“Il nostro viaggio nell’inferno: così il carcere annulla la dignità” di Simona Musco Il Dubbio, 14 agosto 2021 Anche quest’anno, come ogni anno, il Partito Radicale si recherà il 15 agosto nelle carceri per verificare le condizioni di detenzione, nel nome di Marco Pannella. Visite che, a volte, rappresentano veri e propri viaggi nell’inferno, in luoghi dove gli uomini vengono spogliati non solo fisicamente, ma anche della loro dignità. Spesso ancor prima di sapere se ci si trova di fronte a degli innocenti o a dei colpevoli. Chiunque sia passato da un carcere ne parla a fatica, come un incubo da cancellare al più presto. Ma spesso quell’esperienza rimane attaccata addosso come una cicatrice, un marchio indelebile che è impossibile lavare via. Non importa se si è innocenti o colpevoli: il carcere è uguale per tutti e non fa distinzioni. E spesso annulla ogni diritto, ogni scampolo di rispetto, tradendo il fine rieducativo della pena. Le manganellate, i calci e i pugni sferrati a Santa Maria Capua Vetere, dove centinaia di detenuti sono stati massacrati, sono solo un esempio. Ma anche quando non c’è violenza fisica, il dolore è insopportabile. L’ultimo a raccontarlo al Dubbio è stato Marco Sorbara, ex consigliere regionale della Valle d’Aosta, rimasto in carcere 214 giorni e altri 695 ai domiciliari con l’accusa di concorso esterno. Un’esperienza “devastante”, ha spiegato, che continua a rivivere anche ora che è stato assolto perché il fatto non sussiste. “Ho pregato tutti i giorni, dovevo aggrapparmi a qualcosa - ha raccontato. Di fronte al carcere di Biella vedevo il Santuario di Oropa, dedicato alla Madonna Nera. Due giorni dopo l’assoluzione ho provato ad andarci in macchina. Beh, quando ho superato il carcere me la sono fatta addosso dalla paura, quella paura che mi era rimasta dentro. Non per aver commesso qualcosa, ma per quello che avevo vissuto”. Il suo racconto è terribile, a partire dai 45 giorni passati in isolamento, in una cella grande “cinque passi per quattro”. Senza vedere la famiglia per 33 giorni e convinto, dunque, che non volessero più avere a che fare con lui. Per lavarsi poteva contare solo sull’acqua fredda, senza radio per distrarsi e una tv non funzionante. Per dormire un letto in ferro con un materasso sottilissimo, tutto ciò che aveva per combattere il gelo insopportabile di quella cella. “Avevo talmente freddo che quando veniva mio fratello gli mettevo le mani sulla pancia per riscaldarmi”, ha spiegato. Una sofferenza tale da pensare anche al suicidio: “Dopo due settimane ho preparato una treccia col lenzuolo, ho visto che reggeva e mi sono detto: durante la notte mi appendo. Perché non aveva più senso la mia vita”. Per un innocente, ha sottolineato Sorbara, “anche un’ora in più in carcere è devastante. Ho sentito fisicamente quella violenza e ancora oggi sento il bisogno di farmi la doccia per togliermi quella sensazione di dosso”. Come Sorbara, anche Domenico Forgione ha trascorso sette mesi in carcere prima che una semplice perizia fonica provasse che la persona intercettata non era lui. Forgione, storico calabrese, è stato scarcerato lo scorso 16 settembre, dopo essere finito in cella a febbraio con l’accusa di associazione a delinquere. Dopo l’arresto nel cuore della notte, alle 13.30 è stato portato nel carcere di Palmi: “La perquisizione personale, l’obbligo di dovermi spogliare completamente davanti a due sconosciuti che mi fanno accovacciare: non ho mai subito un’umiliazione più forte”, ha sottolineato. A maggio Forgione è stato trasferito a Santa Maria Capua Vetere, un vero e proprio girone dell’inferno. “L’acqua delle docce era marrone - ha raccontato al Dubbio -. Ho avuto prurito alla pelle per due mesi dopo la scarcerazione. E nei tre mesi che sono stato lì ci sono stati un suicidio e due tentati suicidi. Tra i comuni, non nell’alta sicurezza, dove mi trovavo io. La spazzatura arrivava alle finestre delle celle e vivevamo in mezzo ad un puzzo terribile. Quando sei lì dentro - ha evidenziato - sei un delinquente e le guardie te lo fanno notare. Una mi disse: “si chiama Forgione, come padre Pio. Solo che lui faceva miracoli, lei fa danni”. Una cosa umiliante. Il carcere è un posto dove viene annullata la dignità: non ha idea di quante persone, per reggere la vita lì dentro, prendono tranquillanti”. E se sette mesi sono troppi, figuriamoci quanto possano essere lunghi 20 anni. Angelo Massaro li ha trascorsi in cella anche lui da innocente, per un errore di traduzione dal dialetto pugliese all’italiano. Non aveva ammazzato nessuno, ma per capirlo ci hanno messo quasi un quarto di secolo. Dal 15 maggio 1996, data del suo arresto, è stato detenuto in sette carceri: Taranto, Lecce, Foggia, Rossano Calabro, Carinola, Melfi e infine Catanzaro, dove si è svolto anche il processo di revisione. In tre istituti l’acqua corrente nelle docce e nelle celle era solo fredda tutto l’anno, lo stato delle strutture “da terzo mondo”. Ma la cosa peggiore è stata il distacco dalla famiglia. L’ordinamento penitenziario prevede che questo non avvenga, ma “per nove anni non l’ho mai vista. Non potevano venirmi a trovare per problemi economici e l’unico contatto era un colloquio telefonico alla settimana, per 10 minuti. Immagini 10 minuti ogni sette giorni: 180 minuti per ogni figlio, 120 minuti con mia madre e 120 con mia moglie. Questo, secondo il ministero della Giustizia, significa mantenere gli affetti familiari”. La vita in carcere è stata durissima: “Più chiedevo il rispetto dei miei diritti anche carcerari, più ero considerato un detenuto problematico”. In cella Rocco Femia, ex sindaco di Marina di Gioiosa, in provincia di Reggio Calabria, ci è rimasto invece cinque anni e 9 giorni. Da innocente anche lui, secondo l’appello bis celebrato a Reggio Calabria e chiusosi a marzo scorso con un’assoluzione perché il fatto non sussiste. La prima volta di Femia in cella è stata a Reggio Calabria, “un cunicolo con 4 letti a castello, con cemento grezzo a terra, scarafaggi e topi che ci passavano sulla testa mentre dormivamo. Dopo pochi giorni è venuto a farci visita il ministro della Giustizia di allora e gli ho detto tutto. Così sono stato trasferito a Palermo”. Lì i detenuti subivano continui controlli notturni dalla polizia penitenziaria, che duravano circa un’ora, “senza nessun riguardo per il nostro corredo: salivano sui letti con gli stivali, buttavano tutto giù e ci toccava rimettere tutto a posto. La battitura era continua ed è un rumore che mi è rimasto in testa”. Vibo Valentia, ha spiegato poi, “è un lager”. Per Antonio Caridi, ex senatore del Pdl, il carcere è stato una parentesi lunga invece 18 mesi. Accusato di associazione mafiosa, l’ex politico è stato assolto pochi giorni fa perché il fatto non sussiste. Ma quell’esperienza lo ha segnato per sempre. “Il carcere rappresenta la civiltà di un Paese - ha raccontato al Dubbio. E siamo un Paese incivile. Vivevo con cinque persone dentro cinque metri quadrati, con il bagno turco e senza docce. Ventidue ore al giorno chiuso in cella. Subito dopo essere uscito dal Senato ed essermi consegnato mi sono ritrovato in isolamento, in una cella due metri per due, senza prendere aria e con cibo inesistente. E questo per otto giorni. In 18 mesi ho sentito la mia famiglia due volte al mese e l’ho incontrata quattro ore al mese. Questo è il carcere, un posto dove non hai i servizi igienici e i riscaldamenti. E fuori è uguale: quando si manda in carcere una persona senza una prova per la stampa si è subito colpevoli. Vieni trattato come un criminale. La politica abbia il coraggio di riflettere su questo”. Camere penali e Partito Radicale in visita nelle carceri: il calendario completo Il Dubbio, 14 agosto 2021 Dal 27 luglio i penalisti di tutta Italia conducono una capillare verifica negli istituti di pena, anche per capire fino a che punto il caldo torrido è inflitto ai detenuti come tortura. “Missioni” anche oggi, a ferragosto e per tutto il mese. Domenica previste pure le conferenze stampa del Partito radicale, quest’anno davanti ai penitenziari di Reggio Calabria e Alghero. Nelle carceri a Ferragosto, nelle ore in cui il caldo è insopportabile come mai da un secolo, ci saranno solo i radicali e gli avvocati dell’Unione Camere penali. Solo loro, come quasi sempre, hanno programmato un calendario di visite negli istituti di pena. Il Partito radicale ha previsto di intrecciare l’atto di vicinanza a detenuti e personale penitenziario con la campagna referendaria sulla giustizia. Così nella domenica di ferragosto, alle 11, il segretario Maurizio Turco terrà una conferenza stampa sui quesiti a Reggio Calabria, davanti alla casa circondariale Arghillà. La tesoriera Irene Testa, alla stessa ora, ne terrà una dinanzi al carcere di Alghero. Già da ieri Testa è in Sardegna con Giacomo Melilla e un’ampia delegazione di militanti e iscritti per la raccolta firme. I penalisti sfidano l’indifferenza e Lucifero - “Lucifero non ferma le Camere penali”, si legge nella nota diffusa oggi dall’Osservatorio carcere dell’Ucpi, che a propria volta prosegue in queste ore le visite negli istituti di pena in corso dal 27 luglio. “Molti avvocati sono entrati ed entreranno nelle carceri per conoscerne le condizioni di vivibilità e verificare quali rimedi sono stati adottati per fronteggiare l’ondata di caldo eccezionale che attraversa il Paese”, si legge nel comunicato. Oggi la Camera penale di Roma è stata a Regina Coeli, e negli istituti delle rispettive città hanno fatto visita i penalisti di Tempio Pausania, Cagliari e Reggio Calabria. Anche a Ferragosto ci saranno visite delle rispettive Camere penali a Milano, Verona, Bellizzi (per la Camera penale Irpinia), Cosenza, Paola, Catanzaro e Fermo, ricorda l’Osservatorio Ucpi, che diffonde l’elenco delle ulteriori tappe previste da lunedì fino al 30 agosto e che “elaborerà un documento finale sull’iniziativa che sarà inviato al ministro della Giustizia”. Di seguito la lunga lista delle carceri in cui le Camere penali sono già entrate ed entreranno per verificare le condizioni dei detenuti. Ecco le visite nelle carceri già compiute dalle Camere penali: Camera Penale di Firenze, 27 luglio, casa circondariale di Sollicciano; Camera penale di Torino, 2 agosto, casa circondariale “Lorusso e Cotugno” di Torino; Camera penale di Firenze, 3 agosto, casa circondariale di Sollicciano; Camera penale di Prato, 9 agosto, casa circondariale di Prato; Camera penale di Palermo, 10 agosto, casa circondariale “Antonio. Lorusso” di Palermo; Camera penale di Siena, 10 agosto, casa circondariale di Siena; Camera penale di Sassari, 12 agosto, casa di reclusione “Giuseppe Tomasiello” di Alghero; Camera penale di Taranto, 12 agosto, casa circondariale di Taranto. Camera penale di Roma, 13 agosto, casa circondariale di Regina Coeli; Camera penale di Tempio Pausania, 13 agosto, casa circondariale “Paolo Pittalis” di Tempio Pausania; Camera penale di Cagliari, 13 agosto, casa circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari; Camera penale di Reggio Calabria, 13 agosto, casa circondariale Arghillà di Reggio Calabria. E quelle in programma da ferragosto a fine mese: Camera Penale Irpina, 15 agosto, casa circondariale “Antimo Graziano” di Bellizzi Irpino; Camera Penale di Cosenza, 15 agosto, casa circondariale “ Sergio Cosmai”, di Cosenza; Camera Penale di Verona, 15 agosto, casa circondariale di Verona; Camera Penale di Paola, 15 agosto, casa circondariale di Paola; Camera Penale di Catanzaro, 15 agosto, casa circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro; Camera Penale di Fermo, 15 agosto, casa circondariale di Fermo; Camera Penale di Milano, 15 agosto, casa circondariale San Vittore di Milano; Camera penale Friulana di Udine, 16 agosto, Casa Circondariale di Udine e 17 agosto Casa Circondariale di Tolmezzo; Camere Penali di Napoli Nord, Nola e Santa Maria Capua Vetere, 17 agosto, casa circondariale “F. Uccella” di S. Maria Capua Vetere; Camera Penale di Latina, 17 agosto, casa circondariale di Latina; Camera Penale distrettuale della Basilicata, 18 agosto, casa circondariale di Potenza; Camera Penale di Siena, 18 agosto, casa circondariale di San Gimignano; Camera Penale di Parma, 19 agosto, istituto penitenziario di Parma; Camera Penale Irpina, 19 agosto, casa circondariale di Ariano Irpino; Camera Penale di Pisa, 20 agosto, casa circondariale di Pisa; Camera Penale di Trieste, 26 agosto, casa circondariale “Ernesto Mari “ di Trieste; Camera Penale di Reggio Emilia, 30 agosto, casa circondariale di Reggio Emilia; Camera Penale di Alessandria, 31 agosto, casa circondariale “Cantiello e Gaeta” di Alessandria. Gherardo Colombo: “Nelle prigioni vince la legge del taglione” di Errico Novi Il Dubbio, 14 agosto 2021 “Siamo il paese di Beccaria. Di più, siamo il paese in cui uno Stato, per primo al mondo, ha abolito la pena di morte: il Granducato di Toscana. Aggiungo: abbiamo una Costituzione che non solo prescrive l’umanità della pena e il suo fine rieducativo, ma che ricorre al verbo “punire” in una e una sola circostanza: all’articolo 13, quando si prevede che venga appunto punito chi compie violenza sulle persone private della libertà. Eppure...”. Eppure Gherardo Colombo vorrebbe aver già compiuto la propria missione di magistrato e intellettuale col contributo offerto in libri come Il legno storto della Giustizia, o nella commissione ministeriale incaricata da Orlando di scrivere i decreti attuativi della riforma penitenziaria. “La commissione Giostra”, ricorda con orgoglio il pm scolpito nell’immaginario innanzitutto per l’attività nel pool di Mani pulite. Eppure, Dottor Colombo, siamo a ferragosto, con punte di 48 gradi e restiamo indifferenti alla tortura inflitta ad alcune decine di migliaia di persone costrette in celle sovraffollate... Sovraffollate innanzitutto, e non di rado prive di acqua, di aria, di umanità. E per quanti altri ferragosto dovremo assistere alla tortura? Le dicevo di Beccaria, della Costituzione, del primato nell’abolizione delle esecuzioni capitali, eppure permane un’idea da legge del taglione. Cosa intende dire? C’è prima un’altra considerazione da fare: siamo un paese in cui la cultura di un certo cattolicesimo è radicata. Lo è anche in Spagna, dove la cosiddetta affettività in carcere, ad esempio, è prevista senza scandali. Da noi la politica ha preferito non parlarne. E il testo del decreto che scrivemmo quattro anni fa è rimasto nel cassetto. Siamo un Paese per vari aspetti all’avanguardia nella legislazione carceraria: fosse applicato alla lettera, il nostro ordinamento penitenziario, che pur ha bisogno di tanti miglioramenti, consentirebbe di avere nelle carceri condizioni quasi dignitose. Eppure la cultura del taglione, così diffusa da noi, fa sì che la prassi, quel che succede per davvero, sia spesso lontana dal dettato della legge. Peraltro mi chiedo se ciò non dipenda dall’aver esteso a ogni possibile reato il livello del contrasto che il cittadino comune ritiene necessario per il fenomeno mafioso. Lei dice che la disumanità al limite della tortura è una paradossale generalizzazione delle misure antimafia? La criminalità organizzata rappresenta un fatto che distingue l’Italia dagli altri paesi. Senza arrivare a quelli scandinavi, basta andare in Francia o in Svizzera per trovare condizioni detentive per tanti versi migliori delle nostre. La mafia è un’organizzazione con capacità criminose eccezionali, e si è ritenuto servissero misure straordinarie per contrastarla: si è probabilmente radicata nel nostro paese la convinzione che si debba replicare a qualsiasi devianza con la stessa durezza adottata contro la mafia. D’altra parte ci sarebbe da dire anche sul trattamento riservato ai condannati per reati di mafia. Da decenni i Radicali ricordano che alle atrocità del crimine organizzato non può rispondere la “terribilità” dello Stato... È un’affermazione che mi trova d’accordo. Sono altre le risposte efficaci. L’educazione, innanzitutto. Don Puglisi fu ucciso dalla mafia non perché mettesse in galera gli affiliati ma perché cercava di indicare ai ragazzi la possibilità di una vita diversa, e tante volte ci riusciva. È già finita l’indignazione per Santa Maria Capua Vetere? È tornata a prevalere la cultura generale di questo paese, come sempre: chi ha fatto il male deve soffrire il male, dev’essere perseguito con il male. Nella nostra cultura l’empatia è in via di estinzione? Non so se sia mai esistita. Anzi, forse negli ultimi lustri abbiamo assistito a un progressivo miglioramento almeno nel campo della legislazione penitenziaria. Le dicevo dello scarto fra il testo dell’ordinamento del 1975 e la sua applicazione: di sicuro sul piano normativo ci sono stati passi avanti nella risposta alla trasgressione e alla devianza. Credo ci si possa attendere risultati positivi da alcune delle norme contenute nella riforma appena votata alla Camera. Mi aspetto molto dall’estensione della messa alla prova. Poi però c’è sempre un’ancora che trattiene, e che ci riporta al male da pagare col male. E non mi riferisco solo ad alcuni aspetti critici dello steso ordinamento penitenziario, come il regime del 41 bis o le ostatività dell’articolo 4 bis. La cattiva prassi che tradisce le buone norme sconta la carenza di strutture? Però l’insufficienza delle strutture dipende anch’essa da qualcosa, da una mancata scelta o da una scelta sbagliata. Le strutture, se mancano, si fanno. Anche se per la vera soluzione occorrerebbe soprattutto altro. Cosa esattamente? Si deve drasticamente ridurre la popolazione ristretta. E in tempi