circostanza. Ci ha rassicurato appieno sulla riforma per quanto riguarda il nostro caso e i processi futuri. Noi continueremo a vigilare”, ha detto la presidente del comitato, Egle Possetti. Intanto anche l’ex procuratore di Genova Francesco Cozzi, che a luglio ha firmato le richieste di rinvio a giudizio per il disastro del 14 agosto 2018 ed è andato in pensione, ha spiegato che “non ci sarà alcuna prescrizione, salvo che per i reati minori. Per quelli più gravi i termini sono molto avanti e credo che i giudici sapranno giudicare in tempi ragionevoli”. Non tutto, dunque, si salverà dalla prescrizione. Alcuni reati, le omissioni di atti d’ufficio e i falsi a carico degli ex dirigenti di Autostrade ed ex funzionari del ministero dei trasporti, per essere stati consumati anni prima avevano una scadenza ravvicinata già al momento del crollo. Dei cinque o sei anni di tempo utile, tre sono serviti solo per le indagini dunque al massimo nel 2024 andranno prescritti. Diverso il discorso per i reati gravi come l’omicidio colposo plurimo aggravato che (a seconda degli imputati) si prescriverà tra il 2026 e il 2033, data utile anche per arrivare a sentenza per il più grave reato di disastro. Attaccando chi ha ingenerato la paura di un colpo di spugna generalizzato - al quale ha mostrato di credere anche Giuseppe Conte nei giorni caldi della trattativa sulla riforma - Cartabia ha detto che “non serve essere un giurista per verificare che si tratta di una riforma che si applica ai reati successivi al primo gennaio 2020”. Dunque il ponte Morandi è escluso. Ciò non toglie che il rischio prescrizione possa esistere - e come visto è concreto per i reati minori - anche a prescindere dalla legge in via di approvazione. C’è un’ulteriore preoccupazione dei familiari delle vittime: che la norma sulla improcedibilità, quella che a regime estinguerà i processi in appello dopo due anni e in Cassazione dopo uno, possa trovare applicazione retroattiva. Trattandosi di norma favorevole al reo le difese chiederanno, anche alla Corte costituzionale, di applicarla anche ai reati precedenti, appunto il Morandi. L’improcedibilità è però una norma procedurale, non sostanziale, per la quale non vale questa regola e la distinzione è sempre stata netta. Ribadita recentemente dalla Corte costituzionale a proposito della sospensione dei processi per Covid. Un terzo problema ha che vedere con l’impegno del comitato Morandi perché anche gli altri processi e tutti i delitti contro l’incolumità pubblica possano arrivare a sentenza definitiva. Impegno che aveva prodotto anche un ordine del giorno in coda all’approvazione della riforma del processo penale, respinto. Secondo i familiari delle vittime di Genova il meccanismo previsto dalla riforma nei casi più complessi di mafia e terrorismo per rinviare la improcedibilità, e dunque la fine del processo, andrebbe esteso ai reati contro l’incolumità pubblica e ambientali. Ma la ministra è contraria ad allungare l’elenco. Al comitato ha garantito che la sua riforma serve ad assicurare “un accertamento tempestivo delle responsabilità” e non “a stroncare il lavoro dei giudici”. Con una promessa: “L’improcedibilità, che tanta preoccupazione ha destato, è solo un’extrema ratio”. “Perché lo Stato vuole censurare il libro di Palamara sulle toghe?” di Simona Musco Il Dubbio, 15 agosto 2021 L’interrogazione di 14 europarlamentari italiani: “La libertà di stampa e di espressione sono contrastate da un organo statale, a rischio i diritti di tutti”. “Un attacco alla libertà di espressione”. E, di conseguenza, allo Stato di diritto. Rappresenterebbe questo, secondo 14 europarlamentari italiani, la richiesta di risarcimento di un milione di euro avanzata dall’Avvocatura dello Stato a carico di Luca Palamara, ex presidente dell’Anm. Una richiesta formalizzata nel corso dell’udienza preliminare conclusasi nelle scorse settimane con il rinvio a giudizio dell’ex pm romano, durante la quale l’Avvocato dello Stato ha sottolineato il “danno per le Istituzioni” legato al libro scritto dall’ex magistrato e dal giornalista Alessandro Sallusti, dal titolo “Il Sistema”, “presentato anche sulle spiagge”. Un libro che, di fatto, racconta una realtà ancora incontestata, spiegando il meccanismo delle correnti e la gestione delle nomine nelle procure più importanti d’Italia, un vero e proprio scandalo che l’indagine su Palamara aveva soltanto lasciato intravedere. La richiesta dell’Avvocatura era arrivata un anno dopo la pubblicazione di quel libro, ormai campione di vendite e conosciuto a menadito dagli addetti ai lavori. Una sorta di “manuale” che lo Stato non ha però gradito, puntando sulla censura per far recuperare credibilità alla magistratura. La scelta non è però piaciuta agli europarlamentari Sabrina Pignedoli (Ni), Antonio Tajani (Ppe), Salvatore De Meo (Ppe), Chiara Gemma (Ni), Carlo Fidanza (Ecr), Nicola Procaccini (Ecr), Raffaele Fitto (Ecr), Giuliano Pisapia (S& D), Dino Giarrusso (Ni), Alessandro Panza (Id), Raffaele Stancanelli (Ecr), Nicola Danti (Renew), Sergio Berlato (Ecr) e Massimiliano Salini (Ppe), che hanno presentato un’interrogazione bipartisan alla Commissione con richiesta di risposta scritta, partendo dalla risoluzione del Parlamento europeo del 25 novembre 2020 sul rafforzamento della libertà dei media. I parlamentari hanno dunque evidenziato come “questo Parlamento ha condannato “l’uso delle azioni legali strategiche tese a bloccare la partecipazione pubblica al fine di mettere a tacere o intimidire i giornalisti e i mezzi di informazione e di creare un clima di paura in merito alle notizie riguardanti determinati temi”“, sottolineando anche come “i problemi della magistratura italiana sono molto sentiti dall’opinione pubblica e che per la prima volta l’Avvocatura dello Stato agisce contro la pubblicazione di un libro”. Da qui la richiesta di chiarire se la Commissione “non ritiene che l’azione dell’Avvocatura dello Stato si possa configurare come una azione temeraria “utilizzata per spaventare i giornalisti affinché interrompano le indagini sulla corruzione e su altre questioni di interesse pubblico”, come afferma la risoluzione del Parlamento” e se “la libertà di stampa e di espressione in Italia siano contrastate da un organo dello Stato, che dovrebbe tutelare questi diritti, configurandosi come un rischio per lo Stato di diritto”. “È inaccettabile creare un clima di paura intorno a notizie che riguardano certi temi - ha commentato Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia e vicepresidente del Partito Popolare. Ci auguriamo che l’Avvocatura dello Stato ripensi alle sue azioni contro la pubblicazione di un libro che rivela informazioni sulla magistratura e quindi sulla giustizia. Temi molto cari a tutti i cittadini. La storia e i valori di Forza Italia ci impongono di sostenere a pieno questa battaglia in favore della verità”. La notizia era stata accolta con non poco stupore dai due autori. Per Sallusti si tratterebbe di “un tentativo di estorsione dello Stato nei miei confronti e di Palamara”, mentre l’ex consigliere del Csm si è detto “turbato dalla richiesta di censura del libro da parte dei rappresentanti dell’Avvocatura dello stato: vogliono forse silenziarmi?”. Contro la richiesta dell’Avvocatura - che ha anche invocato il sequestro del libro - si è ribellato anche il Codacons. “Si tratta di un gravissimo attentato alla libertà di espressione e di una azione del tutto paradossale - aveva evidenziato in una nota -. Il libro riporta infatti gli scandali del sistema giudiziario italiano che lo Stato non ha saputo impedire, e porta i cittadini a conoscere cosa accade nel settore della giustizia attraverso un lavoro di ricostruzione dei fatti. Se è vero che lo Stato chiede soldi a due scrittori liberi di esprimersi, gli stessi Sallusti e Palamara devono ora agire contro lo Stato in via riconvenzionale chiedendo 10 milioni di euro di danni per non aver saputo prevenire ed impedire la guerra tra bande nella magistratura italiana - proseguiva l’associazione -. In tal senso il Codacons offre il proprio staff legale per sostenere i due autori del libro contestato e difenderli in questo vergognoso giudizio”. Riforma della giustizia. Il caso delle aste giudiziarie e le 120mila famiglie a rischio di Paolo Lambruschi Avvenire, 15 agosto 2021 Per l’associazione “Favore debitoris” un emendamento del governo contenuto nella riforma della giustizia rischia di portare allo sfratto anticipato migliaia di nuclei familiari. I timori di Caritas Il caso delle aste giudiziarie e le 120mila famiglie a rischio. In nome della maggiore efficienza richiesta dall’Europa per la giustizia, si rischia di facilitare ulteriormente l’infiltrazione della mafia nelle aste giudiziarie. Lo sostengono diverse associazioni di sostegno ai debitori che da tempo segnalano i potenziali danni che - volontariamente o no - può causare un emendamento del governo alla riforma della giustizia sulle aste giudiziarie che verrà discusso a fine agosto. Potrebbe svalutare il patrimonio immobiliare, creare danni ai creditori e ai debitori, favorire la malavita organizzata che nel controverso settore si è inserita da anni. Un pasticcio. La questione riguarda 120mila famiglie con la casa di abitazione in esecuzione immobiliare. Dati che probabilmente in autunno, grazie alla pandemia sociale, sono destinati a crescere. Secondo Giovanni Pastore dell’associazione “Favor Debitoris”, l’emendamento governativo vuole abrogare “le disposizioni più equilibrate raggiunte nel 2020 per l’articolo 560 del codice di procedura civile”. Dietro i tecnicismi si celerebbe