Giustizia riparativa: la voce delle vittime del terrorismo di Luca Cereda vita.it, 12 agosto 2021 Seconda puntata del nostro viaggio nelle esperienze in essere in Italia. Parlano Manlio Milani, il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di piazza della Loggia e Giorgio Bazzega figlio del maresciallo dell’antiterrorismo Sergio Bazzega, ucciso dal brigatista Walter Alasia. L’obiettivo di questo reportage sulla giustizia riparativa non è quello di descrivere i numeri dei suoi percorsi dentro e fuori le carceri italiane. Come detto nel primo capitolo, questo numero non lo ha né il Ministero della Giustizia, né il Dap, il dipartimento di amministrazione penitenziaria. La giustizia riparativa, portata avanti in modo informale e non sistematico, da anni affronta la complessità dell’evento “reato” in tutte le sue molteplici implicazioni: psicologiche, sociologiche, emotive. E in tutte le sue componenti: il reo, la vittima e la società. Implicazioni che riguardano tutti i soggetti coinvolti sia antecedentemente, sia durante, sia successivamente all’agire criminoso. Ma è possibile rimettere in contatto i pezzi lacerati da un atto terroristico neofascista o di estrema sinistra. È possibile farlo dopo il boato e i corpi dilaniati come accaduto il 28 maggio del 1974 a Piazza della Loggia a Brescia, in cui persero la vita 8 persone e altre 102 furono ferite? A dimostrare che questo percorso è possibile è Manlio Milani, marito di Livia Bottardi, una delle vittime della strage e presidente dell’associazione dei familiari delle vittime: “Dobbiamo partire, è questo che facciamo nei percorsi riparativi che proponiamo, dalla necessità di eliminare le categorie che separano chi sta fuori da chi sta dentro al carcere, le vittime dai rei: non ci possono i totalmente buoni da una parte e gli assolutamente cattivi dall’altra, i mostri”. La voce che resta viva delle vittime del terrorismo Erano le 10 in piazza della Loggia ed era prevista una manifestazione contro il terrorismo neofascista indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista. Migliaia di persone erano scese in piazza a manifestare. Alle 10.12 una bomba contenente almeno un chilogrammo di esplosivo, nascosta in un cestino dei rifiuti, esplose colpendo moltissime persone: tre di queste morirono sul colpo. Una di queste fu Livia. “Quella mattina noi, io e lei, andiamo in piazza, cerchiamo i nostri amici, li individuiamo, erano vicino a quella colonna e quindi a quel cestino. Mentre ci stiamo avviando da loro io vengo bloccato da un amico che mi chiede alcune cose. Quando sarò stato a 4 o 5 metri, forse anche meno, da loro, da questo gruppo di amici che avevo lasciato la sera prima, alzo gli occhi, incontro quelli di Livia, ci salutiamo: in quel momento lo scoppio”, ricorda Milani. Quella violenza ha rotto immediatamente qualsiasi tipo di rapporto di vicinanza. “Da un momento all’altro tu ti sei trovato completamente deprivato della possibilità? di avere la fianco la tua compagna di vita. Questa e? una lacerazione che per me e? insopportabile, quasi una sorta di senso di colpa perché? ti porta a dire: “avrei potuto proteggerti un po’ di più”“, continua Manlio Milani. I terroristi: mostri o persone? “C’e? un filmato del giorno dei funerali - ricorda il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime - dove io continuo a picchiarmi un pugno in testa e continuo a dirmi quanto fosse tutto assurdo quello che stavo vedendo. E quando ho visto il giorno del processo che gli imputati, e guardandoli avevano 17-18 anni, io dicevo “come hanno fatto questi qui per poter fare questa cosa? Davvero loro sono l’espressione del fatto”? Ecco allora che inizia a farsi largo nel cuore e nella mente di Milani e altre vittime di una tragedia che non è mai stata solo privata, ma sempre anche pubblica, di Stato. “Avviando percorsi riparativi con detenuti per reati di terrorismo, ma anche per reati ordinari, mi sono sempre reso conto di come un reato sia innanzitutto lo specchio di un qualche disagio che c’e? nella società. E non e? un caso che molti di loro mi abbiano detto: finalmente sono stato arrestato, perché in carcere ho la possibilità di rendermi conto di ciò che ho fatto e quindi di una possibilità di fermarmi, perché all’esterno non ero più capace di tornare indietro”. È possibile riparare gli strappi - personali e collettivi - delle stragi del terrorismo? Lo sforzo che Manlio Milani propone, alle vittime di un reato drammatico come una strage terroristica, così come a tutte le vittime è di unire le forze con la società civile “per recuperare l’umanità sofferente in carcere. Non dobbiamo lasciarli isolati, creargli attorno una sorta di cordone sanitario. Dobbiamo provare a incontrarli in percorsi riparativi, ad adesione volontaria da parte di tutte le componenti della pratica, per poter fare in modo che essi da un lato cerchino di recuperarsi ad una nuova vita, e dall’altro lato trovino la possibilità di sopportare fino in fondo, pur vivendo quella colpa, il peso che non e? una espiazione cosi?, e? semplicemente riconoscere la responsabilità di ciò che hanno prodotto”, testimonia Milani. Che aggiunge: “Ai detenuti va ridata fiducia, perché possano riconoscere il male fatto anche attraverso il dialogo diretto con la vittima. Anche la vittima, quando comprende che il reo ha preso consapevolezza del male, della lacerazione, si rende conto di non aver a che fare con un mostro ma con una persona”. Guardare il reato con altri occhi Giorgio Bazzega è figlio del maresciallo dell’antiterrorismo Sergio Bazzega, ucciso dal brigatista Walter Alasia il 15 dicembre del ‘76. “Per anni ho scelto di riempire quel dolore con la droga per alleggerire l’anima dalla vendetta che covavo. Ma i semi piantati da mio padre - rivela Bazzega - ad un certo punto sono affiorati”. Il motivo dell’odio e della rabbia che aveva dentro era il suo essere una vittima: “Quando sei vittima il dolore ti porta a cortocircuiti strani: volermi vendicare della morte di mio padre per onorarlo era il contrario dei valori che lui mi aveva tramesso e che incarnava”. L’incontro con Manlio Milani e i percorsi riparativi che proponeva a vittime di reati di terrorismo è stato lo snodo che ha consentito a Bazzega di guardarsi dentro: “Mi ha cambiato la vita perché mi ha permesso di mutare il mio punto di vista: la vittima non dev’essere passiva e in attesa di essere considerata o commiserata. La vittima diventa parte attiva nel processo di avvicinamento dei lembi dilaniati dal dolore e dalla sofferenza dello strappo iniziale, violento”. Per 10 anni Giorgio ha intrapreso un percorso di giustizia riparativa con un gruppo di vittime del terrorismo e con ex-esponenti della lotta armata. “In questo percorso i rei accettavano sulle loro spalle la tua rabbia e la tua sofferenza perché i dolori sono trasversali. Lo strappo però divora tutti, me come figlio di una vittima, ma si prende anche i figli e le figlie dei rei. Questo mi ha fatto capire che chiedere la “morte civile” per i fatti commessi, anche dopo lo sconto della pena, significa fare qualcosa di incostituzionale, che non ricuce lo strappo, ma lo trascina e se possibile lo aumenta”. La giustizia riparativa come recupero “Colui che viene condannato viene visto esclusivamente attraverso gli occhi della legge. Viene considerato colui che ha commesso il reato. Ma chi è questa persona? Come mai ha commesso violenza, di qualsiasi tipo, contro qualcuno e contro la comunità? Abbiamo bisogno anche di rispondere a queste domande. Non dobbiamo dimenticare mai che il reo è una persona e non un mostro”, spiega ancora Manlio Milani. Per questo i percorsi di giustizia riparativa sono diretti a tutte le parti coinvolte - vittima, reo, società civile - anche in un terribile omicidio o strage del terrorismo, e la direzione che dovrebbe essere intrapresa per recuperare l’umanità sofferente che affolla le carceri, la indica proprio Milani: “Non dobbiamo lasciare i detenuti isolati. Dobbiamo poter fare in modo da un lato cerchino di recuperarsi ad una nuova vita, e dall’altro lato trovino la possibilità di sopportare fino in fondo, pur vivendo quella colpa, il peso delle loro azioni. Che così non è un’espiazione, è semplicemente riconoscere la responsabilità di ciò che hanno prodotto”. Ridiamo senso alle pene di Stefano Anastasia* Il Riformista, 12 agosto 2021 Bene ha fatto la ministra Cartabia a chiedere all’Amministrazione penitenziaria un approfondimento sui 32 casi di suicidio registrati nelle carceri italiane in poco più di sette mesi. Le complessità delle storie di vita di chi è in carcere, e il carcere stesso come luogo di pena, e dunque di sofferenza e di dolore, non possono consentirci di assuefarci alla morte dietro quelle mura. Molto è stato fatto in questi anni per la prevenzione del rischio suicidario, anche attraverso l’adozione di un piano nazionale adottato a livello regionale e locale. Eppure non tutto può essere previsto e non tutto può essere impedito. Per questo, in queste circostanze, non credo che sia utile andare alla ricerca delle responsabilità individuali, ammesso che ce ne siano, quanto piuttosto capire cosa non funzioni, oltre che nel “sistema”, anche nei singoli istituti, evitando però giudizi tanto generali quanto generici, sulla disumanità delle carceri italiane o di quelle di una regione in particolare, come si diceva ieri su queste pagine, peraltro accomunando ingiustificatamente quattordici istituti tra loro molto diversi. Lo dico da convinto abolizionista, convinto che si debba far a meno del carcere negli affari di giustizia, ma consapevole - come Garante dei detenuti - che qui e ora, di fronte alla tragedia di un suicidio in carcere non basti la denuncia, ma ci si debba chiedere cosa potrebbe essere fatto meglio per lasciare la speranza di una vita degna di essere vissuta a chi si trovi disperato, e spesso lucidamente disperato, in carcere. Così, credo, si debba fare anche nel caso del grave lutto che ha colpito la comunità penitenziaria della casa di reclusione di Rebibbia il 31 luglio scorso: Luciano, detenuto di lungo corso, affetto da problemi psichiatrici seri, si è levato la vita, come già aveva tentato di fare anni fa e come aveva in altre occasioni ripetuto di voler fare. Non accettava la sua pena, la sua sofferenza o forse - semplicemente - il corso della sua vita. Naturalmente sono in corso le indagini della Procura sulle circostanze della morte, e la Asl sta ricostruendo l’assistenza che gli era prestata in questi anni nella sezione dei cd. “minorati psichici”, secondo la terminologia pre-basagliana ancora in uso nell’Amministrazione penitenziaria, ma - fughiamo subito il campo da equivoci ricorrenti - Luciano non è morto in attesa di un posto in una Residenza per le misure di sicurezza: riconosciuto semi-infermo di mente, aveva da fare ancora sette anni in carcere, prima di iniziare, se necessario, un percorso terapeutico in Rems. Forse avrebbe potuto essere ammesso a un’alternativa terapeutica sul territorio, fuori dal circuito delle misure di sicurezza, secondo quanto stabilito dalla Corte costituzionale nella sentenza 99/2019, redatta dall’allora giudice costituzionale Marta Cartabia, ma non ho notizie che un’istanza in tal senso sia mai stata fatta ai giudici di sorveglianza. Luciano era perfettamente inserito nella comunità penitenziaria di Rebibbia: era assegnato a quella sezione, e lì partecipava al percorso di assistenza offerto dal servizio di salute mentale dell’Istituto; ma svolgeva attività anche al servizio degli altri, in particolare, negli ultimi tempi, come scrivano di reparto, redattore delle istanze dei detenuti alla autorità competenti, dalla direzione alla magistratura di sorveglianza. Così decine di detenuti hanno inviato al sottoscritto, alla Garante comunale, al Garante nazionale, e poi al Tribunale di sorveglianza, alla Direzione del carcere, al Provveditorato, al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e alla ministra Cartabia un reclamo, in cui - sgomenti per la morte di Luciano - denunciano lo stato di trascuratezza in cui versa quell’Istituto, che pure fu fiore all’occhiello della riforma penitenziaria, della legge Gozzini e della illuminata gestione dell’Amministrazione penitenziaria da parte del compianto Nicolò Amato. Sono stato a discuterne con loro, la scorsa settimana, nel giardino del carcere, che ricorda ancora i tempi migliori. C’è rabbia, comprensibilmente, per quella morte, ma soprattutto c’è ansia e richiesta di una svolta, che torni a fare del carcere, e di quel carcere in particolare, un momento di un percorso di reinserimento sociale, e non solo il luogo del loro contenimento e della dissipazione della loro vita. Questo, credo, è l’impegno più importante che i suoi compagni chiedono a tutti noi, destinatari del reclamo in memoria di Luciano e sono convinto che anche la Direzione del carcere e il Provveditorato regionale, come gli operatori che mi hanno accompagnato nella visita, siano disposti a mettersi in gioco e a ridare un senso a quella casa di reclusione e alle pene che vi si scontano. *Garante detenuti Lazio Per prevenire le violenze in carcere servono videocamere adeguate e formazione di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2021 Altre immagini da un carcere, di nuovo un corpo abusato e maltrattato da poliziotti penitenziari, funzionari dello Stato che dovrebbero custodirlo e tutelarlo. Ieri sera il Tg1 ha mostrato un video ripreso da telecamere nel carcere di Monza e risalente a un paio di anni fa, nel quale un uomo veniva picchiato nel corridoio della sezione e poi trascinato in cella. Era il 6 agosto 2019 quando il fratello di quell’uomo compose il numero telefonico dell’ufficio di Antigone. La cognata era stata a colloquio con il marito e lo aveva trovato tumefatto. Temevano ulteriori vessazioni. Come troppe volte succede, a seguito del pestaggio l’uomo aveva anche subito un procedimento disciplinare ed era stato posto in isolamento. Oltre il danno la beffa. Era stato lui, secondo la versione dei poliziotti, ad aggredire per primo. Sarebbe stato dunque necessario procedere a quella che non era altro che un’azione di legittima difesa. Immediatamente noi ci rivolgemmo all’Amministrazione penitenziaria della Lombardia che, con una prontezza di cui va dato atto, intervenne nell’istituto e si accertò che il detenuto fosse al sicuro. Pochi giorni dopo, gli avvocati di Antigone presentarono un esposto presso la Procura della Repubblica di Monza. Le indagini sono andate avanti per due anni. Lo scorso 2 luglio il giudice per l’udienza preliminare ha disposto il rinvio a giudizio per cinque poliziotti penitenziari, tra cui un ispettore capo e un commissario capo. I reati ipotizzati sono lesioni aggravate, falso, calunnia, violenza privata, omessa denuncia di reato, abuso d’ufficio. Nel frattempo, nel maggio scorso, Antigone è stata ammessa come parte civile nel procedimento penale. Gli eventi, scrive il giudice, sono di gravità tale da riguardare un’associazione a tutela dei diritti umani. Antigone “si è inoltre occupata specificatamente ed attivamente del caso per cui si procede, come dimostrato dall’esposto presentato (…) dimostrando così di avere un interesse concreto e diretto all’esito della vicenda”. La prima udienza del dibattimento si terrà il prossimo 16 novembre. Ci