brevi può avvenire solo con modifiche normative strutturali in grado di diminuire gli ingressi e aumentare le uscite. Pensa anche all’indulto? Non si tratta di una misura strutturale: indulto e amnistia servono nei casi in cui la drammaticità della situazione è così avanti da non poter intervenire tempestivamente, ma hanno il limite di non consentire un percorso trattamentale, in grado di reinserire le persone di nuovo nella società, e di non agire sulle cause che generano i problemi di cui stiamo parlando. Gli interventi strutturali riguardano la qualità della vita in carcere, l’efficacia delle misure per il reinserimento, che contribuiscono a diminuire la recidiva, e quindi il numero degli ingressi. Pensare a interventi strutturali vuol dire anche preoccuparsi della formazione, ciò che serve affinché, usciti dal carcere, ci si possa reinserire nel mondo del lavoro. Occorrerebbe renderla appetibile, prevedendo che sia remunerata tanto quanto il lavoro. Con la Cassa delle Ammende stiamo facendo il possibile perché la formazione sia promossa ma, ripeto, è necessario si preveda che chi si forma sia retribuito come chi lavora. C’è poi una convinzione che non ho perso e che resta irrisolta ormai da diversi anni, da quando ce ne occupammo prima agli Stati generali per l’esecuzione penale e poi con la commissione Giostra. La necessità di estendere le misure alternative? Sì, anche attraverso l’eliminazione degli automatismi e delle preclusioni negative nell’accesso alle misure alternative al carcere. Insomma, l’impianto che parte culturalmente da un presupposto: la pena non è solo il carcere. Nel 2018 la politica lasciò prevalere l’equazione “a chi fa il male va inflitto il male”... Si dovrebbe decidere caso per caso, e certo vuol dire un lavoro più faticoso, più complesso e per certi versi più rischioso. Ma si attribuirebbe alla magistratura di sorveglianza l’autorevolezza che le serve per svolgere il proprio lavoro. Non si può fare a meno di notare che tra gli stessi magistrati la figura del giudice di sorveglianza sia considerata un po’ di serie B, come se occuparsi di garantire i diritti dei condannati non fosse una funzione rilevante, ma una modesta e burocratica attività di amministrazione. E invece la garanzia dei diritti di chi sta scontando la pena, compresi tra questi quello di non scontarla in carcere, è fondamentale per il recupero di chi ha trasgredito. Ai tribunali di sorveglianza servirebbero risorse adeguate al compito. Un “Ufficio del processo” anche lì? Mi pare che il Recovery non preveda la creazione dell’ufficio del processo nella Sorveglianza. Dipende dal fatto che l’Europa non la comprende, ma bisognerebbe reperire le risorse altrove. Forse se ne potrebbero trovare un po’ nelle pieghe delle dotazioni dell’amministrazione della Giustizia. Ma allora quanto tempo ci vorrà perché il caldo d’agosto smetta di essere l’acme della tortura nelle carceri? Vede, io credo che se si recuperassero alcuni princìpi della matematica, della fisica e della logica i tempi si accorcerebbero significativamente. Cioè? In matematica è chiaro che uno più uno non fa zero ma due: se a un male commesso io aggiungo il male della punizione non elimino il male, lo raddoppio. E ci sono la fisica e la logica: il principio di causalità, per esempio. Mi riferisco ancora alla recidiva, alla tendenza a compiere nuovi reati che si accentua quanto peggiori sono state le condizioni detentive, e diventa molto inferiore se la condanna è scontata in misure alternative al carcere. Possiamo dire che il carcere che non garantisce dignità è causa dell’aumento della recidiva, e quindi della popolazione detenuta. Ecco, basterebbero la matematica, la fisica e la logica. Siamo il paese della Ragione, di Beccaria? Dovremmo esserlo, eppure... però sono convinto che la nuova amministrazione compirà passi importanti verso un carcere davvero rispettoso della Costituzione, come mi sembra stia già facendo, nei limiti consentiti dalla complessa composizione della compagine governativa. Sabino Cassese: “Bene Cartabia, ora tocca al potere dei pm” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 14 agosto 2021 “Questo è accaduto da quando l’indipendenza è stata intesa come autogoverno. La riforma Cartabia ha puntato alla funzione principale della giustizia: rendere sollecita la risoluzione dei conflitti”. Un Sabino Cassese a tutto campo, che promuove la riforma della giustizia: “Cartabia - spiega - ha puntato alla funzione principale della giustizia, che è quella di rendere sollecita la risoluzione dei conflitti. Basta ricordare che vi sono sei milioni di questioni pendenti davanti ai giudici civili e penali. Per completare il processo di riforma, occorre ridefinire quel vero e proprio quinto potere che è costituito dalle procure, ridare al Csm la funzione che ad esso era attribuita dalla Costituzione, ripristinare il rispetto della Costituzione per quanto riguarda l’indipendenza dell’ordine giudiziario. Il sistema ha deviato dal tracciato costituzionale da quando l’indipendenza è stata intesa come autogoverno”. La riforma della giustizia non si risolve solo con la riforma Cartabia. Professor Cassese, dall’alto della sua indiscutibile esperienza, quali sono i punti centrali di una organica spinta riformatrice in questo delicato campo? “La riforma Cartabia ha puntato giustamente alla funzione principale della giustizia, che è quella di rendere sollecita la risoluzione dei conflitti. Basta ricordare che vi sono sei milioni di questioni pendenti davanti ai giudici civili e penali. La riforma, inoltre, ha avviato la definizione dei tempi e dei modi per lo svolgimento della funzione requirente, di accusa. Per completare il processo di riforma, occorre ridefinire quel vero e proprio quinto potere che è costituito dalle procure, ridare al Consiglio superiore della magistratura la funzione che ad esso era attribuita dalla Costituzione, ripristinare il rispetto della Costituzione per quanto riguarda l’indipendenza dell’ordine giudiziario”. Non crede che in questi anni la politica abbia subito, o fomentato, una “Invasione di campo” da parte di una magistratura sempre più correntizzata che ha inteso autonomia e indipendenza come intoccabilità assoluta? “Il sistema ha deviato dal tracciato costituzionale da quando l’indipendenza è stata intesa come autogoverno, i magistrati non hanno abbandonato il ministero della giustizia (che è l’organo incaricato dell’organizzazione del funzionamento della giustizia e fa parte del potere esecutivo), si è avviata una politica malthusiana di gestione del personale di magistratura (dettata da un motivo corretto e da uno sbagliata quello corretto, di assicurare un’accurata selezione del personale di magistratura; quello sbagliato di salvaguardare i trattamenti economici nettamente privilegiati dei magistrati, se comparati a quelli del restante personale pubblico)”. Allargando l’orizzonte. Siamo entrati nel semestre bianco. Non c’è il rischio che si dia inizio ad una logorante guerra di posizionamento in vista delle elezioni del 2023? “Il pericolo c’è, ma non deriva tanto dal semestre bianco, bensì dalla povertà della politica, che si è ormai ridotta a slogan, non è più nelle mani di partiti politici ma di leader di forze dette politiche, è incapace di formulare programmi, e, stimolata dalla fluidità dell’elettorato, cerca esclusivamente di coltivare elementi identitari fili piantare bandierine, come si suoi dire)”. C’è chi vuole, per ragioni e finalità diverse, Mario Draghi al Quirinale. Ma i12022 è un anno cruciale per la realizzazione di quei progetti strutturali finanziati dal Recovery funti europeo, fondamentali per il rilancio dell’economia. E visto che l’Italia non è una repubblica presidenziale, le decisioni si prendono a Palazzo Chigi piuttosto che al Quirinale. Come la vede in proposito? “Partiamo dai dati. L’Italia ha oggi il suo sessantasettesimo governo, mentre la Germania, nello stesso periodo di tempo, ne ha avuti 25.1 presidenti del Consiglio dei ministri italiani sono stati 30, mentre i Cancellieri tedeschi, nello stesso lasso di tempo, sono stati 9. Non appena si chiuderà la crisi sanitaria, si aprirà la crisi finanziaria. Anche se si allentano i vincoli europei. resteranno sempre determinanti quelli dei mercati, su cui un Paese finanziariamente debole come l’Italia si muove con molta difficoltà. L’Italia ha bisogno, per un periodo anche più lungo di questa legislatura. di un capo dell’esecutivo che, anche senza essere una guida, sia un orchestratore, come certamente è l’attuale presidente del Consiglio dei ministri. La varietà dei rapporti che deve mantenere e la molteplicità dei problemi che deve affrontare, oggi, un capo dell’esecutivo sono enormi. Pensi soltanto alla verticalizzazione del potere prodotta dalla moltiplicazione delle istanze globali ed estere e dall’aumento del numero delle organizzazioni internazionali e multinazionali e pensi alla complessità dello Stato arcipelago, frammentato, per rendersi conto della necessità di un’azione di coordinamento che richiede capacità superiori a quelle dei nostri politici. Questi non vanno, per lo più, oltre qualche intuizione. Penso, per usare una metafora, all’attività del capo del governo come a quella di un organista chiamato a suonare un organo come l’organo maggiore della chiesa della Madeleine di Parigi con una grande varietà di tastiere, pedaliere e registri, che sappia usare tutti questi e trarre dall’organo quegli stessi suoni armonici che da quell’organo riuscirono a trarre Gabriel Fauré e Camille Saint-Saèns”. I partiti, sia a destra che a sinistra, si arrovellano attorno al tema delle alleanze. Nel centrosinistra, quella tra Pd e i 5 Stelle a guida Conte. Un matrimonio d’interesse o qualcosa di più? “I matrimoni si fanno tra persone che si conoscono. I partiti italiani, per conoscersi, dovrebbero avere programmi. Invece, hanno identità liquide, saltano in groppa ai temi che si presentano quotidianamente, spesso sbagliando cavallo. Un esempio è l’errore fatto da una delle forze politiche sollevando il tema dei diritti speciali di prelievo. Un altro esempio è quello del diritto di cittadinanza acquisito in base al luogo di nascita (ius soli): se chi lo propone e chi vi si oppone riuscissero a spiegare quante persone riguarda, quali conseguenze comporta, quali costi e quali benefici può produrre, su quali tendenze demografiche si inserisce, in quale programma si innesta e quali valori cerca di realizzare, forse quelli che guardano le opposte “bandierine” potrebbero avere idee più chiare”. Professor Cassese, guardando al livello del dibattito politico in Italia, e non solo, viene da chiederle: come siamo arrivati così in basso e riusciremo a risalire la corrente? “Sono complessivamente ottimista. Un ceto politico mediocre come quello italiano è riuscito a scegliere, dalle ultime elezioni politiche, tre governi con componenti tecniche, anche se di dimensioni diverse; nessuno dei capi dei governi di questa legislatura deriva dal corpo politico; quindi, il Parlamento ha messo il suo potere nelle mani di illustri “estranei”, che tuttavia godevano di una fiducia anche più ampia delle forze politiche che li hanno investiti del potere. Tutto questo dimostra che, nonostante la grave crisi della politica, l’Italia riesce a trovare risorse e strumenti per il governo del Paese. Aggiungo la grandissima prova di coesione, rispetto dei vincoli sociali e anche di umanità, di cui ha dato prova la società italiana. Purtroppo, fanno eccezione, in questo quadro ottimistico, proprio quelli che sarebbero i maggiori rappresentanti delle forze sociali, i leader sindacali, sempre schierati sulla linea della conservazione miope, spesso tanto miope da non essere intesa neppure dalla loro base sociale (un esempio lo sciopero proclamato dai sindacati durante la pandemia, che ha avuto l’adesione del 2 per cento dei lavoratori)”. Giuseppe Santalucia: “La riforma Cartabia poco realistica e sostenibile” di Andrea Barsanti today.it, 14 agosto 2021 Il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati commenta il testo della riforma sul processo penale puntando i riflettori soprattutto sui temi della prescrizione e della magistratura onoraria: “Sì alle riforme, ma fatte con attenzione”. Alla fine il via libera è arrivato. La Camera ha approvato, dopo una lunga “maratona” e l’esame di 95 ordini del giorno, la riforma della giustizia voluta dal governo Draghi e nota anche come “Riforma Cartabia”, dal nome della ministra della Giustizia Marta Cartabia. La riforma è stata approvata lo scorso 3 agosto con 396 voti favorevoli, 57 no contrari e 3 astenuti, dopo avere già ottenuto due voti di fiducia alla Camera, uno per ciascuno dei due articoli del testo della legge, e adesso si attende il passaggio in Senato, previsto per settembre. La trattativa per l’approvazione è stata però molto lunga e complessa, e ha creato spaccature all’interno della maggioranza soprattutto per l’aspetto che si concentra sulla prescrizione dei processi, duramente contestato dal Movimento 5 Stelle. Il nodo principale della riforma Cartabia, infatti, è la modifica dei tempi della giustizia penale, finalizzata ad accorciarli. I punti principali della riforma della giustizia ruotano dunque attorno a questo scopo, e comprendono una serie di modifiche alla norma pre esistente e l’introduzione di nuove misure, nello specifico: L’attenzione si è concertata principalmente sul primo punto, quello sulla prescrizione, che si lega alla riforma contenuta nella legge che porta il nome dell’ex ministro Alfonso Bonafede (M5S), che da gennaio 2020 ha eliminato la “tagliola” ai processi dopo le sentenze di primo grado. La nuova riforma lascia intatta questa parte: lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado introdotto dalla riforma Bonafede rimane, e vale sia in caso di sentenza di assoluzione sia di condanna. In Appello invece i processi dovranno durare due anni, e in Cassazione uno, con la possibilità che i procedimenti più complessi arrivino rispettivamente fino a tre anni e a 18 mesi. Se vengono superati i tempi fissi entro i quali concludere il processo, il procedimento stesso decade e scatta quella che è stata definita “improcedibilità”. Restano imprescrittibili i reati puniti con l’ergastolo, e per i reati più gravi (come mafia, terrorismo, violenza sessuale e traffico di droga) il giudice procedente può chiedere ulteriori proroghe di un anno. Si pensa inoltre di dare più spazio all’istituto della “messa alla prova”, che dà la possibilità all’indagato - per reati fino a 6 anni di reclusione - di chiedere al giudice nella fase delle indagini preliminari di essere impiegato in lavori socialmente utili non retribuiti. Il processo in caso affermativo viene sospeso e, se l’indagato svolge correttamente il lavoro, c’è il proscioglimento per prescrizione. La riforma spinge anche sui patteggiamenti, e sulla conversione in sanzioni pecuniarie di condanne fino a 12 mesi. Un “pacchetto” articolato e complesso che punta a snellire l’iter giudiziario, ma i tempi fissi dei procedimenti hanno da subito suscitato perplessità e timori negli addetti ai lavori, perché ritenuti poco aderenti alla realtà degli uffici giudiziari. Ne abbiamo parlato con il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Giuseppe Santalucia. Presidente, qual è la posizione dell’Associazione Nazionale Magistrati sulla riforma Cartabia? Riteniamo che vi siano molte cose buone nel disegno, e siamo cautamente favorevoli alle misure previste per il primo grado. Ci siamo però concentrati su un aspetto che, per la sua centralità nella riforma, ha catturato l’attenzione in negativo, e cioè quello della prescrizione, l’improcedibilità dell’azione penale nel caso in cui i giudizi di impugnazione durino più del tempo fissato in astratto dalla legge. È un profilo che ha creato molta preoccupazione, e lo abbiamo fatto presente anche in Commissione Giustizia. Quali sono a suo parere le principali criticità? Il nostro allarme riguarda le impugnazioni, su cui si è fatto assai poco, e la tagliola temporale rischia di mandare in fumo anche il lavoro precedente del primo grado. La prescrizione, nei modi in cui è stata concepita, è assai poco realistica e sostenibile, soprattutto per alcune Corti d’Appello che sono gravate da un arretrato molto consistente: i processi non si accorciano, ma svaniscono. I termini fissati dalla riforma non possono essere rispettati, e infatti il Parlamento ha modificato quella disciplina e ne ha costruita una transitoria per un cambiamento graduale. Lo scopo di fondo è appunto quello di abbreviare e accelerare i tempi processuali, evitando un sovraccarico del sistema giudiziario e un trascinamento di procedimenti per anni... Certamente, e infatti non siamo contrari a tutta la riforma, non siamo chiusi nella conservazione dell’esistente. Riteniamo che vi siano molte buone cose in quel disegno, ma che riguardano il primo grado. L’istituto in sé convince poco magistrati e accademici e la nostra voce è stata ascoltata, il che dimostra che non eravamo pregiudizialmente contrari. Il magistrato non è contrario a misure che accelerino i tempi dei processi, ma riteniamo che non sia quella la strada da percorrere: è troppo drastica e non è accompagnata da una misura capace di ridurre fattivamente i tempi. Penso a corti d’appello che hanno arretrati consistenti come Roma, Napoli, Venezia. Per Roma in particolare si parla di un bacino di utenza particolarmente importante, che comprende tutta la Regione Lazio. Hanno molto arretrato accumulato, poi sul fatto