la volontà di tornare al vecchio sistema, ovvero sfrattare i debitori prima possibile portando inoltre a tre le vendite annuali all’asta, svalutando ancora di più l’immobile che già alla prima asta si può acquistare al 75% del valore di perizia. “Non prestiamo il fianco a chi, magari con il pretesto di velocizzare i tempi, non si farebbe scrupolo a aumentare la sofferenza di chi perde la casa. Con lo sblocco delle esecuzioni immobiliari, il peso dei debiti che grava sulle famiglie e una crisi economica che ancora non vede uno sbocco, è un pericolo assolutamente da scongiurare”. Lo chiede Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana e presidente della Consulta nazionale antiusura San Giovanni Paolo II. A destare preoccupazione è la lettura considerata troppo discrezionale dell’articolo 560 del codice di procedura civile, cui darebbe adito la “Delega al Governo per l’efficienza del processo civile” che all’articolo 8 tratta del processo di esecuzione. L’articolo 560 del codice di procedura civile ha stabilito con chiarezza che chi perde la casa di residenza perché non più in grado di onorare il prestito chiesto per acquistarla può viverci finché il giudice esecutore non assegna l’immobile al nuovo proprietario, fatte salve alcune norme di comportamento. Ora, invece, secondo la Caritas della diocesi milanese, questa indicazione di buon senso viene compromessa da un testo più complesso e confuso che può lasciare spazio a interpretazioni sfavorevoli al debitore. “Siamo certi che questa non sia l’intenzione del governo, per questo ci auguriamo che lo spirito di quella norma sia mantenuto anche nel nuovo testo di riforma - sottolinea Gualzetti - tanto più in questo momento difficile riteniamo necessario trovare una soluzione che tenga in equilibrio la necessità di velocizzare i processi con la tutela delle persone più in difficoltà”. Che le aste intasino le aule giudiziarie è fuori discussione, la legge 132 del 2015 voluta dal governo Renzi avrebbe dovuto accelerarne l’iter, facilitando il recupero dei crediti delle banche. Dati inconfutabili dimostrano che ha fallito clamorosamente il suo scopo e, applicando da subito uno sconto, ha svalutato ancor più gli immobili. L’abbassamento di prezzo sta favorendo i clan mafiosi che sguazzano nelle aste per riciclarvi l’enorme liquidità. L’ultima riprova si è avuta con l’arresto della capoclan di “Alleanza di Secondigliano” Gianna Licciardi, alla quale è ispirato il personaggio di Scianel della fiction “Gomorra”. La Procura di Napoli sta indagando sul controllo esercitato dai clan di Secondigliano sulle aste giudiziarie, con l’acquisto esercitato da prestanome nullatenenti e la successiva rivendita, a volte anche agli ex proprietari, dietro pagamento di una tangente. Secondo il “Mattino” il clan arrivava a coinvolgere le banche che concedevano mutui ai soggetti indicati. Qualcuno potrebbe liquidare la questione come una vicenda tutta campana. Ma nella realtà l’intervento di malavitosi ed evasori fiscali nelle aste per ripulire denaro nero è ormai esteso a tutta Italia. Al Nord è solo meno sfacciato. Ancora Pastore racconta che si sta avviando un importante studio sui partecipanti alle aste. Intanto sono state svolte indagine a campione. Su quelle esaminate non ce n’è alcuna che non sia sospetta. In un’asta di Pavia i partecipanti poco più che ventenni erano affiancati dai padri reduci da bancarotta fraudolenta. In un’altra a Bergamo i 2 partecipanti avevano già acquistato con questo sistema quasi 500 tra immobili e terreni. Non si sa con che soldi o con quali crediti. Solo l’introduzione dell’adeguata verifica, il controllo della provenienza dei capitali investiti nell’acquisto degli immobili, l’istituzione di un data base nazionale con i dati dei partecipanti alle aste, porrebbe termine a questo scandalo. Dopo l’arresto della Licciardi, un gruppo di associazioni aderenti alla Federcommercio Campania ha dichiarato che “a Napoli come nelle aree metropolitane ed industriali di maggior interesse si ripete il canovaccio del controllo delle aste giudiziarie confermando che sono un’autostrada per il riciclaggio, ma anche un modo per rendere solida la posizione economica dei clan. Del resto la procura antimafia aveva già dato anni fa questo allarme. C’è un cono d’ombra nelle procedure anti riciclaggio delle aste giudiziarie. “E di questo ne approfitta la malavita organizzata”. Matteo Boe il bandito anarchico che fuggì dall’inferno Asinara di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 agosto 2021 “Col tempo mi hanno visto consumarmi poco a poco, ho perso i chili, ho perso i denti, somiglio a un topo ho rosicchiato tutti gli attimi di vita regalati e ho coltivato i miei dolcissimi progetti campati… In aria… nell’aria”, dice un brano di Daniele Silvestri. La canzone è agghiacciante, drammatica, di forte impatto emotivo. L’elemento più sconcertante è che il protagonista, in prima persona, è un morto. Si tratta di un ergastolano che alla fine era riuscito ad evadere, ma “in orizzontale”. “Dopo trent’anni carcerato all’Asinara, che vuoi che siano poche ore in una bara”. La struggente storia cantata da Silvestri è ambientata, appunto, nell’ex carcere dell’Asinara, un’isoletta del mar Mediterraneo, vicina alla punta della Sardegna. Oggi è un luogo incontaminato dove la natura trova il suo spazio, finalmente libera dalle 11 diramazioni penitenziarie. Pochi sanno l’origine del nome. Il pensiero va subito agli asini, che pur ci sono, ma in realtà tutto nasce dalla leggenda che Ercole afferrò l’estrema propaggine settentrionale della Sardegna e la staccò dalla penisola della Nurra. E la strinse così forte nel pugno da assottigliarne la parte centrale, lasciandole impresse tre profonde insenature dove le possenti dita l’avevano strangolata. Herculis Insula, la chiamarono perciò i romani, e successivamente Sinuaria, per la sinuosità delle sue coste. Da lì, a forza della graduale storpiatura del nome romano, si è arrivati appunto a chiamarla “Asinara”. L’isola fu prima adibita a luogo di quarantena per equipaggi di navi sospette di epidemie a bordo, con annesso lazzaretto, poi nel 1915 divenne campo di prigionia per decine di migliaia di soldati austroungarici, e poi colonia penale agricola. Tra il 1937 e il 1939 vennero trasferiti qui centinaia di prigionieri etiopi. Dal dopoguerra, l’Asinara diventò a tutti gli effetti un’isola- carcere, famigerato suo malgrado negli anni 70 come “speciale” per i fondatori delle Brigate Rosse. Poi, con la sanguinosa rivolta del 2 ottobre 1977 per protestare contro le sistematiche torture, il carcere venne temporaneamente dismesso negli anni 80 per poi riaprire dopo le stragi mafiose ai detenuti in regime di 41 bis. Ma le torture si inasprirono, tanto da ricevere una condanna anche dagli organismi internazionali. Fu lì che venne portato Totò Riina dopo il suo arresto. Precisamente gli venne assegnata la cella di Cala d’Oliva, uno degli undici penitenziari dell’isola. Era soprannominata “la discoteca”, ma non perché si ballava. La cella, senza finestre, era perennemente illuminata dalle lampade che il capo dei capi non poteva spegnere. In poco tempo Totò Riina si rese conto di essere finito in un luogo in cui sarebbe stato davvero isolato e sorvegliato 24 ore su 24. Senza un attimo di intimità, neanche all’interno del bagno. E con la luce sempre accesa, anche di notte. Vi rimase per 4 anni. L’Asinara però riservava l’identico trattamento nei confronti di tutti gli altri detenuti. C’è la testimonianza dell’ex ergastolano ostativo Carmelo Musumeci che vi trascorse lunghi anni al 41 bis. “Spesso le guardie arrivavano ubriache davanti alla mia cella ad insultarmi. Mi minacciavano e mi gridavano: “Figlio di puttana.” “Mafioso di mer- da”. “Alla prossima conta entriamo in cella e t’impicchiamo”. Mi trattavano come una bestia. Avevo disimparato a parlare e a pensare. Mi sentivo l’uomo più solo di tutta l’umanità”, narra Musumeci. L’isola che ospitò anche Falcone e Borsellino prima del maxi processo (dovettero pagare anche il conto su richiesta dell’allora capo del Dap Nicolò Amato) è passata alla storia come l’Alcatraz italiana. E come ogni storia che si rispetti, ha conosciuto anche lei il suo Papillon. Si chiama Matteo Boe e fu l’unico uomo che riuscì ad evadere da quella fortezza che fino ad allora risultava invulnerabile. Boe è un personaggio da romanzo. È stato un bandito sardo, specificatamente di Lula, un paesino arroccato sui monti del nuorese. Divenne quasi una leggenda, tanto che il suo nome venne associato a una vita non solo di rapimenti, ma anche di attivismo politico visto che combatteva per l’indipendentismo sardo. Infatti, Boe, non riconosce alcuna autorità politica ed etica dello Stato italiano. Durante la detenzione, d’altronde, aveva tradotto in lingua sarda “Dio e lo Stato” di Bakunin e fatto poi stampare da un anarchico sardo. Fu condannato a sedici anni di carcere nel 1983, in seguito al rapimento di una giovanissima toscana, Sara Niccoli. Secondo le indagini ne fu poi il carceriere, quel “Carlos” che - come raccontò la stessa Niccoli - ne rese meno dura la detenzione, denotando perfino una cultura non indifferente nell’offrirle letture di pregio, come “L’idiota” di Dostoevskij e i libri di Franz Kafka. Sara morirà all’età di 30 anni a causa di una malattia autoimmune. Boe fu arrestato e recluso all’Asinara. La permanenza doveva stargli ovviamente stretta, e così decise di evadere dalla fortezza con Salvatore Duras, in carcere per furto. Studiano un piano a tavolino che poi risulterà perfetto. Dopo aver tramortito un’agente mentre