Le sbarre roventi delle celle di Adriano Sofri Il Foglio, 13 agosto 2021 Quando fa così caldo, non essere particolarmente dotati di immaginazione torna utile. Per esempio evita di darsi pensiero per chi al caldo non può sfuggire. Le persone si dividono in due generi. Le persone che non sono dotate di immaginazione, e le persone dotate di immaginazione. Per esempio, le persone non dotate di immaginazione dicono: “Fa caldo”. Dicono: “Che caldo che fa”. “Fa un caldo da morire”, dicono. Le persone che sanno immaginare, per esempio, pensano: “Ma come fanno quei poveretti nelle celle, senza un filo d’aria, spesso senza un filo d’acqua?” Pensano: “Con quelle sbarre arroventate”. Dicono: “Come mai non scoppiano rivolte nelle prigioni?”. Il detenuto studioso merita una bella punizione di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 13 agosto 2021 Chissà cosa mai avrebbe detto don Milani se avesse letto quell’ordinanza di un tribunale di sorveglianza che, nel negare a un detenuto una misura esterna di maggiore libertà, afferma perentoriamente che quel detenuto ha studiato troppo e potrebbe usare le sue lauree (conseguite durante la carcerazione) e la sua cultura universitaria per andare a rafforzare la sua dimensione criminale. Tutto ciò è accaduto nella dotta Bologna che vanta una delle università più nobili e antiche della storia italiana. C’è da restare basiti, ma anche un tantino preoccupati. Non so da quale argomento partire a spiegazione della mia incredulità e di tutta la comunità di Antigone, investita del caso dopo che il detenuto coinvolto aveva manifestato tutta la sua disperazione. Un’incredulità condivisa da tanti studiosi e giuristi, tra cui il prof. Giovanni Maria Flick, autore insieme alla nostra avvocatessa Francesca Cancellaro del ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani. Il primo argomento è di natura universale e costituzionale: l’istruzione è un diritto e come tale va trattato; non è mai degradabile a qualcos’altro o addirittura essere soggetta a una valutazione negativa che sa tanto di arbitrarietà decisionale. Il secondo argomento attiene al campo della politica penitenziaria: l’istruzione e la formazione culturale sono i più limpidi strumenti di emancipazione dalle scelte devianti e non possono mai essere reinterpretati quali segni di pericolosità. Il terzo argomento è di prevenzione criminale: come possiamo da ora in poi dire ai ragazzi nelle periferie urbane o nelle stesse carceri “studiate” come percorso alternativo a quello criminale, se lo studio, addirittura quello più alto, è considerato negativamente nel percorso educativo? Il quarto argomento è strettamente giuridico: un provvedimento di questo tipo difetta, se non dimostrato nei dettagli (ad esempio sostenendo che la laurea sarebbe servita a superare il concorso da boss o vicecapo di una qualsiasi organizzazione delinquenziale), di argomenti sostenibili all’interno di una motivazione razionale. Nelle carceri italiane fortunatamente vi sono tante università - coordinate in un network che svolge un lavoro meritorio - che investono energie umane e strumentali per portare avanti corsi e progetti. È bello sentire da un direttore, come di recente accaduto a Livorno, che vi sono ben dodici detenuti iscritti a varie facoltà, e incontrare detenuti in biblioteca che stavano preparandosi a un corso di storia della radio e della televisione. Così come è bello sapere che a breve nel carcere romano di Rebibbia penale si aprirà un polo universitario che farà seguito ai tanti già attivi in giro per l’Italia. Non è bello, invece, constatare che ancora non vi sia sulla pena una cultura giuridica condivisa da parte di tutti gli operatori del diritto. Uno Stato sociale e costituzionale di diritto deve dare a tutte e tutti pari opportunità di studio, deve attraverso l’educazione di massa rompere i blocchi sociali e colmare le disuguaglianze, altrimenti ogni retorica intorno al merito svela il suo amaro sapore classista. Mio padre con il sorriso ricordava che a sei anni era stato costretto ad andare a lavorare come fioraio perché era stanco di mangiare pane e cipolle. E non è andato oltre la quinta elementare. Io gli sono grato perché mi ha consentito di andare avanti con gli studi in quanto aveva ben chiaro il valore sociale, culturale e politico dell’istruzione. Un valore che non può essere negato in un’aula di giustizia. La legge è uguale per tutti. L’istruzione deve essere uguale per tutti. Poveri e ricchi, prigionieri e liberi. Su un totale di 53.637 detenuti ci sono soltanto 4.976 diplomati e 569 laureati di Azzurra Barbuto lafinestradiazzurra.it, 13 agosto 2021 Contro il sovraffollamento non servono più carceri ma una scuola aperta a tutti. Su un totale di 53.637 detenuti al 30 giugno 2021 (ultimi dati disponibili) a possedere un diploma di scuola media superiore o un diploma di scuola professionale sono 4.976, di cui 1.070 stranieri, ad essere laureati ancora meno: solo 569 ristretti, di cui 152 stranieri. Si tratta di dati impressionanti che meritano senza dubbio alcune riflessioni. I nostri istituti di pena sono sovraffollati e in tanti ritengono che sia necessario costruire nuovi spazi, ossia nuove strutture. Ma è davvero questa la soluzione al sovraffollamento che ci affligge? Sicuramente gli istituti vanno ammodernati, ristrutturati, considerato che le condizioni in cui versano i condannati (e pure i non condannati, visto che sono tanti coloro che permangono in cella nell’attesa del giudizio non solo di terzo ma anche di primo grado) sono terribili: mancano i riscaldamenti, le docce, l’acqua è fredda, in estate si soffoca, manca del tutto l’aria, i materassi sono consumati, distrutti, soltanto per elencare alcune delle problematiche diffuse. Tuttavia, edificando altre carceri avremo solamente altro spazio da riempire con i carcerati. Il nostro obiettivo invece dovrebbe essere quello di avere meno persone in gattabuia, quindi meno cittadini che delinquono. I dati riportati ci fanno capire che l’istruzione costituisce un’ancora di salvezza contro la devianza, un antidoto infallibile, in quanto aumenta le chance di inserimento nel mondo del lavoro, accresce la consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri all’interno della comunità, favorisce l’inclusione sociale. Di contro, l’assenza di istruzione e di un titolo di studio spendibile sul mercato legale del lavoro induce troppo di frequente l’individuo ad intraprendere un cammino deviato che gli spalanca le porte del carcere, dal quale è molto probabile che entrerà ed uscirà per poi rientrarci per tutta quanta la vita. Referendum. Io li firmo tutti, non contrastano Cartabia di Luigi Manconi Il Riformista, 13 agosto 2021 Sono un forsennato sostenitore della ministra Marta Cartabia, ma i referendum sulla giustizia non costituiscono una minaccia nei confronti della sua politica. Firmare significa ritenere importante che i cittadini esprimano il loro parere. Sono un forsennato sostenitore della ministra Cartabia e mi auguro che tutte le sue iniziative, da me condivise, abbiano successo, ma non ritengo in alcun modo che i referendum costituiscano una minaccia per la sua politica della giustizia. Dunque, appena mi sarà possibile, sottoscriverò tutte le richieste di referendum attualmente nella fase di raccolta delle firme. Sottolineo tutte perché sembra sfuggire a qualcuno che firmare per questo o per quel referendum non significa necessariamente approvarne il contenuto, anticipando un sì o un no nel merito. Significa, piuttosto, ritenere importante che su quelle questioni i cittadini possano pronunciarsi direttamente e liberamente. Quando dico che intendo sottoscrivere tutti i referendum, lo faccio perché non vorrei proprio che si sottovalutasse l’importanza di quello sull’eutanasia, promosso dalla benemerita associazione Luca Coscioni. La raccolta di firme a sostegno di quest’ultimo quesito sta procedendo a ritmo spedito e non me ne stupisco. Dunque, appena mi sarà possibile, sottoscriverò tutte le richieste di referendum attualmente nella fase di raccolta delle firme. Sottolineo tutte perché sembra sfuggire a qualcuno che firmare per questo o per quel referendum non significa necessariamente approvarne il contenuto, anticipando un sì o un no nel merito. Significa, piuttosto, ritenere importante che su quelle questioni i cittadini possano pronunciarsi direttamente e liberamente. Poi, al momento opportuno, su ciascuno di essi mi esprimerò attraverso, appunto, un sì o un no, per condividere o contestare l’intento dei proponenti. È vero, tuttavia, che i quesiti relativi alla separazione delle carriere, alla legge Severino e alla custodia cautelare, appaiono anche a me come i più rilevanti sotto il profilo politico e giuridico: e spero che ottengano il maggior numero di consensi così da funzionare come una vera e propria azione di riforma. D’altra parte, sono convinto, come prima detto, che i referendum non costituiscano un’insidia per la riforma della giustizia così faticosamente intrapresa, bensì - se non altro - un segnale e una sollecitazione. Ma quando dico che intendo sottoscrivere tutti i referendum, lo faccio perché non vorrei proprio che si sottovalutasse l’importanza di quello sull’eutanasia, promosso dalla benemerita associazione Luca Coscioni. La raccolta di firme a sostegno di quest’ultimo quesito sta procedendo a ritmo spedito e non me ne stupisco. Ho la massima sfiducia nei confronti di tutti i sondaggi di opinione, ma non posso ignorare che, ormai da decenni, tutte le indagini demoscopiche indicano come vi sia una netta maggioranza a sostegno di una normativa che depenalizzi, in determinate e tassative circostanze, l’aiuto al suicidio e l’eutanasia. Di conseguenza, dovrebbe essere interesse di tutti, compresi i non favorevoli a norme sul fine vita, che sia consentito ai cittadini di far sentire la propria opinione su un tema così cruciale nel definire l’autonomia dell’individuo; e così carico di implicazioni culturali e, direi, antropologiche. Nel caso di quest’ultimo referendum, poi, pensare che debba essere lasciato al Parlamento tutto il tempo e tutto l’agio per approvare eventuali provvedimenti in materia, sarebbe davvero illusorio: la codardia della classe politica su tale questione non necessita di ulteriori conferme. Ora i referendum si possono firmare anche online di Valentina Stella Il Dubbio, 13 agosto 2021 Da oggi i referendum e le leggi di iniziativa popolare si possono firmare online, non solo ai gazebo. A partire da quello sull’eutanasia legale che è in corso e promosso, tra gli altri, dall’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica. Ad annunciarlo è stata l’associazione stessa, che rivendica la novità insieme a Mario Staderini, ex segretario di Radicali Italiani, dopo una battaglia politico-giudiziaria durata diversi anni. Praticamente come si può fare per sottoscrivere il quesito comodamente da casa o da un tablet in spiaggia? In attesa della piattaforma governativa che sarà pronta da gennaio 2022, l’Associazione Luca Coscioni lancia la propria che permette di apporre la firma tramite identità digitale (Spid) e carta d’identità elettronica (Cie): basta collegarsi a questo link, cliccare su “Voglio Firmare” e seguire le poche istruzioni indicate. Sarà fatta anche una verifica preventiva che il firmatario non abbia già firmato la richiesta. La svolta è arrivata con un emendamento al Dl semplificazioni a prima firma Riccardo Magi, deputato di +Europa, approvato negli scorsi giorni all’unanimità dalle commissioni Affari costituzionali e Ambiente. Proprio il neo presidente di +Europa ha dichiarato: “ le iniziative referendarie sono sempre state l’occasione di battaglie per conquistare spazi di democrazia e nuovi strumenti per l’esercizio dei diritti politici dei cittadini e quella della firma digitale è una conquista storica perché consente di superare gli ostacoli alla raccolta delle firme che avevano reso quasi impraticabile lo strumento referendario”. La raccolta firme in formato digitale è una pratica comune in quasi tutta l’Unione europea. In Italia, invece, le cose sono andate diversamente, spiega Mario Staderini, segretario di Democrazia Radicale: “Con le firme digitali si supera una delle irragionevoli restrizioni al diritto a promuovere referendum che il Comitato diritti umani dell’Onu nel 2019 ha accertato in Italia, condannandola per violazione del patto internazionale sui diritti politici. Oggi gli italiani all’estero, i disabili e i cittadini con spid (che però sono solo 20 milioni) potranno usufruire di quest’altra modalità, ma non basta. Ci sono altri ostacoli che l’Onu ha chiesto ormai da 2 anni di rimuovere”. Per questo, annuncia Staderini, “abbiamo inviato una nuova segnalazione insieme a Michele De Lucia, tramite il professore Cesare Romano della Loyola Marymount University di Los Angeles, al comitato diritti umani dell’Onu per segnalare tutte le ulteriori “irragionevoli restrizioni” al diritto a promuovere referendum che ancora permangono nel nostro Paese. Dunque, a novembre l’Italia sarà nuovamente sotto esame. Per evitare discredito internazionale, si metta subito il moto un processo di riforma complessiva”. Staderini, a tal proposito, ha sottolineato “le difficoltà di trovare autenticatori disponibili per la raccolta cartacea tradizionale. Serve, poi, garantire ai comitati promotori la possibilità di allestire i banchetti nelle piazze principali o davanti ai centri commerciali, che sono le nuove agorà. Occorre assicurare la piena informazione ai cittadini sulle procedure in corso. Infine, si deve superare il quorum che non esiste in nessun Paese mondo ed è considerato antidemocratico”. Al momento la campagna per l’eutanasia legale ha raggiunto quasi le 400 mila firme; entro il 30 settembre deve raggiungere il traguardo del mezzo milione. “Sulla giustizia va fatta battaglia in Parlamento, a costo di rompere coi 5S” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 13 agosto 2021 Intervista a Matteo Orfini (Pd). Non gira attorno ai problemi più scottanti dell’agenda politica, Matteo Orfini, parlamentare dem, già presidente del Pd. Dalle morti bianche ai referendum sulla giustizia, dal voto sul rifinanziamento della Guardia costiera libica al futuro del Partito democratico e al rapporto con i 5Stelle. Una intervista a tutto campo quella di Orfini. Un campo politicamente “minato”. “Morti bianche. Solita ricetta 5Stelle: più manette per tutti”. Così titolava oggi (ieri per chi legge) questo giornale in prima pagina. Un dramma sociale che la politica delega alla magistratura? C’è indubbiamente un arretramento della politica. È del tutto evidente che chi ha responsabilità penali ne debba rispondere. Quando c’è un morto sul lavoro di solito è per responsabilità di qualcuno che non ha fatto rispettare le norme di sicurezza, e quindi è chiaro che c’è anche un aspetto di individuazione delle colpe e delle pene. Però noi siamo di fronte a un fatto che da anni ha acquisito dimensioni enormi. Siamo a numeri pazzeschi, tragici, che raccontano di qualcosa di più profondo, di come si sia ormai totalmente squilibrato dentro ai