auguriamo che si arrivi in fretta a ristabilire verità e responsabilità. Quando ci sono le immagini, a Monza come a Santa Maria Capua Vetere, l’omertà e lo spirito di corpo - ancora troppo presenti in carcere - hanno assai meno possibilità di vittoria. Come Antigone ha più volte ribadito nelle ultime settimane tanto alle autorità governative italiane quanto a quelle europee, è necessario prevenire la violenza in carcere attraverso una predisposizione adeguata di videocamere capaci di mantenere le registrazioni in memoria per tempi sufficientemente lunghi (le 36 ore oggi previste sono del tutto insufficienti). È inoltre necessario introdurre strumenti di identificazione del personale penitenziario e una formazione comune e costituzionalmente orientata. È poi fondamentale che la politica e l’amministrazione diano segnali forti di condanna di ogni abuso di potere nei confronti delle persone in custodia. In questi anni molto è stato fatto per contrastare il senso di impunità di quella minoranza delle forze dell’ordine che interpreta malamente il proprio ruolo. Quel che accade oggi accadeva ragionevolmente anche vent’anni fa, ma mai avevamo visto tante indagini, rinvii a giudizio, condanne. Oggi le persone detenute si fidano di una realtà come Antigone e si rivolgono a noi senza paura di denunciare. È fondamentale che lo Stato sia sempre vicino, in ogni sua forma, a questo percorso di civiltà. *Coordinatrice associazione Antigone Detenuti in calo, ma il sovraffollamento resta redattoresociale.it, 12 agosto 2021 Aggiornamento al 31 luglio 2021 con i nuovi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Nei penitenziari italiani ci sono 53.129 persone. Mai così pochi da inizio pandemia. In calo anche gli stranieri: sono 16.829. Stabile il numero di donne detenute. La popolazione penitenziaria in Italia ancora in calo. Con i nuovi dati forniti dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria al 31 luglio 2021, il numero dei detenuti risulta essere il più basso da inizio pandemia: sono 53.129 le persone detenute negli istituti di pena su tutto il territorio nazionale. Un dato parecchio distante da quello di febbraio 2020, quando nelle carceri italiane c’erano oltre 61 mila persone detenute. In crescita, secondo i dati ufficiali forniti dall’Amministrazione penitenziaria, anche la capienza regolamentare con 50.877 posti. Diminuisce la presenza di stranieri: al 31 luglio 2021 sono 16.829. Le detenute donne, invece, sono sempre 2,2 mila. Le regioni che presentano un divario maggiore tra numero di detenuti e capienza regolamentare sono la Lombardia (7.623 detenuti per 6.139 posti) e la Puglia (3.662 detenuti per 2.890 posti). Il 2020 segna una netta controtendenza per quanto riguarda la popolazione carceraria: al 31 dicembre 2020, infatti, nei penitenziari di tutto il paese risultano 53.364 detenuti, un numero ben distante da quello registrato al 31 dicembre del 2019, quando si contavano oltre 60 mila presenze. In un solo anno, quindi, si è tornati alla situazione del 2015 (vedi grafico sotto), con un’inversione di trend netta dovuta alla pandemia da Covid-19. I dati raccolti dal 2015 in poi, infatti, mostrano una crescita costate della popolazione penitenziaria, terminata esattamente nel mese di febbraio 2020, quando negli istituti di pena di tutta Italia c’erano oltre 61 mila detenuti. Nonostante le oscillazioni del dato mensile registrate anche lungo tutto il 2020, per poter fare un confronto con gli anni precedenti, abbiamo scelto di prendere come riferimento unicamente la data del 31 dicembre di ciascun anno. Ferma da qualche anno, invece, è la capienza regolamentare degli istituti dichiarata dal Dap: dai 43 mila posti del 2008 si è arrivati ai 50,5 mila posti disponibili nel 2020, ma se nel 2019 erano 10 mila i posti in meno rispetto al numero dei detenuti presenti negli istituti di pena, nel 2020 questo scarto si è assottigliato. Il sovraffollamento, tuttavia, è ancora critico in alcune regioni e in alcuni istituti di pena nonostante il dato nazionale più favorevole. In costante calo è la popolazione detenuta straniera: al 31 dicembre 2020 i detenuti stranieri sono circa 17,3 mila, contro i 19,9 mila di fine 2019 e i 20,2 mila del 31 dicembre 2018. Un dato, quello di fine 2020, che rispecchia il trend nazionale e segna un ritorno al 2015. La percentuale di popolazione straniera in carcere rispetto al totale dei detenuti invece passa dal 34 per cento del 2017 al 32,5 per cento di fine 2020. Rispetto al totale dei detenuti, le percentuali del 2020 confermano il trend degli ultimi 10 anni: la percentuale di stranieri in carcere rispetto al totale, infatti, è diminuita circa 4 punti percentuali rispetto al 2010. Anche la presenza di donne in carcere segue l’andamento generale della popolazione penitenziaria: al 31 dicembre 2020 sono 2.255 le donne in carcere contro le 2.663 dell’anno precedente e le 2.576 presenze del 31 dicembre 2018. Il trend del 2020 riguarda anche i numeri registrati tra i reati che producono carcere, come la violazione delle leggi sugli stupefacenti. Al 31 dicembre 2020, sono 18.757 i detenuti per aver violato la normativa sulle droghe. Un anno prima erano oltre 21 mila, con un trend in costante crescita dal 2015 al 2019. Dati che occorre maneggiare con cura, visto che, ad esempio, nel 2017 su 19.793 detenuti per droga, sono 13,8 mila quelli ristretti a causa della violazione del solo art. 73 del Testo unico (quindi la produzione o il traffico o la detenzione di sostanze), mentre sono quasi 5 mila quelli detenuti per l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope). Solo 976, inoltre, i detenuti esclusivamente per l’art. 74. Come nel 2015, infine, anche il 2020 fa segnare una battuta d’arresto sui detenuti per il 416 bis del codice penale, ovvero associazione di tipo mafioso: a fine 2020 si contano 7.274 detenuti, in ogni caso sempre 2 mila in più rispetto ai 5.257 del 2008. Di carcere si può morire. Lo confermano i dati dei suicidi negli istituti di pena italiani. Al 31 dicembre 2020 sono 61 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere secondo il Dap. Un dato che torna a salire nonostante il forte e repentino calo della popolazione detenuta e che, con quello del 2018, rappresenta il dato più alto dal 2002 ad oggi, anche se non il più alto in assoluto. Nel 2001, infatti, ci sono stati ben 69 suicidi negli istituti di pena italiani e nel 1993 si registrarono ancora una volta 61 suicidi. Fine pena mai. Per la prima volta - in base ai dati raccolti il 31 dicembre di ogni anno - il numero dei detenuti condannati all’ergastolo diminuisce. Se nel 2019 c’erano 1.802 detenuti all’ergastolo - il dato più alto mai registrato -, nel 2020 i detenuti con questa condanna sono 1.784. Negli ultimi 14 anni, il dato ha fatto segnare soltanto una battuta d’arresto tra gli anni 2012 e 2014, con circa 1.580 ergastolani detenuti, ma dal 2016 il dato è tornato a salire fino a superare quota 1.800 durante il 2019. Dal 2009 al 2017 cresce in maniera costante la presenza dei volontari in carcere. Nel 2017 sono 16,8 mila i volontari impegnati in diverse attività. Nel 2009 erano circa 8,5 mila. Nel 2018, invece, il dato è pressoché stabile rispetto all’anno precedente. Secondo i dati del Dap, quindi, ci sarebbe un volontario ogni 3,5 detenuti, ma i dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone nel corso delle visite agli istituti di pena italiani mostrano un impegno maggiore da parte del volontariato. Secondo Antigone, negli istituti visitati il rapporto detenuti/volontari è pari a 7, ovvero un volontario ogni 7 detenuti. Ufficiale il riparto del Pnrr: alla Giustizia 2,7 miliardi di Valentina Stella Il Dubbio, 12 agosto 2021 Nel provvedimento del 6 agosto sancite anche le scadenze sulle riforme che, se ignorate, autorizzano davvero Bruxelles a fermare i versamenti. Il ministro dell’Economia Daniele Franco ha firmato il 6 agosto il decreto che assegna alle singole Amministrazioni le risorse finanziarie previste per l’attuazione degli interventi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, il Pnrr. La road map indicata è stata descritta a ciascun ministro con una email del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Roberto Garofoli. Nella lettera, Garofoli ricorda la necessità di rispettare “le scadenze e il programmato e approfondito esame delle riforme e delle iniziative legislative delle singole amministrazioni”. In particolare, come si legge sul portale ufficiale Italia Domani, relativamente alla Giustizia gli obiettivi per il 2021 sono: riforma del processo civile, penale e della giustizia tributaria. Quelli da raggiungere entro dicembre 2022: entrata in vigore degli atti delegati e la riforma delle Commissioni tributarie. Entro giugno 2023 occorre completare l’adozione di tutti i regolamenti e le fonti di diritto per applicare le leggi attuative. Entro dicembre dello stesso anno si deve terminare la digitalizzazione del sistema giudiziario, che prevede l’obbligatorietà del fascicolo telematico e il completamento del processo civile telematico, la digitalizzazione del processo penale di primo grado, esclusa l’udienza preliminare, l’introduzione di una banca dati delle decisioni civili gratuita, pienamente accessibile e consultabile conformemente alla legislazione. Entro il 2024 bisogna ridurre l’arretrato giudiziario, entro il 2026 la durata dei procedimenti. Non c’è ancora una data invece per la riforma dell’ordinamento giudiziario. In generale, se la Commissione europea accerta che i traguardi e gli obiettivi, verificati a giugno e a dicembre di ogni anno, sono stati conseguiti in misura soddisfacente, procede al versamento degli importi, altrimenti sospende i pagamenti e impone misure per garantire il raggiungimento degli obiettivi. Guardando alle somme previste, per gli interventi a titolarità del ministero della Giustizia e del Consiglio di Stato si prevede uno stanziamento di 2 miliardi 721 milioni 589.053 euro su un totale di 191, 5 miliardi. I macro-investimenti riguardano il capitale umano per rafforzare l’Ufficio del processo e le misure per superare le disparità tra i tribunali, a cui va la fetta più grande di stanziamenti (2.268.050.053); il rafforzamento dell’Ufficio del processo per la Giustizia amministrativa (41.800.000); l’efficientamento degli edifici giudiziari (411.739.000). Riguardo il primo macro investimento, le risorse stanziate serviranno ad assumere con contratto triennale circa 1.600 giovani laureati, 750 giovani diplomati specializzati e 3.000 giovani diplomati che andranno a costituire lo staff amministrativo e tecnico a supporto degli uffici giudiziari; ad assumere con contratti a tempo determinato circa 16.500 laureati in Legge, Economia e Scienze politiche, che formeranno lo staff dell’Ufficio del Processo, con il compito di collaborare allo studio della controversia e della giurisprudenza pertinente, di predisporre le bozze di provvedimenti, di collaborare alla raccolta della prova dichiarativa nel processo civile; a creare circa 1.500 posizioni di coordinatori esperti tra il personale già in forza presso il ministero della Giustizia con il compito di gestire e organizzare le nuove risorse assunte di cui sopra. Riguardo, invece, alla giustizia amministrativa si prevede l’assunzione con contratti a tempo determinato della durata di 30 mesi di 250 funzionari e di 90 assistenti informatici. Le unità di personale saranno distribuite presso gli uffici giudiziari che presentano il maggiore arretrato (Consiglio di Stato, Tar Lazio, Tar Lombardia, Tar Veneto, Tar Campania e Tar Sicilia). In merito all’ultimo macro investimento, la misura si pone l’obiettivo di intervenire su 48 edifici entro la metà del 2026 efficientando 290.000 mq, tra cui le sedi di Corte di Appello di Bari, la cittadella giudiziaria di Piazzale Clodio a Roma, gli archivi del tribunale di Milano. Entro il 2023 ci dovrà essere l’aggiudicazione di tutti i contratti pubblici per la costruzione e la riqualificazione dei nuovi e vecchi edifici. Attraverso questi investimenti il governo mira a un incremento della produttività degli uffici giudiziari e stima, rispetto al 2019, un abbattimento dell’arretrato civile del 65% in primo grado e del 55% in appello, entro la fine del 2024; un abbattimento dell’arretrato civile del 90%, in tutti i gradi di giudizio, entro la metà del 2026; un abbattimento dell’arretrato della giustizia amministrativa del 70% in tutti i gradi di giudizio entro la metà del 2026; una riduzione del 40% della durata dei procedimenti civili entro la metà del 2026; una riduzione del 25% della durata dei procedimenti penali entro la metà 2026. A questo quadro si aggiungono dei sub-investimenti, a titolarità di Presidenza del Consiglio e ministro per l’Innovazione tecnologica, da 140 milioni di euro per il potenziamento dei sistemi telematici di gestione delle attività processuali. In particolare gli obiettivi sono: la digitalizzazione del cartaceo residuo per completare il fascicolo telematico (digitalizzazione di 3,5 milioni di fascicoli giudiziari relativi agli ultimi dieci anni di processi civili di Tribunali e Corti d’appello e agli ultimi dieci anni di atti relativi a procedimenti di legittimità emessi dalla Cassazione), la progettualità di data-lake (software che funge da unico punto di accesso a tutti i dati grezzi prodotti dal sistema giudiziario) per migliorare i processi operativi di giustizia ordinaria e del Consiglio di Stato. Il Pd contro i referendum sulla giustizia: “La partita delle riforme si gioca in Parlamento” di Liana Milella La Repubblica, 12 agosto 2021 Sono cinque i dem di primo piano che finora hanno firmato i quesiti radical-leghisti. “Scelte individuali”, dice Serracchiani. E Rossomando: “I referendum non centrano l’obbiettivo delle garanzie”. Verini, “il Pd non è una caserma, scelte individuali legittime ma non condivisibili”. Ceccanti: “Quesiti sbagliati, non si spara a dieci mosche con il cannone”. Esiste un caso, nel Pd, per via di deputati e senatori Dem che firmano i quesiti radical-leghisti sulla giustizia? Finora si contano in tutto cinque sottoscrizioni. Ben poche, in verità. Ma subito annunciate da anonime fonti della Lega. Goffredo Bettini e Giorgio Gori i nomi più noti, consigliere di Zingaretti il primo, sindaco di Bergamo il secondo. E poi il senatore Gianni Pittella, ex socialista, e l’europarlamentare Massimo Smeriglio, un fido di Bettini. L’ultimo, in ordine di tempo, è il deputato Luciano Pizzetti che al telefono precisa subito: “Leggo una nota della Lega che fa il mio nome, ma io ho firmato al banco dei Radicali, e se non ci fosse stato quello sarei andato in Comune”. Quanto al merito Pizzetti - che è stato sottosegretario nei governi Renzi e Gentiloni, nonché animatore della corrente “Sinistra è cambiamento” che raccoglieva i renziani del Pd, ma che adesso non c’è più - spiega di aver sottoscritto solo due dei sei referendum, per la responsabilità civile e la separazione delle carriere, che giudica “i più rilevanti e che trascinano tutto il resto”. Alla domanda “ma perché lo ha fatto? per caso un suggerimento renziano” replica netto: “I sì e i no hanno cambiato le regole del nostro Paese e mi meraviglio che anche forze che sostengono i diritti civili non si espongano pur dopo le resistenze che si sono manifestate con la riforma