svolgevano un lavoro esterno, i due riescono a raggiungere la costa dove una donna - la moglie di Boe - li aspetta nascosta a bordo di un gommone. La donna, Laura Manfredi, emiliana, aveva conosciuto Boe alla facoltà di Agraria all’università di Bologna e lui era un suo compagno di corso. Un amore immenso, che la spinse ad aiutarlo ad evadere. Duras fu trovato poco tempo dopo. Boe, invece, riuscì a restare latitante per sei anni. Alla fase della latitanza risalgono tutta una serie di altri rapimenti, come quello dell’imprenditore romano Giulio De Angelis, o quello eclatante del piccolo Farouk Kassam, nel 1992, cui fu brutalmente mozzato un orecchio. Il bambino fu lasciato libero dopo 177 giorni di prigionia, nei quali mangiò poco e non si lavò, tanto che i vestiti non gli si staccavano di dosso, come sostengono le cronache dell’epoca. Nello stesso anno Boe fu arrestato in Corsica, dove si trovava per alcuni giorni di vacanza con la moglie e i due figli, e quindi estradato nel 1995, con una condanna - confermata nel ‘ 96 - a 25 anni di detenzione. Nel 2003 la tragedia. Una scarica di pallettoni rivolta al balcone della sua casa di Lula uccise Luisa, la figlia quattordicenne, forse scambiata dagli esecutori per la moglie Laura, politicamente molto attiva in paese nella lotta all’istituzione di una normalità amministrativa. “In tutti questi anni disse Matteo Boe dal carcere in una delle rare interviste rilasciate- ho visto mia figlia soltanto attraverso un vetro. Le nostre mani ogni volta erano divise da una parete. Assurdo, me l’hanno uccisa senza darmi la possibilità di abbracciarla”. Questa vicenda dolorosa ebbe strascichi giudiziari: Laura accusò l’allora maresciallo dei carabinieri di non aver indagato a sufficienza e andò sotto processo per calunnia, uscendone assolta. Ancora oggi l’uccisione della ragazzina è senza colpevoli. Boe ha finito di scontare la sua pena nel 2017 ed è un uomo libero. Ora ha 61 anni e sta studiando per diventare guida ambientale escursionistica. I detenuti che hanno cercato di fuggire dall’Asinara sono stati tanti. La vicinanza dell’isola alla punta della Sardegna dava l’impressione che fosse facile, una volta riusciti ad eludere le guardie costiere, scappare a nuoto. Invece in tanti sono annegati, recuperati giorni dopo la fuga. È stato trovato morto anche un detenuto che cercava di raggiungere la Sardegna con una barca a remi. Dopo giorni e giorni in balia delle correnti, era morto di inedia. Solo Boe, il bandito sardo, ci riuscì. Sardegna. Le Camere penali promuovono le carceri: “Emergenza coronavirus gestita bene” sardiniapost.it, 15 agosto 2021 Più luci che ombre nelle carceri di Uta e Alghero. Ci sono problemi per quanto riguarda il personale con una carenza di circa il 30%, ma ci sono miglioramenti soprattutto sotto gli aspetti “trattamentali”: nuove attività per i carcerati per rendere meno dura la detenzione e per provare a ricostruirsi un futuro. Buona anche la gestione dell’emergenza Covid. Sono i risultati delle visite da parte dell’Osservatorio carcere dell’Unione delle camere penali italiane. Il tour, l’iniziativa si chiama Ferragosto in carcere, ha riguardato anche la casa di reclusione di Nuchis. Ascoltati anche i detenuti. “Rispetto al passato - spiega all’Ansa, Franco Villa responsabile sardo dell’Osservatorio - ci sono stati dei miglioramenti. Per quanto riguarda Uta importante l’attività nell’orto con i prodotti che poi vengono consegnati alla Caritas. Ma vanno bene anche la falegnameria e la lavanderia. Unica pecca il teatro: un bello spazio però inutilizzabile perché manca ancora l’agibilità”. Rimangono però i soliti problemi: “Su tutti la carenza del personale - continua Villa - e non bisogna dimenticare che quasi la metà dei detenuti ha problemi psichiatrici: la gestione non è delle più semplici”. Carceri sarde promosse per la gestione dell’emergenza Covid: “Ad Alghero - spiega Villa - il malcontento per il problema delle visite è stato mitigato dalla concessione di telefonate extra e dall’autorizzazione alle video chiamate. Ma anche a Uta si è cercato di superare i problemi affrontando la situazione in modo da favorire la comunicazione con i familiari. A Uta poi il 97% è vaccinato con doppia dose Pfitzer”. Il significato di questa iniziativa - spiega l’Osservatorio - è quello di manifestare vicinanza ai detenuti in uno dei momenti più difficili dell’anno. In particolare modo bisogna considerare anche le condizioni climatiche proibitive di quest’anno e le problematiche relative alla pandemia. Caltanissetta. Tutti trasferiti i detenuti “ribelli” ilfattonisseno.it, 15 agosto 2021 È stato necessario ricorrere ad un’azione di forza per porre fine alla manifestazione di protesta messa in atto da una ventina di detenuti rinchiusi nel carcere “Malaspina” di Caltanissetta che lamentavano il fatto di non potere abbracciare i loro familiari durante i colloqui settimanali. Una precauzione che è stata messa in atto con la collocazione di alcuni vetri divisori anche a seguito del riproporsi di alcuni contagi registrati recentemente dal covid 19 sia tra gli stessi reclusi e tra gli agenti di polizia penitenziaria. La protesta è stata decisa quanto inaspettata nella tarda mattinata di giovedì quando i detenuti si sono “barricati” nei locali ubicati a primo piano ed hanno pure “bloccato” temporaneamente due agenti di custodia rifiutandosi al tempo stesso di entrare nelle loro celle ed impedendo al personale di servizio ed al magistrato di Sorveglianza di intervenire. Una iniziativa che ha visto tra i protagonisti diversi detenuti (provenienti dalle province di Catania e di Palermo, ma anche Nisseni, sicuracusani, campani e gelesi) e che si è di fatto conclusa ieri quando, vista vano ogni tentativo di persuasione al fine di porre fine alla protesta, il personale carcerario ha dovuto forzare i cancelli e porre fine ad una situazione che ha pure resa necessaria la convocazione del Comitato per l’Ordine e la Sicurezza convocato dal prefetto Chiara Armenia e che si è riunito nella mattinata di ieri. Subito dopo, con il supporto di altri reparti siciliani e dei poliziotti nisseni ha avuto luogo l’irruzione delle forze dell’ordine nei locali dove si erano asserragliati i detenuti “ribelli”, per i quali è stato pure disposto immediatamente il trasferimento in altri istituti carcerari lontani da Caltanissetta. Una “rivolta” che ha anche registrato l’intervento dei rappresentanti sindacali degli Agenti di Polizia penitenziaria. “Sono episodi - ha anche detto Rosario Di Prima coordinatore nazionale del Sinappe - che si verificano anche perché il numero degli agenti di custodia in servizio è insufficiente, a Caltanissetta ma anche negli altri istituti carcerari, che sono pure pieni “a tappo” di detenuti. Nonostante questo però le regole vanno rispettate e non si può permettere che si verifichino “abusi” di questo genere”. “Il carcere di Caltanissetta - ha sottolineato ancora Paolo Davide Scaduto, segretario regionale dell’Osapp - ha bisogno di altre risorse umane, materiali ed economiche, e purtroppo quelle disponibili non sono più sufficienti. Questo è il risultato di politiche di risparmio e di tagli che per un carcere come quello nisseno procurano danni all’ordine ed alla sicurezza dell’intera collettività. Chiediamo al Provveditore regionale ed alle autorità centrali l’assegnazione immediata di un direttore titolare per far fronte alle esigenze del carcere nisseno e di altro personale”. Verona. Caldo e Covid, penalisti in delegazione oggi a Montorio di Laura Tedesco Corriere di Verona, 15 agosto 2021 I legali: “Entriamo in carcere per conoscere lo stato di vivibilità e i rimedi contro la calura eccezionale”. “Lucifero non ferma le Camere penali”: 5 avvocati entrano in carcere per verificare le condizioni dei detenuti. Faranno “visita” al carcere di Verona proprio oggi, 15 agosto, giornata festiva per eccellenza. Una delegazione di penalisti scaligeri andrà in delegazione al penitenziario cittadino di Montorio nel corso dell’odierna giornata di Ferragosto, nelle ore in cui il caldo è insopportabile (la giornata è da bollino arancione) e nella data in cui (quasi) tutti festeggiano l’apice dell’estate. Un’iniziativa che, per essere attuata, ha richiesto preventivamente l’arrivo di un’apposita autorizzazione dal ministero della Giustizia: nella circolare con cui viene accordato il necessario nullaosta, visti i tempi di Covid, si precisa che “sulla base del parere reso dal Comitato Tecnico Scientifico” la rappresentanza degli avvocati veronesi potrà “accedere alla Casa circondariale di Montorio se in possesso di green pass”, oppure “mostrando un tampone effettuato nelle 48 ore precedenti”. In base all’autorizzazione giunta dal ministero, oggi a Montorio potranno entrare cinque penalisti veronesi: Simone Giuseppe Bergamini (responsabile carceri per la Camera penale di Verona e delegato dell’Osservatorio nazionale) e i colleghi Silvia Fedrighi, Elena Pranio, Valentina Perazzani, Alessandro Favazza. “Lucifero non ferma le Camere penali”, è lo slogan dell’iniziativa, indetta su scala nazionale dall’Osservatorio carcere dell’Unione Camere penali italiane, a cui ha deciso di aderire anche la sezione di Verona: “Entriamo in carcere nel giorno di Ferragosto per conoscerne le attuali condizioni di vivibilità e verificare quali rimedi - spiegano gli avvocati - siano stati adottati per fronteggiare l’ondata di caldo eccezionale che sta attraversando il Paese”. Bologna. Bimba chiusa in cella con la madre Corriere di Bologna, 15 agosto 2021 Una bambina di meno di due anni, figlia di una detenuta, è finita