luoghi di lavoro, forse non tanto nelle grandi aziende ma certamente in quelle di dimensioni medio-piccole. È totalmente squilibrato il rapporto tra lavoratori e datori di lavoro. In questo squilibrio, in questa perdita di potere da parte del mondo del lavoro, c’è anche l’impossibilità di far rispettare i diritti fondamentali, come quello alla sicurezza. Che cosa è successo perché si arrivasse a questo? È impressionante leggere, come spesso accade, che le morti sul lavoro avvengono dove era stata segnalata dai lavoratori la pericolosità di quelle situazioni. Ma quei lavoratori sono soli. Spesso si trovano delle imprese che non ritengono questi aspetti prioritari, spesso fanno fatica ad entrare nella dimensione della rappresentanza sindacale, e questo chiama in causa anche la capacità dei sindacati di stare dentro i molteplici e sempre più frammentati e precarizzati luoghi di lavoro. Siamo quindi di fronte a lavoratori che sono soli e che sono deboli. Questo è un grande tema: restituire potere ai lavoratori. Un tema che non può non riguardare la politica. Non è che può essere delegato alla magistratura. La magistratura interviene quando il dramma è avvenuto. La politica deve costruire le condizioni perché quel dramma non avvenga più. E questo lo si fa ridistribuendo potere nei luoghi di lavoro. Una sinistra che non aggredisce la grande e irrisolta “questione sociale”, amplificata dalla crisi pandemica, ha ancora titolo per definirsi “sinistra”? La sinistra non esiste se non sta dentro i conflitti. Peraltro siamo chiamati, tutti, a fare i conti con l’enorme cambiamento che il Covid ha di fatto prodotto e che rimarrà anche dopo, nel mondo, nell’organizzazione del lavoro, ma anche nei comportamenti individuali. Tutto ciò produrrà nuovi conflitti, il superamento di alcune filiere produttive e la crescita di altre. È chiaro che sta cambiando tutto, e in parte è già cambiato. Dentro i nuovi conflitti che questo cambiamento produce la sinistra ha il dovere di starci e stare dalla parte di chi rischia di pagare il prezzo di questi cambiamenti. La sinistra deve cercare di essere quella che guida le trasformazioni in modo che non producano ulteriori diseguaglianze. A me non convince l’idea di una sinistra che deve fare solo protezione sociale. È chiaro che noi dobbiamo proteggere chi rimane indietro, ma non possiamo limitarci a questo. Dobbiamo cercare, e questo è anche il terreno della sfida del governo Draghi, di essere coloro che costruiscono una ripresa che non produca diseguaglianze ma che le riduca. Non ci possiamo limitare a dire ci saranno le diseguaglianze e noi dovremmo poi arrivare a tamponarne gli esiti. Noi dovremmo scommettere su una ripresa che aggredisca il tema delle diseguaglianze e che non siamo, come è stato in passato, crescita per pochi e povertà per tanti, obbligandoti poi ad intervenire a sostegno. Dobbiamo puntare su un modello differente che produca crescita e redistribuzione. Redistribuzione di ricchezza ma anche di potere. Un altro tema caldo è quello della giustizia. In un’intervista al Corriere della Sera, Goffredo Bettini ha annunciato la sua firma ai referendum promossi dai Radicali. Lei che ne pensa? Penso che la scelta referendaria sia su questo sbagliata e anche un po’ una fuga dalle responsabilità della politica. Alcuni di quei quesiti sono anche condivisibili: ritengo che sia una battaglia giusta ma un grande partito la fa in Parlamento. Il problema del Pd e forse anche di Bettini che è stato ed è il teorico del rapporto con il Movimento 5 Stelle, è che su questi temi c’è una radicale divergenza di vedute tra Pd e 5Stelle. E invece di affrontarla, e mettere il Pd alla guida di un processo di riforma della giustizia orientato anche dai principi che ispirano i quesiti, si usa la scappatoia dei referendum. Io invece credo, come sta provando a fare Letta da questo punto di vista, che il dovere del Pd sia fare quelle riforme in Parlamento. E se questo allontana dal Movimento 5Stelle, ce ne faremo una ragione. Non possiamo fermarci dal farle perché i 5 Stelle non sono d’accordo. Su questo il Movimento ha una posizione storicamente molto diversa dalla nostra, a mio avviso sbagliata, e se in Parlamento ci sono i numeri per cambiare la giustizia nella direzione giusta, facciamolo. Ci sono morti che pesano e altri dimenticati. Come i migranti che continuano a morire nell’attraversata del Mediterraneo. Lei è stato uno dei 30 deputati che hanno votato contro il rifinanziamento della Guardia costiera libica. Quello della grande maggioranza dei suoi colleghi non è stato il “voto della vergogna”? Credo che il Parlamento e il Governo abbiano scritto l’ennesima pagina triste e drammatica della storia del nostro Paese. Quando i nostri figli studieranno quello che sta succedendo nel Mediterraneo e quello che succede in Libia, si vergogneranno di questi voti. Pur sapendo tutto, sapendo cosa succede in Libia, sapendo chi sono i cosiddetti guardiacoste libici, per cinismo, per egoismo, in spregio dei più elementari principi di umanità, abbiamo scelto di continuare a finanziare dei criminali per fare il lavoro sporco che noi non potremmo fare perché se lo facessimo noi sarebbe illegale. Purtroppo da quel voto del 15 luglio, com’era prevedibile, nulla è cambiato. Continuano i morti, continuano le torture, continuano i respingimenti illegali, continua il dramma per migliaia di persone. A sinistra e nel Pd è un fiorire di “agorà”, di dibattiti, più o meno interessanti, sull’identità. Ha un senso tutto questo? Per le ragioni che abbiamo spiegato prima, è normale che dopo un periodo di cambiamenti drammatici e tumultuosi come quello che stiamo vivendo, ci sia la necessità di ridefinire un progetto. Credo che il tema dell’inadeguatezza dello strumento “partito democratico” a svolgere la funzione che dovrebbe qualificarlo, ce l’abbiano chiaro tutti. E quindi reputo fondamentale la ricerca di una via per rilanciare il progetto del Pd. Penso peraltro che vada anche un po’ cercata nelle sue radici. L’altro giorno Pierluigi Castagnetti ha detto una cosa che io condivido molto, sulla tradizione del cattolicesimo democratico, a proposito delle amministrative, sostenendo che il ruolo dei cattolici e di quel pensiero non può essere ridotto e immiserito nella ricerca del candidato da aggiungere alla lista per rappresentare un’area, ma è un elemento fondativo del Partito democratico, senza il quale il Pd non esiste. Io che vengo da una tradizione diversa, penso che Castagnetti abbia perfettamente ragione. Oltre a questo c’è il tema di come noi ridefiniamo un progetto politico in grado di rappresentare un popolo che oggi è stato diviso dagli egoismi dei suoi gruppi dirigenti. Le tante scissioni di questi anni, le tante divisioni, i rancori che ci hanno aggrovigliato, oggi hanno prodotto un centrosinistra diviso, frammentato e sempre più debole. In una fase nuova, come noi ridefiniamo ruolo e funzione di un soggetto politico che riunisca il centrosinistra in questo Paese, dovrebbe essere un assillo per noi. E la stagione del governo Draghi in qualche modo ci sfida anche a questo. Potremmo ambire alla guida del cambiamento solo se saremo in grado di produrre un progetto unitario. Non la coalizione dei partitini ma un soggetto politico che riscopra l’ambizione originaria del Pd e la funzione che il Pd ha avuto. Il grande freddo tra il Nazareno e la magistratura di Errico Novi Il Dubbio, 13 agosto 2021 Il sì ai referendum di Bettini e altri dem è un caso limite, ma il rapporto organico dem-toghe è in disfacimento. Tra tante sorprese una certezza: i dem, come partito, non saranno mai a favore dei referendum sulla giustizia. Ieri Letta ha ribadito la propria soddisfazione per le riforme del processo: “Il Parlamento e la maggioranza le stanno facendo insieme al governo e questo è un buon segnale”. È un’implicita replica a chi invece, nel centrosinistra, vorrebbe cambiare la giustizia anche con i quesiti di radicali e Lega. Da Goffredo Bettini al deputato democratico, ed ex sottosegretario, Francesco Pizzetti, ultimo arrivato. Ma la simpatia dei “battitori liberi progressisti” per la consultazione popolare va ascritta solo alla categoria “fronda renziana”, o al limite all’eccezione che conferma la regola, come per Bettini e Gori? Davvero si tratta di vicende isolate, insignificanti? O invece siamo all’epifenomeno di un rapporto in involuzione fra Pd e magistratura? Più di un motivo lascia propendere per la seconda ipotesi. C’è qualcos’altro: è una scollatura lenta, non tanto percettibile ma costante, del Nazareno dalle toghe. La si coglie anche in altri segnali. Basta leggere il documento presentato a maggio, in materia di riforme della giustizia, proprio da Enrico Letta e da altri dirigenti democrat: una “carta” ricca di proposte sgradite all’Anm. Alcune magari sono sul confine: per esempio la fine dell’esclusiva riservata ai magistrati nell’Ufficio studi del Csm. Ma poi c’è anche l’apertura al diritto di voto degli avvocati nei Consigli giudiziari, diritto che un emendamento alla riforma del Csm, già depositato dal Pd, estenderebbe alle valutazioni di professionalità dei giudici. Già qui dovrebbe saltare all’occhio una cosa: l’auspicata, dall’avvocatura, riforma dell’autogoverno locale è proprio l’oggetto di uno dei referendum radical-leghisti. Il Pd propone la stessa cosa: semplicemente lo fa per via legislativa. Ma la norma che ne verrebbe fuori è la stessa. Fino ad arrivare alle due chiavi del grande freddo apertosi fra democratici e Anm. Il primo è l’improcedibilità: a proporre l’estinzione del processo sono stati innanzitutto i dem della commissione Giustizia di Montecitorio, che ne hanno fatto un emendamento con settimane d’anticipo rispetto alla relazione Lattanzi (promotrice, peraltro, di una norma assai più lontana, rispetto all’ipotesi Pd, dalla versione finita nel ddl Cartabia). Ma più di ogni altra cosa, a radicare nella magistratura associata la convinzione che il Pd abbia smesso di essere un interlocutore anche solo culturale concorre la presenza, nel ricordato documento di maggio, della seguente proposta: “Introdurre la previsione che le valutazioni di professionalità dei magistrati, quali il pubblico ministero, debbano essere condotte anche sulla base del parametro costituito dal dato percentuale di smentite processuali delle ipotesi accusatorie, prevedendo un massimo di percentuale significativo”. Nella piattaforma Pd sulla giustizia, è al “punto 3” del capitolo dedicato all’ordinamento giudiziario. È facile comprendere come un simile progetto di riforma sia quanto di più divisivo per l’ipotetico asse sinistra- magistrati. Siamo alla negazione di quell’asserita, da tanti esponenti del centrodestra, organicità fra i democratici e i correnti progressiste “Area” e “Magistratura democratica”. Dal punto di vista di giudici e pm, penalizzare chi riporta insuccessi processuali rispetto alle richieste o ordinanze di rinvio a giudizio è quanto di più lesivo si possa immaginare per l’autonomia del magistrato. Vista con l’ottica dell’Anm, la proposta finirebbe semplicemente per dissuadere tanti pm dal chiedere il processo e tanti gup dall’accogliere le richieste. In particolare per i reati in cui la prova è più difficile da far emergere, vale a dire quelli estranei ai circuiti della criminalità organizzata o dei delitti di strada. Insomma, oggi non si può dire che tra largo del Nazareno e almeno una parte della magistratura esista una saldatura. A pesare sull’imprevedibile scollamento è forse anche l’eclissarsi dal tema giustizia dell’ultimo dirigente progressista che ne abbia fatto un impegno “militare”: Andrea Orlando. Prima ancora di insediarsi a via Arenula, l’attuale ministro del Lavoro era stato responsabile Giustizia del partito. E tante figure di primo piano dell’Anm ancora ricordano “quel giovane silenzioso che veniva ai nostri convegni, si sedeva nelle file lontane dal palco e prendeva appunti”. Ha studiato, li ha conosciuti, ne ha compreso le aspettative. Si dirà che proprio quel dialogo così immersivo ha raffreddato Orlando, quand’era ministro, dal riformare il Csm. Ma in fondo l’ascolto della magistratura penale gli consentì anche di introdurre una riforma della prescrizione migliore sia di quella Bonafede che del lodo votato dieci giorni fa alla Camera con il ddl Cartabia. Non c’è più Orlando. Non ci sono più i magistrati che pure nel Pd rappresentavano un avamposto influente. Donatella Ferranti, per esempio: attivissima sulla giustizia, da deputata, prima ancora di diventare presidente della relativa commissione. O Lanfranco Tenaglia, Felice Casson. Dopo Orlando, il Pd ha sì affidato il dipartimento Giustizia a un dirigente di assoluto spessore come Walter Verini, che però ha dovuto occuparsi soprattutto delle difficili mediazioni con le linee intransigenti dei 5 Stelle, più che ascoltare la voce delle toghe. Ora c’è un’altra autorevolissima responsabile come Anna Rossomando: ma da una vicepresidente del Senato non ci si può certo aspettare che vada a prendere appunti in ultima fila come faceva Orlando. Ed è sempre più sfumata la presenza di una figura insostituibile come Luciano Violante, forse il vero architrave di un rapporto ormai evaporato. Si dirà che tutto questo è un bene. Che c’è bisogno di una politica autonoma davvero dai giudici e che l’emancipazione dem è un elemento indispensabile. Certo. Ma si deve anche riconoscere che dietro le esuberanze referendarie di sparute “avanguardie” come Bettini e Gori, c’è qualcos’altro. E che forse proprio per questo l’iconoclastia di Letta sui quesiti radical- leghisti sarà ancora più difficile da preservare. “Contavo i passi della mia cella e pensavo al suicidio. Ma credo ancora nella giustizia” di Simona Musco Il Dubbio, 13 agosto 2021 Intervista a Marco Sorbara, ex consigliere regionale della Valle d’Aosta, assolto dall’accusa di concorso esterno dopo 909 giorni in custodia cautelare: “Mi chiedevo perché, ma non avevo risposte”. “Ci sono stati fiumi di giornali per mesi e mesi, poi dopo l’assoluzione i soliti due articoli e basta…”, dice Marco Sorbara, ex consigliere regionale della Valle d’Aosta, prima di sciogliersi in un fiume di parole per raccontare il suo incubo. L’incubo di un uomo innocente che ha trascorso 909 giorni in custodia cautelare con l’accusa di concorso esterno prima di sentire riconosciuta la propria innocenza, dopo una prima condanna a 10 anni. Momenti terribili, tra carcere e domiciliari, compresi 45 giorni in isolamento. “Erano cinque passi per quattro, li contavo. E mi chiedevo tutti i giorni perché - dice al Dubbio -. Ma non ho mai trovato risposta”. Come si sente ora che è stato assolto? Inizialmente c’è stato un crollo. Fin dal primo giorno speravo di sentire quelle parole, ma dopo il primo grado c’era tanta paura. Dopo sette mesi di carcere, l’isolamento, i cinque no alla richiesta di domiciliari, da incensurato… È come avere un demone dentro che ti massacra. Quel giorno è stato fantastico, perché avevo al mio fianco la mia famiglia, che mi ha sorretto ogni giorno: mia madre e i miei due fratelli, uno dei quali è il mio avvocato. Ma tutti i