Cartabia”. Dai renziani rimasti nel Pd, quelli di Base riformista, arriva solo un netto “facciamo le riforme in Parlamento e prendiamo di buono anche quello che c’è nei referendum”, quindi nessun suggerimento per sottoscriverli, anche se Renzi lo ha pubblicamente fatto. Nel Pd la sorpresa c’è, inutile negarlo. Lo si coglie parlando con un ampio parterre di interlocutori, da Serracchiani a Rossomando, da Verini a Bazoli, da Ceccanti a Mirabelli. Ma la reazione è tutt’altro che politicamente aggressiva. Semmai si ragiona nel merito, cioè sulla fragilità costituzionale di questi referendum e sulla contraddittorietà del loro obiettivo. Per dirla con Anna Rossomando, vice presidente del Senato e responsabile Giustizia dei Dem, “la sinistra può certo riflettere sul garantismo, ma il luogo per ottenere dei risultati puntuali è il Parlamento, come si è visto con la riforma Cartabia e con la direttiva sulla presunzione di innocenza che stronca il circuito mediatico. Lo stesso Pd ha già presentato emendamenti in questa direzione alla riforma del Csm. I referendum invece non centrano l’obiettivo delle garanzie, si finisce solo con il solito scontro manicheo sulla giustizia che non ha mai fatto fare passi avanti alle garanzie”. In una parola? “È solo propaganda”. E giusto mentre, con un comunicato, fonti leghiste annunciano le firme di Pizzetti, ecco che la capogruppo dei Dem alla Camera Debora Serracchiani dice a Repubblica: “Nessun problema se alcuni del Pd hanno firmato. Come ha detto Letta, siamo un partito plurale, ma queste sono e restano scelte individuali”. E Serracchiani aggiunge: “La vera riforma della giustizia è quella di Marta Cartabia, per cui il Pd si è speso da protagonista ottenendo risultati importanti”. Però proprio i referendum hanno fatto da contraltare mediatico a tutto il percorso parlamentare di questa riforma. Replica Serracchiani: “I referendum sono uno strumento che rispetto, ma in questo caso sono una forma di propaganda che non serve alla giustizia italiana. Alcuni sono dannosi per il funzionamento della giustizia, come quello sulla responsabilità diretta dei magistrati e quello sulla custodia cautelare. E anche l’abolizione della Severino è dannoso in quanto strumento avanzato di lotta alla corruzione”. Ha un tono più aggressivo Alfredo Bazoli, il dem capogruppo in commissione Giustizia che ha parlato per il Pd in aula sulla legge Cartabia. E non nasconde il suo fastidio per una sinistra che “deve dimostrare di essere più garantista di altri”. “Io sono più garantista di Salvini” dice Bazoli che giudica “sbagliato approcciare il garantismo con un’ansia da prestazione”. Quanto ai Dem che firmano la sua reazione è netta: “Oggi è di moda definirsi garantisti, c’è la corsa a esserlo, ma questi referendum non sono lo strumento per ottenere più garanzie, tutt’al più sono inutili, e in qualche caso molto discutibili, hanno una valenza politica che travalica il merito. Un vero riformista si dedica alle riforme serie, fatte in Parlamento, come quella coraggiosa di Cartabia. Oggi c’è la congiuntura astrale favorevole, con i fondi del Pnrr e con una maggioranza ampia. È la grande occasione, mentre parlare di referendum significa gettare la palla in tribuna”. Però quei cinque nomi di chi ha firmato nel Pd fanno rumore, scuotono il Ferragosto della giustizia. Walter Verini, oggi tesoriere del Pd ma con un debole per il diritto, usa le parole del segretario Letta quando dice che “il Pd non è una caserma, e le scelte individuali sono legittime sia pure non condivisibili”. Ma anche lui vede di fronte a sé solo la via delle riforme in Parlamento: “Dopo trent’anni di scontri la giustizia ha bisogno di questo. Dopo il processo penale, ci sono il processo civile, il Csm, l’ordinamento penitenziario”. Sì, ma di mezzo ci sono le 500mila firme che Salvini sta per raggiungere: “Questi referendum su cui lui ha messo il marchio rischiano solo di delegittimare la possibilità e la necessità del Parlamento di fare le riforme e nascondono, in qualcuno dei promotori, la malcelata voglia non di contribuire all’urgente recupero di credibilità della magistratura dopo la crisi e certe degenerazioni correntizie, ma quella di scalfirne autonomia e indipendenza”. Un giudizio che condivide Franco Mirabelli, capogruppo del Pd nella commissione Giustizia del Senato che a settembre affronterà sia il voto sulla riforma penale che quello, in aula, su quella civile. Mirabelli è critico con chi firma i referendum perché “la proposta non è chiara, mentre è chiara la voglia di tornare al passato, alla paralisi della politica degli ultimi 20 anni”. Mirabelli affonda la lama sulla “strana coppia” Lega-Radicali, perché “non credo proprio che la pensino allo stesso modo sulla custodia cautelare”. Certo una singolare contraddizione, perché il testo del quesito punta a mandare in carcere solo gli autori dei delitti più gravi (e tra questi non c’è il finanziamento pubblico dei partiti), mentre è noto che Salvini e i suoi vorrebbero vedere in carcere anche i ladruncoli. Contraddizioni tecniche su cui insiste il costituzionalista Dem Stefano Ceccanti: “Non mi convincono i quesiti. La parte politica viene poi”. E dubita innanzitutto dell’effettiva ammissibilità dei quesiti stessi. E fa una battuta: “Non capisco perché si voglia sparare a 10 mosche usando un cannone”. E cioè? “Mi chiedo, ad esempio, perché si chieda di distruggere un’intera legge come la Severino, quando sarebbe stato sufficiente un quesito chirurgico sulla decadenza degli amministratori locali con una condanna non definitiva. Si può mai travolgere una legge per un pugno di sindaci? Vogliamo essere garantisti? In questo caso si è ecceduto? Magari si elimina solo quella parte, facciamo un tavolo e discutiamo, ma dico un no netto a una quesito che scardina tutto”. È proprio mentre parla Ceccanti ecco la notizia che il sindaco di Bergamo Gori ha firmato per cancellare la Severino. Ceccanti entra ancora nei dettagli dei quesiti: “Perché invocare la responsabilità diretta per i giudici? È una pressione fortissima, a seconda dell’imputato che hai davanti e della sua potenza economica. Invece si può cambiare e rendere più credibile la legge che già c’è”. Ma per Ceccanti, come per gli altri Dem, la partita delle riforme, in questo momento storico, si gioca comunque in Parlamento. Senza bisogno di interrogare il “popolo”. Referendum giustizia, dalla separazione delle carriere all’abolizione della legge Severino di Liana Milella La Repubblica, 12 agosto 2021 Si vuole cancellare l’attuale responsabilità civile “indiretta”: per gli errori giudiziari sarà il giudice a pagare. Ai sei referendum radical-leghisti ha dedicato un lungo approfondimento tecnico, il 9 giugno, sulla rivista online Questione Giustizia, il direttore Nello Rossi, ex procuratore aggiunto a Roma ed ex avvocato generale in Cassazione, molto critico sui quesiti. Tuttavia l’articolo articolo permette di “navigare” nel contenuto tecnico dei referendum. La separazione delle carriere - Il quesito - molto lungo e che interviene su cinque differenti leggi - vuole cancellare la possibilità per i magistrati di passare dalla carriera di giudice a quella di pm e viceversa. Oggi questo è possibile per quattro volte, ma la prossima riforma del Csm della Guardasigilli Marta Cartabia, che interviene con emendamenti sul ddl del suo predecessore Alfonso Bonafede, già le riduce solo a due. La responsabilità civile “diretta” per i giudici - Il referendum vuole cancellare l’attuale responsabilità civile “indiretta”, in cui a pagare per eventuali errori giudiziari è lo Stato, per addossarla economicamente sulle spalle del giudice che sbaglia. La legge Severino - Con un tratto di penna, il quesito del referendum vuole cancellare del tutto il decreto legislativo della ex Guardasigilli Paola Severino del 31 dicembre 2012. Via dunque l’incandidabilità e la decadenza per i parlamentari nazionali ed europei e per gli uomini di governo in caso di condanna a più di due anni. Ma via pure l’obbligatoria sospensione per gli amministratori locali anche di fronte alla sola condanna in primo grado. La stretta sulla custodia cautelare - In controtendenza con la linea leghista del “tutti in galera” qui prevale l’imprinting dei Radicali. Tant’è che il quesito limita la possibilità di ottenere la custodia cautelare ed elimina quella per i delitti puniti nel massimo a 4 anni, e fino a 5 anni nel caso ci sia il ricorso al carcere. Niente custodia cautelare, tuttavia, anche per il delitto di finanziamento illecito dei partiti. Sì ai laici nei consigli giudiziari - Libertà di presenza, e anche di voto, nei consigli giudiziari per gli avvocati, che oggi godono del solo “diritto di tribuna” e quindi non possono intervenire e votare anche sulle valutazioni di professionalità dei magistrati in vista della loro carriera e dei futuri incarichi al Csm Firme per la candidatura al Csm - Presentato come una proposta anti-correnti, il mini quesito elimina la norma della legge elettorale del Csm del 1958 che consente di presentare le candidature per diventare consigliere del Csm raccogliendo le firme dei colleghi da un minimo di 25 a un massimo di 50. Riforma del Csm? Nessuno osa sfidare le toghe di Paolo Comi Il Riformista, 12 agosto 2021 L’attuale Consiglio superiore della magistratura scade tra un anno e il rinnovo è previsto per il prossimo mese di luglio. I tempi sono stretti se si vuole scegliere la sua composizione con un metodo diverso. Doveva essere la “madre” di tutte le riforme nel settore giustizia. Quella da approvare con la massima urgenza, senza perdere altro tempo. E invece, nonostante i richiami a fare presto anche da parte del capo dello Stato, in Parlamento ad oggi non solo non è iniziata alcuna discussione, ma non è nemmeno stato depositato un testo base. Stiamo parlando della riforma del Consiglio superiore della magistratura, la riforma da tutti invocata dopo lo scoppio del Palamaragate a maggio del 2019. Il primo ad attivarsi fu l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che, trascorsi pochi giorni dai fatti dell’hotel Champagne, si presentò alle Camere ed illustrò il suo progetto di riforma. Ma niente di fatto. Poi con l’arrivo di Marta Cartabia, e il conseguente clima di concordia nazionale, è sembrata essere la volta buona per ripensare il Csm. Cartabia ha dato l’incarico a una Commissione presieduta dal professore Massimo Luciani, noto alle cronache, oltre che per essere il presidente dei costituzionalisti, per aver spesso difeso i provvedimenti del Csm davanti al giudice amministrativo. La Commissione, composta quasi interamente da magistrati di area progressista, dopo alcuni mesi di lavori ha partorito un meccanismo elettorale che, a detta di molti, invece di eliminare il potere delle correnti lo aumenterà a dismisura e ha bocciato senza appello l’ipotesi del sorteggio. L’attuale Csm scade fra un anno e il voto per il suo rinnovo sarebbe previsto, come negli anni passati, per il prossimo mese di luglio. Il tempo, dunque, stringe: per uscire dall’impasse ed evitare che il prossimo Csm sia eletto con il sistema di voto “by Palamara” dovrà scendere anche questa volta in campo Mario Draghi? Doveva essere la “madre” di tutte le riforme nel settore giustizia. Quella da approvare con la massima urgenza, senza perdere altro tempo. E invece, nonostante i richiami a fare presto anche da parte del capo dello Stato, in Parlamento ad oggi non solo non è iniziata alcuna discussione, ma non è nemmeno stato depositato un testo base. Stiamo parlando della riforma del Consiglio superiore della magistratura, la riforma da tutti invocata dopo lo scoppio del Palamaragate a maggio del 2019. Il primo ad attivarsi fu l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che, trascorsi pochi giorni dai fatti dell’hotel Champagne, si presentò alle Camere ed illustrò il suo progetto di riforma che avrebbe messo fine allo strapotere dei gruppi della magistratura associata all’interno del Csm e alla lottizzazione delle nomine. La riforma, disse con tono solenne il Guardasigilli grillino, “non sarà punitiva” e dovrà “rilanciare il prestigio” del Csm, “depurandolo dal rischio di degenerazioni del correntismo e da possibili condizionamenti della politica”. Il sistema elettorale dei togati di Piazza Indipendenza, puntualizzò Bonafede, sarà affidato ad una norma ad hoc perché è un tema su cui “il Parlamento deve avere totale centralità”. Centralità a parte, di testi in Parlamento, sia durante il Conte Uno che durante il Conte Due, non ne arrivò però nessuno. Fino allo scorso febbraio, quando si insediò il governo Draghi e Bonafede traslocò da via Arenula, la Commissione giustizia di Montecitorio aveva infatti effettuato solo delle “audizioni” esplorative. L’arrivo di Marta Cartabia, e il conseguente clima di concordia nazionale, sembrò essere la volta buona per riformare il Csm. La neo ministra della Giustizia, sulla riforma dell’organo di autogoverno delle toghe, usando un fraseggio ottocentesco, mise però subito le mani avanti: “Non debba nutrirsi l’illusoria rappresentazione che un intervento sul sistema elettorale del Csm possa di per sé offrire una definitiva soluzione alle criticità che stanno interessando la magistratura italiana, le quali attingono invero a un sostrato comportamentale e culturale che nessuna legge da sola può essere in grado di sovvertire”. Trascorsa qualche settimana, Cartabia diede incarico ad una Commissione di elaborare un progetto di riforma del Csm. La Commissione, insediatasi lo scorso marzo, era presieduta dal professore Massimo Luciani noto alle cronache, oltre per essere il presidente dei costituzionalisti, per aver spesso difeso i provvedimenti del Csm davanti al giudice amministrativo. Luciani, ad esempio, assiste l’attuale procuratore di Roma Michele Prestipino contro chi ritiene la sua nomina, come il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, illegittima. Luciani, a parti invertite, aveva assistito lo scorso anno Piercamillo Davigo contro la decisione del Csm di farlo decadere da componente di Palazzo dei Marescialli. La Commissione, composta quasi interamente da magistrati di area progressista, dopo alcuni mesi di lavori, ha partorito un meccanismo elettorale che, a detta di molti, invece di eliminare il potere delle correnti lo aumenterà a dismisura. Luciani, infatti, ha previsto, a pena di nullità del voto, l’obbligo di esprimere “almeno tre preferenze”. Un sistema che si presterebbe al controllo del voto da parte dei gruppi organizzati e che ricorda da vicino i meccanismi elettorali, poi abrogati, della Prima Repubblica. Bocciata senza appello l’ipotesi del sorteggio. “Se questa è la riforma che dovrebbe togliere potere alle correnti, meglio non cambiare nulla per evitare di avere effetti assolutamente controproducenti”, il commento del capogruppo in Commissione giustizia alla Camera Pierantonio Zanettin (FI), favorevole al sorteggio. E proprio sul sorteggio l’ex zar delle nomine era stato chiaro. “La riforma più temuta in assoluto dall’Associazione nazionale magistrati era quella del sorteggio”, aveva detto Luca Palamara in audizione davanti alla Commissione antimafia qualche settimana fa. E veniamo alle note dolenti. La riforma del Csm è una legge delega. Quindi dopo la sua approvazione serviranno i decreti attuativi. L’attuale Csm scade