in carcere insieme alla madre “in condizioni ambientali pessime”. A denunciarlo è Nicola Longhi, portavoce di Possibile a Bologna, diffondendo una notizia appresa “da fonti sindacali”. Da tempo Possibile “insiste sulla necessità che le bambine e i bambini, figli di detenute, non entrino mai in carcere, nemmeno per un giorno - afferma Longhi - per questo chiediamo insistentemente l’istituzione di un Istituto a custodia attenuata per le detenute madri”. Nei giorni scorsi, alla Dozza è stato “inaugurato un asilo interno alla struttura, per il quale si sono investiti fondi pubblici, ma che al momento rimane vuoto - critica Longhi - ci chiediamo che senso abbia questa scelta. Nel programma per le amministrative, Possibile “ha inserito un capitolo che definisce il carcere come un quartiere della città”. Bologna. “Poca acqua in alcune celle ed è difficile far convivere persone di diverse etnie” di Angela Carusone bolognatoday.it, 15 agosto 2021 La Casa circondariale di Bologna è spesso finita al centro della cronaca a causa di episodi avvenuti tra detenuti, o detenuti e agenti di Polizia penitenziaria. Situazioni che si potevano evitare? Forse sì per Nicola d’Amore, esponente del sindacato di Polizia penitenziaria Sinappe. Lo abbiamo incontrato per capire eventuali criticità della casa circondariale, e possibili soluzioni. Ad oggi qual è la situazione alla Dozza? “Quella di Bologna è una realtà complessa, sia per motivi strutturali sia perché è un carcere che presenta diversi circuiti detentivi, ognuno un modus operandi diverso. L’alto numero di persone straniere, che spaziano del nord Africa e al Magreb, dal Pakistan all’area balcanica, rende sicuramente difficile la convivenza. O meglio, è complesso riuscire a far convivere persone di etnie e tradizioni diverse, spesso in spazi angusti. Questo di conseguenza porta al problema del sovraffollamento, fenomeno ormai presente in tutte le carceri italiane” Quali le situazioni più urgenti da risolvere? “Il problema storico qui è la mancanza d’acqua. Le camere detentive non sono dotate di frigo e c’è poca acqua a causa della riduzione della pressione per chi è ai piani superiori. Basta pensare che i detenuti la mattina spesso non riescono a fare neanche la doccia. Siamo riusciti a dilatare gli orari per permettere a tutti di sciacquarsi, ma non hanno mai pensato a rimodernare le celle. In piena emergenza Covid i detenuti non avevano spazio per lavarsi e se si continua su questa strada la situazione potrebbe solo peggiorare. Non parliamo di un adeguamento al pari di un hotel, ma almeno uno spazio con un minimo dignità, con un frigo piccolo dove raffreddare le bevande in estate, con acqua dal rubinetto e dal bagno. Questo porterebbe a meno tensioni tra le persone. Molti hanno un secchio di acqua corrente che scorre dal rubinetto dove immergono le bibite, ma il problema è nazionale. Qui stanno costruendo un nuovo padiglione, una cosa ottima, ma anche le vecchie celle che comunque saranno ancora utilizzate dovrebbero essere sistemate e adeguate. Non dobbiamo parlare solo però di detenuti, ma anche di chi lavora all’interno del carcere. È necessario migliorare subito la qualità della mensa per il personale. È impensabile che per chi fa il turno di sera ci sia poco, o niente, per cena. Insomma, è un pò tutto il sistema che deve essere rivisto, e anche con una certa urgenza”. Oggi quanti detenuti ci sono? “Poco più di 700 a fronte di una capienza regolare di meno di 500 persone prevista” Cosa si potrebbe fare? “Come già detto i problemi non riguardano solo Bologna ma tutto il settore a livello nazionale. Oltre ai problemi citati è urgente pensare a misure che pensino al rinserimento nella società dei detenuti. Non basta prendere le persone e farle stare in carcere per il tempo previsto dalla pena, ma è opportuno organizzare percorsi che possano permettergli di trovare qualcosa una volta fuori, evitando così che tornino nuovamente a delinquere. Sono necessari provvedimenti urgenti che affrontino tutti questi problemi”. Rimini. Ferragosto in carcere: adesione della Camera penale giornaledirimini.com, 15 agosto 2021 La Camera Penale di Rimini “Veniero Accreman”, anche quest’anno, ha aderito all’iniziativa Ferragosto in Carcere promossa dall’Unione delle Camere Penali Italiane e dal Partito Radicale. L’iniziativa, di forte valore simbolico, ha l’obiettivo di verificare le condizioni di vita dei detenuti negli istituti di pena soprattutto in questo delicato momento in cui, alle note criticità del sistema carcerario, si aggiungono le problematiche legate all’emergenza sanitaria tutt’ora in corso. Pertanto, il giorno 19 agosto 2021, vista l’autorizzazione dei D.A.P., l’Avv. Alessandro Sarti, Presidente della Camera Penale di Rimini, l’avv. Tiziana Casali, Vice Presidente della Camera Penale di Rimini, l’Avv. Sonia Raimondi, tesoriera e referente per il carcere, nonché il Prof. Avv. Enrico Amati, anche nella veste di autenticatore per la raccolta delle firme referendarie, si recheranno - unitamente a una delegazione del partito radicale - presso la Casa Circondariale “Malatesta” per la visita all’istituto di pena riminese. All’esito della stessa è fissata una conferenza stampa ore 13,30 presso il “Caffè Cavour di Rimini” alla quale sono invitati a partecipare tutti gli organi di stampa locale. Il Papa, il lavoro e gli sfruttati di Carlo Petrini La Stampa, 15 agosto 2021 La risposta di Papa Francesco alla bella lettera di Maurizio Maggiani non nasce dal nulla. Ma è nelle corde di un sentimento che Francesco esprime da tempo, rispetto a questo tipo di economia. Da sempre gli sta a cuore la denuncia dello sfruttamento che viene realizzato nei confronti dei più deboli. Ho memoria del suo intervento all’inaugurazione dell’Expo di Milano del 2015, al quale era presente tutto il gotha dell’economia italiana. A un certo punto del suo discorso, dopo aver chiarito che questi appuntamenti devono essere rispettosi dell’ambiente e della dignità dei lavoratori, Francesco disse: “Questa economia uccide”. Ho pensato, lì per lì, che questa affermazione così tranchant potesse generare nell’uditorio un certo sconcerto e invece, come succede spesso come quando parlano personalità di questo tipo, si ha un atteggiamento di benevolenza e poi si continua a fare come prima. In queste ore ne abbiamo un esempio: stiamo commemorando Gino Strada e tutti dicono “che brava persona”, senza mai mettere in evidenza le denunce che Gino faceva sulle ingiustizie della guerra. Quelle di Francesco non sono posizioni estemporanee, ma un suo modo costante di affrontare le tematiche della dignità dei più poveri nel suo magistero. L’enciclica Laudato Sì non è solo un documento ecologista, ma anche un testo sociale dove si mette in evidenza che quando facciamo male all’ambiente facciamo male a noi stessi e in particolare ai più poveri. Altro aspetto molto interessante è il fatto che Papa Francesco paragoni quello che Maggiani denuncia, rispetto alla situazione del cibo. È questo l’elemento più rilevante della degenerazione del lavoro delle persone più umili. Noi ne sappiamo qualcosa. Le nostre battaglie contro il caporalato e per il giusto prezzo del lavoro non sono certo di oggi. Ma c’è una novità: negli ultimi 30 anni, le cooperative, istituzioni nate per difendere i lavoratori, sono state svilite da aggressioni sistematiche. Molti hanno costituito cooperative fittizie per godere dei vantaggi che, giustamente, lo Stato concede. Poi, ancora peggio, sono nate cooperative per sfruttare il lavoro degli altri, realizzate a volte da persone della stessa etnia degli sfruttati. Una vergogna ulteriore, perché si sfruttano i propri fratelli. Il committente non si deve mettere il cuore in pace, dicendo di aver fatto tutto in regola. Anche il committente deve essere edotto di quanto si pagano i lavoratori. Lo dico anche alle realtà molto floride del settore agricolo, dove spesso mi sento dire, da parte dei produttori, di essere in regola rispetto agli impegni nei confronti delle cooperative: non è sufficiente. Questo vale anche per la produzione editoriale, rispetto allo sfruttamento, non si può dire che non ci riguarda. Non so chi siano i 36 Giusti, ma so che lui è uno di loro di Moni Ovadia Il Manifesto, 15 agosto 2021 Gino Strada. Quel che dava più senso alla sua attività era la sala operatoria. Mi confidò che i suoi momenti migliori li trascorreva operando, anche fino a sedici ore in un giorno. Tutti noi che crediamo nel valore integro, sacrale della vita umana, tutti noi che ripudiamo radicalmente la guerra e suoi osceni travestimenti, tutti noi che crediamo con la forza di una fede nella dignità di ogni essere umano, nei suoi inviolabili diritti civili e sociali, che sosteniamo il bene comune come priorità assoluta e riteniamo pertanto che il finanziamento pubblico debba essere destinato ad esso a partire dalla sanità pubblica. La sua voce, quando parlava di questi temi era unica per autorevolezza, per verità. Le sue parole asciutte, semplici, logiche erano inopponibili per la forza tragica di chi ha visto le carni maciullate di folle di vittime innocenti e non, per opera delle guerre, di quelle umanitarie, delle armi intelligenti, degli effetti collaterali, di giocattoli perfidamente esplosivi. Parlava a muso duro il dottor Strada, chirurgo di guerra, con quella sua straordinaria faccia pesta segno inequivocabile della dedizione ai suoi pazienti e al suo magistero. Anche in televisione resisteva all’allisciamento patinato che fa, anche dei migliori, figurette lustre di talk show pletorici, monotoni e mediocri. Lui con quella faccia per