giorni, per 909 giorni, mi sono chiesto: perché? E si è dato una risposta? È difficile rispondere. Io verniciavo i bagni pubblici con i ragazzi disabili nei quartieri, portavo gli anziani in soggiorno… A capodanno 2018, 20 giorni prima di essere arrestato, ho servito loro, assieme ad altri ragazzi, la cena. Questo, per me, era il mio mandato politico. Ecco perché non capivo. Mi chiedevo come fosse possibile, leggendo le carte, tenermi dentro. Non c’era un elemento che confermasse un’accusa infamante e devastante come il concorso esterno in associazione mafiosa. Mi aspettavo che qualcuno, leggendo, lo avrebbe capito, ma non accadeva. Eppure non ho mai aiutato qualcuno a scapito di qualcun altro. Non c’erano storie di droga, di armi, di appalti, di soldi. Anzi, vengo da una famiglia umile, ho fatto qualsiasi lavoro: il cameriere, il gelataio, il cantoniere, pulivo le scale… Ero convinto al 100% che la verità sarebbe venuta fuori in primo grado. Ma ad Aosta sono stato anche deriso. In che modo? In famiglia siamo tre fratelli. Mia madre, casalinga, cuciva la notte, noi ci alzavamo alle cinque del mattino per pulire le scale per pagare le spese condominiali, abbiamo fatto qualsiasi lavoro. Mio padre è partito per davvero con la valigia di cartone da San Giorgio Morgeto, in Calabria. Ho raccontato tutte queste cose durante il processo e per la Corte farlo è equivalso a deridere e prendere in giro i giudici. Ma era solo la verità. Le sue origini calabresi, secondo lei, hanno influito? Sicuramente, è inevitabile. Io sono nato ad Aosta, come mia madre, ma tra il mio Comune e quello in cui è nato mio padre c’era una “carta dell’amicizia” che risaliva alle precedenti amministrazioni. Ma date le mie origini ero io il rappresentante della giunta che si recava a San Giorgio per la festa patronale. A mie spese, perché l’ho intesa sempre così la politica. Ma tutto ciò non è stato considerato, anzi, per i giudici di primo grado avrei messo il timbro della ‘ndrangheta sui quartieri. Un’accusa devastante per me. Cosa ricorda del giorno dell’arresto? Alle 3.15 del mattino, quando abbiamo sentito il citofono, ho guardato mia madre e le ho detto di sedersi: il primo pensiero è stato che Sandro o Cosimo, i miei fratelli, avessero avuto un incidente. Non potevo immaginare minimamente potessero cercarmi per questo. Sono entrati, mi hanno bloccato e hanno perquisito casa. Mia madre urlava, ma non potevo avvicinarmi. Poi sono andato in caserma e mi hanno detto che mi avrebbero portato in carcere. Cosa ha pensato? Che fosse uno scherzo. Non mi hanno nemmeno portato ad Aosta, ma a Biella. E poi basta, non hai più informazioni: vieni buttato in carcere, ti spogliano, ti perquisiscono… Non riesci nemmeno ad andare in bagno, perché ti blocchi. Sei umiliato, non esisti più come uomo. Vieni completamente annientato. E poi c’è stato l’isolamento per 45 giorni. Com’è stato? Gli agenti hanno avuto una sensibilità meravigliosa. Ho trovato delle persone che capivano il mio dramma, perché forse capivano di avere davanti una persona perbene. E messo in quelle condizioni, in cui perdi la dignità e la voglia di vivere, è tanto. Ho visto mia madre e mio fratello dopo 33 giorni: ero convinto che non volessero più vedermi. Che ne sapevo delle regole da seguire quando ti trovi carcere per accuse del genere? Fortunatamente mio fratello Sandro, essendo il mio avvocato, veniva a trovarmi costantemente. Ma alla fine ti ritrovi devastato. Ero in una cella dove contavo cinque passi per quattro, dove avevo solo l’acqua fredda, senza radio, con una tv che non si vedeva, un letto in ferro e un materasso impossibile. Ma gli agenti non potevano farci nulla. Avevo talmente freddo che quando veniva mio fratello gli mettevo le mani sulla pancia per riscaldarmi. Dopo due settimane ho provato ad uccidermi. Ho preparato una treccia col lenzuolo, ho visto che reggeva e mi sono detto: durante la notte mi appendo. Perché non aveva più senso la mia vita. E perché ha cambiato idea? Perché ero innocente. E avevo la mia famiglia vicina e la fede. Questo mi ha aiutato ad andare avanti. Mio fratello mi ha chiesto: c’è qualcosa che non so? Gli ho giurato che non c’era nulla. E poi mi ha fatto giurare sulla tomba di mio padre che non mi sarei tolto la vita. Ero convinto del mio giuramento, però ci sono momenti in cui perdi tutto. Per un innocente anche un’ora in più in carcere è devastante. Ho sentito fisicamente quella violenza e ancora oggi sento il bisogno di farmi la doccia per togliermi quella sensazione di dosso. Poi ho avuto un altro crollo il 16 settembre, il giorno della sentenza ad Aosta. Com’è andata? Sono arrivato lì sicuro di essere assolto. La gente fermava mio fratello e mia madre per strada per esprimere solidarietà, le persone sono venute davanti al tribunale ad applaudire. Per i giudici era un segnale della ‘ndrangheta, invece erano solo persone che capivano il dramma della mia famiglia. Quando ho sentito di essere stato condannato a 10 anni e 600mila euro di risarcimento sono uscito, sono tornato a casa e una volta aperta la porta ho tirato dritto verso il balcone: ero deciso a buttarmi di sotto. Abitiamo ad un quarto piano basso, sotto c’è l’erba e per l’ennesima volta il pensiero è andato a mia madre, che ha 80 anni, e mi sono fermato. Mi sono detto: ma se mi butto e rimango paraplegico? Sarebbe stato un ulteriore peso sulla mia famiglia, per quello non l’ho fatto. Ma io sono fortunato, ho una famiglia meraviglia, chi non ha nulla cosa fa? Non so cosa farò, ma mi dedicherò a chi non ha queste opportunità. E non parlo di soldi: noi ci siamo indebitati fino alle orecchie. L’altra cosa che ti devasta è che fino al giorno prima sembra che i tuoi colleghi politici ti apprezzino, il giorno dopo ne dicono di cotte e di crude. Questo fa male. Ora va meglio? Rimane la paura di parlare, di uscire. La gente ti saluta, ma tu rimani inchiodato al meccanismo dei domiciliari, durante i quali non puoi avere contatti con nessuno. Non riesci ad uscire da quello schema. Quello che mi aiuta a superare questo demone è la voglia di tornare a fare politica come l’ho sempre fatta, in mezzo alla gente. Quella che ha detto, sin dall’inizio, che non c’entravo nulla. Ci sono pure le intercettazioni in cui si parlava di me come persona onesta, ma non sono state considerate. Le hanno contestato il rapporto con Antonio Raso, che è stato condannato come uno degli esponenti di punta della locale di ‘ndrangheta ad Aosta. Come ha spiegato la vostra conoscenza? Dico solo che Aosta è una realtà piccola: conoscevo tutti e parlavo con tutti. Era una conoscenza come un’altra, frequentavo il suo ristorante, dove andavano tutti, comprese le forze dell’ordine e i magistrati. Che idea si è fatto della giustizia, ora che l’ha vista da vicino? Ho ancora fiducia, perché in due occasioni la magistratura mi ha salvato: quando, dopo sette mesi, un giudice mi ha concesso i domiciliari e ora, in appello a Torino, dove una Corte ha letto gli atti e ha ascoltato mio fratello, che nell’udienza del 21 giugno, in tre ore, ha smentito punto per punto quanto detto dal procuratore. Abbiamo prodotto centinaia di documenti, ma mi sentivo dire sempre no, cinque volte no. E quelle sono legnate. Ho fiducia, ma bisogna far in modo che i giudici ascoltino, che non abbiano pregiudizi e siano lontani da qualsiasi contatto con l’accusa. Non può esistere che una Corte relazioni con l’accusa: c’è disparità con la difesa. Avevo quasi l’impressione di trovarmi di fronte ad una nave gigante mentre io ero piccolino e provavo a spingere, ma non succedeva nulla. Il mio fascicolo non è un fascicolo, è una persona. Dov’è la presunzione di innocenza? Io ho letto oltre 72mila pagine, per tre volte. Ho ascoltato tutte le intercettazioni, anche dei procedimenti precedenti, e quando in aula ho detto di averlo fatto e di non aver trovato nulla a mio carico il giudice mi ha deriso. L’unica cosa che chiedevo era che qualcuno leggesse quelle carte e ammettesse quella terribile ingiustizia. La mia paura era di non arrivare alla fine e che non ci arrivasse mia madre. I giudici dovrebbero entrarci in carcere, per capire cos’è e che in carcere ci deve andare solo chi è colpevole. Cos’altro ricorda del carcere? Che i poliziotti ci portavano le arance e le mele ed io, che sono appassionato di statistica, contavo gli spicchi e i semi e facevo le proporzioni. E poi che c’era un uomo che stava dentro da 27 anni e mi diceva: io non oso immaginare cosa tu abbia provato sapendo di essere innocente. Lui ne aveva fatto di cotte e di crude, aveva gambizzato, ucciso e voleva ascoltare le mie parole, cercare di capire. Spero di riuscire a togliermi tutto questo di dosso e che non ricapiti più a nessuno. Non mi importa nulla dei risarcimenti, quello che fa male è che nessuno ridarà a mia madre due anni e mezzo di vita. Era talmente disperata che ha scritto al Papa. E lui ha risposto, dicendole che le stava vicino e di continuare ad avere fede. Ora spero di tornare a vivere. Come dico sempre a mia madre, io ho 51 anni: gli ultimi tre non li considero. Maria Falcone: “Salvini dica se la lotta alla mafia è una priorità” di Carmelo Lopapa La Repubblica, 13 agosto 2021 Intervista alla sorella del magistrato ucciso da Cosa nostra: “Draghi? Il momento è problematico, ma forse l’incidente offre l’opportunità di dire parole nette”. “Per quanto ferita da una dichiarazione come quella del sottosegretario Durigon, so bene quanto la memoria di mio fratello Giovanni e di Paolo Borsellino sia radicata nel cuore degli italiani. Dunque non sono mossa da sentimenti di rivalsa o di vendetta. Non mi appartengono, non appartengono alla storia della mia famiglia. Ma sono preoccupata, questo sì”. Maria Falcone ha atteso alcuni giorni prima di intervenire compiutamente nella polemica esplosa sulla scia dell’indecente uscita del sottosegretario leghista all’Economia. Non chiede le dimissioni del fedelissimo di Salvini: “Non sta a me esprimermi”. Ma “serve” una parola chiara, dice, dal leader leghista e dal suo partito. “Magari è un’occasione anche per il governo per esprimere un’opinione sul tema della lotta alla mafia”. Come dire, finora il tema non è apparso in cima all’agenda. Trasformare il Parco Falcone e Borsellino di Latina in parco Arnaldo Mussolini. Professoressa Maria Falcone, come sta vivendo questa vicenda che tiene banco da giorni? “La sortita mi avrebbe potuto lasciare indifferente. Ma non è così. Mi preoccupa il fatto che si possano fare simili considerazioni in rotta con la nostra Costituzione. Ogni tanto i politici dovrebbero andare a rileggerla, non farebbe loro male. E poi sembra assurdo che il partito al quale appartiene questo signore non abbia preso una posizione su un tema come quello della lotta alla mafia che dovrebbe essere prioritario nel programma di chi si candida a governare il Paese”. Si chiede insomma se a guidare quel partito sia davvero lo stesso Matteo Salvini che poi si presenta a Palermo con la mascherina di Borsellino, dichiarando guerra alla mafia, almeno a parole... “Vorrei capire, ma non tanto io quanto gli italiani tutti credo, quali siano le reali intenzioni di questo partito nella lotta alla criminalità organizzata. Non si può ridurre tutto a una bambocciata. Non si può dichiarare: siamo contro la mafia e poi pensare che in realtà Cosa nostra non sia più un problema attuale, che sia stata sconfitta. Perché se non spara più, non più come prima quanto meno, è perché ai boss risulta molto più conveniente restare sottotraccia e fare affari”. Per la verità una cosa Salvini l’ha detta. Ha difeso il suo sottosegretario all’Economia, sostenendo che fascismo e comunismo sono stati sconfitti dalla storia e che Durigon “è bravissimo”. Fine... “Forse fascismo e comunismo: ma la mafia non è stata sconfitta. E come diceva sempre Giovanni, anche nei suoi ultimi giorni, bisogna fare in fretta perché nella lotta alla mafia è in gioco la democrazia del nostro Paese. Oltre all’economia sana messa a repentaglio dalle cosche. Ecco, di tutti questi ragionamenti non c’è stata traccia nel dibattito di questi giorni”. Nel tentativo di strappare quel parco alla memoria delle vittime della mafia, c’è anche l’offesa ai poliziotti di scorta uccisi nelle stragi. Anche lì: da parte di un partito che si dichiara vicino alle forze dell’ordine... “Il problema è di portata più generale. Mi interessa sapere: la lotta alla mafia è ancora questione cruciale? La coerenza dovrebbe appartenere a tutti gli uomini di partito e di governo. Sarebbe stata un’occasione imperdibile, ripeto, soprattutto per una forza che si candida ad amministrare regioni del Sud e a governare”. L’intero centrosinistra e i 5S invocano ora le dimissioni del sottosegretario. Sarebbe una mossa opportuna secondo lei? “Non sono io a dover esprimere un’opinione a riguardo. È una decisione che deve prendere il diretto interessato e il suo partito. Io, ribadisco, non cerco vendette. Invoco solo coerenza”. Si attende un intervento del presidente del Consiglio Draghi? “Mi rendo conto che il momento è particolarmente problematico. Ma forse l’incidente diventa un momento propizio per pronunciare parole ferme, inequivocabili. Nessuno mette in dubbio la trasparenza o lo straordinario lavoro che sta compiendo il premier. Sul contrasto alla criminalità però attendiamo parole nette. E soprattutto fatti”. Torino. Ha perso 35 chili, è malato, ma per il carcere va tutto bene di Rita Bernardini Il Riformista, 13 agosto 2021 Alle Vallette di Torino dal settembre 2020, Roberto soffre di epilessia, cardiopatia ed enfisema ed è deperito incredibilmente da quando è detenuto. Ma per l’istituto la situazione è “sotto controllo”. Samantha, Roberto e il piccolo Davide, un minuscolo nucleo familiare tramortito non dal carcere in sé ma dalla palese illegalità della sua amministrazione, lontana anni luce da quanto previsto dalla Costituzione, dalla legge sull’ordinamento penitenziario e dal suo regolamento di attuazione. Roberto entra alle Vallette di Torino il 10 settembre 2020. È in precarie condizioni di salute perché affetto da epilessia, cardiopatia ed enfisema polmonare. Samantha, la sua compagna, lo vede deperire sotto i suoi occhi ed è molto preoccupata per via della diffusione del Covid nelle carceri. Per la prima volta si trova a dover affrontare la realtà “durissima e grigia” del carcere. “Ho sempre visto questo mondo - mi confida - con gli occhi di chi colpevolizza i detenuti pensando che l’aver commesso un reato implichi il pagare con il prezzo della sofferenza la violazione del patto con la società”. “Mi sono dovuta ricredere - commenta Samantha - perché l’istituzione penitenziaria non si limita alla privazione della libertà, che è già un’afflizione immensa, ma nega diritti fondamentali come quello alla salute”. Racconta la donna che tutte le richieste di visite e controlli per le patologie del suo compagno venivano sistematicamente respinte nonostante le patologie incompatibili e rischiosissime in caso di contrazione del nuovo virus. Roberto perde così 35 chili di peso ma dal carcere rispondono che “è tutto sotto controllo”. Samantha, che è