che si debba indagare sul perché alcune sono più veloci e altre meno siamo d’accordo, ma non è questo il momento se si discute di una misura così drastica. Il governo doveva individuare le cause del ritardo e le ragioni dell’inefficienza e provare a risolverle, e l’improcedibilità non è la strada. Quindi quali potrebbero essere le conseguenze reali sui processi in caso di applicazione letterale della norma? L’applicazione così com’è significa esporre alcune corti d’appello al sicuro rischio di mandare in fumo alcuni processi. Pensiamo alle vittime di reato, che magari hanno avuto in primo grado il riconoscimento del loro diritto con una condanna e magari anche il dovuto risarcimento come parti civili: se non si rispettano i tempi fissi, in secondo grado tutto sfuma ed è come se il processo non ci fosse mai stato. Tutto viene azzerato, senza possibilità di esercitare nuovamente l’azione penale. Riteniamo sia una misura non ragionevole, e abbiamo apprezzato il sub emendamento con la previsione di almeno un triennio con tempi più lunghi. La riforma si occupa anche della magistratura onoraria, che a oggi ha un ruolo fondamentale per il funzionamento del sistema giudiziario... La magistratura onoraria è una delle leve di efficienza del nostro sistema, è sempre stata storicamente una presenza importante negli uffici giudiziari e bisogna secondo noi puntare sulla magistratura onoraria anche per il futuro. Il problema riguarda quei magistrati onorari che sono stati da almeno 15-20 anni prorogati di anno in anno senza una visione chiara del legislatore. L’unica riforma organica risale al 2016, ma non ha potuto allora, per mancanza di una provvista finanziaria adeguata, assicurare ai magistrati onorari che esercitano la professione da almeno 20 anni il riconoscimento dei giusti diritti. Oggi, anche per la massima efficienza degli uffici giudiziari, devono vedere riconosciuti alcuni diritti che si sono stabilizzati nel loro esercizio, e abbiamo una duplice necessità: dare uno stabile assetto alla magistratura onoraria del domani e dare una risposta in termini di giusto riconoscimento dei diritti, previdenziali e assistenziali, e una giusta indennità retributiva, a chi la esercita. Il governo deve risolvere questo problema, perché la magistratura onoraria riveste una funzione fondamentale. Al netto della lunga trattativa per l’approvazione, quali sono secondo lei i tempi della riforma? Il processo penale arriverà in Senato a settembre, anche perché le riforme sono legate al piano di Recovery, poi seguiranno processo civile e ordinamento giudiziario. Ritengo che entro l’anno avremo un quadro di riforme abbastanza definito, e ripeto, sono riforme che la magistratura guarda complessivamente con favore, non c’è nessuna chiusura corporativa, non avrebbe senso, sono riforme che migliorano il servizio che si rende ai cittadini. Quando muoviamo critiche lo facciamo sempre nella prospettiva di un miglioramento, sapendo che le riforme sono necessarie perché il servizio giudiziario deve migliorare e raggiungere standard di efficienza che non ha o non ha comunque ovunque. Le riforme vanno fatte, ma vanno fatte bene. Inchiesta delle mie brame di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 14 agosto 2021 Un’inchiesta è per sempre. Come in un matrimonio ci sono pubblici ministeri che legano un’intera carriera a una sola indagine e finiscono per identificarsi con essa. Sono spalleggiati dai media che pompano l’epopea degli uomini in toga e in lotta contro i potenti e i nemici oscuri. Procura che vai, esempio che trovi. Da nord a sud. Se si parla di Fabio De Pasquale, pubblico ministero a Milano, è inevitabile pensare a Eni. Non è una frettolosa associazione di idee, ma il frutto di anni e anni di inchieste alimentate da sospetti che si sono sgretolati di fronte alla necessità, offuscata dai colpi dell’artiglieria mediatica, che diventassero prove. De Pasquale ha indagato sull’Eni senza soluzione di continuità, o quasi, dal 1993 al 2021. Dalla morte dell’allora presidente della compagnia petrolifera, Gabriele Cagliari, suicida in carcere, ai torbidi verbali dell’avvocato siciliano Piero Amara che De Pasquale avrebbe voluto introdurre nel processo sulla presunta maxi tangente pagata in Nigeria. Un processo che si è concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati. Accade anche questo in Italia, quando un’inchiesta sta per naufragare o un processo sta per chiudersi con l’assoluzione si materializza un collaboratore di giustizia o una gola profondissima, qualcuno che vuota il sacco con una tempistica che lascia perplessi. Non importa se sia un testimone attendibile o meno, stagionato o di primo pelo, conta solo che i suoi racconti peschino nel torbido, si innestino nei capitoli irrisolti della cronaca giudiziaria. I tempi della giustizia finiscono per dilatarsi all’infinito, travolgendo uomini e cose. Tra i primi a esprimere soddisfazione per la sentenza del processo sulla tangente Eni fu Matteo Renzi, che da premier scelse l’amministratore delegato Claudio Descalzi, uno degli assolti. “La verità è più forte del giustizialismo”, spiegò Renzi. Della serie: “Dire a nuora perché suocera intenda”. La “suocera” era Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze, che indaga da tempo sul “giglio magico” e sui presunti finanziamenti illeciti ricevuti dalla fondazione Open, “la cassaforte renziana”. Per ultimo, e Renzi ha voluto farlo sapere, il leader di Italia Viva è finito nel registro degli indagati per emissione di fatture per operazioni inesistenti in relazione al compenso ricevuto per una conferenza ad Abu Dhabi. Una vicenda che si aggiunge alle bancarotte contestate ai genitori dell’ex premier, che sono stati pure arrestati. Creazzo qualche mese fa ha chiesto di andare in pensione anticipata, dopo 44 anni di servizio. Gli ultimi mesi sono stati burrascosi per il magistrato finito al centro di un caso di molestie sessuali: avrebbe disturbato nell’ascensore di un albergo una collega della procura di Palermo, Alessia Sinatra, che in chat con l’ex potente Luca Palamara usava parole durissime nei confronti di Creazzo, che ha sempre negato l’accusa. Parole che anche alla donna sono costate un procedimento disciplinare. Da nord a sud di pm che si guardano allo specchio e si immedesimano nelle loro indagini è piena la cronaca. Una manciata di settimane fa Roberto Scarpinato, andato in pensione dall’incarico di procuratore generale della Corte d’appello di Palermo, è stato sentito dalla Commissione antimafia della regione siciliana. “Il depistaggio è ancora in corso”, ha detto Scarpinato riferendosi alle indagini sulla strage di via D’Amelio e alle parole di Maurizio Avola, killer catanese e pentito smemorato che ha raccontato una serie di verità a distanza di anni dall’inizio della sua collaborazione. Verità farlocche tanto da avere provocato la secca smentita della Procura di Caltanissetta. Scarpinato si sorprende del fatto che Avola dica oggi che la strage in cui morirono Paolo Borsellino e gli uomini della scorta fu solo opera di Cosa nostra. Niente accordo fra ‘ndrangheta, mafia, massoneria, destra eversiva e servizi segreti deviati. “C’è da chiedersi: è un’operazione ingenua o qualcuno ha deciso di far suicidare processualmente Avola? Quello che colpisce è che questa storia non è finita”, ha detto Scarpinato. Di sicuro non è finita la storia dei “sistemi criminali”, alimentata dagli ultimi sospetti dell’ex magistrato. Più che un’inchiesta è diventato un paradigma che ha giustificato una stagione di processi mai conclusa. Se ne parla da decenni. Furono gli stessi pubblici ministeri di Palermo, fra cui Scarpinato, nel 2001 a chiedere l’archiviazione. Non c’erano le prove che servivano per fare un processo, ma i sospetti seminati sul campo sono bastati per imbastire una narrazione che regge ancora oggi sui giornali. Certo la luce è meno splendente rispetto alle prime pagine della stagione che fu. Dei “sistemi criminali” è figlio il processo sulla Trattativa stato-mafia, ormai prossimo alla sentenza di appello. Il giurista, ed eretico agli occhi di una certa antimafia, Giovanni Fiandaca definì i sistemi criminali “una inquisitio generalis” senza “ipotesi specifiche di reato”. Sulla Trattativa fu ancora più tranciante: “Una boiata pazzesca”. Nonostante l’impossibilità di raggiungere la verità-forse sarebbe il caso di dire grazie al fatto di non poterci riuscire - sono state tracciate le linee guida di un modus operandi, lasciando aperti ampi spazi di manovra. Perché in Italia non basta trovare i colpevoli, bisogna andare oltre. E oltre ci sono le trame oscure, gli interessi occulti, le convergenze misteriose. In due parole i “sistemi criminali”, che stanno sempre lì a ricordare agli uomini di poca fede che esistono i farabutti di stato capaci di nascondere la verità per decenni. Mica si vorrà insinuare che la magistratura non sia stata in grado di trovarla questa benedetta verità. Per ultimo i “sistemi criminali” sono confluiti nel processo sulla Trattativa, dopo che si è tentato senza successo di portarli nel dibattimento in cui il generale Mario Mori, uno degli imputati condannati in primo grado per la Trattativa, è stato assolto dall’accusa di avere fatto scappare Bernardo Provenzano. Fosse dipeso da Scarpinato avrebbe riaperto l’istruttoria dibattimentale. Aveva proposto, ma fu stoppato dai giudici, un tuffo nel passato di Mori per arrivare alla P2 di Licio Gelli. Altro non era che un ritorno all’usato sicuro, un tentativo di rimanere nella comfort zone dei “sistemi criminali”. L’ideologo di quell’inchiesta era Scarpinato, accanto a lui c’erano Antonio Ingroia e Antonino Di Matteo. L’identificazione fra pm e indagine nel caso di Di Matteo è talmente estrema che si può tranquillamente dire che il processo sulla Trattativa è il “suo” processo. Il magistrato, oggi al Csm, lo ha sempre rivendicato. Nel 2017 chiese il trasferimento alla Procura nazionale antimafia perché a Palermo, così disse, era “costretto” a occuparsi di reati comuni come furti e piccole truffe. Robetta di serie B che lo distraeva dell’impegno totalizzante della Trattativa. Nel frattempo il magistrato più scortato d’Italia per la minaccia di attentato parlava in tv della stagione politico-giudiziaria a cavallo delle stragi. La cosa non piacque al procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho che lo espulse dal pool di pm che indagavano sugli eccidi del ‘92. Non aveva gradito una delle tante interviste, allora giudicata di troppo, rilasciata alla trasmissione “Atlantide” sui mandanti occulti. Cafiero de Raho ci avrebbe ripensato, ormai era tardi. Di Matteo era già andato al Consiglio superiore della magistratura, dopo essere stato a lungo corteggiato dal Movimento 5 Stelle per un posto di governo. Al governo aveva creduto di poterci arrivare, dalla porta principale e a furor di popolo, Antonio Ingroia con la sua Rivoluzione civile. Pensava di avere sedotto l’opinione pubblica con la sua presenza fissa nei programmi di Michele Santoro, accanto a Marco Travaglio. La televisione era stata la palestra del magistrato in vista del grande salto in politica. In una delle sue ultime apparizioni Ingroia parlava da molto lontano. Un’immagine esotica, rarefatta, con le palme sullo sfondo. Era collegato dal Guatemala, dove rimase poco più di una manciata di mesi nientepopodimeno che su incarico dell’Onu. Lo stato dell’America centrale era per Ingroia come la città sumera di Uruk nell’epopea di Gilgamesh. Tanto rumore per nulla. Raccolse percentuali da zero virgola nonostante la lunga stagione vissuta in simbiosi con Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, l’ex sindaco mafioso di Palermo, a cui Ingroia assegnò i gradi di “icona dell’antimafia”, arruolandolo nell’esercito con cui si spinse fino a “sfidare” il capo dello stato, Giorgio Napolitano, in un conflitto istituzionale senza precedenti. Al centro dello scontro le telefonate del presidente della Repubblica, come se qualcuno impedendone l’acquisizione al processo volesse proteggere chissà quali segreti di stato. Tutto quel chiasso per conversazioni che gli stessi pm di Palermo, Ingroia per primo, avevano definito irrilevanti. È andata come è andata, con Ciancimino jr condannato e indagato per una serie di calunnie frutto di racconti e verbali che andavano molto oltre i confini della realtà. Come quando disse che il signor Franco, il fantomatico spione dei servizi segreti che popolava i verbali a oltranza del figlio dell’ex sindaco, era il segretario generale della presidenza della Repubblica. Del pool dei pm del processo Trattativa faceva parte anche Vittorio Teresi, oggi in pensione. Ne prese in mano il coordinamento dopo l’uscita di Ingroia dalla magistratura e dalla scena mediatici. Ed ecco un altro innamoramento giudiziario, quello di Teresi per Calogero Mannino, l’ex ministro che ha vissuto una grossa fetta della sua vita a difendersi dall’accusa di essere prima concorrente esterno della mafia e poi l’iniziatore della Trattativa. È stato sempre assolto. Per un paio di decenni in qualsiasi aula si trovasse e ogni qualvolta Mannino volgesse lo sguardo verso il banco dove trova posto la pubblica accusa incrociava sempre il volto di Vittorio Teresi. Gli eventi hanno finito per instillare nell’imputato Mannino il dubbio, legittimo, che si dovesse difendere dal magistrato prima ancora che dalle ipotesi di reato. C’era Teresi nel 1994 quando la Procura, allora guidata da Giancarlo Caselli, chiese e ottenne l’arresto di Mannino. Sempre Teresi era il pm del processo di primo grado al termine del quale il politico democristiano fu assolto dall’accusa di concorso esterno. Mannino se lo ritrovò di fronte anche in appello, visto che Teresi si era fatto trasferire alla Procura generale. Arrivò la condanna, alla fine azzerata per sempre dalla Cassazione dopo 23 mesi di carcerazione preventiva. E fu ancora lui, Vittorio Teresi, divenuto procuratore aggiunto al posto di Ingroia, a chiedere la condanna di Mannino, che invece fu assolto dall’accusa di avere dato il via alla Trattativa fra i carabinieri e i mafiosi, temendo di essere ucciso. Un’assoluzione che fa venire meno l’incipit della ricostruzione della procura. Un altro tassello era saltato con l’assoluzione di Mario Mori dall’accusa di avere fatto scappare Bernardo Provenzano nel corso di un blitz. Un episodio collocato da Di Matteo e Teresi nel contesto del patto sporco: lo stato dava una mano a Provenzano che in cambio tradiva Totò Riina. A Teresi il verdetto era andato indigesto e si lasciò andare ad una stilettata contro il magistrato che scrisse la motivazione della sentenza. A suo dire meritava “un 4 meno”. Da quella frettolosa pagella scaturì un procedimento disciplinare chiuso dal Csm, il Consiglio superiore della magistratura, “per scarsa rilevanza del fatto”. Teresi si disse “pentito” per quella battuta estemporanea, pronunciata senza alcun dolo e consegnata ai cronisti. Già, i giornalisti, troppo spesso partigiani dei pm, partecipi della costruzione del mito dell’infallibilità della magistratura. Senza la cassa di risonanza mediatici le indagini sarebbero rimaste confinate negli angusti palazzi di giustizia. Le epopee necessitano di visibilità, si alimentano con il consenso del popolo. Popolari d’altra parte sono giudici che siedono accanto ai togati nelle Corti di assise. Si nutrono, come tutti i comuni mortali, di televisione. Guardano i talk show che si contendono la presenza dei magistrati, nuove star della tv. In alternativa si può sempre leggere uno dei tanti libri della ormai ricchissima letteratura di genere. Vedere alla voce: misteri d’Italia. Un’inchiesta è per sempre, se non si trovano i colpevoli si può sempre aggiungere un nuovo capitolo perché ciò che non va bene per i processi fa tendenza sui libri. Indagini difensive, anche la Cassazione sta dalla parte dei Pm di Viviana Lanza Il Riformista, 14 agosto 2021 Resistenze culturali, vuoti normativi, costi eccessivi. Addentrarsi nella complessa materia delle indagini difensive conduce in una selva di difficoltà, incongruenze, ostacoli. Difendersi nell’ambito di un’indagine o di un processo penale è cosa tutt’altro che semplice. E il merito delle vicende c’entra poco, nel senso che le problematiche sono trasversali a ogni tipo di accusa, a ogni tipologia di inchiesta o di procedimento penale. E si moltiplicano se si considera che i processi sono eccessivamente lunghi, che nel circa 60% dei casi si tratta di processi nei quali ci si avvale di un difensore di ufficio, che la parità tra accusa e difesa è sì prevista dalla Costituzione ma di fatto non è garantita e da un anno c’è anche una sentenza della Cassazione a rimarcare quella che appare come una incongruenza: la consulenza del pm ha più valenza probatoria della consulenza della difesa. Perché? Le parti del processo non dovrebbero essere su un piano di parità? “A distanza di oltre vent’anni dall’inserimento della disciplina in materia di investigazioni difensive, esistono ancora irriducibili sacche di resistenza che si ostinano a non riconoscere il “nuovo” ruolo e le “nuove” facoltà attribuite alla difesa e strettamente correlate al rito accusatorio”, osserva l’avvocato Marco Campora, presidente della Camera penale di Napoli. “Una gelosia dei saperi e dei poteri - aggiunge Campora - e una nostalgia per un passato affatto glorioso che incredibilmente continua ad avere, si auspica sempre meno, proseliti”. La questione riguarda il rapporto e i limiti che esistono tra poteri dell’autorità giudiziaria inquirente e poteri della