fra un anno e il voto per il suo rinnovo sarebbe previsto, come negli passati, per il prossimo mese di luglio. Ed infatti le correnti già sono all’opera per le candidature. Il tempo, dunque, stringe: per uscire dall’impasse ed evitare che il prossimo Csm sia eletto con il sistema di voto “by Palamara” dovrà scendere anche questa volta in campo Mario Draghi. Contro la gogna mediatica servono uffici stampa delle Procure di Paolo Itri Il Riformista, 12 agosto 2021 Giunge notizia che proprio in questi giorni il Parlamento italiano ha recepito la direttiva dell’Unione europea numero 343 del 2016. Con tale direttiva, che punta a rafforzare la presunzione di innocenza, il Parlamento europeo ha stabilito che tale presunzione sarebbe violata se, con dichiarazioni rilasciate da autorità pubbliche come le Procure, l’indagato venisse presentato alla pubblica opinione come colpevole prima della sentenza definitiva. Secondo il legislatore europeo, pertanto, le tradizionali conferenze stampa e i comunicati delle Procure, emessi per lo più in occasione dell’esecuzione di ordinanze cautelari, non dovrebbero mai rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole, almeno fino a quando non intervenga una sentenza del giudice, fatta comunque salva la tutela della libertà di stampa e dei media. L’obbligo, nel fornire informazioni ai media, di non presentare gli indagati come colpevoli, non impedirà tuttavia alle Procure di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale, come nel caso in cui venga diffuso materiale video e si inviti il pubblico a collaborare nell’individuazione del presunto autore del reato. Fin qui le novità introdotte dalla direttiva europea che, se da un lato produrrà sicuramente l’effetto di contenere il numero delle conferenze stampa delle Procure, dall’altro non inciderà per ovvi motivi né sull’attitudine specifica dei capi delle Procure stesse a gestire i rapporti con gli organi pubblici di informazione né, più in generale, sulla qualità dell’informazione nel nostro Paese. Mi spiego meglio. Il problema del cortocircuito mediatico-giudiziario nasce nel nostro Paese all’epoca di Tangentopoli, cioè quando l’emersione di un profondo ed endemico sistema di corruzione politica determinò una profonda trasformazione anche dei rapporti tra Procure e organi di informazione. L’eccezionalità del momento finì per legittimare, anche nell’opinione comune, una sorta di stato di eccezione in forza del quale tutto divenne lecito, dalle reiterate violazioni del segreto istruttorio alla instaurazione di rapporti privilegiati tra magistrati e giornalisti. Le confessioni a raffica e l’uso distorto del carcere preventivo completarono l’opera, facendo passare in secondo ordine la presunzione di innocenza, quasi si trattasse di una inutile formalità burocratica da abolire il prima possibile: tale era il ritmo con cui dalle indagini emergevano fatti sempre più nuovi e sempre più gravi. Vivevamo in un’epoca in cui chiunque venisse raggiunto da un’informazione di garanzia era per definizione colpevole e non aveva alcun senso parlare di giusto processo o della sua ragionevole durata. A trent’anni di distanza, è oggi possibile - anzi, direi doveroso - cercare di recuperare un rapporto più corretto ed equilibrato tra giustizia e media, nel rispetto dei principi di continenza, interesse pubblico all’informazione e rispetto dei diritti della persona. Non sono altrettanto convinto, però, che la strada indicata dall’Ue sia la migliore, considerate le specificità del nostro Paese. Principalmente, non mi convince l’idea di un bavaglio alle Procure alle quali, per una più corretta informazione - se non si vuole peraltro correre il rischio di creare dei pericolosissimi canali informativi occulti - dovrebbe invece essere consentito fornire in maniera chiara e trasparente ogni notizia utile a comprendere i passaggi delle vicende di maggiore interesse per l’opinione pubblica, seppure ovviamente nel più totale rispetto della verità processuale, della presunzione di non colpevolezza e dei diritti di tutte le persone coinvolte (e quindi, inutile dirlo, anche di quelle già raggiunte da sentenze di condanna). Soprattutto, non vorrei che il divieto di divulgare informazioni sui procedimenti penali in corso, salvo che sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine, si trasformasse automaticamente in un bavaglio alla libera stampa, tenuto soprattutto conto dei tempi biblici che quasi sempre nel nostro Paese intercorrono tra indagine e sentenza del giudice. Un modo più equilibrato di risolvere il problema potrebbe essere quello di istituire, almeno presso le Procure più grandi, dei veri e propri uffici stampa, simili a quelli già esistenti presso le Questure, in maniera da instaurare un rapporto più formale e trasparente tra organi di informazione e procuratori della Repubblica, ognuno quindi per la propria parte responsabile rispettivamente della gestione dell’informazione - in conformità alle leggi e al codice - e delle modalità di diffusione della notizia - in conformità del codice deontologico dei giornalisti. Perché i magistrati potranno anche essere a volte degli ottimi giuristi, ma troppo spesso appaiono come dei pessimi comunicatori. “Mio fratello in custodia cautelare per 909 giorni, ma era innocente” di Simona Musco Il Dubbio, 12 agosto 2021 Marco Sorbara, ex assessore comunale ad Aosta, era accusato di concorso esterno: assolto perché il fatto non sussiste, dopo 7 mesi in cella e quasi due anni ai domiciliari. Marco Sorbara ha passato 909 giorni in custodia cautelare da innocente. Giorni “terribili”, ha dichiarato dopo l’assoluzione l’ex assessore comunale di Aosta e consigliere regionale, appesantiti dal sospetto che la sua carriera politica fosse il frutto di un patto scellerato con la ‘ndrangheta, arrivata fino in Valle d’Aosta per avvelenare ogni cosa. Sorbara, 57 anni, a fine luglio è stato assolto dalla Corte d’Appello di Torino perché il fatto non sussiste, dopo una precedente condanna a 10 anni con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. E, soprattutto, dopo mesi di calvario, aggravati dal voltafaccia dei suoi colleghi, che subito dopo l’arresto lo hanno massacrato. In carcere ha trascorso 214 giorni, di cui 45 in isolamento, per poi vedersi concedere i domiciliari, prima di essere assolto. “Un periodo drammatico”, dice oggi suo fratello Sandro, che da avvocato lo ha difeso in aula producendo una marea di documenti e come familiare ha vissuto il dramma di una famiglia travolta dagli eventi. “Per mia mamma sono state necessarie cure psicologiche continue per riuscire a reggere questa gravissima ingiustizia che ha colpito come un fulmine una famiglia nata e cresciuta con sacrifici e onestamente - racconta -. Ora mio fratello è stato completamente assolto, ma il devastante dramma di un gravissimo errore giudiziario nessuno potrà cancellarlo. Una vita distrutta psicologicamente ed economicamente per il nulla più totale”. Sorbara viene portato via dalla sua casa il 23 gennaio 2019, assieme ad una decina di persone, tutte coinvolte nell’operazione ‘ Geenna’, la valle maledetta simbolo dell’inferno. Quando i carabinieri bussano alla sua porta il primo pensiero è terribile: “Ho pensato a un incidente di mio fratello”, confida dopo l’assoluzione al Corsera. Invece cercano proprio lui, accusandolo di essere sceso a patti con i clan. La Dda di Torino è sicura di aver snidato gli ‘ndranghetisti della Valle d’Aosta, collegati alle famiglie più pericolose della Calabria. E in questo contesto - confermato dalle sentenze, secondo le quali ad Aosta era operativa una locale capace di esercitare un forte controllo sull’elettorato calabrese -, Sorbara sarebbe stato uno degli uomini politici che dell’appoggio dei clan avrebbe usufruito “per tornaconto personale”, risultando il primo per preferenze e restituendo il favore strizzando l’occhio ai malavitosi. Secondo la Dda, infatti, avrebbe confidato informazioni riservate, accettando “consigli” sul suo operato, dai componenti della “locale” cittadina, in particolare dal ristoratore Antonio Raso. Un’accusa devastante per lui, che all’improvviso vede il suo mondo crollare: in carcere, sospeso dall’ordine dei commercialisti e rifiutato dalle banche, così come anche sua madre. Eletto nel 2010 in Consiglio comunale ad Aosta nella lista dell’Union Valdôtaine, viene confermato alle elezioni del 2015, ricoprendo il ruolo di assessore alle politiche sociali fino al maggio 2018, quando entra in Consiglio regionale sempre nella lista dell’Uv. In carcere Sorbara piomba nella disperazione e pensa anche al suicidio. E intreccia anche il lenzuolo, convinto di affidare a quello il dolore e farla finita una volta spente le luci. Ma resiste, convinto della sua innocenza. In carcere perde molti chili, scrive tantissimo, legge 105 libri, attende di tornare a casa e che la verità venga fuori. Ci spera, quando a luglio la Dda di Torino dà parere favorevole agli arresti domiciliari, dal momento che “le esigenze cautelari sono affievolite e possono essere adeguatamente fronteggiate con una misura meno grave”. Ma il gip non ci sta, decidendo che non c’è altra misura adeguata e diversa dal carcere. Dopo essersi sentito dire cinque volte “no”, però, Sorbara riesce a tornare a casa, ad agosto 2019. Intanto, però, sono passati sette mesi e un giorno quando il Riesame accoglie finalmente la richiesta dei suoi avvocati. A casa sua il politico studia il suo caso, raccolto in 42 faldoni assieme alle vite degli altri imputati. Il primo grado, ad Aosta, si chiude il 16 settembre 2020: Sorbara viene condannato a 10 anni di reclusione e nella sua vita si affaccia di nuovo l’ipotesi di farla finita lanciandosi giù dal balcone. Desiste ancora una volta, ma la speranza a tratti vacilla. Durante il periodo trascorso ai domiciliari viene autorizzato a lavorare. Ma non può più fare il commercialista e dunque si procura un lavoro come magazziniere, riuscendo a trascorrere fuori casa tre giorni a settimana. “Sin dall’inizio abbiamo dimostrato che tutto l’impianto accusatorio non aveva alcun fondamento, già dalla lettura del capo di imputazione - spiega Sandro Sorbara -. Mio fratello, fin da subito, mi ha detto di essere innocente e ci ho creduto ciecamente. Il suo elettorato era riconoscibilissimo: è sempre stato in mezzo alla gente, tra gli anziani, a cui serviva la cena a Natale e capodanno, è un ex sportivo. Le testimonianze in aula sono state chiare: lo hanno descritto tutti come un uomo del popolo”. Ma soprattutto sono le prove quelle che mancano, spiega l’avvocato. “Faccio un solo esempio: subito dopo l’inchiesta, al Comune di Aosta è arrivata una Commissione d’accesso per verificare eventuali infiltrazioni mafiose, prendendo a dettaglio l’ordinanza di custodia cautelare spiega -. Secondo l’accusa, Raso (Antonio, condannato a 10 anni ndr), tramite mio fratello, si sarebbe infiltrato nell’amministrazione per ottenere appalti. Ecco, l’amministrazione non è stata sciolta, perché non sono stati riscontrati elementi di infiltrazione”. Nella relazione, infatti, viene certificata una situazione “caotica”, non riconducibile, però, “ad una connivenza tra il “locale ‘ndranghetista di Aosta” e l’amministrazione. Sorbara ripropone tutte le argomentazioni già usate in primo grado, ma mai prese in considerazione dai giudici. “L’ho detto anche durante la discussione in appello - sottolinea il legale - non pensavo, dopo 20 anni di professione, di leggere una sentenza piena di termini denigratori. I giudici hanno perfino deriso mi fratello, che in aula ha spiegato di come nostro padre fosse arrivato dalla Calabria con la valigia di cartone. Non hanno citato nessuna delle testimonianze, senza valorizzare il pignoramento che mio fratello aveva fatto alla famiglia di cui, secondo l’accusa, avrebbe avuto paura”. Marco Sorbara ora pensa a riprendersi. Ma ha già deciso, dopo aver vissuto l’esperienza del carcere, di avviare un percorso di sostegno per chi, invece, vive dietro le sbarre. “Lui poteva contare su di me non solo come avvocato, ma anche come fratello - conclude -, ma cose del genere non dovrebbero verificarsi più. Questa storia ha distrutto la mia famiglia. Bisogna lottare per il principio della presunzione d’innocenza e il corretto vaglio delle esigenze cautelari e l’applicazione legittima della custodia cautelare, in conformità ai principi scolpiti nel nostro ordinamento giuridico”. Accusati, lapidati e poi assolti: il lungo elenco dei politici rovinati dalla gogna di Monica Musso Il Dubbio, 12 agosto 2021 Poltrone che scottano e vite distrutte. Non esiste una sola regione in Italia che non abbia avuto, almeno una volta, un presidente indagato. Se ne contano oltre 60, negli anni, e a volte a qualcuno è toccato anche varcare le porte del carcere. E centinaia sono i politici, di ogni ordine e grado, costretti a deporre le “armi” della partecipazione diretta per fare i conti con una giustizia a volte lenta e ingiusta. L’ultimo caso in ordine di tempo è quello dell’ex senatore di Forza Italia Antonio Caridi, assolto dopo cinque anni perché il fatto non sussiste. L’ex politico - perché di politica non ne vuole più sapere nulla - era imputato nel processo “Gotha” assieme ad altre 29 persone. Un processo che si è concluso con 15 condanne e 15 assoluzioni (11 delle quali richieste dall’accusa) e che ha registrato anche la condanna a 25 anni dell’ex parlamentare del Psdi Paolo Romeo, considerato alla testa della cupola di invisibili che avrebbe governato la città per decenni. Per l’accusa Caridi avrebbe “agevolato” la ‘ ndrangheta “mediante l’uso deviato del proprio ruolo pubblico”, sfruttando tutte le cariche rivestite, dal Consiglio comunale al Senato. Da qui la richiesta d’arresto, che arrivò al Senato a luglio 2016 come un fulmine a ciel sereno. La giunta per le immunità, il 3 agosto, diede il via libera, dopo due giorni di discussione. Il giorno successivo, in un’aula straordinariamente piena, 154 senatori dissero sì al suo arresto, contro 110 contrari e 12 astenuti. Caridi lasciò Palazzo Madama in lacrime, consegnandosi a Rebibbia e attendendo un anno e mezzo prima di tornare a casa. Un anno e mezzo vissuto in celle da incubo, in attesa di conoscere la sua sorte. Per i giudici che lo hanno scarcerato arrestarlo fu un errore. Avrebbe potuto attendere il processo da uomo libero, ma così non è stato. E ciò nonostante le accuse a suo carico, per il tribunale di Reggio Calabria, fossero infondate. I casi eclatanti non mancano, come quello dell’ex governatore della Campania, Antonio Bassolino, costretto a 27 anni di processi, con nove assoluzioni e nemmeno una condanna. Isolato dalla politica, emarginato dal proprio partito, quasi come fosse radioattivo. Le prime indagini a suo carico risalgono a quando era sindaco, ovvero al 1993. Almeno cinque o sei inchieste si sono sono chiuse con archiviazioni, per il resto ci sono i 19 processi dai quali è uscito assolto e che lo hanno costretto a passare gli ultimi 20 anni a difendersi per il lavoro svolto come governatore della Campania. Ma la serie è lunga. Tra gli imputati eccellenti c’è Vasco Errani, ex governatore della Toscana, assolto dall’accusa di falso ideologico perché il fatto non sussiste, dopo un calvario lungo 7 anni. In Calabria, dove a finire sotto indagine sono stati gli ultimi cinque