niente “simpatica” e men che meno corriva e con quella sua espressione da Sestese/Milanese incazzato risultava come una pietra lanciata contro lo schermo e svegliava le coscienze assopite dei teleutenti in coma sui sofà. Gino Strada era radicato nella grande cultura antifascista della “Stalingrado” operaia, la Sesto san Giovani alle porte di quella Milano medaglia d’oro della Resistenza che ha nutrito le migliori intelligenze del dopoguerra. La classe operaia è stata l’unica classe in quanto tale che sia stata portatrice di valori universali. Di questa eredità Strada si è fatto portatore ed interprete come fondatore di Emergency e come chirurgo di guerra. Si perché Gino era prima di tutto un medico. Certo svolgeva un’intensa attività come front man dell’associazione a cui aveva dato vita insieme alla moglie Teresa, ma ciò che dava più senso alla sua attività era il lavoro di sala operatoria. Un giorno mi confidò che i suoi momenti migliori erano quelli che trascorreva operando, fino a sedici ore in un solo giorno. E i momenti di gioia li viveva quando, dopo avere operato al cuore un fantolino e dopo avergli abbassato la temperatura per rallentare il battito cardiaco al fine di fare l’intervento, lo riportava alla sua temperatura naturale e assisteva alla ripresa del battito regolare in quel cuoricino riportato alla vita in salute. Questo era l’uomo di cui migliaia e migliaia di donne e uomini oggi piangono la prematura scomparsa, prematura, si, perché avrebbe dovuto vivere in eterno. Così pensavo anch’io, eravamo amici, lo eravamo diventati dal primo incontro, dopo un recital al PalaVobis a Milano a cui lui aveva assistito insieme a sua moglie Teresa. Casualmente mia moglie Elisa si era seduta al loro stesso tavolino, fu lei che me li presentò. Ci raccontarono del loro progetto di Emergency chiedendo il nostro sostegno. Fu un colpo di fulmine. Non ci siamo più lasciati. Neppure ora che la morte fisica ce lo ha portato via, lui vive in noi e con noi e non è una formula retorica. È impossibile dimenticare Gino Strada! Quando ci incontravamo con amici si rivolgeva a me con l’epiteto affettuoso “vecchio giudio” al quale io rispondevo altrettanto affettuosamente chiamandolo “segaossa”. Il suo amico, vecchio giudio, vuole dedicargli una riflessione che proviene rapsodicamente dal mio retroterra dell’esilio ebraico. Una tradizione khassidica afferma che il mondo si sostiene su 36 giusti, si chiamano lamedvavnik, dalle lettere ebraiche lamed e vav che formano insieme il numero trentasei. Non si sa chi siano, a quale ceto appartengano, se siano semplici o con una alta formazione culturale, ma hanno una caratteristica comune. Sanno che la relazione sociale e umana muovono a partire dall’altro da sé, che il riconoscimento e l’accoglimento dell’alterità è valore primo. Il giusto è un essere umano che è pronto a rischiare la propria vita per la salvezza di un suo simile, in questo senso Gino Strada era un giusto nel significato più radicale del termine. L’altro esprime il livello più intimo della sua essenza e del suo senso quando è oppresso, perseguitato, diseredato, sfruttato, ferito, mutilato. Gino percepiva immediatamente la sofferenza e accorreva a costo di qualsiasi rischio per lenire il dolore, per curarlo. E c’era chi trovava il modo di calunniarlo. Non era un pacifista ma un uomo contro le guerre di Alex Zanotelli Il Manifesto, 15 agosto 2021 Molto spesso mi mandavano i saluti tramite amici comuni. La prima volta che ci siamo visti è stato quando sono rientrato in Italia, nel 2002. Abbiamo cominciato a lavorare insieme ed è nata una bella amicizia. Era il momento della guerra in Iraq, partecipavamo alle manifestazioni di protesta, la più imponente a Roma. Gino sentiva l’imperativo di combattere contro tutti i conflitti. Non si definiva un pacifista ma un uomo contro le guerre e questo è importante per capire Gino. È arrivato a questa posizione perché aveva toccato con mano l’orrore che i conflitti producono, in particolare in Afghanistan dove è stato testimone dell’assurda crudeltà inflitta alla popolazione. Partendo dalle vittime ha detto basta. Gino aveva capito che i conflitti servono a chi ha il potere a questo mondo, al 10% che consuma da solo il 90% dei beni della terra. Le guerre sono parte essenziale di chi gode da solo dei benefici e vuole continuare a vivere al di sopra delle proprie possibilità. Per questo era impegnato sul versante dell’ingiustizia sociale. Contrasto alle guerre e giustizia sociale sono due coordinate importanti del suo pensiero. No alle guerre e alle spese in armamenti, sì a una sanità pubblica per tutti era l’altro fronte in cui era impegnato: in questo periodo di pandemia si è battuto chiarissimamente contro l’apartheid vaccinale e sanitaria a cui sono costretti tanti paesi e continenti. Gli faceva orrore così si è impegnato nella battaglia per aumentare la produzione e abbassare il prezzo dei vaccini cambiando le regole che tutelano la proprietà intellettuale. Si definiva convintamente ateo ma era vicino a uomini di chiesa come don Gallo, don Ciotti e il sottoscritto. Ci voleva davvero bene. La sua visione contro le guerre si avvicina a quella di Papa Francesco su molti fronti. Nel 2018 ero a Riace, era un brutto momento per l’allora sindaco Mimmo Lucano, finito sotto indagine. Lucano aveva deciso di dare la cittadinanza onoraria a me e a Gino, mi chiese di chiamarlo per chiedergli se avesse voluto accettare. Gino fu felice ma non riuscì a venire, la cerimonia avvenne via Skype. A novembre l’avevo risentito, il governo lo voleva nominare commissario alla Sanità in Calabria, ci stava seriamente pensando ma il presidente Sprirlì dichiarò “non abbiamo bisogno di missionari africani”. Gino si è impegnato lo stesso a Crotone, prima allestendo l’ospedale da campo in piena emergenza e poi organizzando il reparto Covid nell’edificio principale. Guerra alle guerre, giustizia sociale e sanità pubblica per tutti è il lavoro comune che dobbiamo continuare. Un’eredità pesante che lascia a tutti noi. Ius soli, battaglia nei Cinquestelle. I deputati avvertono Conte: “Non tiriamoci indietro” di Annalisa Cuzzocrea e Matteo Pucciarelli La Repubblica, 15 agosto 2021 Il capogruppo Crippa risponde alla Taverna: “Lo Ius scholae può essere una soluzione”. Nelle chat interne malumori contro la senatrice. Più che un’apertura, è un avvertimento. Il capogruppo del Movimento 5 stelle alla Camera Davide Crippa, in un post su Facebook, ha aperto ieri a una nuova legge sulla cittadinanza. Lo ha fatto senza consultarsi prima con il presidente Giuseppe Conte e con il suo staff di comunicazione, perché il messaggio sia chiaro: su queste cose la linea va stabilita dialogando con gli esponenti delle commissioni competenti in Parlamento. In questo caso, sia in commissione Cultura che in commissione Affari Costituzionali i 5 stelle hanno lavorato a una proposta di legge sulla cittadinanza che definiscono Ius scholae e che non è altro che uno Ius culturae - di cui si discuteva nella scorsa legislatura - con un nome diverso. Che lega la concessione della cittadinanza ai bambini nati qui o residenti nel nostro Paese da tempo insieme ai genitori alla chiusura di un ciclo scolastico. Scrive Crippa: “Il dibattito che si è riaperto sul tema della cittadinanza richiede risposte concrete e condivise, frutto del dialogo tra le forze politiche e la società civile”. È, in pratica, il presidente dei deputati M5S che va contro la vicepresidente del Senato Paola Taverna, vicina ad avere un ruolo di rilievo nella segreteria che Conte varerà a settembre, e la sindaca di Roma Virginia Raggi, che giovedì a In Onda ha fatto capire tutta la sua contrarietà sul tema. Dicendo, tra l’altro erroneamente, che “riciccia”, cioè rispunta sempre fuori in campagna elettorale. Crippa propone la posizione dei 5 stelle che alla Camera siedono nelle commissioni competenti. “Puntare sullo ius scholae, cioè sul diritto per i ragazzi figli di immigrati di diventare cittadini italiani dopo aver completato un ciclo di studi può rappresentare un’importante soluzione”. Perché “il M5S non si tira mai indietro quando si parla di diritti e non intende farlo neanche stavolta”. E perché “come ricorda Giuseppe Brescia, oggi nelle scuole italiane studiano con i nostri figli 800mila bambini e ragazzi privi della cittadinanza italiana”. La proposta del resto era stata presentata anche a Conte qualche giorno prima della sua incoronazione a leader del Movimento. E lui era sembrato apprezzarla, prima di trincerarsi in un assoluto silenzio sul tema. Le dichiarazioni a Repubblica di Paola Taverna sono quelle che hanno infiammato gli animi dei parlamentari. Non è una priorità, aveva detto, e ancora - sposando la linea della comunicazione M5S - “bisogna contemperare multiculturalismo, integrazione e sicurezza”. “Non è lei a dover dire cosa dobbiamo fare”, sono esplose le chat interne. Anche perché il consenso su una nuova norma sulla cittadinanza si è ormai allargato dentro il Movimento. “Sul ddl Zan come 5 stelle stiamo facendo tutti insieme una battaglia - dice Vittoria Baldino, capogruppo M5S in commissione Affari Costituzionali - nella convinzione che i diritti delle persone siano sempre una priorità”. La deputata è certa che, nel nuovo Movimento, ci sarà modo di confrontarsi e fare una scelta: “Tradizionalmente il M5S ha avuto diverse sensibilità, fino a quando non c’è uno spazio strutturale di elaborazione di idee il rischio è di non avere posizioni chiare su argomenti centrali, ma credo che il nuovo corso sia basato su una profondità di pensiero capace poi di elaborare una