una ragazza sveglia, coinvolge i difensori che cominciano a presentare istanze per far visitare Roberto da un medico esterno; passano cinque mesi e finalmente, a febbraio di quest’anno, il medico esterno può visitarlo e presentare una relazione con richiesta di esami diagnostici e visite specialistiche, le quali però vengono prese in considerazione dalla sanità penitenziaria solo nel mese di giugno. Siamo ad agosto, la famiglia non viene aggiornata e la sensazione più che fondata è che il “generale agosto” complichi ancor di più una situazione divenuta disperante. Ma ora facciamo un breve passo indietro nel tempo. Già, perché c’è un altro importante protagonista che tiene unito il nucleo familiare: il piccolo Davide, che ha cinque anni e vuole vedere di persona suo padre e certo non gli bastano le videochiamate mensili. “Mio figlio - racconta Samantha - mi ha così conosciuta come Mamma Pagliaccio perché, con la ripresa dei colloqui in presenza, mi sono dovuta inventare di tutto per distrarlo dall’enorme ammasso di ferro e cemento che contiene e detiene il suo papà”. Le istituzioni non si fanno scrupolo di rendere meno traumatizzanti quegli incontri che per disposizione della Asl si svolgono ancora in salette chiuse con il vetro divisorio nonostante il Green pass dei genitori e sebbene una circolare del Dap chieda espressamente l’apertura delle “aree verdi” delle carceri per incontri più sereni con i minori. Per farvi comprendere quanto arrivi a essere perversa l’istituzione penitenziaria nella sua realtà quotidiana, vengo ora all’epilogo di questa storia. Ieri Roberto si è visto accogliere l’istanza di avvicinamento alla famiglia che aveva presentato per essere più vicino a suo figlio Davide che a sua volta ha problemi di salute. Accade però che Roberto viene trasferito in un carcere dove i colloqui con i familiari sono arbitrariamente ridotti da sei a due ogni mese e dove i minori sotto i 14 anni non possono fare ingresso. Completamente cancellati l’art. 28 dell’Ordinamento Penitenziario che stabilisce che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”, e l’art. 18 che, proprio riguardo ai colloqui recita che “particolare cura è dedicata ai colloqui con i minori di anni quattordici”. Quanto a come viene gestita la sanità nel carcere di Torino, dopo aver visitato l’istituto (il 2 agosto scorso) insieme all’Associazione Marco Pannella di Torino, abbiamo scritto al presidente della Regione Alberto Cirio e all’Assessore alla Sanità Luigi Icardi chiedendo conto delle inaudite disfunzioni che ledono il diritto alla salute di tutta la popolazione detenuta. Credo però che l’unica strada da percorrere sia quella della denuncia penale non tanto e non solo all’Autorità giudiziaria italiana che maneggia il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale a sua discrezione quando è lo Stato a violare le sue stesse leggi, ma soprattutto alle corti superiori, a partire dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuto con cancro in metastasi, appello per scarcerarlo di Mario Esposito caserta.occhionotizie.it, 13 agosto 2021 L’uomo è detenuto con l’accusa di omicidio. È stata chiesta la scarcerazione per un detenuto di Santa Maria Capua Vetere affetto da un cancro con metastasi. Una responsabilità che ricadrebbe sulla magistratura: la storia è quella di un detenuto, Giovanni C., affetto da un tumore, sarebbe in punto di morte, ma non viene scarcerato come riportato dall’edizione odierna del quotidiano Il Mattino. A spiegare la vicenda è Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania: “È una situazione assurda che sto seguendo, spero che la corte di assise di Appello prenda una decisione quanto prima”. Originario di Cellole, è detenuto da tre anni con l’accusa di aver ucciso il compagno della ex moglie. Modena. Lettere dal carcere della morte: “nessuno dica che non sapeva” di Ciro Risi dirittiglobali.it, 13 agosto 2021 Dopo quella pubblicata il 13 luglio scorso, pubblichiamo una nuova lettera di Ciro Risi, ex recluso nel carcere di Modena, che precisa e spiega l’errata identificazione del suo compagno morto durante la traduzione, di cui in effetti in quel momento non conosceva il nome. Il nome da lui riferito era comprensibilmente sbagliato, ma i fatti sono stati quelli. Fatti che chiamano in causa plurime responsabilità di chi ha deciso e di chi ha autorizzato - e di chi ha omesso controlli medici - la traduzione di detenuti che non erano in condizioni di esserlo e che in alcuni casi sono morti durante in viaggio o all’arrivo nei nuovi carceri. Come di chi non ha soccorso i detenuti in overdose rimasti a Modena. Come di chi ha infierito con pestaggi e violenze contro i reclusi inoffensivi non durante, ma dopo la rivolta. Morti del tutto evitabili per le quali la magistratura di Modena ha voluto archiviare le responsabilità. E sulle quali, invece, come Comitato per la verità e la giustizia sulle morti in carcere continuiamo la nostra battaglia e l’impegno. Anche promuovendo una raccolta di fondi per sostenere le spese legali per il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. È un passo importante, perché non sia l’archiviazione l’ultima, scandalosa parola su questa e queste morti. Lettera di Ciro Risi Mi chiamo Ciro Risi, ero detenuto nel carcere di Modena nel momento della rivolta, sono stato il testimone per il garante nazionale dei detenuti che si era opposto all’archiviazione e ho risposto alle domande dell’intervista che avete pubblicato. Sono stato zitto per diverso tempo perché non avevo nessuna fiducia che le mie parole avrebbero avuto un seguito e soprattutto che sarebbero state credute. Il fatto che sia stato immediatamente notato che avevo sbagliato il nome del detenuto deceduto aveva reso meno credibile quanto raccontavo. Io non conoscevo il nome del detenuto che viaggiava accanto a me durante il trasferimento, mi sembrava di averlo riconosciuto da una foto pubblicata sui giornali. Avrei dovuto spiegare che non ci frequentavamo in carcere, avrei dovuto semplicemente dire che un extracomunitario era stato male per ore di fianco a me, che, nonostante le mie ripetute richieste, nessuno aveva voluto intervenire in tempo e che, infine, quando è stato trasportato a braccia verso l’ambulanza che lo attendeva di fronte al carcere di Alessandria non dava segni di vita tanto che gli agenti hanno affermato che era deceduto. Dopo tanti articoli sui giornali, dopo l’intervento della Ministra Cartabia con un discorso che raramente si sente pronunciare da parte di una autorità, non posso più tacere. Se è normale che le ormai numerose testimonianze di pestaggi a Modena vengano annullate dal fatto che non ci siano testimonianze documentate come a Santa Maria Capua a Vetere, vi fa capire che quello che dice un ex detenuto non vale niente di fronte alle affermazioni che tutto si è svolto con correttezza come affermano la Direzione e il Comandante. Il fatto che siamo stati trasferiti senza essere stati controllati da un medico non vale niente di fronte alle affermazioni che non c’era tempo e modo data la situazione di concitazione. Io sono stato ore ad aspettare in una stanza e di medici ce n’erano in abbondanza come si vede dai filmati. Il fatto che siamo stati molte ore in viaggio (il mio è durato 10 ore), in manette, in una gabbia e, per quello che mi riguarda, senza mangiare per 20 ore e bevendo solo nei bagni quando riuscivamo a fermarci, è evidentemente un normale metodo per trasportare e trattare i detenuti. Non so se queste mie parole cambieranno qualcosa, forse solo per me dato che ho voluto rendere pubblico il mio nome, certo non si potrà dire che nessuno sapeva. Catanzaro. Incendi boschivi, le fiamme minacciano il carcere: detenuti fuori dalle celle di Carlo Macrì Corriere del Mezzogiorno, 13 agosto 2021 Il fuoco si è avvicinato pericolosamente al penitenziario: i reclusi spostati. La situazione resta ancora critica in tutta la Regione e soprattutto in Aspromonte. Danni incalcolabili. Gli incendi in Calabria, contro cui stanno combattendo Canadair, carabinieri forestali, Calabria Verde e squadre di vigili del fuoco, giunte anche da fuori regione, continuano a preoccupare. Le fiamme dopo aver distrutto parte del patrimonio boschivo e pinete, si sono avvicinate ai centri abitati. A Catanzaro è andata quasi interamente distrutta la pineta nel quartiere Siano, a nord del capoluogo. Il fuoco si è avvicinato pericolosamente anche alla struttura carceraria che è stata circondata dalle fiamme e invasa dal fumo. L’intervento della polizia penitenziaria, che ha fatto rientrare tutti gli uomini dalle ferie, ha evitato che i 600 reclusi potessero subire danni. Nella Regione, il bilancio è di quattro morti. “Abbiamo fatto uscire i detenuti dalle celle” - “L’aria all’interno del carcere è diventata irrespirabile ed è stato necessario far uscire i detenuti dalle celle e dirottarli in aree meno coinvolte dal fumo, per garantire loro l’incolumità fisica” ha detto Gennaro De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. I reclusi sono stati spostati in una zona protetta in tutta fretta, evitando comunque di venire a contatto tra loro. Un’attività che è durata parecchie ore e che si è conclusa nelle prime ore del mattino di giovedì. Situazione ancora critica in Aspromonte - La carenza d’acqua, all’interno del carcere, ha reso ancor più difficile la situazione. Al quartiere Siano, la situazione adesso è tornata alla normalità. Resta la ferita al patrimonio ambientale e danni incalcolabili. Rimane, invece, critica la situazione in Aspromonte dove le fiamme continuano a divorare ettari di bosco. Il Santuario di Polsi resta inaccessibile. Giovedì il rettore don Tonino Saraco ha celebrato la Messa senza fedeli. Per la cerimonia di ferragosto, qualora la viabilità non dovesse essere ripristinata, si sta organizzando un collegamento in streaming. Sorvegliate speciali restano anche le faggete della vetusta per tanti roghi che la circondano. Firenze. Sollicciano ha bisogno urgente di fatti concreti nove.firenze.it, 13 agosto 2021 Lo sostiene Di Puccio (Pd) con Maggiora (Camera penale). Palagi e Bundu (Spc): “Il Consiglio ascolti il garante”. “Agli Uffizi è esposta una “Madonna con bambino” di Filippo Lippi, un’opera straordinaria che tocca la sensibilità per la bellezza e la tenerezza che trasmette - interviene Stefano Di Puccio (Pd), consigliere delegato dal sindaco al carcere, insieme a Luca Maggiora (Camera penale di Firenze) - Recentemente uno dei tanti progetti per Sollicciano ha visto protagonista gli Uffizi; si è parlato di Uffizi diffusi. Tutto ciò che si fa per spostare l’attenzione sul carcere è ben fatto, tuttavia anteporre atti simbolici ai fatti concreti di cui la struttura ha urgente bisogno è a nostro parere un errore. Il 27 luglio del 2021 siamo andati a visitare Sollicciano, una visita che in ragione della gravissima e cronica carenza di personale oltre che di un presunto caso di covid, non ha permesso il consueto giro nel reparto maschile. Oltre alle gravi ed endemiche carenze strutturali, il sovraffollamento, l’insufficiente numero di educatori, abbiamo incontrato due giovani donne in attesa di dare alla luce i loro figli. Non sappiamo e non vogliamo sapere i motivi, sicuramente legittimi, della loro detenzione (non vogliamo neppure ipotizzare che si tratti di uno dei circa mille errori giudiziari italiani all’anno); quello che ha colpito è stata la solitudine delle donne. Non certo una solitudine fisica, ci è stato detto che una volta al giorno (!) il medico le controlla, ma una solitudine affettiva e morale che non dovrebbe trovare spazio in un momento di vita come quello di una madre che attende il parto. Ci è stato detto che i termini, per una di loro, erano già scaduti ma non abbiamo visto infermieri, non abbiamo visto alcun monitoraggio (tracciato di battiti e contrazioni). Le due donne giravano nello spazio loro riservato accarezzandosi le pance; un millenario ed innato monitoraggio. Proprio quel giorno, abbiamo saputo che il bambino è nato. Un altro, ennesimo, bambino è nato in carcere senza l’affetto e la presenza di entrambi i genitori, senza le cure appropriate che solo un ospedale sa e può dare. Una solitudine nella solitudine. Inconsapevolmente Sollicciano ha anticipato il progetto Uffizi diffusi, perché diffusa è la pratica di far nascere e crescere bambini in carcere, così “dipingendo” una moderna Madonna con bambino dietro le sbarre. Gli autori di questa nuova e grottesca opera d’arte sono molteplici; il nostro ordinamento penitenziario, l’incapacità di garantire la promessa delle tanto sbandierate Icam, una politica refrattaria al problema delle carceri e, su tutte, l’indifferenza. L’Italia sta reagendo alla pandemia sfornando trofei europei e medaglie olimpiche... peccato che, all’indomani della storica riforma della giustizia, stia vincendo ancora una volta la volata per la definitiva mancata riforma carceraria”. “La politica ha il dovere di fare pressione a tutti i livelli perché questa situazione cambi. Per questo, alla riapertura dei lavori del consiglio, nella mia qualità di consigliere delegato inviterò il sindaco Nardella, la giunta e i colleghi consiglieri a intraprendere azioni per Sollicciano. Abbiamo già votato e approvato atti che aspettano solo di essere attuati. Questo è nelle nostre prerogative” conclude Di Puccio. “Per prima cosa vogliamo chiarire che riconosciamo al Presidente del Consiglio comunale grande attenzione al tema carcere e che questa nostra richiesta è rivolta principalmente al Sindaco, che nomina il garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale. Vorremmo infatti che fosse dato seguito a quanto richiesto più volte dai gruppi: un momento di discussione e informazione, che ci veda poter ascoltare la relazione sulla situazione all’interno delle strutture penitenziarie del territorio fiorentino - dichiarano Dmitrij Palagi e Antonella Bundu di Sinistra Progetto Comune - Con l’Associazione Progetto Firenze ci rechiamo con relativa regolarità all’interno delle strutture detentive, anche se la pandemia ha imposto di avere massima attenzione alle norme per evitare la diffusione della Covid-19, ma non gli aspetti sistematici istituzionali devono seguire canali diversi. L’incontro tenuto dal presidente dell’Associazione con il Garante regionale ha portato a una nota congiunta che conferma l’urgenza di parlare fuori dal sensazionalismo di carcere e città. Non c’è solo l’eclatante vicenda dell’ICAM, che è sempre lì pronto a partire, ma che non parte mai; sono molte le cose che ci interessano, compresa l’emergenza legata alla salute mentale e la rimodulazione degli spazi, attuata per dei lavori in corso in una parte di Sollicciano. Spesso nei dibattiti consiliari qualche intervento della maggioranza parla di “passeggiate” nelle carceri, che farebbe la sinistra: questo ci spiace, perché non abbiamo bisogno di strumentalizzare o fare polemica, rispetto a una tematica sistematicamente espulsa dal dibattito pubblico. Il modo migliore per vederci tutte e tutti coinvolti è poter ripartire con i lavori di settembre avendo Sindaco e Garante comunale in