governatori, c’è Mario Oliverio, assolto a gennaio scorso dall’accusa di corruzione e abuso d’ufficio, avanzata dalla Dda di Catanzaro nell’inchiesta “Lande desolate”. Un’inchiesta, quella del 2018, che costrinse l’allora presidente della Regione a tre mesi di “confino” forzato nella sua casa di San Giovanni in Fiore. Ma non solo: proprio a causa di quell’indagine Oliverio fu costretto a rinunciare alla sua ricandidatura, su pressione della segreteria romana del Pd, che per evitare imbarazzi decise di metterlo fuori gioco, decretando, di fatto, la vittoria del centrodestra. “Due anni di gogna mediatica”, commentò dopo la decisione del Gup. A febbraio è arrivata, dopo otto anni, l’assoluzione piena per 13 ex consiglieri regionali del Lazio, per fatti che risalgono al periodo compreso tra il 2010 e il 2013. Tra loro anche l’attuale senatore del Pd, Bruno Astorre. “Che vita è se per un avviso di garanzia o un rinvio a giudizio ci si deve dimettere?”, aveva dichiarato ricordando la gogna subita, i titoli dei giornali e le accuse degli avversari politici. I più forti, quelli con la copertura mediatica maggiore, magari resistono alla valanga di fango dopo l’iscrizione sul registro degli indagati e durante i processi. Altri, invece, decidono di deporre le armi, a volte definitivamente. Come Simone Uggetti, l’ex sindaco del Pd di Lodi, colui che è riuscito nel miracolo di far scusare Luigi Di Maio per la gogna subita: il politico è stato assolto nei mesi scorsi dall’accusa di turbativa d’asta, dopo cinque anni lunghissimi. Anni in cui la sua vita è cambiata radicalmente, in cui “mi sono dovuto reinventare” e fare i conti continuamente con odio e rancore. Uggetti era stato arrestato nel 2016, dopo la denuncia di una dipendente comunale, che lo accusava di aver interferito illecitamente nella redazione di un bando da 4mila euro per la gestione estiva delle piscine comunali. La questione fu soprattutto politica: i grillini si lanciarono subito sul caso, per colpire soprattutto Matteo Renzi, all’epoca ancora segretario del Pd e presidente del Consiglio. E la gogna grillina era stata esasperante: quasi nessuno, tra i big, si era sottratto al gioco del tiro al bersaglio. L’elenco, dunque, è lungo. E la sensazione è che sia destinato ad allungarsi. Firenze. A Sollicciano troppi detenuti, transessuali trasferiti, infestazione di cimici Corriere Fiorentino, 12 agosto 2021 Il reparto transessuali aveva costituito un’esperienza innovativa, ma adesso è stato chiuso. Chiusa anche una delle due cucine. Salute psichica dei detenuti a rischio. Nel carcere di Sollicciano (Firenze) ci sono 638 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 491, e il reparto transessuali, “che aveva costituito un’esperienza innovativa rispetto alle ordinarie prassi penitenziarie, è stato chiuso e le detenute trasferite, senza sapere se e quando rientreranno” mentre il reparto giudiziario è infestato dalle cimici. È la situazione emersa da un confronto tra il garante regionale dei detenuti per la Toscana, Giuseppe Fanfani, e il presidente dell’associazione Progetto Firenze, Massimo Lensi. È poi emerso che la seconda cucina del carcere, inaugurata a ottobre 2020, è in funzione ma nel frattempo è stata chiusa la prima. La direzione del carcere, “che pure è ricoperta da persona (Antonella Tuoni, ndr), a cui i Garanti e l’Associazione `Progetto Firenze´ esprimono tutta la loro stima”, ha detto Lensi, è in una situazione di precarietà da quasi un anno, mentre servirebbe stabilità, dopo continui cambi di direzione, intervallati da incarichi ad interim. Anche gli operatori Asl e gli educatori si trovano in condizione di sofferenza poiché sono sotto organico: solo adesso, si spiega, è in fase di svolgimento un concorso per educatori penitenziari, con pochissimi posti rispetto alle necessità e dopo più di vent’anni dall’ultimo concorso effettuato; gli operatori sanitari vivono a loro volta una situazione di disagio: “Nonostante le carenze d’organico, hanno fatto un lavoro eccellente durante la pandemia, lavorando in molti casi con contratti precari”. Inoltre, dopo il principio di rivolta del 10 luglio scorso, alcuni detenuti, ha detto Lensi, sono stati trasferiti, come mezzo punitivo, in ossequio a una prassi penitenziaria “che, pur non trovando avallo nell’ordinamento penitenziario, è ovunque utilizzata: si pensi che nello stesso modo sono stati trattati i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere che hanno denunciato le violenze”. La salute psichica dei detenuti, è poi emerso dall’incontro tra Fanfani e Lensi, “necessita di un maggiore investimento: i detenuti con patologia psichiatrica dovrebbero uscire dal carcere e scontare la pena all’esterno in luoghi idonei alla loro cura, come ha stabilito chiaramente la Corte Costituzionale con la sentenza 99/2019. Purtroppo invece sono numerosi i detenuti con patologia psichiatrica presenti in carcere”. Infine è stata affrontata la questione dei bambini in carcere, “ciò che più tocca il cuore”, dicono Fanfani e Lensi. Nella sezione femminile, al momento della recente visita di Lensi, erano presenti una neonata di pochi giorni e una donna incinta al settimo mese. Dal garante comunale, Eros Cruccolini, è arrivata la notizia della concessione della detenzione domiciliare alla madre della neonata, “ma resta improcrastinabile l’attuazione della legge che già prevede la realizzazione/attivazione di case-famiglia protette per le detenute con figli a seguito”. Una soluzione “preferibile, rispetto alla realizzazione dell’istituto a custodia attenuata per madri, che pur a custodia attenuata resta sempre un carcere. Le case-famiglia protette permettono invece ai bambini a seguito delle madri detenute di vivere fuori dal carcere”. Il garante regionale ha preso atto delle criticità riscontrate e riferite da Massimo Lensi durante l’incontro. “Ringrazio Progetto Firenze per il lavoro svolto e rinnovo il mio impegno per un lavoro comune nell’interesse delle persone recluse”, dichiara Giuseppe Fanfani. Siena. Avvocati in visita al carcere, Santo Spirito promosso La Nazione, 12 agosto 2021 Temperatura sopportabile nonostante il clima torrido. Ci sono 51 detenuti su 81 posti disponibili. Una delegazione della Camera Penale di Siena e Montepulciano ieri in visita a Santo Spirito, nell’ambito dell’iniziativa organizzata dall’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane, ‘Ferragosto in carcere. L’obiettivo è verificare le condizioni di vita dei detenuti, soprattutto in un periodo di insopportabile caldo come l’attuale. Ciò consentirà una raccolta di dati a livello nazionale tale da poter avere riscontri più completi sulla situazione delle carceri anche a seguito dell’emergenza sanitaria. Della delegazione facevano parte gli avvocati Emiliano Bianchi ed Emiliano Ciufegni che hanno potuto incontrare il direttore della casa circondariale di Siena Sergio La Montagna, il comandante e personale della struttura. Gli avvocati sono stati accompagnati nei vari reparti del carcere ed hanno potuto parlare con alcuni detenuti, con gli agenti di polizia penitenziaria e con le educatrici. È stata un’occasione per recuperare informazioni e per contribuire all’attività di monitoraggio ed attenzione che l’Unione delle Camere Penali Italiane riserva alla situazione dei detenuti. “Nonostante l’acclarato deficit di personale della struttura, la Camera Penale di Siena e Montepulciano - sottolinea una nota - ha potuto appurare condizioni di vita della popolazione carceraria più che soddisfacenti con particolare riguardo alla perfetta igiene della struttura nonché alla distribuzione degli spazi comuni e delle celle. L’ubicazione e le caratteristiche costruttive dell’antico convento che ospita la Casa Circondariale consentono e agevolano il mantenimento di una temperatura interna del tutto sopportabile nonostante il clima torrido del periodo”. “La situazione del carcere - osserva il presidente Beniamino Schiavone - con 51 detenuti su 81 posti disponibili, è in controtendenza rispetto ai dati che giusto l’Istat ha pubblicato in questi giorni indicando il numero di detenuti presenti in Istituti di detenzione superiore al numero di posti disponibili definiti dalla capienza regolamentare (105,5 per cento posti disponibili) ed in termini generali positiva”. Tra le prossime attività dell’Osservatorio Carcere della Camera Penale senese si prevede anche la visita alla casa di reclusione di San Gimignano. Prato. Avvocati visitano il carcere: “Alcuni reparti con celle anguste e grave deficit di personale” tvprato.it, 12 agosto 2021 531 detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di 581. Sono i numeri della Casa Circondariale di Prato, seconda solo a Sollicciano in Toscana, quanto a dimensioni e presenze. Alla Dogaia, lunedì scorso, ha fatto visita una delegazione della Camera Penale di Prato e dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane, composta dagli avvocati Gabriele Terranova, Costanza Malerba e Sara Mazzoncini. “La Casa Circondariale di Prato, secondo i criteri di classificazione ministeriali, rientra fra gli Istituti di primo livello superiore, ovvero quelli che presentano maggiori complessità gestionali per dimensioni e caratteristiche - premettono gli avvocati. É una delle poche in Toscana (insieme a Livorno e San Gimignano) che ospita anche detenuti del circuito di alta sorveglianza (condannati per reati di maggiore gravità). I dati sulle presenze appaiono sulla carta meno critici di quanto non siano, a causa della presenza di reparti (quello dei semiliberi in particolare) che contano molti posti liberi e di altri in cui invece si deve ricorrere alla terza branda, in presenza di camere di pernottamento (come sono eufemisticamente chiamate le celle, che in realtà svolgono una funzione che va ben oltre il mero orario notturno) che sono apparse davvero molto anguste”. “Altro aspetto critico che costituisce purtroppo una costante per le istituzioni della Giustizia in città - sottolinea la Camera Penale di Prato - è rappresentato dal grave deficit di personale della struttura, che sembra comunque aver gestito meglio di altri, tutto sommato, le gravi problematiche prospettate dall’emergenza pandemica”. La visita degli avvocati penalisti di Prato si iscrive nell’ambito dell’iniziativa Ferragosto in Carcere, promossa dall’Osservatorio Carcere U.C.P.I. e volta a testimoniare l’attenzione dei penalisti alla condizione delle persone ristrette negli Istituti di detenzione, nel periodo in cui, mentre molti si godono meritate ferie estive, la calura la rende particolarmente gravosa. I penalisti sono inoltre impegnati da tempo, con l’Osservatorio Carcere U.C.P.I., in una costante attività di monitoraggio dei luoghi di detenzione che, insieme a quella di altri soggetti, istituzionali e non, si propone di colmare la distanza, anche simbolica, che separa questi luoghi dalla società civile e che costituisce uno dei principali fattore di rischio rispetto all’insorgere di situazioni di illegalità e di degrado. La delegazione della Camera Penale di Prato è stata accolta dal direttore dell’Istituto Vincenzo Tedeschi e dal Comandante facente funzione Luigi Bove, che hanno accompagnato gli avvocati nei reparti di alta sicurezza, media sicurezza, isolamento, semilibertà, infermeria, attraverso un itinerario all’interno dell’Istituto, dove normalmente non hanno accesso gli avvocati, che pure lo frequentano spesso per il proprio ruolo difensivo. Vi è stato anche un diffuso ed approfondito scambio di informazioni che verranno compendiate in un’apposita relazione, destinata ad essere successivamente pubblicata nell’ambito dell’iniziativa nazionale. Crotone. Concluso il mandato del Garante dei detenuti Federico Ferraro crotoneinforma.it, 12 agosto 2021 Ferraro: “Molte ancora le sfide: Crotone risulta quart’ultima nella lista delle cinque peggiori realtà penitenziarie italiane in termini di sovraffollamento carcerario”. Esprimo soddisfazione per il percorso di attenzione e centralità che i detenuti hanno raggiunto in questi anni. Attraverso un lungo e difficile lavoro quotidiano si è sempre cercato di far emergere le potenzialità della persona in merito anche alla funzione rieducativa della pena e di recupero del condannato. Nel 2018, all’inizio di questa esperienza per la città di Crotone, la seconda in Calabria a dotarsi di una autorità di garanzia e vigilanza nei luoghi di restrizioni della libertà personale, le problematiche della detenzione erano per lo più sconosciute alla collettività erano un affare per chi era coinvolto in prima persona o con e familiare; oggi tutti conoscono e sono consapevoli delle criticità che affliggono le carceri italiane. Il carcere in questi anni si è sempre aperto all’esterno: teatro, scuole, laboratori di poesie e scrittura, esibizioni musicali, cultura sono solo alcuni dei momenti formativi della persona. Si è guardato sempre all’individuo, non come numero ma come essere umano che cerca di rialzarsi dopo una sconfitta. Come non ricordare infine la sfida del Covid: i timori iniziali, il blocco delle attività e dell’accesso delle famiglie, poi la lotta per i vaccini e finalmente un lento e graduale ritorno alle dinamiche quotidiane anche se solo parzialmente. L’ultimo semestre dell’attività dell’Ufficio del Garante comunale dei diritti dei detenuti di Crotone ha visto la prosecuzione, come nel penultimo semestre, di una continua e proficua collaborazione e sinergia con l’Amministrazione penitenziaria, con la Rete dei Garanti territoriali con gli organi dell’Ente comunale. Indispensabile l’apporto della “società civile”, al mondo associativo attento ai bisogni ed alle necessità. Si è raggiunta una crescente sensibilità sociale, come forma di attenzione e vicinanza, verso le problematiche del mondo carcere e di chi vi gravita. Significativo è stato il supporto delle realtà associative operanti nel nostro territorio, sempre pronte a dare man forte, specialmente per quanto ha riguardato la dotazione di strumenti di protezione e individuale contro la pandemia. Attraverso l’impegno sinergico anche dei garanti regionale e comunale si è avviato dapprima l’inclusione delle persone recluse nel Piano vaccini regionale calabrese” e successivamente l’iter di vaccinazione anti Covid presso i luoghi di reclusione calabresi. Nel periodo emergenziale a Crotone, sono stati consegnati fino al novembre del 2020, oltre 2000 dispositivi di protezione individuale per la profilassi e che gli stessi rappresentano una misura solo temporanea per assicurare il diritto alla salute. Nel marzo 2021 con sentimenti di soddisfazione, si è constatato l’inizio delle vaccinazioni per la popolazione detenuta presso la Casa circondariale di Crotone. Circa una sessantina di persone recluse hanno avuto la prima dose di somministrazione vaccinale già nei primi giorni. La preoccupazione e la doverosità dell’inclusione nel piano regionale anti Covid per la Calabria, espressa sia nell’appello lanciato dal Garante regionale per la Calabria dei detenuti agostino Siviglia, e poi dal Garante comunale di Crotone, Federico Ferraro, ha trovato concreta e fattiva risposta nelle prime vaccinazioni in corso. Nel suo rapporto sulle condizioni di detenzione intitolato “A partire da Santa Maria Capua Vetere, numeri, storie, proposte per un nuovo sistema penitenziario” l’Associazione