linea”, dice ancora. Per farlo, però, bisognerà prima convincere Conte. E servirà che il Pd, unito, non molli la presa. “Perché sullo Ius culturae - ragiona un ministro M5S - possiamo portare anche un vasto pezzo del centrodestra cattolico”. E insomma, volendo, i numeri si possono trovare. Margaritis Schinas: “L’Europa non può più aspettare, serve il nuovo patto sui migranti” di Monica Perosino La Stampa, 15 agosto 2021 Il vicepresidente della Commissione Ue: “Gli Stati trovino l’accordo”. E sull’utilizzo delle crisi umanitarie a fini politici: “Aggressioni ibride, l’Unione non si ricatta”. Mentre in Afghanistan si combatte ormai ovunque e l’effetto del conflitto è - ancora una volta - il peggioramento della già terribile crisi umanitaria, in Europa alcune Nazioni hanno un solo pensiero: tenere i migranti lontani dalle nostre coste e dai nostri confini. L’Austria, ad esempio, è uno dei sei Paesi dell’Ue che la scorsa settimana hanno sostenuto davanti alla Commissione europea la necessità di non interrompere i rimpatri dei profughi irregolari in Afghanistan. Tre degli altri Paesi, Danimarca, Germania e Paesi Bassi, hanno poi cambiato idea. Vienna no, Vienna mantiene i suoi piani di espulsione nonostante tutto. E intanto nell’Afghanstan al collasso, in preda alla violenza, all’insicurezza e alla paura, gli sfollati fuggono ammassandosi dove possono: sono mezzo milione i civili costretti a lasciare le loro case dall’inizio dell’anno, 250.000 dall’inizio dell’offensiva taleban, circa l’80% donne e bambini. Margaritis Schinas, vicepresidente della Commissione Ue, che già in passato aveva definito i rimpatri forzati “un fallimento”, ora ha fretta: “Quello che sta succedendo in Afghanistan ci ricorda che l’Europa non può più aspettare”. Vicepresidente Schinas, perché l’Europa ha fretta? “La crisi in Afghanistan, ma non solo, rende ancora più evidente che il momento è adesso, che è ora di mettersi d’accordo sul nuovo patto europeo sulle migrazioni”. Quali sono gli altri fattori che contribuiscono a questa urgenza? Nei mesi scorsi abbiamo visto la strumentalizzazione dei migranti e l’uso criminale dei profughi come arma ibrida in Lituania e in Polonia ad opera di Lukashenko, e in Grecia, a Ceuta e nel Mediterraneo con i trafficanti diretti a Lampedusa. L’Europa non può tollerare queste aggressioni ibride, e userà qualsiasi strumento per renderlo estremamente chiaro, a partire da sanzioni e blocchi dei benefit economici. Nessuno può ricattare l’Unione, soprattutto non può farlo usando le persone. Per questo è necessario firmare ora il patto in sospeso da settembre”. Cosa ostacola l’accordo tra i 27? “Ci sono ancora dei nodi da sciogliere, anche se siamo vicini a una soluzione. Uno dei problemi è, ad esempio, che i Paesi meno coinvolti nel fenomeno migratorio pensano che la gestione dei flussi sia un “problema” di qualcun altro, che non li riguardi, mentre invece è una questione che riguarda tutti, e per cui serve un approccio di squadra, olistico e inclusivo. La crisi in Afghanistan e le mosse di autocrati come Lukashenko però hanno dimostrato anche ai Paesi più riluttanti che la pressione ai confini Ue è una questione di tutti”. L’Agenzia Onu per i rifugiati ha chiesto alle Nazioni di non chiudere i confini per permettere ai civili in fuga di salvarsi. Una nuova crisi migratoria spinta dal crollo dell’Afghanistan è probabile? E come reagirà l’Europa? “Non abbiamo bisogno che ce lo dica l’Onu: i confini rimangono aperti a chi fugge dalla violenza e dalle persecuzioni. L’Europa sarà sempre un Paese di arrivo per i richiedenti asilo. Allo stesso tempo dobbiamo sviluppare un approccio più logico e da “Squadra Europa”. E dobbiamo essere chiari: accetteremo solo chi ha davvero bisogno di protezione, chi attraversa i confini illegalmente verrà rispedito indietro”. Com’è cambiata l’Europa rispetto alla crisi dei migranti del 2015? “Nel 2015 il dibattito era molto ideologico, spesso tossico. Non c’era equilibrio tra responsabilità e solidarietà. Ma adesso abbiamo imparato, la proposta di accordo di settembre è più bilanciata, non c’è ancora la firma sul Patto ma il tono e l’atmosfera sono diversi, ci sono segnali molto positivi. Dal 2015 in avanti abbiamo visto quanto l’Ue sia fantastica durante le crisi, quanto ne esca più forte e unita. E oggi siamo preparati meglio, i nostri confini sono stati rafforzati costantemente con uomini e attrezzature, anche quelli non “fisici”, ma che determinano l’Europa”. Gli affari dell’Italia col Marocco dietro il silenzio su Ikram di Laura Cappon Il Domani, 15 agosto 2021 Il Marocco è un partner strategico per l’Italia. Un legame consolidato e di lunga durata che acquista nuovo significato dopo l’arresto e la detenzione di Ikram Nazih. Le relazioni economiche tra Roma e Rabat hanno registrato, negli ultimi anni, una continua crescita, interrottasi solo a causa della pandemia. Gli affari potrebbero crescere a breve anche per quanto riguarda la vendita di armamenti italiani. Secondo indiscrezioni della stampa marocchina, Rabat ha manifestato l’intenzione di acquistare almeno due nuove fregate multiruolo di classe Fremm da Fincantieri. L’espressione è rassicurante. “Il Marocco è per l’Italia un Paese strategico nella regione mediterranea non soltanto a livello nazionale, ma anche europeo”. Lo dice il rapporto dell’osservatorio economico del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale che racconta gli ottimi rapporti tra Roma e Rabat. Un concetto ribadito dallo stesso ministro dell’Interno Luciana Lamorgese che lo scorso luglio, durante la sua visita ufficiale in Marocco, ha sottolineato come i due Paesi siano stretti da una “forte amicizia”. Un legame solido che acquista nuovo significato dopo il caso di Ikram Nazih, la studentessa italo-marocchina condannata a 3 anni di carcere per blasfemia. L’accusa si basa su un post su Facebook che la ragazza ha condiviso nel 2019 e che con un gioco di parole trasformava la sura coranica dell’Abbondanza in “sura del whisky”. Il caso continua a essere trattato dalle nostre autorità con molta cautela e riducendo al minimo le informazioni. Lo conferma anche la recente vicenda dell’ambasciatore italiano in Marocco, Armando Barucco, che era stato convocato dalla commissione diritti umani del Senato per il 5 agosto. La sua relazione in videoconferenza era finita in calendario ma senza la solita diretta streaming. La seduta della commissione è poi saltata ed è stata rinviata a settembre, quando i parlamentari torneranno dalla pausa estiva, perché i lavori in aula sono andati avanti a oltranza. Una partnership economica di peso - Che il caso di Ikram sia delicato lo si evince non solo dalla situazione politica marocchina ma anche dai numeri degli scambi commerciali tra Italia e Marocco. Le relazioni tra Roma e Rabat hanno, infatti, registrato negli ultimi anni una continua crescita, interrottasi solo a causa della pandemia. Nel 2020 l’Italia si è posizionata come settimo fornitore e quinto cliente del Regno, mentre fra gennaio e aprile 2021 l’interscambio fra i due paesi ha raggiunto 1,185 miliardi di euro. Tra le aziende che operano nel Paese ci sono Stellantis (ex Fiat) ed Eni che nel dicembre 2017 ha firmato con la compagnia di Stato Onhym (Office national des hydrocarbures et des mines) un nuovo accordo per l’acquisizione dei permessi esplorativi I-XII della licenza Tarfaya Offshore Shallow, all’interno della quale il cane a sei zampe opera con una quota di partecipazione del 75 per cento. I permessi riguardano un’area di 23.900 chilometri quadrati di mare sul margine atlantico e al largo delle città di Sidi Ifni, Tan Tan e Tarfaya. A marzo 2019 Eni ha ceduto il 30 per cento della sua partecipazione a Qatar Petroleum e, a valle dell’approvazione da parte delle autorità, resterà operatrice con una quota del 45 per cento. “In Marocco c’è una presenza italiana storica”, spiega Raffaele Cattedra, professore di geografia della globalizzazione all’Università di Cagliari e ricercatore con esperienza decennale in Marocco. “Sono relazioni che vanno avanti da quando il paese era ancora un protettorato francese. Allora molti italiani si trasferirono dalla Tunisia e dall’Algeria. Ma quello che unisce i due Paesi è anche la forte presenza della comunità marocchina in Italia”. Secondo il rapporto del ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, i cittadini marocchini in Italia sono 428.835 la comunità più numerosa tra i i cittadini non comunitari. Anche le loro rimesse economiche verso la madrepatria sono cospicue: nel 2019 ammontavano a circa 327,9 milioni di euro. Nel novembre del 2019, il ministro degli Esteri Luigi di Maio ha firmato con il Marocco un accordo di partenariato strategico per contrastare l’immigrazione irregolare e per facilitare gli investimenti sulla scia degli accordi che intercorrono tra Roma e Rabat dalla metà degli anni Ottanta, tra cui il primo accordo di cooperazione per la lotta contro il terrorismo, la criminalità organizzata e il traffico di droga del 1987 e il primo patto sul rimpatrio dei migranti marocchini espatriati del 1988. Al termine della sua visita a Rabat, Di Maio dichiarò che il nuovo accordo di partenariato strategico sarebbe stato “un modello e una fonte di ispirazione a livello europeo”. Infine ci sono le armi. Nel quinquennio 2016-2020 l’Italia ha autorizzato esportazioni di materiali militari verso il Marocco per circa 91,6 milioni di euro che divise per anno rappresentano poco più di 18 milioni di euro, l’1 per cento della media annuale delle nostre esportazioni complessive. Una quota che sembra marginale ma non