aula, a relazionarci di quanto è avvenuto in questi due anni”. Arienzo (Ce). Valorizzazione di un’area verde per l’accoglienza dei congiunti dei detenuti di Francesco Paparo ilcrivello.it, 13 agosto 2021 L’area verde sarà riqualificata utilizzando i fondi messi a disposizione dalla Cassa delle ammende. Il progetto che mira ad alleggerire gli unici momenti di unione tra i detenuti e le proprie famiglie nasce dall’impegno della direttrice dell’istituto, Annalaura De Fusco. Sarà così possibile adibire un’area verde della Casa circondariale “De Angelis” ad area di accoglienza, grazie ai fondi messi a disposizione dalla Cassa delle ammende, ente pubblico istituito dal Ministero della Giustizia. Non solo note positive per i detenuti di Arienzo. È stata infatti scritta dal gruppo di reclusi una lettera al magistrato di sorveglianza competente per territorio, per denunciare la lentezza burocratica del lavoro della magistratura proprio di sorveglianza. Altro punto dolente toccato nella lettera è l’area sanitaria. I detenuti lamentano di non avere la possibilità di prendere parte alle attività ginniche nonostante la palestra del carcere sia ben fornita e funzionante. Per un intoppo burocratico, infatti, i detenuti non ricevono gli attestati di idoneità all’attività fisica dai medici preposti nonostante i numerosi solleciti tramite le domandine. Purtroppo l’attività fisica non è solo un mero passatempo per molti detenuti, parecchi reclusi dell’Istituto penitenziario hanno necessità di svolgere le attività sportive come prescrizione terapeutica per patologie ortopediche e cardiovascolari. Caserta. I SudAtella portano la magia del teatro nel carcere minorile di Airola atellanews.it, 13 agosto 2021 Prosegue l’impegno della compagnia de “I SudAtella” in favore dei detenuti. In un momento in cui le carceri campane sono finite sotto l’occhio del ciclone con le aberranti immagini provenienti dal penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, c’è chi crede realmente nella funzione rieducativa della pena come stabilito dalla nostra carta costituzionale. Ha, infatti, preso il via nelle scorse settimane all’interno del carcere minorile di Airola un progetto rivolto a 15 detenuti che apprenderanno i segreti dell’arte recitatoria grazie ad un corso di teatro tenuto dai componenti del sodalizio di Sant’Arpino. Fino alla prossima primavera Susy Ronga, Luisa Pitocchelli, Rocco D’Errico e Rosa Di Mattia una volta a settimana terranno le lezioni del corso di teatro che ovviamente terminerà con l’allestimento di uno spettacolo messo in scena e realizzato proprio dai minori ospiti della struttura carceraria sannita. Per i SudAtella si tratta di una nuova entusiasmante esperienza che si pone in scia con quelle realizzate in contesti analoghi come quello di Poggioreale, dove non più tardi dello scorso mese di giugno proposero la piece “Liberi e Sunnà” in occasione della Giornata delle Musica. Goliarda Sapienza: “Il carcere un pianeta vicino e lontanissimo” di Damiano Alipirandi Il Dubbio, 13 agosto 2021 Attrice, poetessa e scrittrice politica, speculativa, struggente, visionaria e difficilmente etichettabile. Parliamo di Goliarda Sapienza e sembra già un nome d’arte. Quando nasce a Catania nel 1924, la madre ha già cinquant’anni, ed entrambi i genitori vedovi, lei con sette figli, lui con tre, si sono uniti “liberamente”. Il padre Giuseppe, avvocato, è tra i principali animatori del socialismo siciliano (il quale soleva dire che era “meglio un colpevole libero di un innocente in carcere”, la madre, Maria Giudice, figura storica della sinistra italiana, è la prima donna a dirigere la Camera del Lavoro di Torino. Goliarda viene fatta studiare in casa perché il padre vuole evitarle la scuola fascista. Grazie ad una borsa di studio, a sedici anni, frequenta a Roma l’Accademia d’Arte Drammatica e, per alcuni anni, interpreta con successo in teatro ruoli pirandelliani. Si lega al regista Citto Maselli, e recita in vari film, diretta da registi come Blasetti e Visconti. Si dedica poi completamente alla scrittura e pubblica vari libri, tra cui Lettera aperta (1986), Le certezze del dubbio (1987) e L’università di Rebibbia (1983). Quello più importante, cui dedica nove anni di vita, dal 1967 al 1976, riducendosi in povertà, tanto da finire in carcere, è L’arte della gioia dove affrontò argomenti ritenuti fastidiosi come la libertà sessuale, la politica, la famiglia e la storia. Per questo il libro ricevette una serie di rifiuti da parte degli editori italiani e venne pubblicato postumo nel 2000, riscuotendo inizialmente indifferenza, poi enorme successo di critica. Il carcere è uno “sconosciuto pianeta che pure gira in un’orbita vicinissima alla nostra città. Di questo pianeta tutti pensano di sapere tutto esattamente come la Luna senza esserci mai stati. Perché chi ha avuto la ventura di andarci, appena fuori si vergogna e ne tace o, chi non se ne vergogna s’ostina a considerarla una sventura da dimenticare”. Sono queste le parole di Goliarda Sapienza che ci introducono nella città penitenziaria vista dai suoi occhi e raccontata nel suo libro L’università di Rebibbia. Un punto di vista a cui non si è abituati perché mostra il mondo del penitenziario come una salvezza per quello che la scrittrice chiama “ergastolo della metropoli”. Con questa lunga descrizione, infatti, la scrittrice prende le distanze dalla società che l’aveva messa all’indice e reclusa; “sono da così poco sfuggita all’immensa colonia penale che vige fuori, ergastolo sociale distribuito nelle rigide sezioni delle professioni, del ceto, dell’età, che questo improvviso poter essere insieme - cittadine di tutti gli stati sociali, cultura, nazionalità - non può non apparirmi una libertà pazzesca, impensata”. Pare che Goliarda avesse commesso un reato proprio per finire in carcere. D’altronde la stessa madre - che aveva fatto la storia politica femminile dell’Italia, all’inizio del ‘ 900 - finì in carcere per causa politica: era solita dire che se nella vita non si conosceva l’esperienza carceraria o il manicomio non si poteva dire di aver vissuto realmente. Si presume, quindi, che Goliarda abbai voluto seguire questo insegnamento. Resta il fatto oggettivo che il reato lo aveva compiuto anche per necessità, visto che era arrivata al punto di non riuscire più a pagare l’affitto. Nel capo d’accusa per ricettazione aggravata di preziosi, falsificazione di documenti e sostituzione di persona non ci fu però nulla di romantico. Goliarda Sapienza aveva 55 anni quando fu portata a Rebibbia, con alle spalle un vissuto già consolidato eppure, nel microcosmo carcerario, tutto le appare nuovo; sentimenti, persone, oggetti. Da nove anni a questa parte, esiste il “Premio Goliarda Sapienza”, non a caso un concorso letterario rivolto alle persone detenute, con il coinvolgimento diretto di grandi scrittori e artisti nelle vesti di tutor. Goliarda morirà a Gaeta il 30 agosto del 1996. Sulla sua lapide, c’è una sua poesia, un testamento, un’eruzione vulcanica: Non sapevo che il buio non è nero che il giorno non è bianco che la luce acceca e il fermarsi è correre ancora di più. La sua “inchiesta” sul carcere: una prova di giornalismo letterario Risale all’ 8 marzo 1983 la pubblicazione dell’articolo di Sapienza Atrofia e vertigine bianca per le detenute di Voghera in Quotidiano Donna. Il carcere della città in cui la madre Maria Giudice era stata eletta segretario della Camera del Lavoro diventa il luogo della denuncia di una “certa forma” di detenzione femminile. L’autrice non riuscirà ad accedere alla struttura per raccogliere interviste, ma riceverà dall’esterno, assieme a un’amica, alcune testimonianze che trovano analogie con il “romanzo- diario” e con l’esperienza psicanalitica narrata nel Filo di mezzogiorno: “Il muro ci attrae e cominciamo a costeggiarlo. Sento dal suo silenzio che la mia amica sta ricordando quello che io ricordo. E forse questo ricordare muto camminando lungo il muro di quelle sepolte vive è per noi laiche la nostra preghiera”. E prosegue: “Ti ricordi in isolamento a Rebibbia il solo sfiorare la mano della guardiana che ti porgeva il latte? Ora non hanno più contatto nemmeno con le guardiane, possono parlare con loro solo attraverso il citofono”. Nel carcere ammodernato post- riforma le migliorie sembrano privare di umanità la detenzione: “Nadia scrive che anche lei ha cominciato a soffrire di capogiri. Deve essere per via del bianco e della proibizione del colore nelle vesti. (…) Morte per vertigine bianca”. “Non gli concedono libri, giornali, riviste. La posta solo una volta al mese. Morte per atrofia intellettiva”. “Anche il vitto è scarsissimo e insapore, e non sono permessi nei pacchi frutta, dolci, eccetera”. Morte per assenza di sapore. “Reta ha scritto a Olga che tutte le mattine ha preso a fare l’esercizio di chiamarsi ad alta voce, teme di dimenticarsi il proprio nome”. Morte per disfacimento dell’identità. “La figlietta di Anna dopo l’ultima visita è crollata… (…) Urla che rivuole sua madre, quella vera.” (…) La nostra passeggiata- preghiera è finita. La mia amica s’è fermata, con voce calma quasi soprannaturale dice: Dimenticheranno. Anche in questo paese dopo il primo baccano dimenticheranno. Questa costruzione è stata ideata proprio per essere confusa col resto, non sembra in fondo che un caseificio moderno, un opificio, un pollaio a ingrassamento forzato (…) “Ora capisco quello che dicevi di Rebibbia, la nostra Università. Avevi ragione.” “Sì (…) Per questo ho dovuto scrivere quel libro insieme a voi: sentivo che sarebbe stata l’unica testimonianza di quando le nostre carceri, e con esse la nostra società, erano ancora umane. Anche Terracini che vidi appena uscita, mi incoraggiò saputo del mio progetto”. “Ah sì? Che cosa ti disse?”. “Mi disse “Scrivi, Goliarda, quant’erano belle le nostre vecchie carceri di un tempo.”“ E aggiunse, con un’amarezza indescrivibile: “Ma cosa stanno facendo delle nostre carceri questi scellerati! L’unica cosa che mi consola è che tua madre è morta. Non è così bello essere longevi”. Il punto di vista plurale di Sapienza e delle compagne emerge con una radice diversa rispetto all’allora intenso dibattito sulla detenzione; il loro è stato, infatti, lo sforzo di creare una comunità fuori norma, che si riconoscesse in forme di pensiero “ancestrali” e, per questa ragione, vitali e libere. D’altro canto, l’esperienza familiare autobiografica ancora della madre Maria Giudice affiora nel finale anche dalla voce di Umberto Terracini, che era stato detenuto assieme a lei. “Quando la mia curiosità verso gli altri sarà finita allora sarà cominciata la mia vecchiaia”, riferiva Sapienza a Marina Maresca a conclusione dell’intervista dell’83: la sua, dunque, fu sempre un’apertura agli altri, avvenuta attraverso rapporti di scambio reali che non fanno soltanto cronaca ma rivelano impressioni, somiglianze, idee, adesioni e tentativi di partecipazione e appartenenza. Vaccini anti-covid. Scontro tra due mondi a suon di offese di Antonio Preiti Corriere della Sera, 13 agosto 2021 È difficile contrastare questa incomunicabilità che oggi produce due schieramenti che si negano vicendevolmente. E il dileggio è il linguaggio prevalente. È una guerra asimmetrica. Una guerra tutta sul piano mediatico, ma i media convolti non riescono a parlarsi, quasi sordi gli uni agli altri. Da un lato, abbiamo i media mainstream (giornali e televisione) dove l’epidemia del Covid-19 viene trattata come la cronaca suggerisce, perciò con le notizie e le scoperte che di volta in volta si rendono attuali. Abbiamo la presenza di esperti che, nonostante la loro - talvolta clamorosa - non convergenza di giudizio, tuttavia mantengono un canone condiviso: si parla per evidenze di fatto, si parla per competenze scientifiche, si parla utilizzando dati e mezzi controllabili e, nel caso, confutabili. Dall’altro lato, abbiamo i social media, dove si crea una fisica sociale (una scienza che andrebbe studiata e sviluppata, proprio perché molto più decisiva di quel che generalmente si pensa) dove le “notizie”, le opinioni, le emozioni corrono a una velocità estrema e, paradossalmente, sembrano più credibili del vero, pur essendo, spessissimo, destituite di ogni fondamento. Com’è possibile che questo accada? Come si può contrastare questa incomunicabilità che oggi produce due mondi che si negano vicendevolmente e, soprattutto, quale strategia può essere efficace per prosciugare il mondo inattendibile, ma con una sua forza primitiva, di quel che indichiamo come universo dei no-vax? Se ci pensiamo bene, nessun media ufficiale nega l’esistenza del Covid-19, nessuna televisione o quotidiano ha mai riportato “notizie” che possano far pensare a questa eventualità. Allo stesso modo nessun media ufficiale si è fatto paladino, direttamente e soggettivamente, della “crociata” anti-vaccini. Allora sono i social media il luogo in cui queste tesi si formano, si sviluppano e si diffondono. Tocca dedicargli qualche attenzione. Andiamo a scoprire qualcosa di più di questo mondo. Utilizzando l’intelligenza artificiale di Expert.ai (azienda italiana leader in questo campo) applicata alla semantica, scopriamo che se consideriamo il tema dei vaccini come uno spazio, allora la maggioranza dello spazio è occupata dai no-vax. Sono una minoranza, anche sui social media, ma la loro attività è intensa, intensissima, ossessiva, tanto che in termini di volume superano nettamente, almeno in alcuni giorni, i pro-vax. D’altro canto si capisce: da un lato si combatte una “crociata” per salvare il mondo, dall’altra si cerca di sostenere qual è il modo migliore di liberarsi dall’epidemia. Emotivamente parlando non c’è storia: l’emozione sul piatto della bilancia pesa di più. Abbiamo estratto le cinque tesi di fondo dei no-vax, da quelle più estreme a quelle più “moderate”. La più estrema sostiene che il Covid stesso non esiste. Si sostiene, in quella che sembra la più dettagliata descrizione di questa tesi, che la proteina Spike e perciò il virus sia stato già “brevettato” da compagnie farmaceutiche prima che lo stesso virus comparisse a Wuhan. Il corollario di questa tesi è che attraverso il vaccino si intenda, in sostanza, controllare la gente. La seconda tesi sostiene che il Covid-19 esiste, ma il vaccino che oggi viene distribuito sarebbe sperimentale, perciò non affidabile, con il corollario emotivo molto forte (che ha molto successo in rete) che saremmo tutti cavie delle Big Pharma. La terza tesi, molto frequentata in questi ultimi giorni, è che il vaccino non è un pericolo, ma non riesce a contrastare l’epidemia, insomma sarebbe quasi inutile. La quarta tesi è che l’informazione ufficiale, a prescindere da quale sia la verità sull’epidemia, non è credibile, perché “asservita” ai governi e, naturalmente, alle Big Pharma. La quinta tesi è che intorno ai vaccini si stia disputando una grande guerra geo-politica con variegate alleanze aziende-nazioni e tutta sulle spalle della gente inerme. In questo universo così frastagliato, in cui nessuno sembra avere il dovere di accompagnare l’opinione con le evidenze, spicca un elemento