Antigone evidenzia in merito al problema del sovraffollamento che tra gli istituti vi sono importanti differenze: 117 istituti italiani su 189 hanno un tasso di affollamento superiore al 100% e 11 carceri hanno un affollamento superiore al 150%, come quello di Brescia (200%) e Bergamo (168%). Il dato che preoccupa maggiormente il nostro territorio, esplicitato sempre nel report sopraindicato, riguarda la classifica dei peggiori istituti italiani in termini sovraffollamento; ci sono Brescia con 378 detenuti, che rappresentano il 200%, Grosseto (27 detenuti, 180%), Brindisi (194 detenuti, 170,2%), Crotone (148 detenuti, 168,2%), Bergamo (529 detenuti 168%). Crotone risulta quart’ultima nella lista delle cinque peggiori realtà penitenziarie italiane in termini di sovraffollamento carcerario. Il dato preoccupante non può risolversi con una breve lettura, ma ci impone una riflessione seria e profonda: possibile che nel 2021 ancora il dato di presenze effettive rispetto a quelle regolamentari risulta disatteso con percentuali così importanti? Possibile che ad oggi, nonostante l’emerga Covid, non sia possibile rispettare in diversi luoghi di restrizione delle libertà le normative sul distanziamento? Occorre senza indugio un intervento normativo oramai improcrastinabile che consenta l’accesso più ampio alle misure alternative alla detenzione, seppur attraverso il vaglio dell’autorità giudiziaria di sorveglianza in riferimento alle singole situazioni processuali. Nei giorni scorsi gli incontri con il Prefetto dr.ssa Maria Carolina Ippolito, il Comandante Prov.le dei Carabinieri Ten.Col. Gabriele Mambor, con la Direzione della Casa Circondariale la d.ssa Caterina Arrotta e tutto il personale in servizio del DAP e della Polizia Penitenziaria. Desidero ringraziare, infine gli organi di stampa e della TV che hanno fatto conoscere all’esterno il mondo carcere, tutti coloro i quali si sono interessati ai detenuti e coloro che silenziosamente ogni giorno partecipano alle loro sofferenze umane e processuali. No al lavoro schiavo, la cultura non si pieghi al dio mercato di Papa Francesco La Stampa, 12 agosto 2021 Gentile Signor Maggiani, ho letto la sua lettera pubblicata il 1° agosto. Con coraggio, senza temere di provare vergogna, ha voluto commentare la notizia che tanti avrebbero taciuto: i suoi libri - e molti altri - sono stampati sfruttando il lavoro schiavizzante di diversi cittadini pakistani. Così ha informato me e i lettori di questo paradosso e ha posto una domanda: “vale la pena produrre la bellezza grazie agli schiavi?”. Sono rimasto colpito dalle sue parole. Lei non pone una domanda oziosa, perché in gioco c’è la dignità delle persone, quella dignità che oggi viene troppo spesso e facilmente calpestata con il “lavoro schiavo”, nel silenzio complice e assordante di molti. Lo avevamo visto durante il lockdown, quando tanti di noi hanno scoperto che dietro il cibo che continuava ad arrivare sulle nostre tavole c’erano centinaia di migliaia di braccianti privi di diritti: invisibili e ultimi - benché primi! - gradini di una filiera che per procurare cibo privava molti del pane di un lavoro degno. La questione che lei pone è forse ancora più stridente: persino la letteratura, pane delle anime, espressione che eleva lo spirito umano, è ferita dalla voracità di uno sfruttamento che agisce nell’ombra, cancellando volti e nomi. Ebbene, credo che pubblicare scritti belli ed edificanti creando ingiustizie sia un fatto di per sé ingiusto. E per un cristiano ogni forma di sfruttamento è peccato. Ora, mi domando, che cosa posso fare io, che cosa possiamo fare noi? Rinunciare alla bellezza sarebbe una ritirata a sua volta ingiusta, un’omissione di bene. La penna, però, o la tastiera del computer, ci offrono un’altra possibilità: quella di denunciare, di scrivere cose anche scomode per scuotere dall’indifferenza, per stimolare le coscienze, inquietandole perché non si lascino anestetizzare dal “non mi interessa, non è affare mio, cosa ci posso fare se il mondo va così?”. Per dare voce a chi non ha voce e levare la voce a favore di chi viene messo a tacere. Amo Dostoevskij non solo per la sua lettura profonda dell’animo umano e per il suo senso religioso, ma perché scelse di raccontare vite povere, “umiliate e offese”. Sono tanti gli umiliati e gli offesi di oggi, ma chi dà a loro voce? Chi li rende protagonisti, mentre soldi e interessi spadroneggiano? La cultura non si lasci soggiogare dal mercato. Lei racconta, come ha scritto, “le storie dei silenti, degli ultimi e degli umili”. Apprezzo questo e pure quello che ha scritto il 1 °agosto, perché non ha calcolato i suoi ritorni di immagine, ma ha messo nero su bianco la voce scomoda della coscienza. Di questo abbiamo bisogno, di una denuncia che non attacchi le persone, ma porti alla luce le manovre oscure che in nome del dio denaro soffocano la dignità dell’essere umano. È importante denunciare i meccanismi di morte, le “strutture di peccato”. Ma denunciare non basta. Siamo chiamati anche al coraggio di rinunciare. Non alla letteratura e alla cultura, ma ad abitudini e vantaggi che, oggi dove tutto è collegato, scopriamo, per i meccanismi perversi dello sfruttamento, danneggiare la dignità di nostri fratelli e sorelle. È un segno potente rinunciare a posizioni e comodità per fare spazio a chi non ha spazio. Dire un no per un sì più grande. Per testimoniare che un’economia diversa, a misura d’uomo, è possibile. Questi sono i pensieri che mi vengono dal cuore. Le sono fraternamente grato per aver attirato la mia attenzione su un grave problema dei nostri giorni, grazie per la sua denuncia costruttiva! E grazie a quanti fanno rinunce buone e obiezione di coscienza per promuovere la dignità umana. Il flop della scuola italiana, 7 studenti su 10 abbandonano prima della laurea di Emanuele Bonini La Stampa, 12 agosto 2021 Complessivamente in tutto il territorio dell’Unione Europea mancano all’appello almeno 2.384.869 i giovani usciti dai percorsi di formazione nel 2020 prima del previsto. Piccoli miglioramenti, qualche progresso, una tendenza generale positiva, ma l’Italia degli studi e degli studenti arranca e i giovani del Belpaese risultano meno competitivi dei colleghi europei perché meno preparati. I numeri sull’istruzione secondaria e terziaria (licei e università) non brillano. Al contrario, vedono un sistema Paese agli ultimi posti per completamento del ciclo formativo. Nel 2020, rilevano i dati Eurostat, il tasso di laureati tricolore è fermo al 28,9%. Meno di tre immatricolati su dieci ce l’ha fatta a fregiarsi del titolo di studio. A voler leggere il dato in altro modo, alla fine di ogni anno accademico in Italia continuano e restare a mani vuote più di sette iscritti su dieci. Solo in Romania le cose vanno peggio (24,9%). Tre le principali economie dell’eurozona l’Italia risulta quelle meno dotata di giovani leve preparate. In Francia si è laureato il 49,4% degli uomini e donne in età da università, in Spagna il 47,4%, in Germania il 35,1%. Se si considera che l’indice medio dell’UE per conseguimento lauree è del 40,5% si vede come gli italiani restino davvero indietro. Non viene specificato il motivo di queste difficoltà. L’istituto di statistica europeo offre i dati grezzi ed è quindi impossibile capire dove sono i corti-circuito, ma resta il campanello d’allarme per un Paese che, in prospettiva, rischia di restare al palo. I giovani italiani risultano meno pronti a un mondo del lavoro sempre più esigente in termini di conoscenze e competenze. I numeri forniti da Eurostat si inquadrano nel più generale sforzo per il raggiungimento l’obiettivo numero 4 dei target di sviluppo del millennio, quello relativo ad un’istruzione di qualità. Oltre alle qualifiche formali, tale obiettivo 4 mira anche ad aumentare il numero di giovani e adulti con competenze rilevanti per l’occupazione, lavori dignitosi e imprenditorialità. L’Italia in tal senso è nella posizione di offrire meno degli altri al tessuto economico-produttivo, nazionale ed europeo. Ma non finisce qui. Perché guardando i numeri degli abbandoni prematuri tra la fascia d’età 18-24, tra chi non finisce il liceo e chi lascia l’università, l’Italia è secondo in termini assoluti per emorragia di studenti. Sono oltre 387mila, tra maschi e femmine, le persone uscite dal percorso di istruzione, più di Spagna (circa 377mila) e Francia (circa 302mila). Solo in Germania si registrano numeri superiori a quelli italiani (circa 465mila). Complessivamente in tutto il territorio dell’UE mancano all’appello almeno 2.384.869 giovani. In così tanti, nel 2020, sono usciti dai percorsi di formazione prima del previsto. È il 9,9% del totale delle persone impegnate sui libri. Non va meglio neppure la voce relativa alla popolazione adulta. Quanti si sono rimessi a studiare in età avanzata, vale a dire oltre la fascia d’età naturale per il conseguimento di una laurea, rappresentano un tasso a “una cifra” per l’Italia. Nel 2020 gli over 25 impegnati in studi erano appena il 7,2%. Numeri non certo d’eccellenza rispetto agli indicatori dei principali competitor (18% nei Paesi Bassi, 13% in Francia, 11% in Spagna). Da notare qui si registra l’impatto della pandemia. Rispetto al 2019 in tutta Europa si è registrato una diminuzione della popolazione adulta impegnata in studi extra-lavorativi (-1,6 punti percentuali nella media UE, scesa al 9,2%). Chiusure e confinamento hanno inciso sull’offerta dei corsi, ma anche prima della crisi sanitaria il tasso dei meno giovani italiani attivi nel mondo dell’istruzione e dell’apprendimento faceva fatica a tenere il passo col resto d’Europa. Anche qui indicazioni su misure da prendere in nome di una maggiore competitività. Ddl Zan, per disincagliarlo ci vorrebbe un intervento tecnico del governo di Paolo Hutter Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2021 La polemica sulla legge Zan si è attorcigliata fino a sembrare testarda o ad annoiare, e proprio per questo, per evitare l’insabbiamento, bisogna tornare ad affrontarla con chiarezza ma anche con creatività. Le ragioni, “tutte politiche” dei partiti e dei gruppi del Senato che ambiscono a intestarsi vittorie o a passarsi il cerino delle sconfitte, sono legittime ma andrebbero tenute in secondo piano. La spregiudicatezza della Lega che dopo aver definito inutile una legge contro contro l’omofobia ora recita la parte di chi ha a cuore che una legge si realizzi è scandalosa, ma non è un motivo sufficiente per scartare un compromesso. Mi riferisco alla “identità di genere”. Questa espressione è stata introdotta nel testo della legge per ragioni validissime e non per fare provocazioni o fughe in avanti. Ma ha suscitato incomprensioni e soprattutto è stata strumentalizzata dagli oppositori della legge. A chi vuole togliere l’identità di genere, come a chi afferma che se la si toglie “allora è meglio nessuna legge”, va posta una questione molto concreta che è al tempo stesso la questione di fondo. Una legge che estenda l’aggravante Mancino ai casi in cui ci sono moventi omofobici o transfobici senza citare esplicitamente l’identità di genere è applicabile efficacemente per difendere i transgender? O viceversa: è plausibile che dopo l’approvazione di una legge che parli di omotransfobia - senza citare l’identità di genere - un giudice decida che l’aggravante non si applica a chi aggredisce un/una transgender, una persona che non ha compiuto un cambiamento di genere, un non binario? E’ questo che vogliono gli oppositori della identità di genere? Vogliono l’aggravante per i gay e i transessuali, ma non per i transgender? Non credo. E allora prima di tornare alle tattiche o allo scontro politico, si vada a una verifica tecnica coi giuristi. E magari si faccia quello che finora era stato escluso, ma escluderlo non ci salva da insabbiamenti e ostruzionismo: si affidi la questione al Governo. Questo ragionamento non deve e non può ignorare che dietro al no alla presenza della espressione ‘identità di genere’ nella legge Zan, dietro a obiezioni che appaiono infondate o pretestuose o strumentali, c’è una questione vera che sarà oggetto di una prossima battaglia civile. Ovvero, l’autodeterminazione della identità di genere e il riconoscimento di identità non binaria. Detto in parole più semplici: il diritto a cambiare da maschio a femmina a neutro o viceversa, senza passare per operazioni chirurgiche o autorizzazioni medico-psicologiche. I conservatori di ogni tipo sono spaventati da questa possibilità che sta prendendo piede nel mondo, perché pensano che stravolgerebbe tutto, mentre in realtà servirebbe solo a far vivere meglio piccole minoranze attualmente oppresse. In ogni caso si tratta di un’altra pagine, un’altra lotta, un’altra legge, ne parliamo domani, o anche oggi. Ma intanto si cerchi il modo di disincagliare la legge contro l’omotransfobia per la quale il paese è maturo, la magistratura anche, la polizia anche ma di cui c’è bisogno perché altrimenti in troppi casi c’è impunità. Migranti. Draghi vuole una cabina di regia e blinda Lamorgese di Ilario Lombardo La Stampa, 12 agosto 2021 La ministra dell’Interno si sente isolata dopo gli attacchi di Salvini. Il premier adesso valuta un messaggio pubblico a suo sostegno. Si sente sotto assedio, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, sottoposta quotidianamente al fuoco delle dichiarazioni di Matteo Salvini su migranti, sbarchi e sicurezza. Ne parla con i collaboratori e lo ha confessato anche a Mario Draghi, che ha raccolto il suo sfogo. Il presidente del Consiglio, da quanto è stato possibile ricostruire, le ha consigliato di lasciar fare, di non curarsene troppo. Per indole e metodo, Draghi concede ai suoi azionisti di governo ampi margini di polemica politica, tanto più quando c’è da difendere i fortini identitari. E per la Lega di Salvini l’immigrazione è il totem con cui ha conquistato il 33 per cento alle elezioni europee di appena due anni fa. È anche vero però che gli attacchi dei leader della maggioranza raramente sfiorano il presidente del Consiglio. Nel caso di Lamorgese invece sono diventati martellanti e diretti esplicitamente verso di lei. Salvini ha reso la questione più personale: una sfida aperta alla ministra, suo successore al Viminale. Il leghista ha scatenato una guerra di numeri su quanti sbarchi, migranti e morti ci sono stati negli ultimi due anni nel Mediterraneo, confrontandoli a quando invece c’era lui a capo del ministero. Lei, per riserbo istituzionale, per la sua storia di prefetto, lontano dalle risse di partito, tace, non replica, se non un minimo, come ha fatto su La Stampa due giorni fa. Ma non riesce a nascondere quel senso di solitudine che ha provato a trasmettere al premier, di tecnico in balia delle mareggiate politiche, rimasta “l’unico bersaglio” della campagna di Salvini. Per questo Draghi sta meditando su come intervenire per raffreddare lo scontro e mostrare il suo sostegno a Lamorgese. Da quanto trapela, non è escluso che possa farlo in occasione del Comitato nazionale ordine e sicurezza pubblica che presiederà a Ferragosto, a Palermo. Quest’anno la ministra ha voluto simbolicamente che si riunisse nel capoluogo della regione più esposta agli ingressi dei migranti. Draghi potrebbe esprimerle fiducia con un messaggio pubblico, per dimostrare che sulle politiche