lo è. “Si tratta di cifre che comunque destano preoccupazione”, dice Giorgio Beretta, analista Opal (Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa). “Perché dobbiamo considerare le reiterate violazioni dei diritti umani in Marocco, in particolare del popolo saharawi”. Inoltre, le vendite di armi potrebbero intensificarsi a breve. Secondo indiscrezioni della stampa marocchina, Rabat ha manifestato l’intenzione di acquistare almeno due nuove fregate multiruolo di classe Fremm da Fincantieri. La flotta marocchina dispone già di una Fremm francese, acquistata nel 2007 ed entrata in servizio nel 2011, ma ora il Regno nordafricano vorrebbe averne altre due di configurazione italiana. “È necessario che l’autorizzazione alla vendita delle fregate al Marocco venga analizzata e discussa in parlamento e non è accettabile che sia affidata solo all’esame di qualche organo dell’esecutivo o dell’autorità amministrativa che rilascia le licenze”, conclude Beretta. “L’intenzione del Regno del Marocco di rafforzare la propria influenza nel Mediterraneo incrementando la propria capacità bellica è evidente. Non è invece per niente chiaro il ruolo politico che l’Italia, assieme ad altri paesi europei, intende svolgere in questa vicenda”. Afghanistan. La notte più nera di Kabul: “Per noi è finita” di Francesca Mannocchi La Repubblica, 15 agosto 2021 I talebani alle porte della città: salta l’elettricità e scatta l’ordine di evacuazione per tutti gli stranieri. Ma gli afgani restano bloccati: non c’è possibilità di fuga per chi ha creduto in un futuro diverso. Il giallo delle dimissioni del presidente Ghani. All’alba i guerriglieri entrano a Jalalabad. Alle nove di ieri sera il rumore di aerei ed elicotteri militari ha invaso il cielo di Kabul. Mazar-i Sharif, la quarta città più importante del Paese, la porta di quel Nord su cui il governo del presidente Ashraf Ghani contava per resistere all’assalto dei talebani, è appena caduta, seguito dalla provincia di Laghman. In città dilaga la paura. Due ore dopo gli aerei militari statunitensi hanno preso di mira un gruppo di combattenti talebani che hanno condotto un attacco missilistico all’aeroporto di Kandahar Alcuni dei tremila soldati destinati ad aiutare il personale Usa nell’evacuazione d’emergenza sono già arrivati: altri lo faranno presto. Il presidente Usa Joe Biden ha annunciato che manderà 1000 marines in più rispetto al previsto per far fronte alla situazione in rapido deterioramento. Le ambasciate chiudono, lasciano il Paese. I cittadini statunitensi ricevono mail per il ponte aereo: recatevi in aeroporto ora o non potremo aiutarvi più. Lo stesso per i canadesi. Poi tocca a noi, gli italiani: “Le comunichiamo che visto il grave deterioramento delle condizioni di sicurezza viene messo a disposizione un volo dell’aereonautica militare nella giornata di domani, 15 agosto”. Ponte aereo, l’ambasciata sospende il lavoro: a Kabul resterà solo il console, per assistere i traduttori che per anni hanno aiutato i soldati italiani in Afghanistan, a cui l’Italia ha garantito assistenza per lasciare il Paese. Tutti gli altri che lo vorranno - diplomatici, personale umanitario, giornalisti - verranno evacuati con un volo militare dall’aereoporto Hamid Karzai, oggi controllato dai turchi, che hanno schierato le truppe dopo il ritiro della Nato. Alle undici la tensione sale ancora: arrivano le prime notizie dei combattimenti alle porte della capitale. I talebani hanno assaltato la prigione di Poli Chakri, nel quartiere PD12. È la prigione piu’ grande di Kabul, sarebbero entrati liberando i prigionieri come in tutte le province cadute come birilli nell’ultima settimana: la polizia non conferma, appurare quale sia la verità è difficilissimo. A mezzanotte le notizie si accumulano e si confondono. I talebani sono a tredici chilometri, i talebani sono già in città, e combattono contro le forze governative, riceviamo una chiamata dopo l’altra: difficile capire cosa è vero e cosa no. Solo la caduta di Jalalabad, l’ultima grande città che restava in mano al governo assieme alla capitale, è cosa certa: è arrivata alle prime luci del giorno di domenica, senza sparare un colpo pare. Secondo alcuni il presidente della Repubblica, Ashraf Ghani sarebbe già fuori dal Paese, prelevato da un elicottero militare americano, per altri sarebbe in viaggio per Doha, pronto alle dimissioni. Solo poche ore prima, mentre cercavamo di prevedere Shahab, il nostro collega, amico afgano, quando i talebani sarebbero arrivati in città, ha detto: “Guardati intorno per vedere se ci sono ancora le guardie presidenziali. Se ci sono, significa che c’è ancora il presidente”. Ma ce ne sono sempre meno, forse sono già scappate via, come tutti quelli che hanno trattato per mettersi in salvo. La sera, mentre gli elicotteri evacuavano lo staff statunitense, S., il nostro fixer di cui non facciamo il nome per ragioni di sicurezza, ha chiamato ogni quindici minuti, con premura che in pochi minuti si è trasformata in preoccupazione ci mette in guardia: “Non muovetevi dall’hotel, non rispondete al telefono, non aprite neanche se si qualificano come staff dell’hotel, i talebani stanno occupando avamposti e stazioni di polizia. Taglieranno la corrente. Tagliano la corrente. È finita”. Lo ripete senza piangere. Ma scandisce, è finita. Prova a dormire S., prova a dormire. Noi chiamiamo l’ambasciata e lasciamo l’hotel ma tu, prova a dormire. Dopo quindici minuti richiama. “State bene? La strada da Kabul a Jalalabad è caduta”. È la strada che porta in Pakistan. “Shahab stai bene?”. “È finita”. Comincia a mancare la corrente in intere aree della capitale quando i mezzi dell’ambasciata vengono a prelevarci, nella Green Zone. Sede del palazzo presidenziale, il governo, l’ambasciata, delle Nazioni Unite, delle organizzazioni umanitarie. Nella Green Zone sono fortificati gli hotel, le ambasciate, gli uffici consolari. Per entrare nel nostro hotel, per 15 giorni, abbiamo attraversato il controllo esterno dei soldati, quello esterno, due metal detector e altre due porte blindate. Sono blindate anche le porte delle stanze, e quelle dei bagni. È l’una e mezza quando un convoglio blindato ci scorta per qualche centinaia di metri dentro l’ambasciata italiana a Kabul. È arrivato l’ordine dal ministero: via tutti, e subito. Shahab richiama. “State bene?”. “Stiamo bene. S.. E tu?”. “Ci sentiamo tra poco, di qualsiasi cosa abbiate bisogno io sono qui”. Io sono qui, dice lui che è costretto a restare a noi che possiamo partire. Cade Kabul, insieme all’incapacità del governo di Ashraf Ghani. Cade Kabul e fuggono i signori della guerra, come Ata Mohammed Noor scappato da Herat in Uzbekistan dopo la caduta di Herat. Cade Kabul, e cadono gli afgani. Intrappolati in una guerra lampo che li ha riportati in tre mesi indietro di trent’anni. All’ambasciata italiana si chiudono valigie. ‘Non torneremo a breve” dicono tutti “povera gente”. Sono le tre e dieci, squilla il telefono. È S.. “Non abbiamo fatto in tempo a salutarci, amica mia”. “Non abbiamo fatto in tempo, no, S.. Sarà per la prossima volta, no?”. “Inshallah”. Non abbiamo fatto in tempo a bere un altro thè. Nessuno di noi pensava che quello di ieri pomeriggio sarebbe stato l’ultimo, l’ultimo per ora. L’ultimo chissà per quanto. I talebani hanno ormai praticamente tutte le strade intorno alla città. Quando arriveranno all’aeroporto di Kabul - questione di ore ormai - il Paese sarà definitivamente nelle loro mani. Significa bloccare le merci, significa soprattutto bloccare le persone. “Ci vediamo alle undici per il volo militare” ci dicono in ambasciata prima di congedarsi. Sì, torneremo a casa. Al sicuro. Due sere fa mentre tornavamo nella Green Zone dopo aver incontrato le decine di famiglie sfollate che dormono all’aperto alla periferia nord di Kabul, siamo rimasti bloccati nel traffico per due ore e mezza, poi magicamente una volta varcata la soglia del primo check point dell’area fortificata, S. mi ha detto: “Vedi, siamo arrivati nell’altra Kabul, non è la nostra, è la vostra”. E ha ragione. C’è un pezzo di città che da anni non appartiene piu’ al popolo afgano e per anni ha preteso di proteggerla. Ma era una finzione, dissolta stasera al buio del black out, dei combattimenti entrati nella capitale, della prigione assaltata. Del ponte aereo per chi può essere salvato dalla barbarie fondamentalista. “Fuori dalle loro mura fortificate la nostra vita non vale niente. Loro sono quelli che invadono e vengono evacuati, noi siamo quelli che restiamo, andiamo a lavorare la mattina, salutando sempre la nostra famiglia come se fosse l’ultima volta”. Afghanistan. Perché le truppe addestrate da Usa e alleati sono crollate così? di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 15 agosto 2021 Non si è posto un freno alla corruzione imperante che ha affamato anche i soldati afghani: tante le diserzioni. 1) Perché abbiamo fallito? La dimensione della disfatta in Afghanistan appare ancora più grave se si tiene conto che l’impegno della coalizione internazionale a guida Usa e il coinvolgimento di tutti i Paesi Nato è durato in modo continuativo per un ventennio: come quattro Seconde guerre mondiali. Ed è giunto dieci anni fa a contare oltre 130.000 soldati di ben 51 contingenti. Oltre a centinaia di ong che hanno operato per aiutare la società civile in ogni campo. Il fallimento dunque è dell’intera coalizione in tutti i suoi aspetti. 