molto particolare e riguarda il vaccino Sputnik. Analizzando oltre 300 mila tweet del mondo occidentale, lo Sputnik sembrerebbe il vaccino più affidabile: sono state persino misurate le emozioni legate a questo vaccino, e la prima emozione è data dal successo del vaccino stesso (8,8%), poi dalla speranza e dalla fiducia. Piccolo particolare: nessun Paese occidentale ha finora usato lo Sputnik. Le notizie sono alimentate da vari account che sembrano avere lo scopo unico di sostenere la bontà di questo vaccino. L’asimmetria sta perciò sui mezzi usati da questa che appare una battaglia radicale di natura culturale per conquistare una sorta di egemonia su questo tema: da un lato l’informazione ufficiale, che perciò stesso (per essere ufficiale) viene derubricata al non essere credibile; dall’altro la considerazione dei no-vax come una forma di mito-mania non meritevole altro che di dileggio. Infatti il dileggio è il linguaggio prevalente: #vaccinomani, #covidioti contro #NoVaxNoBrain, #NovaxDiconoCose. Come si spezza l’asimmetria? Ibridando i mondi, si direbbe. O meglio, bisogna che i sostenitori delle tesi più fantomatiche (o peggio) siano incalzati: l’insulto non li scalza dalle false credenze, ma ne perpetua la resistenza. Bisogna che i social media vengano monitorati e compresi, estraendo le tesi, rendendole evidenti nelle loro conseguenze e nella loro consistenza, o ancora rendendo evidente la loro insostenibilità. Bisogna contrastare queste tesi in maniera diretta, anche con azioni di comunicazione generale (multi-media, social inclusi) che contrastino le tesi più devianti. C’è una via legale, ma è più efficace la via culturale. Eutanasia, record di firme. E Speranza si schiera di Mario Di Vito Il Manifesto, 13 agosto 2021 Il ministro: un diritto chiedere a una struttura pubblica assistenza per il suicidio assistito. Lo spettro della legge sull’eutanasia si aggira per il Parlamento, ma fuori sembra avere più che altro le sembianze di un’onda che cresce. La raccolta di firme per un referendum d’iniziativa popolare sul fine vita ha già portato circa 400mila cittadini ai gazebo allestiti nelle città (ne servono 500mila entro la fine di settembre) e, con una decisione pressoché storica, da ieri è anche possibile firmare online sulla piattaforma creata dall’Associazione Luca Coscioni, oltre che nelle piazze, in molti studi di avvocati e notai e negli uffici anagrafe dei comuni italiani. Dal Palazzo, un colpo l’ha battuto il ministro della Salute Roberto Speranza, che con una lettera alla Stampa ha risposto all’appello di un uomo di 43 anni che chiedeva di poter morire con dignità. E il ministro ricorda come sia un diritto chiedere a una struttura pubblica assistenza per il suicidio medico assistito. “Continueremo a lavorare in silenzio, per ciò che il governo può fare nell’ambito delle sue competenze, per consentire l’applicazione più uniforme possibile, al di là di ogni legittima posizione politico-culturale, della sentenza della Corte Costituzionale, nel rigoroso rispetto dei requisiti molto chiari e stringenti che essa ha stabilito”, dice il ministro. Sulla pure proclamata “necessità e urgenza di un intervento legislativo in materia”, però, Speranza mette le mani avanti: “Da ministro ho mantenuto la posizione di principio che su materie come questa non ci possa essere alcuna iniziativa del governo che scavalchi o surroghi il ruolo del Parlamento”. Su questo punto il deputato e presidente di Più Europa Riccardo Magi sottolinea: “Sul fine vita il Parlamento è stato latitante per anni: ne sono passati otto, d’altra parte, da quando presentammo una legge sull’eutanasia legale che, però, non è stata mai discussa”. Anche qui, ad ogni modo, la situazione sembra che si stia muovendo. Spiega ancora Magi: “Sulla spinta del referendum, qualche settimana fa, la commissione Giustizia e Affari Sociali della Camera ha approvato il testo base di una nuova legge sull’eutanasia, frutto dell’unione di varie proposte. Non basta e quel testo ha molti limiti evidenti, ma fa bene Speranza a dire che nel dibattito a mancare sono il Parlamento e, soprattutto, le principali forze politiche del paese, quelle che hanno la forza e la possibilità di dettare l’agenda del dibattito. Da qui l’esigenza di una battaglia popolare come il referendum”. È sintomatico che la raccolta delle firme stia procedendo a spron battuto benché se ne parli tutto sommato poco. Nelle strade e nelle piazze in cui sono presenti i gazebo referendari spesso e volentieri si vedono code di cittadini che, sfidando il caldo, aspettano il proprio turno per firmare, in ossequio alla vecchia tesi pannelliana in base alla quale spesso e volentieri la società civile è più avanti rispetto alla classe politica che vorrebbe rappresentarla. L’impegno dell’Associazione Luca Coscioni non si fermerà fino a settembre, e per il weekend di Ferragosto i militanti promettono un particolare impegno a portare i gazebo in più città possibile. I Radicali Italiani, dal canto loro, pur dando atto al ministro Speranza di essere intervenuto sul tema con una lettera non scontata né tanto meno dovuta, sollevano qualche critica sul contenuto della lettera del ministro. “Ribadisce che la sentenza della Consulta non può essere ignorata da nessuno dei soggetti coinvolti (aziende sanitarie regionali, Regioni, Governo centrale) - si legge in una nota - ma poi rimanda un intervento concreto alla ricognizione regione per regione sulla natura e sulla composizione dei comitati etici territoriali e a un’intesa fra Governo e Regioni per fornire indicazioni chiare e univoche sulla procedura di applicazione del dispositivo della Consulta. Campa cavallo”. E ancora: “Di fronte al vergognoso silenzio del Parlamento e alle lungaggini burocratiche di Ministero, Regioni e Asr, solo lo strumento del referendum, ancora una volta come nei passati cinquant’anni, può sbloccare la situazione”. La chiamata popolare sta funzionando, i numeri della raccolta parlano da soli. E sembrano destinati ad aumentare ora che si potrà firmare anche online. “È una svolta epocale - conclude Magi -, abbiamo sempre vissuto i referendum anche come momenti di battaglia per allargare lo spazio di partecipazione dei cittadini. Sui referendum popolari c’erano degli ostacoli oggettivi. Credo che il passaggio dell’emendamento a mia prima firma sulle firme digitali sia stata una bella pagina parlamentare: è passato all’unanimità malgrado il parere contrario del governo”. Il mondo degli scrittori si ribella: “Ha ragione Papa Francesco, basta con i lavoratori-schiavi” di Marco Menduni La Stampa, 13 agosto 2021 Dopo la denuncia di Maggiani e la reazione del Vaticano. Nicola Lagioia: nessun settore più puro dell’altro. L’invito di Elisabetta Sgarbi (La nave di Teseo): “Tutti devono essere più sensibili al tema della legalità”. “Veramente non possiamo lavorare tutti in modo giusto?”. Lo scrittore Maurizio Maggiani, intervistato al Tg1 delle 20, ha rilanciato ancora ieri il suo appello ai colleghi e agli editori perché si alzi la soglia di attenzione, perché non accada che chi stampa i libri, quei libri che dovrebbero portare bellezza, elevare lo spirito, sia vittima di sfruttamento. La riflessione è nata dall’inchiesta della magistratura di Padova su lavoratori pakistani sfruttati, minacciati e percossi, che ha coinvolto anche due dirigenti della Grafica Veneta, una delle più importanti aziende del settore, posti agli arresti domiciliari. Maggiani ha inviato una lettera su questi temi a Papa Francesco, pubblicata il 1° agosto sul Secolo XIX. Sul giornale di ieri la risposta del pontefice allo scrittore. Il Papa scrive di essere rimasto molto colpito e ringrazia Maggiani per la “denuncia costruttiva”: “Ma denunciare non basta, siamo chiamati anche al coraggio di rinunciare ad abitudini e vantaggi”. Prima l’accusa-denuncia dello scrittore Maurizio Maggiani, dopo la scoperta da parte dei magistrati di casi di sfruttamento, al limite dello schiavismo, operati da una cooperativa nell’azienda che ha stampato i suoi libri. Poi la lettera a Papa Francesco e la risposta del Pontefice: “La cultura denunci chi sfrutta il lavoro”. Il caso sta agitando il mondo della cultura italiano. Nicola Lagioia dal 2017 è il direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino. Dice: “Conosco il caso raccontato da Maggiani, ho letto e ho approfondito”. La prima considerazione, lo ammette, è evidente ma imprescindibile. Va sottolineato un principio fondamentale: “Non c’è dubbio, in primis, che ogni fenomeno di sfruttamento del lavoro debba essere subito denunciato”. Poi aggiunge una nota di realismo: “Purtroppo devo dire che non sono stupito per niente. Dove ci sono processi di produzione, non esiste un settore che possa definirsi più “puro” degli altri”. La situazione denunciata da Maggiani cambierà però molte cose da ora in poi: “È evidente che anche gli editori dovranno porre una maggiore attenzione nell’affidare le commesse di stampa”. Che si sia scoperto un tale “baco” nella filiera della produzione letteraria ha lasciato stupito Maurizio de Giovanni. Scrittore, sceneggiatore e drammaturgo, autore di bestseller. “Sono assolutamente su questa linea, condivido la denuncia di Maggiani. Sono in sintonia perfetta con quanto ha affermato Papa Francesco nella sua lettera”. La riflessione: “Non sono sicuro che ci sia un rapporto diretto tra scrittore, editore e stampatore. Questa è una storia, brutta, di commesse alle aziende. Non una catena in cui emerga qualche consapevolezza in ogni suo punto”. Ma la sensazione che pervade è di tristezza e di rabbia: “È raccapricciante che un settore come il nostro, che si basa su storie ma soprattutto su emozioni e sentimenti, debba sentirsi colpita da un atteggiamento orribilmente vessatorio nei confronti di lavoratori che avevano poche possibilità di difendersi”. Stupore al quale si accomuna quello di Andrea De Carlo. “Ho scoperto questa vicenda proprio leggendo gli interventi di Maggiani”. Milanese, De Carlo è legato a Genova dalla figura del padre Giancarlo, uno dei più noti architetti italiani. Lo scrittore è stato protagonista anche di un “gran rifiuto”. Avviene nel giugno 2009, quando si dimette clamorosamente dalla giuria del Premio Strega. Con una lettera al presidente Tullio De Mauro, denuncia le manipolazioni sistematiche dei principali premi letterari da parte dei grandi gruppi editoriali. C’è un’attenuante? “Ripeto: bisognerebbe sempre sapere, ma non era facilmente sospettabile. È molto importante che l’editore faccia delle verifiche e da oggi in poi ritengo che questo sarà fatto con maggior attenzione. Da parte dello scrittore non è facile. È comunque fondamentale denunciare qualsiasi situazione di sfruttamento, quando se ne viene a conoscenza”. Una battuta caustica, com’è nel carattere della persona, arriva da Luciano Canfora, tra i maggiori filologi e storici italiani: “Ma queste cose Maggiani dovrebbe scriverle al ministro Orlando. A Orlando e ad Enrico Letta, e dovrebbe farlo ogni giorno. Invece deve intervenire un presidente della Repubblica democristiano per sollecitare attenzione agli incidenti sul lavoro”. C’è anche il mondo degli editori a confrontarsi con quello che è accaduto. Elisabetta Sgarbi è un’artista poliedrica, guidata da una grande passione che l’ha portata a diventare la direttrice de La Milanesiana e a fondare la casa editrice “La nave di Teseo”. “In generale - spiega - è giusto che tutti, non solo i cosiddetti uomini di cultura, siano sensibili ai temi della legalità e del rispetto delle norme sul luogo del lavoro”. Il Fmi promuove lo Ius soli: “I Paesi che ce l’hanno sono più sviluppati” di Eugenio Occorsio La Repubblica, 13 agosto 2021 Secondo gli economisti di Washington si tratta di uno strumento di convivenza civile e di riconoscimento di diritti che favorisce la crescita. “Esclude certi cittadini può in casi estremi portare a seri conflitti e danneggiare l’economia”. Essere inclusivi, insomma, conviene. “I Paesi dove vige un regime di ius soli tendono a essere più sviluppati di quelli che hanno altre regole”. “L’inclusione facilitata da opportune leggi di cittadinanza è un motore di crescita economica e un fattore per spiegare perché alcuni Paesi sono più ricchi di altri”. Raramente il Fondo Monetario Nazionale ha preso una posizione così decisa. Ma stavolta non ha dubbi: in un ponderoso documento fitto di tabelle e grafici intitolato “Does an inclusive citizenship law promote economic development?”, spiega e argomenta scientificamente perché sia molto meglio per un Paese, specialmente se è esposto a un largo flusso di immigrazione, avere un regime di ius soli. Che viene - è la novità - equiparato senza più nessun dubbio a un fattore di sviluppo e crescita. Oltre che - anche questo è ben argomentato nello studio del Fmi - uno strumento di convivenza civile e di riconoscimento di diritti: “Distinguendo in modo netto i cittadini di un Paese da tutti gli altri, la legge crea degli ‘in’ e degli ‘out’ con forti tensioni sociali. Viceversa - continua il rapporto dell’Fmi - le norme dovrebbero facilitare l’integrazione predisponendo un semplice e trasparente percorso per la cittadinanza che crei un terreno di uguali opportunità per i nuovi arrivati”. Il rapporto (reperibile sul sito www.imf.org) non fa sconti: “Se la legge esclude certi cittadini può in casi estremi portare a seri conflitti e danneggiare lo sviluppo economico. Norme inclusive sono un prezioso strumento di crescita, con profonde conseguenze per il mercato del lavoro, i programmi di welfare e le istituzioni stesse”. Lo ius sanguinis, all’opposto “è più etnocentrico e per definizione meno inclusivo”, laddove l’intera letteratura economica dimostra i problemi che derivano dalla marginalizzazione di interi gruppi di popolazione rispetto al ‘mainstream’ della società in cui vivono per la mancanza di nazionalità. A maggiore inclusione corrispondono “meno diseguaglianze di reddito, più parità di genere, miglior velocità di adattamento, in una parola più crescita”. La differenza nella performance economica “trova una vivida illustrazione e una straordinaria illustrazione”, per usare le parole del report, nei grafici che lo illustrano. I dati non sono recentissimi, ma esemplificativi. Fra il 1970 e il 2014 (il rapporto è del 2019) i redditi pro capite dei Paesi con lo ius soli sono stati dell’80% più alti che in tutti gli altri. Dove è riuscita un’opera meritoria: legare ogni singolo allo Stato attribuendogli un’identità precisa e legale, da affiancare naturalmente alla loro identità etnica basata sui legami con la terra d’origine. Nulla ostacola, aggiunge il Fmi, che si possa ampliare la fattispecie della doppia nazionalità, creata dalla Gran Bretagna nel 1949 e oggi diffusa soprattutto negli Stati Uniti. Oppure creare regimi misti come ha fatto la Germania dopo l’arrivo di milioni di turchi. Ma è materia da maneggiare con estrema cura: secondo il rapporto, ad esempio, è stato decisivo per il ritardo dello sviluppo dell’Africa subsahariana il fatto che usciti dal colonialismo i nuovi governi abbiano imposto una scelta di nazionalità. Il risultato è