migratorie ogni scelta viene condivisa nel governo e con il premier. Anche perché nella lettera di ieri inviata a questo giornale, Salvini parla di “cronaca di un fallimento annunciato”: un j’accuse che punta a Lamorgese ma che, per toni e argomenti, ha toccato anche Draghi in qualità di responsabile dell’esecutivo. Non è un caso che, nelle ultime ore, tra i partiti della maggioranza sia tornata a circolare con insistenza l’ipotesi di una cabina di regia sull’immigrazione a Palazzo Chigi. Se ne parlò a maggio, alla vigilia del Consiglio europeo, ma non partì. Parteciperebbero tutti i ministri coinvolti dal dossier, secondo un approccio per così dire “multidisciplinare” che affronti l’emergenza dei flussi nel Mediterraneo nella sua complessità facendo sedere allo stesso tavolo il ministero degli Esteri, il sottosegretario agli Affari europei, i ministeri economici e il titolare della Salute. In gioco ci sono gli asset strategici per gli investimenti dell’Eni e la gestione della pandemia: la questione della stabilità del Nord Africa, con la Libia lacerata incapace di darsi democraticamente un governo e la Tunisia in una crisi istituzionale permanente, è troppo importante per lasciare che venga monopolizzata in un duello tra Salvini e la ministra dell’Interno. La cabina di regia sarebbe un segnale di attenzione perché vorrebbe dire spostare su tutto il governo la responsabilità, come auspica Lamorgese. Che nel frattempo si è detta disponibile a incontrare i leader e a ricevere le loro proposte. Il confronto con Salvini, chiesto dal leghista a Draghi in forma allargata, alla presenza del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, dovrebbe avvenire al rientro dalle ferie del premier. Se i tempi coincideranno, potrà essere alla vigilia di una riunione di livello europeo dedicata alla rotta del Mediterraneo che Lamorgese ha sollecitato entro fine agosto alla Slovenia in qualità di presidenza di turno dell’Ue. Sarà l’occasione per stigmatizzare ancora una volta l’assenza di una politica comunitaria sui migranti, come ha ribadito anche nei giorni scorsi Lamorgese alla commissaria Ue Ylva Johansson. Per Draghi, una partita difficile, forse la più difficile perché, visti i precedenti vertici europei, sa già di sconfitta. Enrico Letta e la promessa a Siena: “Ius soli, troveremo gli alleati” di Claudio Bozza Corriere della Sera, 12 agosto 2021 Il segretario del Pd debutta nel collegio toscano nel pieno della tempesta sul Monte dei Paschi: “Vigileremo. Se perdo qui, lascio”. Sulla Rocca medicea di Montepulciano il sole sta tramontando. Ma la colonnina di mercurio segna ancora 38 gradi. È la metafora della campagna elettorale, infuocata, che attende Enrico Letta. E mercoledì è stata la volta della prima iniziativa di peso sul territorio, assieme a David Sassoli, presidente del Parlamento europeo. Sul tavolo, ad acuirelo scontro con Matteo Salvini e la Lega, c’è soprattuttolo ius soli, che il segretario del Partito democratico vuole affrontare a settembre: “Riguarda centinaia di migliaia di ragazzi che sono italiani a tutti gli effetti, ed è veramente un delitto per il nostro paese non dargli la cittadinanza”. “Jacobs? - sottolinea Letta riferendosi alla dichiarazione a Il Foglio in cui il campione olimpico afferma di non essere “interessato” al tema. Ha detto ciò che è libero di dire ma non cambia di una virgola la questione. Jacobs è un cittadino italiano dalla nascita e lo ius soli non ha a che fare con casi come il suo”. Letta si dice ben consapevole della forte complessità di questa vicenda, ma rilancia: “La legge sulla cittadinanza è un grande cambiamento per il nostro Paese e il Pd sarà all’avanguardia e si farà portabandiera di questa battaglia in Parlamento. E lì, sono sicuro, troverà consensi e alleati per renderla effettivamente una legge”. Il leader dem accelera così la sua battaglia per difendere il seggio di Siena, lasciato libero alla Camera dal collega di partito Pier Carlo Padoan, diventato presidente di Unicredit. Che poi è appunto il colosso che si appresta ad assorbire il Monte dei Paschi, la banca più antica del mondo. E che ora, dopo 549 anni di storia, rischia di dissolversi. La base dem, vista la folta partecipazione allo sbarco del segretario sulla vetta di Montepulciano, sembra aver recepito la posta in gioco: “Enrico non mollare, bisogna vincere!”, gli urla più di un sostenitore. Mentre a sera, accolto a una cena di finanziamento, i 300 presenti lo accolgono sulle note di People have the power. Sul territorio è però molto forte la preoccupazione per le ripercussioni sui posti di lavoro che deriveranno dall’annessione del Monte dei Paschi a Unicredit. Secondo la Cgil, solo in Toscana sarebbero a rischio 2.500 posti. Ma su questo l’ex premier mette subito le mani avanti: “Non dobbiamo perdere un posto”, è la promessa ambiziosa. Al Nazareno speravano che l’emergenza Montepaschi si palesasse dopo il voto del 3 e 4 ottobre. Ma davanti a questa accelerazione il segretario del Partito democratico, tramontata l’ipotesi Conte, non si poteva certo tirare indietro. “Se perdo a Siena lascio”, aveva detto il leader dem annunciando la sua candidatura. E ora questo monito lo ripete come un mantra pure in privato, anche per motivare dirigenti e truppe dem sul territorio. Serve una grande mobilitazione, perché questo seggio non è più blindato da tempo. Letta è ben consapevole del profondo valore politico della sfida contro Tommaso Marrocchesi Marzi, imprenditore vitivinicolo, avversario del centrodestra per il quale Matteo Salvini si sta muovendo in forza: batterlo influirebbe non poco nei rapporti di forza al governo. Ma nel Pd, proprio per la variabile Monte dei Paschi, i timori per il rischio di una sconfitta che sarebbe bruciante non sono più sottotraccia. “Mi trovo a fare campagna elettorale, a chiedere il voto, sapendo che facciamo parte di una maggioranza atipica, eccezionale, unica. Per quanto ci riguarda, è la prima e l’unica volta al governo con Salvini”. Se la soluzione Unicredit è la migliore per Mps? “Ho fiducia negli impegni che il ministro dell’Economia Franco si è preso pubblicamente in Parlamento: vigileremo, passo dopo passo”. Quei profughi albanesi diventati avvocati: “L’Italia è casa nostra” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 12 agosto 2021 Pochi giorni fa è stato l’anniversario dell’arrivo nel porto di Bari della nave Vlora. L’8 agosto 1991 il nostro Paese iniziava a fare i conti con un fenomeno travolgente: l’immigrazione dall’Albania e successivamente da altri Paesi del “continente liquido”, come definito dallo storico Fernand Braudel. Le macerie del muro di Berlino erano ancora a terra e l’Italia divenne trent’anni fa l’approdo naturale per tanti albanesi desiderosi di rifarsi una vita altrove e mettersi alle spalle i guasti della dittatura di Enver Hoxa. Per gli albanesi l’Italia era la loro America, ma anche la terra in cui circa cinquecento anni prima i loro antenati, nel Sud, si stanziarono e diedero origine ai primi fenomeni di integrazione fondando alcune comunità arbereshe. Il tutto in nome dell’eroe nazionale Giorgio Castriota Scanderbeg, che si oppose alla conquista dei turchi. Dopo il 1991 tanti altri cittadini albanesi hanno raggiunto l’Italia e si sono affermati come professionisti. È il caso degli avvocati Fabiola Ismaili, Kristina Blushi e Arjol Kondi. “Vivo tra l’Italia e l’Albania da circa vent’anni”, racconta al Dubbio l’avvocata Fabiola Ismaili. “Nel 2006 - dice - ho conseguito l’abilitazione professionale in Albania e attualmente sono in attesa del riconoscimento del titolo abilitativo in Italia”. Nelle parole di Ismaili c’è tanta ammirazione per l’Italia e per chi, nonostante le difficoltà acuite dalla pandemia, continua ad indossare la toga con onore e dignità. “Il mio percorso professionale - afferma - è singolare, poiché esercito in Albania e, avendo fatto la pratica forense anche in Italia, ho una buona conoscenza del vostro diritto. Attualmente mi occupo di diritto societario. Ho fondato in Italia una società di consulenza legale e tributaria a disposizione degli investitori italiani che decidono di andare in Albania”. Ma quanto è difficile svolgere in Italia la professione forense? “È impegnativo”, confessa Ismaili. Però vi è un legame forte tra Italia ed Albania pure in ambito giuridico. I codici albanesi sono stati ispirati integralmente da quelli italiani. Attualmente, però, il diritto e la normativa albanese, nel quadro dell’armonizzazione con il diritto europeo e del processo di preadesione, trovano il loro fondamento nelle direttive e nei regolamenti dell’acquis communautaire”. Nel 2019 è stata creata l’”Associazione avvocati albanesi in Italia”. Un modo per favorire il dialogo ed il confronto tra i colleghi delle due sponde dell’Adriatico. I punti di contatto tra il diritto albanese e quello italiano non sono pochi e l’associazione intende favorire l’organizzazione di webinar ed altre iniziative in Italia e a Tirana. Con la speranza che si riprenda tutto in presenza. Un pensiero Fabiola Ismaili inevitabilmente lo rivolge all’arrivo a Bari della Vlora nel 1991: “I trent’anni sono passati in fretta e noi come comunità albanese in Italia sentiamo il bisogno di un cambio di narrazione. Gli albanesi che vivono qui offrono il loro contributo quotidiano in modo eccellente. Ci sono operai, insegnanti, professori, imprenditori, medici e tantissimi avvocati, che giocano un ruolo decisivo nella gestione delle pratiche che vedono coinvolti i nostri connazionali, considerata l’importanza della intermediazione culturale da non sottovalutare mai”. Un’altra storia di integrazione professionale è quella dell’avvocata Kristina Blushi, in Italia da oltre diciannove anni. Si occupa di diritto dell’emigrazione. “Sono arrivata - commenta - solo con l’intento di studiare, ma poi, anno dopo anno, ho creato le mie radici in Italia, più precisamente a Bari. Qui ho aperto il mio studio legale. L’Albania, come l’Italia, appartiene al sistema del civil law. C’è stata una continua influenza italiana in tutti i settori del diritto albanese, ma non senza differenze. Ad esempio, in Albania non è previsto l’istituto dell’adozione dei maggiorenni. È un problema di non poco conto per gli albanesi maggiorenni adottati in Italia”. Trent’anni fa una svolta che cambiò la storia dell’Albania. “L’ 8 agosto 1991 - evidenzia Kristina Blushi - dopo la caduta del regime comunista, l’arrivo della nave Vlora con a bordo 20mila persone è stato un grido di aiuto che la città di Bari ha accolto grazie alla sensibilità del suo sindaco, Enrico Dalfino (docente di Diritto amministrativo nell’Università Aldo Moro, nda). Un uomo di larghe vedute, che all’epoca è andato quasi controcorrente con coraggio e sacrificio e al quale ogni albanese, giunto con la Vlora o dopo, in altro modo, deve tanto. Queste persone che hanno avuto molto dalla città di Bari e dall’Italia hanno anche restituito. I loro figli hanno studiato in Italia e tanti di loro sono diventati dei rispettabili professionisti pure del diritto”. Il legame dell’avvocato Arjol Kondi con l’Italia risale al 31 agosto 2001. “Mi sono trasferito - ricorda - nel vostro Paese quel giorno. Sono partito dal porto di Valona per arrivare a Brindisi. Volevo studiare in Italia. Dopo un periodo di ambientamento, una volta trovato un lavoro stabile, che mi avrebbe accompagnato per tutta la carriera universitaria e che mi avrebbe permesso di studiare, iniziai a frequentare la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Macerata. Una realtà che mi piacque subito, perché a misura di studente, dove si instaura un ottimo rapporto con i professori”. Da lì Kondi inizia a spostarsi più a Nord. Conseguita la laurea a Macerata, il trasferimento a Bologna e l’esame per diventare avvocato. Subito dopo il definitivo ritorno nelle Marche. “Sono rientrato a Fermo - prosegue Kondi - città dove vivo da anni, e dove esercito la professione, occupandomi di diritto penale, di immigrazione e tutela contro le discriminazioni. Penso che il diritto dell’immigrazione abbia fatto un po’ da collante a tutto il resto. Il diritto albanese non è molto diverso da quello italiano”. Anche secondo Kondi il legame con l’Italia è forte e duraturo. “I professori universitari albanesi - aggiunge - che si sono formati in Italia sono tanti. Da non sottovalutare, inoltre, le diverse riforme, tra le quali quella della procedura penale, che ha una chiara impronta italiana. In quest’ultimo caso uno degli esperti coinvolti è stato il professor Giorgio Spangher. A ciò si aggiunga che l’Albania da diversi anni ormai cerca di armonizzare la sua legislazione con la normativa Ue e questo si riflette sugli aspetti comuni tra il diritto albanese e quello dei Paesi già membri dell’Unione”. Marocco. Rompiamo il silenzio su Ikram Nazih di Luigi Manconi La Repubblica, 12 agosto 2021 La ragazza italiana è in carcere in Marocco. La sua colpa? Aver condiviso su Facebook, nel 2019, una vignetta che ironizzava sul Corano, cancellata poco dopo. Chi è Ikram Nazih e perché si parla così poco di lei? Ikram è una ragazza italiana di 23 anni, reclusa in una cella del carcere di Marrakech, in Marocco. La sua colpa: aver condiviso su Facebook, nel 2019, una vignetta che ironizzava su una sura del Corano, cancellata poco tempo dopo. Un umorismo tanto innocuo da apparire quasi infantile, ma ciò non ha impedito a un’associazione religiosa marocchina di denunciare Ikram per blasfemia. La giovane, nata a Vimercate da genitori marocchini, si è nel frattempo trasferita a Marsiglia per frequentare la facoltà di Giurisprudenza di quella università. Il 20 giugno scorso, recatasi in Marocco per visitare i parenti, viene arrestata, tradotta in carcere e condannata a una pena di tre anni e sei mesi. La fiducia in un possibile provvedimento di grazia, in occasione della Festa del Sacrificio, risulta delusa: centinaia di detenuti vengono liberati, ma non lei. E il fatto di essere titolare di doppia cittadinanza (italiana e marocchina) si rivela, paradossalmente, una complicazione. La Convenzione dell’Aja del 1930 prevede che, in caso di doppio passaporto, uno Stato non possa attivare la protezione diplomatica contro l’altro Stato. Pertanto, si deve procedere esclusivamente per via negoziale. E speriamo che così si stia facendo e che il silenzio pressoché totale intorno alla sorte di Ikram sia dovuto a un intenso lavorio diplomatico e politico, che richiede, comprensibilmente, la massima riservatezza. Anche se vicende ancora più atroci (quale l’assassinio di Luca Ventre per mano di un poliziotto uruguaiano all’interno dell’Ambasciata italiana di Montevideo, il 1 gennaio del 2021) rivelano come la Farnesina non sia sempre particolarmente sollecita nel tutelare gli italiani all’estero. Ma la storia di Ikram ci parla anche di altro, di molto altro. La ragazza appartiene a quella popolazione di 2 milioni e 700 mila musulmani residenti nel nostro Paese, tra italiani convertiti (circa 70 mila), stranieri naturalizzati e stranieri regolari. In particolare, si stima in circa 800 mila il numero dei giovani (fino ai 25 anni) che, in grandissima parte, presentano un livello assai avanzato di integrazione (il termine è quello che è, ma non se ne conoscono di migliori) e di inclusione nel sistema dei diritti di cittadinanza. Frequentano le nostre scuole