2) Quali gli errori militari? Il primo grave fu la scelta di attaccare l’Iraq di Saddam Hussein nel marzo 2003. Così, meno di due anni dopo la defenestrazione dei talebani, l’attenzione americana e del mondo si spostò sull’Iraq. L’Afghanistan, ancora debole e bisognoso di aiuti, venne dimenticato, dando ai talebani lo spazio per riorganizzarsi, anche grazie al contributo pachistano. 3) Come funzionò la coalizione alleata? Male, sin dall’inizio. Gli americani, assieme agli inglesi, insistettero sull’aspetto “combat”, gli europei, con in testa Italia e Germania, su quello “peacekeeping”. Ne risultò un meccanismo inceppato e poco coordinato. Ne ha scritto un articolo molto secco di recente anche il settimanale tedesco Der Spiegel: di fatto tutti i contingenti, tranne quello britannico, ricorrevano di continuo agli americani (specie all’aviazione) per difendersi dagli attacchi. L’ambiguità della copertura della “missione di pace”, utilizzata dai governi europei per spiegare la scelta dell’invio di soldati in Afghanistan alle proprie opinioni pubbliche, ha impedito azioni efficaci e tempestive in un teatro che era spesso di guerra. 4) Ma come è stata possibile la débâcle delle truppe afghane? Si replica oggi a Kabul lo scenario del fallimento iracheno di fronte a Isis vittorioso a Mosul nel 2014. Non si è posto un freno alla corruzione imperante. I programmi di addestramento sono proseguiti ben sapendo che le diserzioni erano in crescita e i comandanti spesso si intascavano le paghe dei soldati. Sulla carta si parlava di 350.000 effettivi, in realtà erano meno di 100.000. La loro aviazione dipende dai contractor occidentali per la manutenzione e l’armamento. Partiti loro, gli aerei non volano quasi più. 5) E che responsabilità hanno le ong? Alcune hanno agito molto bene e sono utilissime. Ma tante sono arrivate nel Paese con programmi confusi, non coordinati tra loro e soprattutto con personale non specializzato che si è ritrovato a gestire somme ingenti per programmi ambiziosi. Al meglio fu lo spreco di miliardi, al peggio andò ad alimentare la corruzione. C’è stata una forma evidente di “colonialismo culturale”, di valori imposti dall’alto. L’emancipazione delle donne ha sollevato vasta ostilità in questa società profondamente tradizionalista e conservatrice, specie per il fatto che non veniva da loro, ma era importata dai nuovi arrivati. Tanti afghani, anche a Kabul, hanno iniziato a criticare l’apertura di bar e ristoranti dove si consumava alcool. Il governo Karzai dovette intervenire per espellere le prostitute cinesi. Altro tema di critica fu l’aumento dei prezzi delle case nei quartieri del centro. Gli affitti pagati dagli stranieri fecero lievitare i prezzi, di fatto allontanando la vecchia classe media afghana. 6) Un esempio di spreco italiano? La riforma del sistema giudiziario afghano. All’Italia fu dato il ruolo di “Paese guida” in questo campo sin dal 2002. Per anni e anni i nostri esperti si avvicendarono per stilare i codici locali. “Non funziona nulla. Noi veniamo qui per brevi periodi, pochi mesi, solo il tempo di cominciare a capire e poi veniamo sostituiti da altri, che a loro volta devono studiare i dossier da capo. Inutile dire che le nostre proposte sono lettera morta. Tutti soldi e sforzi sprecati”, ci disse già nel 2013 un giudice inviato da Roma. Ora, con i talebani al potere, del poco che era stato adottato rimarrà nulla. Afghanistan. Talebani, sempre più vicini a Kabul. Ghani: difendiamoci di Giuliano Battiston Il Manifesto, 15 agosto 2021 Il presidente afghano parla alla nazione, annuncia “consultazioni” con i paesi stranieri e la volontà di fermare l’esodo dei civili. Dopo essersi presi il Nord, il Sud e l’Ovest del Paese, ora i Talebani conquistano anche importanti porzioni di territorio nell’Est dell’Afghanistan. E si avvicinano progressivamente a Kabul, bottino politico principale. È qui che il presidente Ashraf Ghani, 25 anni negli Usa tra prestigiose università e Banca mondiale, fatica a riconoscere il fallimento del progetto in cui ha a lungo creduto, una volta tornato in Afghanistan. Rettore dell’università di Kabul, ministro delle Finanze, poi responsabile nel 2013/14 della transizione della sicurezza dagli stranieri agli afghani, autore di saggi accademici su come ricostruire gli Stati falliti, di fronte al presidente della Repubblica islamica si sgretola lo Stato afghano, foraggiato per venti anni con risorse superiori alla capacità di assorbimento dei canali istituzionali. Risorse finite perlopiù in corruzione. I Talebani controllano oggi 21 dei 34 capoluoghi di provincia e si avvicinano progressivamente a Kabul, ultimo obiettivo dell’offensiva militare iniziata a metà aprile, quando il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha confermato il ritiro incondizionato dall’Afghanistan, che si concluderà il 31 agosto. Il vero obiettivo dei Talebani è Kabul. Sono tre gli scenari più plausibili: un lento strangolamento, frutto dell’accerchiamento, dell’interruzione delle linee di rifornimento verso la capitale; la spallata militare, che però comporterebbe una guerriglia urbana particolarmente sanguinosa, in una città da 6 milioni di abitanti e così densamente popolata. Oppure la progressiva cooptazione di singoli leader politici, che potrebbe già essere avvenuta, in parte. Sono mesi che i Talebani negoziano in modo bilaterale con i principali attori e gruppi politici, per portare dalla propria parte i più pragmatisti e alimentare le divisioni del fronte governativo. Una strategia che mira alle dimissioni del presidente Ghani e alla formazione di un governo a interim, di transizione, in carica il tempo necessario per trovare la nuova formula politico-istituzionale di compromesso. Nel discorso di ieri alla nazione, il primo da quando, due settimane fa, è cominciata l’offensiva militare dei Talebani sulle città, Ghani ha sostenuto che il suo compito è quello di rimobilitare le forze di sicurezza, evitare ulteriore instabilità e occuparsi della grave crisi umanitaria in corso. Non si è ancora dimesso, ma è la prima volta che allude a questa possibilità, fin qui derubricata come un cedimento delle stesse istituzioni repubblicane, che immagina di rappresentare. L’ipotesi di un governo a interim non è nuova: se ne parla da più due anni. Washington voleva infatti evitare le elezioni presidenziali del settembre 2019, in favore di una simile soluzione. Ma Ghani ha insistito, con l’idea di sedersi poi al tavolo negoziale con i Talebani da una posizione di forza. È andata diversamente: le elezioni sono state disastrose, viziate da brogli, contestazioni e da un dissidio fortissimo tra i due principali sfidanti, Ghani e Abdullah Abdullah, l’uomo che oggi, come capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, ha il compito di strappare ai Talebani qualche residua concessione, a Doha. Se soltanto tre mesi fa i Talebani non potevano rivendicare più del 40 per cento del potere, oggi dettano le regole della partita. La vicenda di Ismail Khan aiuta a capire cosa potrebbe succedere nel futuro prossimo. Il signore della guerra, tra i mujaheddin protagonisti della guerra contro l’occupazione sovietica negli anni Ottanta, poi governatore della provincia di Herat, è stato fondamentale nel mobilitare e organizzare le milizie anti-talebane nei giorni scorsi. Catturato infine dai Talebani, ora il suo volto e i suoi audio vengono usati dalla propaganda degli studenti coranici per dimostrare che un compromesso si può trovare, perfino con i più acerrimi nemici. Si vedrà nei prossimi giorni se questa strategia di cooptazione avrà successo. Per ora, Ghani pensa a proteggere la capitale, da dove partono in tutta fretta i diplomatici stranieri. La sicurezza nella provincia è ora nelle mani del tenente generale Sami Sadat, che nelle scorse settimane ha provato inutilmente a fermare i Talebani a Lashkargah e Kandahar. Kabul dovrebbe tenere più a lungo, ma le pressioni arrivano da ogni direzione. Anche dall’est, dove i Talebani hanno conquistato le province di Paktia e Kunar. L’est è l’ultima zona di conquista dei militanti islamisti. Non è un caso: qui alle ultime elezioni presidenziali Ghani ha ottenuto i voti maggiori. Comunque pochi: su 35 milioni di abitanti, ha raccolto in totale poco più di 1 milione di voti. Il confine orientale è anche l’area in cui Islamabad non vuole troppi problemi. Zona di traffici transfrontalieri, di commerci leciti e illeciti, di qua e di là della Durand Line - il confine stabilito a tavolino alla fine dell’Ottocento e mai accettato dall’Afghanistan - ci sono campi di addestramento di jihadisti. Con la conquista del potere da parte dei Talebani in Afghanistan, Islamabad - tradizionale sponsor e alleato degli studenti coranici - incassa un indubbio successo politico, anche se Washington si aspettava che il Paese dei puri convincesse i Talebani a negoziare davvero, non a capitalizzare militarmente le ingenuità diplomatiche dell’inviato di Trump e poi di Biden, Zalmay Khalilzad. Islamabad sa che il rapporto con Washington è importante ma sa anche che, con il ritiro delle truppe, saltano gli equilibri regionali: ora conta più Pechino che Washington, nell’area. Allo stesso tempo, il Pakistan sa che quella dei Talebani potrebbe rivelarsi una vittoria controproducente, se il loro successo alimentasse le spinte anti-governative dei Talebani pachistani e degli altri gruppi che contestano il primo ministro Imran Khan. Che pochi giorni fa è tornato a farsi megafono della posizione dei Talebani: fino a quando ci sarà Ghani al potere, nessun compromesso è possibile. Il tecnocrate-presidente dovrà prendere una difficile decisione, nelle prossime ore, proprio alla vigilia del giorno dell’indipendenza dagli inglesi conquistata nell’agosto 1919 da re Amanullah Khan.