che gli antichi “coloni” bianchi, che magari individualmente avevano stabilito un ragionevole rapporto di collaborazione con la terra in cui vivevano, sono stati costretti ad andar via portando con sé competenze e capacità. Per sorvegliare i migranti l’Ue fa affari con i contractor di Andrea Palladino Il Domani, 13 agosto 2021 È un’area grigia nel cuore del Mediterraneo, una zona d’ombra dove la parola “sovranità” è soprattutto business. Produttori di armi e munizioni, mediatori specializzati in sicurezza e fornitura di contractors, navi cariche di fucili automatici che funzionano come vere e proprie Santa barbara fluttuanti. In questa terra di mezzo dove si incontrano trafficanti e governi, i migranti sono prima di tutto un lucroso affare. Nel progetto Rapsody di Esa, che dovrebbe controllare il Mediterraneo con droni, compare Sovereign Global Uk azienda riconducibile all’imprenditore Fenech, arrestato per aver violato l’embargo sulla vendita di armi ai libici. È un’area grigia nel cuore del Mediterraneo, una zona d’ombra dove la parola “sovranità” è soprattutto business. Produttori di armi e munizioni, mediatori specializzati in sicurezza e fornitura di contractors, navi cariche di fucili automatici che funzionano come vere e proprie Santa barbara fluttuanti. In questa terra di mezzo dove si incontrano trafficanti e governi, i migranti sono prima di tutto un lucroso affare. Il progetto ultratecnologico, sponsorizzato dall’Agenzia spaziale europea, l’Esa, Rapsody, è una porta d’ingresso inaspettata in questo mondo. Acronimo di Remote Airborne Platform with Satellite Oversight Dependency, prevede la realizzazione di un sistema di droni di ultima generazione, pensato per l’Agenzia europea della sicurezza in mare - Emsa - il braccio operativo nel Mediterraneo della Commissione europea. I mezzi aerei utilizzati avranno potenti obiettivi in grado di filmare e fotografare le acque, immagini da utilizzare per le operazioni di Search and Rescue, ricerca e salvataggio; un’attività che nelle acque tra Italia, Spagna, Grecia e Libia vuol dire cercare di salvare la vita a migliaia di migranti stipati in fragili gommoni. Oppure - secondo la filosofia Frontex - affidarli alla Guardia costiera libica, per rimandarli nelle prigioni di Tripoli. Il progetto ha come principale appaltatore la società portoghese Tekever, specializzata in droni. È affiancata dalla Dsi, spin-off dell’università di Brema, che si occupa di elettronica. Accanto a queste aziende c’è l’inglese Sovereign Global Uk. Nulla a che fare con la tecnologia: è un pezzo di una holding creata nel 2013, che opera tra Gran Bretagna, Gibuti, Africa occidentale, Emirati Arabi e Malta. Ha una specializzazione ben nota nel settore: sicurezza privata, contractor e fornitura di armi. Fino a qualche anno fa gestiva una piccola flotta, con navi trasformate in arsenali, veri e propri depositi di fucili automatici a disposizione delle scorte armate dei convogli nel Golfo di Aden. Fondatori e dirigenti sono due francesi, Bruno Pardigon e Jerome Paolini. Imprenditori che, attraverso una complessa rete societaria maltese e inglese, riportano a uno dei più importanti rivenditori di armamenti in Europa, James Fenech, uomo d’affari arrestato lo scorso anno per aver violato l’embargo sul commercio armi con la Libia. La Sovereign Global non è però un nome nuovo nel complesso scenario delle migrazioni. Fino al marzo del 2017 era proprietaria della nave Suunta, vascello che dopo un rapido passaggio di proprietà e il cambio di nome - oggi si chiama C Star - è stato affittato all’organizzazione neofascista e razzista Génération Identitaire. Dopo la partenza da Gibuti, la nave venne utilizzata dai militanti di estrema destra per una lunga campagna anti ong nel Mediterraneo centrale. A bordo c’erano una decina di dirigenti italiani, francesi, austriaci e tedeschi di Génération Identitaire. Dalla radio di bordo contattavano le imbarcazioni di salvataggio, intimando l’allontanamento dall’area dei naufragi dei migranti. Per il ministero dell’Interno francese, che lo scorso marzo ha sciolto l’organizzazione neofascista, si trattava di una milizia paramilitare. Il silenzio dell’Esa - Le informazioni disponibili sul sistema di droni dell’Esa Rapsody sono scarne. Sulla pagina del progetto nel sito dell’agenzia spaziale europea c’è l’elenco delle aziende coinvolte, qualche cenno all’utilizzo (operazioni di sicurezza marittima, anti inquinamento e Search and Rescue) e poco più. Nessun dato è disponibile sulla gara per la selezione dei contractor e sull’importo finanziato. Una presentazione del 30 novembre scorso pubblicata sul sito Esa fornisce qualche dato tecnico: i droni utilizzati sono dotato di diversi sensori, telecamere ad alta risoluzione, illuminatori laser, radar marittimo, sensori Ais per tracciare la posizione delle navi. L’agenzia spaziale non ha voluto rispondere alla richiesta di maggiori informazioni sulla scelta dei partner e dei contractor: “È stagione di vacanze all’Esa, le persone di cui avete bisogno sono tutte fuori ufficio”, è stata la risposta dell’ufficio stampa all’email inviata da Domani. Il ritorno di Blackwater - Nel cuore del villaggio maltese di Mellieha, poco più di settemila abitanti, c’è l’armeria Fieldsports. Vista da fuori è una piccola vetrina, a due passi dalla chiesa principale; se chiedi in giro - racconta il giornale maltese The Shift - gli abitanti descrivono il negozio come un semplice ritrovo di cacciatori locali. È apparenza. Da qui parte l’impero di James Fenech, uomo d’affari ritenuto oggi uno dei principali commercianti d’armamenti, anche da guerra, d’Europa. Vende a tutti, anche alla Commissione europea: la Fieldsports risulta essere stata nel 2017 fornitrice di armi e munizioni della missione dell’Unione europea Eucap Sahel, creata sei anni fa per affrontare la crisi della zona nord del Mali, uno dei nodi strategici chiave all’origine dei flussi migratori. Fenech per più di un anno è stato socio e condirettore di Pardigon in una società inglese specializzata in materiale bellico, il fondatore della Sovereign Global, la società fornitrice dell’Esa. E i due hanno in comune anche solidi legami con il colosso dei contractor Blackwater. Gruppo statunitense divenuto famoso per le pesanti ombre sul suo operato in Iraq, era stato fondato da Erik Prince, uomo d’affari da sempre legato al mondo dei contractor. Fenech utilizza il nome e il logo della Blackwater per produrre - attraverso la controllata Pbm limited - munizioni di alta precisione. La fabbrica non è poi così lontana: da due anni opera a Poggibonsi, in provincia di Siena, diretta dal socio italiano di Fenech Nicola Bandini, altro noto commerciante di armi. James Fenech oggi è sotto inchiesta a Malta con l’accusa di aver dato supporto logistico ad un gruppo di mercenari contrattati da due società di Dubai, riconducibili - secondo Bloomberg - a un ex affiliato della Blackwater statunitense. Chi ha avuto stretti rapporti con il mondo Blackwater è proprio Pardigon. Secondo un cable divulgato da Wikileaks, il fondatore del gruppo Sovereign nel 2013 ha aiutato la società di mercenari americani a installarsi a Gibuti. Erik Prince, il fondatore di Blackwater, il 3 gennaio del 2017 aveva firmato un lungo articolo sul Financial Times proponendo all’Unione europa di affidare alle società di contractor la gestione della crisi migratoria. Il mondo della sicurezza privata in realtà era già attiva da tempo nella difesa delle frontiere, soprattutto in mare. Nei bilanci della Sovereign Global Pardigon e Paolini già nel 2014 scrivevano a chiare lettere che il futuro, per il loro business, andava in quella direzione. Dopo il crollo degli affari legati alle scorte anti pirateria, il gruppo è riuscito a ottenere un prezioso contratto di supporto alla Guardia costiera nigeriana. Mettendo un piede dentro il progetto di vigilanza spaziale di Esa sul Mediterraneo, il fronte libico non è poi così lontano. Afghanistan, i leader europei alla prova di Eugenio Scalfari La Repubblica, 13 agosto 2021 Bisogna domandarsi di quale Ue avremo bisogno per governare la possibile nuova emergenza. Gli occhi dell’Europa e delle grandi potenze occidentali sono stati puntati per molto tempo sull’Iran e sull’Iraq, per paura e interesse differenti a seconda delle posizioni politiche e geografiche. Nell’impero del “grande gioco”, adesso la situazione afgana ci costringe a spalancarli su un Paese martoriato dove i talebani stanno tornando al potere assoluto, armandosi con l’arsenale abbandonato dai nemici che lentamente ma inesorabilmente stanno smontando una missione di pace miseramente fallita. In poco più di tre settimane le truppe fondamentaliste e arcaiche hanno conquistato più del 65 per cento del territorio (ieri, giovedì 12 agosto, è caduta anche Herat) e si può dire che ora assediano Kabul, senza trovare una vera resistenza da parte dell’esercito regolare. Gli americani, che in venti anni di conflitto in Afghanistan hanno speso mille miliardi di dollari, prevedono che entro tre mesi la capitale cadrà. Migliaia di persone sono in fuga, migranti della disperazione che prenderanno la via dell’Europa e rischiano di trovarsi di fronte un muro a causa delle divisioni che attraversano il Vecchio continente. Austria e Grecia temono che, se si aprono le porte agli afgani, il flusso di immigrazione diventerà incontenibile. L’Occidente, nel momento in cui torna la guerra a Kabul, deve ammettere di avere ancora una volta fallito. L’America ha risposto con il ritiro dei suoi soldati a una richiesta sempre più pressante dei suoi cittadini e Biden lo ha fatto perché era una sua priorità elettorale. Doveva farlo subito, all’inizio del suo mandato, in previsione di non andare oltre i quattro anni. In 20 anni sono infatti stati più di duemila i soldati americani caduti, 40 mila le vittime civili afgane. La nuova situazione potrebbe trasformare l’Afghanistan in una roccaforte degli islamisti e far ripartire gli attacchi terroristici in Europa e negli Stati Uniti. Un ritorno all’inferno che ci siamo illusi di esserci lasciati alle spalle. Il Paese è povero, poco istruito e devastato da guerre infinite. Le donne saranno nuovamente martirizzate. Terreno ideale per i nuovi Osama Bin Laden, anche se gli esperti vedono maggiori pericoli di terrorismo ai danni della Cina e dell’Europa, piuttosto che nei confronti dell’America già alle prese con i suprematisti bianchi. Bisogna quindi domandarsi di quale Europa avremo bisogno nei prossimi mesi e di quali leader in grado di governare la possibile nuova emergenza, a cominciare dalla nuova ondata di profughi provenienti dal Medio Oriente. E qui si torna al bisogno di ritrovare un’unità perduta - se mai posseduta - , quell’unità che era nella testa dei fondatori. Penso che il vero problema non siano i sovranisti di Polonia e Ungheria né i proclami di Salvini e Le Pen e nemmeno il fronte minimalista dei “frugali” venuti dal Nord e guidati dall’Olanda. La forza dell’Europa, dopo la Brexit, è composta da Germania, Francia e Italia, il luogo dove batte il suo cuore politico e storico. La cancelliera Merkel sta per lasciare, il francese Macron è atteso da elezioni complicate, Draghi è il “padrone” di una maggioranza multiforme e inquieta. Scenario delicato e fragile, come vedete. Eppure avremo molto bisogno di un patto a tre Parigi-Berlino-Roma, un triangolo che, a differenza di pochi mesi fa, ha proprio in Draghi il suo lato più resistente e forse ascoltato dal presidente americano Joe Biden. E qui si torna al discorso di una possibile permanenza di Mattarella al Quirinale, idea che ho esposto più volte e sulla quale dunque non mi dilungo. Bisognerà accogliere migliaia di profughi e trovare un sistema di accoglienza equanime, bisognerà rafforzare il ruolo della Nato, bisognerà coordinare il lavoro dei servizi segreti per mettersi al riparo da possibili attacchi terroristici, bisognerà trovare sul piano per ora diplomatico un “programma di salvataggio” per l’Afghanistan, bisognerà evitare trappole da parte di Putin e di Pechino. Un elenco di doveri per assolvere i quali potremo fidarci non di “ominicchi” ma di leader veri capaci di spostare il proprio sguardo un po’ oltre i piccoli interessi partitici e ideologici. Possiamo solo sperarlo. Afghanistan. L’avanzata dei talebani e le mire della Cina di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 13 agosto 2021 Dal ruolo assunto da Pechino potrebbero derivare una minaccia e una sfida permanente per l’Occidente. Nel 1993 molti pensarono che fosse solo fantapolitica. Sta diventando politica vera nel 2021. Nell’articolo del 1993 apparso sulla rivista Foreign Affairs che anticipa il suo celebre e discusso libro sullo “scontro fra le civiltà”, il politologo americano Samuel Huntington ipotizzò una futura alleanza fra l’emergente potenza cinese e le forze più radicali dell’islam, generate dall’attuale “risveglio islamico”. Mentre i talebani continuano la loro travolgente avanzata militare e sono a pochi passi dal conquistare Kabul e l’intero Afghanistan, l’ipotesi/profezia di Huntington sta diventando realtà. Nel luglio di quest’anno i cinesi hanno ricevuto, con tutti gli onori, una delegazione talebana. È diventato chiaro a tutti che Pechino appoggia la loro rimonta armata in Afghanistan. Ha diverse e solide ragioni geopolitiche per farlo. Se, fidando anche nell’aiuto cinese i talebani vinceranno la partita, allora l’alleanza (in funzione anti-indiana, oltre che per altri scopi) che già esiste fra Pakistan e Cina, si trasformerà in un triangolo Cina-Pakistan-Afghanistan, con la Cina, ovviamente, in posizione egemone. Nella parte orientale del continente euro-asiatico potrebbe allora entrare in funzione una grande calamita in grado di esercitare una forte attrazione sulle forze dell’estremismo islamico ovunque collocate. È naturalmente possibile che questa convergenza fra cinesi e talebani mantenga un carattere e una dimensione solo regionali. Ma è anche possibile che sia la prova generale, l’anticipazione, di qualcosa di ben più ampio, secondo l’ipotesi di Huntington. “Parigi val bene una messa”: una simile alleanza imporrebbe alle forze islamiste di abbandonare al suo destino la minoranza musulmana perseguitata dai cinesi, gli uiguri del Xinjang. Verrebbero sacrificati sull’altare di un “bene” più alto, non essendo la realpolitik un’invenzione occidentale ma un elemento costitutivo della politica in ogni tempo e luogo. Il comune interesse cementerebbe l’alleanza. La Cina, offrendo sostegno all’estremismo islamico, potrebbe favorire forze in grado di indebolire le istituzioni di Paesi, musulmani o con forti minoranze musulmane al loro interno (dal Caucaso al Medio Oriente, all’Africa), ove l’influenza cinese è ancora assente, debole o non consolidata. L’estremismo islamico godrebbe del sostegno di una grande potenza. È bene che gli occidentali, americani ed europei, a questo punto, si preoccupino. Perché dalla vicenda afghana e dal ruolo che vi ha assunto la Cina potrebbero derivare una minaccia e una sfida permanente per l’Occidente. Un’alleanza cino-islamica logorerebbe (o tenterebbe