difesa. “La magistratura - afferma il presidente dei penalisti napoletani - troppo spesso continua ad avere una certa resistenza rispetto agli esiti delle investigazioni difensive. Basti pensare che la Corte di Cassazione, con sentenza del 29 maggio 2020 e con una motivazione illogica ed eccentrica, ha affermato che la consulenza del pm “anche se costituisce il prodotto di una indagine di parte” è “assistita da una sostanziale priorità” rispetto alla consulenza depositata dalla difesa”. “Ciò - spiega l’avvocato Campora, evidenziando passaggi della sentenza della Suprema Corte - perché il consulente del pm è come tale ausiliario di un organo giurisdizionale che “sia pure nell’ambito della dialettica processuale non è portatore di interessi di parte”. E qui - osserva il penalista - si rinviene una gigantesca violazione del giusto processo e la lapalissiana dimostrazione che tuttora si stenti a riconoscere la parità tra accusa e difesa preferendo rimanere ancorati a logiche più aderenti a un modello di processo inquisitorio”. Considerando che le inchieste e i processi si avvalgono sempre più frequentemente di strumenti investigativi tecnici, di intercettazioni e captazioni che possono essere analizzati ed evidentemente contestati dalla difesa solo attraverso consulenze altrettanto tecniche, è chiaro che attribuire una valenza probatoria diversa alle consulenze delle due parti processuali significa sbilanciare il processo a priori. È uno dei nodi da sciogliere se davvero si vuole parlare di giusto processo. Non l’unico nodo. “Un altro aspetto che preoccupa e non poco - osserva il presidente della Camera penale di Napoli - è che il processo penale, così come è strutturato, richiede sicuramente dei costi elevati per l’imputato. Le indagini difensive, sempre più necessarie atteso l’elevato tecnicismo di tantissime inchieste, comportano rilevanti aggravi di spesa e ciò comporta in alcuni casi un vero e proprio ostacolo per il cittadino a difendersi”. “Nel nostro Paese - continua Campora - il numero dei processi trattati con il difensore d’ufficio è elevatissimo. La crisi economica post-Covid prevedibilmente aumenterà il numero degli imputati assistiti dal difensore d’ufficio ed è evidente che per il difensore d’ufficio sarà difficile, se non impossibile, ricorrere, in ragione anche degli elevati costi, a strumenti per la raccolta di prove a favore. E a subirne le conseguenze sarà, come sempre, il cittadino”. “Firmerò alcuni quesiti per non lasciare a Salvini il vessillo del garantismo” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 14 agosto 2021 Massimiliano Smeriglio, eurodeputato indipendente eletto nelle liste del Pd, ritiene “un errore grave lasciare i temi del garantismo in mani sbagliate, soprattutto in quelle della destra che fa un’operazione tattica e non culturale” e spiega che firmerà alcuni dei referendum perché “il cittadino italiano che incappa nella giustizia spesso si trova dentro a un inferno e noi questo non possiamo non vederlo e non denunciarlo”. Il segretario del Pd, Enrico Letta, dice che non bisogna votare i quesiti sulla giustizia promossi da Radicali e Lega ma lei lo farà. Perché? Ho grande rispetto del dibattito e della linea del segretario del Pd ma rimango un indipendente e posso aggiungere che secondo me come sempre stato nella storia dei referendum in Italia, dagli anni 70 a oggi essi sono argomenti che interrogano le coscienze degli individui in maniera personale e radicale. Peraltro Letta ha spiegato che il Pd non è una caserma ed è giusto che ci sia dibattito interno. Non c’è nulla di strano nell’avere idee diverse da quelle del segretario. Cosa la spinge a firmare per alcuni dei quesiti? Sono una persona di sinistra legata alla cultura della sinistra dei movimenti e libertaria. Penso che sia un errore grave lasciare i temi del garantismo in mani sbagliate, soprattutto in quelle della destra che fa un’operazione tattica e non culturale. Con tutto il rispetto, è difficile immaginare Salvini con la bandiera libertaria e garantista. Non ci si deve occupare delle condizioni delle carceri italiane solo quando bisogna firmare il quesito sulla carcerazione preventiva, ma occorre farlo sempre. Il sistema carcerario italiano è quasi al collasso e alla fine della fiera spesso in galera ci finiscono solo i poveri cristi che non hanno capacità di difesa adeguata. Dunque il quesito sulla carcerazione preventiva è uno di quelli che avrà la sua firma? Esatto. Dobbiamo dare un segnale importante sul sistema giudiziario e penale italiano, che fa acqua da tutte le parti. Abbiamo avuto momenti brillanti e progressisti, penso alla legge Gozzini, ma poi ci siamo fermati. Di carceri, detenuti e condizioni detentive non si occupa più nessuno e quindi è bene che se ne occupi il Parlamento. Ma è anche bene che ci sia dibattito popolare tra le persone e i referendum servono a questo. Per questo lo firmerò. C’è poi il quesito per l’abrogazione della legge Severino. La convince? Sì, perché ritengo che sia una legge sbagliata. Costruisce una serie di meccanismi che mettono in seria difficoltà la possibilità di esprimere rappresentanza e anche la libertà di partecipare alla vita politica e istituzionale del paese in ogni ordine e grado. Una persona che volesse candidarsi alla lista x per le amministrative di Roma, per due anni non può avere rapporti con la Pa di Roma solo per il fatto di essersi candidato e non è giusto. Quella legge impedisce la piena partecipazione di tanti soggetti alla vita politica. È una legge figlia della cultura del populismo giustizialista che ha imperversato nella fase furiosa del Movimento 5 Stelle, il quale ora va rivedendo i suoi fondamentali ma i danni fatti sono stati tanti. Firma anche quello sulla separazione delle carriere dei magistrati? Sì perché penso che da Tangentopoli in poi si è di fatto determinato uno squilibrio tra magistratura inquirente e giudicante con un ruolo strabordante dei pm. Tantissimi sono bravissime persone ma spesso abbiamo avuto processi spettacolo e persone rovinate per aver ricevuto un avviso di garanzia. In tanti, troppi casi al terzo grado di giudizio molti di questi processi spettacolo hanno avuto esiti differenti dalla narrazione mediatica che ne era stata fatta e quindi credo che ricostruire un equilibrio tra chi giudica e i pm è fondamentale. Arriviamo a quello sulla responsabilità civile dei magistrati, sul quale giorni fa ha detto di avere dei dubbi. Ha sciolto i nodi? Sì, e ho deciso che non lo firmerò. Perché? Perché il tema della responsabilità di fronte a certi incarichi è un tema vero, tuttavia prevale in me l’idea di non mettere i singoli magistrati di fronte a uno squilibrio di poteri: cioè di fronte al fatto che soggetti collettivi come grandi organizzazioni o grandi personalità possano indurre a giudizi non sereni da parte dei magistrati. Capisco chi lo firma ma alla fine della riflessione sono giunto a questo punto. Non voglio creare situazioni di asimmetria tra soggetti inquisibili ma molto forti dal punto di vista economico e politico e singoli magistrati che potrebbero essere messi in difficoltà. E quello sulle modifiche al Csm? Il Csm è una questione estremamente delicata che riguarda meno la vita dei singoli cittadini. C’è sicuramente bisogno di una riforma, tuttavia essendo uno degli organismi collegiali più importanti della Repubblica è bene che ci sia una discussione parlamentare adeguata. Per questo non intendo sostenere il quesito: non perché non veda problemi che sono evidenti ma l’orientamento che mi sta guidando è quello di non leggere il sistema giudiziario in relazione al sistema politico, che è la distorsione presente nell’attuale dibattito. Preferisco dunque che su questo tema sia il Parlamento a esprimersi. La sua linea è dunque diversa da quella del Pd e contraria, sul tema del garantismo, a quella grillina. Eppure lei spinge per un’alleanza strategica. Perché? Io difendo un pezzo della mia cultura politica che su questo è molto simile al mondo di chi ha promesso i referendum, cioè i radicali. I quali hanno un approccio garantista contro il giustizialismo populista che ha egemonizzato il dibattito politico nel nostro paese facendo danni piuttosto gravi. Tuttavia il Movimento è dentro un’evoluzione e noi investiamo nella relazione con loro non in termini subalterni ma ingaggiando un dibattito per l’egemonia. Tra i punti valoriali della sinistra democratica c’è il garantismo e questo è un tema ostico da affrontare ma noi siamo pazienti e continueremo a lavorare in questo senso. Alle elezioni politiche mancano ancora due anni e c’è tutto il tempo per lavorare assieme. Crede che grazie ai referendum si raggiungerà l’obiettivo di una “giustizia giusta”? I cittadini normali devono poter contare su una giustizia civile celere, su una giustizia penale giusta e su una giustizia amministrativa corretta. Tutto questo incide sulla vita quotidiana delle persone, basti pensare alle indicazioni date nel Pnrr. Il cittadino italiano che incappa nella giustizia spesso si trova dentro a un inferno e noi questo non possiamo non vederlo e non denunciarlo. Se serve, anche con lo strumento del referendum. “No ai referendum, ma la legge Severino deve cambiare” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 14 agosto 2021 Il sindaco di Pesaro, il dem Matteo Ricci, sui referendum legati alla giustizia spiega che non li firmerà per “disciplina di partito” ma che “la legge Severino è assolutamente da riformare perché non esista in alcuno stato di diritto che dopo il primo grado di giudizio, come nel caso degli amministratori, ci si debba dimettere”. Sul tema ius soli commenta: “basta andare in una scuola o in un asilo e subito ci si chiede perché quei bambini che parlano italiano e completano il primo ciclo di studi qua non debbano avere gli stessi diritti degli altri”. Qual è la sua posizione sui referendum sulla giustizia, dopo che alcuni esponenti dem, da Bettini a Gori, hanno detto che firmeranno alcuni dei quesiti? Farà lo stesso? Non firmerò i referendum per due motivi: da una parte per una questione di disciplina di partito, dall’altra perché penso che il Parlamento con una maggioranza così ampia abbia il dovere di far riforme profonde anche sul tema della giustizia, come hanno dimostrato i primi passi fatti in materia di riforma penale. Spero che il governo Draghi, in tutte le sue componenti di maggioranza e la ministra Cartabia abbiano la forza di portare avanti queste riforme in maniera profonda. Certo è che se le riforme non dovessero essere approvate così come ci aspettiamo e se il referendum ci sarà è probabile che poi io possa stare Sì alla maggior parte dei quesiti. Custodia cautelare, separazione delle carriere dei magistrati, abolizione della “Severino”. Cosa la convince di più? Penso ad esempio che la legge Severino sia una legge assolutamente da riformare perché non esista in alcuno stato di diritto che dopo il primo grado di giudizio, come nel caso degli amministratori, ci si debba dimettere. Lei ha detto che alla festa dell’unità di Pesaro si entrerà solo con green pass ma c’è polemica sul suo utilizzo ad esempio nei luoghi di lavoro, dopo le parole di Landini, secondo il quale i protocolli già sono sufficienti per evitare focolai nelle aziende. Cosa ne pensa? Il green pass è lo strumento per non chiudere e far ripartire l’Italia, finendo la stagione turistica nel miglior modo possibile, per sostenere la battaglia contro il virus e sostenendo la ripresa economica e lavorativa e per questo sono uno dei sindaci che prima di altri ha spinto in questa direzione. Capisco le preoccupazioni di Landini sul tema dell’occupazione perché tutti noi siamo impegnati affinché la ripresa produca occupazione e non licenziamenti. Non dobbiamo aggiungere espedienti per licenziare le persone Ma sul green pass Landini e i sindacati dovrebbero essere più coraggiosi. Il concetto è semplice: se vivi e lavori da solo puoi permetterti di non vaccinarti, anche se io lo ritengo sbagliato perché significa no volere il bene della comunità. Ma se vivi e lavori con gli altri la tua libertà finisce dove inizia quella degli altri e quindi non puoi permettere che la tua non vaccinazione comprometta la salute dei lavoratori con cui stai a contatto. Credo che su questo Landini e la Cgil dovrebbero essere più netti ma avremo il segretario alla festa dell’unità di Pesaro a fine agosto e glielo chiederemo di certo. Si parla in questi giorni di Ius soli, ma difficilmente questo parlamento approverà una norma in tal senso. Come si può avanzare sul tema anche con una maggioranza così eterogenea? Lo Ius soli è nella realtà. Olimpiadi e europei dimostrano l’arretratezza del nostro paese. Pensare che alcuni atleti italiani medagliati a Tokyo fino a 18 anni non hanno potuto rappresentare il paese a livello nazionale non solo è un ostacolo allo sviluppo del settore ma dà l’idea di quanto l’attuale norma sulla cittadinanza sia arretrata. Basta andare in una scuola o in un asilo e subito ci si chiede perché quei bambini che parlano italiano e completano il primo ciclo di studi qua non debbano avere gli stessi diritti degli altri. È una questione anche del sentirsi parte di un paese: prima un ragazzo si sente parte del paese e prima si sente integrato. Spero che in questo Parlamento ci possa essere uno spiraglio per parlarne. Più passano gli anni più il non accettare questa tematica significa staccarsi dalla realtà del paese. Draghi ha detto che difende l’impianto di fondo del reddito di cittadinanza ma molte forze politiche, con Renzi in testa, vogliono riformarlo o addirittura abolirlo. Crede si arriverà a tanto? Draghi con poche parole ha chiarito qual è l’unica strada. Il reddito di cittadinanza ha sicuramente contribuito ad attutire la crisi rispetto alle fasce più povere del paese ed è stato un elemento di contrasto alla povertà. Al tempo stesso non ha funzionato sul tema dell’inserimento nel mondo del lavoro e quindi se vogliamo essere pragmatici dobbiamo salvare la parte legata alla lotta alla povertà e cambiare la parte dell’introduzione al mondo del lavoro. Il tema dei navigator non ha funzionato mentre il sussidio ha aiutato tanti nel momento della crisi economica dettata dalla pandemia. Alla fine la maggioranza, al di là delle bandierine, riformerà il reddito di cittadinanza in questa direzione, salvando ciò che funziona e modificando quello che non va. In molti chiedono le dimissioni del leghista Durigon, chiedendo una mozione di sfiducia, mai avvenuta nei confronti di un sottosegretario. Il Pd dovrebbe votarla? Spero che Durigon abbia la dignità di dimettersi prima: un sottosegretario della repubblica italiana che chiede di reintitolare una piazza a un Mussolini togliendola a Falcone e Borsellino è un esponente che non merita di rappresentare un governo della repubblica che è fortemente antifascista e che si basa su una costituzione antifascista. Falcone e Borsellino sono due figure basilari nella lotta alle mafie, vittime tra l’altro di stragi di mafia. Ha fatto due uscite una peggio dell’altra che dovrebbero fargli avere un sussulto di dignità e dimettersi immediatamente. Se così non sarà il Pd voterà di certo la sfiducia e non sarà un Durigon di meno a mettere in subbuglio la tenuta del governo. Non mi immagino Giorgetti o altri esponenti della Lega abbandonare il governo perché si è sfiduciato Durigon… spero per lui che si dimetta prima per evitare il voto in Parlamento. Torino. La protesta delle detenute: “Scioperiamo contro le carceri troppo piene” di Luisa Mosello La Stampa, 14 agosto 2021 Fino al 22 le donne ospiti del Lorusso-Cutugno protesteranno “Rifiuteremo il carrello con il cibo fornito dall’amministrazione”. Le detenute di Torino scendono in sciopero contro il sovraffollamento all’interno del penitenziario e per chiedere un aumento dei giorni per la liberazione anticipata. Le donne recluse al Lorusso-Cutugno daranno il via a una protesta non violenta da domani, che durerà fino al 22 del mese. Si tratta di uno sciopero, appunto, lo “sciopero dei carrelli”. Significa che rifiuteranno di mangiare il cibo fornito dall’amministrazione penitenziaria. Non si tratta di un digiuno forzato, visto che hanno la possibilità di cucinare prodotti provenienti dall’esterno della struttura. Ma comunque di un tentativo pacifico per accendere i riflettori su alcuni problemi della vita quotidiana all’interno del carcere. Su tutti una popolazione più alta della capienza: all’interno del carcere, al momento, sono detenute 110 donne, contro le 80 che invece l’edificio potrebbe contenere. A questo si aggiungono altre problematiche: dalla scarsità dei progetti di scuola a quelli legati a formazione e lavoro. Il settore carcerario, tradizionalmente pensato come maschile (basti pensare che alla casa circondariale ci sono 1.200 uomini), non offre loro gli strumenti per uscire da una situazione di marginalità, spiegano le donne. Tutti elementi confermati anche dalla garante comunale dei detenuti, Monica Cristina Gallo, nel suo intenso lavoro svolto al Lorusso-Cutugno. L’altro aspetto, invece, riguarda la richiesta di ampliare lo strumento della liberazione anticipata, che permette di uscire prima dal carcere alle persone che abbiano dimostrato buona condotta. Un’iniziativa portata avanti da circa 200 tra detenute e detenuti della struttura, che hanno lavorato a lungo nella formulazione della proposta. Proprio negli scorsi giorni è arrivata in visita a Torino Rita Bernardini, ex segretaria nazionale dei Radicali e presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino. Scopo