e le nostre università, manifestano stili di vita e preferenze nei costumi e nei consumi in tutto simili a quelli dei loro coetanei autoctoni, flirtano con i correligionari non più spesso di quanto facciano i veneti e i sardi con i corregionali. Infine, un significativo dato politico: sono alcune dozzine (in prevalenza donne) gli eletti nei consigli comunali. Detto ciò, non tutto fila liscio. Si può intravedere, all’interno di quella popolazione di musulmani, una sorta di “lotta di classe” su base generazionale, che ha per posta in gioco la piena emancipazione dal pesante retaggio che grava tuttora sull’Islam italiano a causa delle persistenti interpretazioni fondamentaliste e integraliste del Corano. Lo si era notato già nel caso della ragazza pachistana, Saman Abbas, presumibilmente uccisa dai familiari per essersi sottratta a un matrimonio forzato. E lo si scorge ora, appunto, nella reticenza e, in qualche caso, nella connivenza che circonda la condanna di Ikram. Davide Piccardo, italiano convertito e leader di una componente dell’associazionismo islamico, ha definito “scriteriata” l’italo-marocchina e, pur chiedendo che le venga concessa la grazia, si è augurato che “faccia tawba”: si penta, cioè. Sembra configurarsi un caso di “doppia lealtà”: il formale rispetto per lo Stato italiano e le sue leggi e una qualche sensibilità per il destino di Ikram, ma, assai più forte, il vincolo di sudditanza verso la superiorità etica della legge coranica. È una posizione inaccettabile, fondata su una concezione teocratica dell’ordinamento giuridico. E tale concezione sembra confermare l’ambiguità di quella diffusa opinione che considera l’assassinio di Saman un ennesimo femminicidio; e afferma che “l’Islam non c’entra”. Un grave errore. È vero, piuttosto, che nella decisione di sopprimere Saman è stato determinante l’incontro tra una cultura patriarcale dai tratti arcaici e tribali e una interpretazione regressiva e oscurantista dell’Islam. Ed è proprio quest’ultima che fa della religione non una libera professione di fede e di rapporto con la trascendenza, bensì un apparato autoritario e oppressivo. È contro tutto questo, rappresentato in genere dalle fasce più anziane (provenienti in particolare da Paesi come il Pakistan), ma presente anche in settori di giovani, che è in corso quella particolare “lotta di classe”. Dobbiamo seguire questo doloroso processo con attenzione e rispetto e favorire il percorso di costruzione, a opera di centinaia di migliaia di giovani, di un Islam italiano capace di convivere con lo Stato di diritto, senza mai metterne in discussione alcun principio o regola. Le istituzioni e la politica possono fare molto. Riconoscere lo “Ius soli sportivo”, come richiesto dal presidente del Coni Giovanni Malagò, dovrebbe essere giusto una formalità, e solo lo sciovinismo più autolesionista e il caldo più torrido possono indurre a considerarlo un atto sovversivo. Al tempo stesso, la riforma della legge sulla cittadinanza, risalente a quando gli stranieri in Italia erano appena mezzo milione, non è solo un’urgenza giuridica e, direi, morale: è una questione di elementare buon senso. Svolta in Sudan, Al-Bashir davanti ai giudici dell’Aja di Raffaella Scuderi La Repubblica, 12 agosto 2021 Khartoum ha deciso di estradare all’Aia alcuni suoi ex leader, incluso l’ex presidente. La Corte che lui ha sfidato lo giudicherà all’Aja per crimini di guerra e genocidio in Darfur. Dopo 12 anni dal primo mandato di cattura, l’ex presidente sudanese Omar al-Sharif Bashir dovrà comparire davanti al tribunale della Corte penale internazionale. L’annuncio del via libera all’estradizione è stato dato ieri dalla ministra degli Esteri, Mariam al-Mahdi, figlia dell’ex presidente al-Mahdi, deposto da Bashir nel 1989 con un colpo di Stato. Unico presidente a essere stato inseguito da un mandato di cattura della Cpi mentre era in carica, il tiranno è stato responsabile della morte di 300 mila persone, la maggior parte membri delle tre etnie: Fur, Zaghawa e Masalit. Alla Cpi, che da due mesi ha un nuovo procuratore, il britannico Karim Khan, saranno consegnati anche un ex governatore e un ex ministro della Difesa. L’autocrate e tiranno per 30 anni - ospite di Bin Laden, rovesciato da una rivolta popolare nel 2019 provocata dall’aumento del pane - ora è in un carcere sudanese, accusato di corruzione e riciclaggio. Una volta destituito, è emerso il tesoro nascosto in una delle sue case nella capitale Khartoum: 115 milioni di euro e un conto di 4 miliardi di dollari. La decisione di consegnare l’ex dittatore è stata sbloccata dall’approvazione del disegno di legge del 4 agosto, che ha aperto la strada all’adesione del Paese alla Cpi. Passo significativo in relazione agli impegni presi con la comunità internazionale, conseguenza dell’eliminazione delle sanzioni imposte dagli Usa e revocate dall’ex presidente Donald Trump prima della fine del suo mandato. I fatti contestati a Bashir risalgono al 2003, quando nella regione occidentale del Darfur un gruppo ribelle, espressione della comunità etnica locale nilotica storicamente emarginata, lanciò una sommossa che fu repressa nel sangue. La regione subì bombardamenti aerei e furono distrutte le condutture dell’acqua potabile, mentre sul terreno agirono i cosiddetti janjaweed, un gruppo paramilitare armato da Bashir. Fame e stupro furono le armi di guerra di Khartoum e delle sue milizie. Oltre alle 300mila vittime, sono stati 3 milioni gli sfollati. Gli altri due funzionari del regime che saranno consegnati alla Cpi sono l’ex governatore dello stato del Sud Kordofan, Ahmed Haroun, e l’ex ministro della Difesa, Abdel Rahim Mohamed Hussein, anche loro attualmente in un carcere del Sudan. Il legale dell’ex dittatore, Hashem Abu Bakr al-Jaali, ha detto alla Cnn che la decisione del governo “rivela una cospirazione. Sarà un disastro per il Sudan”. La ministra degli Esteri sudanese ha sottolineato l’importanza della cooperazione del suo Paese con la Cpi “per ottenere giustizia per le vittime della guerra del Darfur”, ma non ha specificato la data dell’estradizione dei tre ex leader, che andrà discussa tra il governo e il consiglio sovrano. Afghanistan. Talebani inarrestabili, l’intelligence Usa: “Kabul può cadere in 90 giorni” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 12 agosto 2021 La capitale afghana invasa da migliaia di profughi. Biden ribadisce: “Il Paese deve difendersi da solo”. Kabul potrebbe venire accerchiata dalle colonne armate talebane tra un mese ed entro 90 giorni rischia di essere conquistata. Le rivelazioni del Washington Post, che cita “alte fonti dell’intelligence militare americana”, rimbalzano nella capitale afghana alimentando il panico. “Qui siamo invasi da migliaia di profughi in fuga dalle provincie del Nordovest, già tutte sotto il controllo talebano o minacciate da vicino dalla guerra. Sono per lo più donne, bambini, anziani: si accampano per le strade, nei parchi, nello stadio, di fronte agli ospedali. Non si trovano posti sui voli in partenza. Chi può e ha il visto scappa all’estero. Sui social, che ora anche i talebani usano molto bene per terrorizzare la popolazione, rimbalzano storie di fucilazioni di massa, e torture ai danni di militari, poliziotti e funzionari del governo. I talebani avrebbero promesso in spose le afghane quindicenni ai volontari che vengono dal Pakistan e dai Paesi islamici per combattere al loro fianco”, ci racconta un giornalista locale che non vuole essere identificato. Non è del resto nuova la predizione dell’intelligence Usa. Già a fine giugno i comandi americani e i maggiori osservatori internazionali esprimevano seri dubbi sulla capacità di tenuta da parte delle forze di sicurezza, compresi i circa 350 mila soldati armati e addestrati per oltre un quindicennio dalla coalizione internazionale con costi astronomici. “Potrebbero collassare entro sei mesi”, sostenevano. La valutazione più diffusa al momento è dunque che, a meno di interventi militari dall’estero, Kabul potrebbe davvero venire presa dai talebani già ben prima della fine dell’anno. Joe Biden ripete che tocca adesso agli afghani, al governo di Ashraf Ghani e tutte quelle forze locali che tradizionalmente sono nemiche del movimento talebano, di prendere in mano il loro destino e combattere. L’aviazione americana sta intensificando i raid in sostegno all’esercito regolare, ma pare che i risultati siano limitati e che invece causino per errore morti e feriti tra i civili. In poche parole: capiti quello che capiti, gli americani a questo punto lasciano l’Afghanistan alla sua sorte. Nei dialoghi di pace a Doha chiedono ai talebani di cessare i combattimenti, quelli replicano esigendo la liberazione di 7.000 loro prigionieri nelle mani di Kabul e intanto approfittano del momento favorevole. I risultati sono ormai sotto gli occhi di tutti: l’avanzata talebana appare inarrestabile. Ormai controllano tutti i maggiori punti di frontiera dall’Iran all’Uzbekistan e il Pakistan. In meno di una settimana hanno conquistato una decina di capoluoghi di provincia, tra cui l’importante nodo commerciale di Kunduz. Nelle ultime ore è caduta anche Farah, dove sino a pochi anni fa operava il contingente italiano. Herat è circondata e così anche Kandahar e Lashkar Gah. I talebani mostrano di avere una strategia molto coerente e lanciano appelli alla popolazione affinché resti nelle case. “Non credete alle dicerie sulle nostre crudeltà fatte circolare dai corrotti del governo e dai loro alleati miscredenti”, scrivono sui social. Evitano di attaccare gli ultimi residui della forza americana sul campo, destinata comunque ad evacuare entro il 31 agosto, lasciando unicamente 650 marines in difesa dell’ambasciata a Kabul. I talebani sono nel Badakshan, stanno posizionandosi per prendere il corridoio del Vakhan e ciò allarma la Cina, visto che l’area confina con la sua provincia musulmana. Intanto Ghani vola nella città assediata di Mazar-i-Sharif per spronare a combattere vecchi signori della guerra come l’uzbeko Abdul Rashid Dostum, che nel 2001 venne accusato di “crimini di guerra” per aver lasciato morire di sete centinaia di talebani chiusi in container al sole. Un altro possibile alleato potrebbe essere il tagiko Atta Mohammad Noor. A Herat guida la resistenza hazara il 75enne Ismail Khan, ex eroe della lotta anti-sovietica. Ma tutto ciò ha un prezzo. Ghani dimostra di non avere alcuna fiducia nel nuovo esercito e ricorre alla vecchia logica corrotta e clientelare del rapporto diretto con i clan etnici e tribali. La stessa che ha portato al collasso del Paese. L’Europa teme un’ondata di profughi dall’Afghanistan di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 12 agosto 2021 I Paesi europei sulla rotta balcanica hanno paura che, se si apre la porta a qualcuno, il flusso di immigrazione non voluta sarà incontenibile. L’Afghanistan è al collasso, e l’Europa teme un’ondata di profughi come quella provocata dalla crisi siriana. Anche Mario Draghi in giugno aveva chiesto che l’Unione si preparasse a contenere un flusso d’immigrazione illegale. Ma il Vecchio continente appare impreparato all’eventualità e c’è persino chi vuole convincersi che il Paese asiatico sia sicuro, e che i migranti in arrivo siano mossi solo da motivazioni economiche: è il caso dei membri Ue che stanno sulla rotta dei Balcani, quella finora adoperata dai primi afgani arrivati nell’Unione. Germania, Belgio, Olanda, Danimarca, Austria e Grecia (e per ora non si sono schierati i governi sovranisti di Visegrad) temono che, se si apre la porta a qualcuno, il flusso di immigrazione non voluta sarà incontenibile. E nei giorni scorsi hanno chiesto alla Commissione europea che non fermi i rimpatri forzosi di chi ha chiesto e non ha ottenuto l’asilo politico. “La situazione in Afghanistan è delicata”, argomentavano, “ma è importante rimpatriare chi non ha reali esigenze di protezione”. Il momento però non poteva essere peggiore, con i talebani in rapida avanzata e il governo di Kabul vicino al crollo finale. Tanto più se al momento è da escludere, come sottolinea la Commissione, uno scenario come quello del 2015, con la fuga dalla Siria di 1,3 milioni di persone. La lettera ha suscitato un coro di indignazione generale, con una presa di posizione molto dura da parte di Ong e organismi umanitari, e ieri alla fine Germania e Olanda hanno deciso di sospendere i rimpatri, sia pure di malavoglia, tanto che il responsabile tedesco degli Interni Horst Seehofer ha annunciato che la misura riprenderà “non appena la situazione lo renderà possibile”. Fra le reazioni alla lettera, quelle di Amnesty International e altre 25 organizzazioni non governative, che hanno rivolto un richiamo prima di tutto al governo tedesco: “La Germania non può chiudere gli occhi davanti alla situazione dell’Afghanistan in continuo peggioramento”, dice una dichiarazione congiunta firmata tra gli altri da Pro Asyl, Pane per il mondo, Misereor e Medico International. Secondo le Ong, “ogni respingimento in Afghanistan è una violazione del diritto internazionale”. Severo anche il giudizio di Catherine Woollard, direttrice del Consiglio europeo su Rifugiati ed esiliati, che denuncia la strategia europea “basata solo sull’idea di impedire di arrivare ai richiedenti asilo, attraverso accordi con Paesi poco democratici”. L’allusione è alla Turchia, che secondo il ministro belga Sammy Mahdi avrebbe potuto incaricarsi di fermare i migranti afgani così come fa per i siriani. Una bastonata è arrivata persino dal ministro degli Esteri lussemburghese, Jean Asselborn: “Di fronte all’iniziativa del ministro tedesco dell’Interno Horst Seehofer e dei colleghi Ue, non ho fatto altro che scuotere la testa”, ha detto Asselborn. Alla lettera dei sei la Commissione Ue aveva risposto chiarendo che oggi è da escludere un’ondata massiccia di profughi e invitando i membri a impegnarsi per evitare una dramma umanitario. Il conflitto rischia di spingere mezzo milione di persone nei Paesi vicini, dicono a Bruxelles, ma “siamo lontani da una crisi migratoria”. Secondo i dati della Commissione, “gli ingressi irregolari di cittadini afgani nell’Ue sono a un livello molto basso, circa 4.000 dall’inizio dell’anno, cioè il 25 per cento in meno rispetto al 2020 per lo stesso periodo”. La maggior parte dei rimpatri è su base volontaria. “Nel 2021, su 1.200 ritorni in Afghanistan, 1.000 sono stati volontari e 200 forzati”, dice la Commissione. Lo sforzo maggiore dell’Europa potrebbe essere indirizzato ad aiuti per Iran e Pakistan, meta di un afflusso di migranti più robusto. L’Iran ospita 3 milioni di afgani e ha lasciato aperte le frontiere. Il Pakistan ospita già 3,5 milioni di afgani e ha chiuso i confini, richiedendo un passaporto e un visto per entrare. Al momento Islamabad ha già circa un milione e mezzo di rifugiati sotto tutela Onu, con altri diecimila che chiedono asilo. L’Iran ne conta 780 mila, in Europa la Germania ne ospita 148 mila (con 33 mila che chiedono asilo), l’Austria 40 mila e poi Francia, Svezia, Grecia e Svizzera. L’Italia, secondo l’Onu, ne ha poco più di 12 mila, e 1300 chiedono asilo. A fine luglio la Guardia costiera turca ha intercettato una barca diretta in Italia con 208 afgani a bordo, ma in termini numerici l’Afghanistan conta appena il 3 per cento dell’immigrazione nel nostro Paese.