di farlo) i legami occidentali con i Paesi dell’Asia, del Medio e Vicino Oriente. E minaccerebbe la stessa Europa. L’unica conseguenza positiva potrebbe consistere, nel medio termine, per contraccolpo, in un’alleanza fra Russia, Stati Uniti ed Europa. Ma la Russia dovrebbe riuscire a tenere a bada il suo antico e tenace antioccidentalismo. La parabola politica, e il fallimento finale, dell’unico leader, in tutta la storia della Russia moderna, che abbia tentato, in tempo di pace, un’alleanza simile, Michail Gorbaciov, non sono di buon auspicio. Noi europei possiamo anche fingere, ancora per un po’, che tutto ciò non ci riguardi ma siamo un evidente bersaglio, siamo allo scoperto e con poche difese. Se i talebani (ma forse è meglio dire “quando”) prenderanno Kabul, l’impatto propagandistico di quella vittoria sugli infedeli sarà fortissimo, genererà un’onda d’urto che arriverà ovunque. Il terrorismo tonerà a minacciare anche l’Europa. Si noti inoltre che l’insidia per le società libere europee non dipende solo dal terrorismo in sé ma anche dagli effetti politici che il terrorismo può innescare. Operano in Europa forze fondamentaliste, culturalmente e ideologicamente incompatibili con i principi di una società libera, che però, a differenza dei jihadisti, non ricorrono o non ricorrono più alla violenza. Sarà facile per queste forze, in presenza di minacce terroriste, di proporsi agli europei come alfieri della “moderazione” ottenendo così concessioni e vantaggi incompatibili con le regole politiche e giuridiche su cui si reggono o si sono fin qui rette le società occidentali. Per chi sta allo scoperto le minacce sono molte e non tutte immediatamente riconoscibili. Ne uscirebbe comunque un’Europa indebolita, culturalmente e politicamente. Questa sarebbe una buona notizia per Pechino e i suoi disegni neo-imperali, un asset, con grandi ricadute e vantaggi economici e politici, nella competizione per il primato internazionale con gli Stati Uniti. In ogni caso, la possibile alleanza cino-islamica metterebbe in atto una manovra, di medio termine, “a tenaglia”: la potenza economica cinese che si coordina, per soddisfare le reciproche convenienze, con il fanatismo religioso. Quando l’Europa si sveglierà, se si sveglierà, dovrà dedicare molti vertici al che fare nella nuova situazione internazionale. Nel frattempo, il forse troppo serafico Joe Biden dovrebbe dare a tutti noi la sensazione che si possa ancora contare sugli Stati Uniti. Gli americani completeranno il ritiro delle truppe in Afghanistan entro la fine di questo mese. La loro intelligence stima che i talebani entreranno a Kabul nel giro di tre mesi. Prima, con Trump, i curdi, ora, con Biden, gli afghani: dapprima illusi, usati, e poi abbandonati al loro destino. Una doppietta micidiale: chi, e in quale parte del mondo, si fiderà ancora delle promesse degli americani? Non si capisce se il presidente degli Stati Uniti pensi davvero oppure no che sia ancora nella convenienza del suo Paese conservare la leadership del mondo occidentale, con i privilegi ma anche con gli oneri che quella posizione comporta. Può essere, come molti sostengono, che le ultime tre amministrazioni, di Obama, di Trump e di Biden, rappresentino, con stili diversi, e anche molto diversi, un’America, retorica a parte, ormai stanca di quel ruolo che non può, non sa o non vuole più esercitare. Se le cose stanno davvero così noi europei ne pagheremo il prezzo. Ma il conto sarà alla fine salato anche per l’America. Limitiamoci a dire che il mondo che ci aspetta e ci si prospetta sarà comunque meno amichevole e ospitale per quelle istituzioni, forgiate attraverso i secoli in Europa, da cui dipende la società aperta e che ci hanno assicurato benessere e libertà. Nella padella Trump ci siamo tutti un po’ ustionati. Speriamo di non dover scoprire tra qualche tempo di essere finiti nella brace. Afghanistan. I talebani conquistano anche Herat: fino a giugno era difesa dagli italiani di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 13 agosto 2021 Cade la terza città dell’Afghanistan. Poche ore prima espugnata Ghazni, la porta verso la capitale. Gli Usa inviano tremila soldati per evacuare l’ambasciata a Kabul. E così è caduta anche Herat. La perla dell’Afghanistan, la terza città per importanza del Paese, la più aperta al mondo, con un’antica tradizione di letterati e commercianti, la porta verso l’Iran e l’Europa, viene conquistata dalle colonne talebane dopo meno di tre settimane di battaglia. L’Italia è direttamente coinvolta, visto che per quasi vent’anni i suoi contingenti militari vi avevano operato di continuo mantenendo il quartier generale a poche decine di metri dall’aeroporto. Ai primi di giugno la cerimonia dell’ammainabandiera in un hangar semivuoto al lato della pista di fronte al ministro Lorenzo Guerini era stata triste e di basso profilo. Un discorso breve: il ricordo della cinquantina di caduti italiani, qualche vaga promessa di aiuto e la garanzia agli interpreti che avevano lavorato per il contingente di poter venire in Italia. Già questo aveva il sapore della sconfitta, del si salvi chi può. Prima di sera si parlava del rischio di mortai talebani contro gli aerei in decollo. La situazione appariva assolutamente precaria. “I talebani sono qui, dietro le prime colline. Attaccheranno appena ve ne sarete andati”, ci aveva confidato un addetto alle pulizie. E così è stato. Neppure Ismail Khan, lo storico signore della guerra eroe delle battaglie contro i russi, era riuscito ad arginare l’inevitabile. Ieri nel tardo pomeriggio i talebani hanno liberato i loro compagni rinchiusi nella prigione locale, quindi si sono diretti al palazzo del governatore per issare la bandiera. Kabul è nel panico. Numerosi Paesi invitano i loro cittadini ad abbandonare l’Afghanistan al più presto. Tra loro anche Stati Uniti (che stanno evacuando parte del personale dell’ambasciata e per questo hanno inviato sul posto tremila soldati) e Germania. Via terra è impossibile, i talebani controllano le strade in ogni direzione, le porte per il Pakistan sono in mano loro. E gruppi di banditi approfittano del caos per rapinare, proprio come avvenne dopo il ritiro russo nei primi anni Novanta. Il rischio della divisione tra milizie etnico-tribali si fa più vivo che mai. I turchi promettono che controlleranno l’aeroporto. Ma le memorie della guerra civile sono adesso tornate realtà. Iran. Si difese da una violenza, Sajad giustiziato in segreto di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 13 agosto 2021 Il fatto, spietato e regressivo, che racconto ci induce a uscire dalla cronaca e a cercare di entrare in una storia. Il fatto è accaduto il 2 agosto, quando Sajad Sanjari, al sorgere del sole, è stato giustiziato in segreto nel carcere di Dizelabad nella provincia di Kermanshah in Iran. La famiglia è venuta a conoscenza dell’accaduto solo quando un funzionario ha chiesto di andare a prendere il corpo, mentre il giorno volgeva alla fine. Sajad era stato arrestato nell’agosto del 2010, quando aveva 15 anni per aver accoltellato un uomo che aveva cercato di violentarlo. È stato condannato a morte un anno e mezzo dopo, nel gennaio 2012 quando ancora non aveva compiuto diciotto anni perché la Corte non ha creduto alle ragioni della legittima difesa avanzate dal ragazzo che aveva raccontato di essere stato minacciato già il giorno prima dall’uomo. Per questo aveva deciso di uscire da casa con un coltello. Voleva tenerlo alla larga. Per la Corte hanno contato di più le testimonianze delle persone per bene che dicevano che l’uomo fosse una persona a modo. La Corte Suprema aveva però rovesciato il verdetto di condanna nel dicembre del 2012 per una serie di lacune investigative, Era stato arrestato in Iran nel 2010, appena 15enne, dopo aver accoltellato un uomo che aveva tentato di abusarne. Dopo anni di processi si è stabilito che fosse consapevole perché ai tempi del reato aveva già i peli pubici... salvo riconfermarlo nel febbraio del 2014. Il tritacarne processuale riprendeva nel giugno del 2015. Nel 2013 erano infatti state introdotte delle modifiche al codice penale islamico per riconoscere la discrezionalità del giudice nel comminare una punizione alternativa alla pena di morte nei confronti di minori di 18 anni qualora si fosse convinto che il minore non era in condizioni di comprendere la natura del crimine o le sue conseguenze oppure se avesse dubbi sul suo livello di “maturità” al momento del fatto. Anche questo nuovo corso processuale però era destinato a chiudersi malamente per Sajad. Il 21 novembre 2015 infatti, la corte penale di Kermanshah lo condannava a morte dopo averne attestato la “maturità” al momento del crimine. Come? Non attraverso l’acquisizione di un parere da parte dell’organizzazione di medicina legale, un istituto forense statale, né considerando il parere del consulente ufficiale del tribunale esperto di psicologia infantile per il quale Sajad Sanjari non era maturo all’epoca dei fatti. No, nulla di tutto questo. La prova della “maturità” considerata è la stessa posta a base della prima condanna a morte, quella del 2012, e cioè “lo sviluppo dei peli pubici”. La qual cosa è andata bene anche per la Corte Suprema, né si è consentita un’ulteriore richiesta di riapertura del processo. Nel 2017 l’esecuzione di Sajad è stata bloccata per via di una mobilitazione internazionale sul caso. A distanza di quattro anni, la segretezza ha evitato ogni forma di mobilitazione a sostegno del ragazzo la cui esecuzione è stata resa nota alcuni giorni dopo da Amnesty International e confermata da Iran Human Rights. Questa la cronaca di un fatto accaduto in un Paese in cui il numero delle esecuzioni è, da inizio anno ad oggi, di ben 215 secondo i dati di Nessuno tocchi Caino e dove la pena di morte continua ad essere praticata nei confronti di minorenni in violazione delle basilari regole del diritto internazionale che la vietano in questi casi. Ben 4 quelli mandati al patibolo nel 2020 e almeno 84 quelli nel braccio della morte secondo l’Alto Commissario per i diritti mani delle Nazioni Unite Un Paese in cui il neo Presidente è Ebrhaim Raisi, considerato dagli stessi esponenti del regime, il “campione della forca” e che al momento della sua proclamazione aveva al suo fianco tanto un esponente dell’Unione europea, quanto del Governo italiano, cioè chi fa della moratoria delle esecuzioni capitali un fiore all’occhiello della propria politica estera. Di fronte allora a questa cronaca della banalità del male, proviamo a scrivere la storia. Come? Partiamo dalla consapevolezza di questa efferatezza e operiamo per un cambiamento evolutivo improntato al rispetto dei diritti umani e l’affermazione dello Stato di Diritto. Chiediamoci cosa intendiamo per “maturità”. E poi vediamo se la lunghezza di un pelo è un criterio di valutazione ammissibile. Chiediamoci cosa intendiamo per “processo”. E poi vediamo se la lunghezza della sequenza di atti del procedimento è un criterio di effettivo avanzamento. Chiediamoci cosa intendiamo per “pena”. E poi vediamo se la privazione della vita o la lunghezza della privazione della libertà è un criterio di effettivo riequilibrio sociale e di giustizia. Allora quanto accaduto a Sajad Sanjari cessa di essere solo cronaca di un fatto accaduto in Iran, e diventa una storia che ci riguarda. Guinea Conakry, quei volontari del “Progetto Dream” tra i detenuti nelle carceri di Dubréka di Natasha Caragnano La Repubblica, 13 agosto 2021 Le donne e gli uomini della Comunità di Sant’Egidio portano cibo e musica tra i reclusi che vivono in condizioni disperate. Il programma per curare e prevenire l’Aids e arginare la malnutrizione. Trascorsi i giorni dell’Eid al-Adha, la “festa del sacrificio”, tra le più importanti celebrate dai musulmani per dimostrare la propria fedeltà e devozione a Dio. In Guinea Conakry - ex colonia francese nell’Africa Occidentale - un gruppo di volontari del Progetto DREAM della Comunità di Sant’Egidio di Barcellona ha portato cibo e musica nelle carceri di Dubréka, a 50 chilometri dalla capitale del Paese, Conakrry, dove i detenuti vivono in condizioni precarie. Il programma sanitario DREAM in Guinea è attivo dal 2006 e ha lo scopo di curare e prevenire l’Aids, contrastare la malnutrizione e garantire il diritto alla salute. “La festa è stata un’occasione per portare aiuti a persone che altrimenti verrebbero dimenticate”, racconta Raquel Sancho, maestra di una scuola elementare a Barcellona che dal 2004 è membro del progetto di assistenza sanitaria. Aiuti alimentari, saponi, dentifrici. Nelle celle di Dubréka la luce è fioca, manca l’aria e il cibo è scarso. I 170 detenuti hanno ricevuto un solo piatto di riso in bianco per tutto il giorno. “Quando vivi in queste condizioni, la visita di qualcuno ti ricorda di esistere, di essere una persona”, Raquel è in viaggio di ritorno verso Barcellona e racconta di come il suono dei tamburi e un piatto di riso con pollo e salsa piccante abbia ridato vita a queste persone. Gli aiuti alimentari, i saponi, i dentifrici e le medicine portate dagli attivisti migliorano le condizioni di vita dei detenuti che affollano le celle molto piccole, in cui le malattie si diffondono rapidamente. Detenuti in galera anche dopo aver scontato la pena. Tra loro non è difficile trovare qualcuno che abbia già scontato la pena, ma che per colpa di un sistema giudiziario che non funziona è ancora in attesa della sentenza: “Quest’anno abbiamo liberato tre detenuti dopo aver sviscerato il registro dei casi”, racconta Raquel. Il lavoro nelle carceri impegna gli attivisti del programma Dream ogni settimana diventando l’unico contatto possibile tra i detenuti e i loro cari. “La farmacia della prigione è vuota e senza qualcuno che ti procuri medicine non è facile sopravvivere. Noi cerchiamo di aiutarli, di informare le famiglie sulle condizioni di salute e su ciò di cui hanno bisogno”, spiega. Il sistema sanitario non è accessibile a tutti. Il sistema sanitario privato, reso ancora più fragile dall’emergenza sanitaria del Covid-19, non è accessibile a tutti. I quattro centri della Comunità di Sant’Egidio assistono più di 4mila pazienti gratuitamente arrivando fino alle estreme periferie, come nel carcere di Dubréka. E quando Raquel e gli altri volontari non sono in Guinea Conakry, sono le attiviste del posto a prendersi cura dei detenuti, dei pazienti delle cliniche e delle famiglie più fragili. “La formazione è una parte fondamentale del nostro progetto. Una volta iniziata la cura contro l’Aids capita che i pazienti decidano di studiare per diventare infermieri o aiutarci nei centri”, spiega la responsabile del programma, Cristina Cannelli. Anche se nel Paese l’incidenza della malattia non è molto alta, circa l’1,7%, non vuol dire che non si muoia e che non si debba combattere lo stigma che circonda le persone malate. Per questo motivo, è fondamentale la testimonianza di persone che vivono con l’Aids. “Negli ultimi anni, siamo riusciti ad arrivare a circa trecento bambini nati senza il virus da madri sieropositive. È un grande successo per noi”, conclude Cannelli.