della visita quello di far sentire le voci interne al carcere. “Le condizioni dentro sono disumane e con il Covid le persone sono state sepolte vive per un anno e mezzo”, ha detto Bernardini, parlando di “carenze incredibili, come 150 agenti penitenziari mancanti dalla pianta organica, l’assenza di vicedirettori e i detenuti che spesso sono costretti a comprarsi i farmaci da soli”. Anche il garante regionale Bruno Mellano sottoscrive le ragioni alla base del disagio: “Serve attenzione da parte della società a quanto succede nelle carceri. Sarei favorevole a che il governo valuti liberazioni anticipate speciali”. E nel frattempo le detenute inizieranno lo “sciopero dei carrelli”, nella speranza che le loro istanze vengano ascoltate. Torino. Sciopero del cibo contro il sovraffollamento, la protesta dei detenuti delle Vallette di Cristina Palazzo La Repubblica, 14 agosto 2021 Da oggi per una settimana rifiuteranno i pasti, appello alla ministra Cartabia. Sciopero dei carrelli per arrivare fino al ministro della Giustizia Marta Cartabia. Parte oggi dal carcere Lorusso e Cutugno di Torino la mobilitazione pacifica “contro il silenzio e l’immobilismo che grava sui problemi dei penitenziari italiani e sulle condizioni di disagio in cui versano”. Inizialmente promossa da una cella della terza sezione femminile, l’iniziativa è stata condivisa da decine di altri detenuti che fino al 21 agosto incroceranno le braccia davanti al cibo fornito dall’amministrazione contro il sovraffollamento. “Stiamo portando avanti la richiesta per il riconoscimento dei nostri diritti - spiegano le donne recluse -, senza violenza e con rispetto in primis per noi stessi, che oltre a essere stati soggetti devianti siamo sempre cittadini, aventi doveri e diritti come coloro che vivono in libertà”. E non escludono che possano aderire allo sciopero anche in altre strutture. Niente cibo interno - Per una settimana quindi rifiuteranno il cibo interno, approfittando della possibilità di cucinare quanto arriva dall’esterno, ma comunque dare un segnale con un’iniziativa a sostegno della concessione della liberazione anticipata speciale estesa a tutta la popolazione ristretta e in appoggio alle proposte dei Radicali e di altre associazioni in materia di amnistia, indulto e riforma penitenziaria. Iniziativa che, supportata da oltre 10 pagine di firme, segue la visita avvenuta nei giorni scorsi di Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino e componente del consiglio generale del Partito Radicale, “che sostiene la nostra iniziativa” che proprio con rappresentanti del Partito Radicale e una delegazione con i garanti regionale e comunale Bruno Mellano e Monica Cristina Gallo hanno fatto un sopralluogo nel carcere. Battaglia da mesi - “Ogni sciopero può avere ripercussioni per questo andrò nei prossimi giorni a sincerarmi della loro salute - spiega Monica Cristina Gallo. Le donne nell’ordinamento penitenziario sono quasi dimenticate e le detenute del carcere di Torino sono mesi che portano avanti questa riflessione interessante perché non riguarda solo loro”. A Torino sono 80 i posti per le donne “e loro sono 110, su 1.400 detenuti, quindi un grave sovraffollamento ma questa protesta nasce per tutta l’amministrazione penitenziaria e affinché si proceda con una riforma urgente”, precisa. Un elenco di carenze - Le stesse detenute mesi fa avevano stilato un documento in cui lamentavano diverse difficoltà, tra cui la differenza trattamentale nei confronti delle donne. Quindi la carenza di attenzione dal punto di vista sanitario, fisico e psicologico, ma anche mancanza di educatori e meno opportunità di formazione professionale specializzata e lavorativa. Per questo l’appello è generale è alla ministra Cartabia, al Capo del Dap Bernardo Petralia, oltre che alla direttrice della struttura torinese Rosalia Marino, per “richiamare l’attenzione delle istituzioni sul disagio che si vive”. Bergamo. Protesta in carcere per ottenere i colloqui visivi con i familiari bergamonews.it, 14 agosto 2021 “Da 8 mesi non vedo e abbraccio mio padre”. La lettera di Anna che da otto mesi non può più rivedere suo padre. Per oltre mezz’ora, nella mattinata di venerdì 13 agosto, c’è stata una rivolta pacifica da parte dei detenuti del carcere di Bergamo di via Gleno per ottenere dei colloqui visivi. I detenuti chiedono di poter abbracciare i propri familiari. Altre strutture d’Italia hanno già approvato questi incontri grazie al green pass. “Sono la figlia di un detenuto del carcere di Bergamo - afferma Anna - preciso che è 8 mesi che non abbraccio e non sento il profumo di mio papà e non ricevo un bacio siamo vaccinati col green pass tutta la famiglia chiediamo ci sia concesso solo questo poter abbracciare i nostri cari. Ci sono famiglie che ormai da quasi due anni, da quando ci siamo imbattuti in questa pandemia, che non abbracciano un loro caro. Come è possibile che ci sia il sovraffollamento delle carceri e a noi non ci sia concesso un abbraccio? Dietro persone che hanno sbagliato e pagano i propri errori ci siamo anche noi fuori: famiglie, mogli, figli e nipoti”. Caltanissetta. Disordini in carcere, detenuti trasferiti ad Augusta blogsicilia.it “Siamo in condizioni disperate”. “A seguito dei gravi disordini avvenuti ieri nel carcere di Caltanissetta, diversi detenuti sono stati trasferiti al carcere di Augusta che già si trova in precarie condizioni di sicurezza, vista anche lo scarso numero di personale in servizio”. Lo dichiara Sebastiano Bongiovanni dirigente nazionale del Sippe che chiede al Provveditorato ed al Dap massima attenzione alle gravi carenze del carcere di Augusta, più volte denunciate dal sindacato. I disordini si sono verificati giovedì scorso nel carcere di Caltanissetta: alcuni agenti di Polizia penitenziaria sono stati tenuti in ostaggio dai detenuti allo scopo di manifestare contro l’impossibilità, secondo la loro ricostruzione, di poter incontrare i loro familiari durante i colloqui settimanali. “L’immediato intervento - si legge in una nota del Sinappe - dell’esiguo personale in servizio presso la Casa Circondariale, che soffre di una grave carenza di personale, e l’intervento del personale libero dal servizio che con immediatezza si è recato in istituto, i detenuti hanno desistito dal mantenere sequestrati i due poliziotti. Nel pomeriggio ha proseguito la nota - oltre all’intervento del personale e delle autorità penitenziarie ha fatto il suo intervento anche il Magistrato di Sorveglianza”. “Siamo stanchi - aggiunge Sebastiano Bongiovanni, dirigente nazionale del Sippe - di lavorare sempre in emergenza, la salute dei poliziotti Penitenziari rischia di essere compromessa a causa del totale fallimento del sistema penitenziario. Faccio un appello al Ministro della Giustizia - conclude il sindacalista - affinché possa riprendere in mano il sistema carcerario italiano, a quanto pare allo sbando per scelte politiche sulla sicurezza fallimentari”. Caltanissetta. “Caldo infernale, frigoriferi rotti e colloqui senza contatti” cataniatoday.it, 14 agosto 2021 La denuncia della moglie di un detenuto. Al nostro giornale è arrivata la denuncia delle condizioni del carcere di Caltanissetta ove i detenuti hanno dato vita a una protesta pacifica per le difficili condizioni che stanno subendo. Condizioni delicate per i detenuti tra l’emergenza covid19 e la canicola di questa estate rovente. Al nostro giornale è pervenuto lo sfogo di una donna catanese che ha il marito attualmente detenuto nel penitenziario di Caltanissetta. Diverse le criticità segnalate che hanno portato a una protesta pacifica i detenuti. “Innanzitutto noi ancora - spiega la signora - non possiamo abbracciare mio marito. Ci sono le divisioni in plexiglass nonostante entrambi abbiamo avuto il vaccino. Sono mesi che mio marito non abbraccia i suoi figli e non capiamo queste limitazioni. Inoltre le celle sono spesso sporche e i frigoriferi presenti delle varie sezioni sono rotti, quindi noi non possiamo portare loro nulla e non possono tenere nulla in fresco, con questo caldo fortissimo”. “Sono trattati come gli animali - conclude amara la donna - e non si può continuare ancora così. Chiediamo al direttore di intervenire”. Sulle difficoltà vissute nelle carceri è in prima linea l’attività di denuncia di Rita Bernardini, del partito radicale. Già a giugno aveva chiesto la ripresa dei colloqui “dopo il successo della campagna vaccinale in carcere e dopo che per 15 mesi a decine di migliaia di detenuti non è stato possibile riabbracciare i propri cari, anche e soprattutto figli minori”. Proprio oggi l’esponente radicale ha scritto al capo del Dap: “Eregio Dott. Petralia, avevo lodato le Vostre tempestive circolari da me sollecitate sul caldo in carcere e sulla ripresa dei colloqui. Il problema è che le disposizioni del Dap non sono applicate da nessuna parte, almeno dai riscontri che ho io. Siracusa, che ho visitato l’11 è un vero inferno: niente punti doccia, niente ventilatori, niente ora d’aria negli orari meno caldi, nessun uso dell’area verde (c’è ma non è stata mai aperta). Ieri a Latina sono collassate 6 donne, a Caltanissetta i detenuti si sentono come topi in trappola. Non oso immaginare cosa troverò a Vibo (dove scarseggia l’acqua) il giorno di ferragosto e a Catanzaro (lambito nei giorni scorsi da un furioso incendio). È emergenza se per mancanza di personale (immagino), le vostre disposizioni rimangono lettera morta”. Biella. Le divise della Polizia penitenziaria fabbricate in carcere di Paolo La Bua La Repubblica, 14 agosto 2021 Quaranta detenuti lavorano alla confezione. La vicepresidente del Senato Rossomando: “Ecco la risposta giusta”. Nel carcere di Biella vengono prodotte le divise della polizia penitenziaria di tutta Italia. Lo conferma la vice-presidente del Senato, Anna Rossomando, in visita questa mattina nella struttura di via dei Tigli. “Ho visto i macchinari nuovissimi e le divise del personale, sia per uomini sia per donne. Ci sono circa quaranta persone che lavorano, tutti i giorni, destinate ad aumentare nei prossimi mesi. Il progetto è pienamente operativo, finalmente, nonostante i rallentamenti per via dell’emergenza sanitaria in corso - ha spiegano la senatrice torinese, accompagnata da una delegazione del Pd locale e dalla garante dei diritti dei detenuti. Questa è la risposta migliore al tema della sicurezza e delle carceri, senza slogan e facili populismi”. I numeri della produzione tessile-industriale, che vanta la collaborazione dell’Ermenegildo Zegna e di scuole superiori biellesi, non sono ancora a pieno regime. “Il carcere non è una fabbrica - ha spiegato Rossomando. La produzione migliorerà al superamento della pandemia. Intanto ci sono persone che lavorano, si specializzano, costruendosi un futuro per quando saranno fuori dalle mura del carcere. Non mi pare poco! Questo progetto va nella direzione che intendiamo noi, cioè di un legame tra la struttura, i detenuti e il territorio, con la sua storia e la vocazione industriale che lo rende famoso nel mondo”. La situazione carceraria biellese è sostanzialmente positiva, rispetto ad altre realtà piemontesi. I detenuti sono circa 380 su una capienza massima di quasi 600. “C’è però una strutturale carenza di personale, sia di polizia sia amministrativo - ha spiegato la responsabile giustizia del partito -. E soprattutto non c’è abbastanza personale medico, specializzato e non. Inoltre abbiamo registrato la grande difficoltà, una volta usciti dal carcere, per molte persone, a ottenere il “green pass”, per problemi burocratici, dopo un’ottima campagna vaccinale. Sia persone di nazionalità italiana sia straniera. Prossimamente mi recherò in visita in altre strutture penitenziarie”. Trapani. Detenuti nel carcere di Castelvetrano ai giovani: “Siate buoni esempi” tp24.it, 14 agosto 2021 “La nostra società ha tanto bisogno di buoni esempi, di altruismo e di tanto amore”. Lo hanno scritto in una lettera rivolta ai giovani i detenuti della terza sezione del carcere di Castelvetrano. Sono tantissimi gli studenti che, in un periodo di vacanze come l’estate, dedicano il loro tempo agli altri. Spesso sono invisibili, di loro non se ne parla ma la loro attività nel “donarsi” (e donare il proprio tempo) è una “grazia di Dio”, dice il Vescovo di Mazara del Vallo, monsignor Domenico Mogavero, al quale la lettera è stata recapitata. Anche per quest’estate è successo a Palermo (nel quartiere Zen) ma anche a Castelvetrano. I detenuti hanno saputo dell’impegno dei giovani come volontari nel prodigarsi a favore dei più piccoli e dei più deboli e hanno scritto una lettera. “È difficile oggi trovare giovani come voi, in una realtà sociale dove si sono persi gran parte dei valori etici, morali e principalmente religiosi, dove si sta perdendo la fede, dove non si ricerca più il contatto con Dio e dove prevale la ricerca della felicità dove non esiste, dove non può esistere, nel materialismo puro, nel consumismo più sfrenato, dove l’uomo pensa di poter avere il controllo della propria vita e della propria felicità, ma non è così, prima o poi, succede a tutti nella vita, bisogna fare i conti con momenti, più o meno lunghi, di grande difficoltà e dolore dai quali è difficile uscire”, hanno scritto i detenuti. Per i detenuti non bisogna mai perdere la fede: “Ogni uomo si trova spesso e inevitabilmente vittima di errori commessi, difficoltà improvvise, malattie e tante altre situazioni o vicende gravi e brutte come le nostre, dove tutto crolla, l’esistenza subisce uno stravolgimento inatteso e sconfortante, ci si trova in un tunnel di cui difficilmente si vede la fine e ci sembra di non avere più la forza di rialzarci, si ha paura di perdere la fede perché ci si sente abbandonati da Dio, ma non è così”. Roma. Giardino della giustizia: le querce morte due volte di Paolo Conti Corriere della Sera, 14 agosto 2021 Un parco pubblico romano, devastato dalla siccità e dall’incuria come tanti altri spazi verdi cittadini, incluse alcune meravigliose ville storiche cariche di bellezza dove solo il volontariato di associazioni e di singoli cittadini spesso impedisce la morte di alberi, fiori, siepi. É troppo banale parlare di vergogna. Perché lo spettacolo spettrale del “Giardino della Giustizia” in via Luigi Schiavonetti alla Romanina, rinsecchito per la seconda volta nel giro di due anni e mezzo, diventa un intollerabile oltraggio ai 27 magistrati uccisi per difendere la legalità in questo nostro difficile Paese: tra loro Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Vittorio Occorsio, Francesca Morvillo. Una storia già denunciata dal Corriere della Sera nell’agosto 2019 con la morte delle prime querce piantate nel novembre 2018 e inaridite per incuria, abbandono e incapacità di curare un progetto così profondamente significativo soprattutto per le nuove generazioni. Giorni fa un puntuale servizio di Lino Lombardi del Tg2 ha denunciato il nuovo, incredibile capitolo: le 27 querce dedicate ai magistrati per volere della giunta guidata da Virginia Raggi sono morte per la seconda volta, tranne quattro che danno ancora segni di vita. Siamo andati a verificare ed è esattamente così, come testimoniano le desolanti fotografie del nostro Giuliano Benvegnù che sembrano scattate in un luogo veramente abbandonato da Dio e dagli uomini. Invece siamo in un parco pubblico romano, devastato dalla siccità e dall’incuria come tanti altri spazi verdi cittadini, incluse alcune meravigliose ville storiche cariche di bellezza dove solo il volontariato di associazioni e di singoli cittadini spesso impedisce la morte di alberi, fiori, siepi. La storia del “Giardino della Giustizia” comincia il 7 novembre 2018 quando la sindaca Raggi, accompagnata dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e da alcune scolaresche, inaugura il parco sotto telecamere e obiettivi dei fotografi: 27 querce e altrettante lapidi per i magistrati martiri caduti in nome della legalità. Zona densa di significati, la Romanina, per il lungo dominio del clan dei Casamonica. Idea eccellente che superava qualsiasi schieramento ideologico o partitico, ovviamente apprezzata da tante famiglie delle vittime. Concluso il rito destinato a tv e altri media l’intero parco viene immediatamente abbandonato, mai innaffiato e soprattutto mai curato come invece aveva promesso la sindaca Raggi assicurando “presenza in difesa della legalità”. La lettrice Raffaella Cortese ci scrive nell’agosto 2019 denunciando, indignata, la morte di tutte le querce e l’oltraggio alle lapidi dei magistrati, tutte coperte di sterpaglie. Pubblichiamo subito le foto, arrivano le amare proteste di tanti familiari di magistrati, tra cui quelli di Rosario Angelo Livatino, Pietro Scaglione, Emilio Alessandrini. Dopo lunghi giorni di silenzio, il Campidoglio reagisce con una nota diramata di notte, quasi clandestinamente, verso le 23 del 13 agosto 2019: tutta colpa dell’appalto firmato dall’ex assessora all’Ambiente, Pinuccia Montanari, che era privo della “garanzia di attecchimento”. Questa la tesi del Campidoglio, fortemente polemico verso l’ex componente della giunta che si era dimessa nel febbraio 2019 in aperto contrasto con Virginia Raggi. Dopo alcuni mesi vengono piantate altre 27 nuove querce. Che sono quelle morte per la seconda volta, prive (come le prime) di qualsiasi impianto di irrigazione. Di nuovo un paesaggio spettrale, come nell’agosto 2019. E di nuovo le lapidi di quei magistrati oltraggiate e rese illeggibili dalle sterpaglie. Qui non c’è da chiamare in causa Pinuccia Montanari. Ora la titolare delle Politiche del Verde si chiama Laura Fiorini e lavora in perfetto accordo con la sindaca uscente. Le querce sono morte per la seconda volta, offendendo ancora memorie, nomi, famiglie e il lascito di quei martiri civili La lezione civile di Gino Strada, l’uomo che odiava la guerra di Piero Colaprico La Repubblica, 14 agosto 2021 Amava la vita, tutte le vite, e odiava la guerra, tutte le guerre. Intorno a Gino Strada, morto a 73 anni ieri a Rouen, dov’era in vacanza (e da tempo era molto malato), si è levato un cordoglio generale e internazionale, con numerosi politici, da destra a sinistra, che lo ricordavano per quanto ha fatto in mezzo mondo, per le centinaia di migliaia di persone curate. E forse un simile medico non poteva che nascere e crescere in quella periferia milanese inconsapevolmente aristocratica chiamata “Stalingrado rossa”: a Sesto San Giovanni, la cittadina operaia della Falck, della Marelli, della Pirelli. Figlio di due operai, prodotto esemplare di un proletariato solido, che mandava i ragazzi più svegli nelle scuole giuste, s’era ritrovato adolescente in parrocchia, con l’ex presidente delle Acli e deputato, Giovanni Bianchi, sestese anche lui. Ma il futuro medico non ha mai avuto vocazioni da santo. Si dichiarava ateo. Un uomo sin troppo diretto. Zero in diplomazia. Intransigente. A tratti volutamente sgradevole e, come si sente ripetere, “divisivo”. Eppure, nello stesso tempo, un essere umano allegro, scapigliato, scanzonato, capace di “staccare” dal dolore e passare le serate a tavola a discutere di tutto, bravissimo ai fornelli, in grado di cucinare una paella memorabile. Fedele agli amici veri, conosciuti ai tempi del liceo classico al Carducci, in piazzale Loreto, lo stesso di Bettino Craxi, Claudio Martelli, Armando Cossutta. La laurea è inevitabilmente all’università Statale. Negli anni della contestazione, fa parte del Movimento studentesco, si occupa del giornale. E dalla sua passione per la scrittura nasce il libro che lo rende famoso: Pappagalli verdi, edito da Feltrinelli nel 1999. Il titolo deriva dalla forma di alcune mine anti-uomo. Sono costruite come giocattoli, con l’idea che siano soprattutto i bambini a raccoglierle. E quindi i primi a morire, a restare menomati, in modo da “fiaccare il morale” delle popolazioni. La forza con cui, intervistato, Strada sa raccontare la crudeltà dei teatri di guerra aggrega d’improvviso intorno alla “E” rossa di Emergency, la Ong fondata con la prima moglie Teresa Sarti, decine di migliaia di pacifisti di ogni età, credo, censo. Strada diventa trasversale in un’epoca nella quale non si parlava come adesso di “volontariato”. Lui è un semplice volontario disarmato. Uno che senza dire niente a nessuno, almeno così era all’inizio della lunga carriera, rischia la vita al fronte, in mezzo a morti, feriti, malati, contagiati. Armato di bisturi e medicine. Sostenuto da amici. Punto di riferimento di moltissimi colleghi medici. E con le sue capacità di abile navigatore del mondo, compreso un inglese perfetto. E se sa resistere dove cadono le bombe, volano i proiettili e bisogna stare attenti a calunnie, dossier, rapporti torbidi con spie ed assassini, dipende anche, come dice chi l’ha conosciuto bene, dal fatto che il cardiochirurgo sa dove tornare: nella modesta Sesto San Giovanni, dove aveva trovato moglie e dove, quando poteva, andava al bar osteria “La Teresa”, per giocare a boccette. C’è stato, dopo la popolarità dilagante, un Gino Strada che nelle manifestazioni contro la guerra è in prima fila, che nel 2002 per ricordare la dichiarazione dei diritti dell’uomo riesce a portare in piazza 25mila persone praticamente da solo. È a questo Gino Strada che vengono offerti vari ruoli nella politica attiva, ma dice sempre no. Anzi, scatena a sinistra polemiche feroci. A cominciare da Massimo D’Alema, che aveva concesso le basi italiane per il bombardamento deciso dalla Nato sull’ex Jugoslavia. In quel periodo Strada smette di votare e, tra il 2006 e il 2007, se la prende ancora con Romano Prodi e sempre con D’Alema per la guerra in Afghanistan. Come racconta al nostro Gianni Mura, “Con la guerra si prepara solo un’altra guerra”. La sua è una visione drastica: “Io non sono contro l’America né tantomeno filo-Taliban. Sono contro i pazzi, in buona parte con l’attenuante di una stupidità profonda, che pensano di risolvere in questo modo i problemi del mondo”. Fedele a questo schema, ha finito per litigare con moltissime persone. Per un breve periodo, persino con la figlia Cecilia sulla gestione di Emergency. Ora che è morto nell’amata Normandia, con accanto la seconda moglie, Simonetta, sposata a giugno, si può dire che Gino Strada muore “povero”. Senza lasciare beni materiali, titolare di una pensione un po’ disastrata. Il suo è un lascito diverso, che fa dire al presidente della Repubblica Sergio Mattarella che Strada “invocava le ragioni dell’umanità” e al presidente del consiglio Mario Draghi che “ha trascorso la sua vita sempre dalla parte degli ultimi”. Un lascito forte, che commuove Milano: almeno la Milano che conserva un pensiero per gli altri. Con Gino Strada, dalla parte del torto di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 14 agosto 2021 Non c’è retorica che tenga nel ricordarlo come un protagonista - il protagonista - del pacifismo internazionale, quella “terza potenza mondiale” che alla fine fu ripetutamente sconfitta dalle tante, troppe guerre attivate ormai da scelte bipartisan in nome dell’”umanitario” e/o della “democrazia”. Gino, il compagno Gino Strada ci ha lasciato. È una morte pesante per il manifesto. Perché ovunque si sia mostrata in questi ultimi trenta anni una scellerata guerra promossa dall’Occidente, o direttamente o indirettamente, con le sue devastanti conseguenze, come la disperazione dei profughi in fuga dalle ultime macerie o la scia di sangue del terrorismo di ritorno, lì abbiamo sempre trovato Gino, perfino prima di noi, impegnato a dire no al nuovo, inutile spargimento di sangue. Come dimenticare poi che per alcuni anni insieme abbiamo promosso, con questo giornale, le nuove iniziative umanitarie da lui attivate nel grande serbatoio delle nostre ricchezze, il continente africano. Non c’è retorica che tenga nel ricordarlo come un protagonista - il protagonista - del pacifismo internazionale, quella “terza potenza mondiale” che alla fine fu ripetutamente sconfitta dalle tante, troppe guerre attivate ormai da scelte bipartisan in nome dell’”umanitario” e/o della “democrazia”. Lui l’alternativa alla guerra la costruiva umanitariamente ogni giorno sul campo con la pratica di Emergency, negli ospedali che il suo pacifismo attivo - non a chiacchiere - apriva, dove le armi non entravano e pronti ad accogliere tutte le vittime bisognose di cura e soccorsi, abolendo così la figura del nemico. È sconvolgente che Gino Strada muoia nel momento in cui muore, un’altra volta, l’Afghanistan dopo venti anni di occupazione militare delle missioni Usa e Nato, rioccupato da quei talebani che la guerra del 2001 voleva sconfiggere e punire, come vendetta dell’11 settembre. Tra meno di un mese è il ventesimo anniversario di quella data che ha cambiato il mondo e gli Stati uniti a guida Biden riconoscono - indirettamente - che quel conflitto, che tanto sangue è costato soprattutto dei civili, è stato insensato. Un comportamento criminale che oscura ancora di più le nebbie già fitte delle Twin Towers distrutte. Ma naturalmente la logica del dominio non può perdere la faccia, tutto sembra preordinato e tutto va sacrificato: basta salvare l’ambasciata americana. Sembra un film ma non lo è. Regna il caos ora in terra afghana, tra rovine, disperazione dei civili in fuga e massacri che si annunciano. Così l’addio di Gino appare come una nemesi: se ne va, dalla parte del torto proprio quando aveva ragione, proprio mentre la scena del disastro che ha denunciato mille e mille volte è illuminata nei suoi recessi più nascosti e mentre trionfano le sue parole di pace e di critica all’intervento armato. Ora la morte di un uomo buono, giusto ma irriducibile, figlio di una generazione tutt’altro che sottomessa, ci lascia un testimone prezioso: quello di essere all’opposizione di ogni avventura militare. Gino Strada lascia eredi non solo nelle nostre convinzioni profonde ma nel comportamento di tanti giovani ancorché nascosti nelle pieghe quotidiane della cronaca. Chissà cosa pensa, mi sono chiesto, quando solo due settimane fa - mentre l’Amministrazione Usa avviava il ritiro delle truppe sul terreno - un tribunale americano si affrettava a condannare per tradimento a quattro anni di prigione Daniel Hale, giovane analista dell’intelligence dell’aviazione Usa che, contro tutto e tutti, ha avuto il coraggio di denunciare i crimini a distanza sui civili afghani dei bombardamenti fatti con i droni. Un fatto è certo, la missione di Gino Strada costruttore di pace non finirà con lui. E ci chiama a ruolo e a responsabilità. Quegli ospedali di Emergency, luci nel buio delle guerre di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 14 agosto 2021 I nostri incontri. Dal Corno d’Africa, al Kurdistan iracheno, all’Afghanistan, a Baghdad. Essere contro la guerra coerentemente, senza se e senza ma, è difficile, estremamente difficile. Ma questa è stata la scelta di Gino Strada, una scelta che l’ha reso una icona sul fronte del no alla guerra. Gino conosceva bene le conseguenze dei conflitti, bastava frequentare gli ospedali di Emergency per averne contezza. Con Gino ci conoscevamo dal ‘68, eravamo entrambi militanti del Movimento studentesco, la sede era in piazza Santo Stefano a Milano di fianco alla Statale, io mi occupavo delle pubblicazioni - Fronte popolare e supplementi - e il collettivo di medicina curava Medicina democratica. Erano anni di grande fermento politico e culturale. E l’idea, o l’utopia, che si potesse cambiare il mondo era una suggestione che alimentava il nostro impegno politico. Chi ha vissuto quei momenti ha sempre mantenuto una sorta di affinità elettiva che ti faceva ritrovare sulla stessa sponda anche dopo anni, perfino decenni. Così è stato con Gino. Lui sempre rigoroso, intransigente, a volte quasi scontroso, erano questi i lati del suo carattere che lo facevano apprezzare o disprezzare. Ero nel Corno d’Africa cercando di entrare nel Somaliland, che aveva dichiarato l’indipendenza dalla Somalia, quando, a Gibuti, ho ritrovato Gino insieme a un gruppo di infermieri. Allora dirigeva l’ospedale e con un piccolo aereo si spostava per intervenire anche nel Somaliland. Nell’ospedale venivano curate e deinfibulate donne che avevano subito mutilazioni genitali devastanti, una piaga che ancora infesta molti paesi dell’area. Emergency non era ancora nata, sarebbe stata fondata nel 1994. Una ong creata per curare le vittime delle guerre e sanare le loro ferite, con l’impegno ad abolire la guerra dal nostro pianeta. Utopia e/o miraggio che però ha fatto crescere ospedali come centri di eccellenza sanitaria in diversi paesi interessati da conflitti. A metà degli anni ‘90 mi trovavo nel Kurdistan iracheno per seguire gli scontri scoppiati tra Partito democratico del Kurdistan di Barzani e l’Unione patriottica del Kurdistan di Talabani. L’entrata attraverso il confine turco era stata un po’ rocambolesca, ero stata poi scaricata da un furgoncino a Shaqlawa, al quartier generale del Fronte democratico di Barzani, in pieno coprifuoco. Avevo poi deciso di spingermi fino a Sulaymania, poco distante dal confine iraniano, sotto il controllo di Talabani, per visitare il Centro di riabilitazione e reintegrazione sociale costruito da Emergency per curare le vittime delle mine e garantire loro un futuro. L’appuntamento con Gino Strada - fissato con l’aiuto di Teresa Strada - mi avrebbe permesso di avere anche il polso della situazione. Quando arrivai al centro però stavano evacuando Gino perché aveva avuto un infarto, era forse il primo campanello d’allarme di quei disturbi che mal si conciliavano con la vita stressante in luoghi estremamente difficili in cui si trovava ad operare. E poi l’Afghanistan, dove forse si è svolto, e continua a svolgersi, il lavoro più impegnativo di Emergency, con un ospedale molto efficiente in tempo di guerra. All’arrivo, nel dicembre del 2001, non ero riuscita a trovare un posto per dormire, si faceva buio, la situazione era piuttosto inquietante. A chi rivolgersi? Gino Strada era a Kabul, riuscì a darmi ospitalità per una notte, il tempo per trovarmi un albergo, in realtà una stamberga, perché la casa di Emergency, giustamente, doveva ospitare solo il personale di Emergency. Ero a Kabul senza un satellitare, “ma ti mandano in giro senza nemmeno un satellitare?” mi redarguiva Gino. E quando alla fine ho trovato ospitalità nello stesso quartiere, andavo da lui tutte le sere per spedire il mio pezzo e a volte rimediavo anche un bel piatto di pasta. Il lavoro nell’ospedale di Kabul, che ho visitato molte volte e in periodi diversi, è senza dubbio straordinario, anche perché svolto in una situazione estremamente complicata, come quando dominavano i talebani. Emergency era attiva anche nel Panshir, controllato dall’Alleanza del nord di Massud e più tardi a Lashkar-Gah, la città nelle ultime ore caduta nelle mani dei Taleban. Nel 2003 ero a Baghdad quando vi giunse una “missione” di Emergency - recapitandomi un po’ di risorse inviate dal manifesto per permettermi di sopravvivere in Iraq - che voleva esaminare la possibilità di intervenire sul terreno. Un terreno minato in tutti i sensi. E poi l’Africa - con centri pediatrici e di cardiochirurgia a Kartum - e perfino l’Italia, dove il terremoto, i migranti, i più fragili hanno reso necessario l’intervento di Emergency. Ma Gino se ne va pensando e scrivendo sull’Afghanistan e ricordando quegli “eroi di guerra” che stanno soffrendo mentre il paese sta sprofondando in un nuovo baratro. Per ricordare Gino senza retorica non resta che continuare il suo impegno, che è anche il nostro, contro la guerra. Tutti danno ragione a Gino Strada soltanto adesso che è morto di Roberto Monaldo Il Domani, 14 agosto 2021 “Avere ragione vent’anni dopo non vale”. Ce lo hanno hanno spiegato solo pochi giorni fa gli ex ragazzi di Genova 2001, e giusto ieri ce lo aveva scritto anche Gino Strada in un editoriale sulla Stampa. Una pagina che si accartocciava tra le mani mentre arrivava la notizia della sua morte: da tempo soffriva di cuore. Lì Strada ragiona sul ritiro delle truppe dall’Afghanistan ora che una delle “guerre infinite” - quella illegale iniziata il 7 ottobre dopo l’attacco alle Torri gemelle - è finita malissimo e i talebani sono a 50 km da Kabul. “Dicevamo vent’anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l’esito di quell’aggressione è sotto i nostri occhi: un fallimento da ogni punto di vista”, scrive. Il medico fondatore della ong Emergency è stato il capofila e il simbolo di tutti quelli che - ma erano pochi all’epoca - si opposero alla “coalizione dei volenterosi”. Emergency era nata da sei anni, un’associazione dedicata alle emergenze sanitarie, aveva lo sguardo visionario dei suoi fondatori Strada e Teresa Sarti, la sua prima moglie - morta nel 2009 - e aveva già creato ospedali in Ruanda dopo il genocidio. Curava le vittime delle guerre, tutte, non solo i buoni, era “indipendente e neutrale”. La ong era già in Afghanistan da tre anni quando Bush junior lanciò la caccia ai talebani. Per anni Strada è stato il principale testimone dell’accusa ai governi per l’inutile mattanza che si stava compiendo a Kabul e per la fragilità con cui veniva costruito il nuovo stato. Nelle denunce era intransigente, non concedeva scampo a nessuno ma in particolare scattava di fronte all’antropologia del politico di tipo socialdemocratico, di quelli che non riescono mai a sottrarsi a nessuna formazione di cacciabombardieri. Non era un uomo pacifico e non amava la parola “pacifista” che di guerra in guerra è stata usata sempre più sinonimo - neanche di idealista e utopista - di imbecille che non capisce la geopolitica. I successi di quelli che la capiscono sono sotto gli occhi di tutti, ci ha spiegato Strada ieri per l’ultima volta. Diceva “io sono contro la guerra, la più grande vergogna dell’umanità” ma “nel mondo umanitario c’è molto dilettantismo”. Lui invece era un professionista e infatti ha trasformato la sua Emergency onlus nell’impero del bene: opera in 19 paesi e ha salvato 11 milioni di persone, in Afghanistan ha tre ospedali, un Centro di maternità e una rete di 44 posti di primo soccorso. E dalla Kabul di queste ore ci spiegano che “l’ospedale di Emergency è ancora uno dei pochi punti fermi dell’Afghanistan”. Le magliette di Emergency per anni sono state il vero simbolo del movimento pacifista e della sinistra contraria alle guerre umanitarie. L’autorevolezza del fondatore è la chiave della monumentale raccolta dei fondi. Anche quando, dopo le grandi manifestazioni del 2003 contro la guerra in Iraq (110 milioni di persone in piazza in giro per il mondo, per il New York Times il movimento pacifista è “la seconda potenza mondiale”), il pacifismo smette di portarsi in società e di circolare nelle piazze. E l’arcobaleno diventa il simbolo dei diritti civili. Strada continua a far salvare vite gratuitamente in giro per il mondo. Vede la necessità di allargare il campo della sua ong che interviene nei luoghi della povertà, anche dove la guerra non è dichiarata, da Marghera a Polistena, a Milano e Ragusa, Napoli e Cagliari, fino alla Calabria e al supporto per il Covid, e siamo ai nostri giorni. Emergency diventa una potenza di cultura di pace, di solidarietà, Strada è sempre più un guru, collabora con don Ciotti e con Maurizio Landini, ma tiene a distanza la politica, anche la sinistra. Ha un caratteraccio, è un santo laico, ma non gli giova il santino che ne fanno i suoi estimatori. Ha posizioni radicali e irriducibili, ma se le può permettere perché salva vite umane. Ma quello che è imperdonabile per Strada è aver avuto ragione sulla guerra a dispetto dei trombettieri della “libertà duratura”. Ha fatto in tempo a scriverlo per l’ultima volta: “Per finanziare tutto questo, gli Stati Uniti hanno speso complessivamente oltre 2mila miliardi di dollari, l’Italia 8,5 miliardi di euro. Le grandi industrie di armi ringraziano: alla fine sono solo loro a trarre un bilancio positivo da questa guerra. Se quel fiume di denaro fosse andato all’Afghanistan, adesso il paese sarebbe una grande Svizzera. Peraltro, alla fine, forse gli occidentali sarebbero riusciti ad averne così un qualche controllo, mentre ora sono costretti a fuggire”. L’eredità di Gino Strada, un combattente per la pace di Walter Veltroni Corriere della Sera, 14 agosto 2021 Qualcuno si lamentava della radicalità di certe sue posizioni. I riformisti sappiano che se vogliono cambiare le cose del mondo devono ascoltare chi, come lui, era dalla parte degli ultimi. Ci sono vite splendide, vissute inseguendo i propri valori, le proprie convinzioni più profonde, sapendo costruire comunità e sapendo restare soli, quando serve. Vite consacrate all’imperativo morale di dire ciò in cui si crede, non ciò che conviene dire. Ci sono vite splendide, vissute trasformando, con la fatica di un artigiano, le parole che ti ronzano tra il cervello e la testa in luoghi, strumenti, cose che mutano la vita degli altri, realizzando la tua. Gino Strada ha vissuto una di queste vite bellissime, piene di senso. Ha sofferto come pochi, nella sua vita personale e nella sua esperienza di medico e di volontario. Ha conosciuto la morte di chi amava ed era parte della sua vita e quella di chi non conosceva, perché arrivava con il viso sfigurato dall’esplosione di una mina. Ha sofferto per loro, perché una vita bellissima è spesso una vita di sofferenza per gli altri. Gino è stato dalla parte degli ultimi, sempre. I “dannati della terra” avevano in lui un difensore strenuo e coraggioso. Più erano soli al mondo, più erano dimenticati e più Gino si occupava di loro, cercava di alleviare le loro sofferenze, la loro solitudine. Ma non era un santo contemporaneo. Era un uomo contemporaneo. Qualcuno che sa che l’esistenza è una dimensione nella quale vi è una comunità di destino, una relazione, come un filo invisibile, che lega, sempre e comunque, gli esseri umani tra loro. Agiva spinto da forti motivazioni civili, sociali, politiche. Non era un predicatore. Era un combattente per la pace, un ossimoro che in lui trovava un senso compiuto. Qualcuno si lamentava della radicalità di certe sue posizioni. Provate voi a essere moderati in una corsia di un reparto ospedaliero nel deserto in cui arrivano bambini con il ventre squarciato da una bomba, o contemplando, in Siria o in Afghanistan, il cinismo dell’Occidente che è capace, al contempo, di esportare democrazia sulla canna di un fucile e di abbandonare, come accade a Kabul, intere popolazioni al dominio della violenza e della intolleranza. Gino era per la pace, sempre e ovunque, sempre e comunque. Lo era non solo con le parole, spesso ruvide, ma con la fatica di chi ha fatto vivere una delle più importanti organizzazioni del volontariato come Emergency. Di radicalità veniva accusato anche Padre Alex Zanotelli. Ma chi lo faceva non era mai stato nell’inferno di Korogocho o nelle discariche dove i bambini si nutrono di rifiuti e di droga artigianale. E i riformisti in particolare dovrebbero sapere che, se vogliono cambiare le cose del mondo, con la radicalità e il conflitto devono fare i conti, devono sforzarsi sempre di ascoltare, capire, tradurre in programmi e decisioni spinte che salgono dalla voce di chi la sofferenza la conosce e la vive. Non si difende l’idea di una società multietnica se non si difendono i diritti di chi rischia di annegare in mare, se non si garantisce a chi è nato qui di essere italiano. Non si può parlare di pace se ricchezza e povertà sono così iniquamente distribuite. Ai governi che ne abbiano la sensibilità la capacità di individuare le soluzioni che assicurano la rimozione delle ingiustizie. Ma ascoltando sempre la voce di chi condivide quelle sofferenze, le vive sulla propria pelle, le rappresenta con la necessaria forza. Con Gino si poteva non essere talvolta d’accordo, ovviamente. Ma era un grande uomo, al quale ho voluto bene. Da oggi, si deve sapere, i poveri, gli emarginati, i “dannati della terra” sono più soli. Chi lo ha stimato e apprezzato assuma ora il suo punto di vista non come la bizza di un uomo inquieto ma come lo stimolo a fare in modo che radicalità e riforme concrete non siano mai due sorelle separate. E che sempre, al centro, ci siano i diritti dei più deboli. Quelle 239 leggi in Italia che parlano ancora di “razza” di Sergio Rizzo La Repubblica, 14 agosto 2021 “Origine razziale”. Inutile stropicciarsi gli occhi: proprio così c’è scritto. Oltre settant’anni dopo la fine dell’infamia delle leggi razziali volute dal fascismo e sottoscritte da Vittorio Emanuele III, quelle parole sono riaffiorate in un atto ufficiale della Repubblica italiana nata dalla Resistenza. Possibile? Altroché. Dicembre 2016, l’autorità della Privacy presieduta dall’ex onorevole del Pd Antonello Soro rilascia un’autorizzazione all’uso di dati personali a fini di ricerca. E nella delibera spunta la seguente frase: “Il trattamento può comprendere anche dati idonei a rivelare la vita sessuale e l’origine razziale ed etnica solo ove indispensabili per il raggiungimento delle finalità della ricerca”. Uno spiacevole infortunio? Macché: le parole “origine razziale” ricorrono anche in altre delibere della stessa autorità. Per esempio, in una pubblicata a gennaio 2019 (due anni e più dopo quella di cui sopra) sulle regole che devono seguire i giornalisti, prescrivendo ai medesimi che “nel raccogliere dati personali atti a rivelare origine razziale ed etnica, convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, opinioni politiche...” si debba garantire “il diritto all’informazione su fatti di interesse pubblico...” Ovvio. Ma perché usare quel termine, “origine razziale?” Forse che la razza umana non è una sola, come accertato dalla scienza, e ci sono invece più razze umane, com’è ancora purtroppo convinto qualche triste figuro in giro per il mondo, Italia compresa? Non arriviamo a pensarlo. Grave è però che gli autori di quella formula sconsiderata ripetuta più volte negli atti ufficiali dell’authority non si siano resi conto delle implicazioni. E pensare che mentre i rigorosi esperti della Privacy la usavano con inconcepibile leggerezza, in Europa si stava da tempo discutendo sull’opportunità di eliminare la parola “razza” dalle costituzioni. La Francia c’è arrivata nel 2018, e la Germania lo scorso anno. E noi? La discussione va avanti senza esito da anni. L’abolizione della parola “razza” dall’articolo 3 della Costituzione italiana (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) era stata chiesta ufficialmente dalle comunità ebraiche più di sei anni fa. E la senatrice a vita Liliana Segre, in una intervista a Repubblica del febbraio 2018 aveva detto: “Sarebbe un ottimo segnale”. Ma c’è chi, come il presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini, e l’ex presidente della Consulta Paolo Grossi, pensa che la parola sia un “monito” e dunque vada mantenuta. Quanto ai politici, l’idea non dev’essere accolta con particolare entusiasmo, se si eccettua l’annuncio di un disegno di legge dell’Italia dei valori. Anche se nella banca dati del Parlamento non compare nessuna proposta di legge. Eppure, in un Paese che nel 1938 si macchiò dell’abiezione delle leggi razziali, non sarebbe una questione di lana caprina. Soprattutto oggi, che si assiste a pericolose recrudescenze, perfino in ambiti politici apparentemente insospettabili. Dice tutto una formidabile ricerca di tre avvocati della Deloitte legal. Carlo Gagliardi, Barbara Pontecorvo e Francesco Paolo Bello hanno scoperto che dal 1944, quando le leggi razziali sono state formalmente abolite, la parola “razza” e l’aberrante concetto di “origine razziale” compaiono in ben 239 atti ufficiali dello Stato italiano. Si comincia con provvedimenti precedenti alla repubblica: 4 regi decreto legge. E poi 6 decreti legislativi luogotenenziali, 3 decreti legislativi del capo provvisorio dello stato, 9 decreti del Presidente della Repubblica, 6 decreti leggi, 86 leggi ordinarie, 31 decreti legislativi, 32 decreti del presidente del Consiglio dei ministri. E addirittura 31 contratti collettivi nazionali di lavoro. Per non parlare di 15 delibere dell’autorità della Privacy (incluse quelle di cui sopra), 2 dell’Agcom, 6 della Commissione di garanzia sui bilanci dei partiti politici, e altri 8 pronunciamenti di vari organismi. Ce n’è perfino uno dell’Agenzia italiana del farmaco, 18 febbraio 2019. È un allegato alla determinazione che riguarda una medicina specifica, e una frase sulle sue possibili controindicazioni lascia letteralmente di stucco. Fra le “popolazioni” che mostrerebbero “un’aumentata inibizione della Pde4” si cita quella delle “femmine di razza nera non fumatrici”. Leggendo e rileggendo questa incredibile frase, scritta da qualcuno non più tardi di due anni e mezzo fa viene da pensare che qualcosa di profondo da quell’epoca buia sopravviva ancora oggi. Quanto fosse profonda quella ferita inferta dal fascismo a tutti gli italiani, del resto, lo testimoniano i provvedimenti con cui nel 1944 vennero ripristinati i diritti dei cittadini bersagli delle leggi razziali: citati, in quelle leggi che abrogavano l’abominio, come appartenenti alla “razza ebraica”. Forse il legislatore dell’epoca dovette agire in situazioni eccezionali, e senza troppo pensarci riprese alla lettera il vocabolario delle leggi da abolire. Alcune delle quali nemmeno sono state abolite. Nell’elenco degli atti ufficiali ancora vigenti nei quali compare la parola “razza” stilato dagli esperti di Deloitte legal c’è per esempio un regio decreto del 1942 che fissa le regole per la concessione dei certificati di abilitazione dei radiotelegrafisti delle navi mercantili. Dove, all’articolo 2, è severamente prescritto che dagli esami “sono esclusi gli appartenenti alla razza ebraica”. Firmato: Vittorio Emanuele III, oltre che Benito Mussolini”. Ma per non farci mancare proprio nulla, c’è anche il caso di una leggina razziale abolita e poi incredibilmente tornata in vigore. Trattasi del regio decreto del 1939 che escludeva dall’assicurazione pubblica per “nunzialità e natalità” tanto “i cittadini stranieri” quanto “i cittadini italiani di razza non ariana”. Decreto sopravvissuto fino al 2009 (per 70 anni!), prima di essere seppellito nell’infornata delle “375 mila leggi inutili” che il prode ministro Roberto Calderoli incendiò con il lanciafiamme in una caserma dei vigili del fuoco. Salvo poi scoprire che insieme alle leggi inutili erano state abrogate pure leggi come quella che aveva abolito la pena di morte o quella che aveva istituito la Corte dei conti. Si dovette così fare un decreto per salvare le leggi abolite per sbaglio, e per sbaglio si salvò anche quella vergogna. Che, per quanto ormai inefficace, continua a far parte del cospicuo armamentario normativo italiano. Involontariamente, s’intende. Chi potrebbe sospettare il contrario? Così come non si può sospettare che i riferimenti alla “razza” nelle nostre leggi siano stati introdotti con intenzioni meno che onorevoli, considerando che pressoché tutti riguardano prescrizioni antidiscriminatorie. “È vietato raccogliere informazioni e dati sui cittadini per il solo fatto della loro razza...”, recita il regolamento di polizia giudiziaria di quarant’anni fa. Mentre il “divieto di qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sulla razza” è giustamente sancito anche dal nuovo statuto del Comune di Roma approvato dalla maggioranza che sostiene Virginia Raggi. Ma non si può non notare, come sottolinea Barbara Pontecorvo, “che la parola razza ricorra pure nei provvedimenti che recepiscono gli accordi internazionali sui diritti umani”. Ce n’è uno del 1946 nel quale si legge: “Come parti di una comune razza e come membri della stessa umanità, i popoli dell’emisfero occidentale partecipano vivamente alle infelici condizioni delle vittime della guerra in Europa”. Quando poi si va più indietro, si scopre che prima del fascismo la parola “razza” non era quasi mai utilizzata negli atti ufficiali. Nello Statuto albertino non ce n’è traccia, e le leggi del Regno d’Italia la citano a proposito delle razze bovine o equine. Quasi mai in riferimento all’uomo. Capita una volta, nel 1874, in occasione della elezione a corpo morale dell’Istituto Nascimbene di Pavia, cui si attribuisce il compito di creare una cattedra universitaria di “Storia di progresso della razza latina nelle Indie occidentali d’America”. Poi quasi più nulla. La questione, insomma, è assai più seria di quanto non pensino i tanti politici che fanno spallucce perché l’Italia, dicono, ha ben altri problemi da risolvere che togliere una parola dalla Costituzione. È un fatto di civiltà, come sanno bene anche i linguisti che ormai da anni, come ricorda Valeria Della Valle, sono impegnati nella revisione del significato di certi termini nei vocabolari. Quei 239 atti ufficiali in cui si parla con superficialità di “razza”, perché quella parola c’è anche nella legge delle leggi, dicono ora con estrema chiarezza che è arrivato anche in Italia il momento di aprire una discussione seria su quel passaggio dell’articolo 3 della Costituzione. Quella parola non è un monito: è soltanto sbagliata. Numero record di detenzioni di migranti al confine tra Messico e Stati Uniti di Marina Catucci Il Manifesto, 14 agosto 2021 L’amministrazione Biden già da tempo ha intrapreso una serie di azioni per reprimere il flusso dei migranti, tra cui l’aumento del personale intorno al confine. Gli Stati Uniti hanno registrato un numero “senza precedenti” di migranti che cercavano di attraversare illegalmente il confine meridionale con il Messico. Ad affermarlo è stato il segretario per la sicurezza interna Alejandro Mayorkas, secondo il quale a luglio la dogana e l’ente di protezione delle frontiere hanno arrestato circa 212.600 persone. Questo numero segna un aumento insolito rispetto al mese precedente, visto che i tentativi di attraversamento dei confini solitamente in estate diminuiscono per via delle alte temperature che si registrano in quella zona. Questa cifra record segna il numero mensile più alto di migranti detenuti al confine tra Stati Uniti e Messico in due decenni. L’amministrazione Biden già da tempo ha intrapreso una serie di azioni per reprimere il flusso dei migranti, tra cui l’aumento del personale intorno al confine, il rafforzamento del personale medico, la ripresa di una procedura di espulsione accelerata per le famiglie di migranti, e l’organizzazione di voli per i migranti illegali che vengono mandati verso altre parti del confine o all’interno del Messico, tutte mosse che sono ora state rafforzate per dissuadere i migranti dal tentare nuovamente la traversata. L’amministrazione Biden ha esteso a tempo indeterminato una politica dell’era Trump che consente l’espulsione rapida dei migranti incontrati al confine tra Usa e Messico, mentre decine di migliaia di migranti continuano ad attraversare il confine. L’autorità per la salute pubblica è stata invocata all’inizio della pandemia di coronavirus ed è stata criticata da avvocati ed esperti sanitari secondo i quali la mossa non solo non ha basi sanitarie, ma mette in pericolo i migranti. Afghanistan, il fantasma di Saigon di Federico Rampini La Repubblica, 14 agosto 2021 La caduta di Kabul, data per quasi certa di fronte all’avanzata dei talebani, viene affiancata nella memoria al panico di 46 anni fa in Vietnam. Quel maledetto 30 aprile 1975, giorno della caduta di Saigon, Joe Biden aveva 32 anni, era ancora agli esordi della sua carriera politica, il più giovane senatore nella storia degli Stati Uniti. Oggi il più anziano presidente d’America, pur considerato un esperto di politica estera, viene accusato di ripetere quell’episodio infame. In tanti paragonano la partenza delle truppe americane dall’Afghanistan alla ritirata dal Vietnam. La caduta di Kabul, data per quasi certa di fronte all’avanzata dei talebani, viene affiancata nella memoria a quel panico di 46 anni fa: le scene degli elicotteri in partenza dal tetto dell’ambasciata Usa di Saigon, i sudvietnamiti che si lanciavano disperati per aggrapparsi alla salvezza, tornano come un incubo che angoscia l’America. Biden lo sapeva quando annunciò la sua decisione di lasciare l’Afghanistan: il mese scorso fece riferimento proprio all’immagine dell’evacuazione degli elicotteri nella fuga scomposta del 1975: “In nessuna circostanza vedrete persone sollevate dal tetto”. Duri attacchi a Biden vengono dai repubblicani, il loro capogruppo al Senato dice: “Questo presidente ha scoperto il modo più veloce per concludere una guerra: perderla”. Un deputato della destra che ha combattuto su quel fronte nei Berretti Verdi, Michael Waltz, si appella a Biden perché “schiacci l’offensiva dei talebani mobilitando la nostra potenza aerea”. Il rimprovero più frequente da destra è di natura strategica: l’abbandono dell’alleato afgano è un colpo alla credibilità dell’America in tutto il mondo; il vuoto lasciato dalla partenza delle forze Nato verrà riempito da altre potenze come Cina, Russia, Pakistan, Turchia. Non mancano le voci critiche anche a sinistra. Il Washington Post, giornale progressista, in un duro editoriale sentenzia: “Le vite perdute o rovinate degli afgani faranno parte dell’eredità di Biden”. L’ala sinistra del partito democratico, umanitaria e terzomondista, sottolinea i progressi compiuti durante vent’anni di conflitto: fino al 2001 i talebani proibivano alle ragazze di andare a scuola, oggi la loro scolarizzazione raggiunge il 50%. Infine Biden si è messo contro i vertici delle sue forze armate. Il generale Lloyd Austin, segretario alla Difesa, e il generale Mark Milley, capo di stato maggiore, erano contrari alla ritirata. Fra le altre cose i capi militari temono che i talebani, avendo già tradito ogni sorta di promessa, possano tornare a proteggere ed ospitare i terroristi di Al Qaeda o dell’Isis. Il momento è grave, ma Biden non sembra aperto a ripensamenti. Dalla sua, ha la coerenza, che non sempre brilla fra i suoi accusatori. È dal 2009, quando era vice di Barack Obama, che lui milita nell’opposizione al prolungamento del conflitto. Già allora si scontrò con i generali - e perse, col risultato che Obama mandò altri 47.000 soldati su quel fronte, in una escalation che oggi si conferma inutile. Alle critiche della destra la Casa Bianca risponde che fu proprio Donald Trump a delineare per primo un calendario così ravvicinato - e incondizionato - per il ritiro. Inoltre la “teoria del domino” fu smentita proprio dal Vietnam: secondo quella teoria, l’abbandono di un Paese alleato sarebbe stato seguito da una catena di defezioni, o di invasioni comuniste in tutto il Sud-Est asiatico. Non andò così. La sinistra umanitaria che critica Biden per le sofferenze degli afgani è la stessa che denunciava l’invasione dell’Afghanistan come un crimine imperialista. Invece il progresso per i diritti umani è stato indubbio durante la presenza delle forze Nato. Ma il rispetto delle bambine afgane, l’emancipazione femminile, non possono essere vincolati ad una permanenza a tempo indefinito di truppe straniere. Biden è sempre stato scettico sull’idea del nation building, cioè la costruzione di istituzioni democratiche e di una governance efficiente con il metodo “avio-trasportato”, affidato ai B-52. Le analogie con il Vietnam piacciono agli opinionisti ma sono assurde. Negli anni più tragici della guerra in Vietnam combattevano in media mezzo milione di americani; alla fine ne morirono più di cinquantamila; quella guerra infiammò il mondo intero per lo più contro gli Stati Uniti, la stessa società civile americana era lacerata. In Afghanistan il picco massimo di presenza è stato di 98.000 soldati, le vittime 2.300. L’opinione pubblica americana oggi ha molte altre priorità: uscire in fretta dalla pandemia, consolidare la crescita economica, ritrovare il pieno impiego. La stessa ala sinistra del partito democratico è impegnata su ben altri fronti domestici: vuole investimenti per 3.500 miliardi in dieci anni al fine di creare un Welfare inclusivo, un’economia sostenibile a emissioni carboniche zero. La guerra in Afghanistan, che è già costata 2.000 miliardi in vent’anni, qualora fosse stata prolungata avrebbe distolto risorse da quei cantieri di riforme progressiste. Non è difficile capire perché Biden, in mezzo al coro assordante di critiche, sembra deciso a tenere duro. Afghanistan. A Herat il carcere femminile e l’orfanotrofio sono italiani di Adriano Sofri Il Foglio, 14 agosto 2021 Ho guardato e ascoltato le notizie da Herat, espugnata come per gioco dai talebani, che ordinano liste di donne sopra i 12 anni da portarsi dietro come bottino. “Hanno occupato il carcere e liberato tutti i prigionieri”, dicevano i telegiornali. Me lo ricordo, il carcere. “Se al maschile si prova la ripugnanza di sé e di tutto, che prende in certi zoo malmessi, al femminile si è sopraffatti dalla commozione. È stato costruito dagli italiani, le detenute sono 171. Però ci sono i bambini, e ti corrono addosso, ti avvinghiano come se ti stessero aspettando e non ti lasciano più. Stanno con le madri fino ai sei anni, poi li passano all’orfanotrofio. Oggi sono 67, sembrano mille. Il delitto più comune per le donne è la ‘prostituzione’, da uno a 10 anni: che vuol dire l’adulterio, o l’aver fatto l’amore prima di sposarsi. A Herat spose bambine e giovani violate si danno ancora fuoco, o si impiccano. Nel cortile donne giovani e vecchie e bambini stanno accampate come a una fermata di corriera che non arriva. C’è una stanzetta per i parti”. Il carcere serve a dare un rifugio a donne minacciate di morte. “La maggioranza non ha commesso alcun reato. Per tentato adulterio - averlo pensato! 99 donne sono nel carcere di Herat per questo. Dopo è difficile farle riaccettare dalle famiglie”. È italiano anche l’orfanotrofio, che ha 300 bambini e tre sedi. “Bambine e bambini hanno imparato a dire ‘Ciao’ e si divertono a ripeterlo all’infinito, e noi con loro, come si fa coi merli indiani, e i merli indiani siamo noi”. Ecco. Era 8 anni fa. Ciao. Afghanistan. In trappola gli interpreti e le famiglie: “A rischio il ponte aereo per salvarli” di Vincenzo Nigro La Repubblica, 14 agosto 2021 Si chiama “Operazione Aquila” il piano messo in piedi dal Ministero della Difesa e dalla Farnesina per riportare in Italia le decine di traduttori (e le loro famiglie) che in quasi 20 anni hanno collaborato con i militari e con l’ambasciata italiana in Afghanistan. Quel piano adesso è in seria difficoltà, e presto potrebbe essere perfino impossibile portarlo a compimento. Con i talebani che avanzano velocemente in tutto il Paese, presto l’Aquila potrebbe non riuscire a volare: il piano dovrà essere rivisto se non cancellato. Con una aggravante: è a serio rischio anche la sicurezza dell’ambasciata d’Italia a Kabul. L’ambasciatore Vittorio Sandalli naturalmente è rimasto in ambasciata, in una situazione delicatissima. La Farnesina e la Difesa studiano due opzioni. La prima è un’evacuazione ordinata, ancora in condizioni di sicurezza decenti. La seconda è un’evacuazione con i talebani che dilagano per le strade di Kabul, con combattimenti che i tentativi di negoziato politico in corso non sono riusciti a frenare. In queste ore gli Stati Uniti e molti altri Paesi Nato hanno inviato nuovamente a Kabul alcune centinaia di soldati per proteggere proprio le ambasciate e i diplomatici che si preparano a lasciare la città. E questo potrebbe creare una cornice di sicurezza per l’ambasciata d’Italia e anche per tenere in vita il piano Aquila. Gli afgani da “esfiltrare” sono traduttori, specialisti, autisti impiegati soprattutto dall’Esercito nella regione di Herat, il capoluogo dell’area affidata fino a giugno al contingente italiano. Il ponte aereo di fatto da ieri è bloccato perché con Herat e il suo aeroporto nelle mani dei talebani sarà impossibile far partire i voli di trasferimento per Kabul dove gli afgani dovevano essere radunati e scrutinati dal personale della Difesa italiana e del Ministero degli Esteri. La Difesa in queste settimane ha individuato il personale da trasferire in Italia, a fronte di centinaia e centinaia di domande di afgani terrorizzati dall’arrivo dei talebani che provano di tutto pur di avere un visto in un Paese occidentale. A Herat e Kabul militari italiani dovevano individuare i traduttori, raccogliere le domande e i loro documenti, trasferirli a Kabul dove l’ambasciata avrebbe provveduto ai visti e ai documenti di viaggio per i tantissimi che non hanno i passaporti. Ma l’operazione è delicatissima: “Ogni afgano magari si presenta con 2 o 3 mogli, con una decina di figli, con genitori e altri parenti... chi ci dice chi sono queste persone? Come siamo sicuri di chi facciamo entrare in Italia?”, dice una fonte del governo. Le verifiche di sicurezza vengono svolte dal Ministero dell’Interno, che inserisce gli ex collaboratori afghani nel Sistema di accoglienza e integrazione (Sai). Ma per far funzionare i controlli è necessario che i funzionari dell’Aise ancora presenti in Afghanistan possano collaborare con i colleghi del governo afgano. Che al momento sembrano impegnati a difendersi dai talebani oppure a capire quando sarà il momento di mollare tutto e fuggire. Ieri il segretario generale della Farnesina Ettore Sequi ha detto che per quanto possibile l’operazione Aquila andrà avanti: “Ci sono molti civili afgani che avendo collaborato con gli stranieri sono oggi preoccupati per il loro futuro, per questo insieme ad altri partner ci stiamo muovendo, già 228 afgani e le loro famiglie, che hanno già collaborato con noi sono già in Italia. E altri ce ne saranno nei prossimi giorni”. Sequi ha una esperienza diretta di Afghanistan: è stato ambasciatore a Kabul per 2 turni, uno come rappresentante dell’Italia e l’altro come inviato dell’Ue. Il segretario generale continua il suo ragionamento dicendo che “il ritiro del nostro contingente e delle forze internazionali non significa minimamente che noi abbandoneremo l’Afghanistan, abbiamo fatto un investimento che è costato anche la vita ai nostri militari. E continueremo il sostegno che sarà finanziario, politico e diplomatico”. L’ambasciatore chiude il ragionamento dicendo che “deve essere molto chiaro che non sarà accettata una presa di potere violenta o con la forza da parte di nuovi regimi, non sarà riconosciuto alcun altro Emirato”. Il problema è che per ora i talebani non si fermano, continuano ad avanzare con le armi. Tanto da far accelerare i piani per una possibile fuga italiana (e occidentale) da quello che tutti conoscono come “la tomba degli imperi”. Afghanistan. “Caporetto strategica e culturale, impossibile vincere così” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 14 agosto 2021 Il Capo di Stato Maggiore Isaf Marco Bertolini offre la sua spiegazione del disastro: “Miravamo a occidentalizzare il Paese ma loro hanno tradizioni del tutto differenti”. Dove abbiamo fallito? “Si è preteso di esportare la democrazia e i valori occidentali senza tenere conto della cultura e delle tradizioni afghane. In più, la coalizione militare alleata marciava a ritmi diversi. Gli eserciti anglosassoni applicavano le regole di guerra, mentre noi europei lavoravamo come fossimo forze di polizia con un compito di rigenerazione morale del Paese. Il risultato dopo vent’anni è questa tragica Caporetto dell’esercito afghano”. Marco Bertolini non si tira indietro. E nel consueto stile franco con cui operava da generale della Brigata paracadutisti Folgore a Kabul nel 2008 (oltreché nel ruolo di Capo di Stato Maggiore Isaf dell’intero contingente internazionale) fornisce la sua spiegazione del disastro afghano. Lo aiuta la condizione di generale in pensione che a 68 anni, dopo un quarantennio di servizio spesso con le missioni militari italiane all’estero, gode dell’esperienza e ha la libertà per contribuire a capire. Gli afghani di fronte ai talebani, una rotta drammatica e rapidissima. Come lo spiega? “Certamente la Nato e i nostri eserciti europei dovranno fare i conti con questa realtà. Dovremo valutare i fallimenti e imparare per le prossime missioni tra Africa e Medio Oriente. Nella nuova operazione Takuba stiamo adottando gli stessi criteri di addestramento delle forze locali nel Sahel. In Libia sono stati i turchi ad agire militarmente al nostro posto. La lezione afghana va studiata. La spiegazione di questo disastro si articola su due livelli: uno politico e l’altro tattico-operativo. Noi miravamo a occidentalizzare l’Afghanistan cercando di imporre i nostri sistemi democratici. Ma loro hanno tradizioni del tutto differenti. Per esempio, non hanno partiti. I pashtun sono un’etnia legata a tradizioni locali, e così gli hazara o i tagiki. Ci siamo illusi che l’accoglienza calorosa riservataci dalle élite cittadine rappresentasse il Paese intero. Ma la maggioranza sta nelle campagne, sulle montagne, tra i villaggi e ci ha sempre guardato con sospetto, se non aperta ostilità. Tanti non capiscono l’insistenza sui diritti delle donne, la vedono come un’intrusione”. In due decenni non ci avete mai pensato? “Se ne è parlato molto ai comandi Isaf. I generali americani David McKiernan e Stanley McChrystal insistevano che occorreva conquistare la simpatia della popolazione, lavorare sul territorio con la gente. Ma ne uscì poco”. E l’aspetto operativo? “Purtroppo la nostra è sempre stata una coalizione militare a scartamento alternato. Gli americani, assieme agli inglesi, facevano la guerra nel senso completo della parola. Noi invece, assieme a tanti altri contingenti, insistevamo nel presentare le nostre operazioni come civili e di pace: portavamo libri ai bambini, costruivamo scuole, centri di assistenza per le donne. In certi momenti fu come se noi fossimo in Afghanistan unicamente per fare abolire il burqa, si era persa del tutto la dimensione militare. Certo che ogni tanto eravamo costretti a sparare. Ma alla nostra opinione pubblica dovevamo dire che lo facevamo solo per difenderci. Le nostre regole d’ingaggio erano disomogenee e per noi limitanti”. Per esempio? “Nel caso una nostra pattuglia avesse incontrato sulla strada Osama bin Laden in persona non avrebbe mai potuto sparare per prima, ma limitarsi a rispondere al fuoco. Quando i nostri mezzi venivano danneggiati da tiri nemici il caso andava alla Procura di Roma per l’inchiesta e il mezzo veniva bloccato. Procedure normali in Italia, non in zone di conflitto. Nel 2014 la nostra missione si è trasformata da “combattimento” ad “addestramento” delle truppe locali. Ma i talebani hanno continuato a rafforzarsi”. Biden ha fatto male a ordinare il ritiro? “Non è stato Biden, ma Trump a volere l’accordo con i talebani per il ritiro. E comunque era inevitabile, dopo due decenni la situazione era ormai bloccata. Certo è amaro constatare che dopo tanti sforzi e lavoro i talebani tornano al potere più forti e più estremisti di prima”. Guatemala. Prigionieri in rivolta prendono in ostaggio 17 guardie e il direttore del carcere di Ludovica Tagliaferri sicurezzainternazionale.luiss.it, 14 agosto 2021 Un gruppo di detenuti, che sta scontando condanne in una prigione di massima sicurezza situata sulla costa meridionale del Guatemala, sta trattenendo il direttore del carcere e 17 guardie del Sistema Penitenziario in seguito a una rivolta, avvenuta giovedì 12 agosto. Secondo la Direzione Generale del Sistema Penitenziario (DGSP), finora nessun ferito è stato registrato nel carcere del Centro de Alta Seguridad Canada, nel dipartimento di Escuintla, a circa 100 chilometri a Sud di Città del Guatemala. “C’è un maggiore controllo nel sistema penitenziario e dalla polizia civile nazionale (PNC) dopo gli avvenimenti recenti”, ha affermato l’istituzione, in una breve dichiarazione. L’ente ha assicurato che il perimetro del carcere “è completamente protetto” dagli agenti del PNC e che al momento non si sono registrati disordini o feriti nella prigione. Il DGSP non ha spiegato se i prigionieri che hanno preso in ostaggio le guardie e il direttore del carcere di massima sicurezza sono armati. I media locali hanno assicurato che il malcontento dei detenuti, che appartengono alla banda del Barrio 18, è dovuto al trasferimento di alcuni capigruppo in altre carceri del Guatemala. La Procura per i diritti umani (PDH) ha dichiarato, sui suoi social network, che da mercoledì notte, ha inviato personale al carcere per verificare la situazione. Le bande guatemalteche sono note per i racket e le estorsioni, con le quali costringono uomini d’affari e piccoli imprenditori a pagare per la loro protezione. In caso contrario, rischiano di essere uccisi. Secondo il capo della DGSP, Luis Escobar, nelle carceri guatemalteche vengono spesso effettuate operazioni della polizia per combattere l’estorsione da parte dei detenuti all’interno delle prigioni. L’ultimo di loro è stato giustiziato l’8 agosto e 27 detenuti della prigione di Fraijanes sono stati trasferiti nella prigione di Pavón, situata nel Sud-Est del paese, con l’obiettivo di “avere il controllo totale e sradicare l’estorsione”, ha comunicato il funzionario. I gruppi criminali del Guatemala sono responsabili di quasi la metà delle 3.500 morti violente registrate all’anno nel Paese. Si tratta di uno dei più alti tassi al mondo. Secondo i dati ufficiali, le carceri dello Stato latino-americano hanno un sovraffollamento di oltre il 300%. Attualmente, il Guatemala è oggetto di critiche da parte di diversi Paese, tra cui gli Stati Uniti, dopo la destituzione della procura speciale contro l’impunità (FECI), Juan Francisco Sandoval. Sandoval, oltre a essere considerato una delle persone chiave nello smantellamento di oltre 60 strutture criminali, ha contribuito, insieme alla Commissione internazionale contro l’impunità (CICIG), un organismo delle Nazioni Unite, a consegnare alla giustizia l’ex presidente del Guatemala, Otto Pérez Molina, e diversi membri del suo gabinetto per atti di corruzione. Nabila Massrali, portavoce per gli Affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione europea, ha affermato, il 26 luglio, che la destituzione di Sandoval solleva “una serie preoccupazioni sull’impegno del Guatemala sullo Stato di diritto e sui suoi sforzi per combattere la corruzione”. La portavoce ha poi aggiunto che la FECI “dovrebbe funzionare secondo il suo mandato e senza interferenze”.